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he di cronac

Se ti piacciono le leggi,

o le salsicce, non guardare mai come vengono fatte Otto von Bismarck

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 5 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’Ecofin rinvia il salvataggio greco con una richiesta: «Abolite il minimo salariale»

«Alle urne, come in Spagna» Tremonti: «Loro stanno meglio di noi perché vanno al voto» liano, e questo potrebbe dipendere anche dall’annuncio di elezioni anticipate, che di per sé è una prospettiva di cambiamento e quindi una apertura al futuro. Lo dico così per dire...». Insomma: Tremonti si iscrive al partito del voto anticipato? «Forse». Inutile aspettarsi una presa di posizione chiara da lui. Poi, però, ha sferrato un colpo chiarissimo alla banche (sue nemiche storiche): «Ora la crisi investe loro...». La capitalizzazione delle banche, del resto, è stato uno dei temi scottanti dell’Ecofin: oggi Trichet dovrà dire come sostenerne la ricapitalizzazione. E in gioco c’è - come sempre in questi casi - la tenuta delle Borse. Chiusura negativa per tutte le piazze europee con Piazza Affari a -2,7%. a pagina 6

di Francesco Pacifico

ROMA. Giulio Tremonti corre da solo: in margine all’Ecofin (che ha dilazionato ancora una volta il salvataggio della Grecia chiedendo l’abolizione dei minimi sindacali), il superministro promuove se stesso e boccia Berlusconi. Con il suo linguaggio che procede per tangenti, naturalmente. Insomma, da un lato assicura che non solo «l’Italia ha i conti in ordine, ma è anche l’unico Paese europeo con una avanzo primario». Dall’altro invece dice: «Se la Spagna sta meglio di noi, forse, è perché ha indetto le elezioni anticipate». Testualmente: «La Spagna è tornata, dopo un breve intervallo di qualche settimana, ad avere tassi di interesse sul debito pubblico inferiori a quelli ita-

La Knox è partita per gli Usa dopo aver «ringraziato» l’Italia. La famiglia di Meredith: «Vogliamo la verità»

Processo alla giustizia italiana Metà Paese grida “vergogna”. L’altra metà “bene così”. Chi ha ragione? La libertà di Amanda e Raffaele suscita furiose polemiche. Alfano: «I giudici non pagano mai i loro errori». Ma c’è chi dice: «È il sistema a correggere gli errori». E il pm: «Deciderà la Cassazione» La posizione di Gaetano Pecorella

«Giudicare vuol dire soprattutto dubitare»

Il caso Fiat-Confindustria

Le ragioni di Marchionne sono le stesse di Trichet e di Draghi

«Il garantismo non è una malattia ma ciò che serve ad assolvere degli innocenti: negli Usa, i due ragazzi sarebbero stati già condannati in via definitiva» *****

Franco Insardà • pagina 4

di Francesco D’Onofrio

Il parere di Giannino Guiso

Tutti gli errori delle indagini (e del dibattimento)

«Attenti, le tifoserie non aiutano la verità» Per l’avvocato che ha difeso Bettino Craxi, la conclusione del caso-Kercher segnala che «la nostra magistratura è sana, al di là delle pressioni costanti» Francesco Lo Dico • pagina 3 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

Ai giudici non bastano gli indizi. Spesso ai media sì di Gabriella Mecucci uello ad Amanda e Raffaele è stato un processo indiziario. Ricco di indizi rilevanti, ma pur sempre indizi, supportati però in primo gra-

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do anche dalla prova del Dna. Poi, il responso dei periti della Corte d’Appello ha fatto cadere questo importante appoggio.

WWW.LIBERAL.IT

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• CHIUSO

a decisione con la quale Marchionne ha portato la Fiat auto fuori dalla Confindustria deve essere esaminata da una pluralità di punti di vista, a prescindere dalle eventuali ragioni personali della rottura medesima. La lettera con la quale Marchionne comunica la decisione di portare la Fiat fuori da Confindustria ha tre elementi essenziali. a pagina 11

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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prima pagina

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l’inchiesta Paese diviso tra colpevolisti e innocentisti. Ma forse la capacità della legge di correggersi è un esempio positivo per tutti

La giustizia alla sbarra

Alfano sulla sentenza di Perugia: «Perché i magistrati non pagano mai?». Violante: «Utile che l’opinione pubblica vigili». Alberoni: «Usa più faziosi di noi» il commento di Errico Novi

ROMA. Cosa c’entra una ragazza

che lascia l’Italia in aereo dopo tre anni di carcere, e un’assoluzione in appello, con un segretario di partito, ed ex guardasigilli, che si lamenta perché «i giudici non pagano mai»? In effetti il legame non si vede. Nel senso che il silenzioso sconcerto di Amanda Knox di fronte a una libertà attesa appunto per tre anni è l’epifenomeno più doloroso di una giustizia raziocinante. Cioè di un modello di civiltà che riesce a trovare una via di equilibrio nonostante i suoi passi falsi. Come altri esponenti politici che hanno interpretato in chiave polemica la sentenza sull’omicidio di Meredith Kercher, e il capovolgimento della condanna di Amanda e Raffaele Sollecito, Alfano testimonia l’attitudine italiana a tifare anche nelle aule di tribunale. Se non materialmente – come pure a volte avviene – almeno virtualmente. È vero, i pm sconfitti dal giudizio d’appello sono i primi a parlare di verità negata, di giustizia incompiuta, a esprimere cioè un dissenso plateale. Che però è cosa ben diversa dal considerare l’amministrazione della giustizia come un malato inguaribile. Come invece tende a fare una parte della classe politica, e non solo l’attuale maggioranza di governo.

C’è insomma da chiedersi se la vicenda giudiziaria di Perugia insegni qualcosa al nostro Paese. Anche alla politica, s’intende. Se cioè l’affermazione di una misura e di un equilibrio almeno formali che viene dalla revisione del primo grado di giudizio non possa un po’ dissuadere la pubblica opinione dal comportarsi di fronte ai processi come allo stadio. Se la razionalità che pare venire dalla sentenza non sia un po’ uno specchio in cui guardarci tutti per provare a essere più pacati e cauti. Certo, nella misura in cui può diventare ”pedagogica” una tragedia come quella di Meredith. Una tragedia che vede i suoi familiari disperatamente appellarsi a una verità senza la quale «non ci sarà perdono». Nel dibattito di liberal intervengono un autorevole rappresentante della politica da sempre impegnato sui temi della giustizia come Luciano Violante e un sociologo che osserva il costume italiano con rara costanza e passione come Francesco Alberoni. E se quest’ultimo non si sottrae dall’assumere lui la difesa della giu-

Il lungo catalogo degli errori nelle indagini (e del dibattimento)

Ai giudici non bastano gli indizi. Ai media sì di Gabriella Mecucci uello ad Amanda e Raffaele è stato un processo indiziario. Ricco di indizi rilevanti, ma pur sempre indizi, supportati però in primo grado anche dalla prova del Dna. Anzi, da ben due prove del Dna. Poi, il responso dei periti della Corte d’Appello ha fatto cadere, nel secondo livello di giudizio, questo importante appoggio. La giuria in queste condizioni ha assolto.«In dubio pro reo», recita uno dei principi cardine del diritto penale romano. Per questo è cambiata la sentenza. La questione strettamente giuridica del processo di Perugia è tutta qui. Non c’è da abbandonarsi ad iperboli e a esagerazioni. C’è qualcuno che ragionevolmente può sostenere che i due ragazzi non dovevano essere processati? Amanda aveva addirittura confessato, poi ritrattò. E non si può dire che lei e Raffaele abbiano risparmiato agli inquirenti bugie, depistaggi. ambiguità. Tutto questo non può essere dimenticato. Tutto perfetto allora nel meccanismo della giustizia penale italiana? Certo che no. È venuto il tempo ad esempio – e questo è un problema che non riguarda solo Perugia – di fare bene i conti con il funzionamento della nostra polizia giudiziaria e, in particolare, della polizia scientifica. Nel delitto Kercher se c’è qualcosa di imperdonabile è la fretta con cui l’allora questore del capoluogo umbro, dopo pochi giorni di indagine, convocò una conferenza stampa per sostenere che il caso era chiuso. Per non dire di come sono stati custoditi i reperti.

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ternet. Tanto è vero che la perizia giuridica di una grande avvocata qual è Giulia Bongiorno ha contato ben poco, rispetto alla gigantesca operazione di ribaltamento dell’immagine di Amanda, partita da Seattle e arrivata sino alle porte del carcere di Capanne. Una campagna stampa, quella organizzata, costosa e ben orchestrata, finanziata da una potente lobby, di cui Donald Trump ha dichiarato di essere stato il finanziatore, e che ha raggiunto anche il segretario di Stato Hillary Clinton. C’è poco da scandalizzarsi, è andata così. I genitori di Amanda – e come non comprenderli – hanno cercato di strappare la loro figlia ai 26 anni di carcere a cui era stata condannata. Per ottenere ciò, hanno messo in piedi una sorta di «macchina da guerra» efficientissima che ha dipinto la loro ragazza come vittima di un paese, di una città, di pubblici ministeri straccioni e sessuofobi. Tutto questo ha avuto un enorme peso e faremmo male a non farci i conti perché sempre di più – anche in Italia – i delitti e i successivi processi stanno diventando grandi spettacoli. L’audience di alcuni programmi va alle stelle e nessuno sa resistere alla tentazione di trasformare le tragedie in show. Quando non in ficton.

Sicuramente hanno pesato anche le pressioni di Donald Trump e della sua campagna

M a no n c a pi r e mm o molto del processo ad Amanda e a Raffaele se non tenessimo conto che il loro è stato il più grande processo mediatico inscenato in Italia. Dove la parte della difesa non l’hanno recitata gli avvocati, ma la televisione, i giornali, in-

La terza osservazione da fare sul processo di Perugia è che un colpevole c’è. Si tratta di Rudy Guede, in carcere in virtù di una sentenza passata in giudicato. È stato condannato a 16 anni per aver ucciso Meredith in concorso con Amanda e Raffaele. Adesso che loro sono stati assolti, si affaccia un interrogativo: chi sono stati i complici del ventenne di colore? C’è un buco da riempire. Ci si riuscirà? La giovane inglese assassinata, la sua composta e addolorata famiglia, la stampa inglese ci chiedono una risposta. E la meritano più di ogni altro al mondo. Il caso Kercher non si è chiuso nemmeno con la sentenza di l’altro ieri.

stizia formale come strumento «da preferire alla giustizia popolare, che è ingiusta, crudele e spietata», è proprio il politico ed ex magistrato Violante ad apprezzare l’utilità, persino, di quei «pugni sbattuti contro un cellulare in cui la folla dà all’imputato, appena assolto, dell’assassino».

Cioè Violante spiega che «la civiltà moderna ha compiuto un passo decisivo quando è passata dal processo inquisitorio al processo pubblico. Nel primo caso lo svolgimento dell’accusa era chiuso alla partecipazione dei cittadini. Nel processo modernamente inteso, a partire dalla Rivoluzione francese, subentra il controllo pubblico, e persino la diffidenza verso il giudice. Nel primo caso era segreto il processo e pubblica l’esecuzione, magari capitale, perché lo Stato si assicurava un’affermazione di forza e prescindeva dal controllo dei cittadini. Nell’era moderna è pubblico non il patibolo ma il dibattimento. Ecco – e qui si arriva al cuore del ragionamento di Violante – persino l’emozione della piazza, la folla di Perugia che grida “vergogna”, costituiscono un prezzo sostenibile da pagare in nome della partecipazione civile alla giustizia». Giustizia la quale – sarà che Violante è un magistrato – esce da questo punto di vista addirittura rafforzata nella sua attendibilità. Giacché è concettualmente in grado di ricondurre a equilibrio persino i suoi corollari apparentemente patologici: l’urgenza di una giustizia sommaria reclamata in certi casi – un po’ anche lunedì sera a Perugia – dalla folla, fa parte insomma di una fisiologia che alla fine si conclude in attivo. Alberoni oltretutto tende ad allontanare l’idea che sia l’Italia soltanto a farsi stadio dentro ai tribunali. «Ma scusate, avete seguito l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nella vicenda Strauss-Khan? Avrete notato senz’altro il clima con cui il presunto colpevole è stato accolto dai media statunitensi, le accuse accecate delle femministe. E d’altra parte non sono stati a loro volta partigiani i francesi che invece lo hanno difeso? E ancora», prosegue il sociologo, «non è stata la stampa americana, in particolare i giornali di Seattle, a difendere la loro compatriota Amanda? Laddove l’opinione pubblica inglese si è schierata su posizioni colpevoliste? Si po-


l’intervista Parla l’uomo che per molti anni ha difeso Bettino Craxi

«Ma il tifo non aiuta chi cerca la verità»

Per l’avvocato Giannino Guiso, questa sentenza ha segnato il ritorno al garantismo nel nostro Paese di Francesco Lo Dico

ROMA. «La sentenza della corte d’Appello

In alto Amanda Knox, ripartita ieri per gli Stati Uniti. A destra il giurista Giannino Guiso. Nella pagina a fianco l’avvocato e onorevole Giulia Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito trebbe persino notare che stavolta gli italiani si sono divisi in schiere contrapposte, e hanno assunto un atteggiamento da tifosi, dopo. Mentre gli altri lo hanno fatto prima». Non c’entra la politica, insomma, la politica italiana, a meno di non ribaltare l’affermazione nel senso che il giudizio popolare «ha sempre a che vedere con la politica nel senso che è di parte», è il paradosso di Alberoni.

