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he di cronac
Lo schiavo che obbedisce, spesso sceglie di obbedire
Simone De Beauvoir 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 26 LUGLIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Iniziato il processo contro il killer: la gente attacca il blindato che lo porta in tribunale
Oslo, la folla cerca di linciare Breivik
L’assassino: «Due cellule mi hanno aiutato a compiere la strage» di Antonio Picasso
di Paola Binetti
di Luigi Accattoli
Follia, estemismo, mania di protagonismo ma anche disprezzo per la vita e per il futuro; e poi tanti, troppi videogiochi. Ecco che c’è dietro alla strage di Oslo.
Il Papa ha detto poco della strage ma credo che abbia molto pensato: non tanto per le critiche dell’omicida, quanto per il fantasma del «fondamentalismo cristiano»
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Il sorriso inquietante di Anders Breivik, nell’autoblindo che lo porta in tribunale
La morte, un gioco Il fantasma troppo facile dell’integralismo
veva o no dei complici, Anders Breivik? Questa ora è la domanda che inquieta l’Europa. L’assassino, ieri, ha parlato di altre due cellule sparse nel mondo, mentre è stato smentito l’arresto di un uomo in Polonia legato alla strage. Prima dell’udienza preliminare del processo, poi, ieri la folla inferocita ha colpito l’autoblindo che portava il killer in tribunale.
Il caporalmaggiore aveva 28 anni: ucciso a Bala Murghab. Feriti anche Simone D’Orazio e Francesco Arena. Il primo è grave
Luglio di sangue a Kabul Dopo Tuccillo e Marchini anche il parà David Tobini assassinato in uno scontro a fuoco. Oggi il voto sulle missioni: il Carroccio dice sì, ma continua (con Idv) la polemica sul ritiro I DUBBI DELLA LEGA
di PIerre Chiartano
La demagogia non rischia mai la vita di Osvaldo Baldacci ra gli animali, il sangue attira gli avvoltoi, le iene, gli squali, le zanzare. Tra gli animali, ma tra gli uomini dovrebbe essere diverso. Il sangue tra gli uomini ispira orrore e rispetto. Ispira dolore, stimola la riflessione, la consapevolezza. Specie se si tratta del sangue versato prematuramente in difesa di una giusta causa. Specie se è sangue giovane. Eppure ogni volta che un militare italiano all’estero sacrifica la propria vita in nome dell’Italia che ce l’ha mandato, qui da noi nel cortile della politica si apre il sabbah delle speculazioni di basso cabotaggio. Si può non essere d’accordo con le missioni all’estero, si può cambiare idea, ma allora si presentino al momento opportuno la propria visione organica e soprattutto delle proposte alternative. Non è dignitoso tacere a lungo e poi scagliare frammenti di polemiche cogliendo al balzo l’occasione di una tragedia. a pagina 2
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Che cosa si nasconde dietro al braccio di ferro
ROMA. Un altro soldato italia-
Il caporalmaggiore David Tobini
no, il terzo dall’inizio di luglio, il quarantunesimo dall’inizio della missione, è stato ucciso nel corso di uno scontro a fuoco a Bala Murghab, provincia estrema dell’Afghanistan. Davide Tobini, questo il suo nome, è rimasto vittima di un agguato teso dai talebani a una pattuglia italo-afghana. a pagina 2
Parla Sergio Romano
«Non fate propaganda con la politica internazionale» «Non ci si può schierare a giorni alterni: la diplomazia non può essere populista» Franco Insardà • pagina 4
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Il luogo dello scontro a fuoco
La maledizione dell’ultimo avamposto in Afghanistan Un puntino tra le montagne a ridosso del Turkmenistan: ecco la terra di nessuno
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
Luisa Arezzo • pagina 3 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
143 •
Obama, il vero e il falso default di Glenn Thrush trano ma vero: per buona parte del 2011, il presidente Barack Obama e lo speaker del Congresso John Boehner hanno fatto una ridda di ipotesi – per carità, ognuno secondo il proprio punto di vista (ideologico) – sull’eventuale recidiva incapacità di realizzare un piano di taglio del debito. Adesso però le implicazioni della loro inabilità a concludere un qualsiasi accordo stanno diventando tremendamente concrete. Questo non ha comunque impedito alle due parti in causa di continuare a cercare l’accordo più vantaggioso possibile mentre tentavano - e ancora ci provano - di far credere all’opinione pubblica americana (ma non solo) che era colpa dell’altro se il paese si stava e si sta affacciando sull’orlo del precipizio. a pagina 10
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Il mito della lotta al deficit
Tutta colpa di Kennedy di Gianfranco Polillo a battaglia per il debito è la nuova frontiera dell’Amministrazione americana. J.F. Kennedy coniò il mito del pareggio per indicare che così giustizia sociale e eguaglianza potevano essere difesi meglio. a pagina 10
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il commento
prima pagina
pagina 2 • 26 luglio 2011
L’alleanza trasversale del populismo
La propaganda non rischia mai la vita di Osvaldo Baldacci ra gli animali, il sangue attira gli avvoltoi, le iene, gli squali, le zanzare. Tra gli animali, ma tra gli uomini dovrebbe essere diverso. Il sangue tra gli uomini ispira orrore e rispetto. Ispira dolore, stimola la riflessione, la consapevolezza. Specie se si tratta del sangue versato prematuramente in difesa di una giusta causa. Specie se è sangue giovane. Eppure ogni volta che un militare italiano all’estero sacrifica la propria vita in nome dell’Italia che ce l’ha mandato, qui da noi nel cortile della politica si apre il sabbah delle speculazioni di basso cabotaggio. Si può non essere d’accordo con le missioni all’estero, si può cambiare idea, ma allora si presentino al momento opportuno la propria visione organica e soprattutto delle proposte alternative. Non è dignitoso tacere a lungo e poi scagliare frammenti di polemiche cogliendo al balzo l’occasione di una tragedia. O peggio ridurre la questione della vita dei nostri soldati a un problema di soldi che non ci sono.
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Per la questioni delle missioni militari all’estero e l’ennesimo lutto che ha colpito le Forze Armate italiane ancora una volta la politica si divide non tra maggioranza e opposizione ma tra realtà serie e meno serie. L’Italia dei Valori torna a chiedere il ritiro: «È ora di dire basta a una guerra che non ci appartiene e che sta producendo un dispendio inutile di vite e risorse economiche», dice Di Pietro. La Lega va oltre e continua a cercare di proporre la propria immagine di forza di lotta e di governo: siamo contrari ma voteremo a favore, non capiamo il senso della missione. In verità non capiamo noi il senso di questo comportamento demagogico della Lega, ma certamente se non si capisce il senso della missione in Afghanistan come dicono Lega e Idv sono loro che devono spiegarlo. Sono i loro governi che hanno deciso le missioni e le hanno mantenute, ad ogni lutto invece tornano alla demagogia. E denunciano che i soldati vengono messi in pericolo. Ma sono loro che li mettono in pericolo. Sono loro che li delegittimano e li fanno sentire isolati, sgraditi e persino inutili in mezzo a situazioni pericolose. Sono loro che mostrano ben poco rispetto per il lutto che dovrebbe accomunare l’Italia e spingere semmai a una pausa di riflessione in più.
Se c’è qualcosa da rivedere nella strategia italiana, questo va fatto lontano dai riflettori, dalle dichiarazioni sui giornali, dagli spot propagandistici. Ci vuole un lavoro politico, diplomatico e di analisi strategica che pare del tutto assente dalla rozzezza di certe prese di posizione. E poi, non è difficile capire che le missioni militari italiane all’estero sono utilissime per svariati motivi: perché provano a contribuire alla crescita democratica e di sviluppo di Paesi difficili; perché provano a garantire la pace e la stabilità; perché così facendo vegliano sulla nostra sicurezza andando alle radici di alcuni di questi problemi; perché collocano l’Italia all’interno di una responsabilità condivisa con la comunità internazionale. Ci sarebbe da chiedersi se adesso ci sarebbe la pace in Medio Oriente se non ci fossero i caschi blu tra Israele e Libano, e forse c’è anche da chiedersi se ci sarebbe mai stata la primavera araba senza le missioni di pace e ricostruzione in Afghanistan, Iraq e Libano. Non che tutti i problemi siano risolti.Tutt’altro. Ma bisognerebbe farlo guardando all’interesse della pace, al contesto internazionale, anche all’interesse nazionale italiano. Non inseguendo la miope visione della propaganda provinciale.
il fatto Nella sparatoria sono stati feriti altri due parà, uno dei quali è in gravi condizioni
Ancora morte, ancora demagogia Il caporalmaggiore David Tobini ucciso in Afghanistan durante uno scontro a fuoco. E oggi il Senato si riunisce per discutere il rifinanziamento della nostra missione di Pierre Chiartano
ROMA. Muore un altro militare italiano sugli altopiani dell’Afghanistan. Ma l’eco degli spari arriva subito nelle aule parlamentari, dove si sta discutendo delle nostre missioni all’estero. Si parla dei soldi necessari per il loro rifinanziamento. La lega ha fatto subito sapere che non si metterà di traverso, ma che non è d’accordo. Insomma, nella maggioranza c’è un altro grosso problema: i nostri impegni internazionali non possono diventare materia di disputa politica all’interno di una maggioranza di governo. Possono essere motivo di critica nell’opposizione, come quella dell’Italia dei Valori e di alcuni altri esponenti che contrastano la maggioranza del premier. Ma non dovrebbero essere argomento del contendere per un esecutivo che voglia essere preso sul serio sui tavoli internazionali. Il caporalmaggiore David Tobini, di Anguillara Sabazia (Roma), è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco avvenuto nella zona di Bala Murghab in Afghanistan. Nella sparatoria sono rimasti feriti altri due militari italiani, uno dei quali è in gravi condizioni. I tre appartengono al corpo dei paracadutisi. Lo ha comunicato ieri lo stato maggiore della Difesa. Sale dunque a 41 il numero dei militari italiani caduti in nel Paese asiatico. Il primo caporalmaggiore David Tobini era nato a Roma il 23 luglio 1983 ed era in forza al 183mo reggimento paracadutisti Nembo di Pistoia. Uno dei tanti “ragazzi” sotto il comando del generale di brigata della Folgore, Carmine Masiello, che tanto bene sta operando in qualità di comandante del settore ovest di Isaf. David era fidanzato ed era residente ad Anguillara Sabazia, vicino
a Roma, dove abita la madre. Le famiglie del militare deceduto e dei feriti sono state avvisate. Uno dei due feriti, il caporalmaggiore scelto Simone D’Orazio, e «in condizioni critiche» e «non è fuori pericolo di vita». Lo ha riferito il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, spiegando che D’Orazio, nato a Isernia nel 1983, «ha riportato una ferita da arma da fuoco sul lato sinistro del torace, ed attualmente è ricoverato in un ospedale americano». Meno gravi le condizioni dell’altro militare italiano ferito, si tratta di Francesco Arena, nato a Vibo Valentia nel 1979, che è stato colpito al corpo sul lato superiore destro e non è in pericolo di vita. La valle di Bala Murghab si trova nell’ovest dell’Afghanistan ed un importante snodo per il traffico di oppio verso le ex repubbliche sovietiche. L’episodio è avvenuto durante un’operazione congiunta tra militari italiani e forze afghane nella zona a nord-ovest della valle, quando l’unità nella quale erano presenti anche i militari italiani è stata attaccata. L’aggressione è avvenuta durante una fase di ripiegamento al termine di un’attività di controllo e ricerche.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese, i sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari. Lo si è letto in un comunicato del Quirinale. «Siamo vicini alla famiglia del paracadutista caduto in Afghanistan e a quelle dei due militari rimasti feriti nell’agguato. A tutti i nostri soldati impegnati nelle operazioni di pace contro il terrorismo rinnoviamo la gratitudine del Governo e del Pae-
lo scenario
Bala Murghab, l’avamposto maledetto Massimiliano Ramadù, Luigi Pascazio, Luca Sanna e ieri Tobini. I nostri morti alla Fob di Luisa Arezzo ulla cartina militare appesa alla parete del Regional Command West (Comando della regione occidentale) a Herat, Bala Murghab è un puntino tra le montagne, a ridosso del Turkmenistan. In realtà, arrivandoci con l’elicottero, oltre la corona di monti (dove sono disseminati decine e decine di micro villaggi da cui gli elicotteri si allontanano grazie al volo tattico sempre temendo un colpo di mortaio) si apre la vallata, fertile e strategica, del Murghab. Qui, nel 2008, è stata approntata una Fob: acronimo per Forward Operation Base: la lingua di Isaf è l’inglese, ma il significato poco attraente si capisce anche così: la Fob è una postazione avanzata, in questo caso ricavata all’interno di una ex cartiera che ancora porta i segni di quando era un comando dell’Armata Rossa, vecchi carri armati in disuso compresi.
