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he di cronac
Qualunque cosa tu possa fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere e magia Johann Wolfgang Goethe
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 5 LUGLIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Le misure decise dall’esecutivo sempre più al centro dello scontro politico sul futuro del Paese
«Così l’Italia non si salva»
L’allarme di centoeconomisti e imprenditori riuniti dal Terzo polo A partire da Mario Monti, una sola tesi: senza crescita non si riuscirà neanche a frenare il debito. La manovra al Colle con due sorprese: tagli all’energia e norma salva-premier sulla Mondadori Due nodi cruciali per il Paese
La sinistra paralizzata tra No-Tav e No-rifiuti Incertezze, ipocrisie, accuse incrociate: una volta di più la gauche italiana è ambigua di fronte ai temi della modernizzazione. Maroni sulla Val di Susa: «Si è trattato di tentato omicidio» Giancristiano Desiderio • pagina 6
L’ACCUSA
L’ANALISI
La strada giusta è stata indicata da Draghi. Ma il governo è paralizzato
L’Unione (incompiuta) sta perdendo un’occasione d’oro
di Nicola Rossi
di Ulrich Beck
on era ragionevolmente pensabile che una maggioranza da mesi divisa ed incerta ed un governo da mesi in bilico trovassero, improvvisamente, la volontà e la forza per tenere fede, da subito, agli impegni assunti in sede europea. Non era ragionevolmente pensabile poi che Tremonti rinunciasse al principio di una manovra economica capace di garantire il pareggio di bilancio nel 2014. Ergo, non ci si meravigli se nella manovra approvata convivono rigore e lassismo. a pagina 4
l processo di unificazione europea dopo la seconda guerra mondiale aveva una motivazione chiara: “Mai più”. L’obiettivo era semplice: trasformare i nemici in vicini di casa. Ora che questo miracolo si è compiuto, la ricerca della pace non sembra più in grado di mobilitare i popoli europei. Non c’è dubbio: l’Europa ha un disperato bisogno di nuove motivazioni. Ecco tre proposte per il futuro: la prima è che c’è un bisogno impellente di nuove fondamenta per l’Unione. a pagina 5
Il presidente della Bocconi Mario Monti
Parla Mario Baldassarri
«Con questi numeri, in 5 anni i pensionati faranno la fame» «Una manovra irresponsabile che non tiene conto del fattore sociale: se il governo non cambia rotta, la previdenza esploderà» Francesco Lo Dico • pagina 3
N
I
Rientrata in Italia la salma del caporalmaggiore Tuccillo. Oggi i funerali
Un seminario contro il qualunquismo
Kabul non fa dormire Obama
Si può tornare a credere nella politica?
Le spese di guerra degli Usa oscillano fra i 3,2 e i 4,4 triliardi di Antonio Picasso
L’Afghanistan non è ancora in pace
l ritorno a casa di uno dei nostri ragazzi, in un feretro e avvolto nel Tricolore, riapre puntuale il dibattito sui costi della guerra in Afghanistan. Costi economici e non solo di vite umane. In Italia, Bossi ne parla da settimane, ancora prima della morte del caporalmaggiore Tuccillo. La polemica del leader della Lega, tuttavia, va inserita nelle manovre della politica. a pagina 10
Il ritiro è iniziato, ma si muore ancora
I
di Mario Arpino ncora una volta la malasorte è toccata a un soldato italiano, il caporale Tuccillo, il cui automezzo pesante è esploso. Siamo ormai a luglio 2011, mese in cui dovrebbe iniziare il lento rientro dell’Isaf, ma i talebani continuano a uccidere.
A
Il rientro della salma di Gaetano Tuccillo
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
a pagina 10
128 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Paola Binetti incertezza è la sensazione che affiora con maggiore intensità quando si parla di politica: sia con gli addetti ai lavori che con persone che a nessun titolo ne fanLargo no, e probabilmente non ne faranno mai, ai giovani una professione. C’è e democrazia l’incertezza dell’intelinterna ligenza che non riesce a cogliere lo snodo unitario dei processi a cui assiste e c’è l’incertezza della volontà, che non sa da che parte stare. a pagina 8
L’
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Il testo approda con ritardo al Quirinale, e spuntano le norme “salva aziende” del premier e la stangata sulle fonti alternative
Cambiate la manovra!
Cento economisti riuniti dal Terzo polo rispondono al Superministro: ecco come si salva l’Italia (senza lodo Mondadori e tagli alle rinnovabili) di Franco Insardà
ROMA. Il testo è arrivato ieri mattina per la firma al Quirinale e le polemiche, invece, di diminuire sono aumentate. Così come le brutte sorprese.Trentanove articoli e due allegati per la manovra economica 2011-2014, approvata dal governo giovedì scorso, che lasciano perplessi, soprattutto perché non ci sono elementi concreti che puntano sulle riforme per la crescita del Paese. Così, mentre si viene confermata la stretta sulle pensioni scoppia la questione sulle rinnovabili e fa capolino un comma, subito ribattezzato “ad aziendam”, che potrebbe bloccare la sentenza di condanna per la Fininvest di 750 milioni di euro per il lodo Mondadori, il Terzo Polo ha riunito ieri a Roma, un centinaio tra esponenti del mondo politico ed economico per confrontarsi sulle “priorità per la crescita dell’economia”.
Il leader dell’Api, Francesco Rutelli, introducendo i lavori ha detto chiaramente che «se i saldi della manovra, proiettati al termine del 2014, appaiono coerenti con gli impegni europei, non si può dire che la manovra garantisca l’obiettivo. Le probabilità di turbolenze politiche nella maggioranza e le ambiguità tra le opposizioni di sinistra non danno garanzie certe per una stagione che prevede elezioni politiche alla vigilia dell’entrata in vigore di quasi il 90 per cen-
to delle misure indicate. Si può - ha continuato Rutelli - invece dire che si tratta dell’ennesima manovra che elude le esigenze di riforme pro-crescita e di radicale riorganizzazione della spesa pubblica, incluso lo squilibrio nocivo tra i tagli per gli investimenti e quelli per le spese correnti. Abbiamo un problema di equilibrio dei conti e crescita economica, che sono la stessa cosa. Se manteniamo solo il saldo e non mettiamo condizioni per la crescita, l’Italia perde un’occasione per affrontare i problemi sociali che sono molto grandi. Oggi non possiamo più fare svalutazione, dobbiamo dimezzare il debito, quindi o mettiamo l’accento sulla crescita, con riforme coraggiose, o l’Italia rischia di avvitarsi su se stessa».
Concetto ribadito da Mario Monti che, in collegamento telefonico, si è soffermato sulla necessità di puntare sulla crescita per contenere il debito. All’incontro, oltre al leader di Api, erano presenti, tra gli altri,Gianfranco Fini, Lorenzo Cesa, Rocco Buttiglione, Linda Lanzillotta, Benedetto Della Vedova, Ferdinando Adornato, Gianluca Galletti, Mario Baldassarri, Bruno Tabacci, Franco Bassanini, Nicola Rossi e Luigi Angeletti. Alla riunione era presente anche il deputato del Pdl Santo Versace che, come ha spiegato Francesco Rutel-
li, «dopo aver saputo del nostro meeting ha chiesto di intervenire». Con loro si sono confrontati economisti, rappresentanti del mondo imprenditoriale e delle associazioni di categoria e delle professioni per discutere e individuare soluzioni per la crescita economica. Rutelli ha proposto «una stagione di larghe convergenze politiche per realizzare le difficili riforme che sono necessarie. E
ci rendiamo disponibili in Parlamento a contribuire a definirle e a votarle. Il dialogo di oggi nasce dalla coscienza del dovere di una riconciliazione e ricostruzione del Paese, da organizzare in funzione della crescita economica, della competitività e della coesione nazionale. Non pensiamo di metterci di traverso, non lo faremo, proporremo misure per la crescita. Noi siamo critici ma vogliamo riempire di proposta politica la
nostra posizione perché la nostra situazione è grave». Per il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, si tratta di una manovra «iniqua e irresponsabile con ulteriori tagli per gli enti locali che metteranno una pietra tombale sui servizi per i cittadini e sulla stessa applicazione del federalismo».
Intanto sulla manovra è scoppiato il “caso rinnovabili”, legata al taglio del 30 per cento per tutti gli incentivi che pesano sulla bolletta elettrica degli italiani, compresi quelli per le energie rinnovabili, che sarebbero stati inseriti dal ministro Giulio Tremonti, approvati dal governo e previsti dall’articolo 35 comma 10. Si tratta di un vero e proprio giallo e mentre le associazioni ambientaliste chiedono al governo di «chiarire subito quali sono gli obiettivi dei tagli», il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, con una nota, ha fatto sapere: «Non mi risulta che nel testo della manovra inviato al Quirinale sia stata reintrodotta la norma che prevede il taglio del 30 per cento di incentivi e agevolazioni relative alle forniture di energia elettrica». Anche il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, con un comunicato ufficiale, ha affermato che nel testo definitivo della manovra, inviato al Quirinale «non c’è alcun taglio degli incen-
prima pagina
5 luglio 2011 • pagina 3
l’intervista Il presidente della commissione Finanze del Senato commenta i tagli di Tremonti
«I pensionati saranno alla fame entro cinque anni»
Parla Mario Baldassarri: «Con una manovra del tutto incapace di rilanciare lo sviluppo, i sacrifici, oltreché dannosi, saranno inutili» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Se i numeri sono questi, non c’è altro esito possibile: anche il resto dei pensionati italiani che non sono ancora stati ridotti alla fame, entro cinque anni verseranno in misere condizioni. La verità che il governo non dice è che il loro potere d’acquisto si ridurrà del cinquanta per cento». Presidente della commissione Finanze al Senato, Mario Baldassarri scuote il capo mostrandosi molto rammaricato per l’ennesima falcidie di questo governo che sembra navigare a vista, e usare l’accetta come la panacea per tutti i mali. Nel mirino ci sono stavolta le pensioni, per le quali è previsto il blocco della rivalutazione per quanto riguarda i trattamenti pensionistici superiori a cinque volte il reddito minimo. Un’operazione che consentirà un risparmio di circa 4 miliardi e mezzo, considerato l’indice di rivalutazione stimato dal governo nell’1,5 per cento. E che, visto l’attuale andamento dei prezzi potrebbe portare nelle casse dello Stato anche sei miliardi di euro, tutti sottratti dalle tasche dei pensionati, deprivati di un’enorme fetta di potere d’acquisto dopo aver lavorato una vita e pagato regolarmente i contributi. «Un’ingiustizia», dice il senatore di Fli. Che prima di entrare nel merito delle pensioni, tiene a precisare che «sono il correlativo oggettivo di un mistero intollerabile, e ormai abituale per questa legislatura che gioca a carte coperte». Dica pure, senatore. Sulle pensioni, questo esecutivo conferma la propria condotta opaca. Non si è ancora capito perché i numeri, come quelli della manovra, debbano saltare fuori soltanto da bozze, indiscrezioni e chiacchericci, e perché il presidente Napolitano non sia stato ancora messo a conoscenza di come il governo intende affrontare il debito pubblico. Dove si prendono questi 46 miliardi di euro? Non è dato sapere. E anche sulla questione pensioni, si brancola nel buio, o quasi. Che cosa ci aspetta? I blocchi della rivalutazione pensionistica che sembrano esser stati messi in cantiere, sono la riprova che non solo si continua a non sostenere la crescita e a lasciare morire lo sviluppo, ma si priva anche chi ha lavorato per trenta-
cinque o quarant’anni di quanto si è regolarmente garantito con i contributi.Taglieggiare le pensioni con una manovra come quella finita in Consiglio dei ministri la scorsa settimana, significa rendere ancora più gravi questi tagli.Visto che l’aumento delle entrate previsto rischia di andare a intervenire per un terzo sul deficit e per due terzi possa finanziare la spesa corrente, bisogna immaginare che ci sarà una crescita economica pressoché vicina allo zero. E che dunque, i sacrifici delle pensioni, oltreché dimostrarsi dannosi, risultino anche inutili. È come un cane che si morde la coda. Dal blocco delle rivalutazioni, Tremonti conta di recuperare 4,5 miliardi. Ottimo a livello matematico, ma che succede alla
Cose del genere non sono successe neppure negli anni più foschi dell’Unione Sovietica. Come si fa a rubare, dalle tasche degli ex lavoratori, denari che gli sono dovuti?» vita reale dei pensionati? Ai tempi della riforma di Lamberto Dini, si stabilì nel ’95 che l’aumento dell’età pensionabile venisse messo in correlazione con l’aumento dell’aspettativa di vita. Il patto era che i
redditi da pensione dovessero essere sganciati dall’andamento dei salari, e che come contropartita, essi venissero protetti mettendoli in correlazione con il potere d’acquisto. Con questo tipo di tagli la vita reale dei pensionati aggiunge pasticcio a pasticcio. Ci spieghi. Tempo fa proposi di salvaguardare davvero il pensionato, mettendo in correlazione il suo potere d’acquisto a ciò che il pensionato acquista davvero per far fronte alle sue vere priorità. Quanto può importare, a un uomo sopra i 65 anni, che il prezzo di un telefonino cala di botto? O che una t shirt o una scarpa da tennis possano vendersi a prezzi stracciati? Pensioni più giuste devono riferirsi al costo della vita dei pensionati, le cui spese principali riguardano generi alimentari, bollette, medicinali e assistenza sanitaria. Capisce che cosa significa in concreto bloccare le indicizzazioni? Ho la sensazione che stia per spiegarmelo. Se voci come farmaci, alimentari, bollette e assistenza sanitaria aumentano del dieci per cento, e l’inflazione aumenta del due per cento, nel giro di cinque anni il pensionato verrò ridotto a metà il suo potere d’acquisto. Chi guadagna mille euro, ne avrà in realtà cinquecento. Migliaia e migliaia di persone faranno il doppio della fatica per sopravvivere, dopo aver pagato contributi per trentacinque anni. Non è singolare che questo tipo di manovra sulle pensioni, sia stata fatta da un governo che si proclama liberale e riformista? E che molti esponenti di questa maggioranza, linciarono ad esempio Prodi quando attuò misure in qualche maniera accostabili? Per l’appunto. Il contributo alla redistribuzione è stato già dato dai pensionati nel corso della vita lavorativa. Imporre loro ulteriori oboli di questa portata è una mossa che ha dell’incredibile. Cose del genere non sono successe neppure negli anni più foschi dell’Unione Sovietica.