Proprio il sociologo suggerisce un affascinante gioco di paradigmi con le due grandi tradizioni all’origine della civiltà occidentale, Atene e Roma: «Nel primo caso il processo è insulto, è scontro tra opposte fazioni. A Roma invece il tribunale è il luogo che custodisce le sentenze precedenti, quando non le leggi scritte, ed è in base alle prime e alle seconde che si fa giustizia. Nel primo caso siamo ancora alla piazza, che è appunto spietata e ingiusta, nel secondo siamo alla vera fondazione del diritto». E in questo senso insomma, secondo il sociologo, la sentenza di Perugia mostra sì che «il tribunale è sempre migliore della piazza». Violante peraltro non esce confutato da una simile osservazione.

Perché il suo discorso su giustizia formale e controllo pubblico parte dal fatto che «i due diversi giudizi non vanno mai confusi. Quello dei magistrati è il solo che si dispiega a partire da una piena e approfondita conoscenza dei fatti. Si pensi solo alle perizie del processo di Perugia che in appello è stato possibile smontare. I cittadini sono condizionati dal filtro dei media, della tv più che dei giornali perché la prima esercita un’inevitabile superiore suggestione grazie alle immagini. Ciononostante anche l’attenzione della piazza è necessaria, come detto, al punto che vale la pena tollerarne gli aspetti peggiori. D’altronde la stessa politica ha una modalità di osservazione uniforme a quella del resto della società quando si esprime in valutazioni sui processi relativi a comuni cittadini. È quando sono coinvolti esponenti della stessa politica che quest’ultima si divide per il gioco dell’appartenenza. Un meccanismo che il sistema bipolare, da noi, ha sicuramente enfatizzato». Qui siamo però alla patologia non della società italiana, ma di quell’universo particolare che è la politica. Che in effetti in circostanze come questa appare separato dal resto più del solito.

di Perugia è una sentenza coraggiosa che premia tra l’altro l’indipendenza dei giudici popolari dall’enorme pressione mediatica. Ma gli strepiti colpevolisti, le rimostranze da stadio, dimostrano come questo Paese abbia smarrito del tutto la cultura del diritto a favore del pressapochismo catodico. Non si fanno processi dal verduraio ma sulla base della dottrina giuridica». Parole schiette, persino controcorrente, ma soprattutto coerenti. Perché nella sua lunga carriera, Giannino Guiso ha difeso Renato Curcio, Graziano Mesina, camorristi eccellenti, ma anche ufficiali della Guardia di Finanza. E, com’è noto, il leader socialista Bettino Craxi. «Molti mi hanno chiesto come abbia potuto difendere dei colpevoli», racconta, «ma per chi conosce il diritto la risposta è semplice: il colpevole non si giudica dalle apparenze, ma dalle prove». Le prove avvocato. Quelle che sembravano esserci in primo grado, e adesso sono state confutate. L’esperienza mi ha indotto a pensare che quando una sentenza di condanna si contrappone a un’altra di colpevolezza, è segno che la prova decisiva non esiste. Molti hanno polemizzato sugli anni di carcere inflitti ai due innocenti. Chi polemizza dimentica che è stata la stessa giustizia italiana a rendere la libertà ai due giovani. Incarcerati ingiustamente. È proprio così? La detenzione è una misura dolorosa, rattrista dal punto di vista umano, ma è prevista dalla legge ed è conseguito al giudizio di primo grado. Domando: se in primo grado i due giovani fossero stati assolti, e in secondo condannati, che cosa sarebbe successo? Immagino già. L’onda emotiva avrebbe sospinto molti a stracciarsi le vesti per due assassini lasciati in libertà. Polemiche anche sulla lentezza del processo, che ne dice? È vero, il nostro sistema soffre di lungaggini indubitabili. Ma bisogna fare attenzione, perché spesso i tempi lunghi si fanno garanti di un processo giusto e non sommario in quanto derivano dalle alte istanze garantiste incardinate nella cultura giuridica del nostro Paese. Ma perché la sentenza di Perugia ha scatenato tanta indignazione popolare e facili strumentalizzazioni sulla giustizia sommaria? Ci sono due ragioni fondamentali: da una parte c’è una certa cultura giustizialista pronta a esaltare i giudici quando condannano, e a marchiarli a fuoco quando assolvono. La seconda. Colpa della tv?

Colpa di un cortocircuito mediatico che istituisce processi paralleli dal salotto al divano. Gli show condizionano terribilmente l’opinione pubblica. Ormai è come per il calcio e gli allenatori: in Italia ci sono 56 milioni di giudici. La giustizia non ammette tifoserie, ma soltanto prove. Non è il bar sport. Non si gioca con la vita delle persone. Le prove, prima fumanti e ora carenti, hanno ribaltato il giudizio sulla Knox e Sollecito. Perché? È semplice. Le perizie sul gancetto di reggiseno e sulla macchia di sangue hanno fatto ridere il mondo. Mondi come gli Stati Uniti. Crede che ci siano state pressioni esterne, dietro la sentenza di Perugia? Lo escludo. Tutto si può dire della magistratura italiana, tranne che essa si faccia condizionare dalle ingerenze di altri stati. E che cosa si può dire, invece? Le uniche influenze che in Italia contano sono di matrice ideologica. Ma riguardano solo alcuni. La maggior parte dei magistrati italiani sono persone splendide, al di sopra di ogni dubbio. Altro punto dolente sottolineato da molti. Stabilito che Guede non ha agito da solo, chi c’era con lui? È stato sostenuto che il ragazzo non ha agito da solo. Ma la gente deve comprendere che per la giustizia questa altra persona deve avere un volto, una collocazione sulla scena del delitto, e una prova a lui collegata che ne implichi la partecipazione all’omicidio. I gusti dei telespettatori sono diventati parecchio cruenti. Si annoierebbero. Non si danno colpe per esclusione, né per ipotesi. È un ragionamento da mercatino che in tribunale non ha valore. La colpevolezza deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. La giustizia cerca la verità processuale. Quella assoluta resta metafenomenica. E non compete alle aule di tribunale. Il coraggio dei giudici popolari di Perugia, dev’essere d’esempio. Hanno saputo liberarsi dalla morsa mediatica, e anzi l’hanno usata per affinare il loro senso critico. Il pm Comodi ha parlato però di una «sentenza che non fa giustizia». Sono dichiarazioni irresponsabili, come quelle del procuratore generale che ha usato argomenti incredibili del tipo “Pensate alla vittima” o “Condannate Amanda, altrimenti scappa in America”. Non si fa leva sull’emotività, si portano all’attenzione prove. Entrambi meriterebbero un procedimento discliplinare.

La giustizia cerca la verità processuale, quella assoluta non compete alle aule di tribunale


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l’approfondimento

Secondo l’esponente del Pdl «abbiamo perso questi tre anni di governo, senza toccare nessuno dei punti nevralgici del nostro sistema giudiziario»

Giudicare è dubitare

La nostra giustizia è malata di eccessivo garantismo? «Se è così, e se questo serve ad assolvere degli innocenti, è un bene: negli Usa, Amanda e Raffaele sarebbero stati già condannati in via definitiva», dice Gaetano Pecorella di Franco Insardà

ROMA. C’è una madre che aspetta ancora di conoscere chi le ha ammazzato la figlia. Ci sono due ragazzi che forse hanno passato da innocenti quattro anni in galera. La sentenza di appello che ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito ha scaricato sul sistema giudiziario italiano una miriade di dubbi, da fugare soltanto con una riforma della giustizia che vada oltre i personalismi e le convenienze. Invece, come guelfi e ghibellini o come al bar dello sport il lunedì mattina, tutti a dividersi sulla decisione dei giudici di Perugia. Secondo l’avvocato Gaetano Pecorella, uno dei maggiori penalisti italiani, bisognerebbe sottolineare come «il nostro sistema giudico dà delle garanzie e in questo caso ha dimostrato che c’è possibilità di accertare l’innocenza o meno degli imputati. Sarebbe, quindi, opportuno smetterla di farci censurare dal resto del mondo come se il nostro sistema giuridico fosse pessimo».

Quindi funziona tutto bene? No. Questa vicenda ha messo in evidenza la totale ingiustizia del sistema della custodia cautelare. E questi quattro anni scontati dai due ragazzi non si giustificano. Che cosa si sarebbe dovuto fare? Adottare delle misure diverse per controllarli e per evitare alla cittadina straniera di andarsene dall’Italia. Ma il carcere è un’anticipazione di sofferenza che non ha motivo di essere. Proprio alla luce di questi fatti bisogna tornare a meditare sulle soluzioni alternative al carcere preventivo. Intanto in Italia il 40 per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio. Appunto. Con soluzioni alternative per i detenuti in attesa di giudizio avremmo risolto sia l’affollamento delle carceri, sia l’ingiusta detenzione. È un punto nodale della nostra giustizia sul quale concorda lo stesso presidente dell’Anm,

Luca Palamara. Purtroppo abbiamo perso questi tre anni di governo, senza toccare nessuno dei punti nevralgici del nostro sistema giudiziario. Secondo uno dei pm di Perugia il nostro sistema è troppo garantista. È d’accordo? Se fosse meno garantista sarebbero stati condannati due innocenti, sulla base di prove che si sono dimostrate fragili o, addirittura, viziate. Se il garantismo consiste nel disporre una peri-

Bisogna pensare a soluzioni alternative al carcere preventivo

zia per accertare la verità allora dico: viva il garantismo. L’altro sostituto ha criticato i cori da stadio dopo la sentenza. Questo è il segno dei tempi oscuri che stiamo vivendo e della distorsione totale della cultura della gente comune sul significato della giustizia che non è né esaltazione di eroi dei processi, siano essi magistrati o imputati, ma nemmeno un linciaggio cieco e ignorante, da parte di persone che, sicuramente, non conoscono tutti i percorsi processuali e di prova. Lo stesso magistrato ha aggiunto che questa decisione non fa giustizia. Essendo il pm è quasi scontato questo giudizio. Ma proprio questo caso dimostra che la sacralità della decisione del giudice è un mito che va cancellato: perché o sono stati condannati due innocenti in primo grado, o assolti due innocenti in appello. Voglio dire che i giudici possono sbaglia-

re, e la cosa accade abbastanza spesso, vista l’alta percentuale di sentenze riformate in secondo grado. La madre di Meredith Kercher ha dichiarato di continuare ad avere fiducia nella giustizia italiana. Un esempio da seguire? Certamente, anche perché credo che abbia assistito, giorno dopo giorno, a un processo che si è svolto con grande attenzione e serenità da parte dei giudici. Naturalmente alla fine c’è chi vince e chi perde, ma sarebbe il colmo che ogni volta che c’è una sentenza sfavorevole per una delle due parti questa dichiarasse che non c’è giustizia. In tutti i processi c’è giustizia? Ci sono dei casi, ma si tratta proprio di quei processi dove non si va a scavare in profondità per individuare le prove, per stabilire con certezza e al di là di ogni ragionevole dubbio, come dice la legge di cui


Da Perugia a Garlasco, dal caso Raciti a Cogne, l’arduo percorso per acquisire prove

Non bastano i telefim per fare il «Csi» all’italiana Spesso contestato sul piano tecnico, il lavoro del Ris di frequente risente per la continua contaminazione della «scena» del crimine di Pierre Chiartano is «non attendibili». Dal circo mediatico del processo più seguito dai media globali, quello del delitto di Perugia, arrivato ieri alla sentenza d’appello in mondovisione, è giunto questo ulteriore messaggio. Che non dice nulla di nuovo, perché era stato così anche per altri delitti famosi, da Cogne a Garlasco. Ma è veramente un caso d’incompetenza e gli uomini del reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri sono veramente così pasticcioni? Ogni volta che si sono confrontate le risultanze dei Csi italiani con perizie di luminari della scienza, sono venute alla luce delle incongruenze quantomeno procedurali. E non poteva essere altrimenti, forse l’errore è stato fatto a monte, glorificando un reparto che, cercando di fare del proprio meglio, è sempre fatto da militari. Gente che prima di arrivare al microscopio e alle provette, impara a sparare. Poi la storia dei processi è fatta di migliaia di perizie e controperizie che si smentiscono a vicenda. Gli esperti ci dicono che le prime ore dopo un delitto sono fondamentali per le indagini scientifiche e che in molti casi chi gestisce qui luoghi prima dell’arrivo del Ris può contaminare la scena del crimine.