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A dirla tutta, è poco più di un fortino color sabbia. Una via di mezzo fra l’avamposto isolato di Balla coi Lupi e Fort Alamo. Quando vi arrivarono i primi soldati italiani, nell’agosto 2008, dovettero combattere per settimane prima di poter consolidare la base. I fanti aeromobili del 66° reggimento, affiancati da truppe afghane e americane vennero bersagliati con razzi e mortai dalle postazioni talebane sulle alture. A Bala Murghab i combattimenti più intensi li affrontarono nel 2009 i parà del 183° reggimento Nembo che uccisero deci-
ne di miliziani inclusi molti combattenti stranieri di al-Qaeda. Quell’area al confine con il Turkmenistan è sempre rimasta calda per la presenza di diverse tipologie di miliziani (talebani, narcos, trafficanti di armi e qaedisti) e perché la popolazione pashtun li sostiene in molti villaggi i ribelli. Nel villaggio di Murghab, a solo 14 chilometri dal confine con il Turkmenistan, vivono 800 famiglie, una forbice di popolazione che oscilla fra le 2400 e le 3500 persone. Il condizionale
Da qui passa un tratto della Ring Road, l’anello di asfalto che circonda e collega tutto il Paese qui è d’obbligo, perché il censimento è una parola sconosciuta nel paese. Ma Bala Murghab è anche la testimonianza diretta dell’esistenza di due guerre in Afghanistan. Quella contro i talebani e quella contro i trafficanti di droga. Sono guerre che si sovrappongono, che scavalcano le ideologie e che s’intrecciano alle faide tribali, che alimentano gli eserciti irregolari dei tanti signori locali e che foraggiano anche i terroristi di al Qaeda. Ai nostri soldati asserragliati nella Fob è toccato il compito di combatterle tutte e due perché questa cittadina ai piedi delle mon-
se». Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Per il presidente della Camera Gianfranco Fini questo è un «nuovo grave tributo alla causa della sicurezza e della libertà». La prima carica del Senato, Renato Schifani, parla di un costo altissimo, ma non è intenzione dell’Italia lasciare. «Ancora un sacrificio dell’Italia sull’altare per la difesa della pace e della libertà in Afghanistan».
È la terza vittima italiana in un mese, sull’altopiano centrasiatico. Proprio alla vigilia della discussione dei rifinanziamenti delle missioni all’estero, già molto contestata in Senato. Il militare ucciso ieri mattina è il terzo nel mese di luglio, uno ogni 10 giorni. Dopo Gaetano Tuccillo, deceduto il 2 luglio, e Roberto Marchini il 12 luglio, il soldato italiano morto ieri, fa di luglio il mese che ha riportato a casa più feretri avvolti nel tricolore. Il partito di Umberto Bossi ha capito quanto il sentimento nazionale intorno a queste tragedie sia forte, perciò ha deciso di non remare controcorrente, per il momento. «La Lega Nord al Senato esprime sentimenti di massima vicinanza e cordoglio ai familiari del caporalmaggiore David Tobini ucciso oggi (ieri, ndr) in Afghanistan nel corso di uno scontro a fuoco. In questo momento di profondo dolore siamo vicini anche all’intero corpo dei Paracadutisti e, in particolare, ai due militari rimasti feriti». È quanto si legge in una nota del gruppo parlamentare della Lega Nord al Senato. Ma dietro la calma apparente del cordoglio, cova il fuoco
tagne al confine con il Turkmenistan è proprio al centro del micidiale groviglio. È una delle principali porte della nuova via dell’oppio e della cannabis che non passa più verso il Pakistan, a Sud, dove le vecchie raffinerie sono state in buona parte smantellate, ma punta ormai a Nord, in direzione delle ex Repubbliche sovietiche – il Tagikistan e l’Uzbekistan, oltre al Turkmenistan – e verso lo stesso Iran, trampolini di lancio verso l’Occidente che è il vero, grande bersaglio della guerra della droga che ha una strategia autonoma e risponde agli ordini di stati maggiori spesso lontani dai campi in cui si coltivano i papaveri da oppio e le piante di cannabis afgana che diventano poi eroina e hashish.
Ufficialmente, nell’intera area rimangono da mettere in sicurezza soltanto gli ultimi 30 chilometri (forse qualcosa di più), quelli incuneati tra gole ripide e strapiombi da paura. Sembra poca cosa. E invece è tantissimo. Perché qui ogni metro è stato conquistato durissimamente. E perché qui mai nessuno dei nostri militari – ma la regola vale anche per gli americani che con gli italiani condividono, da separati in casa, la Fob Todd (dal nome di un militare Usa ucciso in combattimento) esce a cuor leggero e senza essere armato di tutto punto. Da una torretta della sede della polizia afghana poco lontana (trecento metri al massimo, almeno 15 minuti per arrivarci in colonna con i Lince) il pericolo si tocca con mano: solo uno spiraglio consente di vedere la cinta oltre la quale la valle è in mano ai talebani. Guai a sporgersi di più: si potrebbe facilmente restare vittima
della polemica politica. La morte del parà italiano in Afghanistan genera nuove polemiche proprio alla vigilia del voto per il rifinanziamento delle missioni dei militari all’estero, previsto per oggi al Senato. Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro è invece stato categorico: ci vuole al più presto il ritiro delle nostre truppe. «È ora di dire basta a una guerra che non ci appartiene e che sta producendo un dispendio inutile di vite e risorse economiche». Immediata la replica del ministro della Difesa, La Russa, che ha sottolineato che questo è un momento di lutto e non è tempo di polemiche: «Mi au-
di un cecchino. Sì, perché i talebani (e qui lo sono veramente un po’ tutti, difficile distinguere “il falso dal vero”) circondano l’intera zona. E la minaccia degli ordigni improvvisati, come quello che ha ucciso lo scorso anno il sergente Massimiliano Ramadù e il Primo caporal maggiore Luigi Pascazio, degli attentati, come quello che è costato la vita al caporal maggiore Luca Sanna il 20 gennaio scorso e degli scontri a fuoco, come quello in cui ieri è morto il nostro parà David Tobini, resta costante. Anche perché il controllo della vallata è strategicamente importante sia per la nostra coalizione che per gli insurgent: non solo perché è un valico di frontiera, ma soprattutto perché da qui passa un tratto della Ring Road, l’anello di asfalto che circonda tutto l’Afghanistan collegando tra loro le città principali. E va da sè: per garantire la sicurezza all’interno di tutto il Paese, il primo obiettivo deve essere quello della libertà di circolazione e del controllo delle principali vie di comunicazione.
missione in Libia». Si è detto contrario al rifinanziamento il senatore del Pd Ignazio Marino: «personalmente domani non voterò il rifinanziamento delle missioni». Marino spera che quella di oggi al Senato possa essere occasione per aprire una seria discussione sulla guerra, in cui siamo coinvolti, e sull’opportunità di un reale ritiro. Una nota positiva viene invece dalla maggioranza. «Nell’esprimere il cordoglio alla famiglia Tobini ed a tutte le Forze Armate italiane, siamo certi che il Parlamento saprà onorare questo ulteriore sacrificio con un pieno e convinto sostegno alle missioni militari di pace italiane». Lo ha dichiarato in una nota il presidente del gruppo Pdl al Senato Gasparri. «Ci auguriamo che il consenso vada al di là dei confini della maggioranza come è doveroso nel confermare le linee strategiche di politica internazionale del nostro Paese. Peraltro il governo ha già indicato per i mesi e gli anni futuri un programma di revisione delle missioni militari che è stato discusso anche ai massimi livelli istituzionali. Ma in questo momento credo sia essenziale inviare un chiaro segnale di sostegno ai nostri militari così duramente impegnati in tanti scenari internazionali». Anche Vernetti, deputato del Terzo Polo e già sottosegretario agli Affari esteri ha affermato che «sarà necessario discutere in Parlamento sul come rendere ancora più efficace la nostra missione con l’obiettivo, insieme ai nostri alleati della Nato, di creare le condizioni per una sempre maggiore assunzione di responsabilità da parte del Governo e dell’esercito afghano».
L’aggressione, durante una fase di ripiegamento al termine di un’attività di controllo. Napolitano: «Ai nostri soldati impegnati nelle operazioni di pace contro il terrorismo rinnoviamo la gratitudine del Paese» guro che proprio per rispettare questi ragazzi non si riaprano le polemiche sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero» ha concluso il ministro. Intanto la Lega esprime dubbi sul voto al Senato per le missioni, con Calderoli ha sottolineato non poche perplessità sulla nostra presenza in Afghanistan. Confermando però che il Carroccio voterà comunque sì al rifinanziamento, anche perché «sul tema, come Lega Nord ha precisato il ministro - abbiamo ottenuto il rientro di almeno 2070 nostri militari, già entro la fine di quest’anno, una riduzione degli stanziamenti per le missioni internazionali e la definizione della durata della
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l’approfondimento
La geopolitica non va d’accordo con le esigenze di questa o quella forza che pensano solo alle urne
Missione populismo La Padania non ha alleanze internazionali, è un’invenzione della fantasia che non risponde alle regole della grande diplomazia: per questo la Lega e Di Pietro usano i conflitti mondiali a scopo elettorale. Parla Sergio Romano di Franco Insardà
ROMA. «Il dibattito sul rifinanziamento delle missioni è esclusivamente italiano, caratterizzato dalla particolare fase politica che stiamo attraversamento e dal fatto che ogni discussione finisce inevitabilmente per essere strumentalmente utilizzata per le vicende interne». L’ex ambasciatore Sergio Romano esprime tutta la sua perplessità per l’atteggiamento che alcuni partiti politici italiani adottano ogni qualvolta si tratta di discutere in Parlamento sui fondi da destinare alle missioni internazionali nelle quali sono impegnate le nostre forze armate.
Per l’editorialista del Corriere della sera in tutti i Paesi si discute «sul futuro delle missioni, a cominciare dagli Stati Uniti. Il problema, quindi, non è italiano, ma internazionale. Comunque non dimentichiamoci che la decisione di principio è già stata presa: ce ne stiamo andando. Il problema è quello dei tempi, ma questi non posso-
no essere decisi individualmente dai singoli stati». Romano chiarisce anche che siamo in Afghanistan perché «ci siamo andati, a torto o a ragione, nel quadro di una decisione presa da un’alleanza. Nelle alleanze ci si sta nei giorni di sole e in quelli di pioggia. Gli obblighi che derivano dalle alleanze non possono essere osservati soltanto quando conviene. Non sono degli autobus sui quali salire e scendere a secondo delle convenienze».
ha avuto delle perdite, basta ricordare che la Francia ultimamente ha dovuto registrare la morte di sette soldati in una sola giornata. I francesi hanno cercato di trasformare il sacrificio dei loro militari in una manifestazione di unità nazionale, di patriottismo e di orgoglio, cosa che potrebbe essere fatta anche in Italia».
Sergio Romano avverte che esistono, però, una serie di fattori che «vanno presi in consi-
Secondo l’ex ambasciatore il nostro governo «ha voglia di andarsene dall’Afghanistan, così come quasi tutti i governi che sono lì. Anche perché le missioni costano e quello economico, soprattutto in questo periodo, è un peso per tutti. Basta tener presente che gli stessi Stati Uniti hanno speso troppo in guerre negli ultimi anni, parliamo di somme colossali vicine ai quattro trilioni di dollari. Alla fine l’Italia se ne andrà, come faranno gli altri. Ogni Paese
L’occidente oggi è favorevole all’intervento umanitario, ma non alla guerra
derazione oltre quello principale dell’alleanza. L’ipotesi di una nostra uscita precipitosa di scena rischierebbe di mettere in discussione quello che siamo riusciti a fare di buono anche in Afghanistan. Lo dico, ovviamente, senza eccessivi ottimismi dal momento che molti problemi non sono stati risolti. In tutti questi anni, però, nella provincia di Kandahar sono state fatte delle cose utili e opportune. La presenza occidentale in quel Paese lascia traccia
significativa in una nuova generazione, con persone formate sul piano militare, che a media scadenza produrrà effetti sull’Afghanistan».
Tornando alle polemiche di casa nostra, che hanno visto protagonista prima la Lega e poi l’Italia dei Valori, Romano ne dà una lettura molto semplice: «Certi atteggiamenti di partiti come la Lega si giustificano soltanto con l’esigenza di identificarsi, per ragioni che nulla hanno a che vedere con l’Afghanistan, ma con posizioni che, avendo un tasso di popolarità abbastanza elevato, diventano uno degli argomenti di propaganda. Ritengo, però, che anche il Carroccio sia consapevole dei termini reali della questione e, come spesso ha fatto, darà un’ulteriore prova di buon senso. Purtroppo il dibattito politico soffre enormemente delle condizioni e delle circostanze del contesto nazionale e ogni argomento viene valutato in base al profitto elettorale che
Gli Usa si preparano alla smobilitazione dal teatro di guerra. Ma il Pakistan non gradisce
La soluzione di Hillary: dopo di noi arriverà l’India Al posto della Nato, nel 2014, la responsabilità di combattere i talebani potrebbe essere demandata alle forze armate di Nuova Dehli di Antonio Picasso na soluzione indiana per la guerra in Afghanistan? L’opzione non è da escludere a priori. Specie ora che la Nato sta cominciando a consegnare il controllo di alcune aree del Paese alle autorità di Kabul. Anche sulla base dell’incremento di morti tra i soldati occidentali. Non da ultimo il caso di ieri del 41esimo caduto italiano. Tuttavia, l’eventualità che New Delhi subentri alle forze occidentali, come garante straniero della sicurezza afgana, merita una riflessione di ampio respiro. L’attentato a Mumbai, la visita in India del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e l’arresto a Washington di due attivisti per l’indipendenza del Kashmir. I tre fatti recenti impongono una valutazione delle costanti tensioni tra India e Pakistan, delle direttrici che potrebbe prendere l’Amministrazione Obama in loco e del futuro della guerra in Afghanistan.
