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La verità è un lusso

che non sempre ci possiamo permettere Xavier Wheel

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 20 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La Borsa di Milano prova l’ennesimo rimbalzo dopo il lunedì nero. E anche lo spread torna sotto 330 punti

Sos. L’Europa può morire I mercati “dipendono” dalla politica: e i governi Ue sono molto deboli Domani il vertice decisivo per trovare una soluzione alla crisi greca: gli investitori vogliono capire se l’Unione ha intenzione di salvarsi o continuerà a dividersi. Fino a un passo dal baratro Il magnate australiano si difende alla Camera dei Comuni

La confessione di Murdoch: «È il giorno più umiliante. Ma risorgeremo»

di Riccardo Paradisi a Borsa di Milano tenta il ribanzo, dopo l’ennesimo lunedì nero, ma il nodo del rapporto tra politica e mercati resta intricatissimo in tutta Europa, non solo in Italia. Da un lato perché la Ue non riesce a dare una risposta

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unitaria alla crisi greca e dall’altro perché gli speculatori si arricchiscono tenendo sotto scacco i governi. E domani, al vertice Ue, l’Europa rischia un altro «nulla di fatto». a pagina 2

C’è una sola via d’uscita dall’impasse del Vecchio Continente

Ora ci vuole solidarietà economica tra tutti gli Stati

Niente dimissioni (per ora). Il gruppo rilancia: «Riconquisteremo la fiducia che abbiamo perso»

Compartecipazione: così l’Unione si può risollevare tornando agli eurobond e alla lotta ai derivati

Francesco Pacifico • pagina 10

Chi è il possibile successore

Dal Messico all’Argentina

Chase Carey, il delfino arrota gli artigli

Tra tycoon e governi ora è guerra globale

di Antonio Picasso

di Maurizio Stefanini

rima di tutto mostratemi i soldi. Pare sia questo il leit motiv del direttore generale della News Corp, Chase Carey, successore in pectore di Murdoch in cima all’impero. Una carriera di altissimo livello sì, ma passata quasi sempre all’ombra della ditta.

l governo messicano contro Carlos Slim Helú, quello argentino contro Ernestina Herrera de Noble, quello thailandese contro Thaksin Shinawatra: quello tra potere e grandi trust dell’informazione è uno scontro mondiale. Quasi come qui in Italia...

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Rocco Buttiglione • pagina 4

La vera partita in gioco, l’opinione dell’economista Nicola Rossi

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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«Apriamo gli occhi: il nodo sono i costi del welfare» «È inutile continuare a prendersela con la speculazione, se non siamo in grado di ridurre certi privilegi»

NUMERO

Francesco Lo Dico • pagina 3 139 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 20 luglio 2011

la crisi dell’euro

il fatto Confronto sulla crisi: «Ci sono troppe disomogeneità» dice Salvati. Per Pombeni senza unità politico-culturale la Ue è finita

Il mercato aspetta l’Europa Domani vertice decisivo della Ue per risolvere la questione greca e per rispondere agli investitori che non si fidano più della politica

di Riccardo Paradisi lla vigilia del vertice dell’Eurozona – all’ordine del giorno la crisi greca e il rischio di speculazione su tutta l’area continentale – proseguono le trattative tra i governi europei e i creditori privati sul pacchetto di salvataggio per Atene. «Ci stiamo confrontando in modo costruttivo» dice genericamente il portavoce del ministro delle Finanze tedesco.

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La realtà è che sulla riunione di giovedì prossimo non è ancora stato trovato l’accordo sui termini dell’accordo e in particolare sul ruolo che dovrà svolgere il settore privato. Intanto si attenua la tensione sui titoli di Stato dei paesi europei mentre i mercati cominciano a recuperare dopo i ribassi di lunedì. Si attenua anche il differenziale di rendimento rispetto ai Bund della Germania che aveva sfiorato i recenti record. Non s’abbassa invece la temperatura del dibattito politico economico su destini e metodo della governance europea. Il presidente della Bce JeanClaude Trichet, ribadisce che deve assolutamente essere evitata una insolvenza sui pagamenti della Grecia. Nessun default selettivo dunque che pure era stato ipotizzato. «Un default, selettivo o meno, deve es-

i numeri Milano chiude a +1,9%. Anche lo spread torna sotto i 330 punti

Intanto la Borsa tenta il rimbalzo Risalgono i titoli bancari dopo il «lunedì nero» MILANO. La Borsa tenta di recuperare il terreno perduto. A Milano in apertura il Ftse Mib guadagna lo 0,52% a 17.9777 e il Ftse All Share lo 0,49% a 18.713 punti. Successivamente il Ftse Mib guadagna ancora terreno, attestandosi intorno a quota +2,14%. Giornata positiva, comunque, anche per i principali mercati europei. Gli indici sono sostenuti soprattutto dal recupero dei bancari. Le due big Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno guidato il comparto, con rialzi notevoli. Il dato è particolarmente significativo perché proprio le banche sono nell’occhio del ciclone e lunedì avevano fatto segnare i dati più negativi. Ieri, invece, è anche bene anche Mps che lunedì era stata la vera e propria maglia nera del comparto; e insieme a lei anche Banco Popolare, Ubi Banca, Mediobanca e Bpm, proprio nel giorno di una nuova delicata riunione del proprio cda. Non è però ancora arrivato il momento di festeggiare secondo gli analisti, che invitano alla cautela. L’Italia, secondo gli analisti, si trova di fronte a un «problema di solvibilità» di grandezza «differente rispetto a quello incontrato dai Paesi periferici» d’Europa. Tuttavia i livelli degli spread sono «chiaramente insostenibili, con la nota spirale ribassista tra il debito sovrano e il costo dei finanziamenti che mette sotto pressione la profittabilità del-

le banche». Nel frattempo, ha fatto segnare un nuovo record il prezzo dell’oro: la crisi del debito della zona euro e l’incertezza nell’economia Usa hanno spinto al rialzo la quotazione del metallo giallo che sui mercati asiatici è salito a 1.607,45. In rialzo anche la piazza di New York, dove ha toccato quota 1.610,70 dollari l’oncia.

Piccoli movimenti, poi, sui mercati dei cambi, dove l’euro è bloccato in una gamma ridotta, in un mercato reso plumbeo dai timori su entrambe le sponde dell’Atlantico per il debito sovrano. La divisa comune quota 1,4091 dollari contro 1,4058 di lunedì in chiusura. Contro lo yen, l’euro quota 111,39 da 111,19 e il dollaro 79,03 contro 79,09 di lunedì. Di conseguenza, si è allentata la pressione sui titoli si stato italiani. Lo spread tra i Bund tedeschi e i Btp decennali è sceso a 325,3, dopo il picco di 337 punti toccato lunedì. In apertura di giornata il differenziale Bund-Btp era 331,8 per poi cedere il 2,059%. Infine, è calato anche il valore dei Credit default swap (Cds) italiani, i contratti derivati che coprono l’acquirente di un’obbligazione dal rischio fallimento dell’emittente. Il certificato a cinque anni, che lunedì aveva toccato livelli record sopra i 320 punti, è sceso a 306 punti.

sere evitato. Chiediamo ai governi dell’Eurozona di trovare soluzioni appropriate il prima possibile». Quanto poi alla situazione degli altri Paesi europei sotto la pressione dei mercati, Trichet ha rassicurato: «Sono fiducioso che saranno in grado di rafforzare la loro credibilità». Da parte sua il governo greco fa sapere di non accettare una soluzione che porterebbe al default selettivo. Il ministro delle Finanze greco Evangelos Venizelos sostiene infatti che la Grecia si trova in un ”gradino di difficoltà” e non in un ”gradino di fallimento”: «Quello che noi chiediamo è la sostenibilità del debito e la validità di due condizioni: coprire le esigenze finanziarie della Grecia e garantire la liquidità del sistema bancario». Intanto dopo le mobilitazioni dei giorni scorsi oltre trentamila taxisti minacciano uno sciopero ad oltranza con il blocco delle principali arterie della capitale nel caso in cui il ministero delle Infrastrutture insista nella decisione di liberalizzare la professione. In questo stato di fibrillazione l’attesa maggiore è per quanto dirà Angela Merkel. Che cosa deciderà in merito alla Grecia? Il Cancelliere sostiene che è sbagliato chiedere misure estreme per risolvere la crisi del debito: «Non vi sarà nessun singolo passo spettacolare, non certo giovedì. Sono necessari


la crisi dell’euro

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l’intervista ROMA. «Le invettive non aiutano. Non è solo colpa dei mercati, ma degli Stati che hanno usufruito di certi meccanismi che adesso deprechiamo». Nicola Rossi, ex senatore del Pd passato di recente al Gruppo misto, è scettico. «Non c’è nessun mercatismo imperante», ci dice subito. Ma gli ultimi eventi che si sono verificati in Grecia, Portogallo, Irlanda e Italia, non sono ormai abbastanza per chiedersi se non sia giunto il momento di fermare gli assalti degli speculatori? Non è ora che la sovranità delle nazioni torni ai legittimi proprietari? Anche se è doloroso ammetterlo, la verità è che sistemi come quelli che hanno portato la Grecia al tracollo non sono sostenibili. Era impensabile poter andare in pensione con un assegno pari al 95 per cento dell’ultimo stipendio, così come trovarsi in presenza di un quarto della popolazione impiegata nel settore pubblico. I sacrifici richiesti alla popolazione erano inevitabili. Ma la manovra lacrime e sangue varata da Atene ha soltanto peggiorato le cose. È un brutto viatico per l’Italia. Gli interventi varati dalla Grecia produrranno risultati soltanto tra qualche tempo. Nell’immediato perdura una grande sofferenza derivante da anni e anni di squilibri macroeconomici che certo non si cancellano di colpo, proprio come in Italia, dove spese e sperperi non sono mai stati rivisitati a passi controllati che affronteranno la radice del problema: la riduzione del debito e la crescita della competitività».

Ma sulla Merkel arrivano pressioni anche dall’interno. La Federazione delle industrie tedesche ritiene sia necessario ridurre l’ammontare del debito greco a un livello sostenibile mentre l’ex cancelliere Helmut Kohl giudica il comportamento della Merkel «molto pericoloso» per tutta l’Unione europea. L’Fdp, uno dei partiti di coalizione della maggioranza sostiene addirittura che la Germania dovrebbe caldeggiare l’uscita temporanea della Grecia dall’euro per permettere alla sua valuta di svalutarsi. «Siamo alla riprova del rovescio di quanto sosteneva Jean Monnet – dice Paolo Pombeni docente di Storia dei sistemi politici europei nella Facoltà di

«La finanza sfrutta la burocrazia» «Altro che speculazioni, è colpa degli sprechi pubblici», dice Nicola Rossi di Francesco Lo Dico favore di una vera efficienza, e di una razionalizzazione capace di tagliare ciò che è davvero superfluo. Non crede che sarebbero scese meno lacrime e meno sangue, se le grandi banche americane avessero venduto alla Grecia meno derivati? Usare il metro della morale è in queste circostanze poco utile, e l’obiezione coglie solo una parte del problema. Se è vero che una larga fetta di mercato opera da anni al di fuori di ogni controllo, è altrettanto vero che una certa maniera di fare finanza è stata accettata perché ha consentito a molti Paesi di vivere al di sopra delle loro reali possibilità. Ci spieghi meglio. È un fatto molto evidente negli Stati Uniti, dove la crisi continua a rimordere a tre anni di distanza dalla sua esplosione. Gli Usa hanno tropiacevole vato mantenere certi standard di vita cfinanziati da debiti contratti con la Cina. In una situazione di mercato normale, la valuta cinese si sarebbe apprezzata. Ed è normale che gli Stati sovrani continuino a consentire che agenzie di rating in palese conflitto di interesse orientino i mercati con i loro famosi giudizi?