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Ma restiamo ai fatti sul caso Meredith Kercher: i periti, Stefano Conti e Carla Vecchiotti, dell’istituto di medicina legale dell’Università La Sapienza di Roma nelle conclusioni depositate il 29 giugno scorso, hanno sostenuto come a loro avviso «non siano attendibili» i risultati degli accertamenti svolti dalla polizia scientifica. Può succedere che la scena del delitto sia “sporcata” ancora prima dell’arrivo degli uomini della scientifica. Ma è anche vero che il lavoro di tecnici in divisa non può essere paragonato a quello di accademici in camice bianco. E anche loro commettono degli errori. Forse sono i telefilm made in Usa che hanno fuorviato dapprima il mondo dell’informazione e poi quello della giustizia, caricando di eccessive aspettative un reparto che qualche limite lo ha. Caso Yara Gambirasio: «che senso ha profilare il dna di 10mila persone? Sono cose che si fanno quando si brancola nel buio», confessa a liberal un medico legale. Già nel caso di Cogne erano nati i primi dubbi. In quel caso pareva che il semplice buonsenso avesse avuto la meglio contro le linee virtuali della bloodstain pattern analysis. Cioè il grafico degli

schizzi di sangue. È in questo modo che il professor Carlo Torre, il consulente medico-legale a cui si era affidata la famiglia Lorenzi, come parte offesa nell’inchiesta sul mistero di Cogne, cercava di reinterpretare gli indizi raccolti dai carabinieri del Ris di Parma durante i sopralluoghi nella casa dove era stato ucciso il piccolo Samuele. Anche in quel caso scena ”contaminata” prima dell’arrivo dei tecnici.Dopo giorni intensi passati nel laboratorio dell’Istituto di anato-

«Non attendibili», è una frase che si sta ripetendo spesso a proposito delle indagini della «scientifica» mia di Torino a studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue possono macchiare un pigiama azzurro, il professor Torre e il dottor Carlo Robino, l’esperto di genetica forense che lo affiancava nella consulenza, avevano depositato alla Procura della Repubblica di Aosta i risultati dei loro esami. Il tutto per dire che, a differenza di quanto concluso dal tenente colonnello Luciano Garofano, dopo gli esami a Parma, l’assassino non poteva in-

dossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. In quel caso poco sarebbe cambiato. Ma si era cominciato a contestare le rilevanze della scientifica, santificata nel salotto di Bruno Vespa. Passiamo ad un’afosa mattina di metà agosto del 2007, Chiara Poggi, 26 anni, viene trovata morta nella sua villetta di Garlasco. Sette mesi dopo, cominciarono nel dipartimento di medicina legale dell’Università di Pavia le analisi su sette capelli che la ragazza stringeva nella mano destra. Gli altri capelli trovati nella medesima mano erano già stati analizzati dal Ris di Parma, che non era riuscito a estrarne il dna. Il celebrato reparto di investigazioni scientifiche era stato nei fatti escluso dal nuovo incarico. «Avevamo solo bisogno di specialisti che nel Ris ci sono, ma non a livello universitario. Quindi abbiamo preferito dare altrove la consulenza» aveva replicato infastidito il procuratore. Comunque sia, l’omicidio di Garlasco ha mostrato i limiti della scienza applicata alle indagini. La nuova consulenza sui capelli di Chiara Poggi è solo l’ultimo episodio di un’inchiesta cominciata male. A partire dalla facilità con cui si possono contaminare le prove. Le dubbie tracce di sangue sui pedali della bici di Alberto Stasi, fidanzato della vittima e unico indagato; le impronte digitali e l’inquinamento della scena del crimine: tutti elementi che gettavano ombre su uno dei casi di cronaca nera più seguiti.

Passiamo a un’altra indagini in Sicilia. Perizia dei Ris «non priva di errori». Ecco perché il Tribunale del riesame per i minorenni di Catania aveva ripristinato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, nell’estate del 2007, nei confronti del diciassettenne indagato per la morte dell’ispettore Filippo Raciti, deceduto il 2 febbraio 2007 dopo essere stato ferito durante gli scontri del derby di calcio con il Palermo al Massimino. «L’ideale sarebbe formare delle squadre di esperti che non facciano altro, come negli Usa, e che ogni mattina si incontrino per un brefieng congiunto sui casi che trattano in modo da avere un controllo incrociato continuo», confida a liberal un esperto del settore. Come in America.

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mi vanto di essere l’autore, se una persona è innocente o meno. Quella non è giustizia. La mancanza di giustizia, cioè, non è nel risultato, ma nel modo di svolgere il processo. I media e la pressione internazionale hanno influito sulla sentenza di Perugia? Credo che sia un fenomeno assai singolare che un grande Paese come gli Stati Uniti si schieri, senza dubbi e incertezze, a favore di qualcuno soltanto perché si tratta di un cittadino statunitense. Non penso che i giornali americani e l’opinione pubblica sia al corrente degli elementi di questi processo. È il solito atteggiamento nei confronti dell’Italia che viene considerato un Paese incivile, secondo il quale chi finisce nelle maglie della nostra giustizia è poco garantito. Questo processo è la prova che il nostro sistema è in grado di autocorreggersi. Il New York Times, però, ha elogiato il nostro sistema giuridico. C’è da esserne contenti? Certamente. Bisognerebbe far presente a molti altri organi di stampa statunitensi che se i due ragazzi fossero stati giudicati in America sarebbero già stati condannati a morte, senza possibilità di una revisione. Negli Stati Uniti. infatti, non c’è un secondo grado di giudizio nel merito, ma è previsto un ricorso relativo soltanto a vizi procedurali. Secondo il segretario del suo partito Angelino Alfano i giudici non pagano mai i loro errori. È vero, si tratta di una categoria autoreferenziale. Tanto è vero che la riforma costituzionale, purtroppo di nuovo arenata, prevedeva un organo autonomo, composto non solo da magistrati, per giudicare i giudici. Nel caso di Perugia, però, le maggiori responsabilità sono da attribuire a chi ha raccolto le prove. Una cosa che accade spesso. L’abbiamo visto a Perugia, nel caso di Garlasco e, tutto sommato, anche nella vicenda di Cogne. Bisogna creare una scuola specialistica per tutti coloro che fanno il primo intervento sul luogo del delitto. Solo così si può evitare di inquinare le prove. Intanto Amanda Knox è volata negli Stati Uniti e molti hanno sollevato dubbi su un eventuale seguito del processo. Processarla sì, perché non è richiesta la sua presenza. Se fosse condannata escluderei che possa tornare in carcere, perché un cittadion amerciano non è estradabile e, comunque, non lo farebbero mai, visto l’atteggiamento dell’opinione pubblica. Sarebbe stato, invece, un bel gesto dichiarare di essere a disposizione della giustizia italiana.


politica

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All’Ecofin il ministro dice: «Stanno meglio perché vanno al voto»

Ora Tremonti fa Zapatero: «Alle urne come in Spagna» Intanto, scatta l’allarme per la tenuta delle banche: poche risorse per la crescita di Francesco Pacifico

ROMA. «Perché gli spread della Spagna sono minori di quelli italiani? potrebbe dipendere anche dall’annuncio di elezioni anticipate e dalle prospettive di un nuovo governo. Ma dico così per dire». Battuta o meno che sia , Giulio Tremonti a margine dell’Ecofin di ieri, ha finito per ammettere quello che da mesi suggeriscono i partiti di opposizione, i sindacati ed economisti del calibro di Nourielle Roubini e che ha ventilato anche l’agenzia di rating Standard & Poors abbassando il rating italiano.

Parole che spingono Susanna Camusso a rivendicare il copyright su questa analisi, il Pd ad ”arruolare”Tremonti e Renato Brunetta a sbuffare: «Ogni tanto anche i professori seri come Tremonti dicono qualche stupidaggine». Intanto mentre lo spread tra il Btp e il Bund sale a 386.35 punti e quello tra il titolo tedesco e spagnolo è più basso di una cinquantina di punti, in Europa si torna a parlare di credit crunch. L’ha detto prima il futuro presidente della Bce, Mario Draghi:

Jean Claude Trichet saluta l’Europarlamento avvertendo che «il Vecchio Continente è l’epicentro della crisi globale». Nuovo rinvio sul salvataggio greco «È molto difficile distinguere se i problemi di raccolta delle banche sono meri problemi di liquidità o se provengono dalla mancanza di fiducia». E l’ha ribadito 24 ore fa il suo predecessore, Jean Claude Trichet, davanti all’Europarlamento: «Il sistema è troppo fragile. Le banche in Europa, che è l’epicentro della crisi globale, invece devono essere in grado di fare il loro mestiere. E per questo devono avere capitale sufficiente». In attesa che i Ventisette si decidano a salvare la Grecia – ieri notte è stato un nuovo rinvio, se ne riparla a fine mese – il Vecchio Continente scopre che il maggiore ostacolo alla ripresa sta nel sistema bancario. Il peso dei bond spazzatura riduce le già

scarse risorse per gli impieghi, con il risultato che crollano anche le leve per immettere nell’economia reale le risorse necessarie per invertire il trend. Lo spettro – come dimostrano i richiami di Mario Draghi e Jean Claude Trichet – non è più quello del default ellenico, ma di un’ondata di credit crunch, con non poche ripercussioni sulla competititivà dei Paesi esportatori e sulla disoccupazione, che nell’eurozona è ormai stabile al dieci per cento. Perfetta cartina di tornasole l’attività sempre più rigida sull’interbancario. Le banche non si fidano le une dell’altre e i depositi overnight degli istituti di credito presso lo sportello ufficiale della Bce hanno toccato il nuovo massimo dell’ultimo anno: quota 209,275 miliardi di euro rispetto ai 199,639 segnalati soltanto venerdì scorso. E siccome questa è la via più breve (e più conveniente) per recuperare liquidità, calano anche i prestiti che le realtà commerciali chiedono direttamente all’Eurotower: 1,318 miliardi contro i 1,414 miliardi di un mese fa. E il tendenza potrebbe acuirsi, visto che si avvicina la scadenza mensile (è prevista per l’11 ottobre) della riserva obbligatoria che spinge di solito le banche ad aumentare i depositi. Prima ai suoi colleghi dell’Ecofin, poi ai giornalisti, Giulio Tremonti ha sottolineato che «la crisi ha oramai epicentro in Europa: gira intorno ai rischi sovrani e da ultimo si vede anche nelle banche». Un percorso che, secondo gli analisti di Goldman Sachs, porterà tutta l’Eurozona, non soltanto le economie più aggravate dal debito pubblico come l’Italia, verso la stagnazione. In quest’ottica diventa fondamentale la riunione mensile della Bce prevista oggi. Quella che di fatto saluta il mandato di Trichet. E il banchiere francese dovrà scegliere tra le necessità dell’economia reale e del credito e un’inflazione, che nonostante il crollo dei prezzi del petrolio è schizzata fino al 3 in tutta l’area. Decidere se ritoccare o lasciare immutati i tassi. Gli analisti di Goldman Sachs prevedono già nella riunione odierna un primo taglio di un quarto di punto. Ma dall’Eurotower

Un fenomeno che riguarda anche gli imprenditori piccoli

E i greci scelgono di vivere in Bulgaria Sempre di più gli ellenici che vanno via per trasferirsi dove la vita costa meno Gilda Lyghounis

ATENE. Mentre la Grecia trema per il rischio di non ricevere la sesta tranche del megaprestito dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale, il governo, per rimediare al “buco” di un miliardo di euro già accumulato dal deficit pubblico nei primi otto mesi del 2011, rispetto a quanto pattuito con Bruxelles per tutto l’anno in corso (Atene ha sforato: il deficit è a quota 18,1 miliardi di euro ad agosto invece dei 17,1 previsti per tutto il 2011) ha deciso di imporre una nuova tassa sugli immobili. Su tutti, anche quelli non dichiarati finora al fisco, “scovati” tramite le bollette dell’acqua e dell’energia elettrica. La nuova imposta sarà addebitata infatti tramite la prossima bolletta della Dey (l’azienda elettrica). Si pagherà fra i 50 centesimi e i dieci euro al metro quadrato, a seconda del valore catastale e delle zona più o meno pregiata dove si trova l’appartamento.

