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Quando ci si trova con dei malati il metodo migliore da adottare è pretendere di essere sani Herman Hesse
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 22 LUGLIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A Roma la prima Convention della nuova alleanza con Casini, Fini, Lombardo e Rutelli
Terzo Polo in campo: ora cambiamo l’Italia Il Quirinale dopo le polemiche a Montecitorio
La rabbia di Napolitano: «Basta liti sulla giustizia» Duro intervento del capo dello Stato: «Gli scontri tra magistratura e politica sono ormai intollerabili»
La maggioranza sempre più nel caos: Bossi non va al Consiglio dei ministri. La Camera annuncia: tagli per 110 milioni di costi Pisanu: «Moderati, è il momento di unirci» «Nel Paese c’è voglia di centro. È il momento giusto per ripartire» ******
Fioroni: «Governo di unità, poi insieme al voto» Il testo del “Manifesto” della Convention
Oltre il bipolarismo, contro il declino
Francesco Lo Dico • pagina 2
Il Cavaliere è “annebbiato“ e nell’angolo
Silvio, in realtà il Senatùr ti ha salvato di Giancristiano Desiderio acrime e sangue. Abbiamo visto le lacrime, speriamo di non vedere il sangue. La giornata dell’arresto di Alfonso Papa (con i suoi inevitabili strascichi) è stata drammatica. a pagina 3
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li italiani pretendono dalla politica un radicale cambio di stagione. Un cambio di governo, di sistema, di mentalità. I risultati delle elezioni amministrative e l’alta affluenza ai referendum non hanno lasciato spazio a dubbi. Ma è il grande pericolo che l’Italia corre: nulla può più rimanere come prima. a pagina 8
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Cisnetto: «Una Costituente, come dopo la guerra» Ora i moderati lancino gli stati generali per ricostruire il Paese Enrico Cisnetto • pagina 7
Un piano Marshall per Atene Mega-salvataggio: di fatto l’Europa «compra» la Grecia
Spingere un bottone per mandare in carcere i fa presto a dire “In galera”, poi però ci si deve trovare a spingere il bottone, a dare il voto per consegnare un uomo, un tuo collega nel caso specifico, alle manette e alla prigione.
Errico Novi • pagine 10 e 11
Accordo raggiunto: il “Salva Stati“ pagherà i bond ellenici pure in caso di fallimento
Il voto su Papa tra ragione e coscienza
di Riccardo Paradisi
«Le opposizioni devono ripartire dall’onestà e dalla credibilità»
di Francesco Pacifico
Il piano alla prova dei mercati
ROMA. L’etichetta ripetu-
Ma la politica resta debole
ta da tutti è «piano Marshall». Nel senso che l’Europa ha deciso di salvare la Grecia: tecnicamente, il fondo Salva Stati si è impegnato a comprare i titoli di stato ellenici anche in caso di fallimento. Una mossa estrema per togliere d’impiccio l’euro. Ma pure - di fatto - il commissariamento di Atene. a pagina 12
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
141 •
di Gianfranco Polillo giunta «l’ora delle decisioni irrevocabili», come disse infaustamente Benito Mussolini quel lontano 1940? L’interrogativo è d’obbligo. Ma solo nei prossimi giorni avremo il responso. a pagina 14
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Non si placano i malumori nella maggioranza. Il Senatùr non parteciperà al Consiglio dei ministri: non ci saranno chiarimenti
La rabbia di Napolitano
Dopo le polemiche sull’arresto di Alfonso Papa interviene il Colle: «Gli scontri continui tra politica e magistratura sono intollerabili» il restroscena di Francesco Lo Dico
ROMA. Il day after dell’arresto di Alfonso Papa è segnato da una polemica surreale tra maggioranza e maggioranza, opposizione e opposizione, maggioranza e opposizione. Un tutti contro tutti che trova nelle curiose modalità di voto prescelte dai parlamentari del Pd e della Lega (che fotografano il loro voto come gli ultimi dei terroni) la sua piena sostanza metaforica: come sempre ci si nasconde dietro un dito, ci si accusa, ci si sbeffeggia, per non ammettere le uniche due verità emerse dalla caotica giornata di ieri. La prima è che il governo è clinicamente morto, e la Lega mette le mani avanti con pratiche poco nobili che assomigliano al vilipendio di cadavere. La seconda è che alla prova dei fatti, che si tratti di tagliare i privilegi alla casta o di tutelarne i suoi componenti, il Pd si distingue dal Pdl soltanto per l’accessorio dettaglio di un lettera in più nell’acronimo. A chiosa della giornata, arriva in serata il commento di Gianfranco Fini, scettico su un governo di responsabilità nazionale o su ulteriori sostegni a una maggioranza giunta la tracollo: «Non mi pare che allo stato ci siano le condizioni che portino ad affron-
«Sono innocente ma rinuncio alla vicepresidenza della Regione
Intanto Penati si autosospende Ancora tensioni dopo l’accusa di corruzione MILANO. Il giorno dopo di Filippo Penati non scioglie il nodo dell’inquietudine e anzi porta con sé una prima conseguenza politica: il vicepresidente del consiglio regionale lombardo, indagato per una vicenda di tangenti, si è autosospeso dalla carica. Con una lettera inviata al presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, al presidente del consiglio regionale, il leghista Davide Boni, e ai capigruppo, l’esponente del Partito democratico ha spiegato: «Ribadendo la mia totale estraneità ai fatti, per rispetto dell’istituzione mi autosospendo da vicepresidente». «A seguito del mio coinvolgimento nella vicenda giudiziaria relativa all’area Falck di Sesto San Giovanni - continua Penati nella lettera - desidero ribadire la mia totale estraneità ai fatti. In merito anche alle notizie apparse sulla stampa voglio precisare che non ho mai chiesto né ricevuto denaro da imprenditori. Voglio altresì ribadire la mia assoluta fiducia nell’operato della magistratura. Per profondo rispetto dell’istituzione nella quale sono stato eletto e per evitare ogni imbarazzo al Consiglio mi autosospendo dall’esercizio e dalle prerogative di vice-
presidente, certo che tutto verrà completamente chiarito e confido a breve»: così l’autorevole leader della sinistra milanese annuncia il suo gesto. E poi conclude: «Da subito rinuncio alle prerogative connesse alla vicepresidenza, non parteciperò più all’ufficio di presidenza e già dal prossimo consiglio siederò tra i banchi dei consiglieri di minoranza. Sono certo di interpretare anche i sentimenti di chi mi ha eletto nel voler garantire in queste circostanze il massimo rispetto delle istituzioni». Naturalmente, il Pd lombardo ha apprezzato la decisione di Penati. Il segretario regionale Maurizio Martina e il capogruppo in Regione Lombardia Luca Gaffuri hanno diffuso un comunicato nel quale apprezzano la «decisione assunta da Filippo Penati in un momento certamente delicato. Un gesto che dimostra tutta la sua sensibilità istituzionale. Per parte nostra rinnoviamo l’auspicio che la vicenda si chiarisca nel più breve tempo possibile e che Penati possa tornare a svolgere appieno le sue funzioni». Chissà se questo semplice gesto basterà a placare i malumori nella sinistra milanese.
tare la mole di problemi che ha l’Italia con forme di responsabilità condivisa». «La coesione nazionale non equivale a un eventuale governo di unità nazionale», ha avvisato il leader di Fli. L’ex missino ha poi garantito il via libera dell’Ufficio di presidenza al piano per tagliare le spese della Camera di 110 milioni di euro nel periodo 2011-2013 prevedendo risparmi complessivi per 151milioni. L’unico vero segnale di vita lanciato ieri dalla politica, insieme all’appello di Giorgio Napolitano.
Accade infatti che nella solita fiumana di dichiarazioni contro la magistratura cancerosa, tocchi come sempre al presidente della Repubblica, salvare il decoro delle istituzioni agli occhi degli italiani. «Il magistrato deve assicurare in ogni momento», ha detto il capo dello Stato in occasione dell’incontro al Quirinale con i magistrati ordinari in tirocinio, «anche al di fuori delle sue funzioni, l’imparzialità e l’immagine di imparzialità su cui poggia la percezione che i cittadini hanno della sua indipendenza e quindi la loro fiducia». Parole che poco dopo scatenano il plauso di molti esponenti del Pdl, che evidentemente smarriscono nell’entusiasmo il seguito del discorso del Colle. Giorgio Napoli-
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22 luglio 2011 • pagina 3
la polemica
In realtà, Bossi ha salvato Berlusconi Quale costo avrebbe dovuto pagare il governo se la Camera avesse “graziato” Papa? di Giancristiano Desiderio acrime e sangue. Abbiamo visto le lacrime, speriamo di non vedere il sangue. La giornata dell’arresto di Alfonso Papa (con i suoi inevitabili strascichi) è stata drammatica ma, forse, le cose per Silvio Berlusconi e il suo governo non sono state nere più della mezzanotte come si tende a credere. Certo, un deputato è uscito da Montecitorio ed è entrato a Poggioreale. Ma - ed è qui il punto da sottolineare con matita rossa e blu - il tutto è accaduto per volere della stessa maggioranza e dello stesso governo dell’onorevole Papa. L’opposizione nell’ambito della logica di schieramento con cui, purtroppo, è stato affrontato il “caso Papa” ha recitato la sua parte, mentre chi ha scelto di affacciarsi dalle parti del campo di Agramante è stata la Lega di Bossi e di Maroni. Ragion per cui quando il presidente del Consiglio dice «vogliono colpire me» si sta rivolgendo, stando ai fatti, ai suoi stessi alleati. Tuttavia, chi controlla la Lega Bossi, Maroni o chissà chi - alla fine, consegnando Papa alle manette di Woodcock non ha finito per salvare proprio Berlusconi piuttosto che colpirlo e indebolirlo ulteriormente?
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È una domanda legittima che acquista anche maggior forza se consideriamo l’altro voto parlamentare, quello sul senatore Tedesco del Pd, che, ancora una volta grazia alla logica di schieramento, è stato graziato dal suo stesso partito che non ha perdonato nulla ad Alfonso Papa. Così alla Piazza, attraversata e dominata dai sentimenti dell’antipolitica e dell’anticasta, si è potuto dire che un parlamentare va in galera se è del Pdl ed è libero se è del Pd. Queltano prosegue infatti esprimendo il proprio biasimo per le «condotte» che creino «indebita confusione di ruoli e fomentino l’ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura. E aggiunge poi: «Fin dal 2007 ho invitato i magistrati a ispirare le proprie condotte a criteri di misura e riservatezza, a non cedere a fuorvianti esposizioni mediatiche, a non sentirsi investiti di ’improprie ed esorbitanti missioni’, a non indulgere in atteggiamenti protagonistici e personalistici che possono mettere in discussione la imparzialità dei singoli, dell’ufficio giudiziario cui appartengono, della magistratura in generale».
Parole, si diceva, che lusingano i bombardieri pidiellini schierati contro le toghe rosse, dimentichi però che le sottolineature del capo dello Stato si sarebbero potute attagliare a perfezione, ad esempio, al collega Alfonso Papa, magistrato in aspettativa che invece di difendersi dalle accuse di reato a lui
la scheggia di giacobinismo e giustizialismo che la maggioranza si porta dentro ha di fatto permesso al governo Berlusconi di sottrarsi ulteriormente, almeno per il momento, alle invettive sulla casta e, contemporaneamente, gli ha fornito la possibilità di indicare nel suo principale accusatore, il Pd, di usare come sempre due pesi e due misure. Il “sacrificio di Papa” consente a Berlusconi, dato già per morto, di tirare ancora a campare. È l’ennesimo paradosso italiano, ma è così. Eppure, una volta versate lacrime ora sincere ora di coccodrillo per l’ex magi-
Paese, allora, le cose cambiano e di molto. Lo stesso premier ha evocato “il clima del ‘92”, ma si tratta di un’analogia sbagliata. Non solo perché la storia non torna in dietro, ma anche e soprattutto perché il clima del 2011 è quello di una tempesta economico-finanziaria in cui l’Italia si è venuta a trovare proprio per l’assenza di un governo saldamente ancorato alla tutela degli interessi nazionali. Come non considerare che sia le difficoltà sulla manovra di Tremonti sia i distinguo della Lega sul “caso Papa” nascono dal calo di consensi elettorali dell’esecutivo?