Nel caso in cui venisse dimostrato il conflitto di interessi, gli Stati dovrebbero pensare a misure cautelative. Fino a poco prima che la crisi esplodesse nel 2008, le agenzie di rating davano una tripla “A”a molti titoli tossici e premiavano con giudizi lusinghieri banche come Lehman Brothers. Non era sufficiente come dimostrazione? Il problema non è che ci sono le agenzie di rating, ma che ce ne sono troppo poche. Bisognerebbe metterne in campo molte di più affinché venissero premiate quelle efficienti e credibili e penalizzate invece quelle che operano in palese regime di violazione del conflitto d’interessi. Dovrebbero essere i mercati a sanzionare i cattivi servizi e premiare quelli virtuosi. Il problema è che i mercati sono rimasti tali e quali e non ha pagato nessuno, né sono sorte nuove regole. Visto che la manovra non aiuta la crescita, ma

la deprime, insisto: non faremo le fine della Grecia? Che ce lo chiedesse l’Europa, o il mercato, intervenire sulla spesa pubblica era necessario. Nel nostro caso si è però proceduto a tagli orizzontali indiscriminati perché il ministro dell’Economia ha pagato la debolezza di una maggioranza in affanno. La verità è che né il centrodestra né il centrosinistra

Scienze politiche dell’Università di Bologna. Monnet diceva: «Quando avremo fatto l’unione economica verrà anche quella politica». Ebbene abbiamo da anni la moneta unica ma l’unione politica tarda ad arrivare. «Non abbiamo un organismo in grado di decidere, di stabilire una strategia internazionale, di coinvolgere e far sentire partecipe la popolazione delle scelte. Nessuno o quasi ha lavorato a questo fine. L’Europa resta un’astrazione di fronte alla durezza d’una crisi economica che come riflesso condizionato produce il rinserrarsi delle nazioni in se stesse». In un recente saggio, L’Europa di carta (Il Mulino) Pombeni ha fatto un’analisi approfondita delle tendenze della grande stampa di Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Austria, Belgio e Russia, ripercorrendo i dibattiti e le polemiche che hanno

percorso quelle opinioni pubbliche in un periodo denso di tensioni generate dalla grande crisi economico-finanziaria della prima metà dell’anno.Una situazione segnata dall’ansia e dalla paura in cui ognuno tende a chiudersi. «Per tirare fuori le psicologie individuali e colletti-

ma non abbiamo una sovranità europea». Ma il guado è pericoloso: «qui si intrecciano migliaia di paure. Si pensi da un lato alla posizione della corte costituzionale tedesca, un fenomeno orientato in senso conservatorie verso lo sviluppo di poteri sovranazionali e dall’al-

avrebbero avuto oggi la forza necessaria a varare riforme economiche vere: liberalizzazioni e revisione dei costi conseguente a una seria operazione di spending review. È peccato mortale pensare che gli Stati Uniti stiano tentando di scaricare sui Paesi più deboli dell’Europa parte dei costi della recessione? Non mi convincono le tesi di pochi uomini riuniti attorno a un tavolo in una misteriosa camera d’albergo. L’Italia è debole. Neanche l’Europa potrebbe tentare di dare una stretta a certi meccanismi di finanza creativa che somigliano al gioco d’azzardo? La sensazione è che all’Europa abbia fatto difetto la volontà di esprimere una leadership forte. Ci si è affidati a personaggi poco influenti, in grado di incidere poco, nell’idea di attuare soluzioni che arrecassero sempre il minor disturbo possibile. Invece sarebbe ora che l’Unione decidesse che cosa vuol fare da grande.

«ll problema non è che ci sono le agenzie di rating, ma che ce ne sono poche. Spetterebbe ai mercati punire i cattivi servizi e premiare quelli virtuosi»

Per il presidente della Bce Trichet deve essere evitata un’insolvenza sui pagamenti greci. L’ex cancelliere Kohl giudica il comportamento della Merkel « pericoloso» per tutta l’Unione europea ve da questo stallo ci vorrebbero dei leader carismatici che non ci sono. La Merkel per prima non sembra avere la forza di convincere il suo Paese a fare sacrifici oggi per avere una situazione migliore domani». La realtà è che l’Europa è stata lasciata nel guado: «abbiamo delegato la sovranità nazionale

tro e per converso allo sbilanciamento di potere delle commissioni europee sul Parlamento della Ue». Insomma prima d’essere economico il problema dell’Europa è politico. «Gli americani ce l’avevano detto che non c’erano le condizioni per un unione monetaria – dice l’economista

Michele Salvati – Non c’era una lingua comune, un mercato del lavoro unico all’interno del quale le persone potevano spostarsi e ricollocarsi, che è quello che appunto avviene in America. Oggi siamo a un punto di svolta. La questione greca non è la prova decisiva, è un problema che potrà essere superato. Ma se a entrare nella sfera critica dopo la Grecia sarà anche la fascia euromediterranea, se anche l’Italia insomma dovesse seguire quella strada, a saltare stavolta sarebbe l’euro. Il problema per l’Italia oggi è come combinare insieme bilanci in ordine e un poco di crescita. Per il resto d’Europa invece la sfida è quella di creare delle pubbliche amministrazioni e dei sistemi politici dove si interiorizzino i vincoli d’appartenenza all’euro. Non è un’impresa facile». L’Europa s’è lasciata il futuro alle spalle?


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la crisi dell’euro

Sul tavolo ci sono tre idee da recuperare: gli eurobond, la tassazione delle transazioni bancarie e la lotta ai derivati

Compartecipazione

L’unica via d’uscita alla crisi europea è la solidarietà economica tra gli Stati sia per gestire il debito sia per puntare al rilancio: solo questa “rivoluzione” può fermare la speculazione sull’euro mercati sono in tempesta e la manovra italiana è già stata bocciata. Il differenziale fra il rendimento del debito pubblico italiano e quello tedesco è rimasto inalterato e si colloca circa a 3.3 punti. Questo vuol dire che lo Stato italiano paga sui propri debiti più del doppio di quello che lo Stato tedesco paga sui propri. Il primo interesse dell’Italia è ridurre l’ammontare degli interessi che paga sul suo debito e questo si ottiene diminuendo la quantità del debito e anche (soprattutto) diminuendo il tasso di interesse che paghiamo sul debito. E questo ci riporta al tema della fiducia dei mercati. Perché i mercati non si fidano dell’Italia? Il debito pubblico italiano è molto elevato, ma questa non è una novità. Negli ultimi anni, anzi, il nostro debito è cresciuto meno di quello medio europeo. La differenza fra il nostro debito pubblico e quello degli altri paesi dell’area euro non è aumentata, anzi è diminuita. La crisi attuale non è il risultato (con l’eccezione della Grecia) di un

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di Rocco Buttiglione eccesso di debito pubblico ma di un eccesso di debito privato di cui lo Stato ha dovuto farsi carico. L’Italia non ha un eccesso di debito privato e le banche italiane sono più solide di quelle dei nostri vicini. Perché allora la speculazione si accanisce sull’Italia? Le ragioni sono due, una di lungo periodo e l’altra di breve.

Nel breve periodo i mercati non si fidano di Berlusconi. Non si fidano per ragioni di carattere generale che non sto a ripetere ma anche per errori recenti. Dopo le elezioni locali Berlusconi ha detto chiaramente di voler diminuire le tasse per riguadagnare il consenso perduto. Questo ha allarmato e irritato i mercati che hanno visto compromessa la politica di rigore impersonata da Tremonti. Rispetto a quella posizione in realtà Berlusconi non ha fatto passi indietro. Nei momenti più difficili ha taciuto e ha lasciato fare il Capo dello Stato secondato da Tremonti e Letta.

In questo modo forse conserva un residuo contatto con il suo elettorato di riferimento ma compromette la credibilità della manovra agli occhi dei mercati. I mercati sono allarmati anche per un’altra ragione, che io ho tempestivamente segnalato dalle colonne di questo giornale già da diverso tempo. Il paese non cresce e un paese che non cresce nel lungo periodo non può ripagare il suo debito. Abbiamo biso-

L’Italia ha due problemi: la credibilità e una strategia per la crescita

gno di affrontare con energia il problema del deficit di produttività dell’Italia. Questo vuol dire ridurre energicamente le spese (e non basterà cancellare gli sprechi) per investire in ricerca e sviluppo, in infrastrutture materiali ed immateriali. E anche per quello che riguarda il debito è necessaria qualche iniziativa straordinaria per riportarlo rapidamente sotto il 100%. Questo non solo diminuirebbe la quan-

tità di debito su cui si pagano interessi ma soprattutto abbatterebbe drasticamente i tassi di interesse creando i margini necessari per investire pesantemente sullo sviluppo. Per fare tutte queste cose è necessario un governo fortissimo, non ricattabile da parte delle lobbies, capace di fare vere liberalizzazioni: un governo di grande coalizione.

La crisi italiana, naturalmente, si inserisce nel quadro più vasto della crisi europea. La debolezza politica dell’Italia ha attirato contro di noi la speculazione, ma la speculazione non l’ha fatta nascere Berlusconi. Essa è il risultato del sommarsi della crisi greca, della crisi portoghese, della crisi irlandese e della crisi spagnola oltre che della crisi italiana. La prima risposta dell’Unione Europea è stata una rete di salvataggio misurata, anche quantitativamente sulla Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna. L’Italia è circa un sesto dell’economia europea; non c’è rete di sostegno che basti e se cades-


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Il dramma collettivo di Atene raccontato da politologi e intellettuali

Intanto la Grecia indignata non crede più alla politica

Mentre prosegue stancamente la protesta di piazza Syntagma è l’intera classe dirigente ad essere messa sotto accusa dai cittadini di Nicola Accardo

ATENE. Capo Sounion, punta meridionale dell’Attica. Il tempio di Poseidone si staglia contro il mare, regna nel cielo azzurro dell’estate. Una giovane coppia urla e si agita mentre i turisti assistono attoniti. «Come si permette, siamo greci, non dobbiamo pagare per il nostro patrimonio!», gridano all’addetta ai biglietti, che cerca invano di difendersi. Lui si allontana con passo nervoso, lei ottiene l’omaggio con una carta universitaria: «Il ministero della Cultura ha confiscato ettari di terra alla mia famiglia – spiega -, dicevano che c’erano reperti ma non hanno mai iniziato i lavori. Sono tutti corrotti!». Lo sconforto è totale, nella Grecia che si piega alle richieste dell’Europa. La fiducia nelle istituzioni è inesistente, nella Grecia che si indebita ancora di più, a tassi di interesse sempre più alti, sicura nel suo animo di non poter rimborsare un Euro, o meglio una dracma. «Non ci resta che fare come l’Argentina – spiega Aris Chatzistefanou, co-autore del documentario Debtocracy – abbiamo bisogno della nostra notte magica!». La notte magica sembra arrivare da un momento all’altro, in Piazza Syntagma. È la notte in cui – nei sogni o nelle previsioni di molti – il primo ministro va via in elicottero, lo stato Greco sceglie la via del default e dice addio all’Euro, come fece l’Argentina con il dollaro (all’epoca c’era il cambio fisso con il peso) nel 2002, disobbedendo alle richieste dell’Fmi. Eppure il caldo non sembra aiutare, i giorni non sono propizi. L’afa rallenta i greci, esaspera gli animi e scoraggia i più disperati. Il record di suicidi di disoccupati e commercianti in bancarotta ne è una dimostrazione. Per avere un quadro ancora più desolante, basta inoltrarsi nelle vie che circondano la Piazza Omonia, tra le panchine dove i tossicodipendenti si stravaccano con la testa all’indietro e la bocca aperta, rischiando la disidratazione. Una spacciatrice minuta dal viso invecchiato cerca di svegliarli, dà ordini a destra e a sinistra, controlla il territorio indisturbata. Tanto le forze dell’ordine sono impegnate un chilometro più a nord, nell’unica piazza d’Europa in cui resistono ancora gli “indignati”, l’ultima meteora dell’opinione pubblica ai tempi del web. I poliziotti si nascondono dietro le siepi, ai lati dell’entrata del monumento al Milite

ignoto, dove le folkloristiche guardie in tutù si danno il cambio. Perfino per i turisti c’è una linea di sicurezza da non superare. Rigorosamente in assetto antisommossa, gli agenti temono la degenerazione di fine giugno, quando agli“arrabbiati” venne in mente di assediare il Parlamento, e che finì con 270 feriti e 15 arresti. La piazza Syntagma è divisa in due. La parte oltre la scalinata, più vicina al Parlamento, è riservata ai manifestanti di destra. Sono pochi in queste serate di luglio:

Ormai il sogno è un fallimento pubblico «pilotato» come quello già sperimentato dall’Argentina soprattutto ragazzini che urlano cori da stadio. Scendendo le scale, si arriva al campeggio e agli atelier, e soprattutto all’Assemblea Generale degli indignati. Per lo più di sinistra, ma soprattutto senza un partito. Cittadini di ogni età che si riuniscono da 50 giorni senza un leader o un portavoce, e sperano in una rivoluzione ispirata dall’antichità.