tivi per le energie rinnovabili. Il Consiglio dei ministri ha convenuto sull’eliminazione della riduzione del 30 per cento di tutte le agevolazioni e incentivi che oggi gravano sugli oneri di sistema presenti sulle forniture di energia elettrica e gas». Alla fine dell’articolo 37 della manovra c’è una norma che, modificando l’articolo 373 del codice di procedura civile, obbliga il giudice, mentre fino a oggi era prevista solo la facoltà, a sospendere il pagamento della sanzione nel caso di maxi condanne civili in primo grado e in appello, in entrambi i casi fino al grado di giudizio successivo, norma di cui potrebbe beneficiare il gruppo Fininvest, condannato al pagamento di 750 milioni di euro nel processo sul Lodo Mondadori.
Nel decreto viene confermato il blocco delle rivalutazioni “dei trattamenti pensionistici superiore a cinque volte il trattamento minimo di pensione Inps”.“Per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici comprese tra tre e cinque volte il predetto trattamento minimo Inps, l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni è applicato nella misura del 45 per cento”. Per le donne nel settore privato, si parte dal 2020 con un mese in più oltre i 60 anni per arrivare al 2032 con l’ultimo scaglione. Fissato al 2014 l’avvio per tutti della misura che aggancia l’età pensionabile alla speranza di vita. Dal 2012 le elezioni Amministrative e quelle Politiche si svolgeranno “in un’unica data nell’arco dell’anno”. Ci sarà un nuovo taglio del 10 per cento del finanziamento pubblico ai partiti, che si cumula con i precedenti per un totale del 30 per cento. Gli aerei blu solo per le 5 alte cariche dello Stato. Le “eccezioni” devono essere “specificamente autorizzate, soprattutto con riferimento agli impegni internazionali e rese pubbliche sul sito della presidenza del Consiglio dei ministri, salvi i casi di segreto per ragioni di Stato”. La cilindrata delle auto di servizio non potrà superare i 1600 cc, tranne quelle in dotazione al Capo dello Stato ai presidenti del Senato, della Camera e della Corte Costituzionale, al Presidente del Consiglio e le auto blindate adibite ai servizi istituzionali di pubblica sicurezza. A proposito di auto è stato previsto il superbollo per le auto di lusso da 10 euro per ogni kw di potenza oltre i 225. Saranno ridotte le spese per Camera, Senato, Corte Costituzionale, e le authority. Ci sarà il blocco alle assunzioni “in sostituzione del personale in quiescenza” nel settore pubblico e il congelamento degli aumenti salariali futuri ai dipendenti pubblici. Sarà prorogata anche per il 2012 della riduzione di tasse e contributi per il cosiddetto salario di produttività, sulla base di quanto definito da accordi o contratti aziendali. La tassa salirà fino a 380 euro la tassa sui depositi e titoli, mentre arriva un aumento delle aliquote Irap per banche e assicurazioni. Ci affida al Superenalotto europeo che dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa 1,4 miliardi in tre anni e viene introdotto un “Bingo a distanza”con un prelievo al 10 per cento. Si faranno bandi di gara per slot, scommesse e poker live e una stretta sul gioco illegale. Così mentre il Paese chiede riforme la manovra punta su norme “ad aziendam” e sullo Stato biscazziere.
pagina 4 • 5 luglio 2011
l’approfondimento
Va recuperata immediatamente l’agenda del Governatore, che prevede che lo Stato faccia il proprio mestiere senza crisi di identità
Gli anti-Draghi
Il numero uno della Bce ha indicato la strada giusta: al primo punto, ci deve essere la ripresa della crescita. Invece nella manovra c’è tutto e niente: dai vecchi ticket sanitari ai nuovi metodi di calcolare le aliquote fiscali di Nicola Rossi on era ragionevolmente pensabile che una maggioranza da mesi divisa ed incerta ed un governo da mesi in bilico trovassero, improvvisamente, la volontà e la forza per tenere fede, da subito, agli impegni assunti in sede europea. Non era pensabile ragionevolmente che, per altro verso, il ministro dell’Economia rinunciasse al principio di una manovra economica pluriennale capace di garantire il pareggio di bilancio nel 2014. Ergo, non ci si meravigli se - come è accaduto altre volte in passato - nella manovra approvata dal Consiglio dei ministri convivono il rigore (nei saldi) ed il lassismo (nella tempistica), la sostanza e la fuffa, la presenza e l’assenza, il vecchio e il nuovo. Ed è bene tenere presente che nulla è ancora scontato: può ancora andare peggio, se prevarranno le resistenze che puntualmente si manifestano sul cammino di ogni provvedimento di questo tipo. Era però ragionevolmente spe-
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rabile che, di fronte alla serietà della situazione - perché, è inutile nasconderselo, la situazione è seria - la politica trovasse la forza di superare, per una volta sola, i propri limiti e per assumere pienamente e congiuntamente le sue responsabilità. E invece, in estrema sintesi il quadro è il seguente: il governo vara una manovra economica rinviandone l’impatto per il 90% alla prossima legislatura e quindi al prossimo governo e, contestualmente, tanto la maggioranza quanto l’opposizione di sinistra rendono nota la loro intenzione di rinegoziare, in qualche forma e appena possibile, gli impegni assunti in sede europea, sperando che a ciò contribuiscano i governi europei presenti e/o futuri.
E non basta l’autorevole intervento del Capo dello Stato per dissipare il dubbio che, tanto la maggioranza quanto la parte principale dell’opposizione, coltivino la speranza, in qualche maniera, di sfuggire al-
la realtà. Se così fosse, sarebbe difficile immaginare che si possa giocare sulla pelle del paese con questa spregiudicatezza. Nell’ultimo mese, lo spread fra i rendimenti italiani e tedeschi è salito di poco meno di 50 punti base, il che significa che mentre la maggioranza parlava di riduzione delle imposte e la minoranza di politiche di sviluppo - gli uni e gli altri, congiuntamente, facevano quanto necessario per addossare sui contribuenti italiani ulteriori 8
Speravamo di vedere unità politica almeno davanti alla crisi
miliardi di euro per il servizio del debito pubblico. Se così fosse, sarebbe difficile ipotizzare una tale livello di irresponsabilità. Qualche anno fa Francia e Germania (con l’approvazione dell’Italia) allentarono colpevolmente i vincoli europei intesi a limitare la possibilità di politiche di bilancio inadeguate a livello nazionale. Con ogni probabilità, la Grecia non affronterebbe oggi i problemi che affronta se allora non si fosse scelta quella stra-
da. Abbiamo dunque accantonato - costretti da più impellenti problemi - l’idea di “tornare a crescere”? A mio modo di vedere, no. Perché, in realtà, dietro la riluttanza con cui quasi tutte le forze politiche si sono avvicinate alla manovra si cela una questione di fondo senza la quale la stessa agenda Draghi sarebbe difficile da comprendere ed apprezzare.
L’Europa tutta, o quasi, è alle prese in modi e forme diverse con un problema solo: ridefinire il ruolo dello Stato dell’economia. È un problema non nuovo riproposto in termini assai più ultimativi dagli sviluppi della crisi del 2008-2009. Con buona pace di chi pensava che la crisi avesse riproposto una nuova centralità dell’intervento pubblico, gli interventi realizzati nell’emergenza rendono oggi indispensabile un riflessione puntuale sui costi e sui benefici di ogni campo di intervento e di ogni modalità di intervento del settore pubblico.
5 luglio 2011 • pagina 5
Per il sociologo tedesco la vecchia dicotomia tra federazione europea e Stati nazionali è superata
La crisi non è dell’euro ma dell’Unione incompiuta
«Vi spiego perché è arrivato il momento di dare vita a un’Europa che sia davvero e in pieno cosmopolita, aperta e democratica» di Ulrich Beck l processo di unificazione europea dopo la seconda guerra mondiale aveva una motivazione chiara: “Mai più”. L’obiettivo era semplice: trasformare i nemici in vicini di casa. Ora che questo miracolo si è compiuto, la ricerca della pace non sembra più in grado di mobilitare i popoli europei. Non c’è dubbio: l’Europa ha un disperato bisogno di nuove motivazioni. Ecco tre proposte per il futuro: la prima è che c’è un bisogno impellente di nuove fondamenta per l’Unione europea, perché in questo momento nel continente si sovrappongono tre diversi processi distruttivi che si rafforzano l’un l’altro: xenofobia, islamofobia e ostilità nei confronti dell’Europa. I critici dell’Islam, accusato di minacciare i valori di libertà dell’occidente, combinano abilmente illuminismo e xenofobia. Improvvisamente, nel nome dell’illuminismo si può essere contrari all’immigrazione. Legato ai salvataggi degli paesi del sud Europa, un nuovo risentimento nazionalista ha sviluppato, e oggi cavalca, una logica incendiaria fatta di divisioni e conflitti. I paesi “donatori” devono imporre agli stati in crisi durissimi programmi di austerità. Così continuano a torturare il popolo greco, che ha già superato la soglia di sopportazione del dolore. I greci, dal canto loro, si considerano oppressi dai “dettami dell’Ue”, che viola la loro indipendenza nazionale e umilia la loro dignità. La fiamma dell’odio nel vecchio continente viene continuamente attizzata
rende l’Europa e i suoi stati membri arci-rivali capaci di mettere in dubbio il reciproco diritto all’esistenza. Fino a quando l’alternativa sarà tra Europa e stati nazione, senza la possibilità di una terza via, il solo pronunciare la parola “Europa” scatenerà la paura dei popoli. Terza proposta: questa “terza via non ancora contemplata” è quella di un’Europa cosmopolita e di una Germania cosmopolita. In questo senso è importante fare una distinzione chiara tra nazione
L’ostilità nei confronti dell’Europa – il «mostro gentile di Bruxelles», per usare un’espressione di Hans Magnus Enzensberger – viene alimentata in Germania quanto in Grecia. Dietro il risentimento verso l’Ue c’è una convinzione semplice: noi possiamo farcela da soli. E quel “noi” significa “noi tedeschi”,“noi francesi”e forse perfino “noi lussemburghesi”. Si tratta di un auto-inganno nazionale. È il nuovo “consideratemi fuori” della Germania. Noi tedeschi parliamo dell’Europa come se la Germania ne fosse del tutto indipendente. Ma alla fine, bisognerà rovesciare le prospettive. Immaginiamo che l’Ue crolli davvero. Quanto ci costerebbe abbandonare l’euro e tornare a 12 valute nazionali, ripristinare le barriere lungo i confini degli stati, reintrodurre i controlli doganali e sostituire le leggi dell’Ue con quelle di 27 nazioni diverse? Seconda proposta: la malattia dell’Europa non è la crisi dell’euro. E non è nemmeno la scarsa volontà di rafforzare l’unione politica o l’assenza di un movimento civico comune. Tutti questi sono soltanto sintomi. Il problema fondamentale dell’Europa è diverso: il continente soffre perché non riesce a capire se stesso. È precisamente il grande traguardo degli “Stati Uniti d’Europa” che
Al contrario, comprendere che il futuro della Germania è cosmopolita significa fare il bene sia della Germania sia dell’Europa. Una Germania cosmopolita può imporre anche un nuovo modello di sovranità. La verità è che l’Europa non mette a rischio la forza delle nazioni, ma la accresce. Quando è necessario, gli stati membri hanno voce in capitolo in Europa e oltre. Possono influenzare direttamente le scelte politiche europee. In più, i loro problemi interni – il crimine, l’immigrazione, lo sviluppo agricolo e la cooperazione scientifica e tecnologica – vengono risolti in gran parte grazie all’Ue. Una Germania cosmopolita significa anche la nascita di un nuovo concetto di identità e d’integrazione, in grado di garantire una pacifica coesistenza transfrontaliera. Tutto ciò sarà possibile senza sacrificare
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È necessario che il Vecchio Continente diventi “la causa” che tiene insieme tutti i suoi membri e nazionalismo. I tedeschi che davanti alla strisciante disintegrazione dell’Ue chiedono di tornare agli stati nazione sono ingenui e anti-patriottici: ingenui perché ignorano i costi incalcolabili che la fine dell’Ue comporterebbe, e anti-patriottici perché mettono a repentaglio la Germania.
