he di cronac
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Un uomo saggio coglie più
opportunità di quante ne trovi Francis Bacon
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 18 OTTOBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il presidente della Cei apre l’atteso seminario e sottolinea: «Ci muoviamo dentro la laicità dello Stato»
La svolta del mondo cattolico Oltre la Dc e la Seconda Repubblica: da Todi parte una nuova storia C’era il tempo dell’unità e c’è stato quello della diaspora. Ora c’è un nuovo traguardo: ritrovarsi sui valori. E Bonanni chiudendo i lavori dice: «Questo governo non va bene, ne serve uno forte» IL RISCATTO ITALIANO
LA STRATEGIA
Contro gli idoli di questa fase così disperata
L’importanza di voler essere “prepolitici”
I poliziotti: «Gli indignati siamo noi»
di Paola Binetti
di Luigi Accattoli
l tempo sembra maturo per affrontare senza tabù, ma anche senza inutili nostalgie, una domanda concreta sul posto dei cattolici in politica e su come un cattolico debba caratterizzare la propria presenza nel contesto in cui vive, a livello sociale, culturale e politico. E l’attenzione di tutti si è concentrata su Todi, proprio perché a Todi c’era tutto il mondo associativo cattolico, da quello più sensibile alle questioni sociali a quello che è convinto che sia la tutela della vita la nuova questione sociale. I cento di Todi ad alcuni sembrano una minoranza, ma a detta di molti altri rappresentano la maggioranza silenziosa che innerva il tessuto più sano del Paese. segue a pagina 4
mbito prepolitico, movimento, forum, laboratorio e rete, stati generali: sono i motti con segno positivo emersi ieri a Todi. Mentre quelli esorcizzati dai più sono stati: rifondazione della Dc, nuovo partito cattolico, nuovo comitato civico, costruzione di una lobby cattolica per influire sulla politica. Forse la parola più importante detta dal cardinale Bagnasco nella sua importante prolusione è stata “prepolitico”: «È con questo patrimonio universale [derivante dalla “autentica concezione dell’uomo” pienamente manifestata in Cristo] che la comunità cristiana deve animare i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica». a pagina 3
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Maroni: «Prepariamo nuove leggi»
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Il presidente del Movimento cristiano lavoratori
«Non un nuovo partito, vogliamo aprire la Terza Repubblica» Carlo Costalli scalda la platea dei moderati: «È finito il tempo di interventi limitati all’ambito culturale, serve una nuova spinta per il Paese intero» Francesco Pacifico • pagina 5
Israele ha già iniziato il rilascio dei palestinesi
Padre Tentorio lavorava da anni con i più poveri
Shalit, attesa per la liberazione
Ucciso a Mindanao un prete italiano
di Antonio Picasso
di V. Faccioli Pintozzi
ilad Shalit sarà presto libero. E con lui anche un numero poco chiaro di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Dopo una trattativa di giorni – o forse anni – che ha portato all’elenco dei beneficiari dell’amnistia, nel pomeriggio di ieri, è giunta anche la notizia del rilascio di circa ottanta cittadini egiziani. Lo scambio include la liberazione di Ilan Grapel, agente del Mossad.
opo 32 anni spesi in preghiera e dedizione, i frutti raccolti sono rappresentati da due proiettili sparati in faccia. Un missionario italiano, originario della zona di Lucca, non è scampato all’odio e all’avarizia dei “signori della terra”. Padre Fausto Tintorio, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), è stato ucciso ieri mattina nell’isola di Mindanao (Filippine).
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I QUADERNI)
Blitz in tutta Italia contro le sigle dell’estremismo: gli arrestati rischiano da 3 a 15 anni di galera. Roma, danni per 5 milioni
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• ANNO XVI •
NUMERO
202 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Dall’ordine pubblico malgestito alle frasi “eversive” al telefono
La rivoluzione dei Black bloc e quella di Berlusconi di Riccardo Paradisi erto, tra il dire e il fare c’è un oceano di differenza. E però all’indomani della devastazione di Roma messa in atto da black block, anarchici e elementi della sinistra antagonista fa un certo effetto leggere lo stralcio dell’intercettazione d’un colloquio risalente al 2009 tra Berlusconi e Lavitola. a pagina 7
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 18 ottobre 2011
Da Todi monito del mondo cattolico che reclama un suo ruolo per il dopo Berlusconi
Oltre la Dc oltre il bipolarismo
Raffaele Bonanni: «Abbiamo concordato che ci vuole un governo più forte perché questo non va bene» di Franco Insardà
ROMA. Prima del partito cattolico è necessario che i cattolici tornino protagonisti in politica. Raffaele Bonanni concludendo i lavori dell’incontro di Todi lancia un messaggio chiaro: «Abbiamo concordato che ci vuole un governo più forte, perché questo governo non va bene. Un governo più forte deve fare i conti con un accordo tra le principali forze politiche sulle questione essenziali per la sicurezza del Paese». Da Todi il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha lanciato un appello ai movimenti e le associazioni cristiane e gli ha dato mandato, in prospettiva della Terza Repubblica, di «impegnarsi per il bene comune» e di ricostruire un’Italia nella quale «i valori non sono negoziabili». Nel convento francescano di Montesanto Cisl, Mcl, Acli, Confartigianato, Coldiretti, Confcooperative, Compagnia delle opere e un nutrito gruppo di esponenti del mondo accademico, economico, dalle fondazioni culturali e bancarie e dall’associazionismo nazionale del mondo cattolico hanno preso parte i lavori del seminario “La buona politica per il bene comune”. Alla prolusione di Bagnasco sono seguite le tre sezioni di lavoro: ”Ripartire dai valori per fare comunità”, relatore Lorenzo Ornaghi, rettore dell’università Cattolica; ”Leve per una stagione di sviluppo”, relatori Corrado Passera, Ceo di Banca Intesa, e Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia per il Terzo settore; ”Costruire una politica orientata al futuro”, relatori Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica, e Giuseppe De Rita, presidente del Censis. Secondo Lorenzo Ornaghi la presenza dei cattolici «se è chiamata a esprimersi, proprio è innanzitutto sulla base dei propri valori, anche in un consesso partitico-elettorale, sarà decisiva rispetto alle irrisolte questioni che rendono stagnante la politica nella nostra democrazia, come in molte altre democrazie dell’Occidente. E pur obbligata a passare attraverso il prevedibile processo di scompaginamento-ricomposizione delle forze politiche al RAFFAELE BONANNI momento in campo, la presenza cattolica sarà tanto più rilevante ed efficacie, quanto più riuscirà a lavorare - intervenendo già oggi sulla realtà attuale con idee, azioni opere, collettive - per la realtà dell’ormai incombente domani». Processo che. secondo Ornaghi. va condotto «nel dialogo con i laici».
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Un governo più forte deve fare i conti con un accordo tra le principali forze politiche sulle questioni essenziali
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Da Todi si è voluto sgombrare il campo da nostalgie del passato e da eventuali tentativi di formare un partito dei cattolici. «Sento molte critiche all’idea di ricostruire la Dc, ma non ho sentito nessuno nel nostro convegno parlare di costruzione di un partito cattolico» ha sottolineato il portavoce del Forum delle associazioni cattoliche, Natale Forlani». Ma, sottolinea Forlani, mettere in piedi in questa situazione, «l’idea di un nuovo partito genera solo confusione. I valori della vita sono valori unificanti per i cattolici, sono premesse che li uniscono e non sono contenuti del centrodestra o del centrosinistra».