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La Casa Bianca è consapevole della necessità di coinvolgere l’India nella risoluzione di quest’ultima. Da qui il viaggio della Clinton. Meglio New Delhi, piuttosto che la Russia (di nuovo), o peggio ancora Pechino e Teheran. Detto questo, dai fatti più scottanti – vedi l’uccisione di bin Laden – al trend di lungo periodo, tutto lascia pensare che Washington si stia scollando dalla partnership con Islamabad, per favorire la costruzione di un’alleanza strategica con il governo indiano. Lecito chiedersi se Obama abbia calcolato le reazioni che una scelta del genere innescherebbe. Il viaggio della Clinton in India ha suggellato un’alleanza in cantiere da mesi. Washington mira a fare del Paese il suo primo partner strategico nella macroarea. Nucleare civile e una politica congiunta contro il terrorismo. Questi i due punti sui quali si è sviluppato il summit. Agli Stati Uniti fa comodo esportare il proprio know-how sulle energie alternative. Specie ora che il nucleare ha perso l’appeal in seno all’opinione pubblica occidentale. Visione comune nelle politiche di sicurezza. Dagli attentati di Mumbai nel 2008, l’India è assurta al rango di Paese a rischio. Non solo per gli attacchi che possono colpirla, ma anche in qualità di superpotenza emergente da sconfiggere agli occhi dei jihadisti. New Delhi ha subito puntato l’indice accusatorio contro il Pakistan. Il messaggio è sempre lo stesso: Islamabad non farebbe abbastanza per contenere la deriva jihadista all’interno del suo territorio. Gli Usa, dal canto loro, non sono riusciti a svolgere quel ruolo di mediatori che si erano prefissati. Anzi, le iniziative adottate dal Pentagono per contrastare la presenza di al-Qaeda in Pakistan non hanno fatto altro che risultare provocatorie. Questo come si collega con l’India? Semplice: nell’ottica di una smobilitazione della Nato dal teatro afghano, nel 2014, si può supporre che la responsabilità di combattere i talebani venga de-
mandata proprio alle forze armate di New Dehli. Gli Stati Uniti non ammetteranno mai di aver perso la guerra. La loro exit strategy, di conseguenza, dovrà apparire come un passaggio di consegne al governo di Kabul. Tenuto conto che questo non si sa quando e se mai sarà in grado di sobbarcarsi un simile incarico, è necessario fin da ora procacciargli un supporto esterno. Ed è altrettanto essenziale evitare che Karzai, o chi per lui, venga appoggiato da altre potenze, Cina,
Washington non dirà mai di aver perso la guerra. E vuole un passaggio di consegne Iran o Russia – tutte ben liete di intervenire a risolvere un problema causato dagli Usa e che gli stessi non sanno gestire. Non resta che l’India a questo punto. Il Pakistan ne è consapevole. E certo non ne è contento. Dopo che gli Stati Uniti hanno scatenato una guerra sui suoi confini settentrionali, adesso Islamabad rischia di trovarsi circondato dal suo nemico storico.
Veniamo infine al problema dei problemi: il Kashmir. Casus belli di tre conflitti tra le due nazioni. Per gli indiani si tratta del Jammu-Kashmir, Stato federale nazionale. La giurisdizione pakistana riguarda le province dell’Azad Kashmir e del Gilgit-Baltistan. La Cina dal canto suo mantiene il controllo sui distretti di Aksai Chin e Shaksgam, ma non è coinvolta nelle rivalità della zona, dai tempi della guerra con l’India nel 1962. In sintesi le rispettive posizioni sono: per l’India la sua parte kashmira è integrata nell’Unione, il Pakistan dice che vorrebbe offrire maggiori poteri al governo delle sue due province, infine la Cina ha incluso l’Aksai Chin e lo Shaksgam nel Tibet. La settimana scorsa, l’Fbi ha emesso un mandato di cattura per Syed Ghulam Mabi Fai e per Zaheer Ahmad, entrambi cittadini statunitensi, ma di origine pakistana, in particolare dell’Azad Kashmir. L’accusa è di aver effettuato attività di lobbying illecite nel contesto politico statunitense. Gli investigatori Usa stimano, in particolare per Fai, una cifra intorno ai 700mila dollari ricevuta dal governo pakistano, probabilmente dall’intelligence (Isi), e poi destinata al-
le attività di pubbliche relazioni presso le istituzioni di Washington.
Il Kashmiri American Council, infatti, vanta rapporti trasversali con democratici e repubblicani, al Congresso come pure alla Casa Bianca. L’Fbi non mette in discussione una lobby impegnata nei diritti umani. L’input a procedere è dettato dal fatto che, a giudizio degli inquirenti, il Kashmiri American Council avrebbe utilizzato fondi provenienti da un governo straniero per sponsorizzare la campagna elettorale di esponenti della politica statunitense. L’ambasciata pakistana a Washington si è detta totalmente estranea alla vicenda. Lo scorso anno, proprio in questo periodo, il Jammu-Kashmir cadeva vittima di una nuova insorgenza di indipendentismo e violenze. Le manifestazioni a Srinagar e nelle altre città dello Stato erano degenerate in scontri di piazza. Con il concludersi del 2010, quello del Kashmir è tornato a essere un conflitto dimenticato. L’India sostiene che il problema sia di natura interna e che il Pakistan non avrebbe alcun motivo di interessarsene, se non per strumentalizzarlo a suo interesse. Inoltre considera il JammuKashmir l’epicentro delle attività terroristiche del fondamentalismo islamico. Le autorità pakistane, a loro volta, sono convinte che l’India fornisca di armi i guerriglieri della minoranza indù, anch’essi particolarmente agguerriti. A discolpa del Kashmiri American Council, va ricordato che la sua diaspora rappresenta un network politico, culturale ed economico sorprendentemente articolato. Non si contano i think tank attivi in Nord America, Europa e Australia. Il Kashmir Centre di Bruxelles, presieduto da Majid Tramboo, organizza periodicamente manifestazioni presso il Parlamento europeo alle quali prende parte un gruppo informale di 75 europarlamentari, di qualsiasi appartenenza politica e origine nazionale. L’accusa che ha mosso l’Fbi ad arrestare Fai e Ahmad non è nuova. Il Kashmiri American Council sostiene che si tratti di donazioni volontarie, prassi comune nelle attività di lobbying a Washington come presso molti governi europei, Ue compresa. Sono 700mila i cittadini americani di origine pakistana, vicini alla causa kashmira. 700 mila elettori del Congresso e della Casa bianca, per i quali né i democratici né i repubblicani possono dimostrarsi insensibili. Il problema quindi è sì tra India e Pakistan. Ma, inevitabilmente, gli Usa non possono pensare di restarne fuori. Sia per ragioni strategiche sia per uscire dall’Afghanistan.
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se ne può trarre e al vantaggio che se ne può avere in un futuro relativamente a breve scadenza». Ogni volta che si riapre la discussione sulle missioni si ritorna a parlare anche di regole d’ingaggio e su questo argomento Sergio Romano ritiene che «per un certo periodo le regole di ingaggio erano tali da consentire al contingente italiano di evitare di entrare in combattimento. Credo che siano state attenuate, perché erano diventate di fatto impraticabili sul terreno e si scontravano quotidianamente con una realtà che richiedeva dei comportamenti rapidi ed efficaci. Non era cioè possibile invocare i caveat così come erano stati formulati all’inizio, ma è stato necessario fare i conti con la realtà. In questo momento non so quali siano le regole d’ingaggio e quanto siano state modificate. Credo di capire che le truppe italiane sono state impegnate in operazioni di guerra e lo desumo anche dal modo con il quale certi nostri soldati sono stati feriti e uccisi».
L’ex ambasciatore, infine, ci tiene a sottolineare un approccio diverso dei Paesi occidentali rispetto agli interventi umanitari, condizionato soprattutto dai sentimenti e dalla pressione dell’opinione pubblica. «Mentre in altre circostanze qualsiasi governo europeo avrebbe parlato di questi scontri con un certo compiacimento per il valore e il coraggio delle proprie forze armate, adesso paradossalmente, ma non vale soltanto per l’Italia, lo si fa il meno possibile: si deve fare la guerra, ma non bisogna parlarne. Il motivo sta nel mutato atteggiamento dell’opinione pubblica occidentale che rifiuta la guerra, è favorevole all’intervento umanitario, ma non accetta le conseguenze. È d’accordo sul ruolo di forza di pace, senza voler capire che quando si inizia un’azione del genere c’è qualcuno che non desidera quell’intervento e, inevitabilmente, reagisce con le armi».
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la strage di Oslo A destra, il killer Anders Breivik nell’auto della polizia durante il trasferimento al tribunale, dove un migliaio di persone lo aspettava per linciarlo come unico responsabile (previo ulteriori accertamenti) dell’attenato di Oslo e della strage di Utoya. Le forze dell’ordine, assiepate ad ogni ingresso del tribunale, hanno dovuto fare enormi sforzi cercare di contenere la folla inferocita. Sotto, il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg
A Oslo inizia al processo contro Anders Breivik. Smentito l’arresto di un uomo in Polonia legato alla tragedia norvegese
«Sì, avevo dei complici»
Il killer parla di «due cellule» che lo avrebbero aiutato a preparare la strage. E la folla aggredisce il blindato che lo porta in tribunale tto settimane di isolamento poi il processo. Il tribunale di Oslo ha preferito non andare oltre nell’udienza preliminare contro Anders Breivik. Il dolore arrecato dal folle estremista è ancora troppo vivo per permettere alla fredda magistratura scandinava di assumere qualsiasi posizione. Lacrime e vendetta. Sono queste ad avvelenare gli animi della pacifica Norvegia. Lacrime come quelle versate da re Harald V e da sua moglie Sonja, durante la funzione di commemorazione delle vittime. Cerimonia tutt’altro che scandinava, appunto per la sofferenza espressa, che si è celebrata nel duomo di Oslo domenica. Vendetta perché è questo ciò che chiede l’opinione pubblica nazionale. Non era un pubblico di curiosi quello che si è radunato ieri di fronte alla Corte della capitale norvegese. Lo si percepiva dagli sguardi. Volti incorniciati dal biondo nordico, ma anche persone di colore. In comune avevano tutti il desiderio di vedere Breivik penzolare da chissà quale for-
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di Antonio Picasso ca. E infatti l’autoblindo che portava l’assassino in tribunale è stato attaccato dalla folla che voleva linciarlo.
Ma il problema giuridico è un altro: quale forca? Il diritto norvegese prevede un massimo della pena di 21 anni. Solo? Questa era la domanda che si leggeva sulla maggior parte dei
di Utoya venisse soppesato con strumenti processuali non in vigore, sarebbe la Norvegia con la sua identità esemplare al prima a pagare. Basteranno due mesi per sedare gli animi? Certamente no. Per lo meno non nel cuore dei parenti delle vittime. Tanto più che sull’accaduto pesano ancora così tante ombre. A quattro giorni di distanza
L’assassino ha ammesso la strage ma ha delirato di averla «fatta per salvare l’Europa dal marxismo e dall’invasione dell’islam». E infatti voleva presentarsi in aula in divisa giornali d’Europa. Tuttavia, è proprio cambiando le regole in corsa che si farebbe un favore e Breivik. È condannandolo a chissà quale pena ad personam che verrebbe dato un mostruoso riconoscimento al suo gesto. Del resto, lo ha detto il premier norvegese Jens Stoltenberg sempre domenica: «La nostra società rimarrà aperta, democratica, libera». Se il massacro
non si è nemmeno certi del bilancio dei morti. Nel pomeriggio di ieri, si è saputo della scomparsa di un altro ragazzo. È il 93esimo. Sono ancora una ventina i giovani gravemente feriti e le cui condizioni risultano estremamente gravi. Nella lista dei morti, risulta persino il fratellastro della principessa Mette Marit, Trond Berntsen, moglie dell’erede al trono,
Haakon. È dura da ammettere ma Beivik pare essere riuscito nella sua impresa.Voleva passare alla storia come il mostro del secolo per il suo Paese. Ci sta arrivando. Forse è per questo che ieri, immortalato dai fotografi mentre arrivava in tribunale su mezzo blindato della polizia, lo si è visto sorridere. Quell’assembramento di folla faceva al caso suo. Durante l’udienza, il giovane estremista ha sì rivendicato gli omicidi, ma non si è dichiarato colpevole. Perché avrebbe dovuto farlo, se nella sua mente l’obiettivo era di «salvare l’Europa»? Breivik si è presentato in aula con un maglioncino rosso e una camicia arancione. Precedentemente il suo legale, Geir Lippestad, aveva riferito che era sua intenzione comparire davanti ai giudici in uniforme. Ma i magistrati gliel’hanno vietato. Durante l’udienza di circa 35 minuti, il killer ha spiegato con freddezza che la sua intenzione era dare «un forte segnale» al Partito laburista al governo, accusato
di «aver tradito» il Paese per aver consentito immigrazioni di massa da parte dei musulmani. La strage sarebbe servita a «infliggere il maggior numero di vittime» all’interno del partito, stroncando la sua possibilità di ricambio generazionale. «Ho agito per salvare la Norvegia e l’Europa occidentale dal marxismo culturale», ha detto.