«Io penso che il movimento di Piazza Syntagma abbia perso credibilità dopo gli scontri con la polizia», spiega il politologo Nicos Raptis. «I manifestanti pacifici sono stati traditi dai violenti, gli indignati non hanno saputo calcolare i rapporti di forza.Troppo poche 2.000 persone per circondare il Parlamento, gli anarchici hanno avuto gioco facile nel creare disordine». Per Chatzistefanou, invece, si è trattato dell’ennesimo atto di ribellione contro lo Stato, «e quella violenza legale di cui i poliziotti han-

no il monopolio». Molte organizzazioni come Amnesty International sono in effetti intervenute per denunciare la brutalità delle forze dell’ordine: «Hanno usato 2.800 riserve di lacrimogeni, scatenando violenze più gravi. È sbagliato distorcere la realtà dando la colpa esclusivamente a un gruppo di anarchici, come successe nel 2008». Il dato di fatto è che la partitocrazia greca è arrivata al capolinea. Tre famiglie si sono succedute al potere (Papandreu padre e figlio, Karamanlis zio e nipote), i due partiti principali perdono sempre più consensi: vale sia per il Pasok al governo che per la Nuova Democrazia, imperterrita nel non voler collaborare con la maggioranza nonostante la crisi. Gli altri, stanno fuori dai giochi. «Noi giovani non abbiamo nessun riferimento politico», spiega Sotiris Mitralexis, appena 23 anni, ma già affermato in un’emergente scena di giovani intellettuali. Si riuniscono nel quartiere di Exarheia, il vecchio quartiere degli anarchici, in bar alla moda e ristoranti rinomati. «Dalla blogosfera ci ritroviamo in quei loghi, ma non siamo dei rivoluzionari: parliamo di ritorno all’identità greca, di religione e valori tradizionali». Nel suo primo libro Sotiris si concentra sul concetto di “metapolìtefsi”, il cambiamento di regime: «termine adottato per il passaggio dalla dittatura alla democrazia nel 1974 e oggi ancora più attuale, perché è necessario passare dall’attuale oligarchia a una reale democrazia parlamentare». Ma come avverrà il cambiamento? Tra gli elettori c’è chi spera in nuove elezioni e in un fenomeno mai avvenuto: più del 50% di schede bianche e conseguente azzeramento dei partiti politici, previsto dalla Costituzione. Chi, come Chatzistefanou, auspica una nuova Argentina. Nicos Raptis pensa alla fine dei regimi comunisti: «Può esserci un’insurrezione cieca come in Romania, o una rivoluzione progressiva come in Polonia».Ai partiti si imputa la responsabilità della corruzione galoppante, delle spese incontrollate, gli accordi con pochi grandi industriali, la clemenza verso gli evasori e la connivenza con ambienti mafiosi. «Qui la separazione dei poteri non esiste, potremmo paragonarci alla Russia di Putin», aggiunge Raptis. «Questa democrazia funzionava su delle basi che ora sono saltate, è l’ora del cambiamento».

se l’Italia con ogni probabilità cadrebbe anche l’euro. Per questo la speculazione guarda l’Italia con un interesse particolare, perché l’operazione vera è fare saltare l’euro. La responsabilità di agire tocca qui non solo all’Italia ma soprattutto all’Europa. Non facciamoci illusioni: l’iniziativa europea non può liberarci della necessità di affrontare noi i nostri problemi. I nostri sforzi, tuttavia, non avranno successo fuori di una forte e coerente politica dell’unione e, anche, fuori di una iniziativa globale, come globale è la crisi.

Subito dopo il primo crollo dei mercati sono state proposte analisi penetranti ed anche misure difficili ma anche capaci di affrontare i problemi alla radice. Poi non si è fatto nulla e ci si è limitati a rimedi superficiali. Si è parlato di una tassa sulle transazioni bancarie, così lieve da non essere avvertita dagli operatori comuni, abbastanza alta da costituire un ostacolo forte alla raccolta di capitali per operazioni meramente speculative. L’idea è stata proposta da Angela Merkel e da Sarkozy, è stata recepita da Barroso ma poi è stata lasciata dormire. Bisogna riprenderla. Si parlò anche della opportunità di vietare i derivati (cioè i contratti di assicurazione) per rischio altrui. Se fai un mutuo è giusto che ti assicuri, ma non puoi scommettere sul fatto che il tuo vicino non riesca a pagare il mutuo suo. Anche questa idea è stata avanzata e poi abbandonata. Bisogna riprenderla. Molti paesi soffrono della sfiducia dei mercati e pagano tassi di interesse molto elevati, fino al 18 per cento (Grecia). Se si apre un debito pubblico europeo finanziato con eurobond, gli eurobond possono essere comprati dal mercato con tassi di interesse ridotti. Con il ricavato diventa possibile comprare titoli dei paesi in difficoltà. Ci si indebita a poco e si comprano invece titoli che rendono molto di più. L’Unione non mette dei soldi, mette la sua credibilità. Per farlo, però, deve trattare con i singoli stati sulle loro politiche di risanamento di bilancio e sulle loro politiche di sostegno alla competitività. Questo configura una politica economica comune su basi volontarie. A questa politica saranno tenuti in modo più stringente gli stati che chiedono di essere coperti dall’ombrello degli eurobond. Quelli che avranno bisogno di tale copertura godranno di margini di autonomia più ampi. Questi però saranno almeno in parte ristretti proprio perché, per non avere bisogno di sostegni, si sarà comunque obbligati ad adottare politiche virtuose.Tutte le cose dette implicano un rilancio della politica e dell’ideale europeo. Se vogliamo evitare il disastro dell’euro (e dell’intero progetto europeo) dobbiamo prendere il coraggio a due mani ed andare avanti.


diario

pagina 6 • 20 luglio 2011

È morto a Roma Boris Biancheri

Fantozzi si dimette contro il governo

ROMA. È morto a Roma Boris Biancheri. Lunga la sua carriera diplomatica, cominciata nella seconda metà degli anni ’50, durante la quale è stato ambasciatore italiano a Tokyo, a Londra e a Washington. Per il ministero degli Esteri, Biancheri ha ricoperto l’incarico di direttore generale del personale e di direttore generale degli Affari politici. Tra il 1995 e il 1997 è stato segretario generale del Ministero. Dopo la fine della carriera diplomatica, Biancheri è stato presidente dell’Istituto per gli studi di politica internazionale. Dal 1997 al 2009 ha ricoperto l’incarico di presidente dell’Ansa e, dal 2004 al 2008 è stato presidente della Federazione italiana editori giornali. Aveva 80 anni.

ROMA. Augusto Fantozzi si dimette per protesta contro il governo. Il commissario straordinario di Alitalia (per la parte della società in amministrazione controllata) ha rassegnato le dimissioni dall’incarico ritenendo «che sia venuta meno la fiducia del governo nei suoi confronti». La ragione di questa scelta è nella manovra approvata dalle Camere e che contiene misure che riguardano le procedure di amministrazione straordinaria delle imprese. In particolare, l’esecutivo può integrare con due ulteriori commissari gli organi commissariali monocratici delle imprese in amministrazione straordinaria che si trovino nella fase di liquidazione e nelle quali sia avvenuta la dismissione dei compendi aziendali.

L’Etna incenerisce il cielo di Catania CATANIA. Una rapida intensificazione dell’attività stromboliana dell’Etna ha portato, a causa dell’emissione di gas e cenere, spinta dal vento verso est, alla chiusura temporanea dello spazio aereo dell’aeroporto di Catania, che è stato riaperto solo nella mattina di ieri seppur con un numero di movimenti orari limitato. Dal cratere posto sul fianco orientale del cono del Cratere di Sud-Est si sono alzate delle fontane di lava alte 200-250 metri, con fortissime ricadute di brandelli lavici sui fianchi del cono che circonda il cratere. Si sono formate alcune colate laviche generate dalla ricaduta di materiale incadescente, la più grande delle quali ha raggiunto la base meridionale del cono.

Reguzzoni annuncia la posizione sulla richiesta della procura di Napoli contro il deputato pdl: «Ma lasciamo libertà di coscienza»

Maggioranza divisa sui rifiuti

La Lega: no al trasferimento in altre Regioni. Poi conferma su Papa: ok all’arresto di Marco Palombi

L’ultima via d’uscita per Alfonso Papa, per evitare oggi la conta alla Camera sul suo arresto, sembra essere quella delle dimissioni. Il «consiglio» gli viene anche da Adolfo Urso: «Auspico che l’onorevole Papa faccia un passo indietro e si dimetta come ha fatto il senatore Di Girolamo, evitando così che la Camera debba pronunciarsi. Se non lo farà, voterò a favore del suo arresto»

ROMA. Lo spettacolo che va in scena a Montecitorio è ormai il solito: la maggioranza non esiste più. Ieri la materia del contendere era il decreto rifiuti, oggi sarà la richiesta di arresto per Alfonso Papa (anche se nella prima serata di ieri Reguzzoni ha anticipato che la Lega «voterà sì ma con libertà di coscienza). La sostanza però resta la stessa. In realtà, cosa che dovrebbe preoccupare assai Silvio Berlusconi, è la Lega a non esserci più: qualcuno che tornasse oggi da un lungo viaggio farebbe fatica a riconoscere nella sparsa accozzaglia col fazzoletto verde nel taschino il partito-caserma di qualche tempo fa. I lumbard – e in testa il loro capo, Umberto Bossi – non hanno una strategia, non sanno dove andare né perché, eventualmente, andarci. La plastica visione di come sia ridotto il Carroccio e, con lui, il centrodestra che vinse le elezioni del 2008, è quanto successo ieri proprio sulla vicenda dei rifiuti campani.

La situazione è comica, se non fosse per il fatto che Napoli nel frattempo è sommersa dall’immondizia, dalla rabbia e dai fumi dei roghi notturni. Il testo che andava ieri al voto dell’aula della Camera era stato messo insieme dal governo per dribblare una sentenza del Tar che proibiva alla Campania di portare i suoi rifiuti fuori regione: i padani però, i cui ministri votarono contro il decreto in Cdm, avevano preteso che nel testo fosse presente una “clausola di salvaguardia”che lasciava ai singoli governatori la scelta se accogliere o no la “munnezza”. Accade, nel frattempo, che il Consiglio di Stato annulli la sentenza dei giudici amministrativi e dunque quel divieto di portare i rifiuti fuori dai confini regionali: i parlamentari campani di maggioranza, a quel punto, chiedono di cassare dal testo la clausola voluta dalla Lega. Apriti cielo. I padani si impuntano e, nonostante numerose riunioni e l’impegno diretto del ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, non si riesce a tro-

vare una soluzione per andare avanti. Unica strada: rinviare il testo in commissione per un “approfondimento”. In sostanza, un rinvio. La richiesta, poco prima di votare, la avanza il relatore Agostino Ghiglia (Pdl): serve un supplemento di riflessione, dice, «alla luce dell’ordinanza del Consiglio di Stato» e per «un ulteriore passaggio in conferenza Stato-regioni». La richiesta viene messa ai voti e l’aula la boccia, probabilmente col concorso dei berlusconiani “napoletani”. Il decreto – che scade il 30 agosto e deve essere ancora esaminato dal Senato - resta in aula e si dovrebbe cominciare a votarlo (l’approvazione definitiva era prevista per oggi). Neanche per sogno: prima quella che fu la maggioranza deve riu-

nirsi ancora per decidere il da farsi e quindi si fa auto-ostruzionismo parlando a raffica. Mentre ancora il centrodestra annaspa, prende la parola in aula Walter Togni, primo leghista ad intervenire sul provvedimento: «In Consiglio dei ministri abbiamo votato contro questo decreto legge: si presume che i gruppi parlamentari manterranno la stessa posizione». Gli fa eco Manuela Lanzarin: «È l’ennesimo decreto che non risolve l’emergenza». Bisognerà uscirne e in qualche modo si farà: rinviando il voto o ritirando il decreto, ancora non è chiaro mentre chiudiamo il giornale.

Al di là dei motivi propagandistici per cui la Lega si oppone o fa finta di opporsi al decreto rifiuti, c’è un ingorgo istitu-

zional-parlamentare a scatenare le extrasistole del centrodestra. Oggi, infatti, l’aula dovrà esprimersi sulla richiesta di arresto per l’ex magistrato e oggi deputato eletto col Pdl, Alfonso Papa, invischiato nell’inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani e accusato di concussione, estorsione e rivelazione di segreto. Lui si dice tranquillo, sostiene che andare in carcere è l’ultimo dei suoi problemi, ma evita accuratamente di dimettersi come gli ha consigliato non solo il presidente della Giunta per le autorizzazioni, il democratico Pierluigi Castagnetti, ma anche un alleato del centrodestra come Francesco Storace. Silvio Berlusconi, com’è noto, ha dato mandato al suo gruppo parlamentare di difendere il collega fino alla morte: se


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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Fini ricorda Borsellino: «Ora i partiti facciano pulizia»

Direttore da Washington Michael Novak

PALERMO. «I partiti devono fare pulizia al loro interno». È il monito lanciato da Gianfranco Fini, alla commemorazione della strage di via d’Amelio, organizzata dall’Anm di Palermo nell’aula Magna del Palazzo di giustizia. A 19 anni dalla morte di Paolo Borsellino, il presidente della Camera ha invitato i partiti a un maggior impegno per allontanare le figure sospette dalle loro fila «e per ridare dignità alla politica» che, ha aggiunto Fini, «non può servire da salvacondotto». Il ricordo degli uomini morti sul fronte della giustizia deve servire da impulso: «La memoria deve infondere coraggio - ha detto Fini -. Significa proseguire l’opera di chi ha sacrificato la vita per lo Stato, continuare a cercare la verità sul passato e sul presente perchè il diritto a conoscere non può andare in prescrizione». Mentre procede il dibattito politico, l’inchiesta sulla strage sembra compiere un passo avanti verso la verità. Si dovrebbe però

e di cronach

Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

parlare di almeno «due verità possibili» e di almeno un tentativo di depistaggio. Come emerge dalle indiscrezioni che trapelano dalla Procura di Caltanisetta, che sta conducendo l’ultima inchiesta sull’uccisione del magistrato e dei cinque agenti di scorta. Sullo sfondo, come unica certezza, resta la pista della trattativa, l’accordo tra Stato e Mafia che il braccio destro di Giovanni Falcone, ucciso pochi mesi prima, avrebbe scoperto alla fine di giugno 1992.