Peccato che molti greci abbiano deciso, nel frattempo, di trasferirsi in Bulgaria. «Solo nell’ultimo anno circa 800 medi e piccoli imprenditori ellenici, soprattutto del nord della Grecia, hanno spostato le loro attività lavorative nel sud bulgaro, vicino al confine con l’Ellade» ci racconta Kostantino Georgakos, vicepresidente dei Mediatori immobiliari ellenici e, soprattutto, a capo della “Parthenon real estate” di Salonicco, agenzia che come molte altre vende e acquista case non solo in Grecia ma anche nei Balcani e che, guarda caso, ha una branca dedicata espressamente a chi vuole fondare una società in Bulgaria. «Ovvio - continua Georgakos - che a questi imprenditori non conviene pagare un affitto oltreconfine, e allora oltre ai capannoni industriali vi acquistano anche una casa, che lassù costa molto meno al metro quadro: si parte dai 600 euro». E gli 800 imprenditori emigrati negli ultimi


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arrivano segnali contrastanti. Al riguardo ieri, nel rituale discorso al Parlamento di Strasburgo, Trichet ha prima fatto una tiepida apertura. E ha ricordato che «non ci sono rischi di aumento dell’inflazione a medio termine. Le prospettive su questo fronte sono ampiamente bilanciate». Il carovita soltanto tra un anno scenderà sotto il livello di guardia del 2 per cento. Di conseguenza, il banchiere si è lamentano perché «le discussioni sempre più accese su come contrastare la crisi del debito sovrano in Europa fanno dimenticare spesso che il nostro obiettivo primario è quello di mantenere la stabilità dei prezzi».

Bce davanti a una difficile scelta: abbassare i tassi per aiutare la riprese ed evitare il credit crunch oppure mantenerli invariati per arginare l’inflazione?

dodici mesi vanno ad aggiungersi ai circa 2000 che si erano già trasferiti a sud di Sofia negli ultimi anni, approfittando dell’Iva più bassa e del minore costo della manodopera. «Naturalmente - dice ancora Georgakos - 800 è un numero a livello nazionale. Comunque quella degli imprenditori che lasciano la Grecia e comprano casa in Bulgaria è la prima categoria che viene a bussare alla porta della nostra agenzia: solo noi abbiamo avuto un’impennata del 400% rispetto al 2010. La seconda categoria è quella dei pensionati». Ma come, proprio i pensionati falcidiati dai pacchetti lacrime e sangue imposti dai tagli del governo socialista di Atene? «Se hanno 15/20mila euro da parte, o se riescono a vendere la loro casa in Grecia (difficilissimo, perché il mercato è fermo, ndr) comprano un appartamentino nelle città a ridosso della frontiera greco-bulgara. Per esempio a Gotze Delchev (Ano Nevrokopi in greco), a circa 20 km di strada dal confine con la Grecia. I loro figli sono ormai grandi, e gli anziani con la loro pensione benché tagliata riescono a vivere meglio lì, perché la vita costa meno. Tornano in patria ogni tre mesi a salutare i parenti».

Che i greci andassero a fare la spesa o a curarsi la salute oltreconfine per risparmiare, già era noto. Ma adesso che la crisi si fa ancora più nera, chi può, anche senza essere un Paperone o un armatore con sede sociale a Londra, se ne va. Ma è davvero così?

«Forse questo vale per i piccoli e medi imprenditori ma io, che come clientela ho la piccola borghesia di Salonicco, ho un altro punto di vista», ci dice Manolis Kazlaris, proprietario di un’agenzia di mediazione immobiliare che da qualche anno si reclamizza sul web anche «per approfittare della crescente richiesta di case in Bulgaria». «Fra il 2005 e il 2009 vendevo fino a dieci appartamenti di vacanza a Bansko, centro di sport invernali molto apprezzato anche dai greci. L’anno scorso ne ho venduto solo uno. Per il 2011 è ancora presto per tirare le somme: la stagione a Bansko inizia a dicembre. Sembra proprio, però, che i miei clienti non hanno più soldi per arrivare a fine mese, figuriamoci per andare a sciare!».

Una recente inchiesta del quotidiano ateniese Ta nea, il più diffuso in Grecia, ha intervistato un mediatore immobiliare bulgaro, Iordan Kamarizev, il quale afferma di avere venduto appartamenti ad almeno 60 greci solo nell’ultimo anno, nella regione fra Rina e Rodopi, nel sud del Paese. Racconta a Ta nea un imprenditore di Salonicco, Stelios Keikis, che ha trasferito da ben 15 anni le sue attività oltreconfine e va avanti e indietro fra la Bulgaria e la Grecia, avendo mantenuto la propria casa ellenica: «Ho comprato due appartamenti in Bulgaria: il primo nel 2009, a circa 1500 euro al metro quadrato, abbastanza caro anche se molto più a buon mercato che in Grecia. Poi i prezzi sono

scesi ancora di più, e ho acquistato il secondo appartamento. Lo faccio anche come investimento per miei figli: la zona di Razlog, dove ho comprato, a circa 150 km da Sofia e altrettanti da Salonicco, è ideale sia in inverno per sciare, sia d’estate, perché in poco tempo attraversi il confine in automobile e sei sulle spiagge della Calcidica, in Grecia». Questo, gli ateniesi o gli abitanti delle altre grandi città elleniche che faticano persino a fare il pieno di benzina e a pagare l’assicurazione della macchina, causa stipendio ridotto del 20% dai tagli dal governo, per non parlare dei disoccupati (sedici su cento in giugno), non lo possono certo fare.

Parole poco diplomatiche per sottolineare la schizofrenia dei governi europei, che da un lato non lesinano pressioni sull’istituzione affinché continui a sostenere bond di Italia e Spagna, dall’altro non affrontano i nodi che rallentano il Vecchio Continente. Infatti Trichet ha gioco facile nel chiarire che lettere come quelle inviate a Palazzo Chigi lo scorso agosto sono la prassi, soprattutto quando si registrano «l’evoluzione dei Il governatore costi unitari del lavoro e il fatdella Bce Jean to che in alcuni Paesi, a causa Claude Trichet delle forti perdite di competitiinsieme vità, ci sono più problemi rial ministro spetto ad altri». italiano Più in generale segnala che deTremonti. ve «essere responsabilità dei In basso governi trovare gli strumenti il premier per affrontare la crisi peggiore greco del Dopoguerra. Devono renPapandreou dersi conto della situazione, la cosa peggiore sarebbe mancare di lucidità». E gli fa eco anche Ben Bernanke, pronto a iniettare ancora una volta liquidità per facilitare la ripresa. Il numero uno della Fed ha spiegato che, nonostante l’esposizione diretta delle banche statunitensi verso la Grecia sia minima, un default ellenico potrebbe creare «un’instabilità sui mercati finanziari mondiali che avrebbe effetti considerevoli anche sul nostro sistema finanziario e sulla nostra economia. Per questo è fondamentale che gli europei continuino sulla via che è stata tracciata e che consiste nel provare a regolare il problema greco e della crisi dei debiti sovrani». Ma per tutta risposta, nell’ultima due giorni europea, i Ventisette non hanno affrontato temi come gli eurobond o l’allargamento del fondo Salvastati, ma hanno rinviato di un mese lo sblocco della prossima tranche del maxiprestito per la Grecia.

Non tornano i conti, dopo che Atene ha ammesso di non rispettare i target sul deficit/Pil concordati con Fondo monetario e Unione europea. Così non c’è da meravigliarsi che, rinvio dopo rinvio, in questa partita prima politica e poi finanziaria gli sherpa della troika siano arrivati anche a chiedere di congelare il contratto nazionale di lavoro per abbassare il cuneo fiscale. Una confusione che ha spinto i mercati verso l’ennesima giornata negativa. Milano ha chiuso a-2,72 per cento, Londra a -2,58, Parigi a -2,61 e Francoforte a-2,98.


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un autunno di Scienza, quello del 2011, che sa sempre più di Fantascienza. Prima il Pianeta con Due Soli: e si è rivelato così autentico lo scenario di tanti pianeti di romanzo e film, da quello dell’eroe di Guerre Stellari al Vulcano del Dottor Spock di Star Trek; fino a quel mondo del Notturno di Isaac Asimov, il racconto più bello della storia della fantascienza, in cui la notte calava solo una volta ogni 2000 anni. Poi il viaggio del neutrino a velocità super-luce dal Cern di Ginevra al Laboratorio del Gran Sasso: occasione di corbellature per il ministro Gelmini, ma anche di affascinanti speculazioni sulla possibilità di spostarsi nello Spazio e nel Tempo. Quasi a confermare questa voglia di meraviglia cosmica che sembra stare prepotentemente tornando, adesso la Reale Accademia Svedese delle Scienze ha deciso di conferire il Premio Nobel per la Fisica del 2011 agli scopritori dell’Universo in accelerazione.

È

«Hanno studiato decine di stelle che esplodono, chiamate supernovae e hanno scoperto che l’universo è in espansione a una velocità in accelerazione permanente», recita la motivazione. Tre premi, perché quando una quindicina di anni fa il gruppo di Saul Perlmutter e quello di Adam Riess e Brian Schmidt si misero a studiare il problema, l’arrivo a un’analoga soluzione invece di costituire occasione di comune giubilo diede luogo a una disputa, su chi c’era arrivato per primo. In qualche modo, Stoccolma cerca ora di riportare la pace con il certificare che entrambe le squadre erano in buona fede, e che comunque l’importante è l’accertamento indipendente del medesimo risultato. Anche se, a dir la verità, non tutti i luminari sono ancora d’accordo, e la super-mediatica Margherita Hack subito interpellata dalla stampa ha parlato di tesi “ancora da verificare”. Saul Perlmutter, che è nato nel 1959, si laureò magna cum laude a Harvard nel 1981 ed è oggi astrofisico al Lawrence Berkeley National Laboratory nonché professore di fisica all’University of California di Berkeley, avrà dunque metà del Premio. Un quarto andrà a Adam Riess: classe 1969, laurea al Mit di Boston nel 1992, OphD a Harvard nel 1995, e oggi astrofisico alla Johns Hopkins University e allo Space Telescope Science Institute. Un quarto andrà a Brian P. Smith: nato nel 1967 nel Montana, laurea all’University of Arizona nel 1989, PhD a Harvard nel 1993, emigrato in Australia nel 1994 dopo aver sposato un’australiana, e oggi astrofisico e professore all’Australian National University Mount Stromlo Observatory e alla Research School of Astronomy and Astrophysics. «Sia fatta la luce, e la luce fu», dice la Bibbia. Gran parte delle Chiese ammette oggi che il racconto della Genesi va inteso in senso allegorico, e non letterale. Ma gran parte degli scienziati ritiene oggi che quel linguaggio descriva effettivamente quel che dovette accadere all’inizio del mondo: un gran lampo, da cui la materia fu generata. Non a caso, forse, l’idea poi detta del Big Bang venne per primo al prete cattolico belga Georges Lemaître, anche se quel fisico religioso si basò co-

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Secondo i tre studiosi l’universo si starebbe espandendo a una velocità c

L’Apocalisse seco

Il Nobel per la fisica assegnato a Perlmutter, Schmidt e Riess. Con le loro ricerche sulle enormi stelle supernove hanno riscritto la teoria sulla fine dell’esistenza di Maurizio Stefanini munque sulle teorie di Albert Einstein. Non a caso Fred Hoyle, che invece credeva all’ipotesi di un universo stazionario, coniò la terminologia del “Grande Botto”nel 1949 in modo spregiativo durante una trasmissione radiofonica, alludendo in tono critico anche alla formazione teologica di Lemaître. «Solo a un prete poteva venire un’idea del genere».

E non a caso atei dichiarati come Margerita Hack sono ancora i più scettici sulle implicazioni di questo Universo che viene creato e inizia poi a espandersi. Non più sull’idea di un Big Bang, in realtà. L’idea di Fred Hoyle, su un Universo sostanzialmente eterno, resse fino al 1964. Ma in quell’anno venne accertata l’esistenza di quella radiazione cosmica di fondo che proviene

Il “Big Rip”, il “grande strappo” prima della fine delle galassie, è una forma di energia a pressione negativa che si trova in tutto lo spazio dalle prima fasi di creazione dell’Universo, e che era stata predetta teoricamente come una naturale conseguenza di un Big Bang. L’Universo stazionario venne allora abbandonato da tutti: eccetto un pugno di irriducibili, che peraltro il mainstream scientifico non stima molto più dei negatori dell’evoluzione.