Era da solo? A quale rete del terrore è affiliato Anders Breivik? Sono le domande alle quali, al momento, sembra che si abbia paura a rispondere. Il killer pare abbia detto di essere stato aiutato da «due cellule», a Oslo, nella preparazione dell’attentato. Ma l’establishment politico europeo non si espone al pericolo di interpretazioni più complesse di quella limitata alla follia singola. Se non con dichiarazioni di circostanza. «Serve un’indagine di tutta l’Ue su xenofobia e fanatismo», ha detto il premier spagnolo Zapatero. Possibile che dagli archivi delle polizie e delle agenzie di intelligence non si possa recupera-
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i che d crona
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Da sempre la Chiesa si interroga sui pericoli del fanatismo, anche quello degli integralisti cristiani
Direttore da Washington Michael Novak
Ratzinger e il fantasma
Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
di Luigi Accattoli l Papa ha detto poco, domenica, dei due attentati norvegesi ma credo che abbia molto pensato e temuto: e non tanto per la surreale critica che gli è rivolta nel manifesto dell’attentatore, ma per il fantasma del «fondamentalismo cristiano» che con quegli attentati per la prima volta prende forma sulla scena mondiale. Più volte, da teologo e da Papa, egli ha parlato del “fanatismo religioso” che può produrre “intolleranza e terrorismo”, un fanatismo che la fede non può “sanare” senza l’aiuto della ragione. I morti di venerdì devono essere stati per lui come una drammatica riprova della giustezza di quella teoria. Da cardinale aveva esposto quell’idea in dialogo con Juergen Habermas, in un incontro del gennaio del 2004 a Monaco di Baviera (i testi sono pubblicati in italiano da Marsilio con il titolo Ragione e fede in dialogo). I due discutono delle legittimazioni morali e religiose del fanatismo e del terrorismo e segnalano il fatto che i terroristi presentano a volte la loro azione come – dice Ratzinger – «difesa di una tradizione religiosa contro l’empietà della società occidentale». Il cardinale conclude segnalando l’esigenza che ragione e fede si «riconoscano reciprocamente» e stabiliscano tra loro una «correlazione polifonica» per aiutarsi a guarire dalle rispettive “patologie”. Queste le sue parole più impegnative: «Ci sono patologie della religione che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve costantemente lasciarsi purificare e regolamentare».
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“purificazione”: «L’Europa deve difendere la razionalità e su questo punto anche noi credenti dobbiamo essere grati al contributo dei laici, dell’illuminismo, che deve rimanere una spina nella nostra carne. Ma anche i laici devono accettare la spina nella loro carne, cioè la forza fondante della religione cristiana per l’Europa». Sentendo che l’attentatore di Oslo e di Utoya, Anders Behring Breivik, veniva qualificato come un “fondamentalista cristiano” Joseph Ratzinger non può non aver ricordato quel monito che aveva formulato poco prima dell’elezione al Pontificato e che da Papa aveva più volte riproposto, in particolare con la lectio di Regensburg con primario riferimento all’islam. Ma ora la matrice era cristiana e in-
In più di un’occasione Papa Ratzinger ha accennato al pericolo, storico e attuale, cristiano e planetario, che l’impegno per la verità possa condurre all’intolleranza e alla violenza. Parlando al corpo diplomatico nel gennaio del 2006 si è chiesto – per esempio – se «le convinzioni diverse sulla verità» non siano destinate a «dare luogo a tensioni, ad incomprensioni, a dispute, tanto più forti quanto più profonde sono le convinzioni stesse», fino a produrre “guerre di religione”. Ammise che ciò si era verificato anche nella Chiesa Cattolica e precisò che si era trattato di “gravi errori”per i quali essa «non ha esitato a chiedere perdono». Con maggiore efficace ha poi svolto la stessa considerazione durante una visita in Austria nel settembre del 2007, evocando – al Santuario di Mariazell – il fatto che noi cristiani «abbiamo paura, a motivo della nostra storia, che la fede nella verità comporti intolleranza». Riflettendo sulla preghiera del Papa per le vittime di quell’assurdo cristiano che è Anders Behring Breivik, conviene dire – a correzione delle semplificazioni proposte dai titoli dei media – che egli non propriamente “minaccia” il Papa, ma lo critica e auspica l’avvento di un futuro Pontefice capace di «promuovere una nuova crociata contro l’islam». Egli fonda questa critica sulla constatazione che Papa Benedetto «ha abbandonato la difesa dei cristiani europei e dev’essere considerato codardo, incompetente, corrotto e illegittimo, alla stregua dei più recenti predecessori, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II». Si direbbe che il folle Breivik abbia compreso il Papa teologo come questi aveva da tempo intuito la pericolosità di ogni fondamentalismo, compreso quello cristiano. www.luigiaccattoli.it
Domenica il Papa ha dedicato una preghiera alle vittime di Utoya. E sicuramente si sarà interrogato sul perché l’assassino aveva inserito Roma e il Pontefice tra i suoi bersagli ideologici
In altra occasione – in dialogo con Ernesto Galli Della Loggia, nell’ottobre dello stesso anno – Ratzinger aveva posto in relazione positiva cristianesimo e illuminismo, sempre al fine di una reciproca
vocata da un fanatico che si qualificava come cristiano “al cento per cento cristiano”: così è scritto nel suo manifesto. Le prudentissime parole pronunciate domenica dal Papa nel saluto di mezzogiorno vanno lette sullo sfondo di quei convincimenti ratzingeriani: di “fondamentalismo cristiano”non si parla volentieri negli ambienti cristiani internazionali, dove questa mina crescente è tenuta d’occhio con preoccupazione. Ricordo un solo testo vaticano che lo menziona in tempi recenti: l’Instrumentum laboris del Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, cioè il documento preparatorio che fu “consegnato” ai destinatari dal Papa durante la visita a Cipro, il 6 giugno 2010: esso richiama – riprovandola – l’ideologia di «alcuni gruppi fondamentalisti cristiani» che «giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi».
re un qualsiasi file che suggerisca una traccia di indagini? Gli skinheads non sono nati ieri. Basta vedere la loro presenza nelle curve dei tifosi di calcio. Del resto, ci sarà pure un collegamento – anche semplicemente ideologico, ma sufficiente per studiare il fenomeno – tra Breivik e l’innumerevole schiera di estremismi che
era la tomba di Rudolf Hess. Certo non lo ha fatto per la Norvegia.
«No comment». Altrettanto laconico David Cameron da Londra. Pare infatti che Breivik sia stato spinto a entrare in azione da una cellula dell’estrema destra britannica. Notizie simili giungono anche dalla Polonia.
Sembra sia stato arrestato in Polonia un uomo che aveva aiutato Breikiv a rintracciare il materiale per confezionare l’esposivo usato venerdì scorso nell’attentato al centro della città pullula on line. Nemmeno una settimana fa la Germania ha deciso di far piazza pulita di quel lugubre mausoleo della memoria del terzo Reich quale
Sembra che Breivik si fosse messo in contatto con un’azienda norvegese di fertilizzanti impegnata sul mercato polacco. La Linderud Kiosk, la società in
questione, sarebbe stata contattata dall’estremista perché gli fornisse un grosso quantitativo, forse 6 tonnellate, di fertilizzante, materiale combustibile che poi è stato utilizzato come esplosivo per l’attentato nel centro di Oslo venerdì. Il titolare della Linderud ha detto che Breivik si era presentato in compagnia di un amico/collega. Questo pare che sia stato arrestato dalla polizia polacca a Breslavia. Ma in realtà l’Europa pecca di ingenuità. Da sempre a Carnaby street a Londra, ma anche in altri mercatini delle pulci, si vendono T-shirt con il macabro slogan “Adolf Hitler Europea Tour”, che riprende lo stile nazi dei Sex Pistols (1984). Non è necessario essere esperti di queste devianze culturali per capire che, prima o poi, qualcuno le prende davvero sul serio.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
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l dibattito politico italiano in questi giorni, mentre ci parla di crisi e a tratti ne drammatizza le conseguenze, dall’altro auspica un forte e concreto rinnovamento: di idee, di valori, di modelli e di persone. In Italia ragioniamo di rinnovamento della politica anche in termini di ricambio generazionale, con l’obiettivo specifico di valorizzare giovani pieni di energie, morali ed intellettuali, che hanno terminato spesso brillantemente i loro studi, approfondito temi di loro interesse con un master o perfino con un dottorato. Sono in un certo senso quella scommessa sul futuro su cui si concentrano le speranze di chi non si rassegna ad una visione anonima di quel precariato giovanile che sembra essere uno dei segni più profondi del disagio sociale in Italia. Sono davvero molti i giovani che si appassionano di politica e che pensano che la politica possa, debba, cambiare positivamente il Paese in cui vivono, superando quella tendenza alla stagnazione delle idee e dei progetti che si intreccia così pesantemente con il degrado morale che emerge dalla corruzione, dal sistema blindato delle raccomandazioni, dalla compravendita di privilegi. In Italia questi giovani si esprimono soprattutto con il linguaggio dell’antipolitica. Gridano le loro speranze disattese manifestando in piazza per mille motivi diversi, ma sostanzialmente chiedono un mondo migliore, dove le cose funzionino meglio e dove ognuno di loro possa trovare lo spazio giusto per esprimere i propri talenti e metterli a disposizione della comunità in cui vivono. Sono i giovani di sempre e come ogni nuova generazione reclamano le opportunità necessarie per vivere la propria vita di giovaniadulti impegnati ad essere migliori di coloro che criticano a gran voce…. anche perché vorrebbero prenderne il posto, convinti di poter fare comunque meglio.
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la strage di Oslo
Le vittime norvegesi ci impongono di riflettere sul rapporto tra libertà e consum
La morte è un gio
Estremismo, follia ma anche disprezzo per il futuro e tanti, troppi videogame. Ecco che c’è dietro alla strage di Oslo di Paola Binetti
Sono molti i giovani che si appassionano di politica perché pensano che possa, debba, cambiare positivamente il Paese in cui vivono In Norvegia pochi giorni fa 600 ragazzi poco più o poco meno che ventenni si sono riuniti per motivi analoghi: per capire come contribuire a fare del proprio paese un mondo migliore in cui declinare con coerenza e serietà i valori del rispetto reciproco, dell’inclusione sociale, della giustizia. I giovani laburisti, o almeno aspiranti tali, volevano esprimere con forza la convinzione che in una società aperta come quella norvegese l’incontro tra culture diverse, con la propria etnia e la propria religione, è sempre possibile e può essere sempre più profondo e completo. Il dialogo è sempre possibile quando c’è, come valore minimo irrinunciabile, la tolleranza. Una lunga tradizione invita i giovani tra i 15 e i 25 anni a passare qualche giorno insieme, in una piccola isola a pochi chilometri da Oslo di proprietà del partito laburista. L’obiettivo è cominciar a far politica da giovani per scoprire nella convivenza alcuni dei valori propri della democrazia, come appunto l’ascolto reciproco, il confronto delle idee e la gioia di stare insieme. Tutto in un quadro così parla di gioia di vivere, di un futuro che per quanto complesso è sempre a portata di mano, di un impegno che quando è condiviso è fonte di serena soddisfazione e di recipro-
co sostegno. Ma tutto ciò è stato spazzato via in poche decine di minuti che devono essere sembrati una eternità, a chi ha contemplato la morte faccia a faccia, a chi ha implorato di essere lasciato in vita e ne ha ricevuto un rifiuto. A chi ha sperimentato il lato oscuro della mente umana: quello della follia lucida di chi credendosi leader in realtà non è altro che un giustiziere della notte, privo di valori e di senso della realtà. Un pazzo hanno detto molti giornali, nel tentativo di tracciarne un profilo convincente. Ma un pazzo che da tempo aveva grande dimestichezza con videogiochi violenti, in cui la morte è un gioco e più ne ammazzi più punti fai… Anders Behring Breivik: in un memoriale di 1.500
pagine, un vero e proprio manifesto della sua crociata, aveva descritto con spaventosa lucidità obiettivi e strategie, a cui stava pensando fin dal 2002, quando aveva cominciato ad ideare l’impresa, entrata nella“fase operativa”nel 2009 e completata il 22 luglio del 2011. Già da allora era consapevole che sarebbe stato considerato «il più grande mostro dalla storia», mentre lui si sentiva un eroe, un vero e proprio salvatore del suo popolo, un distruttore del male e un portatore di luce.