Da sinistra, Berlusconi, Bossi e il senatore Pd Tedesco. A fianco, il deputato del Pdl Alfonso Papa

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747

passa la richiesta per Papa, le Procure si scatenano e ci cancellano, è la teoria del premier. Per questo il partito del predellino sarà schierato come un sol uomo per il no, tanto che il capogruppo Fabrizio Cicchitto ha già inviato un sms che precetta tutti per l’aula: «Votazioni molto delicate. No a missioni e impegni esterni». Un gruppo tra Pdl e Responsabili sarà probabilmente quello che oggi, sull’arresto di Papa, chiederà il voto segreto per intercettare i “garantisti” dell’opposizione.Tutto questo attivismo potrebbe però non bastare visto che questa Lega senza bussola, al momento di andare in stampa, non ha ancora sciolto la riserva: Sì? No? Astensione? Chissà.

Bossi, con le sue giravolte dell’ultima settimana, si è tenuto aperte tutte le strade: “In galera”, dice un giorno; “a nessuno possono essere messe le manette prima del processo”, sosteneva quello dopo; dovremmo votare no, ma forse voteremo sì, quello dopo ancora. «Decide il capo – diceva ieri il capogruppo Marco Reguzzoni – L’unica cosa certa è che non chiederemo noi il voto segreto». Poi invece la conferma: «Non chiederemo il voto segreto e se lo scrutinio sarà palese la mia indicazione ai deputati sarà di votare a favore dell’arresto, pur mantenendo, ovviamente, libertà di coscienza». Scelta non difficile visto che se l’orientamento fosse quello di “salvare”Papa la Lega perderebbe per

Intanto Napoli rimane sommersa dall’immondizia, dalla rabbia, dalle proteste e dai fumi dei roghi notturni strada più di mezzo gruppo parlamentare. Il problema, per Umberto Bossi, è che dopo l’ex magistrato si voterà su Marco Milanese, in un’inchiesta che mette indirettamente sotto accusa anche Giulio Tremonti,“un amico e un uomo perbene”, l’ha benedetto il senatur nel week end. Siccome nel Popolo della libertà più di qualcuno è orientato a “fottere” l’ex potente braccio destro del ministro dell’Economia, il capo leghista non sa che pesci prendere ed è tentato dallo scambio alla pari: all’ingrosso “io libero Papa, voi liberate Milanese”.

E qui si viene al tema politico centrale. Più va in fibrillazione la base che ne ha abbastanza dell’alleanza con Berlusconi, più vanno in fibrillazione quelli che pensano la stessa cosa tra

gli eletti, raccolti attorno a Roberto Maroni. Il ministro dell’Interno e i suoi (una quarantina di deputati su 59) vorrebbero far arrestare l’uomo di Bisignani e non gli dispiacerebbe nemmeno mandare al fresco Milanese, visto che Tremonti non è proprio il miglior amico di Maroni nel demi-monde leghista. Meglio lasciare libertà di coscienza, è la tesi dei cosiddetti “maroniani”, che per la caccia grossa aspettano però che arrivi in aula la mozione di sfiducia contro il ministro ex Udc Saverio Romano: nessun indagato per mafia può restare al governo, pensa l’uomo del Viminale, un po’ perché permetterlo sarebbe in contraddizione col mio lavoro contro Cosa Nostra di questi anni, un po’ perché queste cose ci fanno perdere voti al Nord.

La situazione, dunque, è ingarbugliatissima, ma almeno eviterà di incrociarsi in uno spiacevole gioco di ricatti con la vicenda di Alberto Tedesco, la cui richiesta di arresti domiciliari giaceva in Senato da mesi dopo un primo sì della Giunta competente: il Pd, nelle cui fila è stato eletto il senatore, ha chiesto e ottenuto che sulla faccenda si voti proprio oggi. I democratici hanno già detto sì all’arresto in giunta e non dovrebbero quindi esserci sorprese: a meno che il centrodestra non si faccia prendere dalla sua ossessione compulsiva nel dare torto ai pubblici ministeri.

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è una frase che Remo Gaspari ripeteva negli ultimi tempi. Eccola: «Il futuro richiede qualità e intelligenza, bisogna essere bravi, non c’è spazio per i mediocri, difatti i mediocri si rifugiano nella politica che viene trasformata in un mestiere». Rivelatrice. Eppure, Remo Gaspari, il ras abruzzese - come lo definisce Indro Montanelli nella sua Storia d’Italia non fece della politica proprio un mestiere? Proprio qui è il punto cruciale: se vogliamo capire davvero chi è stato “zio Remo”dobbiamo almeno provare a liberarci dalla vulgata più volgare che lo vedeva come un forchettone democristiano tutto dedito alla chiesa di partito e alla cura delle anime elettorali del suo collegio. Perché Remo Gaspari è stato prima di tutto uno di quelli che una storica come Gabriella Gribaudi chiama “i mediatori”.Trovandosi tra centro e periferia, tra la città e la campagna, tra Roma e i comuni, collocandosi strategicamente nel cuore dell’Italia, il mediatore Remo Gaspari seppe coltivare il suo collegio elettorale come forse nessun’altro mai, ma fu un “mediatore positivo” che contribuì in modo decisivo alla crescita della sua terra d’Abruzzo.

C’

Nato a Gissi il 10 luglio del 1921 iniziò la sua lunga avventura politica dopo essersi laureato in giurisprudenza: si iscrisse alla Democrazia cristiana nel 1945. Eletto deputato per la prima volta nel 1953 fu sempre rieletto fino al 1992. Fedele alla Dc fino alla sua fine e oltre: votò contro lo scioglimento del partito di Alcide De Gasperi. È stato ministro per i rapporti con il Parlamento, delle Poste e telecomunicazioni, della Funzione Pubblica, della Difesa, del Coordinamento della protezione civile e degli Interventi straordinari per il Mezzogiorno. In totale, ministro per ben sedici volte (e un miriade di incarichi di ogni tipo per i quali la ricostruzione ci porterebbe via lo spazio del pezzo, pur lungo). Forse, un record. Il suo impegno per il suo collegio elettorale e per la sua “gente” è diventato ben presto proverbiale. Tanto che non c’è libro di storia o di politica che non lo citi e lo indichi come modello, negativo o positivo. Uno a caso: Democristiani di Antonio Ghirelli. Dice il giornalista napoletano, parlando niente meno che di Giulio Andreotti, che la pratica del voto di scambio era cosa normale e tuttavia non truffaldina e impiantata sulla corruttela, bensì sul piccolo favore, la pratica sveltita, la raccomandazione efficace, il sussidio tempestivo, la visita di conforto a domicilio. Poi c’è un rapporto clientelare più serio e impegnativo che punta alla promozione dello sviluppo economico della zona e in questo senso - ecco il punto e il modello gaspariano - «nessun esponente democristiano come lui ha fatto tanto per il proprio collegio elettorale, salvo forse Remo Gaspari in Abruzzo e Mariano Rumor nel Veneto». Ma, avendo visto la data di iscrizione di Remo Gaspari alla politica democristiana e alla storia del suo Paese, non c’è da stupirsi più di tanto. Intelligente, svelto e generoso, capisce com’è fatta l’Italia e come la si può continuare a fare al di là delle ideologie. «Terminata la fase di ricostruzione - dice questa volta l’ex ambasciatore Sergio Romano nel suo pamphlet L’Italia scappata di mano - i notabili e i baroni si sbarazzano del re per fare del partito una confederazione di signorie e feudi regionali: Piccoli in Trentino, Ru-

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È morto a Chieti, a novant’anni, uno dei leader storici della Prima Repubblica: a

Quando la poli

Storia di un democristiano doc che per decenni ha «usato» i suoi incarichi pubblici per migliorare l’Italia e in particolare il «suo» Abruzzo: Remo Gaspari di Giancristiano Desiderio

Nato a Gissi nel 1921, si iscrisse giovanissimo alla Dc (nel 1945) rimanendole fedele: votò no allo scioglimento del partito nel 1994 mor e Bisaglia nel Veneto, Segni in Sardegna, Andreotti nel Lazio e in Sicilia, Fanfani in una parte della Toscana, De Mita in Campania, Gaspari in Abruzzo, Misasi in Calabria (cito a caso, senza tener conto della sequenza cronologica)». Insomma, Remo Gaspari è fin dall’inizio un padre della politica democristiana e un pezzo di storia della Repubblica. Non è un caso se dopo la morte tragica di Aldo Moro ci fu una ridefinizione dei vertici del partito e tra i quattro vice che attorniarono il segretario Zaccagnini ci fu, oltre a Donat Cattin, De Mita e Gullotti anche Remo Gaspari.

Nessuno in Abruzzo ha dimenticato “zio Remo” e nessuno lo dimenticherà. Per i suoi 90 anni gli avevano organizzato a Chieti una festa e il vescovo, il teologo Bruno Forte, lo ha definito in quell’occasione “l’uomo della Provvidenza”. In particolare, la provvidenza abruzzese di Remo Gaspari ha trasformato la sua regione da “zona agricola” in “area

industriale”. Maurizio Sacconi ha sottolineato proprio questo aspetto della “politica abruzzese”di Gaspari: «È stato un protagonista degli anni della ricostruzione e dello sviluppo industriale. La terra d’Abruzzo, in particolare gli è debitrice di una industrializzazione sostenibile, quale è testimoniata da casi come Siv o Sevel, e di una adeguata infrastrutturazione». Come lo potranno dimenticare in poco tempo? Non potranno farlo se alla tenerissima età di 90 anni “zio Remo” continuava a lavorare e a rivendicare il suo dovere di «fare qualcosa per la mia gente». Proprio Bruno Forte nel suo discorso per festeggiare «zio Remo, come lo chiamano tutti» (ma in verità i suoi soprannomi erano vari: Duca degli Abruzzi, San Remo, don Ré, i bambinello di Gissi), ha indicato i colori della bandiera italiana che sono «i colori delle virtù teologali che si applicano benissimo al nostro Remo». Esagerazioni? Cediamo al vizio tutto italiano di parlare bene, benissimo di chi non c’è più e solo quando non c’è più? Facciamo continuare il vescovo: «Io ho percorso tutti i 2.550 km quadrati della Diocesi, con i suoi 91 comuni: il leit motiv di queste visite è stato sempre il ricordo di Gaspari per le sue qualità, che sono come il rosso, il verde ed il bianco. Il rosso soprattutto si addice a Gaspari, anche se è un colore politicamente distante: è l’amore, la passione per l’Abruzzo, una

terra amata profondamente. Il verde, la speranza: perché è stato il politico che ha organizzato la speranza, che ha avuto la visione del futuro e dato speranze ai cittadini. Il bianco, perché è un uomo di fede che tanto volte mi ha chiesto di pregare per lui».

Il suo rivale in terra d’Abruzzo era Lorenzo Natali, anch’egli democristiano e fanfaniano. La rivalità fu tale e tanta che i due democristiani per dare l’autostrada alla loro regione ne concepirono almeno due: il troncone Roma-L’Aquila per collegare la Capitale con il collegio di Natali e la Roma-Pescara per favorire la zona di Gaspari. Ma l’aneddoto ha il sapore della leggenda. Non è leggenda, invece, perché documentato dai filmati della Rai la celebre e schietta risposta che “zio Remo” diede a un giovane Piero Chiambretti quando curava la rubrica Il Portalettere. Alle domande insistenti sulla crisi in senso alla Democrazia cristiana, Gaspari si fermò un attimo e disse al “postino”: «Guardi, senta, vada a rompere i coglioni ad un altro». Eppure, Gaspari non ha lavorato solo per l’Abruzzo. Nei panni di sottosegretario all’Interno, durante l’alluvione di Firenze nel ‘66 e nel terremoto di Gibellina in Sicilia, nel ‘68, fu inviato a dirige-


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a tanti anni di distanza, la sua dedizione alla terra natìa acquista una dimensione etica oggi impensabile

itica era amata

Da Cesa a Rotondi

Il cordoglio per un grande servitore delle istituzioni

re le opere di soccorso alle popolazioni colpite. Più tardi fu chiamato a occuparsi delle frane in Valtellina, quando era ministro della Protezione Civile. Ordinò la tracimazione del Lago Pola e tra le incertezze e le perplessità degli stessi tecnici e dei politici locali si assunse in prima persona ogni responsabilità. Unico caso nella vita politica italiana. Dopo l’esito positivo della rischiosa operazione, arrivò il grazie degli abitanti dei comuni valtellinesi che gli conferirono la cittadinanza onoraria. Un tributo di affetto, quello, che gli fece dimenticare l’amarezza delle critiche di parte della stampa italiana che, nei giorni dell’alluvione, lo aveva criticato per le sue vacanze al mare a Vasto, dove era solito trascorrere le ferie estive, abbinandole alla natia Gissi.