Il premier continua a «perdere i pezzi»: questa volta, l’alleato da punire sembra essere il leader del Carroccio
Più volte è stato ripetuto che Bossi e Berlusconi sono sul viale del tramonto. Giunti all’imbrunire, non si vede sorgere un altro sole. Fuor di metafora, dalla manovra economica alla polemica sui privilegi e i costi della politica fino al “caso Papa”non si conosce un’opinione del segretario del partito di maggioranza relativa. Angelino Alfano tace. Come se le sue parole aggiungessero problemi a problemi. Però, così il suo ruolo è già diventato tutto organizzativo e per nulla politico. La chiave dell’acqua del Pdl è tutta nelle mani del premier che a sua volte le ha legate dalla Lega e le sue contraddizioni di partito di lotta e di governo. Insomma, ben presto verrà il generale Agosto e il destino di Papa sarà il destino di Papa mentre si vedrà che le insormontabili difficoltà del governo sono legate ai tentativi fallimentari di tenere in piedi un governo rottamato dalla sua maggioranza. Davanti a questo scenario stupisce la posizione di un Pd tanto veloce nella critica antiberlusconia-
strato diventato parlamentare ed entrato in carcere, le questioni politiche della destra e della sinistra rimangono così com’erano sul tappeto: irrisolte. Il voto dell’altra sera ci svela quel segreto di Pulcinella che tutti conoscono: la maggioranza esiste perché esiste un governo, ma l’esistenza del governo è priva di una coesa maggioranza politica. Ancora una volta è stato dimostrato che una somma di numeri non dà un’azione politica e un governo privo di una sua strategia condivisa dai suoi componenti è destinato alla sconfitta parlamentare. Poco male, si dirà (come in effetti dicono nella maggioranza facendo finta di niente). Ma quando la sconfitta parlamentare diventa la sconfitta di un
contestate, ha indicato nelle toghe di Napoli un gruppo complottista che ha ordito la sua custodia cautelare. E se Cicchitto denuncia l’ennesimo «cortocircuito tra magistratura e politica», dimenticando come sempre di dire che una più accorta selezione della classe dirigente eviterebbe problemi alla centralina, il senatore Quagliariello chiede «orecchie attente alle parole di Napolitano». Stracquadanio lo accontenta subito: «Il Capo dello Stato ci ha commissariato». Un’occasione persa (non la prima) per tacere. Perché Giorgio Napolitano è intervenuto sul tema delle intercettazioni, che vanno usate, ha auspicato, «solo nei casi di assoluta indispensabilità», esortando i magistrati «a fare uso sapiente ed equilibrato dei mezzi investigativi bilanciando le esigenze del procedimento con la piena tutela dei diritti costituzionalmente garantiti». Il Quirinale non si è sottratto neppure dall’auspicio di creare un sistema giudiziario più snello ed effi-
ciente, libero da strozzature che «pesano sullo sviluppo complessivo del Paese» e producono una «crisi di fiducia» nel cittadino. Il presidente della Repubblica ha poi vagheggiato una conseguente riforma della giustizia: «Ciò cui dobbiamo mirare tutti assieme è un recupero di funzionalità, e insieme di razionale e limpido profilo, del sistema giudiziario. Ognuno può e deve fare la sua parte. A unirci deve
na quanto lento nella costruzione di un partito dal profilo europeo. Il viale del tramonto sul quale si sono incamminati Berlusconi e Bossi è abbastanza grande e scorrevole per accogliere un Pd che nei momenti decisivi fa di tutto per somigliare al suo antenato del “clima del ‘92”: il neonato Pds. Una volta passata la tempesta, la piazza al momento del voto torna a destra. A meno che non trovi dall’altra parte qualcosa che si avvicini a un partito di governo e un programma di riforme. Non può pensare a tutto il Quirinale.
segnale a Berlusconi. Siamo alla vigilia del big bang», commenta il finiano Carmelo Briguglio.
E sebbene il neosegretario del Pdl, Angelino Alfano, e il deputato Niccolo Ghedini si diano da fare con l’estintore («Nessuno strappo con la Lega e Berlusconi sta bene»), il sacro fuoco del premier rende il tentativo generoso ma inutile: «È partito l’at-
«Sono scettico sulla responsabilità comune», dice Gianfranco Fini: «Nell’immediato, non vedo altre opportunità di coesione. Ma prima di tornare a votare occorre cambiare la legge elettorale» essere la tenacia, il rigore, la serenità, il senso del dovere, il lavoro preso sul serio». E se l’intervento di Giorgio Napolitano è di quelli a largo respiro, la guerra sottotraccia scatenata dal tradimento della Lega ha il fiato cortissimo. «I mutati equilibri nella Lega a favore della linea di Maroni sono un preciso
tacco finale – si è sfogato il Cavaliere secondo quanto riferito da Repubblica – e Maroni si prepara a tradire. Anzi ha già tradito. Ne parlerò venerdì con Bossi in Consiglio dei ministri e mi dovrà dare delle spiegazioni». Che invece Bossi non gli darà, in quanto il Senatùr annuncia che non sarà presente oggi in
Consiglio dei Ministri. Ma se Sansone sembra intenzionato a cadere insieme a tutti i filistei, non si respira un’aria migliore in casa Pd, dove Arturo Parisi accusa apertamente il collega Nicola Latorre all’indomani del voto segreto che ha salvato Tedesco: «Si sarà reso conto della assoluta necessità di spiegare la dinamica e il guasto tecnico che lo hanno costretto a dichiarare, solo a voto già proclamato, il voto espresso e non registrato a favore dell’arresto di Tedesco», ha ironizzato Parisi. I molti e misteriosi inconvenienti di ieri sono stati ad ogni modo accolti non troppo benevolmente dai militanti del Pd, che sulla pagina Facebook del partito, restituiscono la pariglia. «Come al solito siete peggio del Pdl, ipocriti!». «Chiedo al senatore Tedesco se la sua coscienza non gli imponga di dimettersi» scrive sul Fatto Quotidiano la piddina Debora Serracchiani. «Bisogna fugare ogni dubbio», dice. Prima di fugare buona parte degli elettori.
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Dietro alla decisione per l’arresto di Papa si sono consumate molte crisi interiori tra i deputati, divisi tra scrupoli privati e dovere pubblico i fa presto a dire ”In galera”, poi però ci si deve trovare a spingere il bottone, a dare il voto per consegnare un uomo, un tuo collega nel caso specifico – uno che vedi tutti i giorni in aula, nelle commissioni parlamentari, nel transatlantico – alle manette e alla prigione.
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Stiamo parlando del caso di Alfonso Papa naturalmente e più in particolare della tensione sempre ricorrente nella vicenda politica tra il pubblico e il privato, tra la coscienza individuale - con le sue remore, i suoi dubbi, la sua compassione e l’azione necessaria al bene pubblico o a ciò che in buona fede si ritiene essere il bene pubblico. Questo farsi osservatori partecipanti della coscienza di quei deputati che riottosi hanno votato per il si all’arresto di Papa
Al Senato alcuni esponenti dell’opposizione hanno votato contro il fermo dell’esponente del Pd Tedesco, disobbedendo al partito bisogna peraltro pur farla perché insomma non erano mica tutti commedianti quelli che dopo aver votato per l’autorizzazione a procedere restavano perplessi, tormentati nella loro coscienza e nella loro psicologia. Interrogandosi sulle conseguenze di quel voto che pur convintamente avevano espresso. Che il quadro sia più complesso della semplice geometria politica lo dimostra d’altra parte anche il fatto che al Se-
nato alcuni esponenti dell’opposizione che hanno votato contro l’arresto dell’esponente del Pd, disobbedendo alle indicazioni del proprio partito, si dicevano convinti di molte argomentazioni a conforto della non autorizzazione a procedere anche per Papa. Convinzioni secondo le quali la carcerazione preventiva non è una vetta del diritto, il parlamento non può derogare alle sue prerogative creando precedenti di sovranità vulnerata, per le quali esiste una statistica di errori e di sviste nelle indagini di Pm disinvolti. Argomentazioni tutte valide ma che danno l’impressione di essere l’iceberg d’una più profonda e magari inconscia argomentazione principale, ovvero il disagio per quel gesto di condanna, per quel pollice verso, per la decisione che consegna un uomo al carcere, alla privazione della libertà.
Eppure anche questa idea ha il suo rovescio. Anche questo scrupolo potrebbe essere letto con sospetto. Certo, un deputato non è un magistrato né un carabiniere, non è il suo mestiere quello di imputare e carcerare le persone, e però la sua è una responsabilità pubblica, è chiamato a produrre leggi, a garantire l’ordine sociale, il rispetto delle regole. Che cosa sono dunque questi pianti da coccodrillo? Sarebbe stato grave piuttosto – secondo una lettura a ciglio asciutto di questa vicenda – salvare uno della casta contravvenendo allo spirito e alla lettera della democrazia e dello stato di diritto dove la legge è uguale per tutti. Ma la dialettica continua. E con la stessa solidità d’argomentazioni c’è chi sostiene che l’aver votato per l’arresto di Papa ha significato assecondare un clima giustizialista, che il rischio è quello di deliberare sulla spinta emotiva d’una voluttà antipolitica. C’è ancora un elemento a complicare il quadro: la sensibilità cristiana di molti esponenti politici che hanno
Il voto di mercoledì tra ragione e coscienza
Il dito e il carcere: se giudicare è un dramma di Riccardo Paradisi votato per l’arresto di Papa. Chiamati a giudicare e condannare in prima persona mentre Cristo intimava di non giudicare né condannare.
Eppure un politico può, per uno scrupolo di coscienza suo privato, eludere ciò che si profila come un dovere superiore se è persuaso che il soggetto su cui si chiede la limitazione della libertà sia realmente indegno dell’assemblea dove siede? Non sarebbe una fuga dalle proprie responsabilità? Un gesto di ignavia? La complessità della situazione la restituisce bene l’intervento di Benedetto Della Vedova pronunciato il giorno in cui s’è votato per l’arresto di Papa «La decisione che ha aperto le porte del carcere ad
Alfonso Papa, un volto familiare, è stata dura e dolorosa anche per chi l’ha presa. Ma la galera di Papa non è diversa da quella di migliaia di persone che vanno o restano in galera per una nostra decisione e di cui poco ci preme. E non sarà diversa o migliore della detenzione nei Cie di migliaia di clandestini per i quali il Parlamento ha da pochi giorni esteso fino a 18 mesi la “permanenza” nei centri di identificazione ed espulsione. Del garantismo trasformistico che si fa tanto più intransigente quanto più riguarda gli imputati“per bene”e tanto più cedevole alle esigenze di sicurezza per la folla anonima di poveracci e sbandati che popola le carceri italiane, penso che sia un velenoso contributo all’ingiustizia. Più di un detenuto
l’approfondimento
Per il capogruppo Cicchitto, il voto segreto di fatto non esiste
Intanto il Pdl denuncia “irregolarità” e chiede il ritorno della pallina di Massimo Fazzi a proposta è intrigante e sembra collegata a nobili origini: tornare alle palline e all’urna coperta da tendina per legittimare il voto segreto. L’esito del voto di ieri sulla richiesta d’arresto per l’onorevole Alfonso Papa, deputato del Pdl, ha portato anche ieri nuove tensioni e strascichi. Il giorno dopo il sì della Camera alla richiesta di arresto per il parlamentare, non si sono placate le polemiche sulle modalità di votazione. Oggetto del nuovo filone, gli scatti dei fotografi che hanno immortalato il voto in Aula dei deputati leghisti. Il Popolo della Libertà, per questo, è sul piede di guerra: «In Aula non c’è stato voto segreto, ma una parodia di voto segreto. Ci sarebbero gli estremi per invalidare quella votazione». Non è uno scherzo, ma la denuncia pronunciata appunto ieri mattina dal capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto. Dalle fila dell’opposizione il presidente dei deputati Idv, Massimo Donadi, ha respinto con forza le accuse mosse dal Popolo della libertà: «Le presunte irregolarità del voto sollevate sono una sciocchezza, non c’è stata alcuna violazione». Per il Pdl il caso invece c’è e la questione si pone. «O si garantisce il voto segreto – ha aggiunto Cicchetto - oppure ritireremo le adesioni a questa modalità di voto. Abbiamo visto che il meccanismo del voto segreto può essere aggirato: vi diciamo che questa cosa non si deve ripetere. Se questo problema non ha dalla Presidenza una risposta seria, metteremo in questione la nostra adesione a questo tipo di votazione». Da parte sua, il presidente di turno di Montecitorio Rosy Bindi ha assicurato che «del tema si occuperà l’ufficio di presidenza».