Secondo il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, «chi parla di un ritorno alla Dc lo fa solo perché ha paura di un impegno unitario del mondo cattolico nella politica, nelle comunità locali, nel lavoro, nelle imprese, nel volontariato. Attraverso un nostro diretto impegno, vogliamo stimolare CORRADO PASSERA senz altro i cattolici, ma anche coloro che non lo sono, le altre componenti culturali, per rialzare il Paese attraverso non la demagogia, ma la responsabilità e l’impegno dal basso. Siamo lontani dall’idea di uno strumento partitico -assicura Bonanni - vogliamo essere un ponte di rapporto con tutte le culture, ma unificando fortissimamente tutte le nostre energie. La cultura fondata sulla dottrina sociale della Chiesa può essere davvero un sostegno forte per le tante preoccupazioni delle famiglie, dei lavoratori, dei cittadini e più in generale di tutte le persone che non vogliono smarrire la speranza di un cambiamento forte». Bonanni ha anche voluto sgombrare il campo di un suo impegno in politica: «Io rimango sindacalista fino alla fine. I miei militanti e i dirigenti sindacali sanno che ho promesso di stare alla Cisl fino al termine del mio mandato quello che interessa alla mia organizzazione sindacale è che ci sia un’Italia meglio governata». Ma a proposito di elezioni Bonanni definisce l’attuale sistema elettorale « truffaldino. I cittadini devono avere un’altra volta il potere di scegliere i propri rappresentanti». Su l’eventuale partito dei cattolici si è soffermato il presidente delle Acli Andrea Olivero: «Aspettiamo le risposte e raccogliamo eventuali disponibilità, ma rimaniamo netti nel respingere operazioni che possono soltanto metterci un cappello addosso. Gli interlocutori li possiamo individuare indicando in maniera sempre più precisa i nostri obiettivi, le nostre stra-
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Abbiamo bisogno di una vera crescita sostenuta e sostenibile sia dal punto di vista sociale sia finanziario
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tegie, le nostre proposte e confrontandoci con loro». Per il presidente delle Acli dobbiamo «tornare ad avere il senso dello Stato e rimettere al centro il tema della legalità e di una giustizia che parta dalle responsabilità di ciascuno e che porti le istituzioni ad essere rigorose e attente. Stiamo assistendo a un progressivo arretramento delle responsabilità dello Stato. Questo non va bene noi chiediamo più sussidiarietà. Lo Stato deve credere e deve investire nel welfare, che non possiamo accettare sia percepito soltanto in termini di costi».
Competitività delle imprese e coesione sociale per Corrado Passera, ad di Intesa SanPaolo, so-
LORENZO ORNAGHI
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I cattolici in politica, se sono chiamati a esprimersi anche in una competizione elettorale, saranno decisivi
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no «la duplice esigenza. Abbiamo bisogno di crescita sostenuta e sostenibile sia dal punto di vista sociale sia sotto il profilo finanziario nonché della compatibilità ambientale.La crescita si costruisce per condivisione di responsabilità e non per contrapposizione di interessi. Allora, serve una politica capace di usare sia lo
Il termine utilizzato in apertura è una novità per l’arcivescovo di Genova
La strategia di Bagnasco si chiama “prepolitica”
Il presidente dei vescovi italiani invita il movimento nascente a richiamare valori e intuizioni che sembrano dimenticati di Luigi Accattoli mbito prepolitico, movimento, forum, laboratorio e rete, stati generali: sono i motti con segno positivo emersi ieri a Todi. Mentre quelli esorcizzati dai più sono stati: rifondazione della Dc, nuovo partito cattolico, nuovo comitato civico, costruzione di una lobby cattolica per influire sulla politica. Forse la parola più importante detta dal cardinale Bagnasco nella sua importante prolusione è stata “prepolitico”: «È con questo patrimonio universale [derivante dalla “autentica concezione dell’uomo” pienamente manifestata in Cristo] che la comunità cristiana deve animare i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica».Citando Paolo VI il cardinale ha poi specificato che quell’animazione dei settori prepolitici mira a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza». Le parole di Papa Montini – che risalgono alla Evangelii nuntiandi del 1975 e risentono di un sentimento conciliare ancora generoso anche se non più marciante – suonano oggi come eccessivamente fiduciose, stante il generale ripiegamento delle speranze e delle illusioni, ma dicono bene l’intenzione del cardinale presidente della Cei che è tutta rivolta alla pedagogia della vita e dei modelli di vita e non alle ipotesi sugli scenari politici. Trovo significativo il recupero – da parte del cardinale – del concetto di “prepolitico”per determinare il campo in cui i vescovi vorrebbero collocato l’impegno del “Forum delle persone e delle associazioni d’ispirazione cattolica nel mondo del lavoro” che ha promosso l’appuntamento di Todi, in gestazione dallo scorso luglio. Di opzione ecclesiale per l’ambito del “prepolitico”– cioè della formazione alla politica – parlavano negli anni ’60-’70 le associazioni cattoliche che propugnavano la fine del collateralismo con la Democrazia cristiana. Quell’opzione ebbe il massimo teorizzatore nel gesuita Bartolomeo Sorge che al Convegno ecclesiale del 1976 (il primo dei Convegni ecclesiali nazionali che hanno poi visto le tappe di Loreto, Palermo, Verona) propose la costituzione di un “luogo” ecclesiale dove il laicato cattolico potesse convergere e discutere le proprie responsabilità in ordine alla politica ma senza compiere in esso opzioni politiche, restando queste demandate alla responsabilità dei singoli. Di prepolitico continuarono poi a parlare le “scuole di formazione all’impegno sociale e politico” che si formarono negli anni ’80 e godettero di buona salute fino quasi alla metà degli anni ‘90. A quanto proposto e un
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poco sperimentato allora pare si stia arrivando oggi con il “soggetto” che sta nascendo e che nessuno sa ancora dire che nome e struttura e funzione possa rivendicare. La parola “prepolitico” il cardinale l’ha usata ieri per la prima volta, se non vado errato, ma l’idea che essa esprime era già chiara in quanto aveva affermato il 26 settembre ad apertura del Consiglio permanente della Cei: «Sembra stagliarsi all’orizzonte la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che sia promettente grembo di futuro».
“Stagliarsi” è un’espressione ad eccesso, ma qualcosa si sta profilando. Già a commento del “manifesto”lanciato in luglio dal “Forum delle persone e delle associazioni”il professore Ornaghi – che insieme a Riccardi rappresenta l’interprete più accreditato dei vagiti della nuova creatura – invitava in un’intervista ad Avvenire a «guardare con attenzione davvero speciale a quel prezioso ‘giacimento’ di rappresentanze sociali che è il mondo cattolico», portatrici della “volontà” di svolgere un ruolo «non di second’ordine nella politica italiana». Per Ornaghi si tratta di «far agire e interagire, in modo sempre più armonico, ciò che in gran parte già esiste». Credo dica la stessa cosa Andrea Riccardi quando parla di “movimento di movimenti”, di “fase movimentista e non dell’organizzazione”e – anche lui – di “terreno prepolitico”. Un qualcosa dunque che sta prima della politica, ma non sta “prima” perché poi si sboccherà nell’agone politico, ma perché la scelta è di restare a quel “prima”, dove elaborare e concertare perché si possa avere una seria “interlocuzione con la politica”, secondo la formula del cardinale Bagnasco. Una parola chiara su che cosa possa oggi voler dire quest’ambito del “prepolitico” l’ha detta sabato il cardinale Ruini a Torino parlando al convegno“I cattolici e il ruolo dell’Italia nella storia”, quando ha escluso che si possa oggi “riproporre l’unità politica dei cattolici” ed ha affermato che “per avere rilevanza pubblica” i cattolici devono seguire ormai la via della «convergenza sui valori fondamentali», che si cementa prima della loro traduzione in politica e che poi ognuno cercherà di calare in scelte concrete all’interno dei vari schieramenti. «Certamente – ha concluso il cardinale rendendo ancora più chiaro che non pensa a un unico partito o schieramento – ciò ha una difficoltà intrinseca che è ineliminabile: ossia ciascuna forza politica tende ad avere una propria coesione interna e può dunque generarsi un conflitto tra l’appartenenza a questa e i punti essenziali per i cattolici. Allora sta al singolo cattolico essere capace di farli valere all’interno del partito. Questa è la sfida». www.luigiaccattoli.it
Di opzione ecclesiale per questo ambito parlavano negli anni ’60-’70 le associazioni cattoliche che propugnavano la fine del collateralismo con la Democrazia cristiana
strumento del mercato sia quello dello Stato, facendo lavorare insieme pubblico e privato, profit e non profit, tenendo insieme l’economia e la società e trovando aree di cooperazione e non di contrapposizione. L’Italia ha forza ed energie sulle quali costruire sia la competitività che la coesione sociale».