Ma Big Bang, in vista di cosa? Una prima teoria, sostiene che a un certo punto l’espansione dell’Universo si fermerà: le galassie che si sono fino a quel momento allontanata inizieranno a un certo punto a riavvicinarsi, fino a quando l’intero Universo non collasserà su sé stesso, tornando al nucleo iniziale. Se l’idea dello stato stazionario sostituisce in chiave atea o forse anche panteista l’eternità dell’Universo all’eternità di Dio, se il Big Bang assomiglia al Fiat lux della Genesi, questo Big Crunch è invece l’Apocalisse. «Guardai di

nuovo quando l’Agnello aprì il sesto sigillo; e si fece un gran terremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine, e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola; e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo».

Ma potrebbe anche darsi che il nuovo nucleo a quel punto esploda di nuovo in un ulteriore Big Bang, che poi finirà in un nuovo Big Crunch, e così via. Sempre Isaac Asimov scrisse su quel tema un famoso racconto intitolato L’ultima domanda, in cui immaginava che il ruolo del Dio creatore lo assumesse un colossale computer iperspaziale creato dall’umanità, al fine di rispondere “per dimostrazione” alla “grande domanda” che gli uomini gli avevano posto nel corso dei millenni: «È possibile invertire l’entropia?». Che sarebbe poi quella conseguenza del secondo principio della termodinamica secondo la quale il disordine di un sistema fisico tende a aumentare in modo irreversibile, fino ad arrivare alla dissoluzione. In qualche modo, questa idea dell’Universo oscillante recupera l’idea atea dell’Universo eterno in presenza di un Big Bang. Ma di fatto evo-


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crescente, invece di rallentare: andando verso una fine fatta di ghiaccio

condo Stoccolma

tori, ai reattori a fusione. Ma per i teorici del Big Rip conta soprattutto l’idea che con l’allontanarsi continuo delle Galassie, si arriverà infine a un punto in cui l’energia oscura dell’Universo oltrepasserà il valore dopo il quale la materia sarà letteralmente fatta a pezzi. Cioè, si torna all’Apocalisse. Dopo il punto Alfa, il punto Omega.

Ebbene: fu appunto Saul Perlmutter che l’8 gennaio 1998 annunciò dati che confermavano un’accelerazione dell’espansione. Come si è fatto a misurare che l’Universo sta metaforicamente pigiando sul pedale della velocità? La chiave di tutto sono le Supernovae: quegli oggetti in cui si trasformano le stelle di massa almeno dieci volte più grande del sole quando esplodono, e che sono tra le cose più luminose dell’Universo. In pochi minuti, una Supernova emette tanta energia quanto il Sole in 9 miliardi di anni. Ma così riesce a “farsi notare”, per così dire, fino agli estremi confini dell’Universo.

In pochi minuti, una Supernova emette tanta energia quanto il Sole in 9 miliardi di anni. Si vede fino agli estremi confini del sistema

ca piuttosto gli scenari delle cosmologie induiste e buddhiste, oltre a quelli dell’Eterno Ritorno di Nietzsche.

Ma c’è pure un terzo scenario possibile: quello secondo il quale dal Big Bang, in presenza della seconda legge della termodinamica, l’Universo a furia di espandersi raggiungerà asintoticaDall’alto Brian P. Schmidt, Saul Perlmutter e Adam G. Riess. I tre astronomi e astrofisici hanno vinto il premio Nobel per la Fisica grazie alle loro ricerche sull’espansione dell’universo e sul Big Rip, lo “strappo” finale delle galassie

mente uno stato nel quale l’energia è uniformemente distribuita, secondo quell’idea della morte termica già proposta da Hermann von Helmholtz nel 1854. Oppure ci sarà il Big Rip,“Grande Strappo”. Che è collegato al concetto di energia oscura: fa pensare a Guerre Stellari e al lato oscuro della Forza, ma si tratta in realtà di una forma di energia a pressione negativa che si trova in tutto lo spazio.

Non farebbe onore al suo nome, se non si trattasse di un concetto in effetti oscuro. Ma la sua introduzione è oggi il modo più diffuso fra i cosmologi sia per spiegare le osservazioni di un universo in accelerazione; sia per colmare

una significativa porzione della massa mancante dell’universo, che ne costituisce circa il 90%. Uno dei volti che questa energia oscura può assumere è la costante cosmologica: una densità d’energia costante che riempie omogeneamente lo spazio e che è fisicamente equivalente all’energia del vuoto. L’altro è la quintessenza: un campo dinamico la cui densità d’energia varia nello spazio e nel tempo. Capire quale delle due ipotesi sia vera, richiederebbe misure accurate dell’espansione dell’universo per capire come la velocità d’espansione cambi nel tempo. Insomma, forse sarà un Nobel del futuro.

Nell’attesa, con l’idea di energia oscura ci hanno sguazzato gli autori del videogioco Half-Life 2.Trasformandola peraltro in una vera e propria fonte d’energia tout court della forza conquistatrice chiamata Combine, manipolabile tramite dispositivi tecnologici che spaziano dai fucili ai teletrasporta-

Quando gli studi vennero fatti l’idea che prevaleva nella comunità scientifica era quella del Big Crunch: come schegge di bomba lanciate da un’esplosione, stelle e galassie avrebbero progressivamente visto diminuire la forza a cui venivano scagliate, fino a un punto in cui il suo esaurimento avrebbe fatto prevalere l’attrazione gravitazionale, iniziando a riavvicinare il tutto. Dunque, l’aspettativa era che le Supernovae permettessero di constatare questo rallentamento. Invece, lo studio di una cinquantina di loro ha dimostrato che la loro luce era un po’ più debole di quanto previsto. Cioè, erano più distanti. Cioè, avevano corso di più. Cioè, a un certo punto della sua storia l’Universo invece di rallentare aveva addirittura accelerato. Questa “luce meno intensa di quanto ci attendeva, elemento a prova che l’Universo si sta espandendo”, spiega la motivazione del Nobel, è “una scoperta che è arrivata come una sorpresa completa anche per i tre studiosi”. Il che non ha però impedito loro di accettare umilmente questa sorpresa, e spiegare ai colleghi che bisognava ricominciare tutto da capo. Sta accelerando tuttora questo Universo? E cos’è che l’ha fatto accelerare? Finirà davvero tutto in ghiaccio? Oppure ha ragione Margherita Hack, quando sospetta che semplicemente ci sia un errore di misurazione dovuto al fatto che le distanze considerate sono ancora al di sopra delle nostre capacità tecnologiche? Ma qua abbiamo altri tre, forse altri quattro, forse altri cinque Nobel. Qualcuno vuole prendersi l’appunto?


politica

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Fumata nera dalle Camere in seduta comune: Idv e una parte del Pd non votano nonostante l’accordo raggiunto

Bloccato il Mattarellum Il politico che ha dato il nome al sistema elettorale non passa: mancano 33 voti per la sua elezione alla Corte Costituzionale di Giancarlo Galli

ROMA. «In confronto a lui, Arnaldo Forlani era un movimentista». Ciriaco De Mita, che pure ne fu il capocorrente nella sinistra Dc, ebbe a descrivere così Sergio Mattarella, l’uomo che ha – silenziosamente come suo solito – dominato l’ultima settimana politica: ieri il Parlamento non l’ha eletto alla Corte costituzionale,per una manciata di voti, in tutto trentatre, scatenando le ire di Giorgio Napolitano in vista di una nuova votazione stamattina. La settimana scorsa, invece, un comitato referendario ha presentato un milione e duecentomila firme per abolire il Porcellum e riesumare la legge elettorale che porta il suo nome, il Mattarellum (definizione, non lusinghiera, appiccicatale da Giovanni Sartori), quella coi collegi uninominali, il 25% di quota proporzionale alla Camera e lo scorporo.

mo premier ex comunista - persona che sinceramente stimo, ma che coloro che lo conoscono bene affermano abbia una grave prerogativa…».

Classe 1941, Sergio Mattarella è figlio e fratello d’arte: suo

santi Mattarella è infatti la nemesi del Divo Giulio: non solo il presidente ucciso contese da vivo ai suoi amici dalle disinvolte frequentazioni mafiose Salvo Lima, Vito Ciancimino, i fratelli Ignazio e Nino Salvo – la guida del partito nell’isola, ma da morto ha contribuito a

scrivere la pagina più oscura della biografia del senatore a vita. Nella sentenza che pure lo assolse per mafia, è scritto infatti che Andreotti fu avvisato dalle sue frequentazioni dentro Cosa Nostra che Mattarella sarebbe stato ucciso, ma il sette volte primo ministro non av-

vertì la vittima. Sergio Mattarella, invece, fu l’ossessione privata degli ultimi anni di Salvo Lima, ucciso anche lui dalla mafia il 12 marzo 1992. All’indomani della sua morte quell’inimicizia la ricordò pure Franco Evangelisti, braccio destro di Adreotti e amico della vitti-

Il mancato neogiudice (mancato almeno fino alla mattina di oggi) è uomo dai modi curiali, dai sussurri indefiniti, dall’attitudine ai toni bassi o, meglio, ai silenzi prolungati, eppure l’affet-

Nei giorni delle grandi polemiche sulla «Legge Mammì» che favoriva Berlusconi, lui per protesta si dimise da ministro tuosa presa in giro di De Mita non è affatto l’unica definizione che si sia data di lui. Stefano Bartezzaghi – l’ha raccontato Gian Antonio Stella sul Corsera – affascinato dall’astrusa sottigliezza del suo sistema elettorale, ne anagrammò il nome così: «O’ l’arte magistrale». Non tutti però sono stati così gentili: «La mediazione del nulla» era quell’arte secondo Ortensio Zecchino, ex democristiano pure lui, oggi in Alleanza di Centro con Francesco Pionati. Tale Ilario Foresta, imprenditore siciliano e allora deputato di Forza Italia, gli diede del menagramo nell’aula della Camera il giorno in cui il governo D’Alema sostituì quello di Prodi: «Lei ha compiuto un grave errore nel nominare alla vicepresidenza del Consiglio l’onorevole Mattarella – disse al pri-

E al Csm va il leghista Albertoni padre Bernardo fu senatore democristiano e ministro, capocorrente per qualche anno anche del “corleonese”Vito Ciancimino; suo fratello Piersanti, infece, fu presidente della Regione Sicilia e venne ucciso a Palermo da Cosa Nostra il 6 gennaio 1980. A seguire le orme familiari ci mise comunque un po’. Solo tre anni dopo l’omicidio, infatti, “il Professore” (aveva una cattedra nella facoltà di Giurisprudenza) si decise a farsi politico: Ciriaco De Mita lo mise a capo della Balena Bianca isolana per fare la guerra ai “signori delle tessere”, andreottiani (Salvo Lima) su tutti. Pier-

ROMA. Ieri il Parlamento, malgrado il no all’elezione di Sergio Mattarella alla Consulta, ha votato al Consiglio superiore della magistratura Ettore Adalberto Albertoni. Docente universitario, ex membro del cda Rai Albertoni è stato presidente del Consiglio regionale della Lombardia, eletto nelle liste della Lega Nord. Da quella carica, si dimise nel luglio del 2008 spiegando così il suo gesto: «Lascio con un’unica e semplice motivazione personale e pubblica volendo concludere la mia attività di accademico e di studioso nella mia naturale ed ormai quarantennale sede di lavoro scientifico, di ricerca e didattica che è l’Università, in particolare oggi quella dell’Insubria». Nell’Ateneo di varese e Como, Albertoni è docente di storia delle dottrine politiche ed è stato uno dei primi «intellettuali» ad aderire alla Lega. La sua elezione al Csm è il coronamento di una carriera politica iniziata con la nomina di assessore alla cultura del Consiglio Regionale della Lombardia e proseguita con vari incarichi, come abbiamo visto, sempre in qualità di «professore» di riferimento di Bossi.

ma, in una commossa intervista al Corriere: «Salvo divideva il mondo in uomini e ricchioni, che poi voleva dire tutto: cattivo o sleale o nemico, magari soltanto antipatico. E dunque, quando la tavola era ancora apparecchiata, tra bucce di noci e d’arance, agitava il cucchiaio.Tu facevi un nome, e lui: ricchione. Un altro: ricchione. De Mita? “Non lo amava, ma lo rispettava, perché lo considerava un capo”. Sergio Mattarella? “Ricchione”. Leoluca Orlando? Non ne parlava affatto. A non piacergli era soprattutto Mattarella. Qualche volta aggiungeva: “e cornuto”». Nonostante la scarsa opinione di lui coltivata


politica

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Sergio Marchionne, lunedì, in visita a Mirafiori, quando ha annunciato che lo stabilimento produttà un nuovo Suv a marchio Jeep. Nella pagina a fianco, dall’alto, Sergio Mattarella, bloccato ieri alla Conuslta, e Ettore Adalberto Albertoni, nuovo membro del Csm

Il debito pubblico secondo Marchionne La rottura con Confindustria segnala la necessità di cambiare le priorità interne al lavoro di Francesco D’Onofrio a decisione con la quale Marchionne ha definitivamente portato la Fiat auto fuori dalla Confindustria deve essere esaminata da una pluralità di punti di vista, a prescindere dalle eventuali ragioni personali della rottura medesima.