Ci si chiede come può accadere che una persona covi un progetto di questo tipo per quasi 10 anni senza che nessuno si accorga della sua follia, di ciò che scrive nel suo diario e di ciò che proietta su Facebook. È vero che viveva in campagna, facendo l’agricoltore, relativamente solo e separato dagli altri… ma 10 anni sono davvero troppi per non cogliere i segnali di una personalità disturbata e sicuramente in cerca di mille occasioni di visibilità. Per ora Breivik non smentisce il suo
la strage di Oslo
mo, tra garanzie democratiche e sfruttamento commerciale degli istinti peggiori
oco troppo facile
Non si può far finta continuamente di uccidere, con un qualunque videogioco, pensando che poi tutto ricomincerà come prima In queste pagine, alcune scene della commozione di questi giorni, a Oslo, di fronte all’assurdità e alla barbarie inaudita del gesto compiuto venerdì scorso da Anders Breivik. Qui sopra, una bambino getta un fiore in direzione dell’isoletta di Utoya (più a sinistra, il trasporto delle salme dopo la strage). Nelle altre foto, il pianto e le preghiere di familiari e gente comune subito prima del minuto di raccoglimento celebrato ieri, a Oslo, proprio davanti all’università
personaggio e non tradisce la sua missione: chiede un processo a porte aperte, vuole essere presente in aula e dare le sue spiegazioni, così come ha riferito il suo avvocato difensore, che ha ammesso di aver avuto non poche perplessità prima di
accettare l’incarico. L’impresa portata a termine da quest’uomo richiede tenacia e determinazione, una intelligenza organizzatrice e tecnicamente tutt’altro che sprovveduta, ma richiede anche e soprattutto un profondo disprezzo per la vita altrui, soprattutto per quella di giovani, che almeno nella sua visione della storia, non avevano certamente potuto macchiarsi di nessuna colpa.
Cento giovani innocenti sono stati uccisi in una dinamica da videogioco in cui la morte è assolutamente irreversibile e drammaticamente reale. Ha sparato alla testa, uno ad uno, a ragazzini molto più
piccoli di lui, che fuggivano smarriti, buttandosi in acqua, nascondendosi dietro gli alberi, fingendosi morti. Ha attraversato l’isola con un lungo e lento incedere, in cui aveva avuto l’accortezza di mettere tappi alle orecchie, per non sentire gli spari, ma soprattutto per non sentire le grida di aiuto. Per chiudere davvero ogni possibilità di farsi condizionare da un contatto umano concreto, fatto di pianti e di preghiere, per non recepire quella dimensione umana che avrebbe potuto farlo reagire in modo diverso. Ha ucciso con tanta spietata freddezza da apparire invincibile ed inarrestabile agli adulti presenti sull’isola, alcuni docenti e due poliziotti disarmati, e ai ragazzi, che non hanno saputo fermarlo, nonostante fosse e sembrasse solo.
Ci sono tante drammatiche contraddizioni in questa vicenda che meritano di essere chiarite: dal ritardo negli aiuti, goffamente giustificati da una vana ricerca di altri ordigni in centro, mentre decine e decine di ragazzi tempestavano i genitori di telefonate e di sms per spiegare cosa stava accadendo sull’isola, alla impossibile impresa di un solo uomo che ne uccide 100 prima di essere fermato. Dalla lun-
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ghissima preparazione della strage alla sua consumazione, in un clima senza tempo, perché nessuno sapeva mai quando sarebbe finita e quando e come sarebbe toccato anche a lui. C’è tanta violenza in questa vicenda da spazzar via la sensazione che si possa utopisticamente creare un luogo in cui si possa vivere in pace, senza misure di difesa e di sicurezza. La morte, nella sua lucida follia e nel suo freddo realismo non è mai un gioco. Non si può scherzare con la morte. Non si può far finta di uccidere, con un qualunque videogame, pensando che poi tutto ricomincerà come prima. Proprio per questo la narrazione mediatica di questo caso non può indulgere in dettagli che eccitino la fantasia di qualche personalità disturbata, in cui i sintomi omicidi si scatenino insieme al bisogno irresistibile di visibilità e di spazio pubblico. Anche in questo c’è bisogno di sobrietà, così come c’è bisogno di prudenza nell’uso e nell’abuso di certi giochi. Sta diventando sempre più auspicabile che i costruttori e gli inventori di videogiochi si dotino di un codice di autoregolamentazione. IL videogioco implica una ritualità che permette di creare le condizioni per un escalation ripetitivo sempre più eccitante, in una continua sfida con se stessi per migliorare le proprie performance di giustiziere folle.
Ma intanto cento famiglie piangono i figli morti perché la loro società non ha saputo proteggerli e tutti insieme ci chiediamo dove cominci la responsabilità della politica, se mentre crea l’opportunità di avvicinare i giovani alle dinamiche democratiche di un confronto vivace e costruttivo, poi li abbandona ad una ferocia distruttiva incontrollata. Abbiamo bisogno di imparare a proteggere le nuove generazioni da nuovi pericoli, coniugando sicurezza e prudenza, perché se Breivik ci appare inesorabilmente folle, il terrorismo con i suoi agguati imprevedibili è pur sempre in agguato e minaccia la nostra società, che ha respinto i fantasmi di una violenza irrazionale e perciò stessa estranea al nostro modo di pensare. Quanto accaduto in Norvegia nella sua dinamica perversa potrebbe riproporsi in mille altri posti, che hanno scelto di vivere secondo i canoni delle società aperte e liberali. Ma proprio perciò abbiamo bisogno di ripensare e di far ripensare la morte in modo serio: non si gioca con la morte, non la si può banalizzare riducendola ad una scommessa con se stessi o con qualche improbabile avversario. Davanti alla morte, quella vera, ci si ferma in punta di piedi. Con rispetto, ben sapendo che ogni morte è un punto fermo. Definitivo.
mondo
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Non solo piani contrapposti. L’impasse sul debito mostra che anche l’America - regina del compromesso - si è arenata
Il vero e il falso default Ecco cosa si nasconde dietro la battaglia politica fra Obama e John Bohemer di Glenn Thrush trano ma vero: per buona parte del 2011, il presidente Barack Obama e lo speaker del Congresso John Boehner hanno fatto una ridda di ipotesi – per carità, ognuno secondo il proprio punto di vista (ideologico) – sull’eventuale recidiva incapacità di realizzare un piano di taglio del debito. Adesso però le implicazioni della loro inabilità a concludere un qualsiasi accordo stanno diventando tremendamente concrete, basti pensare alla capricciosa apertura dei mercati di ieri e ad un potenzialmente costoso deprezzamento del credito che farà impennare tutti i prezzi, dai finanziamenti governativi ai mutui
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stava e si sta affacciando sull’orlo del precipizio. Questo scenario impone una piccola guida per districarsi fra mito e realtà. Per capirci: cosa si nasconde dietro alle piroette di Obama e Boehner sul debito?
Mito numero 1: Obama vince politicamente, qualsiasi cosa accada. Realtà: poteva essere vero fino a una settimana fa, ma adesso è tutt’altro che una certezza. Le agenzie di rating, il capro espiatorio di Obama per non aver riconosciuto i segnali del crollo immobiliare, stanno dimostrando di essere molto vigili quando si tratta di politica del tetto del debito; secondo
Le agenzie di rating hanno avvertito che se le parti non raggiungeranno un’intesa metteranno sotto osservazione il rating di tripla A statunitense per un possibile abbassamento immobiliari. Questo non ha comunque impedito alle due parti in causa di continuare a cercare l’accordo più vantaggioso possibile mentre tentavano - e ancora ci provano - di far credere all’opinione pubblica americana (ma non solo) che era colpa dell’altro se il paese si
sarebbe fisicamente devastante e politicamente disastroso. Qualcuno riesce a immaginare uno scenario più drammatico di “Barack Obama, l’uomo che ha perduto l’affidabilità creditizia AAA dell’America e ha portato la disoccupazione al 9 per cento?”. Evidentemente no. Benché anche i Repubblicani siano d’accordo sul fatto che Obama fino ad ora abbia fatto un gran lavoro a collocarsi come la persona più responsabile e come un falco fiscale, nono-
S&P le possibilità di un deprezzamento sono cinquanta a cinquanta, anche se le parti alzassero il tetto e tagliassero le spese. I funzionari dell’amministrazione stanno montando una retrocessione PR ma Obama si trova di fronte alle prospettive di un futuro AA, che
stante gli anni di impegno al modello keynesiano di spesa, questa scelta comincia a mostrare delle crepe. L’idea che John Bohemer, l’oratore assediato, sia l’unico ad aver perso il controllo non è vera. Invece di proiettare l’immagine di un giocatore che vince sempre, Obama adesso sembra più un debuttante, in imbarazzante attesa che succeda qualcosa. «Credo che una delle questioni che il Partito Repubblicano dovrà porsi è se possono dire di
Fu Jf Kennedy a lanciare la sfida al debito, ma oggi viene usato solo per ragioni di partito. Con un occhio alle elezioni
Se l’America rinuncia al mito della fiducia a battaglia per il debito è la nuova frontiera dell’Amministrazione americana. Un paradosso evidente se solo si ricorda cosa fu quella parola d’ordine. Che cosa significò non solo per gli americani, ma per tutto l’Occidente, allora alle prese con il potere minaccioso dell’orso sovietico. J.F. Kennedy la coniò per indicare che gli ideali di giustizia sociale e di maggiore eguaglianza potevano essere meglio difesi in un regime di libertà, capace di coniugare sviluppo economico e benessere diffuso. Il binomio che è oggi è in discussione negli Stati Uniti e non solo. Perché dietro lo scontro sul debito tra Democratici e Repubblicani c’è appunto questo: il venir meno di un antico credo, abbattuto dalla crisi di questi ul-
L
di Gianfranco Polillo timi tre anni. Da allora, economia e società non sono più sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda, come avveniva in passato. E rimettere le cose al loro posto è sempre più difficile. La causa? Una coperta che, con il tempo, è divenuta troppo corta e ora non riesce a soddisfare contrapposte esigenze. E allora il dilemma. Dobbiamo tagliare la spesa – soprattutto quella sociale – o aumentare le tasse? Un’alternativa che è secca solo nel mondo fumoso delle opposte ideologie.
Alla fine un compromesso si troverà – almeno così si spera – e il problema diverrà quello del punto di caduta. Quan-
to tagliare e quanto tassare? Soprattutto quanto risparmiare in un orizzonte temporale più o meno lungo, per evitare, com’è avvenuto in Europa, che a pagare le colpe dei padri siano soprattutto le generazioni future. Di diverso, nella storia americana, c’è, solo la forza dell’ordinamento giuridico, che ora costringe le sue classi dirigenti a scelte trasparenti. Ora, perché, in passato quel vincolo poteva essere eluso dal signoraggio del dollaro, che consentiva di scaricare sull’estero – come avvenne per la guerra del Vietnam – l’eccesso di spesa, alimentando un’inflazione persistente. Ma oggi anche questo presidio è insidiato dalle altre monete – yen ed eu-
ro – mentre l’eccesso di debito contratto in passato e posseduto dalle nuove grandi potenze economiche del Mondo – Cina in testa – pone un freno oggettivo alle furbesche manovre finanziarie.
Visto questi vincoli, non resta che decidere per legge – la scadenza è il 2 agosto – il tetto massimo dell’indebitamento. Altrimenti c’è il rischio del default. L’impossibilità di pagare gli stipendi: come dice spesso Obama, per drammatizzare ancor più la situazione e piegare i Repubblicani che dominano il Congresso, opponendosi ferocemente a ogni aumento delle tasse. Pressione fiscale che, negli Usa, si attesta intorno al 30 per cento del Pil. Un vero e proprio sogno per gli Europei sull’altra sponda
mondo
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tagli fiscali dell’era Bush. Almeno per la terza volta quest’anno, Boehner è uscito allo scoperto diventando bersaglio delle critiche dei Tea party. Detto questo, la decisione di Obama di chiedere altri 400 miliardi di dollari di tasse indica proprio il bisogno di rispondere a una rivolta tra i democratici del Senato e del Gop alla Camera. Una maniera per bilanciare la perdita di voti repubblicani. In una condizione di normale negoziazione, Obama avrebbe trovato lungo il proprio cammino degli ostacoli ben maggiori. Ma il momento storico non è di quelli comuni. E non c’è nessuna prova che Boehner sarebbe stato in grado di arrivare più facilmente ad un compromesso più modesto in ogni caso. È per questo che non ha risposto gli appelli di Obama per un giorno intero. Non è cattiva coscienza, semplicemente non ha i voti. Né significa che lo stile della trattiva di Obama, un po’ gelatinoso, sia stato sbagliato; collaboratori democratici di peso hanno detto cose peggiori sulla Casa Bianca.