Anche Savino Pezzotta ed Enzo Carra hanno sottolineato come l’intervento del cardinal Bagnasco «riprende con forza la direzione di marcia impressa dal Concilio Vaticano II. Torna in primo piano la responsabilità sociale e politica dei laici. L’assenteismo sociale, per i cristiani, è un peccato di omissione. I laici non possono tacere ma hanno la grave responsabilità di portare un contributo specifico, chiaro e deciso puntato ai grandi problemi del lavoro, dell’economia, della politica, della solidarietà e della pace. Le indicazioni che oggi ha ribadito il Presidente della Cei nella linea del Concilio e dei Convegni ecclesiali non può che condurre anche a un rinnovato impegno delle associazioni cristiane e a un loro più incisivo e autonomo rapporto con la politica». Ai due si aggiunge anche il loro collega dell’Udc Renzo Lusetti: «Le parole del cardinale Bagnasco sono un grande insegnamento per tutti noi e un forte stimolo per un nuovo e rinnovato impegno dei cattolici in politica». Lo stesso presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni ha evidenziato che «Bagnasco ha sottolineato la dottrina della Chiesa cattolica, cioè l’invito ai cattolici a far politica, ad occuparsi del bene comune, tutelando innanzitutto quelli che sono i valori irrinunciabili della visione dell’uomo che ha la Chiesa. Tutti argomenti fondamentali sui quali i cattolici sono chiamati a impegnarsi».
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l’approfondimento
Bisogna lavorare per la pacificazione del Paese, abbattendo steccati che hanno creato, a destra e a sinistra, conflitti permanenti
Il dopo-Todi
Uscire tutti insieme dal disastro etico della Seconda repubblica si può. Ma prima occorre capire, senza scorciatoie e ipocrisie, quanto conti per ogni singolo cattolico la propria identità. Solo così la forza civile può diventare impegno politico di Paola Binetti segue dalla prima Quello di chi crede nel valore della famiglia e nella dignità del lavoro, di chi vuole un Paese solidale, ma anche tanto coraggioso da rilanciare nuove forme di imprenditorialità, soprattutto a livello giovanile. L’esigenza di aprire una nuova fase della politica italiana, dopo questi ultimi venti anni che tutti vorrebbero archiviare come una sorta di medioevo della Repubblica, ha aumentato il livello di attenzione nei confronti del ruolo che i cattolici possono svolgere. E nei cattolici sta aumentando il livello di consapevolezza sul fatto che debbono svolgere un ruolo di pacificazione nel Paese, abbattendo steccati che finora hanno creato a destra e a sinistra un’area di conflitto permanente. Serve una nuova cultura politica, che nulla ha a che vedere con le vecchie ideologie politiche ormai archiviate dalla storia, ma che affonda le sue radici nella rivalutazione di un modello culturale in cui l’uomo torna ad occupare il centro della scena. Bagnasco nella sua prolusione ha detto: «I cristiani hanno ricevuto il dono della fede, un bagaglio dottrinale, morale e sociale che ha ispirato e
fondato quell’umanesimo plenario di cui tutti godono anche se a volte sembrano volerne dimenticare o rinnegare le radici antiche e sempre feconde. Portare a tutti e in ogni ambiente questo patrimonio, con la coerenza della vita e il coraggio della parola fino alle conseguenze sociali, è un servizio doveroso poiché è un bene per tutti». È da qui che deve ripartire un cattolico che intenda fare politica in modo coerente con le sue convinzioni e i suoi valori. La diaspora del voto cattolico ha caratterizzato in questi venti anni le speranze e le delusioni di molti italiani, sia di chi sperava che i cattolici riuscissero ad imprimere nei rispettivi partiti un passo diverso, contrastando i rischi della deriva laicista riconoscibile in ognuno degli schieramenti. Ad alcuni la diaspora appare come un dato consolidato nei fatti, anche se costantemente rimesso in discussione in momenti di criticità, come quello che stiamo vivendo. C’è una palese contraddizione tra la rilevanza sociale dei cattolici e la loro marginalità politica, sulle cui ragioni il dibattito resta comunque aperto. C’è chi attribuisce la loro marginalità alla distribuzione-dispersione nei vari par-
titi, chi invece lamenta una carenza identitaria, per cui i cattolici, essendosi secolarizzati, non agirebbero più in modo sufficientemente coerente.
In un caso e nell’altro la soluzione sarebbe diversa: nel primo l’unica soluzione credibile è quella di tornare a dare vita insieme a un soggetto politico forte; nel secondo caso la soluzione è quella di ricominciare dalla formazione politica, per rilanciare i valori forti della propria identità. Alla diversità delle premesse, segue anche la diversità delle rispettive promesse, nel primo caso la ricerca dell’unità si gioca sul piano rela-
È necessario ignorare le lusinghe di una “politique” ormai solo “politicienne”
zionale, sulla capacità di mediazione e di integrazione, nel secondo caso l’unità va cercata nel costante riferimento di tutti a una stessa fonte di formazione, come la Dottrina sociale della Chiesa. Ancora Bagnasco parlando all’assemblea di Todi: «Quanto più le difficoltà culturali e sociali sono gravi, i cristiani tanto più si sentono chiamati in causa per portare il loro contributo specifico, chiaro, e deciso, senza complessi di sorta e senza diluizioni ingiustificabili, poiché l’uomo non è un prodotto della cultura, come si vuole accreditare, e la società non è il demiurgo che si compiace di elargirgli questo o quel riconoscimento secondo convenienze economiche, schemi ideologici o dinamiche maggioritarie. L’uomo è in sé il valore per eccellenza, che di volta in volta si rifrange in una cultura che tale è quando non lo imprigiona, consentendogli di porsi in continuo rapporto con la propria verità». Di fatto la vera sfida di Todi è rivolta proprio all’universo cattolico degli italiani perché ciascuno nel proprio contesto personale e professionale, culturale prima ancora che politico sia capace di vivere con coerenza la propria fede e si sforzi di tradurla in com-
portamenti che la rendano visibile anche agli altri. Non si tratta di una operazione politica volta a determinare le prossime scadenze elettorali in un senso o nell’altro, ma di una operazione molto più complessa che sollecita ogni cattolico a intraprendere un cammino di conversione personale perché non ci conformi con una sorta di doppia vita, per cui le parole esprimono valori che le azioni contraddicono. Da Todi viene un segnale positivo in tal senso, un invito forte a tutti i cattolici perché agiscano sempre coerentemente con i loro valori, nella vita personale e nella vita sociale, anche quando la battaglia è difficile e le conseguenze dure da accettare. Ma proprio in questi casi l’unità dei cattolici può sostenere coloro che di volta in volta dovessero sentirsi in difficoltà, per aiutarli a non sentirsi soli e a trovare il coraggio di una efficace testimonianza. Perché questo è un punto chiave rispetto all’incontro di Todi, un punto che un’attenzione ossessiva al mondo politico, finora ha fatto trascurare. I politici a Todi non ci sono, perché da Todi il discorso sarà diretto prima di tutto e soprattutto alla società civile, ai cattolici impegnati nella
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Il presidente del Movimento cristiano dei lavoratori delinea l’alleanza tra associazionismo e politica
«Non serve un nuovo partito, ma l’impegno di tutti i cattolici»
Per Costalli bisogna «partecipare a una stagione di ricomposizione del quadro istituzionale. Guardiamo già in ottica di Terza Repubblica» di Francesco Pacifico