l’individualità e le differenze sull’altare dell’omogeneità nazionale. La diversità che costituisce l’essenza dell’Europa – diversità di lingue, stili di vita, arti e forme di democrazia – dovrebbe essere considerata da tedeschi come fonte di coscienza nazionale e non minaccia all’identità nazionale. Bisogna capire che il futuro dell’Europa – e in questo caso il futuro della Grecia – fa parte del destino della Germania, nello spirito sancito dalle parole pronunciate da Willy Brandt in occasione della prima seduta del Bundestag della Germania unita: «Tedeschi ed europei appartengono gli uni agli altri. Ora e, speriamo, per sempre». È arrivato il momento di fare in modo che l’Europa diventi la Causa: dalla sua testa nazionale ai piedi cosmopoliti. La crisi perpetua che chiamiamo Europa è una grande opportunità per i politici tedeschi. La nuova politica europea – cioè i fondamenti del futuro finanziario, ambientale e sociale dell’Europa, dal più grande al più piccolo – potrebbe nascere da una coalizione di governo rosso-verde. L’Unione europea allora cesserebbe di essere il «mostro gentile» che conosciamo, diventando l’Europa sociale in divenire dei cittadini e dei lavoratori. Un’Europa che abbraccerebbe la lotta per la legittimità democratica e le risposte politiche ai problemi globali in modo trasparente e di importanza fondamentale per la vita di tutti i giorni dei suoi cittadini. La nuova Europa cosmopolita meriterebbe il nostro voto. E allora, dov’è il Willy Brandt europeo? © Die Zeit
L’obbiettivo del pareggio di bilancio nel 2014 è dunque l’occasione necessitata per domandarci quale vogliamo che sia il perimetro della presenza pubblica nel nostro Paese, cominciando con il distinguere all’interno della spesa pubblica primaria corrente due grandi categorie. Da una parte le voci di spesa corrispondenti alle funzioni per le quali vogliamo che uno Stato esista o che la stessa Costituzione italiana pone alla base del contratto fra lo Stato e i cittadini. Per queste voci di spesa, ogni sforzo dovrà essere fatto per impedire ogni forma di spreco e per rendere la spesa efficiente ed efficace ma, al tempo stesso, non un euro dovrà mancare a quanto necessario perché venga reso ai cittadini italiani un servizio corrispondente alle imposte che chiediamo loro di pagare.
Dall’altra parte, tutte le altre voci di spesa. Dal funzionamento degli organi costituzionali e, più in generale, del sistema politico in senso lato e dei livelli di governo, ai trasferimenti alle imprese, alle tante voci non corrispondenti a funzioni non costituzionalmente garantite. Euro più euro meno, un quinto circa dell’intero volume della spesa pubblica. Per queste voci di spesa il principio non può che essere uno solo: quello dello zero-based budgeting e cioè della messa in discussione delle voci di spesa stesse e non già delle loro variazioni al margine. Ed i vincoli sono due. Primo, laddove possibile, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di sostituire alle erogazioni un minor carico fiscale. Secondo: non dovrebbe essere possibile salvare un programma di spesa non essenziale perché “piccolo o marginale” in qualche senso. Le risorse che finanziano la spesa pubblica appartengono non alla classe politica ma agli italiani: ogni euro che fosse possibile restituire loro sotto forma di minore imposte presenti o di minore debito (e cioè di minori imposte future) dovrebbe – deve – essere loro restituito senza indugio. In questo senso, l’agenda Draghi è, sotto ogni punto di vista, viva e vegeta. Essa, infatti, ripropone la necessità che lo Stato faccia lo Stato lì dove di uno Stato abbiamo bisogno e abbandoni il campo in tutti quei comparti in cui dello Stato possiamo tranquillamente fare a meno. Si è detto, a ragione, in questi giorni che la stabilità finanziaria è precondizione per la crescita. Quel che l’agenda Draghi ci ricorda è che questa relazione passa, strettamente, per una concentrazione delle poche risorse disponibili su quei comparti della spesa pubblica che più direttamente possono favorire l’evoluzione della struttura produttiva del paese. Per tutti gli altri, semplicemente, non c’è posto. E non c’è scelta.
politica
pagina 6 • 5 luglio 2011
Il “no” delle regioni rosse ai rifiuti campani sembra in linea con il federalismo leghista. E sui violenti non cambia (mai) nulla
A sinistra della Storia Tentennamenti sulla Tav e ipocrisie su Napoli: la cifra di una politica ambigua di Giancristiano Desiderio olidarietà”: è la parola più amata e usata a sinistra. Ma, come dimostrano in casi No Tav e No Rifiuti, una cosa sono le parole e altra cosa sono le azioni. Nell’assalto alla Tav in Val di Susa a base di “bombe di ammoniaca” la solidarietà è stata sostituita, come ha detto e condannato Giorgio Napolitano, da “squadre militarizzate” che hanno condotto «azioni aggressive contro reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge». Eppure, la sinistra radicale - la sinistra a sinistra che è definita anche “antagonista”e con il mondo degli antagonismi e dei centri sociali è legata a doppio filo - non riesce a dire
“S
sce a identificarsi nelle parole del capo dello Stato. Anzi, non riesce proprio a identificarsi con lo Stato che viene tuttora visto in maniera marxista come una copertura di interessi di classe. In questo caso a coprire gli interessi della classe borghese e del mondo moderno e globale sarebbero gli operai, i poliziotti e quei cittadini della Val di Susa (perché ci sono anche quelli) che non sono contrari al tunnel che collega Torino a Lione. In questo tunnel si sono già smarrite le aspirazioni - semmai ci siano state vere possibilità politiche - di Nichi Vendola a incarnare la leadership di una sinistra unita senza distinzioni. La solidarietà negata delle “regioni rosse” - Emilia
La legalità - legge dello Stato - è inviolabile se la magistratura indaga su avversari politici; invece, diventa violabilissima se accoglie e ratifica accordi europei che ammodernano i trasporti parole chiare e nette per chiamare violenza la violenza e di conseguenza condannare propositi e azioni terroristiche.
Da una parte ci sono i violenti e dall’altra i poliziotti. La scelta è facile e scontata, ma la sinistra più ideologica - Rifondazione, i vendoliani, persino il popolo verde - proprio non rie-
Romagna, Umbria, Puglia - a Napoli e alla Campania non è diversa dal no della Lega al decreto del governo per “ordinare” il trasferimento dei rifiuti napoletani in altre regioni. Anzi, anche in questo caso c’è un’aggravante: i leghisti hanno detto no al decreto, ma il decreto è stato approvato dal governo e le “regioni rosse” devono
tenerne conto e rispettare una legge dello Stato. Invece, dopo aver dato verbalmente la solidarietà al sindaco Luigi de Magistris (e al governatore Stefano Caldoro) la ritirano nell’azione concreta. Naturalmente, ci sono anche regioni governate dal centrodestra, dalla Lombardia alla Calabria, che hanno rifiutato i rifiuti napoletani, ma il no secco delle “regioni rosse” risalta di più proprio per motivi politici e antileghisti. Come è possibile che, soprattutto nel caso dei rifiuti, l’antileghismo abbia comportamenti identici al leghismo?
Ciò che unisce i due fatti senz’altro diversi - No Tav e No Rifiuti - è la sconfitta della cultura dello Stato e della comunità nazionale. Quando si tratta di rispettare le leggi dello Stato che tutelano degli interessi nazionali, la sinistra radicale, che è sempre così pronta a inneggiare al valore della legalità, scopre delle altre motivazioni rovistando con profitto nei sotterranei novecenteschi della sua lunga storia ideologica. La legalità - legge dello Stato - è inviolabile se la magistratura indaga su avversari politici; invece, diventa violabilissima se accoglie e ratifica accordi europei che ammodernano la rete dei trasporti del “vecchio continente”. Qui la sinistra radicale
incontra un tabù: la modernità sotto forma di globalizzazione che è il nuovo volto assunto storicamente dal capitale borghese. Così scatta la condanna ideologica e il fine - la lotta contro la globalizzazione capitalistica - giustifica tutti i mezzi, anche quelli violenti. Nel credo ideologico, anzi, non c’è differenza tra violenza e nonviolenza, ma tra violenza rivoluzionaria e violenza statale. Indovinate qual è la violenza giusta secondo gli ideologi e i cattivi maestri dei centri sociali che, purtroppo, i rappresentanti della sinistra radicale non ri-
fiutano né sul piano teorico né su quello pratico (anzi, della prassi)?
Stessa sorte è riservata alla comunità nazionale o all’interesse nazionale. Nell’osteggiare la Lega e le sue rivendicazioni padane, la sinistra, Costituzione alla mano, fa naturalmente appello all’unità territoriale dell’Italia che non si può dividere a fette come una torta. Anche nella riforma attuata, proprio dalla sinistra, del Capitolo V della Carta si limita il regionalismo con la funzione unificatrice dello Stato. Si potrebbe dire che là dove lo Stato, attraverso il governo, è presente, là finisce il potere federalista delle regioni di fare un po’ come pare e piace a loro. Eppure, nella questione dei rifiuti campani - che pure, questo è scontato, deve trovare una degna soluzione nel territorio campano con la costruzione del “ciclo chiuso”dei rifiuti - la posizione assunta dalla sinistra che governa regioni “solidali” con Napoli e i napoletani viene a capovolgere geometricamente l’interesse nazionale che esce di scena per fare spazio a interessi regionali o, ancor meglio, di partito elettorale. Non è inutile notare che, come negli scontri drammatici in Val di Susa, anche sul caso dei rifiuti napoletani il presidente Napolitano ha incarnato nitidamente la posizione dello Stato che deve garantire le condizioni minime
politica
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Cesa: «Bene la condanna, ma chi li ha difesi ammetta il proprio errore»
Maroni: «In Val di Susa è stato tentato omicidio» Il ministro dell’Interno attacca: «Non ci sia alcuna giustificazione per i violenti e i black bloc» di Massimo Fazzi ono d’accordo con chi sui giornali ipotizza il reato di tentato omicidio». È durissima la prima dichiarazione mattutina del ministro dell’Interno Roberto Maroni, che all’indomani degli scontri in Val di Susa durante la manifestazione del comitato No Tav punta il dito contro i violenti e getta la palla nel campo della magistratura che, oggi, «deve fare il suo dovere». Secondo Maroni, infatti, gli incidenti di sono stati causati «da un gruppo delinquenti che ha cercato la vittima, perché chi lancia bottiglie incendiarie con ammoniaca vuol dire che attenta alla vita dei poliziotti». «Mi auguro - ha aggiunto - che la magistratura vada fino in fondo e colpisca duramente chi si è reso responsabile degli incidenti successi in Val di Susa». Il titolare del Viminale ha ringraziato le forze dell’ordine e tutti quelli che hanno gestito la “situazione difficile”. «Forze dell’ordine che hanno contrastato - ha detto ancora Maroni - quella che il presidente della Repubblica ha definito violenza eversiva e io aggiungo, di stampo terroristico». Per quanto ri-
«S
della vita civile a Napoli come a Sondrio e a Santa Maria di Leuca. Ma, evidentemente, a sinistra - sia che sia radicale sia che sia moderata - il “migliorista” Napolitano non fa scuola e le cose non migliorano.