L

Qualora si legga infatti con attenzione la lettera con la quale Marchionne comunica a Emma Marcegaglia la decisione di portare la Fiat fuori da Confindustria si notano tre elementi essenziali: 1) Si tratta di una decisione che era stata già annunciata da tempo, a dimostrazione del fatto che non si è in presenza di una decisione repentina o improvvisata; 2) Il carattere nazionale della produzione di autovetture Fiat in Italia resta al centro delle sue decisioni, in qualità più di mercato nazionale dell’auto che non di Stato nazionale italiano. 3) La spinta crescente alla globalizzazione rende sempre più necessario un sistema di relazioni industriali progressivamente disancorato dalle dimensioni nazionali nel quale esso era nato e si era sviluppato anche in Italia. Queste tre considerazioni attengono ad una complessiva strategia industriale della Fiat che si era venuta sviluppando nel corso degli ultimi due anni, e che aveva posto in evidenza proprio la connessione tra i tre elementi fondamentali ai quali si è fatto riferimento. Non si tratta dunque di una decisione repentina o improvvisata. Non vi è dubbio che sono state decisive le questioni connesse alla definizione di una nuova linea di relazioni sindacali concretizzatasi nel “famigeda Salvo Lima, ha avuto una grande carriera anche fuori dall’isola: deputato dall’83, ministro più volte, direttore del Popolo, fondatore del Ppi - di cui fu pure capogruppo - e ora sulla soglia della Corte costituzionale. Se non è ancora nuovo giudice della Consulta, però, lo deve intanto ai rappresentanti

rato” articolo 8 della manovra di agosto, ed ora rivelatosi quale traduzione normativa di un punto fondamentale della “famosa” lettera di Trichet e Draghi al Governo italiano. È infatti fondamentale cogliere questa strettissima connessione tra relazioni sindacali da un lato e strategia complessiva di abbattimento del debito pubblico dall’altro: si tratta infatti di una questione essenziale di politica generale, come dimostrano le non coordinate dichiarazioni politiche che si sono manifestate proprio in riferimento a questo passo della lettera Trichet-Draghi. Allorché si cerca di definire una linea complessiva di governo dell’Italia contemporanea, non vi è dubbio che il discrimine di fondo passa proprio in riferimento al rapporto tra relazioni sindacali da un lato e debito pubblico dall’altro. Siamo stati infatti abituati a considerare le relazioni sindacali parte sostanziale dello stesso indirizzo di governo per tutto il tempo che abbiamo chiamato della Prima Repubblica. È questo un punto fondamentale della stessa costruzione di una proposta di governo.

autovetture Fiat. Il riferimento esplicito che Marchionne fa nella sua lettera alla Marcegaglia induce infatti a ritenere che lo scontro non ha ad oggetto né il mercato italiano dell’auto né gli investimenti che la Fiat si è impegnata ad operare sul territorio italiano. Si tratta di punti molto rilevanti proprio per quel che concerne il lavoro: le reazioni che i maggiori sindacati italiani hanno avuto proprio su questi punti dimostrano che il rapporto tra quantità del lavoro da un lato, e relazioni sindacali dall’altro, è stato un punto di sostanziale differenziazione della posizione dei sindacati medesimi. Anche da questo punto di vista, pertanto, la rottura tra Marchionne e la Confindustria deve essere vista nel contesto specifico dell’oggetto della produzione.

Il mercato globale impone non solo alle aziende ma anche agli Stati di ripensare le regole

Per quel che concerne il secondo punto, è di tutta evidenza che la vicenda Marchionne-Confindustria ha avuto e ha una sua specificità connessa proprio alla produzione di autovetture. L’Italia infatti costituisce anche nel nuovo contesto un mercato molto rilevante proprio per quel che concerne le

dell’Idv che ieri non hanno votato; poi ai molti assenti del Pd e infine a un nemico «illustre».Tale Berlusconi Silvio. Un anno e mezzo fa, per dire, il nome di Sergio Mattarella era stato avanzato dal Pd per il posto di vicepresidente del Csm, ma gli sherpa del centrodestra opposero il veto personale del Cavalie-

Per quel che concerne infine il terzo punto, è di tutta evidenza rilevare che il contesto nuovo della globalizzazione costituisce lo sfondo imprenditoriale delle specifiche decisioni di Marchionne. Altro è guardare alla globalizzazione in un’ottica strettamente statual-nazionale, altro è guardare ad essa in un’ottica privato-competitiva sovranazionale. Si è molto discusso anche in Italia dell’emergere prima, e del diffondersi oggi, di un processo di globalizzazione che mette sempre più in discussione la dimensione nazionale dello Stato, che – soprattutto nell’Europa continentale – ha plasmato

re. Il motivo? Non certo una cosa così poco significante come la politica, ma l’assai più rilevante questione dei suoi interessi privati. Roba di vent’anni prima.

All’indomani dell’approvazione della legge Mammì sul sistema radiotelevisivo, che si limitò a sancire l’esistenza di fatto del

contestualmente Stato, mercato e democrazia. Le relazioni sindacali si sono lungamente modellate anche esse proprio nel contesto dello Stato nazionale, così come la democrazia si è venuta sviluppando prevalentemente su modelli elettorali tutti comunque rinchiusi all’interno dei confini nazionali. Il processo di integrazione europea aveva già rappresentato un significativo progetto di superamento degli Stati nazionali, senza peraltro che si giungesse ad una compiuta ipotesi di scomparsa delle relazioni sindacali medesime. Anche le ultime elezioni europee non hanno in alcun modo scalfito la dimensione nazionale delle singole democrazie statuali. Il contesto della globalizzazione in atto vede peraltro una significativa differenziazione proprio tra gli Stati europei da un lato e gli Stati Uniti dall’altro: unificati gli uni e gli altri nel contesto di “Occidente”, sono infatti diverse proprio le strategie concernenti debito pubblico e relazioni sindacali.

Sono queste le coordinate di fondo della lettera Trichet- Draghi; sono le ragioni essenziali del “famigerato”articolo 8 della manovra di agosto; sono le motivazioni ultime della lettera di Marchionne alla Marcegaglia. Si apre ora la questione nuova del rapporto tra grandi imprese sostanzialmente statali e sistema imprenditoriale privato: è questa la sfida nuova, di fronte alla quale si troveranno da un lato la Confindustria, dall’altro i sindacati e infine il governo stesso dell’Italia. Ma di questo aspetto sarà necessario uno specifico approfondimento.

duopolio Rai-Fininvest, Mattarella si dimise per protesta da ministro della Pubblica istruzione insieme ai colleghi di governo appartenenti alla sinistra Dc (Martinazzoli, Misasi, Mannino, Fracanzani): De Mita combatteva all’epoca una guerra non tanto sotterranea contro Bettino Craxi, che era

validamente sostenuto – via etere e finanziariamente – proprio dall’attuale capo del governo. Questo il pregresso e il Cavaliere, si sa, può forse dimenticarsi di andare a festeggiare l’elezione di un presidente americano, ma non certo del nome di uno che ha tentato di ostacolare i suoi affari.


quadrante

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Messico, arrestati 172 poliziotti

Siria, No di Mosca e Sì di Erdogan

CITTÀ DEL MESSICO. Le truppe federali hanno arrestato 172 poliziotti locali, di sette diversi municipi, sospettati di dare protezione alle organizzazioni dei narcos, nello stato di Nuevo Leon, al confine con gli Stati Uniti. L’operazione è stata condotta da militari e polizia federale. I poliziotti fermati saranno adesso sottoposti ad accertamenti e si trovano agli arresti domiciliari. Nello stato di Nuevo Leon, nel settembre scorso, erano stati arrestati per complicità con i narcos 113 poliziotti del municipio di Santa Catarina e il 27 giugno il dirigente della polizia della stessa località, German Perez Quiroz, era stato assassinato nel suo ufficio.

NEW YORK. Mosca non sosterrà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il progetto di risoluzione sulla Siria, proposto dai Paesi occidentali, ritenendolo «inaccettabile» per la prospettiva delle sanzioni e dell’interferenza esterna, nonché per il mancato appello al dialogo tra le parti. Lo ha detto il viceministro degli Esteri russo Ghennadi Gatilov, confermando la spigolosa posizione del Cremlino rispetto ad Assad. E mentre gli sherpa cercano una soluzione, la Turchia di Erdogan si è detta pronta ad annunciare nei prossimi giorni un nuovo pacchetto di sanzioni contro il regime siriano. Già dato il via libera, invece, al congelamento dei beni di Assad, che ammontano a 500 milioni di dollari.

Strage in Somalia, almeno 70 morti MOGADISCIO. Un’esplosione all’esterno di un edificio governativo a Mogadiscio, capitale della Somalia, ha ucciso ieri almeno 70 persone e ne ha ferito almeno una cinquantina. Fra le vittime studenti, soldati e civili. Testimoni oculari hanno riferito di un camion contenente esplosivo che si è schiantato contro i cancelli di un compound che ospita alcuni edifici governativi, provocando la strage. Un portavoce del gruppo islamista al-Shabaab ha rivendicato l’attentato con una telefonata all’agenzia Afp. «Uno dei nostri mujaheddin si è sacrificato per uccidere dei responsabili del governo federale di transizione, dei soldati dell’Unione africana e degli informatori che si trovavano all’interno».

Il progetto del Premier? Riunire alcune repubbliche ex sovietiche in un unico spazio economico comune

Putin e la rinascita dell’Urss Inaugurata l’Unione euroasiatica, ma è un ritorno al passato di Martha Nunziata ladimir Putin, a poco più di un mese dall’apertura della campagna elettorale esce allo scoperto e svela (anche se era un segreto di Pulcinella, visto che analisti, sia russi che internazionali, da tempo avevano capito dove stesse andando a parare) il suo ambizioso progetto di crescita e sviluppo: l’Unione euroasiatica. Il primo ministro di Russia e candidato ad un futuro nuovo mandato come presidente della Federazione russa, ha concesso un’intervista al quotidiano Izvestia, nel quale parla di un progetto per una futura Unione Euroasiatica, simile all’Ue, nel quale sarebbero comprese diversi Paesi che una volta facevano parte del gigantesco apparato della ex Unione Sovietica. Putin farà di questo progetto il punto di forza della sua politica estera nella campagna per le elezioni del 2012 e sostiene che la futura Unione euroasiatica diventerà partner dell’Ue per la creazione di un nuovo spazio economico comune, garantendo ai propri membri una posizione più forte. L’iniziativa prenderà corpo già dal prossimo gennaio, con l’ingresso di Kirghizistan e Tagikistan nell’unione doganale che fin da ora lega Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Per poter rimanere al potere nei prossimi anni, del resto, il premier russo ha bisogno di rinsaldare l’economia e farla crescere per migliorare la fiducia sia del mercato interno sia di quello esterno: imprenditori russi e occidentali stanno a guardare.

Per poter rimanere al potere nei prossimi anni il premier russo ha bisogno di rinsaldare l’economia e farla crescere per migliorare la fiducia sia del mercato interno sia di quello esterno: imprenditori russi e occidentali stanno a guardare. Un cuscinetto, tra Europa e Asia che si caratterizza per un solido coordinamento delle politiche economiche

V

Un cuscinetto, tra Europa e Asia che si caratterizza per un solido coordinamento delle politiche economiche e valutarie. Una sorta di “ponte” tra Asia ed Europa che, sfruttando i vantaggi dell’integrazione monetaria, rafforzi i singoli stati e costituisca un grande mercato. L’“Eurasia” che non si contrapponga all’Unione Europea, ma che ne sia uno dei principali interlocutori. Non si tratta, chiarisce Putin, di rifondare l’Unione Sovietica, nessuna intesa politica come è avvenuto in passato, ma una moderna e più attuale intesa economica per il libero scambio di capi-

tali e manodopera: «Cercare di restaurare o di copiare ciò che è rimasto del passato è da ingenui - dice l’attuale primo ministro russo - ma una stretta integrazione su basi economiche e politiche e su nuovi valori è un imperativo dei tempi». Il premier russo, non nasconde il suo scetticismo sui tempi d’ingresso di Mosca nell’Organizzazione mondiale del commercio, parlando di difficoltà all’interno del Wto. La situazione politica russa, comunque, negli ultimi tempi, è stata ricca di diversi colpi di scena: a cominciare dal leader del Cremlino Dmitri Medvedev che ha umiliato e licenziato, durante una diretta televisiva, e nel mezzo della crisi finanziaria internazionale, il vicepremier e ministro delle Finanze Alexiei Kudrin,

l’autorevole architetto della stabilità economica del Paese, vecchio amico del premier Putin.