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Sotto accusa, per il Pdl, l’affermazione del capogruppo del Pd Dario Franceschini che ieri ha detto: «I deputati del Pd renderanno palese il loro voto con un accorgimento tecnico che il nostro sistema consente». Questa frase, spiega Cicchitto, « la testimonianza più palese che il voto segreto è stato violato e ci sarebbero tutti gli estremi per l’invalidazione del voto sull’arresto». La proposta è quella, dunque, di tornare alla vecchia urna coperta da tendina in cui infilare una pallina – di colore diverso – per votare. Un metodo antico molto più di quanto sembri: non è infatti un richiamo al percorso parlamentare moderno, ma riporta alla mente l’ostracismo delle protosocietà greche in cui l’ostracon era la pallina di colore nero che determinava, se immessa nell’urna, l’esilio di una persona sgradita alla società. Un sistema poi mutuato dalla prima e dalla seconda Repubblica romana, che vi aveva immesso una variante: palline con vari simboli a dimostrazioni delle varie preture immerse in un’urna coperta e piena d’acqua. Gli eletti, nove per le nove cariche, estraevano a turno a seconda dei voti ricevuti – dal più votato al meno – e conoscevano così il proprio destino. Ma, avvertiva Caio Giulio Cesare in occasione della sua elezione a pretore urbano, «ogni sistema si può truffare, anche questo». Dunque neanche la pallina nascosta dall’urna può aiutare questo Parlamento a ottenere la massima trasparenza sui propri affari. Cicchitto dovrebbe ascoltare la voce della storia.
su quattro nelle carceri italiane sta, come il collega Papa, aspettando di essere giudicato. La metà di loro sarà assolta (come spero accada a Papa). Se vogliamo occuparcene, sono pronto. Ma il garantismo non è un occhio di riguardo per i potenti e uno sguardo distratto per i pezzenti: “salvare” Papa non sarebbe stato un atto di “giustizia giusta”, qualsiasi cosa si pensi della magistratura, dei suoi errori e dei suoi orrori». Sono comunque queste resipiscenze e quei volti un po’ smarriti di molti deputati che hanno votato a malincuore si all’arresto del loro collega a testimoniare plasticamente che le cose sono sempre più complesse di come le restituisce il basico e sempre più selvaggio dibattito mediatico e politico italiano o di come vorrebbero trasformarlo le orde urlanti nelle piazze o su quella nuova agorà che è il web, dove l’anonimato e la distanza dalla realtà fatta di carne e sangue, di odori e di sguardi, sembra moltiplicare aggressività e spietatezze. Tanto che erano migliaia ieri già pochi minuti dopo il voto contro Papa in parlamento, i commenti dell’entusiasmo forcaiolo, come se la galera per Papa fosse una soddisfazione a lungo attesa. Un pasto che s’era impazienti di consumare.
«La decisione che ha aperto le porte del carcere a Papa, un volto familiare, è stata dolorosa anche per chi l’ha presa» dice Della Vedova Di cannibalismi come questi del resto è fatta la politica e più in generale la storia (soprattutto quella italiana) ma appunto la constatazione diventa meno ovvia e pacifica meno statistica e entomologica quando lo sguardo si fa ravvicinato, quando a esser chiamato a decidere e giudicare sei tu. Tu in carne ed ossa. Che ti chiedi – se non sei l’ex Pm Di Pietro o un suo uomo – «ma chi sono io per poter giudicare?». Pur sapendo che magari il giudizio severo è realistico e giustificato. È una vecchia storia del resto. Che riguarda la tensione – irrisolvibile tra il proprio ruolo pubblico e la propria coscienza privata. E certo la si può risolvere come fa il filosofo Mario Perniola che a proposito del caso Papa e dei tur-
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bamenti d’alcuni deputati sostiene che ciascuno deve fare i conti con la propria coscienza; che l’autonomia della sfera politica, soprattutto nel Paese di Machiavelli e Guicciardini è garanzia da ogni cortocircuito con la morale.
Già, Machiavelli. «L’intento mio è scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dritto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità». Intendiamoci, affermando l’autonomia della politica dalla morale, Machiavelli non nega a quest’ultima il suo valore, non dice che il male è bene, egli avverte solo che per un’azione politica volta alla salvezza dello Stato, può essere necessario ricorrere al male, o nel nostro caso a un bene esercitato con la forza del diritto e quindi con la coscrizione che in questo caso non solo è accettato, ma è definito necessario. La ”tragedia etica”di Machiavelli è stata chiamata.Tragedia che però resta ancora un’astrazione fin quando non si cala nella coscienza di chi quella tragedia deve agirla e compierla. E in quel caso un uomo che abbia naturalmente una coscienza e che non sia dunque un politico totalmente incinichito e animato da un’animale volontà di potenza avverte che l’esercizio del potere può essere un sacrificio, un venire ai ferri corti con il proprio se, un evento dentro cui la tensione tra la propria coscienza privata e il proprio ruolo pubblico non è destinata ad essere risolta. È questa tensione d’altra parte a fare dell’Occidente quello che è.A farne lo spazio della tragedia, della filosofia, della storia. Lo spazio dove s’è incarnato il principio liberale e laico del ”Date a cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Lo spazio dove ci si fanno degli scrupoli. E dove chi non se li fa, preda della furia, è considerato ancora un barbaro.
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la crisi, l’alternativa
Oggi a Roma Casini, Fini, Rutelli e Lombardo rilanciano la sfida moderata. E da Viale dell’Astronomia parte un nuovo allarme
O si svolta o si muore
Proprio alla vigilia della convention del Terzo Polo, Confindustria fotografa lo stallo del Paese: ormai siamo tornati alla crescita zero di Gualtiero Lami
ROMA. Unità nazionale. Il Terzo Polo lo ripete continuamente, da mesi, mentre intorno infuria la bufera e tutti gli altri protagonisti della politica fanno finta di non rendersene conto. Unità nazionale. Per fermare il declino economico del Paese; quel declino che il governo Berlusconi non solo non ha saputo fermare, ma per troppo tempo colpevolmente – ha addirittura finto di non vedere. Unità nazionale per fermare il degrado morale e cercare di espellerlo dalle istituzioni. Unità nazionale per rilanciare il Paese, i suoi cittadini e le sue famiglie; per cercare di ridargli speranza e dignità. È per tutto questo che la Convention del Terzo Polo, oggi all’Auditorium della Conciliazione di Roma, è un po’ il trampolino di lancio della nuova Italia. Ma con la consapevolezza che troppo tempo si è perso e i tempi supplementari stanno per finire. Per finire male, per di più. Almeno stando ai rilievi economici di Confindustria che ieri ha presentato il consueto bollettino d’analisi mensile del suo Centro Studi. I numeri sono terribili: il pil segna il passo e la crescita si blocca; il mercato del lavoro è debole e i consumi ristagnano. «La crescita sarà quasi nulla nel terzo trimestre, dopo che nel secondo si è avuto un aumento dell’1,6%
della produzione industriale, concentrato nella prima parte del periodo, che ha originato una temporanea accelerazione del Pil» recita impietoso il documento degli industriali italiani. Gli indicatori qualitativi sono in corale arretramento: le piccole e medie imprese hanno rilevato in giugno ordini calanti nel manifatturiero (47,5, minimo da 20 mesi, da 51,1) e nel terziario (47,4, da 50,1). In pratica, il Centro Studi di viale dell’Astronomia (un trust di cervelli, vale la pena ricordarlo, certo non sovversivi ma alternativi al governo) spiega che si profilano «debolezza della domanda interna, minor forza di quella estera, rispercussioni dalle violente turbolenze finanziarie globali e stretta sui conti pubblici». Per l’Italia, quindi, «gli indicatori puntano a una nuova e prolungata fase di variazioni del Pil che saranno molto difficilmente superiori all’1% annuo».
Il mercato del lavoro in Italia rimane debole ed i consumi «hanno un profilo piatto» dice ancora il bollettino mensile di Confindustria. Che poi ricorda: «A maggio il tasso di disoccupazione è salito all’8,1% (+0,1 su aprile) e al 28,9% (+0,4) tra i giovani sotto i 25 anni», mentre «a giugno la percentuale di imprese che si attendeva una riduzione del nu-
Il programma dell’Auditorium ROMA. “Io cambio l’Italia con il Terzo Polo”. Con questo titolo si apre oggi a Roma, presso l’Auditorium di via della Conciliazione, la convention della nuova alleanza. Ad aprire i lavori, Ferdinando Adornato. A seguire interverranno esponenti della società italiana e internazionale come Lorenzo Ornaghi, Antonio Polito, Nicola Rossi e il vice presidente del Cnt libico, Ali al-Issawi. Questo a dimostrazione che non si tratta di un appuntamento di schieramento, ma dedicato a un miglioramento della nazione. Nel corso della giornata ci sarà anche l’intervento dei leader politici del Terzo Polo, l’alleanza dei moderati. Parleranno infatti Francesco Rutelli, leader dell’Alleanza per l’Italia; Raffaele Lombardo del Movimento per le Autonomie; Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di Centro e Gianfranco Fini di Futuro e Libertà.
mero di addetti nei successivi tre mesi (17,5%) è tornata a essere superiore a quella di quante prevedevano un incremento (16,0%): un deterioramento che ricalca quello delle previsioni delle aziende sulle condizioni economiche in cui operano». Ed è per naturale conseguenza a tutto ciò che «i consumi risentono delle difficoltà occupazionali e della dinamica dei prezzi al consumo: vendite al dettaglio e immatricolazioni di auto hanno un profilo piatto» e «la domanda interna ristagna». Neanche il capitolo export ci regala segnali tranquillizzanti: l’emergenza è di là da essere superata. A maggio le esportazioni italiane sono rimaste ferme: +0,1% in valore su aprile, dopo il +5,4% messo a segno da dicembre ad aprile (dati destagionalizzati). Rispetto ai mesi precedenti, le vendite nei mercati extra-Unione europea sono arretrate (-1,0%) e quelle verso l’Ue sono salite (+1,0%). L’export è aumentato dall’inizio della ripresa a un ritmo mensile superiore a quello tedesco: +1,6% contro +1,5%. Tuttavia, resta del 4,0% sotto il picco pre-recessione (aprile 2008), mentre le esportazioni tedesche in maggio erano del 7,7% sopra il massimo precedente la crisi. La maggiore durata della caduta (minimo toccato nell’agosto 2009; in germania nel maggio 2009) e la sua superiore in-
la crisi, l’alternativa a convention del Terzo Polo si apre proprio nei giorni che in futuro i libri di storia indicheranno come quelli in cui è stata messa la parola fine alla fallimentare esperienza della Seconda Repubblica. Esattamente come il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa aprì Mani Pulite e chiuse la Prima Repubblica, così mercoledì 20 luglio il voto favorevole di Montecitorio all’arresto di Carmelo Papa ha definitivamente fatto calare il sipario non solo su Berlusconi e il suo governo, ma su quel bipolarismo all’italiana che dal 1994 in poi ha configurato il sistema politico (e pure la mentalità collettiva del Paese, che da quel momento ha preso a dividersi per qualunque cosa tra berlusconiani e antiberlusconiani, come ai tempi dei guelfi e dei ghibellini).
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Certo, impressionano le molte similitudini tra le due epoche, a cominciare da quella evidente del ruolo della magistratura e dei giornali, ma anche da quella sottaciuta e tuttavia a mio giudizio più importante dell’altissimo tasso di “non governo” prodotto dal sistema e dell’incapacità del ceto politico di capirne cause e conseguenze, cosa che allora come oggi ha rappresentato la premessa del “the end”. Si dirà: i segnali di cedimento erano già visibili ben prima che una parte della Lega decidesse di assestare quel colpo mortale che è stato il sì alle manette per Papa. Vero, così come nel 1992 veniva da lontano la crisi di credibilità del ceto politico che investì il Psi di Craxi e la Dc di Andreotti e Forlani. E come allora, un po’ di tempo ci vorrà prima che si formino le condizioni per un cambio di regime. Ma proprio perché ci siamo già passati – ed è in virtù di questo antefatto storico che la responsabilità della classe politica attuale è molto maggiore di quella attribuibile ai leader della Prima Repubblica – che bisogna assolutamente non commettere gli stessi errori. Due, in par-
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Le cose da fare per dichiarare chiusa la Seconda Repubblica
Nuova Costituente, come dopo la guerra Il compito dei moderati è lanciare gli stati generali per ricostruire il Paese di Enrico Cisnetto ticolare: evitare che la transizione, ma sarebbe meglio dire agonia, duri troppo a lungo (allora ci vollero due anni); evitare che “il dopo” sia costruito sulle sabbie mobili di un’analisi ipocrita e di comodo di ciò che è successo e in mancanza di un progetto definito di come ha da essere la Terza Repubblica.