Le parole hanno un loro preciso significato che se rispettato ci dà il senso delle cose. Le parole che ci restituiscono il senso delle cose sono due: ferrovia e spazzatura. La ferrovia ha oltre due secoli di vita. La spazzatura è antica quanto l’uomo. Ma in Italia la costruzione di una strada ferrata e lo
organizzata dei black bloc, del mondo antagonista, dei centri sociali. Lo stupore del marziano, però, non può essere il nostro: la teorizzazione della violenza per il raggiungimento di scopi politici è parte integrante della storia del Novecento e in particolare della sinistra. In Italia c’è un mondo, peraltro non piccolo, che ancora coltiva i suoi fantasmi novecenteschi in questa cultura. Le forze politiche della sinistra radicale che si sono assunte il compito, in vari modi, di “rifondare” il comunismo o ripensare il risentimento della lotta di classe non
dovrebbero perdere occasione di condannare la violenza e la sua “prassi”. Purtroppo, come già avvenuto nel recente passato, anche questa volta con il movimento No Tav ci troviamo dinanzi a l’ennesima occasione sprecata. Sono troppi i silenzi, troppi i giri di parole, troppi i distinguo quando, invece, tra la violenza o la politica violenta e lo Stato non ci devono essere indecisioni di sorta. La sinistra radicale è ancora nel tunnel del Novecento e, nonostante s’immagini alla guida del treno della Storia, non riesce ancora a prendere il treno giusto.
Già ieri erano arrivati i primi commenti, tra cui quelli del segretario del Pd Pier Luigi Bersani. «Chiedo - ha detto - che ogni forza politica e ogni persona civile rifiuti non solo la violenza ma ogni parola di giustificazione della violenza, perché non è consentito mettersi su questa strada. Tuttavia abbiamo assistito a cose che non sono accettabili. Che la polizia debba difendere un cantiere ed essere aggredita in questo modo non è accettabile», ha aggiunto il leader democratico. Parole evidentemente indirizzate a Beppe Grillo che ha immediatamente messo in chiaro la propria posizione sulla vicenda: «Ho chiamato eroi i valsusini che manifestavano pacificamente, come fanno da anni, per il loro territorio. Sono il primo a condannare e a voler sapere chi sono i black bloc annunciati dai media da giorni. Li trovino e li arrestino immediatamente». Anche secondo il leader di Sinistra ecologia e libertà, Nichi Vendola, «le violenze vanno isolate perché oscurano proprio le ragioni della protesta». «L’operazione subdola in questo momento spiega il governatore della Puglia – è quella di privare di legittimazione il diritto a manifestare». Secondo il capogruppo dell’Idv alla Camera, Massimo Donadi, «è giunto il momento di spostare il piano della trattativa dal se al come realizzare l’opera. Tutte le forze politiche mostrino senso di responsabilità e, ciascuna per propria parte, collabori perché si possa dialogare in maniera costruttiva». Il segretario dell’Unione di Centro, Lorenzo Cesa, chiarisce la posizione del partito già messa in campo da Pier Ferdinando Casini la scorsa domenica: «Noi stiamo con le Forze dell’Ordine e con i lavoratori dei cantieri della Tav che ieri stavano facendo il loro dovere e sono stati presi d’assalto da delinquenti incappucciati. Oggi, meglio tardi che mai, sono arrivate le necessarie prese di distanze da quegli atti. Altrettanto opportuna sarebbe l’ammissione, da parte di chi fino a ieri ha coperto e offerto sponde politiche all’estremismo piu’ violento, di aver commesso un gravissimo errore. Alle Forze dell’Ordine rinnoviamo tutto il nostro apprezzamento per aver svolto il loro lavoro con coraggio e professionalità e per aver evitato il peggio in una situazione di altissimo rischio».
Balletto delle dichiarazioni fra destra e sinistra, che si puntano il dito a vicenda fra accuse di “eversione” e altre di collaborazionismo. Il segretario Udc: «Dobbiamo tornare al dialogo»
Contro la Lega e le sue rivendicazioni padane, la sinistra - Costituzione alla mano - fa naturalmente appello all’unità territoriale dell’Italia. Salvo scordarsela davanti ai camion di “munnezza” smaltimento dei rifiuti provocano scontri di piazza e scontri istituzionali. Tra le cose da fare - ferrovia e discariche - e gli effetti politici e sociali che ne derivano c’è di mezzo una tale sproporzione e un tale sproposito che se il famoso marziano di Flaiano tornasse da queste parti direbbe, giustamente, che “è roba di un altro mondo”. Il “signor Kunt”- il nome del marziano - è più ragionevole dei rappresentanti politici della sinistra radicale che non solo si mobilitano per osteggiare la costruzione di una ferrovia, ma non condannano la violenza
vicenda Tav cerca di galleggiare, ma, purtroppo per lei, affonda inesorabilmente in un mare di ambiguità». Ma il centrosinistra non ci sta a passare come “il giustificatore” di coloro che hanno causato centinaia di feriti, per la maggior parte fra le forze dell’ordine.
guarda la prosecuzione dei lavori, secondo il ministro, non ci sono dubbi: «L’opera sarà fatta e saranno garantite le misure di sicurezza». Dello stesso avviso il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri: «Le violenze in val di Susa sono del tutto assimilabili a quelle dei terroristi negli anni ’70. Questi black bloc attaccano i poliziotti e lo Stato, sono contro ogni modernizzazione ed usano la violenza come arma per fare politica. Come allora però la sinistra si confronta in maniera ambigua con questo movimento».
«Sono proprio questi tentennamenti nelle analisi della sinistra - ha proseguito Gasparri - che alimentano i violenti e li legittimano nelle loro azioni. La verità è che la sinistra sulla
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incertezza è la sensazione che affiora con maggiore intensità quando si parla di politica: sia con gli addetti ai lavori che con persone che a nessun titolo ne fanno, e probabilmente non ne faranno mai, una professione. C’è l’incertezza dell’intelligenza che non riesce a cogliere lo snodo unitario dei processi a cui assiste, c’è l’incertezza della volontà, che non sa da che parte stare, perché non sa come definire il proprio impegno concreto nella quotidianità dell’agire sociale e politico e c’è anche l’incertezza del cuore da cui scaturisce un’ansia diffusa e contagiosa, sospesa nell’aria che respiriamo; un’ansia che genera una forte difficoltà ad immaginare il futuro, lasciando sgomenti davanti a ciò che appare al tempo stesso incomprensibile e inaccettabile. Non si tratta solo di capire se questo governo ha capacità di governo, cosa di cui molti ormai dubitano, né quando si andrà alle prossime elezioni, dal momento che tutti sanno bene che prima o poi (2012 o 2013) le elezioni arriveranno. Non si tratta neppure di sapere chi governerà, dal momento che nella logica dell’alternanza di questo bipolarismo, tutti hanno potuto verificare le fragilità e gli insuccessi degli uni e degli altri. Le ultime esperienze hanno mostrato, al di là di ogni ragionevole dubbi, come né la destra né la sinistra siano state all’altezza delle esigenze degli italiani. Entrambe troppo impegnate a lottare con le rispettive opposizioni e dentro la propria maggioranza, distratte rispetto ai bisogni del Paese e incapaci di soddisfarli, hanno generato l’incertezza dilagante che anima la maggior parte degli italiani.
L’
Ciò che preoccupa è il dato strutturale, la configurazione dell’assetto politico-economico che il Paese dovrà assumere per rispondere con un cambiamento radicale ai bisogni reali delle persone: dalle più giovani, in drammatica attesa di un’opportunità concreta di lavoro, agli anziani su cui pendono in modo altrettanto drammatico i tagli della spesa sociale. L’ultima manovra finanziaria ne costituisce l’icona più significativa. Davanti ad un debito pubblico che cresce vistosamente, facendo emergere sacche di povertà diffuse in modo sempre più capillare, il governo non solo non riesce a rilanciare l’economia ma cerca di proiettare l’ombra lunga dei suoi debiti sulla prossima legislatura. Firma una cambiale in bianco con il futuro. Il quadro è sufficientemente negativo da non consentire facili illusioni, ma è sufficientemente realista da pretendere soluzioni decisamente radicali. Non è possibile credere alla favola del colpo di bacchetta che magicamente risolverà le cose. Davanti agli ultimi risultati elettorali qualcuno ha parlato di macchina delle sberle, per tutti, a destra e a sinistra. Ma forse proprio dal Centro potrebbe venire qualcosa di buono per il Paese, qualcosa che è ancora presente nell’immaginario collettivo di molti italiani e che finora non è potuta emergere con tutta la sua forza, proprio per la patologia dell’attuale bipolarismo. In questo quadro ieri pomeriggio nella Sala delle Colonne si è collocato il seminario di riflessione sul futuro della politica e delle scuole di formazione politica. In un dibattito aperto si è cercato di fare un bilancio, certamente provvisorio, della qualità della formazione che i politici hanno ricevuto in questi anni per chiedersi cosa non abbia funzionato se
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Un seminario a Roma con Bianco, Buttiglione, don Adriani e Mazzocchi per ra il Paese è arrivato a questo punto. Perché, non c’è dubbio, qualcosa non ha funzionato: ricercare le cause di questo fallimento è doveroso. Il primo obiettivo dunque è indagare la formazione che i politici non hanno ricevuto oppure quando l’hanno ricevuta - non li ha messi in condizione di svolgere adeguatamente il loro mandato. Bisogna prendere in considerazione poi una ulteriore possibilità: quella per cui giovani professionisti ben formati all’agire politico non siano stati messi nelle liste al posto giusto, per cui non sono stati eletti. Non a caso è da qui che si vuole ricominciare: dalla formazione politica, per offrire alla speranza motivi per sperare.