ROMA. Quando è toccato a lui prendere la parola, Carlo Costalli ci ha messo davvero poco a vivacizzare la platea del“Forum del mondo del lavoro” di Todi: «Non è più il tempo solo di scelte culturali». E il concetto, per il presidente del Movimento cristiano dei lavoratori, non è nuovo, visto che da tempo richiama i cattolici a un maggiore ruolo nella cosa pubblica. Dentro o fuori i partiti. Bilancio del Forum? Il bilancio è stato sicuralmente positivo. Siamo riusciti a mostrare un’unità del mondo cattolico, che non era mai stata così evidente dagli anni della fine del Concilio II Vaticano in poi. Le grandi rete cattoliche, il forum della famiglia, per un’unità che è soprattutto propositiva. Con quali obiettivi? Ci deve essere la volontà di essere presenti nel dopo Berlusconi: confrontarsi e partecipare ai processi che si apriranno con l’avvio di una nuova fase politica. Noi lavoriamo nella prospettiva della Terza Repubblica, perché la Seconda, della quale non possiamo che dare un giudizio a dir poco negativo, ci auguriamo sia agli sgoccioli. Cosa ci attende? Si verificherà una scomposizione, che riguarderà anche l’aspetto partitico. E i cattolici devono partecipare alla ricomposizione del quadro politico nella maniera più omogenea possibile. Ecco, il partito cattolico. Al momento non esiste un progetto di questo tipo. E non è opportuno perseguirlo perché si creerebbe soltanto l’ennesimo piccolo partito cattolico, un’altra riserva indiana. È una mia considerazione, ma credo che nel futuro più prossimo sarà decisivo scandire la politica attraverso i valori del Partito popolare europeo. Entri più nello specifico. Famiglie, lavoro e imprese sono i valori cardine sui quali costruire una nuova Italia. Concetti da lanciare in chiave partecipativa, non antagonista. È il programma del futuro partito? Se mai nascerà, sarà l’epilogo di un percorso che ha finalità molto più ambiziose. Più di questo non voglio, anzi non posso dire, perché la conclusione di questo provasta rete delle attività professionali, nelle università e nel mondo economico, nelle iniziative del volontariato: dovunque, perché ognuno in prima persona torni ad agire coerentemente. Il tema vero è se i cattolici riusciranno a ridare alle cose importanti il peso che hanno, ridimensionando gli aspetti di contorno puramente strumentali, per difendere ciò che davvero vale a prescindere da chi lo propone. Il punto è quanto conti per ogni cattolico la sua identità cattolica: quanto siano solide le sue convinzioni, quanto siano motivate le sue decisioni, quanto siano consapevoli le sue prese di
cesso dipende da tanti fattori contrastanti. Al momento, l’unica certezza è che i cattolici devono partecipare alla scomposizione e alla ricomposizione del quadro politico più uniti di prima. E forti di un’identità chiara e riconoscibile all’esterno. Si legge un pizzico di antipolitica. Vorrei tranquilizzare chi pensa il contrario, però noi non siamo mossi dalla volontà di escludere. Ma semplicemente da quella di includere. È la ricomposizione deve partire da coloro che sono presenti in Parlamento, non può prescindere da quelli che in questi anni, nelle istituzioni, hanno combattuto per salvaguardare i nostri valori. È difficile fondere realtà diverse. Se qualcuno a Montecitorio pensa che basti una ritinteggiatura per superare e
«Dico alle forze in Parlamento di non chiudersi nei propri recinti, altrimenti saranno travolte»
far dimenticare gli anni del berlusconismo, be’, allora sono folli. Allo stesso modo se qualcun altro all’ esterno del perimetro partitico si erge di fronte all’opinione pubblica in stile talebano, e annuncia che risolve tutto lui, siamo davanti a un altro folle. L’importante, quindi, è agire? L’ha chiarito perfettamente il cardinale Angelo Bagnasco, quando ha ricordato che «se per nessuno è possibile l’assenteismo sociale, per i cristiani è un peccato di omissione». Ognuno di noi deve prendersi le proprie responsabilità, poco importa se come singoli o all’interno delle grandi organizzazioni. Soltanto così si può fare un passo avanti. C’è chi teme il ruolo della Chiesa. Non parlerei del rischio di interferenze. Anche in questo caso mi rifaccio a quanto pronunciato ieri mattina dal cardinal Bagnasco. A quel passaggio con il quale ha riaffermato che «la Chiesa non vuole imporre allo Stato una visione confessionale, ma richiama la verità dell’uomo e così contribuisce alla realizzazione del bene comune». Un impegno gravoso. Noi facciamo riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Che ha il diritto di dire la sua, di influenzare la vita civile e richiamarci al rispetto di quelli che non a caso il Cardinale definisce “valori non negoziabili”. Ma le scelte sono e devono essere dei laici, non c’è lo spazio per il partito confessionale. Il centrodestra non gradisce. Mi meraviglierebbe vedere polemiche. A un giornalista del Fatto quotidiano che faceva notare quanto il richiamo di Bagnasco al ritorno dei valori cristiani al centro della vita pubblica “tagliasse fuori” Berlusconi, il ministro Sacconi ha replicato definendole castronerie. Capisco che ci sia molta preoccupazione da parte della politica. Ma chi fa quest’attività seriamente deve stare tranquillo, perché i movimenti cattolici lavorano per includere, per lanciare ponti. Se invece si vuole restare chiusi nei propri recinti, non ci si vuole confrontare, allora si che si sarà travolti.
Carlo Costalli, leader del Movimento cristiano lavoratori. Nella pagina a fianco, da sinistra: Andrea Olivero delle Acli; Bernard Scholz della Cdo e Andrea Riccardi di Sant’Egidio posizione. Si può essere uniti agli altri se c’è prima di tutto unità con se stessi. Si può essere coerenti e fedeli ai propri valori se si è disposti a portare il peso delle conseguenze che ne derivano. In questo caso è necessario recuperare unità e fare fronte compatto davanti a determinate questioni, senza cedere alle lusinghe di una politique ormai solo politicienne. Il problema vero non è quello dell’unità dei cattolici in politica ma quello di una visione condivisa
dei valori forti della politica. L’unità dei cattolici è reale solo se i cattolici sono personalmente uniti, uno ad uno, al Corpus di valori che la Dottrina sociale della chiesa ci propone. Possiamo essere uniti tra di noi, eventualmente anche stando in partiti diversi, se siamo uniti a questo Corpus dottrinale. Nella Prima repubblica il tema dell’unità era più facile, perché la forza dei modelli, troppo presto degenerati in ideologie, garantiva un’unità con l’identità del
partito che si irradiava nell’unità tra gli appartenenti a quello schieramento. La crisi attuale è grave e profonda non solo per i risvolti economico-finanziari che fanno sentire il Paese sospeso sull’orlo minaccioso del fallimento, ma perché rivela tutta la fragilità del tessuto politico-culturale che non è più in grado di esprimere modelli convincenti e di offrire soluzioni efficaci. E in questo senso i cattolici sembrano aver fatto un passo indietro, come se avessero rinunciato ad elaborare proposte innovative e coraggiose; è da qui che bisogna ricominciare. È da qui che tutti debbono ricomincia-
re. È in atto un processo involutivo che richiede il coraggio di innestare un cambiamento di rotta, con riforme forti sul piano della fiscalità generale, con un rilancio delle politiche demografiche e una nuova attenzione alla famiglia. Serve una diversa organizzazione del lavoro che renda possibile ai giovani un ingresso tempestivo nel processo di responsabilizzazione sociale, per mettere a servizio degli altri talenti personali e programmi condivisi. Occorre uscire dal disastro etico in cui siamo precipitati in una clima di complicità silente e di comoda rassegnazione. Ma questo è compito di tutta la società in un rinnovato slancio di unità e collaborazione tra politica e società civile, ricucendo una serie di strappi che in questi ultimi tempi hanno visto la politica smarrire il senso del suo vero servizio.