E qui veniamo all’importanza della convention del Terzo Polo che si apre oggi a Roma, a cui mi dolgo di non poter essere presente per la coincidente apertura della mia “Cortina InConTra”. Perché è evidente che gli unici legittimati ad analizzare la sancita fine della stagione del bipolarismo e a gestire l’apertura di una fase di passaggio verso un nuovo sistema politico – con il necessario radicale cambio non solo delle leadership ma dell’intero ceto politico – non possono che essere coloro che dal meccanismo bipolare si sono chiamati fuori o ancor meglio non vi sono mai stati dentro. Dunque, coraggio: passiamo dalla dichiarazione dello stato di crisi – che tanto ormai si è palesato anche agli occhi dei più recalcitranti – alla definizione di ciò che occorre fare. Anche perché la durata dell’agonia sarà più o meno lunga a seconda del tempo che ci si metterà a far emergere una chiara alternativa allo status quo. Allora, io dal Terzo
tensità (-31,9% contro il -24,9% tedesco) spiegano il ritardo nella chiusura del gap. In base a tutto questo, le prospettive dell’export non possono che essere negative per i prossimi mesi, secondo il Centro studi di Viale dell’Astronomia. Il saldo dei giudizi delle imprese manifatturiere italiane sugli ordini dall’estero è in netta flessione: -17,4 in giugno, da 10,1 in aprile. Le richieste di autorizzazione di cassa integrazione guadagni a giugno sono diminuite del 20,1% su maggio, più del doppio di quanto spiegato da fattori stagionali. Tuttavia, il bacino di lavoro assorbito dalla cig sfiora le 340mila unità, livelli analoghi a quel-
La rottura tra la Lega e Berlusconi sul caso Papa è l’atto finale di una stagione che non ha fatto i conti con il proprio fallimento Polo mi attendo un’indicazione netta di come si può e si deve gestire questa situazione e l’apertura – finalmente, perché avrebbe dovuto essere fatta prima – di una discussione serrata ed approfondita di come potrà e dovrà essere la Terza Repubblica quando la transizione si sarà conclusa.
Cosa vi direi, nel merito, se fossi con voi alla Convention? Sul primo punto, la necessità è quella di arrivare al più presto
li dell’autunno 2010. Il ricorso a questo ammortizzatore è particolarmente ampio nei settori dove la produzione è ferma molto al di sotto dei livelli pre-recessione. Inoltre, si amplia il disavanzo
ad un governo guidato da altri che non sia Berlusconi, il cui mandato sia gestire l’emergenza economica – temo che a settembre occorra una nuova manovra correttiva dei conti pubblici – e varare una nuova legge elettorale, per andare a votare nella prossima primavera. Cosa può fare il Terzo Polo oltre che proporlo? Assumere la leadership del fronte delle opposizioni, convocando in modo formale gli interlocutori che dentro l’attuale mag-
con i Paesi fuori dai confini dell’Unione europea. Ecco: può bastare? Per mesi – come si ricorderà – dal ministero del Tesoro sono partite bordate stizzite nei confronti
«La crescita sarà quasi nulla nel terzo trimestre, dopo che nel secondo si è avuto un aumento dell’1,6% della produzione industriale» recita impietoso il documento degli industriali commerciale con i paesi extra Ue, passato da -1,4 miliardi di giugno 2010 a 1,5 miliardi dello stesso mese del 2011. Lo comunica l’Istat, diffondendo la stima preliminare del commercio estero
del Centro studi di Confindustria e contro Bankitalia, colpevoli di «inventare numeri» destinati a generare pessimismo nel Paese. Poi, di punto in bianco ci siamo ritrovati sul titanic al punto da
gioranza si ritiene siano disponibili ad un dialogo per superare lo stallo. Oggi mi sembra evidente che l’interlocutore numero uno sia Maroni, ma anche nel Pdl non mancano le potenziali disponibilità.
Quanto alla definizione del progetto di Terza Repubblica, mi pare evidente che in questa fase la cosa più importante sia l’individuazione degli strumenti. E qui mi spiace ripetermi, ma non riesco a trovare nulla di più adatto e nello stesso tempo di più aggregante che l’Assemblea Costituente. Grave fu non convocarla nel 1994 – e abbiamo visto come la sua mancanza abbia lasciato marcire tutte le questioni istituzionali che erano aperte già durante la Prima Repubblica, che anzi cadde proprio per non averle sapute affrontare – gravissimo sarebbe non farlo ora. Si dice: ma una Costituente si convoca dopo una guerra, dopo un evento di grande trauma. Giusto. E perché, il fallimento di due stagioni politiche a oltre vent’anni di distanza dall’evento più traumatico successivo alla Seconda Guerra Mondiale – la caduta del Muro di Berlino, la fine del comunismo e il venir meno degli equilibri planetari stabiliti a Yalta – non è forse abbastanza traumatico per la vita di un paese giovane e fragile come l’Italia? Inoltre, senza un’idea forte non solo non si riuscirà a coinvolgere gli italiani, ma si lascerà campo libero a tutti coloro – e sono già in tanti ad essere all’opera – che li mobilitano intorno a parole d’ordine populiste, tipiche dell’antipolitica e del più bieco giustizialismo. Ecco, dunque, cosa mi aspetta dal Terzo Polo: che esca allo scoperto e che chieda agli italiani di indicare nell’Assemblea Costituente lo strumento per voltare pagina e costruire il futuro al riparo dal declino maledetto cui la Seconda Repubblica ci ha costretto fin qui. Buon lavoro. (www.enricocisnetto.it)
dover approntare in fretta e furia settanta miliardi di interventi economici. Tutti ai danni delle famiglie e di quella classe medio-bassa che da sempre rappresenta il fulcro del gettito fiscale in Italia. Si può andare avanti così? Quale prospettiva ha un Paese giorno dopo giorno costretto ad assistere impotente a uno stillicidio di battaglie giuridiche spacciate per sfide politiche? È con gli occhi ben aperti su questo disastro che il Terzo Polo oggi traccerà i confini del proprio progetto di rilancio. Un rilancio politico, economico, etico: un’àncora di salvataggio per il Paese, prima che sia davvero troppo tardi.
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la crisi, l’alternativa
li italiani pretendono dalla politica un radicale cambio di stagione. Un cambio di governo, di sistema, di mentalità. I risultati delle elezioni amministrative, e l’alta affluenza ai referendum, non hanno lasciato spazio a dubbi. Ma è il grande pericolo che l’Italia corre con gli attacchi della speculazione finanziaria a dirci che nulla può più rimanere come prima.
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UN GOVERNO CONTRO IL DECLINO La debolezza strutturale del Paese e l’inaffidabilità della sua leadership, ci espongono ormai a rischi mortali. Perciò una decisa svolta nel governo del Paese non è una più solo un’opportunità sulla quale discutere: è una vera e propria urgenza per evitare il declino della nazione. Più tardi l’insieme delle forze politiche ne prenderà atto, più pesante sarà il rischio per il nostro futuro. Il Terzo Polo ribadisce la strada maestra, già più volte indicata, per scongiurare il peggio: l’avvio di una nuova storia politica segnata dall’unità e dalla responsabilità nazionale. È questa l’unica chance, non a caso ripetutamente evocata dal presidente Napolitano, per affrontare, con la forza di un impegno comune di ricostruzione, i difficilissimi passaggi che ci attendono. Nessuna delle coalizioni bipolari in campo è in grado, da sola, con la vecchia illusione dell’autosufficienza, di affrontare l’insieme delle misure necessarie a risollevare il Paese. Il senso dello Stato delle opposizioni che, la scorsa settimana, hanno permesso di accelerare l’approvazione di una manovra che pure non condividevano (perché priva di progetto, farcita di nuove tasse e duramente punitiva per le famiglie) lo ha dimostrato. Solo un condiviso amore per il bene comune e per l’interesse nazionale può salvarci. Ora bisogna far capire agli italiani dimostrare che non si è trattato solo di una rondine. Che una nuova primavera italiana può cominciare. Il Terzo Polo pone dunque una seria questione ai partiti di governo: il passo indietro del premier devono chiederlo solo le opposizioni? Non è ormai evidente a tutti che così l’Italia non ce la fa? L’attuale maggioranza potrebbe proporre un governo di unità con una diversa leadership, evitando così all’Italia altre perdite di tempo e indirizzandola verso l’unica strada di salvezza. Ma, se non riesce a farlo, meglio andare alle elezioni. Elezioni che aspettiamo sicuri di una nostra forte affermazione, decisiva per formare qualsivoglia governo. Abbiamo alle spalle un ventennio sprecato. E davanti un decennio difficile. Perciò è urgente dar vita a una svolta politica: perché occorre mettere in campo un progetto, nuovo e condiviso, di modernizzazione del Paese. E di rilancio definitivo del Sud e del Mediterraneo. Il rigore di bilancio è un obbligo vitale. Ma esso deve sapersi coniugare con la necessità, altrettanto vitale, di riforme per la crescita. L’una “visione”, in assenza dell’altra condannerebbe comunque l’Italia. Da questo punto di vista facciamo nostra “l’agenda Draghi”: l’insieme delle considerazioni e delle proposte elaborate dal nuovo presidente della Bce, nella sua ultima relazione alla Banca d’Italia che qui sintetizziamo.
Oltre il bipolaris • No ai tagli lineari. Essi impediscono «di allocare le risorse dove sono più necessarie e penalizzano le amministrazioni più virtuose». «Occorre invece un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo dl bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato». • Una riduzione significativa delle aliquote fiscali sui redditi dei lavoratori e delle imprese. • Aiutare la patrimonializzazione delle piccole e medie imprese. L’obiettivo deve essere quello di «creare imprese più grandi, in grado di accedere efficacemente ai mercati internazionali». • Innalzare, in tutte le fasce, i livelli di apprendimento tra i più bassi dell’Occidente, proponendosi un aumento del 10°% dei laureati. • Approdare a un moderno sistema di concorrenza nel settore dei servizi di pubblica utilità, nel quale il cittadino sia più protetto. • Dotarsi con rapidità di un più moderno sistema di infrastrutture perché «incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costo-
avesse a cuore l’interesse nazionale. Sono otto priorità che il Terzo Polo elegge ad orientamento della propria azione politica in campo economico e sociale. Una visione su tutte le altre deve orientare l’azione delle classi dirigenti: il futuro dei giovani.
Sopra il manifesto di “Io cambio l’Italia con il Terzo Polo”. In alto Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli. Nella pagina a fianco, Raffaele Lombardo se che altrove». • Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi concentrata nelle modalità d’ingresso, per superare il dualismo di tutela tra lavoratori a tempo indeterminato e precari che colpisce in modo radicale le giovani generazioni. • Incentivare la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Sono otto scenari che andrebbero immediatamente assunti da un governo che
Perché essi sono il futuro dell’Italia. Il nostro sta diventando un paese per vecchi (che peraltro litigano tra loro), lontano dalle moderne sensibilità ecologiche e non più in grado di garantire gli stessi standard di benessere e di felicità che i nostri padri hanno garantito a noi. UN CAMBIO DI STAGIONE Tutto ciò che sta accadendo in Italia dà sempre più ragione alle nostre previsioni. La stagione storica chiamata Seconda Repubblica consuma oggi il suo tramonto con un desolante fallimento: non ha trovato soluzione ad alcuno dei nodi costituzionali, politici, economici che bloccavano il Paese. 17 anni dopo, siamo ancora al punto di partenza. Ecco allora le ragioni dell’affacciarsi di una nuova crisi di sistema. La nostra azione è orientata su un chiaro obiettivo: uscire dalla Seconda Repubblica evitando qualsiasi ge-
la crisi, l’alternativa ll testo integrale del “Manifesto“ della prima convention nazionale del Terzo Polo. La carta d’identità, il progetto e i valori comuni, l’urgenza di dar vita a una nuova storia politica
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riforme costituzionali alla modernizzazione economica, dalla politica estera alle politiche sociali, le Unioni, vecchie o nuove che siano, non producono riforme e governo, ma solo paralisi. È ora che lo si capisca: noi non guardiamo al passato, coltiviamo il futuro. Tutto nel mondo sta cambiando ed é ora che un Grande Mutamento attraversi finalmente anche l’Italia. Appunto, un cambio di stagione. Di fronte a tale stretta storica il Terzo Polo si presenta agli italiani con la chiarezza di tre stelle polari, ragioni e garanzia della nostra unità: Il Polo dell’unità nazionale Pronto a difenderla in ogni momento tornasse minacciata e pronto, in ogni caso, a combattere l’egoismo geografico della Lega. Ma soprattutto consapevole che. per preservarla, non basta la retorica celebrativa: essa, infatti, non è ancora compiuta. A 150 anni dalla nascita dell’Italia è arrivato il tempo della riconciliazione nazionale, della pacificazione di una terra che deve saper illuminare l’identità eccezionale della cultura e della storia, ritrovando le ragioni di una convivenza ricca di valori condivisi. Il Polo della ricostruzione della Repubblica È saltato l’equilibrio previsto dalla nostra Carta. La rappresentanza di tutte le assemblee elettive, dal Parlamento ai consigli comunali, è stata vilipesa e resa pleonastica. Le nomine delle oligarchie
smo, contro il declino nere di trauma all’Italia, in un momento assai delicato della sua storia. Ci siamo uniti per andare oltre l’insensata guerra tra berlusconismo e antiberlusconismo. Per evitare che il dopo-Berlusconi sia segnato da un nuovo pericoloso vuoto nella nostra democrazia. Perciò è nato il Terzo Polo: per fare in modo che, a differenza degli anni Novanta, la politica sia in grado di proporre una chiara via politica d’uscita dalla crisi di sistema. Tutti noi, partiti dal centrodestra o dal centrosinistra, abbiamo pensato che, finita la guerra fredda, la nuova era bipolare avrebbe finalmente aperto la stagione di una compiuta democrazia occidentale. Ma tutti noi, abbiamo dovuto prendere atto che quello che si è insediato in Italia non è un vero bipolarismo. Un vero bipolarismo assegna all’alternanza la competizione sui programmi coltivando viceversa, con orgoglio, la condivisione dei valori che danno corpo all’unità della Nazione. Un vero bipolarismo, esalta la collaborazione tra i poteri, una comune concezione della legalità, una condivisa cultura istituzionale che diventa l’alfabeto civico del Paese, della maggioranza come dell’opposizione. Ebbene, è ormai purtroppo evidente che l’Italia é lontana anni luce da tutto ciò: siamo ormai una sorta di Repubblica insieme autoritaria e anar-
hanno destituito la sovranità popolare. La forza di innovazione e di filtro dei corpi intermedi è stata irrisa e schiacciata. Lo scontro con l’ordine giudiziario ha superato il livello di guardia. Il sistema è tutto da ricucire e riorganizzare e la politica deve fare numerosi passi indietro (non difendendo costi e privilegi che non hanno ragione di esistere). Perciò occorre un nuovo disegno costituente. Siamo il Polo che lavorerà per una riforma costituzionale finalmente condivisa.