Ragionare di formazione politica diventa quindi ragionare di valori e di dialogo, di capacità di ascolto e di condivisione di obiettivi, di concretezza del fare e di rigore nel valutare. Di speranza nel ricominciare, ma anche di coraggio nel cambiare. A questi interrogativi ha cercato di rispondere l’incontro di Palazzo Marino. Un itinerario iniziato con la testimonianza di Gerardo Bianco e concluso con quella di Rocco Buttiglione, i due protagonisti della storica scissione del Partito popolare nel 1995. Una scissione che tanta parte ha avuto nella complessa vicenda del ruolo dei cattolici nella vita politica degli ultimi venti anni e che ancora oggi pone un interrogativo di fondo a quanti guardano al Terzo polo come ad una opportunità concreta di rinnovamento politico per il nostro
Democrazia interna, spazio ai giovani, proposte concrete contro la crisi. È la ricetta per creare un’alternativa vincente contro l’antipolitica L’allora segretario della Democrazia cristiana durante un comizio nel luglio del 1950. In basso Gerardo Bianco, ex segretario del Ppi, e nella pagina a fianco il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione
Torniamo a par
di Paola cattolici che desiderano impegnarsi seriamente in questo campo. In un tempo come l’attuale, certamente non più facile dello scenario in cui loro si sono imbattuti, oggi né Bianco né Buttiglione spaccherebbero il partito. Oggi la parola d’ordine è ricucire, ricominciare pazientemente a tessere la tela, per offrire una casa politica più accogliente e sicura soprattutto ai giovani. È quanto hanno cercato di descrivere attraverso le loro esperienze concrete AnnaMaria Marsili e Luigi Saitta (Udc), Federico Eichberg (Fli) e Alberto Gambino (Api) nella ta-
Paese. Allora Buttiglione, segretario del PPI, decise di allearsi con il centrodestra, mentre Bianco raccolse intorno a sé una parte del centro e tutta la sinistra del partito. Ha ancora senso la scelta di allora? I protagonisti tornerebbero a decidere in tal senso, o hanno avuto lo spazio e il tempo necessari per toccare con mano le conseguenze di quella scelta storica? Né l’uno né l’altro si sono sottratti alla suggestione di un confronto davanti alla presenza di un’aula gremita di giovani. Ben sapendo che se non si risponde a quell’interrogativo è difficile parlare di formazione politica ai giovani
titi impegnati a dar vita a questa nuova realtà politica, imposterà la propria specifica formazione a partire dalle pur evidenti differenze che caratterizzano il profilo di ciascuno dei partiti fondatori. In che misura, in altri termini, Api, Fli e Udc punteranno su di un progetto formativo condiviso o in che modo cercheranno di difendere una loro identità originaria, più o meno strutturata. Non bisogna perdere di vista infatti la ricerca identitaria che in modo speciale tocca sia Api che Fli, dal momento che ognuno di loro, in modo diverso, sta vivendo una
La scissione del Ppi del ‘95 pone ancora oggi una domanda di fondo a quanti guardano al Terzo polo come ad una opportunità concreta di rinnovamento politico per il nostro Paese vola rotonda che ha raccolto la testimonianza di chi finora si è occupato di formazione nei tre partiti e si è chiesto quale formazione occorre dare nel terzo Polo, ancora alla ricerca di una sua specifica identità. Il quesito di fondo è abbastanza importante per cercare di comprendere se ci si aspetta che sia la formazione a fondare una effettiva unità del nuovo Polo, sulla base di valori condivisi e quindi sul superamento delle divergenze più vistose che attualmente lo attraversano. Oppure se ognuno dei par-
propria gestazione identitaria. Questa domanda ne presuppone un’altra: quale spazio avranno in questo nuovo progetto politico le radici cristiane di una esperienza umana prima ancora che politica, religiosa oltre che culturale. Nessuno vuole rifare la Democrazia cristiana, nessuno vuole fare un partito cattolico, ma sono in molti a sperare che diventi il partito dei cattolici. Non solo dei cattolici, ma di tutti i cattolici che lo desiderano. Prezioso è stato il contributo offerto da Don Vincenzo Adriani, presidente
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agionare su cosa è andato storto dopo la fine della Dc e su come raddrizzarlo
rlare di politica
a Binetti dell’Istituto Toniolo e buon conoscitore della complessa rete di iniziative di formazione politica che hanno caratterizzato le diverse diocesi italiane in questo ultimo ventennio. Ci ha rappresentato un itinerario complesso, in cui il supporto culturale della dottrina sociale della Chiesa e la passione politica intesa come esercizio di carità, si sono intrecciati con una creatività formativa variegata nei modi, ma unitaria nello spirito che l’ha animata.
Altrettanto importante è stato il contributo di Mazzocchio, responsabile della formazione nell’Istituto Bachelet, che fa capo all’Azione cattolica, da sempre impegnata nella complessa azione di approfondimento dell’impegno sociale e politico dei cattolici. Mazzocchio ha portato i risultati di una ricerca sulle difficoltà in cui si imbattono i giovani cattolici quando si avvicinano alla vita politica, descrivendo il gap che c’è tra teoria e prassi, soprattutto quando la formazione è gestita al di fuori della vita dei partiti. AnnaMaria Marsili e Luigi Saitta (Udc), Federico Eichberg (Fli) e Alberto Gambino (Api) hanno messo in evidenza come in un periodo caratterizzato da una forte conflittualità all’interno dei partiti e da una migrazione interna tra i diversi partiti, si riveli la fragilità dei legami interpersonali e si renda necessario insistere
sugli aspetti relazionali. Occorre creare nuove forme di condivisione da porre a fondamento dell’esperienza politica. Nel seminario è emersa la necessità di costruire ambienti aperti, sereni, favorevoli allo scambio di idee e di esperienze, alla costruzione di progetti comuni, senza ricercare improbabili forme di adesione acritica. Si sente l’urgenza di riscoprire il valore della democrazia interna come opportunità concreta per mettere in gioco una libertà di espressione che consenta di immaginare nuovi scenari con spirito libero ed aperto, ipotizzando un cambio di modelli sociali e politici che possano anche mettere in discussione alcune forme organizzative, che appaiono decisamente superate. La prospettiva del cambiamento, anche di un cambiamento apparentemente trasgressivo, non va lasciata all’anti-politica, che minaccia di travolgere tutto e tutti in una logica distruttiva. Viceversa i luoghi della forma-
deguato, ma come gli spazi di una creatività politica in cui al rigore dei principi morali, alla concretezza delle conoscenze storiche, si accompagna la creatività di una nuova proposta politica. Per questo serve una rete fatta di rapporti, di valori e di strategie condivise. A far perdere prestigio e attrattiva ai partiti negli ultimi decenni ha contribuito non solo l’impatto televisivo, che riduce drasticamente la capacità argomentativa della politica, ma anche la piazza virtua-
Ragionare di formazione politica diventa ragionare di valori e di dialogo, di capacità di ascolto e di condivisione di obiettivi, di concretezza del fare zione politica vanno immaginati non come gli spazi in cui si costruisce conformismo e appiattimento su ciò che c’è attualmente e che appare oggettivamente ina-
le, da cui è possibile dire tutto di tutti, senza nessuna concreta assunzione di responsabilità. Ciò è accaduto perché sono ve-
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nuti meno non solo i luoghi classici dell’incontro e del confronto offerti dalle sedi dei partiti, ma anche quegli gli ambiti dell’associazionismo cattolico. Spazi in cui lo studio personale stimolava il confronto sul piano intellettuale, ma alla vita di gruppo non mancavano le sollecitazioni spirituali ad approfondire la propria fede e a viverla con la carità dell’impegno personale. I partecipanti più giovani hanno messo in evidenza la necessità di guardare alla formazione politica ricucendo la distanza tra le diverse esperienze di formazione, puntando su tre direttive essenziali: sviluppare in chi si accinge a far politica la visione della complessità, perché il sapere politico non è riducibile a questa o a quella conoscenza; rilanciare un’etica delle virtù che abbia una ricaduta forte ed immediata nella sfera pubblica; insistere sullo spirito di collaborazione per dare forma ad una democrazia in cui le diversità personali diventino opportunità di confronto, senza risolversi in una litigiosità pretestuosa.
Rocco Buttiglione ha concluso mettendo bene in evidenza come la dottrina sociale della Chiesa, senza essere un programma di governo e senza per altro poterlo essere per la sua stessa natura, ha notevolmente contribuito in questi ultimi venti anni a mettere a fuoco quegli aspetti culturali che non possono essere ignorati da chi vuole impegnarsi in politica. Ma la Dottrina sociale della Chiesa avrebbe ben poca efficacia se non venisse costantemente e continuamente rielaborata alla luce di quel sapere politico concreto con cui chi fa politica si interroga ogni giorno. La crisi della politica di questi ultimi anni ha vistosamente messo in evidenza la crisi morale che tocca la vita dei politici e che, pur restando prima di tutto un fatto personale, responsabilità di ognuno, ha raggiunto livelli tali da determinare una vera e propria emergenza morale. Ad Angelino Alfano, appena proclamato segretario del suo partito, è bastato fare un accenno all’onestà per scatenare un uragano di applausi. Eppure l’onestà dovrebbe essere condizione necessaria, anche se non sufficiente di ogni agire politico. Ma in questo nostro tempo invece sembra che l’onestà sia divenuta una virtù rara, tanto da apparire come il segno dell’eccellenza in politica. Ben venga il ricominciare da capo e il ricominciare proprio dall’onestà, a patto di non manipolare le parole, di non scivolare nella demagogia e contaminare i concetti. I cattolici ripartono da qui, dai livelli essenziali dell’etica pubblica, ben uniti intorno ad un progetto solo parzialmente definito, ma capace di un forte potenziale di sviluppo, un progetto che richiede una formazione audace e realistica, esigente e condivisa. Una sfida per il terzo polo, ma anche una sfida all’interno di ognuna delle sue componenti, per declinare l’unità nella diversità, senza perdere di vista il cuore stesso di un agire politico che è e resterà sempre intrinsecamente etico. Per un cattolico questa è già una buona piattaforma di partenza su cui cominciare a costruire.
la guerra in afghanistan
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Adesso che l’exit strategy è alle porte, cominciano a circolare i primi dati relativi ai costi dell’Af-Pak war. Ma l’Italia tace
Il portafoglio afghano Le spese di guerra sostenute dagli Usa oscillano fra i 3,2 e i 4,4 triliardi di dollari di Antonio Picasso l ritorno a casa di uno dei nostri ragazzi, in un feretro e avvolto nel Tricolore, riapre puntuale il dibattito sui costi della guerra in Afghanistan. Costi economici e non solo di vite umane. In Italia, Bossi ne parla da settimane, ancora prima della morte del caporalmaggiore Tuccillo. La polemica del leader della Lega, tuttavia, va inserita nelle manovre della politica nazionale che, spesso, non hanno nulla a che vedere con il conflitto in sé. Oltreoceano, dove l’Af-Pak war ha una presa maggiore sull’opinione pubblica, i costi dei combattimenti stanno cominciando a sollevare dubbi sulla efficacia della presenza militare in loco. Anche in seno all’establishment del Pentagono. Sabato scorso, proprio mentre l’Italia contava il suo 39esimo caduto, il generale Usa Steven Anderson veniva intervistato dalla Bbc proprio sull’argomento. «Spendiamo 20 miliardi di dollari ogni anno per garantire l’aria condizionata alle truppe dislocate in Afghanistan e Iraq». Dei quasi tre minuti di registrazione all’emittente britannica, questa è la dichiarazione più incisiva rilasciata dall’ufficiale in pensione statuni-
I
tense. Parole che giungono dall’ex responsabile della logistica Iraq, quando Petraeus era a Baghdad. E per questo la competenza in materia non è fonte di discussione. La provocazione dell’ufficiale ha funzionato. «Non è una cifra scandalosa – ha proseguito Anderson – con le temperature che, in questa stagione, sfiorano i cinquanta gradi, è ragionevole garantire l’adeguato contesto di sopravvivenza ai soldati. Lo scandalo è che tutto questo non ha porta-
vata impegnata nella reintroduzione degli invalidi di guerra nella società civile. Il suo intervento fa pensare che sia in corso un’operazione di sensibilizzazione verso la classe dirigente di Washington sulla sostenibilità della guerra.
La fonte non è di matrice pacifista, bensì di chi al fronte c’è stato. Questo ha un valore differente agli occhi di chi prende le decisioni. Le spese di guerra, come si diceva, non sono un ar-
Lo scandalo non sta nelle cifre iperboliche. Bensì nel risultato che emerge dal rapporto costi/benefici. A novembre saranno dieci anni dall’inizio delle operazioni to a un risultato politico significativo». La grande lobby del Pentagono (composta da forze armate, industria bellica, ma anche veterani/elettori) si guarda bene dal fare avanzare critiche alla guerra da parte di chi indossa ancora l’uniforme. Il caso McChrystal è ancora cocente. Da qui la scelta di lasciare che siano i generali in pensione ad affrontare i problemi più spinosi. Anderson, 59 anni, è alla guida di una società pri-
gomento nuovo. Il web pullula di siti che aggiornano in tempo reale le cifre indirizzate alla bisogna. Su costofwar.com si legge che, in questi dieci di attività, Isaf ed Enduring Freedom hanno prelevato oltre 430 miliardi di dollari ai contribuenti americani. Data la velocità di calcolo, è possibile che domani (oggi per chi legge, ndr) questi numeri appiano già vecchi. Sull’attendibilità del sito non è il caso di discutere. Per questo ri-
sultano più attendibili le analisi pubblicate dal Watson Institute e dal Long War Journal. Il primo perché trattasi di un think tank legato alla Brown University (Rhode Island) e con una qualificata competenza negli studi di geopolitica, il secondo in quanto è un osservatore giornaliero dei conflitti in corso ed è redatto da veterani della guerra in Afghanistan. Anche qui l’esperienza di combattimento dimostra il proprio valore aggiunto. A giudizio del primo, le spese di guerra sostenute dagli Usa sono incluse fra i 3,2 e i 4,4 triliardi di dollari. La cifra è iperbolica. E soprattutto risulta straordinariamente gonfiata, ma in
senso virtuoso, rispetto ai calcoli effettuati dai media nelle ultime due settimane. Da quanto cioè Obama ha definitivamente confermato l’iniziale ritiro di 33mila uomini dal prossimo anno e nell’ottica di chiudere il dossier entro il 2014.