Sentiamo tutti che dopo la grande esperienza degli anni “magici” della Dc si è creato un grande vuoto, che si deve colmare, perché l’aria si è fatta irrespirabile. Quello stesso vuoto che hanno contribuito a creare i cattolici democratici quando a suo tempo impoverirono la tempra morale della Dc, cedendo alla banalità del male, permettendo che allignasse la corruzione, che il merito fosse soppiantato dalla raccomandazione, che la spesa pubblica crescesse, rimandando la vera soluzione dei problemi. Un vuoto che la Seconda repubblica non ha saputo colmare, lasciando a noi la responsabilità di provare nuove forme e nuovi modelli, senza rinunciare a testimoniare laicamente la nostra fede. Da Todi qualcuno si aspettava un partito nuovo, qualcun altro la consacrazione di una determinata formula politica, qualcun altro un monito severo a tutti i politici attuali, congedandoli definitivamente in attesa di tempi migliori e di nuovi testimoni... Penso che tutti costoro saranno rimasti delusi: nulla di questo genere... Noi che siamo rimasti a casa, garbatamente invitati a fare un passo indietro almeno in questa occasione, ci auguriamo invece che da Todi arrivi a tutti i cattolici, sia in forma personale che associata, l’invito ad agire sempre e comunque fedelmente alla loro vocazione, sul piano personale e su quello politico. C’è bisogno di ricominciare tutti insieme a ritrovare il senso dei nostri valori, ad arginare il relativismo pigro e anonimo della compiacenza nei confronti di chi ben poco ha da proporre a un ideale di vita cristiano. Non è la politica che rende ininfluenti i cattolici nei diversi schieramenti, ma la secolarizzazione di una società che ha perso la capacità di chiamare le cose con il loro nome e cerca delle mediazioni improbabili e improponibili per un cattolico serio. Il dopo-Todi è già cominciato e c’è spazio per tutti gli uomini di buona volontà che abbiano voglia di ricominciare ad essere un po’più cattolici, senza scorciatoie e senza ipocrisie.
politica
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Alcune scene della devastazione che ha colpito sabato scorso Roma. In occasione della manifestazione degli “indignati”, formalmente slegati da ogni tipo di rappresentanza politica, un manipolo di estremisti ha messo a ferro e fuoco la capitale. La loro presenza, e la reazione delle forze dell’ordine, ha scatenato un dibattito molto aspro nella società e nella politica italiana. In basso Gianfranco Fini
I poliziotti manifestano: «Gli indignati siamo noi». Gli arrestati rischiano dai tre ai quindici anni di reclusione
Maroni al contrattacco
Il Viminale lancia un blitz in tutta Italia contro le sigle estremiste e annuncia nuove leggi per colpire chi incita alla violenza di piazza di Francesco Lo Dico
ROMA. Punizioni esemplari subito e nuove regole in grado di dissuadere i facinorosi dal perpetrare violenze simili a quelle che hanno deturpato le strade di Roma sabato scorso. Il day after della manifestazione degli indignados è trascorso ieri su un doppio binario caratterizzato da un clima politico incandescente. Un’operazione a tenaglia che ha visto ieri le forze dell’ordine dar vita a un centinaio di blitz dalla Lombardia alla Sicilia. E che vedrà oggi il ministro degli Interni, Roberto Maroni, annunciare in Senato una proposta per «nuove misure legislative, che possano consentire alle forze dell’ordine di prevenire più efficacemente le violenze».
Intervenuto ieri a un incontro con Assolombarda a Milano, il titolare del Viminale ha detto ai giornalisti di essere «d’accordo con l’onorevole Antonio Di Pietro, che ha detto che servono nuove norme per prevenire, una legge Reale Bis». Il provvedimento che il ministro degli Interni intende riportare in auge è quello che porta il nome di Oronzo Reale, ex Guardasigilli che nel clima roven-
te degli anni di piombo garantiva alle forze dell’ordine il diritto a servirsi di armi in caso di necessità e diffidava i cittadini dal travisare il volto con caschi o indumenti in grado di rendere difficoltosa la loro identificazione. Ieri intanto è proseguita senza sosta la maxioperazione delle forze dell’ordine, che hanno fatto irruzione in numerosi ambienti anarco-insurrezionalisti a caccia dei colpevoli dei disordini. Già in carcere in attesa di essere interrogati oggi dal gip Elvira Tamburelli, i dodici ragazzi tra i 19 e i 30 anni, che erano stati fermati sabato scorso a piazza San Giovanni dopo che la Procura di Roma ha chiesto per
Per i 150 anni dell’Unità d’Italia sono tutte da scrivere. Sono stati semplicemente presi nel mucchio». Restano poi altri otto denunciati a piede libero, di cui sei minorenni delle cui posizioni si occuperà il tribunale per i minori.
E nella Capitale è stata battuta palmo a palmo anche la zona di Roma 3, dove le forze dell’ordine si sono presentate nelle abitazioni di persone già attenzionate in quanto protagoniste di episodi simili a quelli di sabato. Le migliaia di immagini registrate durante gli scontri, ora al vaglio degli inquirenti, sono un supporto fondamentale alle indagini per identificare i responsabili delle vio-
La norma che il Ministero intende riportare in auge è quella che porta il nome di Oronzo Reale, ex Guardasigilli che durante gli anni di piombo garantì alle forze dell’ordine l’uso delle armi loro la convalida delle misure cautelari, parlando di «violenza premeditata». Accusati di resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale, rischiano dai tre ai quindici anni di carcere, anche La Procura di Roma ha deciso di non procedere con giudizi per direttissima per poter proseguire nella visione dei numerosi filmati della manifestazione. I giovani, quasi tutti incensurati, sono in buona parte meridionali. Uno di loro è uno studente dell’Alma Mater di Bologna 1, ma tra loro ci sono anche un romeno di ventuno anni e tre donne. «Le loro storie personali – ha spiegato un legale –
lenze. Perquisizioni e controlli anche in Toscana, dove domenica sera sono state fermate sei persone a bordo di un furgoncino contente alcuni materiali presumibilmente utilizzati durante gli scontri di sabato. Di ieri mattina altre otto perquisizioni a Firenze nei confronti di militanti dell’area anarchica 5: tra i materiali sequestrati passamontagna, maschere antigas e caschi. I fermati sono stati identificati ma denunciati a piede libero in attesa di analizzare il materiale prelevato e i filmati. Operazioni massicce anche a Milano, dove digos e carabinieri hanno effettutato sei opera-
Fini: «La Carta sia la bussola della politica» ROMA. L’ideale dell’Italia democratica «è inseparabile dall’ideale dell’Italia civile e la politica non può attendere compiutamente all’opera di governo della cosa pubblica senza incarnare con coerenza i valori che sono alla base del sistema democratico e costituzionale». Lo ha detto ieri il presidente della Camera Fini, inaugurando la mostra “Rappresentare l’Italia. 150 anni di storia della Camera dei deputati”, a Montecitorio con il presidente della Repubblica Napolitano. Il Fini ha ricordato come il Parlamento rappresenti «la casa comune di tutti gli italiani e uno dei più alti fattori di identificazione con le istituzioni».
politica segue dalla prima Colloquio in cui un premier particolarmente concitato diceva al direttore dell’Avanti: «Portiamo in piazza milioni di persone, facciamo fuori il palazzo di Giustizia di Milano, assediamo Repubblica: cose di questo genere, non c’è un’alternativa...». Per carità uno sfogo, una voce dal sen fuggita, un sogno mostruosamente proibito raccontato in modo liberatorio a un interlocutore fin troppo compiacente… Ma insomma che certe pulsioni – chiamiamole così - siano anche solo riposte in fondo all’animo d‘un presidente del Consiglio dà a pensare. Anche perché le immagini evocate dalla fantasia del premier assomigliano molto, anzi troppo, alle scene finali del Caimano di Nanni Moretti dove appunto i seguaci più radicali del primo ministro danno l’assalto al palazzo della magistratura additato come la sentina d’ogni congiura contro di lui. Un lunghissimo sfogo quello di Berlusconi con l’amico Lavitola che si conclude appunto con questo duplice e alternativo scenario «O io lascio... Che dato che non sto bene per niente ho anche pensato di fare, oppure facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera...». Uno sfogo e niente di più ci mancherebbe, anche perché dal 2009 a oggi sono passati due anni e di questa tregenda accarezzata dal Cavaliere in un esercizio di visualizzazione a due con Lavitola non s’è visto nulla.