chica dove contrapposti populismi hanno colpito al cuore il senso dello Stato. Il bipolarismo italiano si è configurato come la forma politica di una nuova guerra civile ideologica. Tutti crediamo nella democrazia dell’alternanza e nella sovranità del cittadinoelettore. Ma in nessuna terra ispirata dal costituzionalismo liberale chi vince diventa il padrone del Paese e chi perde, un nemico da piegare. Un vero bipolarismo occidentale è il nostro comune obiettivo. Il falso bipolarismo italiano è il nostro comune avversario. Il berlusconismo è stato, nell’ultimo ventennio, il filo conduttore del bipolarismo. Esso ha significato per molti italiani la speranza di una modernizzazione del Paese. Ora l’illusione è caduta: tutti i più importanti progetti dell’era berlusconiana, la rivoluzione liberale, la riduzione fiscale, la modernizzazione delle infrastrutture, la centralità della piccola e media impresa, il primato del merito, si sono eclissati come stelle cadenti. Così il berlusconismo, da chance di rinnovamento, si è oggi trasformato nel più spinoso ostacolo alla modernità dell’Italia. UNA VERA ALTERNATIVA Ma la crisi di sistema, il cui epicentro è nella degenerazione del Pdl, ha finora
Il Polo di una nuova etica pubblica
trovato il suo interfaccia nell’immobilismo della sinistra. Perciò ci sentiamo di mettere in guardia il Pd dall’illusione che i recenti risultati elettorali consentano, con prematura euforia, di accomodarsi alla guida di una nuova “gioiosa macchina da guerra”. Il voto, infatti, non ha ha in nessun modo sciolto l’eterno nodo di Gordio della sinistra: quello tra riformismo e antagonismo. Anzi, per certi aspetti, come in molti hanno osservato, l’ha reso più acuto. Il Pd è certamente indispensabile per salvare l’Italia. Ma se insiste nell’immaginare “coalizioni bipolari”(e leggi elettorali) per le quali risulta inevitabile accordarsi con forze antagoniste, vuol dire che persevera nello stesso errore degli ultimi decenni. Dalle
Polo della legalità, contro gli opposti estremismi dell’impunità e del giustizialismo, che in realtà si tengono per mano. Polo della vita per un buon uso della scienza e della ricerca, che non tradisca il diritto naturale. Polo del limite, contro gli eccessi della volgarità televisiva e mediatica, contro il dilagare dello sfruttamento dei corpi femminili e infantili, della caduta di ogni senso della vergogna. Polo della sobrietà negli stili di vita e nei comportamenti privati e pubblici. Polo del senso dell’autorità: ormai decaduto nella scuola, nella famiglia, nello Stato. Il Terzo Polo è dunque un’alleanza di rinnovamento costituzionale, di modernizzazione liberale, di promozione sociale, di ricostruzione morale. Siamo la più concreta alternativa in campo per salvare e per cambiare l’Italia.
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la crisi, l’alternativa
«L’intesa con i moderati è la via maestra per il Pd. Ma ora serve una prova di lungimiranza della maggioranza»
«Convinciamo il Pdl»
Beppe Fioroni: «Ora ci vuole un nuovo governo di unità nazionale: la maggioranza deve capirlo. Poi alle elezioni andiamo assieme…» di Errico Novi ROMA. «È una situazione così grave che il vero rischio è non comprenderlo fino in fondo». Beppe Fioroni non cambia idea su alcune cose: sulla necessità che il Pd privilegi l’alleanza con il Terzo polo («o il polo dell’Udc, come forse è più opportuno definirlo»), sull’urgenza di intervenire con riforme profonde per riaggiustare un Paese «profondamente afflitto da iniquità sociale». Ma su un aspetto il suo tono è diverso dal solito: sul pericolo appunto di sottovalutare la minaccia che incombe sull’Italia, con la maggioranza ostinata in un irragionevole arroccamento e la crisi che nel frattempo ci massacra. E allora «sì a un nuovo governo». Lo spirito di coesione nazionale pare già evaporato e la maggioranza è di nuovo in trincea, seppur tra laceranti divisioni. Ci sono due diversi problemi. C’è una emergenza del Paese con i mercati ancora instabili e la necessità, per tutta la classe dirigente, di promuovere riforme rinviate da decenni. E qui la responsabilità investe tutti. Poi c’è l’altro problema, che è un’aggravante del primo. È la situazione di blocco di un governo che ha la maggioranza numerica ma è provato da ogni sciame sismico, con il capo dello Stato comunque impossibilitato ad agire. E con un’opposizione che invece è messa nell’angolo della responsabilità. Curiosa immagine. Ma è così. L’opposizione è chiusa nell’angolo della responsabilità e corrosa dalla certezza che questo governo è inabile a fare le cose necessarie, ed è quindi l’aggravante di un quadro già critico. L’opposizione ha la necessità di lavorare al dopo Berlusconi, ma deve ricordarsi che c’è una sola via per arrivarci: niente spallate, niente illusioni di questo tipo, perché è la maggioranza stessa che deve sciogliersi. Di fatto, lei dice, l’opposizione è immobilizzata. No, attenzione, non è così. Il governo si rifiuta di riconoscere la propria inadeguatezza? Bene, l’opposizione ha l’imperativo di far comprendere ad almeno una parte della maggioranza che non solo va superato Berlusconi, ma che dopo di lui si deve aprire una fase nuova. Capiscano che si sta facendo il male del Paese L’opposizione deve compiere insomma uno sforzo di lungimiranza politica.
Quindi bisogna impegnarsi in una sorta di proselitismo attivo proprio tra chi sostiene Berlusconi? È così. Bisogna suscitare tra loro la consapevolezza che si sta danneggiando il Paese. Non penso solo alla Lega ma a movimenti più vasti. E per farlo, l’opposizione deve essere estremamente credibile, intervenire con una forte moral suasion. Solo così si fa cadere Berlusconi. Altrimenti sopravviverebbe lui ma non l’Italia. C’è per noi il pericolo oltre-
spread che viaggia sempre ad alta quota, il voto anticipato sarebbe il miglior viatico alla speculazione, che ci starebbe addosso per mesi. Diciamo per tutta la campagna elettorale. La battaglia va condotta in tempi rapidi. Se non incoraggiamo una crisi di governo interna alla maggioranza non possiamo parlare di governo di unità nazionale. C’è il rischio che si vada avanti così ancora per molto?
me nel ’92-’93, guadagna il centro del campo, cavalca più l’umore che i veri bisogni del Paese e si porta via la vittoria. È chiaro che con la capacità di coesione emersa la scorsa settimana Pd e Terzo polo abbiano sperimentato una convergenza sulle proposte comuni assai significativa? Mettiamola così: è vero che una rondine non fa primavera ma certo non annuncia l’inverno. Sono tra chi, dopo aver appreso che
«Serve un governo che compia scelte capaci di provocare qualche mal di pancia oggi ma di far star bene domani. Cominciando dall’economia» tutto di un dopo Berlusconi realizzato tutto all’interno dell’attuale maggioranza. Qualche giorno fa Cacciari ha detto a liberal che se non si sblocca l’attuale impasse con un governo di decantazione che archivi il berlusconismo possono esserci esiti più confusi e disgreganti che nel ’92-’93. Come Paese siamo già adesso in una terribile crisi di credibilità. E come opposizione dovremmo dire: per carità, come dice D’Alema, le elezioni sono sempre una forma terapeutica, ma con lo
Berlusconi non ha nulla da perdere. Lui si limita a sperare e a scommettere che, se resiste, si troverà tra otto mesi in una situazione migliore. Se non fosse che né l’Italia né gli italiani hanno a disposizione altri otto mesi. Ma è possibile anche che, a furia di tirarla, la corda si spezzi e lasci dilagare qualche ondata populista? Il rischio è ben presente. Quando ci si trova in una situazione drammatica e c’è nello stesso tempo un blocco, cosa succede? Che si fa strada il vero nemico: una soluzione improvvisata, co-
il Pd avrebbe presentato da solo i propri emendamenti, ha fatto il diavolo a quattro. Ho sentito Cesa, con lo stesso Di Pietro. Poi ho sentito i capigruppo di Camera e Senato per dire: scusate, dentro la responsabilità noi che facciamo, i pierini? Da lì abbiamo preso una strada diversa, di lavoro comune tra le opposizioni. Se non si fosse fatto così avremmo dato l’idea che non eravamo un’alternativa credibile neanche in una prova così estrema. Una prima prova positiva. Sì, adesso però trovo per esempio un pullulare di proposte del
Pd sui costi della politica, poi quelle dell’Idv... In questa fase credo gli italiani si aspettino un altro atteggiamento: e cioè la nostra capacità di sommare le ragioni di una prospettiva comune. E poi va bene che chi chiede sacrifici li deve fare per primo, dopodiché occupiamoci dei nodi veri: il dimagrimento dello Stato, i 50mila enti che spendono e spandono, e la cui inutilità è superiore all’inefficienza del servizio reso al cittadino. E ancora, il superamento delle chiusure corporative che tengono i giovani fuori dal mercato, il ritorno al merito nella sanità, nella scuola, nella vita collettiva. Il discorso non riguarda solo i gruppi dirigenti, ma il lavoro in generale. Programmi di un governo responsabile... Aggiungerei che a un certo punto dovremo dire al Paese che l’Italia è un convento povero ma che proprio per questo non può avere i frati più ricchi. Non è possibile che il 10 per cento della popolazione detenga il 48 per cento della proprietà e della ricchezza. Sarebbe giusto chiedere che questo 10 per cento paghi, per tre anni, più di quanto pagano gli altri. Se qualcuno la chiama patrimoniale, be’, la chiamino come vogliono, ma mettere il ticket sulla specialistica, anziché chiedere un contributo al 10 per cento della popolazione, mi pare incomprensibile. E tutto questo, lei dice, dev’essere piattaforma comune. Non servono tanti distinguo, ma una, una sola capacità di proposta alternativa. La capacità di dire: ecco, questo è quello che va fatto. Oppure è come il sacco pieno di lombrichi: tutti si muovono dentro, ma il sacco resta fermo. Va detto comunque che quelle proposte presentate insieme dall’opposizione la scorsa settimana portavano il segno di una vocazione riformista e moderata insieme... Ho sempre pensato che l’alleanza con l’Udc e il suo polo, come ritengo si debba chiamarlo, vada bene e che sia la strada da preferire. Ma tutto questo è subordinato a un fatto: con l’attuale situazione economica nessuno ci manderà al voto. Ricordiamoci degli errori fatti nel ’94 e a cosa ci hanno portato. E che l’unico modo per far cadere Berlusconi è aiutare la sua maggioranza a metterlo da parte.