Ed era anche ormai il ministro più longevo non solo del governo ma anche del G20. Medvedev aveva chiesto, infatti, le dimissioni di Kudrin per via delle dichiarazioni inappropriate di quest’ultimo, che aveva detto che non avrebbe voluto fare parte di un eventuale nuovo governo guidato dall’attuale presidente Medvedev. E questa dichiarazione gli è costato il posto. E poi altro coup de theatre: il violento scontro di potere in questa campagna elettorale, dopo il siluramento dell’oligarca Mikhail Prokhorov dalla guida del partito Causa Giusta, orchestrato dal

Cremlino per l’eccessiva libertà di manovra del magnate. La colpa di Prokhorov è quella di aver sparato a zero contro il vicecapo dell’amministrazione presidenziale, Viaceslav Surkov, uomo vicino al premier Vladimir Putin e ritenuto l’ideologo del Cremlino, il tessitore di tutte le trame politiche.«Nel Paese c’è un burattinaio che da molto tempo ha monopolizzato il sistema politico e controlla i mass media, finché tali personaggi guideranno il processo politico il Paese non potrà avere uno sviluppo: il nome di questo burattinaio è Surkov», queste sono state le parole dell’oligarca.Ma, le scosse di terremoto nella politica russa potrebbero non essere finite, soprattutto dopo che il tandem al potere ha annunciato uno scam-


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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Usa, protesta indignados si allarga ad altre città e arriva a Washington

Direttore da Washington Michael Novak

NEW YORK. Il movimento di protesta contro Wall Street continua ad allargarsi e dopo NewYork, Boston, Los Angeles, Chicago, ora tocca anche Washington D.C. dove per domani è in programma una marcia per «denunciare i sistemi e le istituzioni che sostengono la guerra ad oltranza e l’illimitata avidità delle corporation». Il movimento è senza un leader e un’agenda organizzata ma chi ne fa parte è certo di poter trasformare la protesta multiforme e variegata in una causa nazionale duratura. I manifestanti denunciano i capitalisti delle corporation che - appoggiati da politici corrotti - hanno fatto pendere l’ago della bilancia del sistema economico troppo a favore dei potenti, condannando in questo modo tutti gli altri ad essere sommersi dai debiti e a non avere opportunità. Un pensiero riassunto dallo slogan di un manifestante: «Gli squali del credito si sono mangiati il mio mondo». Il movimen-

e di cronach

Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

to ha attratto alcune celebrità, come l’attrice Susan Sarandon e l’ex governatore di New York, David Paterson. Ed è stato oggetto di apprezzamento anche da parte del miliardario George Soros, per il quale i manifestanti hanno ogni ragione del mondo ad avercela con il sistema finanziario americano che ha messo a repentaglio il loro futuro. «Posso simpatizzare con le loro proteste», ha dichiarato ai giornalisti al quartier generale Onu.

Emomali Rahmonov (Tagikistan); Rosa Otunbayeva (Kirghizistan) e Alexiei Leoninidovich Kudrin

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

bio di ruoli, con il ritorno di Putin al Cremlino e la designazione di Medvedev a premier del futuro governo. Le elezioni del 4 dicembre sono considerate da molti una farsa. Ormai ci possiamo aspettare di tutto. Anche che l’Unione Eurasiatica non sia altro che il nuovo tentativo del Cremlino di riacquisire le ex repubbliche sovietiche, tesi supportata anche da alcuni analisti, che oggi strizzano l’occhio all’europa. Ma questi paesi si sentono scoraggiati per i criteri troppo rigidi e i tempi burocratici infiniti dell’Ue, e per il fatto che oggi è troppo presa dalla nuova crisi economica. La politica dell’ultimo “zar” di Russia, Putin, è quella di realizzare quello che non poterono la forza e i carri armati (vedi la Cecenia), si cerca con accordi e concordati ( a confermarlo, in parte, sarebbero le invettive di Putin contro l’Ucraina, rea di tendere verso l’Europa, snobbando l’Eurasia).

In questi ultimi giorni, comunque anche l’Europa si sta muovendo, esattamente a metà della presidenza polacca dell’Ue e a pochi giorni prima delle elezioni politiche in Polonia, i dirigenti dei 27 stati membri e dei sei paesi limitrofi dell’Europa orientale si incontrano a Varsavia per rilanciare il Partenariato orientale: è un rapporto privilegiato di collaborazione con l’Ue basato su libero scambio, eliminazione o riduzione dei costi dei visti, borse di studio per gli studenti e sostegno alle associazioni e alle fondazioni. Il Partenariato ha visto la luce due anni fa a Praga, ma in quella occasione i dirigenti europei erano venuti soprattutto per ave-

«Restaurare ciò che è rimasto del passato è da ingenui - ha detto lo Zar russo ma l’integrazione è un imperativo» re una foto con il nuovo presidente americano Barack Obama, ospite d’onore del vertice. I vicini orientali dell’Ue sono entrati solo in modo accessorio nelle discussioni, orientate più sulle relazioni dell’Europa con l’America e la Russia, sul crollo dei mercati finanziari, sulle guerre in Iraq e in Afghanistan e sul cambiamento climatico. Del resto i leader dei tre paesi che sostengono l’iniziativa di un rapporto di collaborazione privilegiato con i paesi del Mediterraneo, cioè Francia, Italia e Spagna, non sono andati a Hradcany. Inoltre per quanto riguarda l’Europa orientale, l’Unione è in concorrenza crescente con altri paesi. Ed è l’unica a condizionare i suoi aiuti all’apertura dei mercati o all’adesione ai valori europei e al rispetto della democrazia e dei diritti dell’uomo. A quanto pare la Russia, la Turchia, l’Iran e la Cina non hanno esigenze del genere. Per di più il poco interesse che gli Stati Uniti attribuiscono a questa par-

te del mondo riduce le motivazioni dei paesi della regione a stabilire dei legami stretti con l’Occidente, al contrario del carattere prioritario che Washington accordava alla Polonia, all’Ungheria, alla Repubblica ceca, alla Slovacchia o alle repubbliche baltiche all’inizio della loro trasformazione. In Ucraina il sostegno all’adesione all’Unione è passato dal 65 per cento nel 2002 all’attuale 51 per cento. Mosca è sempre stata più vicina di Bruxelles o di Berlino. La novità è oggi rappresentata da Pechino. In Armenia e in Azerbaigian nessuno, a eccezione di un piccolo gruppo di intellettuali filo-occidentali, pensa all’adesione all’Unione europea. Nel Caucaso la maggior parte delle automobili usate proviene da Dubai e non dalla Germania. E il modello di ricchezza più conosciuto e ambito è proprio quello di Dubai, mentre l’Europa e i suoi valori rimangono qualcosa di molto astratto. Per rianimare il progetto di Partenariato, l’Unione dovrebbe inviare un segnale forte alle popolazioni dell’Est, per esempio sopprimendo i visti per i cittadini dell’Ucraina, della Moldavia e forse della stessa Russia. La diffidenza russa nei confronti del progetto è stata sconfitta soprattutto grazie al lavoro della diplomazia polacca, anche se Mosca continua a vedere i paesi inseriti nel progetto di Partenariato orientale come parte integrante della sua zona di influenza esclusiva. Il successo del Partenariato non dipende però dalla decisione della Russia, ma dall’interesse reale che dimostrerà l’Unione per questo progetto. Un elemento che oggi sembra mancare.

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cultura

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Oggi al via alle alle Scuderie del Quirinale “Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del 400”: circa sessanta opere tra tavole, affreschi e disegni

Alle pendici della grazia Con Filippino Lippi si riscopre un Rinascimento romantico e non vezzoso, che apre ai titani dell’arte di Rita Pacifici ualcosa sarebbe mancato al quattrocento fiorentino, commentava Andrè Chastel, senza la capacità visionaria di Filippino Lippi, senza quel segno bizzarro e quel soffio di anticlassicismo che rompe le righe e il perfetto equilibrio della pittura dell’età medicea. Certamente, negli anni che videro imporsi i dipinti di Botticelli come marchio inimitabile dello stile fiorentino, anche Lippi contribuì alla definizione dei valori propri dell’artista di cui fu allievo, tanto che alcune sue opere furono a lungo attribuite ad un certo “Amico di Sandro”. Un anonimo pittore vissuto di luce riflessa, del tutto assorbito nel cerchio magico del maestro. Stesse apparizioni lievi e incorporee, stessa abilità nel materializzare la bellezza ideale, dando forme indimenticabili agli angeli e alle Madonne, ai volti dalle linee pure, ai veli trasparenti e leggeri. Eppure Lippi si esprime con accenti personali, ben individuabili. «Botticelli sta a Filippino come Maupassant a Loti», ha scritto Bernard Berenson. Vale a dire che se il primo è più mentale e conciso, il secondo è più “esotico” e spontaneo. E ancora: «Filippino è come Chopin», dalla vena romantica, capace di irrompere nelle atmosfere astratte dell’umanesimo con un tocco improvviso di poesia.

Q

sente con lavori celebri e altri raramente visti come la Derelitta, concessa in prestito dai principi Pallavicini, e con quella di alcuni pittori collegati tra i quali Piero di Cosimo e Raffaellino del Garbo. Uno spaccato delle tendenze del tempo e una consistente testimonianza dell’attività dell’artista che nasce a Prato nel 1457, muore a

torno al figlio, se ancora Gabriele D’Annunzio intitolava agli amanti clandestini una delle Faville del maglio.

Il percorso accanto al padre è assai breve. A soli dodici anni Filippino rimane orfano e inizia a lavorare con Botticelli, figura di spicco della bottega di Lippi. Con lui nel 1481 è a Roma come assistente sui ponteggi della Sistina.Appartengono a questi anni lavori esemplari dello stile messo a punto dal padre, perfezionato con successo dall’amico e ripreso da Filippino con fedeltà e scioltezza : I tre arcangeli, di proprietà della Galleria sabauda, l’Adorazione dei Magi, della National Gallery, restaurata per l’occasione, la Pala Magrini eseguita per San Michele in Foro a Lucca, le due incantevoli Madonne, la Strozzi del Metropolitan Museum e quella degli Uffizi, eterea e malinconica madre in adorazione del bambino. Spicca tra la produzione giovanile anche un Uomo con arpa da braccio, che arriva da Dublino, una novità nella ritrattistica e indizio degli interessi musicali del pittore. L’esordio pubblico è degno di nota: a venticinque anni, nel 1482, Filippino si trova a tu per tu con Masaccio per completare gli affreschi lasciati incompiuti nella Cappella Brancacci. L’inventiva di Lippi non è affatto messa a tacere dall’austero naturalismo delle scene. E se in alcuni passaggi l’artista dà prova di una non comune capacità mimetica, altri sono un saggio evidente della capacità di guardare al proprio

Alcune delle opere in mostra a Roma: uno stringente confronto della pittura di Filippino con quella del padre Filippo e di Botticelli, presente con lavori celebri e altri raramente visti. In apertura, “L’adorazione dei Magi” di Botticelli. In basso “L’apparizione della Vergine a S. Bernardo”. Nel tondo a sinistra, la “Madonna col Bambino”. Il piede è la “Storia di Virginia”

L’esordio pubblico è degno di nota: a 25 anni, nel 1482, si trova a tu per tu con Masaccio per completare la Cappella Brancacci

Or m ai r iv a lu t a t o del tutto,considerato autore non meno grande dell’amico, l’artista è per la prima volta al centro di un’importante rassegna monografica alle Scuderie del Quirinale di Roma. “Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del 400”, curata da Alessandro Cecchi (dal 5 ottobre al 15 gennaio), raccoglie circa sessanta opere tra tavole, affreschi e disegni su carta colorata, provenienti dai maggiori musei del mondo, e offre uno stringente confronto della pittura di Filippino con quella del padre Filippo, di Botticelli, pre-

soli quarantasette anni ed è ricordato nelle biografie per le origini singolari: figlio di frate Filippo, pittore di successo, e di suor Lucrezia Buti che aveva posato per lui, denunciati alle autorità dopo la nascita illegittima di Filippino (con una lettera anonima esposta insieme ad altri interessanti documenti). Una vicenda a lieto fine perché i due religiosi ottennero la dispensa papale e la carriera di Filippo non fu compromessa, ma dal sapore umiliante, che deve aver a lungo aleggiato in-

tempo e di comporre secondo i modelli antichi, qualità che avrà occasione di approfondire nel soggiorno romano.