Lo studio del Watson Institute ha una logica sorprendente. Nei calcoli sono inclusi gli interessi dei debiti intrapresi dal governo Usa, come pure le spese che potremmo definire “indotte”e alle quali si presta scarsa attenzione. Pensioni di invalidità, spese mediche in loco e altre voci, da cui è facile arrivare a quella per l’aria condizionata citata dal generale Ander-
Stamattina a Roma i funerali di Stato del caporal maggiore Gaetano Tuccillo, nella basilica di Santa Maria degli Angeli
Il ritiro è cominciato, ma si muore lo stesso ncora una volta la malasorte è toccata a un soldato italiano, il caporale Tuccillo, il cui automezzo pesante è esploso su uno dei soliti ordigni stradali “improvvisati”. Siamo ormai a luglio 2011, mese in cui dovrebbe iniziare il lento rientro dei contingenti dell’Isaf, ma i talebani continuano a uccidere. Dal 2004 i nostri Caduti sono trentanove, i feriti non si sa. Ma sono molti, se si assume la proporzione di uno a sette che caratterizza le forze americane.
A
Con il ferimento del paracadutista nell’incidente di sabato, si allunga anche questa lista. La “transizione”, secondo le dichiarazioni di Obama, Rasmussen e
di Mario Arpino Karzai, è ormai ufficialmente iniziata e dovrebbe concludersi nel 2014. Sono anche in corso colloqui con i ribelli per convincerli ad “abbandonare la violenza
maggio scorso raccomandava di guardare con fiducia al processo di transizione. «Abbiamo fatto sforzi enormi, abbiamo tutti versato sangue. Ora non
«Dal 2004 i nostri Caduti sono trentanove, i feriti non si sa. Ma sono molti, se si assume la proporzione di uno a sette che caratterizza le forze americane» e abbracciare la pace”. Ma quelli di Farah e dintorni, evidentemente, sinora non si sono lasciati convincere. Il presidente Giorgio Napolitano, in un suo intervento al Nato Defense College in occasione del 60° anniversario, il 20
dobbiamo abbandonare questo Paese una volta che il nostro impegno militare sarà terminato».
È vero. Il sangue del caporale Tuccillo, cui va con gratitudine il nostro pensiero,
si aggiunge oggi ad altro sangue ed ancora, fino al 2014, purtroppo ne sarà versato. Commosse e toccanti, ma ferme, anche in questa triste occasione le parole del Presidente della Repubblica, mentre il ministro La Russa, per il Governo, conferma che ci atterremo agli impegni, nello spirito del summit di Lisbona. Ora qualche considerazione. Il piano di transizione c’è ed è reale. Sono state addirittura già annunciate le sette province dichiarate pronte, ovvero Bamyan, Herat città, Kabul ( ma non Surobi), Lashkar Gah (Helmand), Mazar-e-Sharif e Methar Lam. Anche in queste, tuttavia, non tutto è tranquillo, come dimostrano i recenti episodi di Herat e di Kabul. Farah, la provincia
la guerra in afghanistan
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Solo per l’anno 2010-2011 la Gran Bretagna ha stanziato venti milioni di sterline. E la cifra è stata tarata al ribasso rispetto agli anni passati, perché Cameron ha altre spese a cui pensare son. L’impostazione di questa analisi lascia pensare che gli Usa pagheranno i costi della guerra in Afghanistan da qui fino alla scomparsa dei suoi veterani. Come del resto stanno ancora versando contributi ai reduci del Vietnam, oppure ai pochi rimasti della seconda guerra mondiale. Il Watson Institute vuole sottolineare appunto che ben dopo il 2014 l’Afpak war resterà una voce delle uscite per il dipartimento del Tesoro. Il problema, ovviamente, non è limitato a Washington. A Londra, da un anno a questa parte, il Rusi (Royal united service institute) sottolinea che i 20 miliardi di sterline, stanziati dal governo Cameron, per il
biennio 2010-2011, hanno ragion d’essere solo in una prospettiva di breve periodo.
La stima, peraltro, è riferita sia all’Afghanistan sia all’Iraq. «Dopo il 2014, non si possono fare previsioni», scrive Michael Codner, analista del prestigioso istituto britannico. Le preoccupazioni trovano ulteriore conferma nella linea di tagli alla spesa pubblica che Downing street adottare. È impensabile una correzione al ribasso del sistema pensionistico statale, com’è nei programmi del governo di sua maestà, è un contemporaneo mantenimento dei costi di guerra. Impensabile sia in termini di bilancio, sia da un
dell’ultimo evento, non fa ancora parte delle sette già dichiarate pronte. Quindi, continueremo a presidiarla. Per la sicurezza di tutti, sopra tutto dei soldati sul terreno, è importante che non avvengano pericolose fughe in avanti, si rispettino i piani e, nella loro attuazione, si seguano i consigli dei Comandanti, e non solo le esigenze dei governi. A questo proposito, l’annuncio tutto politico di Obama che, nonostante il parere contrario di Petraeus e degli esperti del Pentagono, prevede di ritirare entro l’anno 33 mila militari, praticamente tutti quelli del surge – si tratta di oltre un terzo in più di quelli pianificati dai tecnici – rischia di dare al processo di Lisbona un’accelerazione eccessiva.
Non si esclude a questo punto un effetto a catena sugli alleati europei, ognuno dei quali ritiene di avere valide ragioni politiche ed economiche per un rapido disingaggio. Sarkozy, che – vedi Libia – di fughe in avanti se ne intende, ha già
punto di vista di politica interna e di sostenibilità elettorale del governo tory. Ancora a settembre 2010, il ministro della difesa britannico, Liam Fox, sosteneva che la manovra a discapito del suo dicastero sarebbe stata «coerente e in linea con le necessità delle forze armate». E comunque, già in quei mesi, si parlava di tagli tra il 10 e il 20%. Poi sono arrivate la primavera araba e la guerra di Libia (6 miliardi di dollari, secondo gli ultimi rilevamenti). E la Nato ha messo da parte la coerenza. C’è da chiedersi se non sia il caso di introdurre il vincolo di bilancio anche per l’Alleanza atlantica. L’Italia, tornando sulla questione afgana, si trova in una posi-
zione di retrovia, con i suoi 308 milioni di euro mensili stanziati per il Paese degli aquiloni. Per gli Usa si tratta di 10 miliardi nello stesso lasso di tempo. Da sottolineare che il dato viene reso pubblico, ed è fonte di polemica, dall’American Entreprise Institute, noto per il suo atteggiamento conservatore. La guerra al terrore non è più popolare nemmeno per i repubblicani? A fronte di tutto questo, torna utile la riflessione del generale Anderson. Lo scandalo non sta nelle cifre. Bensì nel risultato che emerge dal rapporto costi/benefici. A novembre saranno dieci anni dall’inizio delle operazioni. E dal prossimo anno, Obama ha dichiarato di
cominciare a smantellare l’intero apparato militare dislocato dal Pentagono nel teatro centro-asiatico. A conti fatti, sembra che la Casa bianca intenda abbandonare un fronte di guerra nel più breve tempo possibile e senza preoccuparsi delle ripercussioni. Sia in loco sia a casa propria.
Volendo fare una sommatoria delle perdite e delle conquiste politiche, l’intervento in Afghanistan risulta essere una sconfitta. I caduti complessivi (coalizione, talebani e civili) possono arrivare ai 150mila. Ma il conto è approssimativo. La situazione delle istituzioni di Kabul, poi, è drammatica. Ricostruzione, normalizzazione o pacificazione. Termini, questi, che appaiono ben lungi dalla realtà del Paese. Il tutto con un bilancio anche contabile evidentemente in perdita e che, sul lungo periodo, resterà tale.
annunciato che «ridurrà in proporzione a ciò che faranno gli Stati Uniti». L’inglese Cameron, ovviamente, anche in quest’occasione ha deciso di tenergli la ruota. Da noi, tra gli strilli della Lega e le assicurazioni del Governo, si conferma un’altra volta la prassi del doppio binario, mediando tra le esigenze di politica estera e di politica interna.
Come si vede, le dichiarazioni sulla transizione sono molte, e altrettante le incertezze. Siamo proprio sicuri che la maggioranza degli afgani abbia davvero tra i suoi obiettivi uno stato unitario e democratico? O i diritti delle donne? O le scuole laiche per tutti? Il piano di transizione senza dubbio c’è, ed anche la strategia. Ma talvolta c’è anche l’impressione che tutto derivi più da ciò che si desidera, piuttosto che da una corretta stima di fattibilità. Solo il numero dei morti, quello si, è sempre reale. Sarà dura e, almeno su questo, nessuno nutre dei dubbi.
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la guerra in afghanistan
Parla il generale Fogari, responsabile della pubblica informazione dello stato maggiore della Difesa
Il microfono in prima linea
«La comunicazione è diventata un’arma per vincere i conflitti. Servono dei veri professionisti per gestirla» di Pierre Chiartano alla guerra del Vietnam con le cronache quotidiane di Walter Cronkite per la Cbs news, la comunicazione è diventata una vera arma per vincere o perdere i conflitti. Proprio oggi con le spoglie del nostro militare, morto in Afghanistan, arrivate all’aeroporto di Ciampino, sembra questo essere ancora il tema centrale: perché sostenere un conflitto? Le guerre odierne per l’Occidente si combattono lontano dai propri confini, ma si vincono in patria. Lo dimostra anche la cronaca
D
le tue idee e il mondo». Così spiegava a liberal lo scorso autunno l’esperto americano che con Radio Saigon aveva rotto gli schemi del linguaggio radiofonico made in Pentagono. Ma c’è anche il detto che la prima vittima di una guerra sia la verità. Siamo nell’era dell’informazione globale e totale, ma spesso – vedi il caso Libia – non si può essere sicuri neanche di chi fa informazione controcorrente, come al Jazeera. Il compito di chi fa comunicazione per le forze armate è diverso da chi lo fa per il pubblico, ma col tempo le differenze si stanno livellando. E anche i militari hanno scoperto quanto sia potente l’arma dell’informazione quando non filtra, ma gestisce le notizie e punta alla trasparenza. Togliendo così l’acqua a chi fa la cosiddetta controinformazione. E potremmo arrivare al “paradosso” di ottenere notizie più attendibili da un ufficiale della pubblica informazione (Pio) che da un giornalista di al Jezeera, tanto per fare un esempio. Le dirette della Cnn da una Bagdad ormai abbandonata dagli occidentali, prima dell’invasione del 2003, sono la cartina di tornasole di un’altra svolta, dove da un lato s’invadeva e si gettavano bombe, dall’altro si cercava di comunicare informazioni. Tutto sotto la stessa bandiera.