Mito numero 3: Obama potrebbe vendere ai democratici
na garanzia che sarebbe stato in grado di controllare tutti i suo i voti per l’accordo finale. L’aveva ventilato giovedì scorso al responsabile del budget della Casa Bianca, Jack Lew, durante un pranzo di lavoro non proprio amichevole. Inoltre, il politicamente più saggio dei democratici del Senato (Leggi: Chuck Schumer), era livido di rabbia con Obama e compagni per aver accettato di tagliare Medicare, che ostacola la speranza di mantenere la maggioranza l’anno prossimo. La migliore (e forse unica) arma che hanno contro la prossima ondata del Gop alla Camera alta è il piano Ryan, e la maggior parte dei Democratici al Senato non spargeranno tante lacrime se il «grande patto» dovesse saltare.
La leader della minoranza democratica, Nancy Pelosi (California), ha modulato espressioni di delusione con rassicurazioni di sostegno alla Casa Bianca, ma la verità è che non c’è più un vero negoziatore da nessuna delle due parti. E oggi i leader della Camera e il Senato degli Stati Uniti si trovano con due diver-
Il presidente, che fino alla scorsa settimana sembrava comunque uscire vincitore da questa trattativa, è adesso in pericolo. Perché si è messo in un angolo, e aspetta solo la risposta degli altri no ad ogni cosa», ha esclamato un esasperato Obama venerdì sera dopo che il “grande affare” aveva esalato l’ultimo respiro. «E allora, la domanda ritorna: dov’è la leadership?». Una domanda che però oggi potrebbe essere rivolta a lui: rilanciando la palla al Campidoglio e chiedendo che Boehner si ripresenti alla casa Bianca con un progetto, un presidente che va fiero del suo controllo e della sua responsabilità si è essenzialmente affidato a quei repubbli-
cani che aveva sempre indicato come “irresponsabili”.
Mito numero 2: i colloqui sono crollati sulla richiesta di Obama di 400 miliardi di dollari in entrate per 10 anni. Realtà: Boehner non aveva ottenuto i voti. Obama-Boehner L’accordo avrebbe dovuto gestire uno sforamento di bilancio tra i tremila e i 3.500 miliardi di dollari, dando un colpo fatale al debito nazionale per la prima volta in
dell’Atlantico. Ma se le tasse non “devono” aumentare, la risposta non può che essere un drastico taglio delle spese. Di quali? Quelle militari – visto il perdurare di tante guerre – sono già al limite. E allora non resta che un forte ridimensionamento di quelle sociali, all’indomani di una scelta – la riforma sanitaria – che i Repubblicani non solo non hanno mai condiviso ma fortemente osteggiato, durante i primi anni della nuova amministrazione. Se a questo aggiungiamo l’incombere della prossima campagna presidenziale e quindi l’esigenza di far prevalere i tratti identitari dei due grandi partiti in lizza, si può comprendere quanto sia difficile risolvere il puzzle e come l’intero Paese balli – questo si! – sulla tolda del Titanic. Situazione complicata dalle lotte non solo tra i due schieramenti, ma all’interno dei medesimi. Non è solo l’Europa a essere condizionata dalle posizione più massimaliste dei due schieramenti. Il Tea party – una settantina di esponenti repubblicani – non vuole cedere nemme-
15 anni, con in mezzo la riforma dei servizi sociali e il problema dell’equità fiscale. Ed è naufragato per soli 40 miliardi di dollari annuali di buco nelle entrate? Il dieci percento del totale? La verità è che Boehmer non aveva la garanzia che la legge sarebbe passata in Parlamento neanche prima che Obama chiedesse un stretta fiscale. E gli 800 miliardi dollari che la Casa Bianca aveva promesso di recuperare mesi fa, erano semplicemente la coda finale dei
la conclusione della trattativa. Realtà: ce la potrebbe fare. Non siamo più nel 2009 con una schiacciante maggioranza democratica. Ma il livello di rabbia tra i leader democratici - che possiedono il potere, molto più di quanto si creda – non si può sottovalutare. Il capo della maggioranza al Senato Harry Reid (D-Nev.) è stato seriamente incattivito dalla Casa Bianca per la contrattazione sui tagli alla Social security e a Medicare, senza nessu-
L’alternativa è tassare o tagliare. Il fisco pesa sugli Usa «solo» per il 30% mentre spese da cancellare ormai non ce n’è più no di fronte alla ragion di Stato. Insiste affinché passi la linea che più dura non si può, per mettere in mora la stessa vecchia dirigenza di quel partito: da troppi anni sulla cresta dell’onda e inca-
pace – a loro dire – di rappresentare i veri valori dell’America, di fronte alla possibile deriva socialista. Che Obama vorrebbe alimentare. Come finirà questa vicenda, lo vedremo
si piani per la riduzione del debito, dopo che un’altra giornata di intensi negoziati non e’ riuscita a far superare l’impasse fra repubblicani e democratici e mentre si avvicina la scedenza del 2 agosto. A quella data il governo degli Stati Uniti diventerà insolvente se non sarà stato raggiunto un accordo bipartisan per alzare il tetto del debito e trovare una strategia condivisa per tagliare il deficit. E se questo accadrà, la colpa sarà di tutti.
nei prossimi giorni.Vedremo se alla fine passerà il compromesso bipartisan – un piccolo aumento del tetto del debito e l’impegno a rivedere il tutto all’indomani delle elezioni presidenziali – su cui si è speso tutto il gotha del partito democratico. Ma forse l’irreparabile è già avvenuto. Per la prima volta i mercati internazionali si sono trovati di fronte all’incognita del downgrade del Paese leader dell’Occidente. Le singole Agenzie – per carità di patria – potranno anche chiudere gli occhi e confermare la tripla A, ma gli investitori – soprattutto i creditori esteri – sanno che questa è una pia finzione. Dovranno quindi valutare se continuare a investire in titoli che rendono meno dell’inflazione e sono sottoposti a una spada di Damocle che non lascia grandi spazi di manovra. Per il momento non hanno grandi alternative. Ma qualcosa si sta lentamente sgretolando nei grandi equilibri finanziari internazionali. E non è una buona notizia. Non lo è per gli Stati Uniti e nemmeno per l’Europa.
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grandangolo Secondo l’Onu 720mila bambini potrebbero morire
L’ipocrisia dell’Occidente sulla carestia che distrugge la Somalia Milioni di persone rischiano la vita se non arriveranno aiuti nel Corno d’Africa. L’Onu ha chiesto 1,6 miliardi di dollari per il 2011, ma il mondo non ha versato nemmeno la metà. Due anni fa la stessa denuncia, passata sotto silenzio. La verità è che la Somalia è un Paese fallito dove al conflitto permanente si sovrappone il flop degli aiuti alimentari di Luisa Arezzo ipocrisia del mondo sulla carestia che si sta abbattendo in Corno d’Africa, Somalia in particolare, è stata ben sintetizzata ieri dal ministro del’agricoltura francese Bruno Le Maire. Che nell’annunciare ieri alla Fao una conferenza dei donatori a Nairobi per domani ha detto: «La fame non è uno scandalo di ieri, è uno scandalo di oggi. Se non prendiamo contromisure adesso, sarà lo scandalo di domani». Stile lessicale a parte, è il contenuto ad indignare. La crisi alimentare in Corno D’Africa è disastrosa. Da anni. E da almeno quattro fa sì che il 40% dei bambini non arrivi ai 5 anni di età. Non sono informazioni ignote, basta andarsi a leggere i rapporti Unicef. Che come un mantra ripetono che con l’emergenza nelle regioni aride e semi-aride in tutto il Corno d’Africa, oltre 700 mila bambini sono a rischio di morte senza assistenza urgente. Da poche settimane, più o meno da marzo, con l’abbattersi della carestia questa cifra è aumentata. E sempre l’Unicef avverte che al momento sono 2,23 milioni i bambini in Etiopia, Kenya e Somalia che soffrono di malnutrizione acuta. In termini di vite potenzialmente falcidiate, una tragedia. Umanitaria in primis, ma anche morale.
L’
A cui non sfugge - evidentemente nemmeno il novello don Chisciotte francese, che a fronte dell’allarme lanciato ha finora donato solo 2,6 milioni di dol-
lari (ma è pronto a darne, complessivamente, dieci), una cifra ben lontana dagli 85 milioni di dollari donati recentemente dal Regno Unito (per inciso, l’Italia, che ha ospitato il summit Fao a Roma ed è la quarta economia europea, ha contribuito con soli 900 mila dollari). Oltre all’Unicef, oltre a decine di Ong, anche il Pam (o Wfp) si è sperticato negli allarmi. Solo due anni fa, nel 2009, ha
Il 90% degli aiuti vengono sequestrati dai pirati. Il 70% dei fondi si perdono nelle maglie della corruzione fatto un appello internazionale affermando - dati alla mano, tutti verificabili - che la Somalia stava rischiando una carestia simile a quella del 1992, quando morirono decine di migliaia di persone. In quel caso, però, il mondo fece orecchie da mercante e gli aiuti - perlatro ridotti al lumicino perché intercettati dai pirati via mare (il 90% delle scorte alimentari arrivano con le navi) non vennero incrementati. Sul silenzio calato in
quell’occasione è utile andare a guardare quanto i Tg nostrani dedicarono alla tragedia in atto nel corso di quell’anno (lo studio è di Msf): «Sono 293 le notizie che nel 2009 parlano di vicende somale.
Di queste, 246 riguardano in vario modo le azioni dei pirati che, nel corso dell’anno, hanno attaccato o tentato di attaccare mercantili, petroliere, navi da crociera. In particolare, l’informazione dei notiziari sulla Somalia batte bandiera italiana, con la vicenda del sequestro, nel golfo di Aden, del rimorchiatore Buccaneer. Alla cronaca del sequestro del rimorchiatore italiano, ad aprile seguono le notizie sulle trattative per la liberazione degli ostaggi e gli aggiornamenti sulle loro condizioni; infine, quelle sulla soluzione della vicenda con la liberazione e il rientro degli ostaggi. La vicenda del Buccaneer domina buona parte dell’informazione sul paese, con un centinaio di notizie. Gli altri servizi sui pirati sono cronache di attacchi subiti da altre imbarcazioni, in particolare italiane. Nelle 47 notizie rimanenti sulla Somalia, quelle cioè che non parlano di atti di pirateria, 22 sono notizie in cui il paese diventa visibile ancora per il coinvolgimento di cittadini italiani. Fanno parte di questa categoria le notizie in ricordo della vicenda di Ilaria Alpi o quelle a inizio anno sul rapimento, la liberazione e il rientro in patria delle suore italiane sequestrate da banditi somali». Insomma, sulla carestia nemmeno una pa-
rola. La carestia viene riconosciuta ufficialmente quando almeno il 20% delle famiglie è esposta a carenza di cibo molto elevata, quando il tasso della malnutrizione supera il 30% e quando il tasso di mortalità arriva a due decessi al giorno ogni 10mila abitanti (nel caso di adulti, 4 se le vittime della fame sono invece bambini). Ebbene questi tetti limite nel Paese sono confermati da un pezzo.
La verità è che la Somalia è un Paese fallito dove al conflitto permanente che attraversa l’intero territorio si sovrappone il fallimento - di cui nessuno vuole parlare - degli aiuti alimentari. Fallimento in parte dovuto al fatto che i programmi di aiuti sono sviluppati su alimenti inadeguati sotto il profilo nutrizionale per riabilitare i bambini malnutriti. Ma soprattutto determinato dal fatto che i soldi stanziati dai paesi donatori finiscono in mani diverse da quelle a cui dovrebbero andare. Sotto accusa non solo la corruzione endemica delle autorità (in questo caso somale: basti pensare che la Somalia è stata classificata come il paese con la peggior performance nell’indice di corruzione da Transparency International, ovvero 178esima su 178 nazioni) ma anche le organizzazioni internazionali che gestiscono gli aiuti: Onu, Ong varie, Banca Mondiale, Banche regionali per lo sviluppo e così via. Lo scorso anno un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha stabilito che almeno la metà degli
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La popolazione vive, sotto il pugno di Afewerki, con meno di 20 dollari al mese
L’Eritrea dimenticata, dove la Primavera non fiorisce mai di Martha Nunziata è un paese, nella parte più orientale del Corno d’Africa, dove il vento della primavera araba, non ha ancora cominciato a soffiare. E dove, forse, non soffierà, nonostante la sua potenza. È l’Eritrea, un paese «indipendente, ma non libero», come l’ha definito, Elsa Chyrum, una dissidente che vive in Gran Bretagna da vent’anni e che ha fondato Human Rights Concern-Eritrea. Un’indipendenza conquistata dopo una lunga lotta che ebbe fine nel 1991, quando il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo scacciò l’esercito etiope fuori dei confini eritrei. Solo dopo due anni venne indetto un referendum, e oltre il 99% degli eritrei votò per l’indipendenza, che venne dichiarata ufficialmente il 24 maggio 1993. E Isaias Afewerki divenne il primo Presidente provvisorio del Paese: adesso, da quasi vent’anni, è a capo del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, unico partito considerato legale, usato come strumento con cui può controllare la popolazione. Da quando ha conquistato l’indipendenza, l’Eritrea è stata in guerra con Sudan, Yemen, Djibouti ed Etiopia, ma ancora di più con i suoi cittadini, perché quella di Afewerki è una dittatura silente, poco conosciuta: la gente scompare, viene torturata, stuprata e uccisa, subisce minacce e viene incarcerata senza processo e nessuno lo sa. Chi può cerca di scappare, verso il confine col Sudan, verso una speranza, un futuro, il sogno di un’altra vita.