San Remo - naturalmente - non era un santo. Peccati, da uomo e da uomo democristiano, ne ha commessi anche lui. Anche da ministro, si capisce. Eppure, a ricordarli sembrano peccati veniali se paragonati ad altri ministri e peccatori. Alcuni esempi. Nel 1986 l’allora premier Bettino Craxi si portò in Cina, per una visita ufficiale a Pechino una folta delegazione. Nell’airbus di Stato riempito fino all’ultima poltrona entrarono parenti, amici, amici degli amici del leader socialista, tanto che Giulio Andreotti, allo-

Di sé disse: «Ero più prudente nella gestione della cosa pubblica che in quella del mio denaro. Non potevo sperperare i soldi degli altri» ra ministro degli Esteri, appena atterrato non rinunciò alla battuta: «Siamo qui, con Craxi e i suoi cari...». Fu proprio un “volo blu” a scrocco che costò la poltrona da ministro a Remo Gaspari: salì su un elicottero dello Stato per arrivare in tempo alla partita della Roma. Ma non serve andare indietro fino alla Prima Repubblica per trovare altri esempi. La Seconda repubblica ci fornisce, anche oggi, casi da manuale. Quando era presidente della Camera Fausto Bertinotti usò l’aereo di Stato per andare in visita al Monte Athos, un’altra volta per una vacanza con la moglie nell’esclusiva località di Quiberon, sulla costa bretone, e

Nella foto grande, Remo Gaspari negli anni Settanta con il collega di partito Giulio Andreotti. A sinistra, uno degli ultimi leader della Dc, Arnaldo Forlani. In alto a destra, il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa

un’altra volta ancora diretto a Parigi per le nozze di Clotilde D’Urso, nipote del banchiere Mario. L’altro leader falce e martello, Oliviero Diliberto, fu pizzicato in vacanza alle Seychelles con tanto di famiglia e scorta a carico (dello Stato). Motivi di sicurezza, si difese l’allora Guardasigilli. «E allora vai a Sabaudia», gli rispose Gianpaolo Pansa sull’Espresso. Sciocchezze comunque in confronto a Carlo Scognamiglio, che da presidente del Senato fece addirittura fermare un treno a Forte dei Marmi sosta non prevista - per arrivare, con la famigliola al seguito, a Santa Margherita Ligure.

È tempo di concludere. La storia di Remo Gaspari è stata scritta più volte ma sempre con il gusto del ritratto del democristianone da scorticare vivo. Sembra quasi che i democristiani siano venuti al mondo per questo scopo: nascondere i peccati e le pecche altrui. Ma la storia di Gaspari è ancora da scrivere. Entrato in politica sotto le pressioni di alcuni notabili del suo paese e “contro la sua volontà”come egli stesso dice nel libro di Emanuela Mililli - Remo Gaspari, una vita al servizio dell’Italia - ha finito per fare della politica lo scopo della sua vita, al punto che se ammetteva di avere un rammarico diceva di «aver dedicato poco tempo al figlio Achille» per

CHIETI. È morto nella sua casa di Gissi (Chieti) l’ex ministro democristiano Remo Gaspari. L’ex leader Dc aveva 90 anni e proprio la scorsa settimana era stato celebrato dal Consiglio Regionale abruzzese con la consegna della medaglia Aprutium. Avvocato, Gaspari è stati dieci volte deputato e sedici volte ministro. È stato uno dei protagonisti del boom economico dell’Abruzzo tra gli anni settanta e ottanta. Nel 1987 alla guida della Protezione Civile si è occupato dell’alluvione che ha colpito la valtellina. «Apprendiamo con profonda commozione la notizia della morte dell’amico Remo Gaspari, storico esponente della Democrazia Cristiana che in tanti anni di incarichi di governo ha servito la nostra Repubblica con grande dignità e onestà. Resterà sempre vivo in noi il ricordo di un uomo retto, innamorato della sua terra, l’Abruzzo, e che ci ha onorato fino all’ultimo giorno con i suoi buoni consigli e la sua fraterna amicizia. Alla famiglia di Gaspari le più sentite condoglianze da parte di tutta l’Udc» affermano in una nota congiunta il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, il segretario Lorenzo Cesa e il presidente Rocco Buttiglione, a nome di tutti gli organi del partito. «Scompare con Remo Gaspari il più lucido testimone della Democrazia Cristiana. Aveva festeggiato da pochi giorni i 90 anni raccogliendo testimonianze d’amore e gratitudine da tutti. Fu protagonista del decollo dell’Abruzzo, ministro onesto, umile e competente. Fu l’unico a votare contro lo scioglimento della Dc». ha detto invece il ministro Gianfranco Rotondi. poter adempiere ai suoi doveri. La modestia delle sue stesse parole racconta un’Italia e una politica che oggi non ci sono più. «Ero molto più prudente e oculato nella gestione della cosa pubblica che nella gestione del mio denaro. Non mi permettevo di sperperare il denaro degli altri». Una frase di cui si è perduto il senso.


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il caso Murdoch

Centinaia di persone in piazza di fronte a Westminster in segno di protesta. Mentre in Aula un uomo cerca di aggredire il magnate

Lacrime di tycoon

Ai Comuni Murdoch si commuove e non si dimette: «Siamo stati ingannati. È il giorno più umiliante della mia vita, ma riconquisteremo il pubblico» di Francesco Pacifico

ROMA. Lo Squalo avrà perso la sua fierezza, ma non ha alcuna voglia di lasciare il suo regno. A differenza di quanto ha “sperato”il mercato – consiglio che è costato un miliardo di capitalizzazione a Wall Street – ha fatto sapere di non volersi dimettere perché si reputa «la persona più indicata per ripulire la casa».

Ed impassibile persino quando un attore comico presente nel pubblico, Jonnie Marbles, prova a lanciargli una torta pieno di panna, ad aggredirlo nel luogo che dovrebbe il più sicuro in Gran Bretagna (fortuna che a stendarlo ci pensi con un rovescio la moglie Wendy Weng) . Alza la voce soltanto per respingere «la responsabilità finale di quanto avvenuto. Ritengo responsabili le persone che ho messo alla testa di quelle aziende e di cui mi fidavo e le persone di cui a loro volta si fidavano». E non manca di nascondersi dietro una serie infinita di «Non ricordo», «Non so», «Forse mio figlio sa rispondere meglio su questo argomento». Il delfino misura e centellina le parole. Si trincera dietro il silenzio soltanto quando le domande di parlamentari inglesi toccano «informazioni che potrebbero nuocere alle indagini». Sa che potrebbe pagare per tutti, per le intercettazioni illegali che hanno riguardato 4mila cittadini britannici. E svela persino di essersi «choccato quando ha scoperto che l’azienda pagava le spese legali per i dipendenti che hanno lasciato l’azienda». Compresi quelli condannati per comportamenti illegali, compresi il detective Glen Mulcaire, già condannato nel 2007 per le intercettazioni, e Les Hinton, ex numero uno operativo di Dow Jones e pensionato dopo 52 anni di onorato servizio accanto al magnate australiano. Dopo la scoperta di come si faceva giornalismo investigativo al News of The World, dopo la chiusura dello storico tabloid, dopo l’arresto della manager rampante Rebekah Brooks, ieri si è registrata la giornata più lunga nell’affaire che sta travolgendo News Group, il più grande e capillare colosso dell’informazione al mondo. Rupert Murdoch e il figlio James sono sfilati davanti la commissione Cultura dei Comuni che sta provando a fare luce su una

storiaccia fatta di spionaggio, corruzione e ricatti. E i due hanno messo per la prima volta la faccia in una contesa dove non si discute soltanto la credibilità dell’azienda quanto il suo futuro. Rupert e James Murdoch, lo David Cameron ieri ha cercato di schivare le polemiche: «Una parte dei media ha commesso dei tremendi atti illegali, la polizia ha serie domande a cui rispondere circa potenziali casi di corruzione e i politici sono stati troppo a contatto con i proprietari dei media»

Squalo e quello che fino a qualche settimana fa era il suo delfino sono arrivati a Westmister accolti da una folla inferocita. Una folla che scandiva “Schiacciate l’impero del male”oppure “Murdoch se ne deve andare”. Ed è forse per questo che il tycoon è sembrato frastornato quando si è seduto davanti alla commissione dei Comuni. Da subito si capisce che i legali dei due hanno consigliato al padre di soffermarsi nell’opera di difendere il buon nome della ditta. Mentre al figlio tocca spiegare che cosa non ha funzionato nei siste-

mi di controlli interni, perché non si è intervenuti su una struttura parallela che intercettava parenti delle vittime dell’11 settembre, grossi nomi dello showbiz e genitori disperati aiq uali era stata rapita la figlia. Con voce bassa, ma ferma, il patriarca ha spiegato che «se non eravamo di fronte a una cosa seria, non sarei qui. Nessuno mi ha mai tenuto allo scuro. Io spendo molto tempo con il Wall Street Journal, ma News of the World, che rappresenta l’1 per cento del mio gruppo, mi è sfuggito, forse perché era piccolo». Quindi ha rivendicato di essere un editore liberale. «Chiamavo il Sunday Times ogni sabato ma senza influenzare». E soltanto una volta al mese sentiva il direttore di News of The World, e che gli «diceva che c’era un servizio sulla tale perso«Non ho intenzione di chiedere le dimissioni di Cameron, per ora», ha detto Ed Miliband. Il capo del Labour guida il fronte dei critici nei confronti di Cameron per la nomina a portavoce di Andy Coulson, ex dirigente del tabloid chiuso per le intercettazioni

nalità oppure mi rispondeva che non c’era niente di particolare, o che aveva aggiunto qualche pagina». Nulla di più, neppure «dei pagamenti che il giornale corrispondeva alle vittime di spionaggio». Come fa uno che guida un gruppo che fattura quasi 33 miliardi di dollari e che ha utili per 2,539 miliardi a sapere se in un angolo dell’impero un giornalista spia la segreteria telefonica di una ragazzina scomparsa o se un direttore tratta su un risarcimento per evitare una condanna per violazione della privacy? Di conseguenza, Rupert Murdoch poteva non sapere. Soprattutto perché non informato da quelle persone «che ho messo alla testa di quelle aziende e di cui mi fidavo e le persone di cui a loro volta si fidavano». In questa veste il tycoon esordisce davanti ai Comuni mostrando il fianco. «Questo è il giorno più umiliante della mia vita». Eppoi: «Ero scioccato e mortificato dalle notizie sugli hackeraggi del cellulare della piccola Millie. Mi dispiace per chi ci lavorava, ma era il minimo chiudere quel giornale». Se non bastasse anche una lezione di giornalismo: «Da noi non è ammessa nessuna attenuante per infrangere la legge. Nel suo testamento mio padre, che in vecchiaia aveva comprato un piccolo giornale, si vantava di essere stato odiato per aver messo a nudo gli scandali del posto. Vorrei che mio figlio ne seguisse le orme». Scaricare tutte le colpe sulla catena di comando però potrebbe essere controproducente. Potrebbe essere considerato una piccola ammissione delle responsabilità per comportamenti tanto gravi. Così Murdoch riveste per qualche minuto i panni dello Squalo e, dopo aver ammesso «che qualche errore è stato commesso», difende il lavoro del figlio: «Sono stati i miei soci a chiedermi di promuoverlo». E spezza una lancia anche per Rebekah Brooks – «Mi fidavo e mi fido di lei, ecco perché non ho accettato le sue dimissioni» – e per Les Hinton. Il quale «non mi ha mai mentito, sono certo che non sapeva quanto accadeva». Tom Watson – il parlamentare laburista costretto a dimettersi due anni fa proprio per un’inchiesta dei tabloid inglesi – e i suoi colleghi sono interessati anche a scandagliare i rapporti discutibili in atto tra il magnate australiano e il primo ministro David Cameron. Di lui Murdoch sr ammette un in-


L’opinione sullo scandalo di David Willey, decano della Bbc a Roma

«Tutti coinvolti: troppo potere ai media» «Questo non è l’unico caso in Europa di concentrazione e conflitto d’interessi. Anche l’Italia ne sa qualcosa» di Pierre Chiartano tampa e media in Inghilterra sono ancora il cane da guardia della democrazia o sono diventati un pitbull per intimidazioni e ricatti? E se Rupert Murdoch investito in pieno dal terremoto dello scandalo intercettazione parla del «giorno più umiliante della mia vita» chiamato a rispondere davanti al Parlamento britannico, sembrano servire a poco le scuse ribadite dal figlio James alle «vittime delle intercettazioni e alle loro famiglie». Abbiamo chiesto a un giornalista della Bbc, una testata televisiva che ancora rappresenta un esempio di quello stile britannico che per oltre mezzo secolo è stato «il modello» di giornalismo, un parere sullo scandalo. David Willey è da quarant’anni in Italia, ha cominciato occupandosi di Brigate rosse ed è particolarmente sensibile a ciò che sta succedendo al di là della Manica.

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La sede di Sky a Londra, quasi un fortino sotto assedio. Nella pagina a fianco: Rupert Murdoch e, sotto, i «duellanti» politici David Cameron e Ed Miliband, sempre più ai ferri corti vito al numero 10 di Downing Street – «entrando però dal retro» – per «prendere una tazza di thè ed essere ringraziato dal premier per il sostegno fornito al leader conservatore».