Per la stampa militare italiana la missione in Libano del 1982 è stato come il Vietnam per gli Usa: una svolta. Si è compresa l’importanza dei media e di come tenere i rapporti con i giornali quotidiana, con la scia di polemiche sull’utilità del nostro impegno all’estero che si è scatenata proprio a causa della morte del caporalmaggiore Gaetano Tuccillo. A tenere banco è la polemica politica. È utile fare un breve exursus storico sull’importanza dell’uso dei media nella “narrazione”degli eventi bellici. Negli anni Sessanta e Settanta anchorman come Conkrite erano considerati dei veri opinion maker. «L’uomo che gode di maggior fiducia presso gli americani», recitava il titolo di un sondaggio di quegli anni. E il rapporto tra governo, Casa Bianca, establishment del potere e media era di confronto continuo, non di commistione d’interessi. Il vecchio detto sulla stampa «cane da guardia della democrazia» aveva un valore nell’America, durante la guerra al comunismo nelle giungle asiatiche. E in parte lo ha tuttora. Ma ci sono stati altri protagonisti della comunicazione in divisa che hanno saputo rompere gli schemi, tra questi un posto d’onore lo conquista Adrian Cronauer, dalla cui biografia è stato tratto il film Good Morning, Vietnam. Tutti «vogliono parlare», perché l’essere umano è un animale sociale e «un microfono è la finestra tra
Ci ha aiutato nell’analisi uno dei massimi esperti del settore, il generale Massimo Fogari, responsabile dell’ufficio Pubblica informazione dello stato maggiore Difesa. Uno dei primi ufficiali italiani ad operare nel settore pubblica informazione in campo Nato, durante le operazioni nei Balcani a metà anni Novanta. «L’esempio americano della guerra nel Vietnam è accaduto molto prima del cambiamento nelle nostre forze armate», spiega il generale, sottintendendo che in Italia la svolta è “recente”. «Da noi il cambiamento sostanzia-
le nel modo di comunicare è avvenuto attorno al 1995. Prima era un’esigenza per niente sentita. Le nostre forze armate erano ancora legate a un concetto della propria funzione di matrice risorgimentale.Ritenevano di essere l’Istituzione per eccellenza, non messa in discussione da nessuno, le cui funzioni erano pienamente condivise da tutti». Comunicare dunque era quasi superfluo.
«Esistono anche altri motivi. La sconfitta della Seconda guerra mondiale e le polemiche nate successivamente avevano portato a un distacco progressivo tra la realtà del Paese e quella delle forze armate. Siamo così arrivati alla fine degli anni Settanta. Poi abbiamo avuto la nostra prima missione all’estero, nel 1982 in Libano». E come poter dimenticare la missione del generale Angioni, immortalata nelle avvincenti pagine del libro di Oriana Fallaci Inshallah. «Noi avevamo bisogno di far sapere al Paese cosa stavamo facendo su quella sponda del Mediterraneo e c’era un’enorme richiesta d’informazione da parte dei media. Unendo le due cose è scaturita una comunicazione che per l’epoca è stata eccellente. Oltre al libro della Fallaci abbiamo visto la nascita del giornalismo emebedded ante litteram. Abbiamo ospitato decine di giornalisti, dando la possibilità di riportare una realtà altrimenti non percepibile». All’epoca il clima del Paese era decisamente diverso da oggi. I politici erano terrorizzati dall’idea che potesse tornare in patria anche un solo feretro di nostri militari. Il concetto di responsabilità internazionale era compreso, a stento, dalla classe politica, figuriamoci dalla nazione. Quindi dal punto di vista della comunicazione il Libano del 1982 è stato come il Vietnam per gli Usa: una svolta. «Poi dopo questa missione abbiamo avuto un altro periodo di sostanziale immobilità, fino alla seconda metà degli anni Novanta. C’erano nuovi ufficiali al comando, cresciuti nella cultura dei nuovi strumenti di comunicazione e in un clima dove i media contavano molto. Sullo sfondo avevamo il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale. Con le missioni in Kossovo e Bosnia a condire il tutto». Per Fogari sono stati questi gli elementi del grande cambiamento che ha riavvicinato gli uomini in divisa al Paese, fino a farli percepire talmente
A sinistra, il generale Massimo Fogari. Dall’alto, Walter Cronkite e Adrian Cronauer. In apertura Robin Williams in “Good Morning Vietnam”
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e di cronach
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vicini alla comunità e farceli apparire come dei «cittadini in divisa». E fu proprio l’esperienza dei Balcani a cambiare il modo con cui l’Italia guardava alla proprie forze armate. «Non era più il soldatino in divisa armato di fucile. Non solo si dimostrò la diversa capacità dei nostri militari, ma questa capacità fu trasferita dai media al pubblico italiano. In Kossovo all’inizio c’erano dei problemi di politica internazionale per cui ci si doveva muovere con grande attenzione. All’epoca c’erano degli uffici Documentazione e attività promozionale e lo stato maggiore Difesa aveva un ufficio Pubblica informazione. Ma ognuno gestiva il proprio contingente come meglio credeva. La svolta è arrivata con la riforma dei vertici, con il riconoscimen-
tica perché e come si spendono i soldi per mantenere la struttura militare. E poi quello di far vedere cosa fanno i nostri soldati in Patria e all’estero. Dire la verità sulle nostre attività». Argomento tornato alle cronache proprio nelle ultime ore. Per estensione è la creazione del consenso per l’attività di un’istituzione. «Non è un effetto diretto o voluto. È una conseguenza indiretta della nostra attività di comunicazione». Per essere chiari la prima mission «è la trasparenza». Di qui nasce il passaggio al concetto di «cittadini in divisa» per i militari, quale corpo vivo e attivo nella comunità e non corporazione o elite. Un concetto che ha trasformato le forze armate italiane anche in un vero incubatore di classe dirigente. Ufficiali e soldati rappresentano il meglio – soprattutto fuori dai confini nazionali – della disciplina e dell’ingegno nazionale. Fanno fare al Paese una bella figura, in un momento in cui l’Italia abbonda di cattivi esempi. E chi aveva paura che un esercito di professionisti fosse ancor più separato dal Paese, non ha avuto ragione.
«La trasparenza elimina un’altra possibilità. Il fatto che si dica al cittadino afghano come sono andati esattamente i fatti, toglie ossigeno a chi invece vorrebbe fare controinformazione» to del capo di stato maggiore Difesa come unico generale “a quattro stelle”. La legge 95 gli da competenze anche nella pubblica informazione». Ma ciò che separava la comunicazione tout court da quella militare erano dei concetti di base legati alla sicurezza e in forma indiretta alla ricerca di consenso. «Occorre dividere l’attività di comunicazione da quella informativa. Con una libera traduzione dall’inglese. Nella Nato esistono le information operation che hanno come obiettivo il pubblico “nemico” e che si svolgono in parallelo con le operazioni militari. Il mio ufficio, che con la nuova legge opera come un vero ufficio stampa, ha invece il compito di informare i cittadini sulle nostre attività. In pra-
«La nostra maniera di comunicare è fondamentalmente legata alla cultura della tradizione orale. La scrittura è arrivata successivamente per codificare, all’inizio, la cultura e la liturgia religiosa. I nostri meccanismi d’apprendimento sono perciò influenzati da questa forma tradizionale e primordiale di scambio d’informazioni» sosteneva, intervistato da liberal, Cronauer. E c’è un altro meccanismo di psicologia collettiva che spiega tanto sul nostro Paese, privo di
riferimenti morali ed etici, sballotatto tra decaloghi per la sopravvivenza quotidiana e cattivi esempi. Parliamo del senso di comunanza sviluppato nei confronti dei nostri militari caduti. «Basterebbe pensare all’emozione che suscitano certi eventi disgraziati e spiacevoli quando un nostro militare cade in azione – spiega il generale – l’intero Paese è coinvolto nell’emozione dell’evento». Ma c’è di più e si è visto dopo la strage di Nassiriya. La morte è diventata per il disincantato popolo italiano l’unico momento di verità. Di fronte alle bare dei nostri soldati caduti non c’è menzogna.
«Sono momenti in cui si rinsaldano i valori d’unità e d’identità nazionale». Fino ad arrivare a episodi di spontanea condivisione. «Mi arrivano lettere di cordoglio da privati cittadini, dopo ogni perdita di vite umane. Fatto che da italiano mi riempie d’orgoglio». Ma la comunicazione nel mondo dell’informazione globalizzata è un’arma potente per vincere i conflitti. «Tutto ciò che riporta un giornale nazionale viene poi ripreso e letto all’estero. È un’attività che svolgiamo, ma senza scopi operativi come avviene per le information operation, anche nei confronti dei media locali nei teatri dove ci troviamo ad operare. Invitiamo sempre i media locali alle nostre press conference». Trasparenza che elimina anche la possibilità di disinformazione da parte di altri. «Assolutamente, infatti mentre in Italia per legge le attività informative e di comunicazione sono separate, in teatro operativo le due attività sono l’una in concorso dell’altra. Il fatto che si dica al cittadino afghano come sono andate esattamente le cose, toglie ossigeno a chi invece vorrebbe fare controinformazione». Insomma, la verità è sempre un’arma potentissima.
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commenti
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A fianco, un’immagine di Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom)
ggettivamente singolari gli atteggiamenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. E già, perché un’istituzione indipendente, come l’Autorità, dovrebbe ispirare le proprie condotte alle funzioni proprie; nella fattispecie concreta, la tutela del pluralismo.
O
Ma accade, perché ciò è accaduto, che l’Autorità più politicizzata d’Italia abbia, e da tempo, assunto l’atteggiamento di un mostro a due teste: inflessibile, rigoroso, cinico nei confronti dei soggetti più deboli, i piccoli editori, le piccole televisioni; pacioso ed accomodante nei confronti di coloro che controllano il mercato. A volte, o meglio, con qualcuno, un cucciolo, altre volte, o meglio, con altri, un mastino romano, ma non napoletano. Ma questa è un’altra storia. E così, e solo per fare un esempio, succede che pochi giorni fa viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale una delibera dell’Autorità che prevede che alcune imprese editoriali, e solo alcune, quelle più piccole per inciso, debbano trasmettere entro pochi giorni una quantità di informazioni degne del miglior Kafka. Ma non solo. Invertendo ogni principio giuridico, e sicuramente di ragionevolezza, le informazioni richieste non riguardano le imprese a cui le stesse informazioni vengono richieste, ma altri soggetti. Ossia le società proprietarie delle testate con cui spesso le imprese editrici hanno rapporti tesi. Ma non è finita qui. E no!
Inflessibile con i piccoli editori, accomodante con chi controlla il mercato
I due pesi e le due misure dell’Agcom di Enzo Ghionni Perché le eventuali sanzioni ricadono sull’impresa editrice e non sulla società proprietaria della testata, laddove quest’ultima ometta di fornire le informazioni o le trasmetta in maniera inesatta.
Passiamo ai tempi: la delibera è stata pubblicata oltre trenta giorni dopo la decisione. Trenta giorni, ripeto, tren-
Come mai l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni non si occupa di questioni centrali come il mancato sviluppo della banda larga, l’incerto passaggio al digitale terrestre con la conseguente agonia delle piccole emittenti o dei nuovi entranti, rimasti al palo per il mancato rilascio delle numerazioni?
ta, per assolvere ad un obbligo burocratico semplice. Ma per l’Autorità è un tempo ragionevole. Trenta giorni sono, praticamente, il medesimo tempo che viene concesso alle imprese per predisporre, in alcuni casi, centinaia di moduli, come detto, spesso con informazioni che devono essere fornite da soggetti terzi.
Non vi è che dire: dimostrato a pieno l’equilibrio nei rapporti tra le pubbliche amministrazioni e le imprese; lo stesso della Cina di Mao.
Ma, allora, potrebbe non essere un caso o una fortuita coincidenza la prossima delibera dell’Autorità con cui ci si aspetta, o meglio si teme, che la stessa introduca, in relazio-
ne al diritto d’autore, un sistema sanzionatorio a carico dei cittadini che vede la medesima Autorità sostituirsi, nelle funzioni, alla magistratura. Sempre come in Cina, quella di oggi, questa volta, nuovo modello culturale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni che si predispone alle censure 3.0. A pensar male non si fa peccato, diceva qualcuno. Ma appare evidente che l’Autorità dedica molto del suo tempo ad occuparsi di problemi centrali per la democrazia ed il pluralismo nel Paese, come chi sia il proprietario delle testate di minori dimensioni, o quali contenuti i privati cittadini si scambiano, senza fine di lucro, su Internet.