Il presidente dell’Antimafia non cambia idea: «Le migliori energie del Paese devono mettersi insieme per reagire alla crisi»
«C’è voglia di centro»
Parla Giuseppe Pisanu: «L’asse dell’esecutivo è in piedi solo formalmente: sono allo stremo. Vedo grandi spazi per un Terzo polo animato dai cattolici, che intercetti il voto dei moderati» ROMA. Si dovrebbe andare oltre. «Non ho cambiato idea», dice il presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu a proposito del «governo di decantazione». Formula proposta settimane fa insieme con Walter Veltroni e rilanciata ora con questa intervista a liberal. Formula, soluzione necessaria anche perché la maggioranza è ormai solo «formale» e l’attuale esecutivo ancora più debole. Giudizi che pesano, se espressi da un esponente così autorevole del Pdl. Pisanu si rivolge anche al Terzo polo, gli riconosce prospettive di consenso ancora più ampie «a condizione che vada oltre lo schema destra-sinistracentro e legga correttamente i segni dei tempi». Se interpretata con lo spirito giusto, la crisi innescata dalla globalizzazione potrebbe trovare risposta proprio in una «proposta politica nuova avanzata, se non da tutti i cattolici, da molti cattolici italiani, insieme ad altri». Lo stato di emergenza imposto dalla crisi sembrava aver suscitato il meglio della politica italiana, la settimana scorsa. Crede a questo punto che quello spirito di unità sia destinato a restare un’eccezione, nonostante gli auspici del presidente Napolitano? La crisi che viene dall’esterno è così grave perché non abbiamo saputo fronteggiarla efficacemente dall’interno. Innanzitutto per colpa della classe politica, ma anche di tutti gli altri gruppi dirigenti del
Paese. La settimana scorsa, dopo il lunedì nero e a un passo dal baratro, le forze politiche si sono fermate a riflettere e hanno preso una saggia decisione. Ma le divisioni tra maggioranza e opposizione sono rimaste intatte, comprese quelle riguardanti la manovra finanziaria che, peraltro, è la massima espressione della politica economica di qualsiasi governo. Lo spirito di cui lei parla è il frutto di decisioni unilaterali delle parti in causa, non di un accordo tra loro. Temo perciò che sarà difficile tenerlo vivo se non si aprirà un dialogo serio e impegnativo. Cosa questa resa ancora più difficile dalle contraddittorie decisioni di Camera e Senato sulle vicende dell’onorevole Papa e del senatore Tedesco. Crede sempre nella necessità di un governo di decantazione? Il gioco è ancora nelle mani di una formale maggioranza parlamentare piuttosto indebolita nella pubblica opinione e oppressa dal timore di indebolirsi ulteriormente per le insidie interne e sotto i colpi della crisi generale. Per questo, e ben prima del lunedì nero, ho parlato della necessità di un governo più forte e più autorevole, in grado di mobilitare le migliori energie del Paese per vincere la crisi e offrire agli italiani un’idea accettabile del loro futuro. Non ho cambiato opinione. Secondo lei la debolezza del governo e i lampi di unità visti sulla manovra rafforzano la posizione del Terzo Polo, che
spinge proprio per un esecutivo di responsabilità nazionale? Penso che gli eventi abbiano fatto crescere la domanda di moderazione, di rinnovamento e di moralità che si alza da ogni angolo della società italiana insieme alla delusione e alla rabbia per le cattive prove della politica. Se il Terzo Polo saprà rispondere a questa domanda, che tra l’altro è vivissima nel mondo cattolico, troverà consenso popolare e spazi più larghi di iniziativa politica. Ritiene che dal Terzo Polo possa venire una compiuta proposta di governo per il Paese? Sì, a condizione che esso vada oltre lo schema destra-sinistra-centro e legga correttamente i segni dei tempi. I segni cioè della crisi italiana ed europea e quelli della globalizzazione: eventi storici che hanno ormai prosciugato i bacini delle vecchie culture politiche nelle quali si è impantanato l’attuale bipolarismo italiano. Occorre, direbbe Aldo Moro, dominare i fatti nuovi con l’intelligenza e condurli al bene comune. Nell’orizzonte del Terzo polo ha grande importanza la riforma elettorale: il clima della scorsa settimana aveva persino suscitato l’impressione che lo spirito di unità potesse estendersi anche a un tema così difficile. Ma l’accordo sulla manovra non ha ridotto di un solo millimetro la distanza politica tra maggioranza e opposizione, perché si è realizzato sotto il ricatto incombente della
speculazione internazionale e, non di meno, grazie all’alta persuasività morale del presidente Napolitano. Non a caso lo stesso presidente ha parlato di miracolo. Mi sembra difficile che si possa replicarlo sulla legge elettorale. A meno che non si arrivi a un’intesa diretta tra gli schieramenti contrapposti tanto nel caso malaugurato di elezioni anticipate, quanto nel caso ben più suggestivo di un programma comune di fine legislatura. Autorevoli rappresentanti della Chiesa stanno incoraggiando i cattolici a ritrovare l’unità, lei ha seguito alcuni degli incontri promossi da monsignor Toso: è realistica la rinascita di un unico grande partito cattolico in Italia? L’esperienza della Democrazia cristiana è storicamente conclusa, per la semplice ragione che sono venute meno le condizioni interne ed internazionali che avevano promosso l’unità politica dei cattolici italiani. Questo non impedisce che oggi, non tutti i cattolici, ma molti cattolici, possano avanzare insieme ad altri una proposta politica nuova per l’Italia e per l’Europa. Io sono profondamente persuaso che una proposta all’altezza dei tempi e dei processi di globalizzazione non possa fare a meno della dottrina sociale della Chiesa e dell’universalismo cattolico. A questo proposito, monsignor Toso ha espresso idee nelle quali, come molti altri cattolici, mi (e.n.) riconosco.
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la crisi dell’euro
I mercati festeggiano: crollano gli spread tra il Bund e i titoli dei Paesi più deboli. Vola Piazza Affari (+3,76 per cento)
Atene è (quasi) salva Piano Marshall Grecia: il fondo Salva Stati comprerà i bond anche in caso di fallimento di Francesco Pacifico ROMA. Nel primo pomeriggio di ieri la pressione dei mercati sul debito sovrano era già un ricordo. Lo spread tra bond spagnoli e bund tedesco era tornato sotto quota 300 punti base, quello del Portogallo sotto il tetto dei 900 punti, quello greco addirittura ristretto di 78 punti base. Per non parlare delle Borse, che dopo aver aperto in negativo, veleggiavano sopra il 3 per cento. E tutto senza aspettare l’ufficialità dell’accordo tra i leader, tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, che ridà fiato ad Atene e di riflesso all’euro. La cancelliera tedesca e il presidente francese avevano iniziato a trattare già la sera precedente. E ben presto erano giunti alla conclusione che, per raggiungere l’intesa chiesta loro da Barack Obama, dalla Bce e dal Fondo monetario, avrebbero dovuto rinunciare ai rispettivi cavalli di battaglia. Così la Merkel ha riposto i suoi propositi di responsabilizzare le banche, facendo pagare loro parte del prezzo delle speculazioni passate e presenti; Sarkozy ha abbandonato l’idea di tassare gli istituti del Vecchio Continente per finanziare il nuovo salvataggio della Grecia.
Ne è nato l’ennesimo compromesso, che però nessuno al Consiglio d’Europa di ieri ha respinto. Via libera quindi al nuovo piano di aiuti per Atene, del quale manca soltanto l’entità ma che godrà di una dilazione dei pagamenti e di interessi più contenuti. Così, per ritrovare quel rigore che per mesi è stata la bandiera di Angela Merkel e della stessa Commissione, bisogna leggere in filigrana la parte del documento finale che recita: «Non mancherà una strategia globale per la crescita e gli investimenti in Grecia. Gli Stati membri e la Commissione mobiliteranno tutte le risorse necessarie per fornire un’assistenza tecnica eccezionale per aiutare la Grecia a realizzare le sue riforme». In teoria un Piano Marshall per risollevare le sorti elleniche, in realtà la volontà di controllare direttamente il rispetto degli accordi da parte
Le scelte di Angela e i timori per i debiti delle sue banche
Quel sottile ricatto del sistema renano ROMA. Agli Ecofin del martedì o ai vertici straordinari tra Angela Merkel e Nicolas il convitato di pietra è sempre lo stesso. Un sistema magmatico, poco trasparente, estremamente frazionato, dove i piccoli la fanno da padrone e il concetto di mercato viene affievolito dalla mano pubblica, che lo controlla e che l’ha sempre considerato un attore sociale al pari di politici e dei sindacati. Evitare il fallimento della Grecia, difendere l’euro, evitare il contagio di Italia e Spagna vuol dire anche salvare il mondo bancario tedesco. È per questo che la cancelliera si batte contro i balzelli straordinari al settore e per roll over sui titoli di Atene sotto l’egida dell’Efsf. Quasi duemila istituti (il doppio di quelli presenti da noi o in Francia); investimenti rischiosi in pancia, tra subprime americani e titoli riassucurativi asiatici ieri, e bond dei Pigs oggi, per non parlare dei Cds emessi scommettendo sulle fragilità delle economie più deboli e collocati a hedge fund e banche di investimento. Per congelare i titoli spazzatura la Merkel ha iniettato nel mondo bancario tedesco quasi 420 miliardi di euro. Senza i quali difficilmente i maggiori istituti (la Helaba ha preferito ritirarsi) avrebbero superato gli ultimi stress test. Anche se Wolfang Munchau, censore per eccellenza del Financial Times, ha scritto che con le nuove regole di patrimonializzazione di Basilea III, «ci vorranno probabilmente oltre cento miliardi, perché il sistema bancario tedesco è molto più vulnerabile di quello che abitualmente si pensa».
Sistema vulnerabile perché non si poggia soltanto sui colossi privati. Complice il fortissimo export tedesco verso i ricchi mercati degli emergenti, le banche vantano attivi per 7,8 trilioni di euro, dei quali il 40 per cento all’estero. Questi soldi però non sufficienti a garantire la stabilità del settore.
Se la crisi impedisce i guadagni di un tempo speculando sui prodotti più remunerativi, il sistema paga l’arretratezza di una delle sue principali componenti: le Landesbank, i bracci operativi delle casse di risparmio che rappresentano un quinto del giro d’affari complessivo e che sono un ganglo fondamentale dell’economia mondiale, perché il 40 per cento dei loro attivi sono all’ estero o con controparti estere. Nonostante la congiuntura abbia imposto i primi accorpamenti, mantengono una struttura di business obsoleta e si affidano quasi totalmente alla più sicura raccolta istituzionale. Le cose sono destinate a peggiorare perché a breve scadranno le ultimissime emissioni con totale garanzia pubblica, che andranno sostituite con altre dai rendimenti più alti. Come dimostrano i casi della SachsenLB, della LBBW o della WestLB, quando queste realtà rischiano di saltare, o interviene lo Stato se la Ue lo permette oppure la patata bollente passa ai grandi istituti. Opzione difficile da realizzare con i principali player che secondo la Bri hanno un’esposizione sul debito soprano greco pari a 22,7 miliardi di dollari e rischiano di svalutazione di un terzo di (f.p.) questo stock.
del governo Papandreou, con la minaccia in ultima ratio di affiancarlo o sostituirsi nelle scelte più impegnative. L’accordo tra Berlino e Parigi prevede innanzitutto di allargare il ruolo del fondo salva Stati dell’eurozona. A dispetto di quanto prevede oggi il suo statuto, l’Efsf potrà in futuro acquistare debito sovrano dei Paesi sotto default o di quelli non in crisi anche sul mercato secondario e non soltanto in fase di emissione come oggi. Quest’ipotesi da sempre viene contrastata dalla Bce, ma che
tenuti il rimborso di quelli già detenuti, oppure attraverso lo scambio diretto dei bond titoli con i nuovi. Il tutto, però, «a condizioni di prestito paragonabili al sostegno pubblico con rafforzamento del credito». Quindi un “roll-over” simile a quel “default selettivo”, paventato delle agenzie di rating. Ma la parte che farà più discutere i puristi – e metterà non poco in difficoltà Angela Merkel davanti ai suoi elettori – riguarda le condizioni concesse alla Grecia per il rimborso dei prestiti in atto e quelli futuri.
Compromesso al ribasso tra la Merkel e Sarkozy: dilazione del rimborso delle emissioni e minori tassi per il governo ellenico, intervento delle banche private soltanto su base volontaria permetterebbe anche di togliere dal mercato i titoli spazzatura con rendimento eccessivo. Ma all’Eurotower i Ventisette chiedono anche di accettare come collaterali per la liquidità fornita alle banche i titoli di Stato greci con garanzia Efsf.