Negli stessi anni in cui si confronta con la cappella Brancacci, Filippino sembra emanciparsi dalle atmosfere incantate predilette dal Botticelli, mostrando aperture nuove. Nel tondo Corsini, il più grande del rinascimento, quasi due metri di diametro, un paesaggio fluido si estende dietro i cherubini. C’è la stilizzazione di Botticelli

ma anche l’osservazione della natura praticata da Leonardo. E ci sono deliziose figure di angeli cantori, con uno spartito ben dettagliato che attirerà l’attenzione dei musicologi, a conferma della firma di Lippi. Il paesaggio tipicamente leonardesco tornerà, più aperto e ampio nella pala Rucellai e ancora in altre opere. Filippino è eclettico, versatile. I suoi modelli sono spesso opposti, divergenti, le sue costruzioni talvolta sottili e complicate come quando propone un’Annunciazione in due tondi distinti (da San Gimignano, con cornici quattrocentesche, ancora al loro posto) riunificando la scena grazie a dettagli incongruenti ma efficaci. Dietro la Madonna un orologio meccanico scandisce l’attimo sacro, ed è elemento raro da vedere, di una concretezza domestica inusuale.

Complessa anche la Visione di San Bernardo, conservata nella Badia Fiorentina, eseguita verso il 1485, capolavoro indiscusso dell’artista, dove Lippi, come nell’Annunciazione, mostra il debito nei confronti del rinascimento nordico. Pochi anni prima era arrivata a Firen-


cultura

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di bizzarrie” che “faceva meravigliare chiunque la vedesse”. Se fu solo volgarizzazione, “distruttiva anarchia” del linguaggio ereditato oppure anticonformismo e vera innovazione, come sostennero rispettivamente Berenson e Longhi, comunque la pittura di Lippi offriva al mercato di Firenze una proposta intermedia tra le epopee algide del Ghirlandaio e le soluzioni estetizzanti di Botticelli. Un’arte che esibiva il gusto per l’antico congeniale alla signoria fiorentina, che si abbandonava al piacere e alla leggerezza del racconto, preannunciando le novità proprie del manierismo, ma che non appariva troppo conforme alla parabola discendente che caratterizza l’ultimo decennio del quattrocento. Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492, l’età d’oro s’incrina e la predicazione apocalittica di Savonarola segnerà l’eclissi degli ideali umanistici.

Anche Lippi dovette adeguarsi, almeno in parte, al clima rigoroso sceso su Firenze con l’arrivo del frate ferrarese

ze, da Bruges, un’opera destinata a suscitare impressioni forti. C’erano voluti ben sedici uomini per trasportare nella chiesa di San Egidio il trittico realizzato da Hugo van der Goes per la famiglia Portinari. Un incontro folgorante per Filippino, che nella sua visione crea uno spazio alla maniera fiamminga, una natura animata e misteriosa, sfondo di un colloquio fatto solo di sguardi. Sotto il gruppo sacro, con gli angeli stretti intorno alla vergine che spuntano incuriositi dal manto, spia dell’immediatezza tipica di questo pittore, il ritratto del committente è “dipinto così bene che pare non gli manchi se non la parola”.

Il lusinghiero giudizio del Vasari corrisponde all’orientamento dei contemporanei di Lippi. Filippino fu apprezzato e ricercato moltissimo dall’ambiente fiorentino. Ancora poco autonomo per essere scelto insieme ai migliori talenti della città, quando si era avviata l’impresa decorativa in Vaticano, Lippi ottiene alla fine degli anni ottanta incarichi prestigiosi. Subentra a Leonardo in Palazzo Vecchio dove esegue la

Pala degli Otto, poi è Roma nella cappella del cardinale Carafa in Santa Maria sopra Minerva, raccomandato dallo stesso Lorenzo come “superiore ad Apelle”. Occorre vedere anche gli affreschi, oltre all’imponente sfilata di dipinti nella mostra romana, per comprendere quanto la fantasia dell’artista si dispiegasse liberamente, nonostante la complessità dei programmi iconografici.

Tra i primi a scendere nella Domus aurea, dove lascia il suo autografo, Filippino fa sfoggio delle impressioni dirette che offriva l’antichità appena riscoperta, ne recupera gli ornamenti fantastici e le figure mitiche ed anima le superfici con finte architetture che si aprono su uno scorcio realistico dell’ urbe. Sulla parete centrale i cherubini volteggiano in un girotondo e invece di strumenti celestiali suonano trombe, triangoli, tamburi e cornamuse. Persino superiore è la vivacità narrativa della Capella Strozzi, in santa Maria Novella, con effetti illusionistici tali da ingannare ci dice il Vasari, anche visitatori esperti. Filippino attinge a piene mani all’antichità classi-

ca, spinto da un incontenibile impulso alla citazione. La cappella, terminata verso il 1502, è un lungo catalogo di reperti archeologici reinventati dall’immaginazione del pittore, traboccante “di tal novità e varietà

che fu al potere per quattro, oscuri, anni e la produzione di fine secolo risulta varia, ambivalente nell’ ispirazione e negli esiti. All’Adorazione dei magi del 1496, realizzata per San Donato a Scopeto in sostituzio-

ne del lavoro mai terminato da Leonardo, con i bei ritratti in costume dei successori di Lorenzo, alla Pala per Tanai de’ Nerli nella chiesa di Santo Spirito con il bambino che gioca con la croce e gli archi antichi che immettono nella Firenze vera, dagli edifici riconoscibili, alla classicissima Allegoria della musica, proveniente da Berlino, si affiancano opere drammatiche, come il san Giovanni Battista e santa Maria Maddalena, esempi efficaci dell’arte severa di Filippino, dove le invenzioni cedono al rigore e all’intensa spiritualità richieste dal committente, capo dei seguaci di Savonarola.

Né Botticelli né Lippi bruciarono mai le proprie opere nei roghi della vanità durante il carnevale del ‘96 e del ‘97, come fecero i Della Robbia e altri artisti infatuati del nuovo apostolo, tuttavia il maestro e l’allievo risposero all’involuzione delle arti in modo assai diverso. E mentre nel 1501, nel Matrimonio mistico di Santa Caterina, Filippino ci regala un’altra delle sue madonne, così aggraziate e piene di fascino, che colpisce per l’atmosfera distesa e rassicurante, nello stesso anno Botticelli realizza le immagini vibranti, tese, della Natività mistica. L’unico quadro firmato del maestro è il manifesto del proprio turbamento spirituale, un dipinto dal ritmo serrato che sembra cancellare di colpo gli artifici delle composizioni moderne, lontanissimo dalle iconografie dell’Adorazione dei magi, delle storie di Lucrezia, dalle scene meravigliose che adornavano i palazzi dei Medici. Per lo spirito tormentato che aveva creduto nella forza della bello e aveva portato le favole antiche alla forma più alta, la crisi fu fatale, disperata, senza ritorno. Botticelli esce di scena, avviato verso una ricerca solitaria e di scarso consenso, lasciando libero il campo a Filippino, più agile nell’adeguarsi al clima di dubbi e incertezze che l’avventura del Savonarola aveva lasciato dietro di sé, così celebre e richiesto da essere costretto a declinare, per i troppi impegni, l’allettante offerta avanzata, nel 1502, dalla corte Gonzaga. Nel 1504 Lippi lavora alla sua ultima opera, la Deposizione, poi terminata dal Perugino, e insieme a Botticelli fa parte della commissione preposta a decidere la collocazione del David di Michelangelo. Proprio Filippino volle che il colosso, simbolo del nuovo corso politico e artistico della città, fosse posto davanti a Palazzo Vecchio. La stagione della grazia e dell’eleganza, fiorita attraverso la sensibilità dei due amici rivali, scivolata in un’inquietudine che aveva minato gli ingegni più in vista, può dirsi ormai conclusa. È il tempo di altri titani.


ULTIMAPAGINA I Paesi del Brics sono sempre più influenti sul palcoscenico mondiale. Le stelle e le armi sono il prossimo obiettivo

La corsa allo spazio riparte di Mario Arpino l 29 settembre è partito il primo modulo della stazione orbitale cinese, che una volta completata sarà abitata. Le agenzie riferiscono che il presidente Hu Jintao, il premier Wen Jiabao e tutti i “vertici militari”erano presenti nella sala controllo mentre l’evento per la prima volta in diretta – è un segno di maturata sicurezza – è stato seguito da milioni di cinesi. Ciò non può non portare, assieme al nostro plauso, ad una serie di preoccupanti riflessioni. I Paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) – lo si osserva bene nei G20 – per la prima volta sembrano essere i soli a detenere le risorse necessarie per la risoluzione dei problemi del debito occidentale.

I

In particolare, gli esperti stimano che sia la Cina quella economicamente più forte, se a fine agosto 2011 le sue riserve sono state stimate in oltre 3200 miliardi di dollari, le più ingenti nel mondo. Le voci sull’acquisto di titoli pubblici italiani e di partecipazioni in aziende pubbliche da parte del fondo sovrano cinese hanno quindi riaperto il dibattito sulle intenzioni future della Cina, fermandosi – visto il momento – a valutazioni di carattere prettamente economico. Già oggi le relazioni commerciali con l’Europa sono di valore maggiore, come interscambio, di quelle con gli Stati Uniti. È ormai evidente come il baricentro della crescita sia spostato verso l’Asia. Continuando di questo passo, con un Occidente economicamente nelle mani dei cinesi - cosa che non permetterà mai più ad America ed Europa di alzare la voce – appare evidente che occorre cominciare

DA PECHINO a sollevare lo sguardo dal piatto e valutare nel loro insieme le possibili conseguenze strategiche. Se attualmente il premier Wen Jiabao si dimostra amico – per convenienza, non certo per amore – nel 2012 il suo periodo terminerà, aprendo una ridda di incognite.

pieno di remore e limitato nelle risorse, mentre quello americano, che per direttiva di Obama è stato mutilato nelle sue attività essenziali, è in attesa di tempi migliori, che peraltro stentano a manifestarsi. Dopo il fermo dello Shuttle, l’atmosfera nella sede Nasa di Houston – questa è una testimonianza diretta – tra licenziamenti di personale esperto e fermo di programmi è quella di uno stabilimento in cassa integrazione. Il Capitolo quinto del piano, che tratta più specificamente gli aspetti spaziali, pur non dicendolo in modo esplicito, indica che già tra il 2020 e il 2030 la Cina potrebbe doppiare l’attuale supremazia russo-americana. Della convenzione di Mosca, che vieta l’uso militare dello spazio, nel piano cinese non c’è alcun cenno. Una dettagliata tabella delle attività prevede l’attivazione della prima base lunare abitata nel 2040 ed il primo atterraggio umano su Marte nel 2050.

Il rischio che in futuro, qualora venisse lanciata una nuova corsa agli armamenti, gli Usa e l’Occidente avrebbero serie difficoltà a competere con il dragone non è poi così remoto Se osserviamo anche solo superficialmente altri due aspetti strategici della crescita cinese – la politica spaziale e quella degli armamenti – e, parallelamente, il declino occidentale nei due settori – non possono non venire alla mente cattivi pensieri. Nello Spazio, senza remore circa gli aspetti militari, stanno seguendo sistematicamente un piano generale ben noto agli esperti di settore. Questo, edito dall’Accademia Cinese per le Scienze, ha per titolo “Space Science and Technology in Cina: a Roadmap to 2050”. Sinora, ciascuna “milestone” è stata conseguita con precisione cronometrica, in un momento in cui, al contrario, il Piano Spaziale Europeo continua ad essere Il presidente cinese Hu Jintao, che rimarrà in carica fino all’ottobre del 2012. Il suo posto dovrebbe essere preso dal suo attuale vice, Xi Jinping. In alto la Tiangong-1, lanciata con successo nello spazio lo scorso settembre

La notizia che la Cina stia costruendo una portaerei è passata quasi inosservata dal grande pubblico. Ebbene, le tecnologie sono modernissime, altamente innovative, con un costo che è circa un terzo – mentre la capacità operativa è doppia – dei prodotti dei cantieri occidentali. Il rischio che in futuro, qualora venisse lanciata una nuova corsa agli armamenti, gli Usa e l’Occidente avrebbero serie difficoltà a competere non è poi così remoto. C’è davvero da riflettere.


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