C’
aiuti alimentari destinati alla popolazione affamata della Somalia è finita nelle mani di appaltatori corrotti, di militanti islamici e di operatori locali dell’Onu. E che buona parte dei fondi sono stati distratti per foraggiare il traffico d’armi. Al centro del rapporto ci sarebbe proprio il Pam: «Esiste un cartello de facto» si legge nel rapporto, «caratterizzato da procedure irregolari nell’assegnazione di contratti da parte dell’ufficio locale del Wfp e da trattamenti preferenziali». I contratti per il trasporto degli aiuti del Wfp, afferma il Gruppo, sono la maggiore fonte di introiti in Somalia e «tre appaltatori da soli gestiscono l’80 per cento del business» pari, nel 2009, a circa 200 milioni di dollari. E c’è di più: il rapporto denuncia che «per 12 anni la con-
Nel 2009 il Pam denunciò un’emergenza simile a quella del 1992. Ma nessun Tg italiano ne parlò mai segna degli aiuti è stata gestita da tre individui e dalle loro famiglie che sono diventate le più ricche del Paese», e che soprattutto gestiscono il traffico di armi e hanno legami con la guerriglia. Continua inoltre a far scalpore il servizio realizzato dalla televisione britannica Channel4 che mostra delle immagini più che inquietanti: tonnellate di cibo, provenienti dal Wfp e destinate alla popolazione somala che vengono regolarmente trafugate e rivendute al mercato di Mogadiscio. Sono 3, 25 milioni i somali che hanno bisogno di aiuti alimentari. Basti pensare che un bambino su quattro muore prima di compiere cinque anni, mentre uno su sei soffre di malnutrizione acuta e sono 45mila le tonnellate di cibo che vengono spedite ogni mese in Somalia dal Kenia. Ebbene, alcuni milioni di euro di aiuti umanitari, sotto forma di barattoli di olio e
sacchi di farina e grano sono esposti nelle vetrine dei negozi di Mogadiscio con ancora il marchio delle Nazioni Unite, senza che ci si prenda neanche la briga di occultarne la provenienza.
Anzi, un commerciante del mercato ha dichiarano agli operatori di Channel4 di aver acquistato le forniture direttamente dal personale delle Nazioni Unite. «Compriamo aiuto direttamente dal personale del Wfp - dice - e i prodotti sono liberamente disponibili e si possono acquistare sempre, ma di solito si acquistano dai cinquecento a mille sacchi alla volta. Non di più». Un altro commerciante racconta: «Andiamo all’ufficio del Wfp e compiliamo la richiesta per creare un campo profughi. Quando riceviamo il cibo ne diamo un pò agli sfollati, ma il resto ce lo dividiamo fra noi e quelli dell’agenzia sono d’accordo». La Somalia non è l’unica “patata bollente” del Pam, ma piuttosto quella più recente. Il suo intervento in Etiopia, paese destinatario di uno dei maggiori sforzi in termini di soccorso alimentare del mondo, è nell’occhio del ciclone per aver affidato a compagnie di trasporto locali in combutta con il governo, la distribuzione del cibo. Risultato? Si calcola che solo il 12 per cento degli aiuti arrivino ai diretti interessati. Il restante 88 per cento si volatilizza per essere poi rivenduto al mercato nero. Queste cifre sono desolanti e pongono dei dilemmi serissimi. La carestia c’è. Dodici milioni di persone stanno letteralmente rischiando la vita in assenza di un’adeguata alimentazione. Le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) parlano di 178 milioni di bambini affetti da malnutrizione in tutto il mondo. Ogni anno da 3.5 a 5 milioni di bambini circa muoiano per cause legate alla malnutrizione – un decesso ogni sei secondi. A differenza di quanto ritiene la maggioranza delle persone, solamente una piccola frazione delle morti per malnutrizione consiste in vere e proprie morti per fame, a seguito di eventi catastrofici come una carestia o una guerra. Nella assoluta preponderanza dei casi, la malnutrizione colpisce lentamente, silenziosamente e inesorabilmente. Non sarebbe l’ora di chiedersi come vengono spesi i soldi degli aiuti internazionali?
Perchè nell’Eritrea di Isaias Afwerki il futuro è difficile da immaginare, soprattutto per i giovani. Anche, o forse soprattutto, perché il Presidente, l’eroe dell’indipendenza, il paese lo ha blindato, chiudendolo all’interno e rendendolo impermeabile alle informazioni che potrebbero, in qualche modo, arrivare dall’esterno. «La televisione - confida a liberal una fonte dell’ambasciata italiana, che ha chiesto di restare anonima - ha solo due canali nazionali, che ovviamente sono sotto controllo del regime. Internet, poi, viene oscurato a intermittenza, in maniera tale da non far circolare le notizie». «L’Eritrea è un paese completamente militarizzato, con posti di blocco all’uscita di tutte le città, non c’è libertà di circolazione – conferma la nostra fonte - Asmara
è una città completamente in mano ai militari». E qualcuno, ogni tanto, scompare. Un clima di paura anche psicologica incombe sulla popolazione che ha il terrore di essere prelevata nella notte e di non fare più ritorno a casa. Il dittatore usa anche tecniche di persuasione come togliere la luce, i beni di prima necessità, la benzina, il gas, la farina per settimane.
La popolazione vive con circa 20 euro al mese, ed esiste solo il cambio nero, con il Sudan, l’unico paese con cui il governo ha rapporti regolari. La leva per i giovani è obbligatoria, dai 18 anni, ed è a tempo indeterminato. Dei giovani che decidono di disertare o non sono in accordo con il regime se ne perdono le tracce. Afwerki si è liberato in questi anni di tutti i nemici e delle sue famiglie: «Poco tempo fa è scomparsa tutta la famiglia di un suo collaboratore, e non se ne sa più nulla. Anche due medici sono stati sequestrati e tenuti in isolamento completo - continua - per quasi 24 ore, solo per aver fotografato un bambino che doveva essere operato da un’equipe specializzata di un’Ong». «Tempo fa, poi, è stata prelevata una giornalista di Al Jazeera, rilasciata solo dopo diversi giorni. In seguito, per tre mesi, il governo non ha permesso di utilizzare le macchine fotografiche a nessuno. Ora i giornalisti vengono in Eritrea sotto copertura, correndo parecchi rischi. I giornalisti internazionali non sono ben visti, anzi, esiste una black list personale del dittatore». Eppure c’è chi, nell’Eritrea, ha visto un possibile, ricchissimo partner commerciale: «In paese stanno arrivando molti cinesi, perché il governo ha ceduto alla Cina l’isola di Al Katar (Lo zar), dove il governo di Pechino sta costruendo un grande albergo. Dalla Cina sono arrivati circa 70 milioni di dollari di donazioni al dittatore». «I rapporti internazionali– continua la fonte - sono inesistenti fatta eccezione per l’Italia; i rapporti con Silvio Berlusconi sono amichevoli. In Italia, poi, il dittatore Afwerki ha gran parte dei suoi affari, essendo il socio maggioritario di una delle più importanti ditte del settore agricolo. In più - conclude la nostra fonte - è molto amico di Gheddafi, e gli ha procurato un piccolo esercito di mercenari, che stanno combattendo al suo fianco».
cultura
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Secondo alcuni studi scientifici, in diverse aree del mondo passate all’agricoltura «le ossa umane iniziavano a rovinarsi»
La maledizione dei campi Ricerca-shock: dal Paleolitico a oggi i contadini sono diventati più bassi e pieni di disturbi fisici di Maurizio Stefanini a maledizione della terra: ovvero, del come i contadini divennero più bassi e pieni di acciacchi. In fondo, anche la Genesi aveva spiegato qualcosa del genere. «Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto». Nel racconto biblico, ne segue l’ira del contadino per il fratello pastore, e il primo omicidio. Vicenda allegorica, ma in cui probabilmente si celano anche reminescenze ancestrali.
L
Come a dire: è l’agricoltura che cancella con la forza il modo di vivere differente; ma i suoi esiti sono in qualche modo meno gradevoli. E, prima ancora nella stessa Genesi, pensiamo alla maledizione di Adamo: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: Non devi mangiarne, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!». Era l’economia di caccia e raccolta del Paleolitico, il mitico Giardino dell’Eden? Tra la massa di studi che a livello quasi quotidiano vengono ad aggiornarci su co-
me vivevano i nostri avi più remoti, ne è appena uscito uno su Economics and Human Biology: prestigiosa rivista scientifica interdisciplinare pubblicata da quel gruppo editoriale olandese Elsevier che è leader mondiale del settore medico e scientifico. Con prodotti come The Lancet, il famoso Gray’s Anatomy che è da 153 anni il più famoso testo di anatomia del mondo e a cui allude il serial Grey’s Anatomy, e in Italia anche Tempo Medico, Giornale del Medico e Giornale del Farmacista. Insomma, rigore garantito. E questo studio ci dice anche che la prima grande rivoluzione tecnologica dell’uo-
tali. Praticamente, gli uomini hanno continuato a essere più bassi dei loro avi preistorici fino a 75 anni fa: da allora la tendenza si è invertita, ma solo nei Paesi sviluppati. In pratica, cioè, ci è voluta quella nuova rivoluzione tecnologica rappresentata dall’industrializzazione del XX secolo, per tornare ai livelli di buona salute del Paleolitico.
Non solo la sapienza biblica, ma anche il vecchio Hegel si potrebbe qui tirare in ballo: con la sua idea che dopo l’antitesi ci vuole la sintesi per tornare alla tesi su un piano superiore. In questo senso, la tesi è stata la
Stando alle tesi di alcune prestigiose riviste, la prima grande rivoluzione tecnologica dell’uomo fu anche quella da cui iniziarono i primissimi problemi di dieta che ancora oggi ci affliggono mo fu anche quella da cui iniziarono i problemi di dieta che ancora oggi ci affliggono. «Gli esseri umani pagarono un alto prezzo biologico per l’agricoltura, specialmente in relazione alla varietà dei nutrienti», ha spiegato l’antropologo George Armelagos, docente della Emory University di Atlanta, coautore dello studio.
Addirittura, quando 10.000 anni fa gli uomini iniziarono a dedicarsi alla lavorazione dei campi, calarono di statura, oltre a cominciare ad avere gravi problemi di salute. Dall’aumento delle infermità contagiose all’aumento delle patologie den-
economia di caccia e raccolta paleolitica; l’antitesi l’economia agricola; e la sintesi questa nostra civiltà moderna, spesso peraltro accusata di alienare l’uomo dalle sue radici. L’evidenza che ha permesso di ricostruire questa storia è nelle ossa: scheletri che sono stati ritrovati in Cina, nel Sud-Est Asiatico, in America del Sud e in Europa, e che hanno dato sempre lo stesso responso. Ogni volta che aree del tutto indipendenti l’una dall’altra in epoche diverse passavano all’agricoltura, subito le ossa iniziavano a rovinarsi. Una spiegazione l’ha data alla Bbc Amanda Mummart, che alla Emmory
“La vigna rossa” di Van Gogh; l’archeologo tedesco Klaus Schmidt e, sotto, il sito Göbekli Tepe, Turchia sudorientale; le copertine di alcune riviste scientifiche: “Economics and Human Biology”, “The Lanchet”, “Tempo Medico”
cultura
University ha diretto la prima revisione globale di questo studio. «Molta gente dà per scontato che la nascita dell’agricoltura segnò la nascita della civiltà moderna e che al contare con fonti di alimentazione più stabili le persone divennero più sane. Al contrario, si ebbe un impatto negativo sulla salute dovuto alla minor varietà nel tipo di alimenti consumati, che a sua volta provocò deficienze nutrizionali. Inoltre molte coltivazioni fallivano a causa dalla carenza di irrigazione continua. E la vita comunitaria ha significato una maggior esposizione a nuovi vettori di infermità in seguito all’addomesticamento degli animali e all’accumulazione di rifiuti».