Tempo prezioso da non dedicare, invece, a temi di “interesse minore”. Come il mancato sviluppo della banda larga, l’incerto passaggio al digitale terrestre con la conseguente agonia delle piccole emittenti o dei nuovi entranti, rimasti al palo per il mancato rilascio delle numerazioni. E per il principio di eguaglianza appare anche giusto che le sanzioni comminate ai soggetti di minori dimensioni sono, nella gran parte dei casi, equivalenti a quelle comminate ai colossi del settore. Che poi i primi a seguito delle anzidette sanzioni chiudano, sono quisquilie, bazzecole per lo sceriffo del pluralismo in Italia. Ma queste sono circostanze che alla lunga escono fuori, anche con riferimento all’Autorità più politicizzata e opaca d’Italia; perché non bastano commi e delibere astruse per nascondere la realtà dei fatti. Ossia che meno giornali ci sono meglio è. E criminalizzarli è bene. Alla stressa stregua dei cibernauti del futuro, da comprimere come un file. E le chiavi di decriptazione saranno lasciate alla discutibile Autorità, come già detto, 3.0. Preoccupiamoci gente, preoccupiamoci.
cultura
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La nostra lingua occupa un modesto 19esimo posto tra quelle più parlate al mondo. Ma è la quinta più studiata all’estero
L’italiano, speriamo che se la cava di Marco Ferrari italiano occupa un modesto 19esimo posto tra le lingue più parlate al mondo surclassato, oltre da potenze come cinese, indi, inglese, francese, arabo a spagnolo, da modesti idiomi come il giavanese e il vietnamita. Ma curiosamente, accanto alla penisola, risultano altri luoghi in cui la lingua di Dante ancora è viva, a suo modo: Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela, Canada, le ex colonie Eritrea, Etiopia, Libia, Somalia, Malta dove è stata lingua ufficiale sino al 1934, Corsica dove ha smesso di essere insegnata a scuola nel 1859, oltre a Paesi confinanti come Slovenia, Croazia, Francia, Svizzera, Principato di Monaco. Un bacino consistente che raddoppia i cittadini che parlano italiano, tra prima e seconda lingua, portandoli a 120 milioni dai 60 dotati di passaporto tricolore.
L’
Non sempre questo bacino idiomatico viene coltivato, anzi nella maggioranza dei casi è trascurato, come ci insegnano le chiusure di scuole italiane all’estero, segnatamente nelle nazioni latino-americane di forte emigrazione storica. Proprio nelle nostre comunità estere si sta insediando quello che viene definito “l’italiano degli altri”, un linguaggio in evoluzione, talvolta fatalmente macchiato da arcaismi o dialetti, connaturato alla lingua madre che è diventata un’altra, lo spagnolo, il portoghese o l’inglese. Come nei nuclei di persone soggette a emigrazione, questa lingua segna i destini delle generazioni: la prima ondata migratoria ha considerato l’italiano una lingua di casa, da parlare in famiglia, magari a tavola; la seconda lo ha perduto per integrarsi meglio nella nuova identità; la terza e la quarta lo stanno recuperando come seconda lingua, la lingua del cuore. Eppure proprio in questi contesti sussiste un italiano antico e ottocentesco, così come perfetti dialetti appresi dai nonni oppure parlate miste, metà italiano e metà dialetto. Un caso a parte è rappresentato dal lunfardo parlato a Buenos Aires, un’altra lingua di origine italiana e spagnola inventata dalla malavita e dai
Oltre che dal cinese, l’indi, l’inglese, il francese, l’arabo e lo spagnolo, siamo surclassati anche dal giavanese e dal vietnamita
prigionieri per non farsi intendere dai poliziotti e dalla guardie carcerarie. Il principio linguistico del lunfardo è il rovescio: una parola viene così capovolta nelle sillabe: tango diventa gotan, amigo è gomia, cabeza è zabeca. Altre volte si raddoppiano le sillabe rendendo complessa la dizione di una parola. Proprio a Buenos Aires
e Montevideo il modo di parlare dei tanos (italiani) ha preso il termine di cocoliche derivante da “Cocolicchio”, caricatura teatrale di un emigrante italiano del sud che si rende ridicolo con il suo modo di chiacchierare, vestire e comportarsi. L’Accademia della Crusca di Firenze, che salvaguardia e studia la lingua italiana, ha recentemente dedicato un convegno proprio all’“Italiano degli altri” includendo, oltre agli emigranti e ai loro discendenti, coloro che giungono in Italia alla ricerca di una nuova vita, coloro che studiano l’italiano per apprendere meglio il nostro patrimonio artistico e musicale e infine coloro che lo utilizzano a fini commerciali. Dunque la spendibilità economico-sociale dell’italiano cresce all’estero, soprattutto grazie alle occasioni offerte dal turismo, dal commercio, dalla lirica, dalla qualità del made in Italy e persino da certi circuiti sportivi come l’automobilismo, il motociclismo, il kartismo e il ciclismo di for-
In basso a sinistra, un’immagine della biblioteca dell’Accademia della Crusca. Sotto, un’illustrazione di Dante Alighieri. In alto, un disegno di Michelangelo Pace
te impronta tricolore. A ciò si aggiunge l’uso di internet. L’elearning, infatti, registra un aumento di testi di lingue concorrenti all’inglese che non riesce a schiacciare del tutto gli altri idiomi. Va in questo senso un dato di sensibile richiamo: dal 1995 ad oggi gli iscritti ai corsi di lingua italiana all’estero organizzati dagli Istituti di Cultura, dalla Società Dante Alighieri, da varie associazioni e università sono in aumento del 30% circa e toccano quota 200 mila. L’italiano è così diventato la quinta lingua più studiata al mondo. A fronte di tale insperato aumento, va avanti la politica dei tagli della presenza di istituti italiani all’estero. Da ultimo persino la Società Dante Alighieri si è vista decurtata il contributo ministeriale per due anni di seguito. Le associazioni degli emigranti, poi, vanno avanti con autofinanziamento o volontariato. Un paradosso per un idioma che non è la lingua della comunicazione universale come l’inglese, ma è diventata la lingua delle radici, della cultura, della musica e persino la lingua della speranza nel Mediterraneo, da dove vengono tanti immigrati. «Viviamo in un’epoca di cambiamenti dei valori, nella vita quotidiana e nel comune sentire, che sfuggono alla percezione globale. Sappiamo quanto arduo sia rispondere in termini legislativi a problemi così grandi di integrazione e convivenza, ma la conoscenza della lingua può molto» ha scritto il presidente Giorgio Napoletano nella prefazione all’ultima ricerca Formare nei Paesi d’origine per integrare in Italia.
L’attenzione si sposta proprio sul movimento migratorio verso l’Italia, persone che si confrontano per la prima volta con la nostra lingua, stranieri che tra loro comunicano in italiano e bambini che affrontano con timore la nuova realtà scolastica nel paese di nuova integrazione. Secondo un recente studio delle Università di Siena e Torino gli stranieri inciampano soprattutto nel mancato uso del pronome (come nello spagnolo, invece obbligatorio in inglese e francese) e nella complessità del sistema verbale, un vero e proprio intrico in cui cozzano anche molti italiani oramai poco avvezzi a frequentare il congiuntivo.
ULTIMAPAGINA Dai sotterranei del tempio dedicato al riposo perenne del dio emergono ricchezze per miliardi di euro
Vishnu, un tesoro e il sonno di Vincenzo Faccioli Pintozzi ollane d’oro lunghe più di 5 metri, forzieri pieni di pietre preziose, vasellame tempestato di diamanti e rubini. È soltanto una piccola parte del tesoro che è stato trovato nelle camere sotterranee di uno dei templi indù più antichi nello Stato meridionale del Kerala. Il tesoro, valutato all’incirca 9 miliardi di euro, è al momento al vaglio di una commissione di esperti che dovrà fissarne l’esatto valore e decidere cosa farne. Ma una battaglia legale rischia di fermare tutto. La scoperta è stata compiuta in 2 delle 6 camere interrate del tempio di Sri Padmanabhaswamy, che si trova a Thiruvananthapuram nel Kerala. Il tempio di Sri Padmanabhaswamy è dedicato a uno dei molti avatar di Vishnu, in questo caso al Vishnu nel suo sonno eterno. I membri della famiglia di Travancore sono considerati da sempre i protettori e i custodi del sonno del dio, che garantisce la sopravvivenza al pianeta. Ecco perché il sito è uno dei più ricchi di tutta la religione indiana. Le camere sono state aperte dopo un’ordinanza dell’Alta corte statale, che ha accolto una petizione presentata da un avvocato locale contro il Fondo fiduciario che da almeno 60 anni gestisce il luogo di culto e le sue ricchezze. Costruito nel 16mo secolo, infatti, lo Sri Padmanabhaswamy è sotto la sorveglianza e la gestione dei discendenti della famiglia reale di Travancore.
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La sua storia, però, è molto più antica: il sito dove si trova attualmente porta segni di costruzione umana databili all’ottavo secolo. La fondazione dell’attuale “gopuram”(luogo di culto) è del 1566: nel corridoio principale si trovano 365 sculture e una 366esima, di altezza pari a un quarto delle altre. Secondo alcuni storici si tratta di un calendario sullo stile di quello giuliano, che però non dovrebbe potersi trovare in quell’area come derivazione della cultura romana. Inoltre, nel sacrario si trova un dipinto murale che rappresenta il serpente che accoglie e difende il riposo di Vishnu. Se-
Nelle stanze interrate sono state trovate collane d’oro lunghe più di 5 metri, forzieri pieni di pietre preziose, vasellame tempestato di diamanti condo alcuni storici dell’induismo, questa raffigurazione è fondamentale: Anantha (o Adi Sesha) è sì una figura ricorrente nei dipinti e nei testi sacri dell’induismo ma la sua pittura in questo tempio è estremamente particolare. Rivolto con il muso verso l’alto, infatti, sembra voler odorare il loto che il dio tiene nella mano sinistra. E questo, spiega un baba, «significa che anche il serpente viene assunto nella posizione del suo padrone, e ne diviene parte». Ma Sundar Rajan, avvocato locale, ha chiesto all’Alta corte del Kerala di levare il tempio dalle mani degli eredi dell’ultimo maharajah, so-
ETERNO stenendo che non sono in grado di proteggere in maniera adeguata il tempio e i suoi tesori. La Corte ha emanato un’ordinanza per valutare le ricchezze del tempio, portando così alla luce il tesoro. Tra l’altro, diversi esperti “frenano” sul suo valore. Secondo il professore P. J. Cherian, direttore del Consiglio del Kerala per la ricerca storica, «alcuni pezzi sono molto antichi, altri meno. Non si può decidere quanto valgono in una notte». In ogni caso Uthradan Thirunaal Marthanda Varma, gestore del Fondo e ultimo erede maschio della famiglia reale, si è appellato alla Corte suprema contro l’ordinanza emessa dal Kerala citando una legge speciale che - dopo l’Indipendenza indiana garantiva agli ultimi reali alcuni privilegi connessi al loro status. Ma l’appello è stato respinto: oggi, secondo i giudici, «non esistono più reali. Siamo tutti cittadini». La parola maharaja viene dal sanscrito e significa “grande re”: nella storia arcaica dell’India, i maharaja erano coloro che regnavano sui grandi Stati, con una serie di piccoli reggenti sotto di loro.
Alla vigilia dell’indipendenza indiana del 1957, l’India – all’epoca comprensiva di Pakistan e Bangladesh – contava più di 600 Stati ereditari. Questi trattavano in maniera diretta con i dominatori dell’Impero britannico, che
avevano accettato di cedere loro un terzo del territorio nazionale con l’imposizione però di abolire i riti tribali e religiosi che – nell’Inghilterra vittoriana – erano visti come il fumo negli occhi. Fervente indù, l’ultimo a potersi fregiare legittimamente del titolo è stato Sawai Bhawani Singh. Morto alcune settimane fa, aveva accettato la possibilità di non celebrare riti legati all’uccisione di animali (o uomini) ma insieme al padre aveva continuato a onorare e portare avanti i canti e le tradizioni del suo popolo. Negli anni Ottanta era considerato un guaritore di grandissime capacità.
Oggi, la scoperta all’interno dello Sri Padmanabhaswamy riapre in India il dibattito sul ruolo di questi sovrani, ancora molto amati dalla popolazione. Nel caso del tempio, ad esempio, la Corte suprema si è tenuta lontana dal sequestrare o ordinare allontanamenti coatti dalla proprietà “reale”: gli ispettori hanno preferito nominare una Commissione di sette membri che hanno il compito di valutare le ricchezze e fare un puntiglioso elenco di quanto si trova chiuso in quelle camere da almeno 130 anni, quando furono aperte l’ultima volta. L’anima repubblicana dell’Unione si scontra infatti con le sue tradizioni ancestrali e con l’enorme sovrappopolazione del Paese, che renderebbe impossibile (in caso di applicazione democratica della gestione dei templi) la salvaguardia dei capolavori e dei tesori che difendono da secoli. Delhi si trova davanti a un bivio: vendersi l’anima o cercare di occidentalizzarla.