Il primo ministro ieri ha fatto sapere che «è una tragedia la morte di Sean Hoare», il giornalista del News of the World trovato morto nella sua casa di Watford. Ma è sempre più in bilico e soltanto la difficoltà di trovare un sostituto che tenga insieme la variegata coalizione tra Tories e Liberaldemocratici, allontana le ipotesi di dimissioni. Ma la sua situazione peggiora ora dopo ora, soprattutto dopo che l’ex numero due di Scotland Yard, John Yates, ha svelato che «il capo di gabinetto di Davd Cameron (Ed Llewellyn, ndr) rifiutò un’offerta della polizia per un briefing sullo scandalo delle intercettazioni a settembre». Sfiorando i temi politici, non mancano da parte di Murdoch stoccate per i paletti messi dalla politica britannica pur di non fargli pren-

dere il controllo di BSky; il rammarico per «non vedere più il suo amico Gordon Brown: le nostre moglie erano amiche, i nostri figli giocavano assieme»; e un accenno a Silvio Berlusconi e all’Italia, «dove avevamo problemi e una concorrenza molto dura». Diverse invece le domande poste a James Murdoch. I parlamentari provano a incastrarlo, mettendo in risalto il fatto che il manager aveva avallato i risarcimenti pagati dal giornale alle vittime delle intercettazioni. Ipotesi rigettata dall’Ad di News Corp, che ha ripetuto in più occasioni che «se avessimo saputo di quello che stava accadendo, avremmo agito prima». Murdoch jr si dilunga nelle risposta, usando un gergo più tecnico di quello a cui si è affidato il padre. Ma deve ammettere che l’avallo ai risarcimenti è stato deciso dopo che i consulenti legali del gruppo avevano segnalato gli errori commessi fatti dal tabloid inglese. «Stiamo collaborando con la polizia, certi errori non saranno più commessi».

«Da sempre sono esistiti i grandi baroni della stampa, ma nel passato il sistema aveva sempre funzionato. C’erano molti lord come Beaverbrook, durante la seconda guerra mondiale, a questi storici baroni dei media penso si sia ispirato Murdoch. Ma loro riuscivano a governare i media senza corrompere l’intera politica del Paese. Il problema con Murdoch è che ha corrotto le istituzioni, oppure che le istituzioni si sono fatte corrompere. Di chiunque sia la colpa, rimane il fatto che questa è una crisi che ha investito politica, media e polizia che non ha precedenti storici. Nessuno può ancora sapere quando finirà. Non soltanto è uno scandalo che ha investito l’Inghilterra, ma si sta estendendo negli Usa e in Australia. L’impero dei media di Murdoch è veramente globale e gli effetti dello scandalo di sentiranno ovunque. Non voglio drammatizzare troppo, ma userei la parola melt down (fusione). Ci troviamo nel momento peggiore della crisi e spero che il nostro sistema politico regga l’urto. Tutti affermano I’m sorry, ma non basta. Può essere solo l’inizio, ora serve una completa confessione da parte di Murdoch e della sua famiglia. E servono anche delle nuove leggi che regolino la stampa e i media, per impedire che un nuovo barone possa ripetere lo stesso errore. Il problema in Italia è un po’ differente, ma la distorsione di base del sistema è simile: quando si concentra troppo potere mediatico nelle mani di una sola persona, seguono dei guai». Occorre capire se questa relazione pericolosa si avvenuta grazie all’eccessivo potere di Murdoch o per la grande debolezza del sistema politico anglosassone. «Direi per eccesso di debolezza della politica inglese. Si è lasciata marcire

una situazione di cui tutti erano coscienti, ma nessuno osava parlarne. È intollerabile, se si pensa che la classe politica britannica si sia lasciata intimidire da Murdoch. Questo è impensabile. L’editore australiano ha quasi potuto dettare l’agenda politica al governo, una situazione assolutamente ridicola. Non è compito dei media decidere su questioni importanti della politica. Il fatto che i suoi lettori fossero calcolati in milioni e non in migliaia, come in Italia, è l’elemento chiave dell’intera vicenda. Il potere combinato dei suoi giornali è assolutamente massacrante». Resta il fatto che dalle ammissioni di sir Paul Stephenson il dimissionario capo di Scotland Yard, il rapporto incestuoso con la stampa era evidente. E si capisce perché. «La polizia è colpevole di aver insabbiato un’altra inchiesta nel 2006. Hanno cominciato a raccogliere prove, poi tutto è stato messo in un cassetto di Scotland Yard e dimenticato». C’è da chiedersi perché ad un certo punto l’inchiesta sia partita, se per la confessione di un singolo l’ex vicedirettore di News of the World, Sean Hoare. Oppure perché finalmente il sistema abbia reagito. «È interessante che non abbiamo trovato delle colpe nel sistema giudiziario, ma abbiamo evidenze di colpe sia della classe politica sia di certe commissioni d’inchiesta che dovevano risolvere i conflitti d’interesse e evidentemente non hanno osato o potuto fare nulla». Il sistema politico britannico rischia di uscire con le ossa rotte da quello che appare essere un vero tsunami, ma Willey resta ottimista, da vero britannico. «Spero ne esca rinforzato… spero. Ma l’esito di questi scandali non è ancora chiaro e come ho già detto i cui effetti si sentiranno fino negli Stati Uniti».

«Rupert Murdoch ha quasi potuto dettare l’agenda politica al governo, una situazione ridicola. Il potere combinato dei suoi giornali era enorme»

E come uscirà da questa centrifuga giudiziaria il sistema dei media? Un apparato dell’informazione libera da sempre considerato il cane da guardia della democrazia, ma la cui immagine appare sempre di più come di un pittbull da combattimento usato con intenti intimidatori. «Non ho paura della struttura della democrazia nel mio Paese, perché credo che il nostro sistema reagisca, non come in Italia, dove molti giornalisti hanno difficoltà a muoversi liberamente impediti dai propri editori. Esiste veramente una stampa libera in Inghilterra, ma per proteggere questa libertà forse servono nuove leggi e più regolamenti. Spero che la politica reagisca. Da noi è un po’ come in America, se c’è un problema tentiamo di risolverlo subito e non lo mettiamo sotto il tappeto come si fa in Italia».


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il caso Murdoch

Secondo “Forbes” è il 23esimo manager più pagato al mondo, con un reddito personale poco superiore ai 26 milioni di dollari

L’occasione di Chase

Da 23 anni Carey, schietto 56enne apprezzato da colleghi e clienti, lavora a fianco dei Murdoch ricoprendo ruoli esecutivi nella maggior parte dei Paesi in cui la News Corp è presente. Ritratto del possibile successore all’impero del magnate di Antonio Picasso rima di tutto mostratemi i soldi». Pare sia questo il leit motiv del direttore generale della News Corp, Chase Carey. Un 56enne dall’aria bonaria, merito di un paio di baffi d’altri tempi. Una carriera di altissimo livello sì, ma senza trascorsi universitari dorati e soprattutto passata quasi sempre nell’ombra. Carey la ribalta l’ha lasciata sempre ai due Murdoch, suoi datori di lavoro dal 1988. Il possibile futuro ad della più grande multinazionale mediatica di tutto il mondo non scende presuntuosamente dagli scranni di un ateneo del New England. Si limita a vantare un Bachelor of Art in economia alla Colgate University di Harvad, dove peraltro sembra si sia impegnato più sui campi di rugby (sport comunque poco praticato negli Usa) che sui libri. Interessante, sempre nell’ambito universitario, l’assiduità con le confraternite studentesche. Carey è ancora oggi Trustee emeritus della Delta Upsilon, prestigiosa corporazione

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fondata nel 1834 e che annovera tra i suoi membri il gotha della società puritana statunitense. Non è escluso che, a suo tempo, Murdoch sia rimasto stupito proprio da questo punto del curriculum di Carey. In un comparto della finanza e della virtual economy, com’è per i media, le relazioni interpersonali - le attività di lobbying per essere schietti - sono molto più efficaci di qualsiasi capacità operativa, come del know how specifico di un settore. La Brooks, a modo suo, è stata una giornalista. Carey è quel che potremmo chiamare un piazzista di lusso. In questi 23 anni di lavoro a fianco dei Murdoch, ha ricoperto ruoli esecutivi in tutte le ramificazioni e nella maggior parte dei Paesi in cui la News Corp. è presente. Dagli Stati Uniti alla Germania, dall’entertainment per i minorenni alle emittenti finanziarie. Ma soprattutto con la DirecTv, l’apripista di tutti canali satellitari, nato nel 1985 e guidato da Carey praticamente dal suo primo anno del suo ingresso alla News Corp.

Secondo Forbes, il futuro comandante della flotta Murdoch è il 23esimo manager più pagato al mondo. Il suo reddito personale è poco superiore ai 26 milioni di dollari: 8,1 come“busta paga”, 15 in qualità di provvigioni.

Interessante notare che, sulla base di questo trend, stia accumulando circa 2 milioni di dollari ogni anno per la sua pensione. Ammesso che un uomo come Carey pensi a ritirarsi effettivamente a vita privata. D’altra par-

Una carriera di alto livello, senza trascorsi universitari dorati

te, il direttore generale della News Corp. è celebre anche per la sua schiettezza. In qualità di numero uno tra i decisori della prima Pay tv del mondo è uno che va subito al sodo. Potrebbe fare altrimenti visto il capo che ha? Se Murdoch è squalo ci sarà pur un motivo. Il pragmatismo ha sempre ispirato il tycoon australiano. A Casey non gli interessano le particolari qualità del prodotto televisivo, bensì il suo valore economico. Che sia innovativo o meno, non ha importan-

za. Ciò che conta è se sia apprezzabile dai telespettatori. Acquisizione dei diritti e distribuzione al pubblico. Domanda e offerta. Semplice, ma assolutamente funzionale. Questo non significa essere una iena. O uno squalo. Nella News Corp, evidentemente, di fiere del genere ce ne sono abbastanza. Fin dagli anni Novanta, Carey ha preferito scegliere una linea di cautela. È stato così nel trasmettere via cavo la Fox, come la Time Warner. Facendo due esempi diametralmente opposti fra loro. Dando sempre importanza al servizio da distribuire, si è imposto con il valore che a suo giudizio merita il prodotto. Le negoziazioni da lui guidate sono brevi e con pochi spazi di manovra per gli interlocutori. Duro ma non rude quindi. Stimato dagli uomini della azienda. «È semplicemente uno di noi», dicono alla News Corp. Ma altrettanto apprezzato da quelli che, nella sua ottica, altri non sono che clienti. Da qui la strutturale differenza da Rebekah Brooks. A questo punto,


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Da una parte tycoons della stampa sotto attacco, dall’altra tycoons della stampa al contrattacco

Slim, Herrera e Shinawatra: ormai la guerra è globale Non solo Murdoch. Anche in Messico, Argentina e Thailandia i governi contrastano lo strapotere dei re dei media. Per non parlare dell’Italia... di Maurizio Stefanini ycoons dei media sotto attacco, ma anche tycoons dei media al contrattacco. Sebbene malandato, Berlusconi appare relativamente in salute rispetto a quanto sta accadendo al suo vecchio omologo e rivale Rupert Murdoch. Il leader del Partitro Laburista Ed Milliband proclama che l’impero di Murdoch deve essere smantellato perché «ha troppo potere nel Regno Unito». «Non è possibile che una persona sola possa arrivare a detenere più del 20% del mercato dei giornali, la piattaforma Sky e Sky News. Credo che una tale quantità di potere nelle mani di una sola persona chiaramente conduce a abusi di potere dentro a una organizzazione».