Però che certe idee, complice anche e per carità un uso pazzotico delle intercettazioni, arrivino ad essere esternate è indice di un clima molto particolare e della difficoltà generale, ma in particolar modo italiana, di immaginare una via d’uscita alla crisi che non sia la scorciatoia dell’atto risolutivo, del colpo di mano. Che intendiamoci sembra essere la tentazione di molti e non solo quella su cui pare indugiare l’ombra di Silvio Berlusconi. È vero infatti che esiste un settore della magistratura che ritiene quella di mani pulite una rivoluzione interrotta come le ali della estrema sinistra degli anni Sessanta e Settanta ritenevano la resistenza una rivoluzione tradita. Com è vero che esiste un’impazienza verso la politica alla quale in certi setto-
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In troppi nel Paese vogliono la rivoluzione, compreso Berlusconi
Gli idioti non sono soli: perché è morta la politica A Roma hanno avuto mano libera per molte ore. Come è possibile? di Riccardo Paradisi ri dei poteri forti, s’è tentati di opporre la soluzione tecnocratica che possa finalmente stabilire una cinghia di trasmissione per esempio con la Bce, saltando a piè pari ogni mediazione e sovranità nazionale. E che questa tentazione all’abbrivio sia anche diffusa in frange estese dell’opinione pubblica lo indica anche quello che è avvenuto a Roma sabato scorso. Dove minoranze violente hanno attaccato e colpito simboli che da lungo tempo vengono additati all’esecrazione universale come le banche e i palazzi della politica, le Chiese ma anche la bandiera nazionale e quella europea date pubblicamente alle fiamme. Indignati abbiamo preso a chiamarli anche se non si capisce bene cosa questo sentimento molto generico possa avere di propositivo di fronte a una crisi complessa che s’accende grazie all’innesco di due elementi entrambi reali e negativi: la tendenza del capitale internazionale alla fiananziarizzazione e alla volatilità speculativa fuori controllo e il debito pubblico degli stati che hanno indugiato per decenni in politiche di concertazione e di sussistenza clientelari e irresponsabili. Del resto basta dare un’occhiata al pamphlet a cui gli indignati si ispirano per cogliere la modestia del sostrato ideologico d’un movimento espressionista, fatto d’umori e stati animo. D’un movimento che è solo l’ultima metamorfosi del generale trend no global che sì è affacciato sulla scena internazionale dagli anni Novanta. Indignez-vous (Indigene èditions di Montpellier) del novantetreenne Stephane Hessel, già uomo di potere francese e amico di
zioni all’alba di ieri. Nella casa di un giovane i carabinieri avrebbero rinvenuto una bomboletta di spray urticante, mentre la polizia ha sequestrato una fionda. Nelle abitazioni perquisite gli agenti hanno sequestrato inoltre diversi indumenti con l’intento di controllare se si possano riconoscere in questi quelli che avevano indosso gli indiziati ripresi dai filmati. «Non si tratta di un’operazione contro i centri sociali», ha precisato Mantovano, «ma di un’azione volta ad
Gli indignados sono solo l’ultima metamorfosi del trend no-global che si è affacciato sulla scena internazionale dagli anni Novanta Dominique Strass-Kahn è un libello d’una povertà intellettuale desolante dove si replicano a memoria tutti i luoghi comuni più frustri contro politici, industriali e, naturalmente, contro la Chiesa cattolica, vera beaute noir d’ogni radical-chic che si rispetti. Per Hessel basterebbe che al posto della casta vi sia una classe politica di virtuosi ideologicamente fedeli alla resistenza ed emotivamente sensibili ai nuovi diritti di omosessuali e femministe per cambiare il mondo. Una banalità sfacciata che nel suo accanirsi peraltro contro la realtà – la politica per come essa è in nome di come dovrebbe essere secondo lorsignori – fa il paio con il rogo delle bandiere nazionali ed europee a cui s’è assistito a Roma. Dove non s’è capito evidentemente che sono lo Stato Nazione e l’europa delle patrie ancora a venire le uni-
individuare i responsabili delle devastazioni». Ma dagli attivisti di Napoli che hanno preso parte alla manifestazione di sabato è arrivata la denuncia:«Le perquisizioni sono atti intimidatori, vogliono criminalizzare il movimento». Proprio nel capoluogo partenopeo e dintorni sono avvenute venti perquisizioni a carico di alcuni esponenti del centro sociale Insurgencia, dei collettivi universitari e di alcuni dirigenti sindacali della Usb della Campania. Caos anche a Pa-
che entità politiche in grado, proprio perché tali, di fare fronte al turbo capitalismo e agli spiriti animali d’una globalizzazione scatenata. Non ha torto dunque chi sostiene che quelli che s’accaniscono contro le ultime frontiere della politica e della civiltà europea, con le sue indubbie radici cristiane e cattoliche, siano in fondo gli utili idioti d’un iperpotere senza patria, senza confini e senza volto che ha necessità di moltitudini sempre più molecolarizzate per estendere il suo campo di dominio e di influenza. E le affermazioni di Draghi – «Questi ragazzi hanno ragione» seppure strumentalizzate, non aiutano certamente a sgombrare il campo da erti equivoci. D’altra parte è indicativo anche il gravissimo episodio avvenuto nella parrocchia di San Marcellino e Pietro, poco distante da San Giovanni, chiesa presa
lermo, dove i carabinieri hanno perquisito con esito negativo le abitazioni di quattro giovani del Centro sociale “Vittorio Arrigoni”. Clima teso anche a Bologna, dove la polizia ha perquisito l’abitazione di dodici “recidivi”, legati al gruppo anarchico “Fuori Luogo”. e a Torino, sede di alcuni centri sociali promotori della manifestaizone di sabato come l’Askatasuna. Caschi, mazze, fumogeni, e documenti ritenuti “interessanti” sono stati sequestrati infine dagli agenti della
d’assalto da un gruppo di ossessi che entrati nella sala della casa parrocchiale, hanno trascinato un crocefisso e una Madonna di Lourdes e li hanno distrutti in strada.. Una profanazione in piena regola, un gesto di inaudita violenza simbolica che colpisce la diffusa sensibilità religiosa, un vilipendio che naturalmente è passato quasi inosservato.
Del resto non è la Chiesa cattolica un obiettivo sensibile d’un ideologia globalista – di cui quella no global è l’interfaccia – che mal tollera i continui richiami di Benedetto XVI alla comunità, ai valori non negoziabili, all’economia sociale di mercato? E non è forse Toni Negri insieme al suo collega Hardt a definire ormai l’orizzonte della globalizzazione dispiegata il campo d’azione delle moltitudini per la finale resa dei conti contro il capitalismo? Detto questo è evidente che un disagio esiste ed è serio e profondo. Ma è altrettanto vero che se non sarà la politica a dare risposte a questo disagio diffuso e a una lotta di classe per ora generazionale ma estendibile all’intero certo medio occidentale sarà inevitabile che sulla scena riappariranno forme regressive di potere, e che potranno oscillare dal cesarismo all’oligarchia fiananziaria. Un moto pendolare che farà apparire la democrazia nazionale e continentale, come dice da tempo Giuliano Amato, un ricordo del passato, il lusso che un pezzo di mondo s’è preso per mezzo secolo. Resta da capire, per tornare ai fatti di Roma, come sia potuto accadere quanto è capitato. È però anche vero che ogni qualvolta si pensa a un intervento preventivo si parla di attentato alla libertà di manifestazione, di concussione dei diritti fondamentali. Quello che è certo è che un tema come questo non può essere oggetto della propaganda strumentale di maggioranza e opposizione. Che sembrano non capire come la tutela della legalità sia una trincea dove la fazione deve lasciare il passo all’unità repubblicana. Se anche questa verità elementare non dovesse più essere patrimonio della nostra classe politica sarebbe il segno che per l’avvento delle derive di cui si parlava è solo questione di tempo.
digos di Ancona nelle abitazioni di sei esponenti dell’area antagonista.