Sul versante dei privati la Merkel ha ottenuto soltanto un intervento su base volontaria. Le banche così come tutti gli altri investitori istituzionali potranno partecipare al secondo salvataggio della Grecia o riacquistando i titoli del Paese di nuova emissione (probabilmente a 30 anni) dopo aver ot-
Condizioni di riguardo che saranno estese anche anche agli altri due Paesi salvati da Bce e Fmi, Irlanda e Portogallo. Il governo Papandreou vede i tempi per rimborsare gli aiuti passare fino a 15 anni. Il nuovo tasso sarà scelto in base alla facility per il sostegno alla bilancia dei pagamenti e potrebbe essere inferiore all’attuale 3,5 per cento. In cambio si chiedono meccanismi «che assicurino incentivi appropriati per attuare il programma inclusi accordi sui collaterali se appropriato». Condizioni anche verso Dublino. Come si legge nel documento finale, gli Stati membri
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È sempre più debole, in patria, l’immagine della Cancelliera
Se Berlino vuole Corfù a garanzia del prestito... L’opinione pubblica tedesca boccia il piano salva-Grecia e la stampa ironizza: «In cambio dateci l’Acropoli» di Andrea D’Addio
BERLINO. Togliere ai ricchi per dare ai poveri: il
incassano «la volontà dell’Irlanda di partecipare costruttivamente alle discussione sulla direttiva europea per la base comune della tassazione delle imprese». Quindi, addio alla fiscalità di vantaggio alla base del boom della Tigre celtica.
nobile spirito guida di Robin Hood non ha ormai grande presa sul popolo tedesco, soprattutto perché si sentono protagonisti dello slogan solo per ciò che riguarda la prima parte. Se da una parte c’è la consapevolezza che, con l’Euro, l’economia di ogni paese è legata a filo doppio con la stabilità, dall’altra l’idea che a dovere fare sacrifici siano sempre, e soprattutto i tedeschi, comincia a diventare un refrain sulla cui opportunità l’opinione pubblica di Berlino comincia ad interrogarsi. Proprio in questa settimana in cui il governo ha reso noto l’incredibile crescita delle entrate per il fisco nazionale (+8,25 di Iva e +10,9% per le imposte sul salario), oltre a un Pil cresciuto del 5,2% nel primo trimestre dell’anno rispetto all’analogo periodo del 2010, ecco che i passi in avanti fatti a livello nazionale rischiano di essere frenati dall’ennesimo salvataggio di una Grecia che ormai ricorre come un incubo, da circa un anno e mezzo, sull’attualità economica tedesca. Se all’inizio il malessere era un pensiero errante ogni tanto abbracciato dalla massa, ma sostanzialmente ignorato dai più, il persistere della situazione di crisi ha portato anche i più restii ad interessarsi delle dinamiche finanziarie europee a prendere posizione.
ni di forza ancora più consolidate. Vi veniamo incontro, ma vogliamo qualcosa in cambio: è questa la politica, dopotutto.
Se è vero che i Greci debbono ai monarchi bavaresi del diciannovesimo secolo quell’organizzazione statale e sociale che ne hanno fatto, nei decenni successivi, un moderno stato europeo, si può dire che la storia si ripete e ancora una volta sono i tedeschi ad avere in mano le sorti di Atene. Una scelta che la Germania e la Francia hanno fatto consapevolmente: a fine 2009, anziché dare credito ai boccheggianti conti greci, aprendo la possibilità di una manovra economico-finanziaria che incentivasse sviluppo e crescita, si è preferito optare un rinegoziamento molto parziale riguardo scadenze e redditività dei bond, imponendo di fatto al governo ellenico una politica di rigore e austerità che ha portato alla situazione attuale (meno 5,5% del pil nel primo trimestre di quest’anno), in cui
I dati del pil e quelli delle entrate fiscali volano, ma nel Paese la crisi continua a mordere: «Tutta colpa dei soldi che stiamo spendendo per Atene», dicono tutti. Ormai anche i giornali
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E così a Berlino come a Monaco, a Francoforte come a Dresda, i tanti greci - una delle comunità di immigrati europei più numerose - non sono più visti come semplici stranieri sulla via dell’integrazione, o, nel caso delle seconde e terze generazioni, veri e propri tedeschi ormai assimilati, ma come i protagonisti di un fallimento con cui i tedeschi non vorrebbero avere nulla a che fare. In una nazione in cui, nonostante il forte stato sociale, si giudica il singolo con la stessa severità con cui si giudica l’insieme - in questo caso il greco e la Grecia - ciò che viene descritto attraverso dai mass media tedeschi è un salvataggio dell’economia greca a fondo perduto, senza alcun ritorno. «I tedeschi non riescono a capire perché dovrebbero aiutare i greci e questo è prima di tutto un fallimento politico» ha dichiarato l’economista Peter Bofinger intervistato dal Sueddeutsche Zeitung. E infatti, mentre la Merkel e Sarkozy si accordano, le manovre delle società tedesche per comprare quote di alcune delle aziende greche pubbliche o a partecipazione pubblica (l’aeroporto del Pireo o l’azienda telefonica di stato, l’Ote di cui la Deutsche Telecom si appresta a comprare un ulteriore 10%) si accavallano l’un l’altra, con la speranza (o la sicurezza) che quando la situazione sarà a posto, ci si potrà trovare in posizio-
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Sulla carta nessuno sconto alle economie finite nel mirino della speculazione come l’Italia. Che porta a casa un plauso alla sua manovra. Nel documento finale si legge che «tutti gli altri paesi dell’Eurozona riaffermano solennemente la loro inflessibile determinazione a onorare pienamente gli impegni sovrani individuali e tutti i loro impegni ad assicurare riforme strutturali e condizioni di bilancio sostenibili». Inutile dire che i mercati si sono mostrati soddisfatti. A fine giornata lo spread tra il Bund tedesco e il Btp italiano è arrivato a 247 punti base, cento in meno rispetto soltanto a due giorni fa. Il differenziale con i titoli spagnoli invece è sceso fino a quota 285 punti, quello portoghese ha è passato nella stessa giornata da 913 a 873 punti. Per non parlare dei benefici sulle emissioni decennali greche, con il rendimento calato fino al 16,49 per cento. Ottime performance anche da parte delle Borse: Milano ha chiuso a +3,76 per cento, Londra a +0,79, Parigi a +1,66, Francoforte a +0,95. Euro in salita a 1,4372 sul dollaro.
i che d crona
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non c’è solo il rischio di default nel breve periodo, ma non sono state gettate le basi neanche per un miglioramento nel medio-lungo. «Gli imbroglioni della famiglia europea» titolava la copertina dell’edizione tedesca di Focus di febbraio 2010 rivolgendosi ai greci arricchendo il tutto con l’immagine della Venere di Milo che porge il dito medio, mentre la Bild, polemicamente, chiedeva l’isola di Corfù o l’Acropoli di Atene in cambio dei soldi prestati. Il populismo dei media più conservatori sembra comunque non fare breccia sull’elettorato, e non è un caso che non solo la Merkel, ma anche quel partito liberale su cui si fonda l’alleanza di governo, è in caduta libera. «Grecia: un pozzo senza fondo» ha titolato invece il quotidiano bavarese Die Tageszeitung. Sarà, ma su quel pozzo, di secchielli per ritirare su l’acqua, quando un giorno, si spera, ce ne sarà, ce ne sono già molti. E non parlano greco.
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la crisi dell’euro
La crisi della politica Ue si specchia nella debolezza economica dell’Occidente; con la finanza pronta ad approfittarne
Eurosquilibrio
Da un lato il surplus commerciale tedesco, dall’altro il deficit degli altri Paesi: il vero problema dell’Unione è riuscire a trovare una mediazione fra questi due estremi. Ci riuscirà l’accordo di Bruxelles? Da oggi ce lo diranno i mercati , quindi, giunta «l’ora delle decisioni irrevocabili», come disse infaustamente Benito Mussolini quel lontano 10 giugno 1940, che segnò l’entrata in guerra dell’Italia? L’interrogativo è d’obbligo. Solo nei prossimi giorni avremo il responso definitivo. Due le incognite: i dettagli delle decisioni europee, in cui, in genere si annida la coda del diavolo; la risposta (non sempre giusta) dei mercati ai nuovi deliberati. Per il momento accontentiamoci del pur breve rimbalzo della borsa, che, nei giorni passati (ieri ha dominato l’incertezza) ha recuperato circa 4 punti, delle perdite accumulate (oltre 9 punti) in precedenza. Andamento che dimostra il peso prevalente dell’Europa sui destini di ogni singolo Stato. Possiamo fare tutte la “manovre finanziarie”che vogliamo, ma se non si decide sulla Grecia, i Paesi più esposti non hanno scampo. Gli analisti fanno ogni sforzo per vedere il bicchiere mezzo pieno, in un
È
di Gianfranco Polillo mare d’incognite che ha una dimensione planetaria. Le ultime notizie riguardano il Giappone: l’altra faccia della luna. Nel “dopo – terremoto”è già partita la ricostruzione. Una buona notizia che alimenta la speranza di una ripresa a V. Lettere che ormai stanno assumendo un significato cognitivo sempre più importante.
L’Europa, infatti, è ancora sotto il segno della W, come dicono gli esperti: una breve ripresa (alle nostre spalle) e il rischio di una possibile ricaduta. Una simbologia che esprime la grande anomalia di questo nostro tempo, che non risparmia gli stessi Stati Uniti, alle prese con il problema del debito e dei contrasti tra le diverse forze politiche. Un puzzle, quello europeo e americano, che è sempre più difficile comporre per la complessità degli interessi in gioco, la mancanza di un solido retroterra teorico su cui fare af-
fidamento, una politica che sempre meno riesce a ragionare in termini di “visione” e d’interessi generali. Una matassa arruffata, che si può tentare (i risultati non sono sicuri) di dipanare, cercando di separare i diversi piani. Dall’economia alla politica.
Quando si parla d’economia, bisogna distinguere. Un conto è la finanza, un altro l’economia
Su tutto grava anche il destino delle banche: «troppo grandi per fallire»
reale. Le imprese che producono i beni tangibili del quotidiano. La prima asimmetria è quella tra una finanza malata, per gli eccessi degli anni passati, e una produzione di beni e servizi che, nonostante tutto, mantiene i suoi spazi di mercato. Il merito è soprattutto del progresso tecnologico. Le innovazioni (di prodotto e di processo) si susseguono a ritmo incessante - basti pensare all’elettro-
nica - accelerate dal processo di globalizzazione, che integra i mercati sia da un punto di vista orizzontale - accentuarsi della concorrenza - che verticale - assemblaggio di componenti, prodotti nelle diverse parti del mondo. Il segreto? La vecchia legge ricardiana sul “vantaggio comparato”. È la specializzazione produttiva che genera riduzione dei costi e, quindi, il successo competitivo. La finanza, invece, ha avuto uno sviluppo perverso. È cresciuta come un fungo, al punto che i suoi aggregati sono pari (le cifre sono incerte) a dieci volte il pil mondiale. Un elastico che si è dilatato fino a raggiungere un punto di rottura. Si fosse trattato di una normale impresa, i problemi sarebbero stati relativi. Ma qui si tratta di banche «troppo grandi per fallire». Il loro peso sistemico, il loro grado di integrazione, la loro pervasività è tale da escludere quella che è una normale risorsa, per quanto dolorosa, del sistema economico. E allora bi-
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La proposta, lanciata da Mario Monti, resta sul tavolo di Bruxelles
«La Bce? Se diventasse un po’ più americana...» «L’arma contro la speculazione sono gli Eurobond», dice Luigi Paganetto. «Ma la politica non si decide» di Pierre Chiartano
ROMA. Mario Monti ha dichiarato – ieri sul Financial Times – che l’unica via d’uscita dalla crisi dell’Eruozona è l’emissione di titoli di debito europeo. Una scelta che sarà sicuramente di carattere politico, visto che Eurotower nasce con le marce ridotte, in un continente dove le nazioni vogliono ancora contare e una politica economica comune è ancora un miraggio. Abbiamo chiesto all’economista ed esperto di finanza internazionale Luigi Paganetto un parere sulla crisi dell’Euro e su come se ne potrebbe uscire. Per il presidente della fondazione Economia dell’Università di Torvergata serve un cambio di ruolo della Bce sul modello di quella americana, giapponese o britannica. Riguardo al problema degli oneri della crisi sarebbe giusto un coinvolgimento nelle perdite anche del sistema bancario. A pagare non devono essere solo gli Stati e i cittadini. E sugli Eurobond aggiunge che non devono essere una luce verde agli Stati “spendaccioni”, ma solo uno strumento credibile per contrastare la speculazione. Serve però fare una scelta politica per cambiare la natura della Banca centrale europea.