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Ma è esattamente quello che in questo momento sta dicendo di Carlos Slim Helú la Commissione Federale di Concorrenza (Cfc): che sarebbe l’anti-trust messicano. Uomo più ricco del mondo, il figlio di un immigrato libanese si consacrò tale soprattutto attraverso l’acquisizione di Telmex: società di telefonia fissa fino ad allora monopolista pubblica, e che nel 1990 il governo di Carlos Salinas de Gortari, del Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri), gli girò ad appena il 20% del suo valore: 1,7 miliardi di dolari contro 8,5. Dal 2000 è andato però al potere il Partito di Azione Nazionale (Pan), realizzando una storica alternativa. E sia Vicente Fox che Felipe Calderón, i due presidenti panistas, hanno deciso di rdimensionarlo. Non con troppo successo, a dir la verità. Proprio in questi 11 anni Slim è diventato la grande star delle classifiche Forbes sui miliardari, arrivando addirittura al primo posto e diventando famoso in tutto il pianeta. Addirittura, nel settembre del 2008 è accorso al capezzale del febbricitante NewYork Times, acquistando il 6,4% del suo pacchetto azionario in cambio di 123 milioni di dollari. Una strategia di approccio al mondo liberal che fa il paio con la sua politica amichevole verso l’amministrazione della sinistra del Partito della Rivoluzione Democratica (Prd) nella capitale messicana: particolare che ovviamente ha accresciuto l’ira del Pan nei suoi confronti. Ma se a destra non lo amano, non è che a sinistra spasimino troppo per un uomo così ricco da possedere da solo l’8% del Pil, in un Paese dove la povertà è diffusa e il reddito molto mal distribuito.Va bene che Slim fa beneficienza a tutti spiano: ma con la sua posizione dominante il Messico si trova ad avere tariffe telefoniche tra le più alte del mondo. Sia nel campo del fisso, che in quello del mobile. Dal primo dicembre del 2008, però, la Telmex si è buttata anche nel business della pay tv, attraverso Dish Network México. Una scelta che tra l’altro lo ha portato in concorrenza diretta con la Sky di Murdoch, anche se poi i due di recente si erano messi d’accordo per un consorzio in grado di comprare la Formula 1. Per ora inutilmente. Se Berlusconi, Murdoch e Slim traballano, in compenso c’è Ernestina Herrera de Noble che sta registrando un successo a sorpresa. Lei è la proprietaria (in quanto vedo-

va del fondatore) del Clarín, che con 400.000 copie al giorno è il giornale argentino più letto. Inoltre è al centro di un impero mediatico in stile Berlusconi: oltre 200 stazioni tv, incluso l’importantissimo Canal 13 di Buenos Aires; il giornale sportivo Olé; il gratuito La razón; riviste; giornali locali come Los Andes di Mendoza e La Voz del Interior di Córdoba; l’agenzia D/N… Di particolare importanza è poi quella Papel Prensa pos-

La sfida al gruppo «Clarín» non risparmia neanche i fantasmi della dittatura di Buenos Aires

Dall’alto: i figli di Ernestina Herrera e il tycoon messicano Carlos Slim Helú. Nella pagina a fianco: nella foto grande, Chase Carey e, in quella piccola, Tom Mockridge seduta al 49% assieme a Nación (23%) e Stato (27,5%), e che ha il monopolio della carta da giornali. In tutto, si parla di un fatturato da 2 miliardi di dollari, con guadagni per mezzo miliardo all’anno. Fondato nel 1945 da un politico anti-peronista, Clarín si collegò in seguito al “desarrolismo” del presidente Arturo Frondizi:

un radicale “terzista”, disponibile al dialogo con i peronisti. Dopo ancora sostenne il regime militare, tra 1976 e 1983. Infine, dopo il ritorno alla democrazia approdò a posizioni di sinistra moderata, appoggiando con convinzione prima Néstor Kirchner, poi sua moglie, fino ai grandi scioperi degli agricoltori del 2008. Dopo di che, all’amore è subentrato l’odio feroce degli innamorati delusi. Con seguito di vendette. Come la “statizzazione” delle partite di calcio, sottratte d’autorità al canale satellitare di proprietà del Clarín per essere trasmesse gratis: e infiorettate di spot e marchette proKirchner. Un’altra è stato la revoca al Gruppo Clarín del permesso di entrare nel business della telefonia mobile, una settimana appena dopo averlo accordato. Un’altra vendetta ancora: il blitz di un centinaio di agenti della Tributaria alla sede del gruppo. Micididale una nuova legge sui media, secondo cui nessun proprietario potrebbe avere più di dieci radio o televisioni ”libere”, contro l’attuale limite di 24. Quattro ricorsi in tribunale hanno di fatto sospeso l’applicazione dei punti più controversi della legge. In particolare, l’anno di tempo per scegliere le emittenti da mantenere e quelle da dismettere partirà ora dalla promulgazione di questo regolamento, anche se si sostiene che i ricorsi in corso lo bloccherebbero a sua volta.

Ma è appunto per vincere questa resistenza che l’Amministrazione Kirchner ha tirato in ballo le responsabilità di Clarín e Nación con i passati regimi militari. Una vicenda chiave è in particolare quella di Marcela e Felipe Noble Herrera: da 34 anni figli adottivi di Ernestina, e da otto anni al centro di una causa giudiziaria per appurare se tratti di due figli di desaparecidos a suo tempo sequestrati dal regime militare. Dopo due denunce cadute nel dimenticatoio, una terza piombò su Ernestina nel 2002 a opera delle Nonne di Plaza de Mayo e delle famiglie Lanuscou-Miranda e García-Gualdero. E di lì iniziò il tormentone infine sfociato in una lettera aperta. «Parlano di noi senza conoscerci, senza sapere come siamo, che pensiamo o che sentiamo», scrissero Marcela e Felipe in un appello pubblicato dai quattro più importanti giornali argentini. In realtà, essendo i due ormai belli che maggiorenni, un riconoscimento di identità non potrebbe imporre un loro ritorno nelle eventuali famiglie di origine. Ma loro perderebbero l’eredità dell’impero mediatico del Clarín, e c’è di mezzo un reato imprescrittibile che portebbe costare all’85enne Ernestina fino a 10 anni di carcere. Per questo, il governo rischia di apparire come un persecutore. Proprio come in Thailandia: dove golpe a catena e repressione contro le Camicie Rosse hanno finito per far fare la figura del martire a Thaksin Shinawatra. Così, impossibilitato lui a partecipare e in esilio, le ultime elezioni le ha vinte il partito di sua sorella: la 44enne Yingluck Shinawatra.

se è vero quel che ha scritto ieri il Wall Street Journal circa il suo futuro alla guida totale della News Corp - Murdoch si limiterebbe a conservare la presidenza - Carey dovrà sfoderare la sua massima praticità. Il biografo del magnate australiano, Michael Wolff, ha scritto su Twitter di ritenere possibile che l’80enne magnate si è dimesso davanti alla Commissione dei Comuni che ieri l’ha ascoltato. News Corp ha smentito e ha fatto sapere che il presidente gode del completo appoggio del Consiglio. L’ennesimo rigonfiamento di notizie che si stanno moltiplicando insieme all’intero scandalo. Lo strano è che sia stato Wolff, teoricamente vicino a Murdoch, ad azzardare un rumor tanto grossolano. Ben più plausibile, in grazia dell’età, la riflessione che lo stesso Murdoch faceva ieri sul Wsj. E cioè che starebbe meditando un ritiro dall’agone ormai da un anno. Lo scandalo odierno potrebbe accelerare questa decisione.

A Carey spetta il dovere ricostruire l’immagine della società sbugiardata dalla concorrenza degli altri giornali e dalla classe dirigente politica britannica. Ieri l’audizione ai Comuni ci ha dato un saggio di come i pesci più piccoli sono capaci di essere avidi di fronte all’improvvisa debolezza dello squalo. Carey, per alcuni aspetti, dovrà difendere un anziano Murdoch e soprattutto i suoi 51mila dipendenti sparsi nel mondo da altri arrembaggi. La messa in strada dei trecento redattori della News of the world rischia di essere una goccia nell’oceano nello scandalo che sta lievitando di giorno in giorno. Soprattutto se le indagini dell’Fbi sulle intercettazioni delle vittime dell’11 settembre porteranno a risultati concreti. Stesso discorso nel processo di ricostruzione. Ammesso che essa sia possibile. Passato il clamore e una volta che la magistratura si sarà espressa, un trust di queste dimensioni avrà ancora ragion d’essere? Sebbene per ragioni differenti, il caso della Standard Oil e di Rockfeller (1890) può insegnare ancora qualcosa sui vizi dei monopoli. L’ad in pectore della News Corp è chiamato a rispondere anche a queste previsioni. E, nel caso la stessa azienda fosse consapevole di dover cambiare identità, possiamo parlare di una svolta storica nel campo della comunicazione dell’informazione globale. Il semplice rialzo mostrato ieri dal titolo News Corp all’apertura di Wall street, 4,5% nel momento in cui questo giornale va in stampa, lascia intende quanto benefico sarebbe un cambio della guardia. L’impero Murdoch non è crollato. Tuttavia, proprio per evitare un accumulo di sconfitte, è necessario che alla sua guida subentri un manager che da tempo naviga con il vecchio Rupert e che risulti immune dal ulteriori attacchi.


cultura

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Nel suggestivo sito alle porte di Tivoli, quadri, sculture e foto di artisti d’oggi affiancano numerosi frammenti di opere del passato, alcuni dei quali inediti

Memorie a villa Adriana Fino al 6 novembre, la splendida residenza imperiale ospita l’esposizione «Dialoghi con l’antico» di Rita Pacifici nimula vagula, blandula/ Hospes comesque corporis/, Quae nunc abibis in loca/ Pallidula, rigida, nudula/ Nec, ut soles, dabis iocos... (Piccola anima, smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t’appresti a scendere in luoghi incolori, aridi e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti): con questi celebri versi l’imperatore Adriano si congedava dalla vita e da quella immensa e magnifica reggia che iniziò a prendere forma sotto la sua personale direzione sin dal 117 d.c., anno dell’elezione a imperatore.

A

Un progetto grandioso e innovativo, realizzato con incredibile rapidità e perseguito con l’accanimento di un guerriero, la sapienza dell’architetto, il gusto raffinato del letterato, impreziosito da tesori inestimabili affinché il potere che incarnava fosse ben visibile e la “piccola anima” durante il transito terrestre fosse sempre lontana da “luoghi aridi e spogli”, confortata, educata, intrattenuta dagli svaghi, dai piaceri dell’arte. Aveva scelto una zona fertilissima, a due ore di cavallo da Roma, fitta di boschi e solcata da molti corsi d’acqua, dove preesisteva una vil-

la repubblicana che costituirà il nucleo centrale degli appartamenti di Adriano. Poco distante si ergeva uno dei maggiori santuari sorti nel territorio, dedicato ad Ercole vincitore, un culto greco ormai italianizzato. A fondere l’eredità orientale con la cultura romana mirano anche il pensiero e l’estetica di Adriano che impresse nella struttura e negli ornamenti della propria residenza le conoscenze acquisite durante i numerosi viaggi intrapresi nel mondo ellenico, in particolare ad Atene dove sostò a lungo e in Egitto. La costruzione della dimora tiburtina rappresentava davvero una sfida: più estesa di Pompei, occupava una superficie di oltre 126 ettari. Una città in forma di villa che includeva interi quartieri privati e di rappresentanza come il Pecile, un’area quadrangolare ispirata al caratteristico portico dipinto ateniese, le grandi e le piccole Terme, il Teatro marittimo, autentica meraviglia consistente in un padiglione circolare sull’acqua destinato al riposo dell’imperatore, le Biblioteche, il Liceo, l’Accademia, due teatri, tre ampie zone per i triclini tra le quali il Canopo, oltre ai ramificati ambienti sotterranei dove confluivano le carrozze che avevano il divieto asso-

luto, imposto anche a tutta Roma, di transitare nei giardini della villa.

Pregiati marmi policromi rivestivano tutte le superfici e imponenti cupole, forme predilette da Adriano ed esempio dell’indirizzo moderno di cui si fece promotore in contrasto con l’architetto di corte Apollodoro, caratterizzavano il complesso che avrebbe dovuto comprendere anche uno stadio e continuò a fiorire fino al 138 d.c. anno della sua morte.

Utilizzata solo parzialmente dai successori per la villeggiatura, progressivamente dimenticata,Villa Adriana è recuperata all’attenzione degli umanisti, dopo il silenzio del medioevo, solo nel 1450 grazie a Flavio Biondo e al successivo interesse di papa Pio II Piccolomini. Da allora ha esercitato un fascino ininterrotto, stregando artisti e architetti. Michelangelo e Raffaello, Antonio da Sangallo il vecchio e Leon Battista Alberti, Francesco Borromini e Andrea Palladio hanno trovato qui la lezione di uno stile insuperabile, l’archetipo delle residenze imperiali. Persino Leonardo vi soggiornò lasciando un disegno delle mura possenti del Pecile, lo stesso scorcio che colpì ed eseguì Le Corbusier cinque secoli dopo. Piranesi ne ricavò diverse e allucinate incisioni e una di queste, negli anni quaranta, capitò per caso a New York nelle mani di Marguerite Yourcenar che, già invaghita della figura di Adriano, riannodò la catena della memoria consegnando al Novecento una lettura intima e appassionata dell’imperatore romano. Proprio la scrittrice francese, che a lungo si aggirò per le rovine di Tivoli e i vasti uliveti ancora diffusi dopo venti secoli, è la guida virtuale di una mostra ideata dalla Soprintendenza dei Beni Archeologici del Lazio che raccoglie all’interno del sito le opere di ventuno artisti contemporanei, scultori, pittori,

In queste pagine: uno scatto di Villa Adriana (che fino al prossimo 6 novembre ospita l’esposizione “Dialoghi con l’antico”); il busto dell’imperatore Adriano; il Discobolo di Mileto; la scultura Amore e Psiche

fotografi, italiani e stranieri. Sulle orme della Yourcenar, ritratta a grandezza naturale nella scultura di Elsa Genèse, in un percorso lungo i giardini e nell’Antiquarium, l’iniziativa raccorda passato e presente,

getta un ponte fra uno dei luoghi più importanti e amati della classicità e lo sguardo inquieto, spesso dissacrante dell’arte di oggi. Un invito al colloquio fra categorie distanti, una proposta di dialogo con il genio


cultura

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pure il pittore André Durand, a un’altra fonte di suggestioni sempre vive, l’antro della villa di Tiberio a Sperlonga. Riscoperto nel 1957, da qui provengono i monumenti con gli episodi delle avventure di Ulisse eseguiti dagli stessi artisti rodii che scolpirono il Laocoonte, considerati da Plinio, “summi artifices”.