In attesa del G20, la Francia preannuncia controlli alla dogana per prevenire possibili “atti isolati”nel corso della manifestazione organizzata dai movimenti per il 1 novembre a Nizza e per il 3 novembre a Cap d’Ail. La Croisette di Cannes verrà chiusa ermeticamente. All’estero, il tappeto rosso diventa per l’Italia ancora più stretto.
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oveva essere una manifestazione pacifica, più sulla scia di quelle della Primavera araba folle oceaniche che sfilano in silenzio, la sfida più assordante di tutte - e invece il grande corteo di sabato a Roma è degenerato in guerriglia. Restituendo al paese solo il messaggio della violenza e perdendo un’occasione importante. Ma la deriva delle manifestazioni cosiddette pacifiste è terminata molti anni fa, a dirla tutta è capitolata definitivamente nel 1979 fino a degenerare negli anni Ottanta. E da allora non si è più ripresa. Ma oltre ad avere una data finale, il pacifismo in Italia ha anche una data di inizio: il 24 settembre 1961. Cinquant’anni fa tondi tondi. E un nome alle sue spalle, quello di Aldo Capitini - il filosofo perugino troppo spesso dimenticato dai più - che dal messaggio di Gandhi e San Francesco (ma anche di Tolstoj, Leopardi e Dante) si è lasciato ispirare, fondando la marcia Perugia-Assisi.
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Quel giorno, il 24 settembre - scrive Gabriella Mecucci nel suo ultimo lavoro (Le ambiguità del pacifismo, Minerva edizioni) - «era in procinto di accadere qualche cosa che avrebbe segnato la nostra storia recente e recentissima: faceva irruzione nella scena politica il primo grande movimento pacifista, governato da quell’uomo piccolo, dall’aspetto dimesso e dalla volontà incrollabile»: Aldo Capitini, per l’appunto. Dietro di lui quindici-ventimila persone (forse trentamila, scrisse Guido Piovene su La Stampa del 27 settembre di quell’anno); fra queste intellettuali del calibro di Italo Calvino, Norberto Bobbio, Guido Ceronetti, Ernesto Rossi, Elio Vittorini, Bruno Zevi e Franco Antonicelli e gente comune, cittadini e contadini. Un successo senza precedenti e in larga parte, va detto, inaspettato. Un successo senza bandiere o stemmi di partito, una marcia allegra ma composta, piena di cartelli ma priva di slogan offensivi, «né troppo duri, né contro il governo». «Sembrava fatta». - continua Gabriella Mecucci - «Solide basi teoriche, rapporti internazionali prestigiosi, un successo di massa della marcia del 1961: il pacifismo italiano pareva decollato. Quando nel 1962 nasceva la Consulta della pace per dare continuità e sbocchi al movimento, Capitini, che ne fu da subito il leader, aveva buone ragioni per essere ottimista. Eppure quell’organismo unitario, con dentro un arco di forze che andava dai comunisti ai radicali, passando per associazioni di base di ogni genere, presto diventò un calvario: accuse, controaccuse, polemiche, difficoltà di tutti i tipi». E così, come il successo fu inaspettato, inaspettata fu anche la piega che nel giro di pochi anni prese il pacifismo: da movimento di massa e autonomo mano a mano cambiò anima sempre più profondamente, trasformandosi in un pacifismo a senso unico. Un esempio su tutti: le grandi marce Perugia-Assisi, ma anche le grandi manifestazioni di Roma, Milano e Comiso contro gli euromissili che avvennero all’indomani della decisione Nato di installare una difesa missilistica in Europa alla fine degli anni Settanta e che si trasformarono immediatamente in movimenti anti americani. Migliaia di persone si riversarono in piazza, dimentiche però degli SS20 che l’ex Urss ave-
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Gabriella Mecucci ripercorre nel suo ultimo lavoro la storia del movimento e delle i
C’era una volt
50 anni fa la prima marcia della pace da Perugia ad Assisi voluta dal filosofo Aldo Capitini. Una manifestazione senza slogan e senza partiti. Che fine ha fatto quell’esperienza? di Luisa Arezzo
Divisioni, asimmetrie, strumentalizzazioni politiche. Questi i mali del movimento che vide la sua prima battuta d’arresto negli anni Ottanta va già puntato sulle principali città europee e sulle quali nemmeno una marcetta venne spesa. Fu quello il momento in cui il movimento pacifista perse i connotati che lo avevano contraddistinto e che, tradendo tutte le aspettative di Aldo Capitini, si trasformò in un movimento anti-Usa e più vicino all’ex Unione Sovietica.
Un lento declino che si palesò inizialmente già a metà degli anni Sessanta con la guerra del Vietnam (e il ruolo della guerriglia) e che si può sintetizzare con lo slogan coniato in quegli anni e tutt’altro che pacifista «creare due, tre, molti Vietnam» e che portò a più di una frizione fra il movimento della nonviolenza e il Pci, fino a una vera e propria distanza, e poi definitivamente nel 1979, «uno di quegli anni che cambiano il corso della storia», scrive la Mecucci. Cominciato con la caduta dello Scià Reza Pahlavi che in gennaio, dopo una serie di imponenti manifestazioni, rico-
nobbe di non riuscire più a controllare la situazione e abbandonò l’Iran aprendo al ritorno dall’esilio parigino dell’Ayatollah Khomeini (data a cui si può far risalire - anche se all’epoca nessuno lo comprese, anche la comparsa del fondamentalismo islamico sulla scena internazionale) e terminato con due eventi altrettanto epocali: l’invasione dell’Afghanistan da parte dei centomila soldati dell’Armata rossa e la decisione Nato, presa in dicembre, di installare in Europa i missili Pershing e Cruise americani.
All’epoca Jimmy Carter era alla Casa Bianca, e rispose all’invito di trovare un equilibrio atomico in Europa di Helmut Schmidt e Valery Giscard D’Estaing. Dei tre avvenimenti, l’unico che portò in piazza il movimento della pace fu l’istallazione degli euromissili. Mentre nessuno - come abbiamo già detto prima - ebbe nulla da ridire sul dispiegamento avvenuto ben prima degli SS20 sovietici. Tantomeno sull’Iran (ma questo è a suo modo più comprensibile). Negli anni Ottanta, insomma, il messaggio gandhiano che tanto aveva ispirato Aldo Capitini, scompare. Altro che non violenza: i cosiddetti pacifisti diventano negli anni sempre più ambigui, filoarabi e fortemente egemonizzati dal Partito comunista italiano. Colpevoli di un clamoroso
silenzio verso le violazioni dei diritti umani nell’Est comunista, il totalitarismo teocratico iraniano e l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’ex Urss. È in questa drammatica contraddizione (evidentemente una precisa scelta di campo) che il movimento pacifista subi-
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idee non violente, raccontando le sue derive e i momenti che lo hanno condannato
ta il pacifismo
melle, ambigue e confuse. Oltreché più violente. La globalizzazione miete le sue vittime anche in seno al movimento della nonviolenza. I black bloc fanno la loro comparsa nelle fila delle manifestazioni, li trovi a Roma così come in Canada, in Brasile e a Londra. Il pacifismo ha toccato il suo fondo, ma «è più che maturo - scrive la Mecucci - il tempo di rompere i conformismi e di tornare a riflettere sul significato di pace e sul come raggiungerla, sapendo innanzitutto che non può esistere se non è coniugata con altri valori: libertà, giustizia, sicurezza».