«Ha ragione Monti, se pensiamo a dei bond con una legittimazione europea e che quindi non siano soggetti a rischio Paese. La Germania non è d’accordo che Eurotower compri titoli greci a rischio default, ma se emetto eruobond, al momento opportuno li posso ricomprare per combattere la speculazione. Come già succede in altri Paesi, come negli Usa, in Gran Bretagna, in Giappone, dove le rispettive banche centrali possono intervenire nel mercato. In questo senso è auspicabile che la proposta di Monti passi al vertice straordinario sull’Euro di oggi (ieri per chi legge, ndr). Ci troviamo davanti a un attacco speculativo sistematico verso le aree più esposte dell’Eurozona, che mette in evidenza un contrasto fra ciò che accade da noi e ciò che avviene invece negli Usa, in Gran Bretagna e Giappone. Cito questi casi perché hanno tutti un ampio debito pubblico, nel caso dell’America, anche con un disavanzo della bilancia dei pagamenti. Stesso discorso per l’Inghilterra. Il caso del Giappone è differente, ma ha un debito che raggiunge più del 200 per cento del Pil. Eppure non ci sono attacchi speculativi in queste zone». Per combattere i raid speculativi, le ingessature di Eurotower sono un problema. «Lì ci sono banche centrali che possono agire contrastando le speculazioni, cioè ricomprando i titoli di debito pubblico. Se banche e privati non dovessero comprare i bond pubblici ci sarebbe l’istituzione centrale a farlo. Quindi la speculazione non avrebbe spazio
per agire. È vero che si dovrebbe emettere nuova moneta, ma con una banca centrale che può farlo il rischio inflazione può essere gestito opportunamente. In Europa ciò non può avvenire, perché per lo Statuto europeo la Bce può solo controllare l’emissione di moneta. È una sorta di guardiano contro il rischio inflazione». Ma non è facile cambiare le cose nella rigida Europa. «Sono stati principalmente Germania e Francia, a volere una Bce con queste caratteristiche preoccupati d’innescare comportamenti lassisti in Paese meno virtuosi». Insomma all’origine ci si è legati le mani per non sbagliare.
«Se si potessero emettere Eurobond come suggerisce Monti, questi avrebbero un grande credito e potrebbero essere acquisiti senza rischi». Insomma se a garantire il debito è Bruxelles e non Atene, le cose cambiano. L’economista Jean-Paul Fitoussi qualche giorno fa leggeva questa come una crisi più politica che finanziaria. Il debito greco era meno grave di quanto sembrasse, ma la speculazione stava dando un giudizio sull’inadeguatezza della politica europea. «È vero, gli aspetti politici ed economi s’intrecciano». In pratica l’allegra gestione economica di Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo & company era proprio ciò che gli Stati virtuosi volevano evitare. L’ancoraggio a regole forti, rigide doveva servire proprio a questo scopo. «Quindi la crisi greca risulta più grave proprio per le scarse capacità d’intervento della Bce nel contrasto della speculazione. Obama sta facendo il tentativo di aumentare il tetto d’indebitamento del bilancio, in modo che la Federal reserve possa muoversi – anche lì ci sono dei vincoli – anche in presenza di comportamenti molto diversificati dei singoli Stati». Ricordiamo che il Minnesota è stato dichiarato fallito. «La Fed è autorizzata a tenere comportamenti flessibili. Infatti non c’è speculazione nei confronti del dollaro. La Grecia rappresenta solo il tre per cento del pil europeo, potrebbe essere un fenomeno dominabile, ma con gli strumenti giusti. Dire che la Grecia debba vendersi spiagge, porti e aeroporti per risolvere la situazione non funziona. Bisognerebbe dire alle banche che hanno comprato titoli greci o altri bond a rischio, di partecipare alle perdite. E non spalmare i debiti sui cittadini. Ma gli interessi corporativi esistono in Italia come in Europa». Insomma, chi ha sbagliato dovrebbe pagare, di tasca propria.
Negli Usa in Inghilterra e in Giappone, pur indebitati, non c’è speculazione
sogna ricorrere a opere di salvataggio sia trasparenti (la ricapitalizzazione con i soldi dello Stato) sia occulte (l’apporto discreto e imponderabile delle Banche centrali). Le stesse - vedi la posizione della Bce - che si oppongono a ogni loro coinvolgimento nel caso greco.
La Germania, in particolare, è l’esempio più evidente di questa contraddizione. Nella vicenda greca le sue banche sono tra le più coinvolte, insieme a quelle inglesi e francesi. Hanno prestato soldi a quel governo, senza preoccuparsi troppo della relativa solvibilità. L’importante era fare “fatturato”, lucrare ingenti provvigioni per giustificare i guadagni milionari dei suoi dirigenti più accreditati. Servivano anche a finanziare, seppure indirettamente, le grandi correnti di esportazioni al fine garantire quel surplus della bilancia commerciale che rappresenta la punta di diamante della sua economia. Un meccanismo quasi perfetto: finché è durato. Dall’economia reale – il commercio internazionale – derivava un surplus finanziario, che poteva essere utilizzato per finanziare i Paesi in deficit, evitando, così, di dover aprire il mercato interno alla concorrenza internazionale. Finché gli Stati Uniti, seppure a debito, erano in grado di traina-
re tutta l’economia mondiale, lo schema funzionava. Ma quando quel motore si è grippato, è stata la catastrofe del 2008. Da allora si è fatto ben poco, per affrontare le cause di fondo della crisi. Le banche sono state salvate, le retribuzioni del top management, salvo qualche piccola limatura, sono rimaste immutate. La grande asimmetria che divide l’Europa – da un lato il surplus commerciale tedesco, dall’altro il deficit del resto dell’eurozona, salvo qualche limitata eccezione – si è addirittura ampliata. Se le grandi banche non fossero oberate da debiti dei Paesi insolventi, il gioco potrebbe riprendere. Ma questo presupposto, come dimostra il diluvio di vendite che ha colpito in borsa prevalentemente i grandi istituti finanziari, è ora venuto meno. E l’intero Occidente si trova senza un “piano B”: una strategia di riserva, capace di prendere il toro per le corna. In un frangente così difficile, sarebbe compito della politica indicare le possibili soluzioni.
Ma in Europa (e non solo) tutte le classi dirigenti sono sulla via del tramonto. Non parliamo dell’Italia, ma guardiamo a quel che succede in Inghilterra o in Francia per vedere quanto debole sia questa prospettiva. La Germania non è da meno. Ed è soprattutto questo il dramma dell’Europa. Angela Merkel è da tempo in bilico sulla sua poltrona. Lo dimostrano gli esiti delle ultime elezioni. È condizionata da un sentimento popolare che vive rintanato nei suoi confini, ormai appagato dalla riunificazione nazionale, che ha rappresentato il coronamento di un disegno perseguito con ostinazione ossessiva, anche se comprensibile, fin dalla fine della guerra mondiale. Su quell’altare è stata sacrificata ogni altra cosa: memori, forse, di quanto costò alle generazioni passate la voglia espansionistica del Terzo Reich. Ma questa giusta preoccupazione, purtroppo, non risolve né i problemi dell’oggi, né quelli di prospettiva. Perché i tedeschi sono condannati, dalle condizioni in cui versa il loro sistema economico, a fare qualcosa di più per i propri concittadini europei. Dovrebbero svolgere, seppure a scala ridotta, un ruolo analogo a quello americano negli anni passati: trainare, per quanto possibile, il vecchio Continente, invece di accumulare riserve monetarie. Scelta difficile per chi non ha né la cultura né l’esperienza dell’esercizio della leadership. Ma non impossibile (ecco il bicchiere mezzo pieno) nel fuoco di questa crisi.
ULTIMAPAGINA
A Kunming spuntano come funghi falsi Apple Store, identici agli originali ma con degli errori marchiani
Cina, anche i negozi sono di Vincenzo Faccioli Pintozzi l mercato interno cinese non ha più limiti. Così come la fantasia degli investitori, che ogni giorno stupiscono il mondo con dei passi in avanti nell’arte della mistificazione. Dopo aver copiato praticamente di tutto, riprodotto ogni innovazione tecnologica per poi moltiplicarla all’ennesima potenza, ecco il colpo di genio: copiare anche i rivenditori autorizzati. Nel caso specifico, i negozi della Apple, fra i più riconoscibili e caratteristici al mondo. A prima vista, quello in oggetto sembra proprio uno di loro. Gli assistenti alla vendita, comunemente noti come “commessi”, indossano le tipiche polo blu con il logo della compagnia che spicca sul petto. Alcuni cartelli, scritti in cinese e in un inglese impeccabile, avvertono che è in vendita la seconda versione dell’i-Pad, oggetto del desiderio dei nuovi ricchi cinesi. Fuori dalla porta in vetro, accanto all’ormai mitica mela morsa, le parole “Apple Store”. Ed ecco la fregatura: in nessun negozio al mondo che faccia capo all’azienda di Cupertino si può leggere “Apple Store”. La mela è l’unico marchio che accompagna i punti di vendita. E, in questo caso, è anche scritta male.
I
COPIATI na un “colpo di frusta” contro la pirateria, che però sembra non aver prodotto risultati apprezzabili. La blogger – che ha intitolato la sua denuncia online “Steve Jobs, stai ascoltando?” – racconta: «Sembra veramente un negozio Apple. I commessi hanno la maglietta giusta e il giusto badge di riconoscimento, e ci sono le classiche scale che portano a un piano superiore dedicato alla prova degli oggetti.
Ma c’è qualcosa che stona, a partire dalla scritta sull’insegna: i muri sono pitturati male, le scale non sembrano molto resistenti, i tavoli sono costruiti con legno scadente. In
La truffa è stata notata da una cittadina americana che vive in zona: decine di negozi si spacciano come rivenditori autorizzati della mela. Ma sono soltanto imitazioni senza licenza
Lo ha notato una giovane americana che vive a Kunming, città della provincia meridionale dello Yunnan, che insieme al marito si è accorta dell’apertura di questo nuovo punto vendita. Lo ha fotografato e messo online sul proprio blog, BirdAbroad. I tre negozi che l’anonima blogger ha rintracciato nella sua città d’adozione non appaiono sulla lista dei rivenditori autorizzati: in effetti, Steve Jobs può contare in Cina su quattro megastore – due a Pechino e due a Shanghai – e in vari rivenditori ufficiali. Contattato, l’ufficio di Pechino ha rifiutato ogni commento. Rimane il fatto che la proliferazione dei negozi fasulli sottolinea il lentissimo procedere del governo cinese contro la pirateria rampante e la produzione diffusa di beni fasulli, uno dei fattori di maggiore irritazione per i partner commerciali che, pure, continuano a investire con foga nella produzione cinese. Il ministro cinese per il Commercio aveva promesso alla controparte america-
ogni caso, secondo me chi ci lavora non lo sa che è un trucco. Sono tutti molto convinti». Secondo Zhang, che lavora in un rivenditore autorizzato, «i negozi finti si moltiplicano ogni giorno che passa. Ma la maggior parte di coloro che ci lavora non ha la preparazione adatta, non ti sanno spiegare neanche tutte le funzioni dei telefoni cellulari. Eppure sono sempre di più: a volte vendono anche prodotti originali, ma non ci pagano sopra le tasse». La Apple non è nuova a problematiche con la Cina. I suoi prodotti, all’avanguardia in tutto il mondo, sono desideratissimi dai più ricchi fra i cinesi, che non hanno voglia di aspettarne il rilascio con i complicati caratteri della lingua nazionale. Ed ecco che esplodono le imitazioni non controllate, spesso di scarsissima qualità. Ma i problemi non si fermano alla pirateria. Nel maggio del 2010, un’ondata di suicidi ha infatti sconvolto la Foxccon, una delle maggiori aziende cinesi che produce parti dei prodotti Apple. La Foxconn è la maggiore azienda mondiale per parti di computer e manifatture elettroniche e la fabbrica di Longhua, quella dove si sono verificati almeno 21 suicidi, produce parti per l’iPhone e l’iPod della Apple. L’ondata di suicidi ha persino causato il crollo del valore del titolo, sceso del 50% nell’anno. Alla causa di tutto, i ritmi di lavoro alienanti e la bassissima qualità della vita, combinata a una paga da fame.
L’insegna del falso Apple Store, il primo a far scattare la denuncia. Da notare anche che l’insegna (che comunque negli altri negozi non c’è) è scritta male
Il governo cinese, nonostante i proclami di facciata emessi subito dopo la tragedia, non sembra voler fare molto per fermare questa situazione, che a essere onesti colpisce la maggior parte delle fabbriche cinesi. È troppo comodo, per ora, avere un lavoro schiavistico legalizzato che gli permette di dominare i mercati. Ma i problemi arriveranno.