Di capolavori simili era costituito il ricchissimo apparato decorativo raccolto da Adriano per la proprietà di Tivoli: copie di opere greche del quinto, quarto, terzo secolo a.c., originali dell’età ellenistica e romana. Le muse sedute, l’Afrodite accovacciata, il Gruppo dei Tirannicidi, i due Centauri, due riproduzioni del Discobolo di Mileto, ben tre copie del Satiro a riposo di Prassitele, Amore e Psiche, il Dioniso, l’Atleta, centinaia di reperti ora disseminati nei musei, si trovavano una volta concentrati negli edifici e nei giardini, si riflettevano nell’acqua dei canali, costituivano lo sfondo su cui si proiettava la vita quotidiana della corte. Un repertorio sconfinato,

ranee», Marco Vinicio Carelli, Michele Flammia e in particolare Ivan Theimer rivisitano invenzioni tipiche come gli obelischi e contaminano la tradizione con un’esuberanza di motivi tutta moderna, mentre Vito Tongiani fa proprie le rappresentazioni di animali sacri, e ripropone (come ha fatto per la fontana di Nimes) un coccodrillo in bronzo affiancato in un confronto stringente a uno in marmo romano. C’è poi il rapporto con la pratica antica di Mauro Staccioli volto a recuperare non i simboli ma il fondamento di una scultura che aveva valore civile e si misurava con gli spazi aperti. Forme astratte e geometriche queste di Staccioli che pur se idealmente connesse con la statuaria classica mostrano quanto sia esplicita, forte, irrecuperabile la distanza del nostro presente.Villa Adriana, ridotta a cava di mattoni e marmi, fu depredata sistematicamente nei secoli da mecenati e principi. Gli Estensi attinsero a pieni mani dai corredi ornamentali, dai pavimenti intarsiati, dagli innumerevoli fregi. Moltissimi elementi furono utilizzati per alimentare i fasti di altre dimore, in particolare villa d’Este, oppure furono immessi sul mercato internazionale e lasciarono per sempre l’Italia. Quel che rimane della residenza di Adriano sono brandelli, lacerti di un tempo per niente leggibile nella sua integrità, ma le storie sopravvivono, aderiscono ai luoghi, talvolta persino esaltate dalla sottrazione di segni.

A fare da guida virtuale della mostra, la scrittrice Marguerite Yourcenar ritratta nella scultura di Elsa Genèse a grandezza naturale

di un luogo che ha coniugato superbamente natura e storia, alla ricerca di un legame o di prospettive inedite. Per gli artisti si è trattato di un viaggio privilegiato alle radici della nostra identità, che ha determinato in alcuni casi una metamorfosi del proprio codice espressivo. Per tutti ha comunque rappresentato l’occasione di introdursi in uno spazio osservato al di fuori di interessi scientifici o specialistici, la possibilità di tradurre nella creazione artistica l’emozione di un incontro con un’epoca perduta, di restituire qualcosa di quel “tempo puro”, lo definisce Marc Augé, senza svolgimento, che sempre le rovine sprigionano.

La dimensione dell’assenza, di un presente svuotato di eventi, è percezione assai comune che attraversa i vari generi. Dagli abiti privi di corpi, dipinti a tinte forti da Umberto Passeretti, al reportage fotografico di Luigi Spina, che ritrae una terra dove le voci della natura prendono ormai il sopravvento, gli sguardi contemporanei sono echi, evocazione poetica di quel che non esiste più. «La sensazione è che questi alberi secolari abbiano sostituito i fusti di colonne» racconta Spina, che tuttavia coglie, in un rigoroso bianco e colore, un universo ancora profondamente equilibrato e armonioso. L’impressione, la visione di un paesaggio che non cessa di coin-

volgere e stupire è il punto di partenza per l’intervento di molti artisti. Il dialogo, i dialoghi, con l’antico sembrano allora prendere la forma di un omaggio, fermarsi sulla soglia dell’ascolto, quasi non restasse che la reiterazione dell’immagine per afferrane e dispiegarne la potenza. Si passa così dalle prospettive più note della villa rielaborate con tecniche miste da Antonio Di Palma, alle vedute dal sapore ottocentesco di Giovanni Arcangeli e Fernando di Stefano che ci proiettano all’indietro verso il fortunato genere della pittura del paesaggio classico che fiorì dal Seicento in poi fino a tutto il secolo del romanticismo. Secoli che richiamarono in Italia una schiera infinita di intellettuali, Goethe e Chateaubriand, Poussin e Lorrain solo per citarne alcuni, per i quali la “rovina” fu termine chiave, esperienza estetica cruciale. Ai viaggiatori illustri del Grand Tour si deve una lettura commossa e nostalgica dell’antichità, la formazione di quel gusto penetrato nel nostro immaginario e che, in fondo, non si esaurisce mai del tutto nonostante le trasformazioni della cultura.

All’antico riprodotto si affianca poi la simulazione dell’antico, che riemerge nella lavorazione dei materiali, negli assemblaggi di Emilio Farina o nel collage di Luciana Fortini. Ma è soprattutto un’archeolo-

gia inventata e fantastica a dominare questo incontro perché l’antico non è discorso organizzato ma è parola disarticolata, traccia, allusione, citazione. Ecco così recuperate dal bagaglio iconografico della civiltà mediterranea, figure che sembrano emergere dalla profondità del sogno, come nelle tele di Vincenzo Musardo o che vengono scomposte nel linguaggio futurista di Giuseppe De Spagnolis. Artista che si è ispirato, come

una monumentalità dal valore altissimo che non ha mai smesso di trasmettere energia propulsiva e che gli scultori chiamati al confronto interpretano con sensibilità e linguaggi diversissimi. Sergio Unia presenta alcuni nudi in bronzo nell’evidente ricerca di una continuità formale, il giovane Vincenzo Rulli espone un apocrifo in resina dell’imperatore Adriano e ricorda «che tutte le opere sono antiche perché contempo-

L’antichità non è solo architettura, manufatto, ma è percezione di vite vissute, racconto che ritorna, mito. A questa dimensione narrativa, alla nota vicenda di amore e morte che ha reso Adriano creatura umana più che divina, si riallaccia l’archeologia immaginaria di Paola Crema e il suo volto di Antinoo che, con un allestimento di sicuro effetto, emerge dall’acqua del Canopo. Rievocazione del giovane amante di Adriano affogato nel Nilo nel 130 d.c., riprodotto in moltissime opere proprio qui rinvenute e venerato come un dio in tutto l’impero tanto da costituire una delle immagini più note dell’età classica. Ispirato all’Egitto e ai suoi riti, il Canopo con la lunga vasca che culmina nel ninfeo, resta uno spettacolare frammento dell’arte del costruire realizzata da questo imperatore, che la storia conferma di profonda cultura e che in quel memorabile dialogo con l’antico scritto da Marguerite Yourcenar si fa ricordare per essere stato garante, «responsabile della bellezza del mondo».


ULTIMAPAGINA Per trent’anni missionario nel Sud del Sudan, se n’è andato a una settimana esatta dalla proclamazione dell’indipendenza

Addio a Mazzolari, vescovo di Luigi Accattoli er comprendere le vicende del Sud Sudan noi italiani disponiamo di un interprete eccezionale, che è il missionario bresciano Cesare Mazzolari, da 30 anni laggiù e oggi vescovo di Rumbek»: così scrivevo la settimana scorsa in queste pagine a proposito del Sud Sudan ed ecco la notizia che il caro vescovo Mazzolari che avevo conosciuto e abbracciato a Roma nel 2000 in occasione di un meeting vaticano sui “bambini soldato” - è morto sabato, mentre concelebrava la messa del mattino, a una settimana esatta dalla proclamazione dell’indipendenza, per la quale si era tanto battuto. Eroico vescovo di un Paese in guerra, se ne è andato all’improvviso - per un infarto, a 74 anni quando forse albeggiava la pace.

«P

Come a volte se ne va un padre quando i figli prendono in mano il loro futuro: il suo atteggiamento di paternità nei confronti del nuovo, fragilissimo Paese, è consegnato con una tonalità indimenticabile alle ultime dichiarazioni che ora ricorderò. Da Enzo Biagi a Massimo Alberizzi, a Stefano Lorenzetto, era abituale che i nostri giornalisti alle prese con l’incomprensibile Sudan facessero tappa da quel vescovo appassionato e intelligente, che viveva in simbiosi con il suo popolo di adozione e sembrava somatizzarne le sofferenze: «La mia patria è il Sudan. Ho promesso ai miei fedeli che non li abbandonerò neanche da morto. Loro sanno già dove mi devono seppellire», aveva detto in un’intervista del 2004: giovedì sarà sepolto nella sua cattedrale. Mazzolari ci aiutava a intendere qualcosa del mistero africano e dell’area in cui esso per noi è più denso: cioè la fascia subsahariana nella quale si mescolano e confliggono mondo arabo e mondo nero, islam e cristianesimo. Da ora in avanti non disporremo più di questo «interprete eccezionale». Conviene dare un’ultima occhiata al suo insegnamento in merito a quel Paese. «Il popo-

CORAGGIOSO forse più grave dei bambini soldato. Così ha ricordato quel patrimonio di sofferenze nel discorso per l’indipendenza: «È stato versato troppo sangue nella nostra terra: 2 milioni di sud sudanesi sono stati assassinati in 22 lunghi anni di guerra (1983-2005). Oggi offriamo il sangue di patrioti e martiri a Dio, chiedendo la grazia del perdono e la capacità di ricercare ogni giorno la pace, la libertà e la prosperità per la nostra nazione». «Il Sud Sudan è orgoglioso di essere una nuova nazione ed è pronto conquistare la propria identità nel mondo - aveva affermato durante un dibattito - ma avremo bisogno del supporto internazionale per diventare a tutti gli effetti membri della comunità globale». Attribuiva alla «Chiesa universale» il compito di «guidare le iniziative» per quel supporto. «Come chiesa - affermava in riferimento alle comunità cristiane del Sud Sudan - abbiamo una grande responsabilità nella costruzione del nuovo Stato: dobbiamo insegnare l’arte paziente del dialogo, della comunicazione e della riconciliazione». Già animatore di un’associazione di aiuto al Sud Sudan - vedila nel sito cesarsudan.org Mazzolari è morto

Ci aiutava a capire qualcosa del mistero africano e dell’area in cui per noi è più denso: la fascia subsahariana nella quale si mescolano e confliggono mondo arabo e mondo nero, islam e cristianesimo lo sospira la libertà da sempre e non può più attendere» aveva detto il nostro alla vigilia dell’indipendenza. A Rumbek - dov’era vescovo è toccato a lui dare inizio sabato 9 alla festa dell’indipendenza, con un’invocazione rivolta a Dio e - si direbbe - all’umanità: «O Signore, rimani con noi e rendici capaci di ricostruire le mura della nostra Gerusalemme che è la nostra nuova Repubblica del Sud Sudan. Siamo grati per ciò che le nazioni faranno per noi, ma ciò che conta veramente per la nascita di un nuovo Stato è sapere che noi, come individui, daremo il massimo per la nostra nazione».Vivendo per tre decenni nel Sud Sudan, Mazzolari ha vissuto insieme alla popolazione locale i bombardamenti della guerra civile, la carestia, i sequestri di persona, la piaga dello schiavismo - laggiù, incredibilmente, vige ancora il “mercato degli schiavi” - e quella

mentre lavorava al progetto di un Centro di formazione per insegnanti a Cuiebet, Sud Sudan, che verrà inaugurato il 10 ottobre prossimo. «Ora più che mai abbiamo bisogno di formare la classe dirigente del futuro, affinché l’autodeterminazione del popolo sud - sudanese sia piena e matura, nel segno della speranza e di un fondamentale recupero dell’identità», aveva dichiarato il 30 maggio scorso presentando un libro intervista scritto con il giornalista Lorenzo Fazzini e pubblicato da Lindau con il titolo Un Vangelo per l’Africa. Cesare Mazzolari, vescovo di una Chiesa crocifissa. Denunciatore instancabile del fondamentalismo islamico e dell’oppressione dell’islamismo di stato di Khartoum sul Sud Sudan, Mazzolari è stato anche molto critico della guerra americana al terrorismo: «I sudanesi vivono un 11 settembre quotidiano eppure sui vostri giornali non v’è traccia di questo martirio. Le tremila vittime delle Torri Gemelle le vedo ogni giorno nei volti di chi viene a chiedermi cibo e non lo trova» aveva detto nel 2004 in un’intervista a Stefano Lorenzetto.

“Un prete coraggioso nell’Africa affamata”è il titolo del ritratto del vescovo Mazzolari che Enzo Biagi pubblicò il 4 marzo del 1999 sul Corriere della Sera: «L’ho incontrato nel villaggio di Mapuordit e ho parlato, dopo tanto tempo, con un sacerdote, quasi una confessione, perché anche il dolore degli altri mi sgomenta. Ha lasciato tutto per venire quaggiù, e dorme nella capanna di paglia, e va ad attingere l’acqua al pozzo, e predica la speranza: se no, che senso avrebbe questo mondo, questa gente, la sua vita?». www.luigiaccattoli.it


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