Non è solo questo studio che ci porta a costruire uno scenario del genere. Pure di questi ultimi giorni è uno studio di ricercatori della scozzese Università di Aberdeen pubblicato sul Journal of Neuropsychopharmocology, secondo il quale dal confronto tra il dna
degli europei e quello degli asiatici risulterebbe nei primi una vera e propria predisposizione genetica ad abbuffarsi di cibo spazzatura e alcolici. Ciò per via di un frammento di dna che accende un gene chiamato galanina, determinante per il desiderio di carboidrati e grassi. Non è un fattore esclusivo: anche la cultura avrebbe un importante ruolo, come dimostrato dal fatto che gli asiatici trapiantati in società occidentali si mettono a ingrassare pure loro. E anche qui i riflettori vengono puntati sulla Preistoria. L’idea è che il dover sopravvivere a lunghi e duri inverni avrebbe selezionato gli europei a preferire bibite e alimenti calorici. Chi aveva quei gusti, in pratica, sopravviveva al freddo meglio di chi non li aveva. E poiché comunque gli europei preistorici difficilmente oltrepassavano i 40 anni, non facevano in tempo a manifestarsi quegli effetti negativi i grassi e alcool che oggi angosciano tanto gli occidentali. A proposito: anche il senso della depressione sarebbe col-
legato alla stessa galanina. Per questo spesso ci si cura dall’abbacchiamento ingrassando, e le diete buttano così giù il morale.
Un po’ più vecchio ma sempre attuale è Armi, acciaio e malattie - Breve storia degli ultimi tredicimila anni: il bestseller del 1997 che l’anno dopo vinse il Premio Pulitzer, e in cui Jared Diamond tentò di rico-
26 luglio 2011 • pagina 15
storia delle varie società umane a partire dalla fine dell’ultima glaciazione e attraverso una comparazione ultra-interdisciplinare tra archeologia, antrobiologia pologia, molecolare, ecologia, epidemiologia, genetica, linguistica, scienze sociali e teoria del caos, Diamond concludeva tra l’altro che la rivoluzione neolitica occidentale era stata più intensa delle altre per le particolare condizioni ecologiche e climatiche, tali da permettere l’addomesticamento di una maggior quantità di piante e animali. Essendo rimasto di conseguenza l’uomo occidentale esposto a una quantità superiore anche di contagi, dunque, aveva acquisito una relativa immunità alle malattie, che era stata un’arma vincente nel confronto con altre culture invece presto annichilite al primo contatto con i germi europei. Appunto: le malattie strumento della superiorità occidentale allo stesso modo di armi e acciaio. D’altra parte, il confronto con queste ultime ricerche potrebbe anche far ritenere che comunque gli occidentali neolitici abbiano potuto usufruire di una varietà di elementi nutritivi un po’ superiore ai loro omologhi di altre aree.
figuranti animali, si palesa un importante caso storico-culturale e di storia delle religioni; ora dominano il mondo spirituale entità antropomorfe, e cioè in pieno contrasto con il Paleolitico, quando erano le rappresentazioni di animali a imporsi nel panorama figurativo e l’uomo compariva solo di rado, senza una riconoscibile gerarchia, e per lo più in modo marginale». Ancora più suggestiva la premessa di Roberto Maggi alla prima edizione italiana. «Schmidt osserva che Göbekli Tepe non è un inizio, ma la fine. Göbekli Tepe è la rappresentazione materiale di una costruzione mentale dell’umanità pre-agricola, forse nel suo momento culminante. Un’umanità la cui struttura economica, sociale e, per quanto si può dedurre, ideologica, verrà sovvertita dalla sedentarizzazione connessa con l’agricoltura, ovvero dalla “rivoluzione agricola”». «Göbekli Tepe ribalta dunque oltre un secolo di costruzione filosofico-archeologica della storia della complessità sociale, spesso intesa per strati evolutivi, dove solo le società pienamente agricole implicano sovrastrutture che necessitano grandi monumenti».
Ma qual è stata la spada fiammeggiante che ha spinto i primi contadini fuori dal’Eden, costringendoli a biblicamente guadagnarsi un vitto peggiore col sudore della fronte? Klaus Schmidt è un archeologo tedesco che nel 1994 riconobbe nel sito di Göbekli Tepe,Turchia sudorientale, qualcosa di più del cumulo di macerie dell’età della pietra ritento fino ad allora. Il libro da lui scritto nel 2007 per dare conto degli scavi che lì ha continuato a compiere regolarmente fin dal 1995, è stato appena pubblicato in italiano da Oltre (pp.272, euro 24,50). E
«Eden», ci spiega Schmidt, è parola sumera che indica il deserto e la steppa. L’idea oggi prevalente tra gli studiosi è che, in termini biblici, la cacciata dal Paradiso Terrestre si saldi al Diluvio Universale: sarebbe stata la «trasgressione post-glaciale», innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacci dell’ultima glaciazione, a provocare lo sconquasso ambientale che costrinse gruppi sempre crescenti di cacciatori a darsi all’agricoltura. Ma, ci ricorda ancora Roberto Maggi, «il fantastico mondo “animalista” di Göbekli Tepe si decompone con l’origine dell’agricoltura. Gli spazi rituali delle prime società agricole sono poca cosa al confronto. Per altri versi sappiamo della «gracilizzazione» dei neolitici, dell’insorgenza di nuove malattie, dell’aumento del carico di lavoro. Benché tutto questo sia ampiamente bilanciato dal successo quantitativo della specie in termine di aumento della popolazione, tuttavia si può – ironicamente ma non troppo – rilevare anche che l’origine dell’agricoltura è il più antico caso osservabile in cui all’aumento del Pil non corrisponde un miglioramento della qualità della vita».
«Gli umani pagarono un alto prezzo biologico per l’agricoltura, specialmente in relazione alla varietà dei nutrienti», ha spiegato l’antropologo George Armelagos, docente della Emory University di Atlanta struire le ragioni della superiorità tecnologica e militare dell’Occidente con esclusione voluta delle impostazioni razziste. Sia quelle filo-occidentali, sulle «innate virtù dell’uomo bianco»; sia quelle anti-occidentali, che rovesciano lo stereotipo in un opposto stereotipo, sull’Occidente aggressivo e criminale. Cercando di costruire un quadro di insieme sulla
il titolo sintetizza bene la sorpresa di quella scoperta: Costruirono i primi templi 7000 anni prima delle Piramidi. Il sito, insomma, sarebbe un gigantesco luogo di culto costruito a ridosso della rivoluzione neolitica, ma da uomini di spiritualità e economia ancora paleolitica. Come spiega infatti Schmidt, «poiché i pilastri sono spesso dotati di bassorilievi raf-
ULTIMAPAGINA Si è chiusa domenica a Rieti la prima fiera del peperoncino. Tra polemiche, curiosità ma anche un’incredibile affluenza
Quando il piccante va di di Mauro Frasca Naga Morich e i Naga Dorset del Bangla Desh, dalla forma a piccolo pomodoro, i più piccanti del mondo; e il Ciliatum messicano, dai fiori gialli e dalle piccolissime bacche. I Banana Hot brasiliani, a forma appunto di banana gialla; e i Big Jim americani o i Portafortuna turchi, lunghissimi. I cilindrici Diti di Ragazza rossi, prodotto brasiliano dal nome immaginifico; e le Lingue di Fuoco e i Diavolicchi italiani, che invece preferiscono annunciare subito la forza della spezia. Gli storici Habaneros e Scotch Bonnet, i primi che Cristoforo Colombo trovò nei Caraibi; e gli Jalapeños messicani, eccellenti da fare farciti. Il Tabasco della Louisiana, materia prima della famosa salsa; i Friggitelli da grigliata; e il Rocoto delle Ande, eredità della cucina indiana... Rieti Cuore Piccante: prima Fiera campionaria mondiale del peperoncino e Mostra mercato prodotti tipici al peperoncino. Doveva essere un’iniziativa per rilanciare un po’ l’economia di Rieti, attraverso una serie di eventi di cui il clou è stata l’esposizione al Palazzo Papale dal 21 al 24 luglio di ben 400 tipi diversi di peperoncino provenienti dai cinque continenti. È diventata un’occasione di polemica politica. Così la vicenda è finita sui giornali non tanto per il versante gastronomico, ma per la storia della Polverini che si è recata all’inaugurazione con un elicottero di cui un giornalista del Fatto un po’ polemico ha chiesto se era stato pagato con soldi pubblici: ricevendo rassicurazioni dalla stessa governatrice del Lazio, ma anche minacce di schiaffi dall’ex-onorevole e consigliere Rai Guglielmo Rositani, ideatore della kermesse. Né è mancata una nota criminal-boccaccesca, per la vicenda della coppia che i carabinieri hanno bloccato mentre cercavano di portarsi via uno dei peperoncini di polistirolo di quattro metri messi a decorazione delle strade. «Volevamo farci sesso», si sono giustificati un 28enne e una 25enne un po’ alticci. Ma alla fine è andata che elicottero e contorno hanno fatto pubblicità meglio che non spot e manifesti. E la città al centro esatto d’Italia è stata così travolta da una massa di visitatori inaspettata, 50mila il solo sabato contro i 30mila attesi in totale: una marea umana che ha intasato di code le bancarelle di prodotti al peperoncino e piantine, esaurito le provviste dei ristoranti, e anche messo a dura prova la pazienza di molti avventori: costretti a attese di ore tra una portata e l’altra. Ma, appunto, il peperoncino è anche imprevisto. Fin da quando gli spagnoli ne fecero incetta dalle Americhe per fare concorrenza al pepe che i portoghesi portavano dall’Estremo Oriente: e invece l’infuocato prodotto del Nuovo Mondo si acclimatò subito dappertutto, al punto da far saltare definitivamente quel florido commercio delle spezie che per oltre due millenni aveva avuto la stessa centralità economica che ha oggi il petrolio. Sul modo in cui il peperoncino può sostituire perfino il sale, l’autore di queste note riporta il racconto di un taiwanese con cui una volta si trovò a mangiare: figlio di un soldato dell’esercito nazionalista, che durante la guerra contro Mao si trovò come rancio del reparto una piccantissima preparazione di un cuoco delle Yunnan, regione in cui la lontananza dal mare rendeva il sale raro e caro. «Mio
I
TRAVERSO padre mi raccontava: sei chili di carne e sei chili di peperoncini. Io gli ho spesso chiesto: ma papà non è che esageri? E lui ha sempre insistito: tanto era il peso della carne, altrettanto quello dei peperoncini». Che più? Il peperoncino sveglia. Per questo in Italia gli spaghetti aglio, olio e peperoncino si usano a mezzanotte, e i cinesi usano sorbire dopo i pasti tazze di bordo piccante nella funzione che noi assegniamo al caffè.
Al peperoncino sono attribuite virtù afrodisiache: per questo i sovrani aztechi cercavano di essere all’altezza dei propri harem con grandi bevute di cioccolata al peperoncino, e che le numerose bancarelle calabresi presenti alla kermesse di Rieti ai tradizionali barattoli di nduja e bomba avevano affiancato nuovi prodotti estemporanei dai nomi tipo Viagra o Bunga Bunga, e con la faccia del Cav sull’etichetta. Il peperoncino disinfetta: per questo i turisti in Messico restii a supplire alla scarsa
È afrodisiaco, disinfettante, digestivo e nutriente.Viaggio nella storia e nelle proprietà terapeutiche della pianta originaria delle Americhe, oggi coltivata in tutto il mondo
igiene della preparazione alimentare con le fortissime salse al peperoncino della produzione locale finiscono spesso per prendere il fastidioso Morbo di Montezuma; e sempre per questo il peperoncino è stato usato per assicurare la salubrità di ricette fatti con prodotti a volte non del tutto controllati, dal chili con carne del rancio della Milizia del Texas al piatto che i cow-boys della puszta ungherese, i gulash, si preparavano nei fuochi di bivacco con pezzi di carne e aromi pescati dalle sacche appese alle selle. Il peperoncino può poi avere poteri psichedelici: nello sciamanesimo, la «tecnica arcaica dell’estasi» descritta da Mircea Eliade, alle volte lo stregone riusciva a trovare il contatto con il mondo degli spiriti semplicemente riempiendosi di peperoncino. Il peperoncino è una miniera di vitamina C e di altri nutrienti benefici: tant’è che qualcuno ha pure collegato all’agnello al peperoncino la diffusa longevità di certe genti montanare del Caucaso. Il peperoncino fa bene alla salute anche solo per ridurre il consumo di sale e altre soecie, che invece salute possono avere effetti deleteri. E il peperoncino è pure cultura, come ricorda l’esistenza di un’Accademia Nazionale del Peperoncino, che ha curato la progettazione dell’evento assieme a un’Associazione Peperoncino a Rieti tra Camera di Commercio, Coldiretti e Associazione Commercianti. Ma quasi sempre lo si usa in forma di frutto essiccato e tritato: e così saltano aroma, il sapore, il profumo e la vitamina C che avrebbe se venisse consumato fresco, e rimane da apprezzarne solamente la caratteristica piccante. E poi c’è il fatto che l’80% del peperoncino consumato in Italia è importato dall’estero: soprattutto da Pakistan, India e Messico. Per questo, uno dei convegni in margine all’evento si intitolava: «Coltivare peperoncino, nuova opportunità per l’agricoltura». L’idea è di creare nella Piana di Rieti un vero e proprio distretto del peperoncino: magari, in serra.