Valori che parte dei manifestanti arrivati a Roma sabato scorso forse avevano nelle loro corde, ma che non sono riusciti a far valere. E torna utile, allora, ricordare il significato che Aldo Capitini, il cui percorso Le ambiguità del pacifismo svela in tutte le sue forme e rapporti (fondamentali quelli con il mondo cattolico, sul quale non ci siamo soffermati abbastanza, e che meriterebbe un pezzo a parte), attribuiva alla nonviolenza, che non è accettazione dell’esistente, ma impegno per trasformarlo in profondità. «È perciò un errore, scriveva il filosofo perugino, credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’è; più si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale che non può accettare il mondo com’è; ma essa porta tutto verso una trasformazione: l’umanità, la società, la realtà». Proprio per questo essa non solo non è viltà, ma il massimo del coraggio. Non solo non è inerzia, ma attività continua, «appunto perché non aspetta di avere le armi decisive, cerca di moltiplicare le iniziative e i rapporti con gli altri, e sa bene che si può sempre fare qualcosa, se non altro trovare degli amici, dare la parola, l’affetto, l’esempio, il sacrificio».
Clamoroso fu il silenzio verso le violazioni dei diritti umani nell’Est comunista, la guerra afghana dell’ex Urss e il totalitarismo iraniano sce la sua prima, inevitabile battuta d’arresto. Il paradosso è troppo evidente per essere accettato e portare nelle fila del pacifismo italiano forze politiche (e anche cattoliche) che all’inizio si erano riconosciute nel messaggio capitiniano.
La seconda battuta d’arresto è quella che, all’indomani delle manifestazioni contro gli euromissili di cui sopra, assestò il governo italiano facendo una scelta precisamente filo-occidentale e togliendo aria a quel pacifismo a senso unico che pensava ormai di avere in mano la piazza. Piazza che invece, nonoA sinistra, Aldo Capitini durante la prima marcia Perugia-Assisi. A destra, l’antiamericanismo scende nelle piazze. In apertura, folla alla Perugia-Assisi. A sinistra: Reagan e Gorbaciov firmano il Trattato Inf nel 1987. In alto a destra, la copertina del libro di Gabriella Mecucci
stante le oceaniche manifestazioni, venne sconfitta quando nell’aprile del 1984 - Bettino Craxi era premier del Paese gli euromissili vennero installati nella base militare di Comiso.
«Un colpo duro per chi aveva sperato di evitarlo - scrive Gabriella Mecucci anche perché ormai presidente degli Stati Uniti era diventato Ronald Reagan, che procedeva con maggiore sicurezza e aggressività nella lotta contro
l’Urss, contro il suo riarmo e a favore dei dissenzienti. Fu lui a parlare - destando grande scandalo a sinistra - di impero del male». Dopo quel momento, ci vorranno parecchi anni - dicamo fino alla guerra nella ex Jugoslavia e in Medioriente, parliamo dunque degli anni Novanta - prima di rivedere una rinascita delle istanze pacifiste numericamente rilevante e con obiettivi chiari. Seppur sempre, anche all’indomani dell’attacco alle Torri ge-
Valori che in questo momento, pur con tutte le dovute differenze, a cominciare da quelle culturali, si vedono brillare più nelle piazze della Primavera araba che in quelle occidentali. «Rilanciare un dibattito su questi temi - conclude la Mecucci - è indispensabile anche per evitare che a muovere le nostre scelte siano solo le motivazioni economiche, riconoscendo come criterio di decisione quello usato dalla Lega: i soldi sono finiti, smettiamola con le missioni internazionali e richiamiamo i nostri ragazzi. La montagna avrebbe partorito il topolino».
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Oggi il caporale israeliano, prigioniero nella Striscia da quasi cinque anni, sarà consegnato all’Egitto. E da lì tornerà in patria
Gilad, l’ora dello scambio Israele chiude il caso con un “libera tutti” che spiazza l’opinione pubblica di Antonio Picasso ilad Shalit sarà presto libero. E con lui anche un numero poco chiaro di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Dopo una trattativa di giorni – o forse anni – che ha portato all’elenco dei beneficiari dell’amnistia, nel pomeriggio di ieri è giunta anche la notizia del rilascio di circa ottanta cittadini egiziani. Lo scambio include la liberazione di Ilan Grapel, agente del Mossad detenuto al Cairo da pochi mesi. Israele chiude il caso Shalit con un “liberi tutti”che spiazza stampa internazionale e opinione pubblica interna. Fino a poco tempo fa si era creduto che il governo Netanyahu avrebbe conservato quella linea du-
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ra che lo ha costretto a chiudere i negoziati con l’Autorità palestinese sulla questione dei confini. Si era pure pensato che, a costo di un suo soldato – o forse per la sua liberazione – sarebbe stato capace di scatenare l’ennesimo attacco su Ga-
za. In realtà, per come si sono sviluppate le cose, sembra che l’esecutivo abbia optato per l’indulgenza verso Hamas. È tutto molto, troppo fluido. Il 26 giugno 2006, Gilad Shalit, sergente maggiore delle Israeli Defence Force (Idf), cade nelle mani di un commando palestinese che, dalla Striscia di Gaza, è penetrato su suolo israeliano attraversando il tunnel che passa sotto Kerem Shalom. Appena 14 giorni prima altri due uomini di Tzahal, Eldad Regev ed Ehud Goldwasser, erano stati In alto, Gilad Shalit, il caporale israeliano. A sinistra, Benjamin Netanyahu. Nella pagina a fianco, Marwan Barghouti, Kaled Meshal e Abu Mazen
sequestrati da Hezbollah. L’operazione ha fatto da casus belli alla guerra dei 34 giorni.
La cattura di Shalit rientra nel parallelo contesto di scontri a fuoco che lo Stato maggiore israeliano ha denominato “Operazione pioggia d’estate”. Le Idf pretendono la consegna dei tre ragazzi caduti nelle mani nemiche e, al contempo, decapitare i vertici militari di Hamas e del Partito di Dio. L’obiettivo fallisce su tutta la linea. Dopo un mese a passa di raid sul Libano del Sud, Hezbollah non cade. Nessuno dei tre uomini viene rilasciato. Mentre la
situazione a Gaza resta incerta. È anche il periodo immediatamente successivo alla vittoria elettorale di Hamas. Il che fa della Striscia l’epicentro di quel caos politico che regna ancora oggi in seno ai palestinesi. Nei mesi successivi a Beirut e dintorni, il movimento sciita tornerà a essere nuovamente forte. Sia politicamente, sia in termini di arsenale a disposizione. Non solo nella Valle della Beka’a, ma in tutto il Paese dei cedri. I corpi di Regev e Goldwasser, invece, verranno restituiti alle rispettive famiglie due anni dopo, in seguito a un impari scambio. Israele libererà un assassino di
Per l’editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, il presunto successo di Hamas è un’arma a doppio taglio
La prima (vera) tappa dei nuovi negoziati di pace ella primavera del 1996, alla vigilia del testa a testa tra Shimon Peres e Benjamin Netanyahu per la premiership, il capo dei servizi segreti militari israeliani disse che gli iraniani volevano che vincesse Netanyahu. Il capo dell’intelligence militare cercò di trasmettere l’idea che, in mezzo all’ondata di attentati suicidi compiuti da Hamas e ai colloqui di pace condotti da Peres con i siriani,“Bibi”andava bene per coloro che si opponevano alla pace.
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La spiegazione era semplice. La propaganda iraniana nel mondo islamico trae la sua forza dal conflitto araboisraeliano. Perciò l’Iran preferisce i leader israeliani che vogliono sabotare gli accordi di Oslo, elevare lo status di Hamas nei territori e perpetuare il conflitto. Quel capo dell’intelligence, il
di Akiva Eldar quale 15 anni fa sosteneva che Bibi andava bene per Hamas e l’Iran, era Moshe Ya’alon, oggi vice primo ministro nel governo Netanyahu – l’esecutivo che ha reso Khaled Meshaal e Moussa Abu Marzouk eroi del giorno in Cisgiordania , nella Striscia di Gaza, a
rato che la via diplomatica li conduce in un vicolo cieco, mentre il terrore scaccia i coloni dai territori e i sequestri tirano fuori di prigione centinaia dei loro. Il timore di “imprimere nella coscienza dei palestinesi” l’idea che gli israeliani capiscono solo il linguaggio
La tesi secondo cui lo scambio sarebbe un grande trionfo per Meshaal e un colpo fatale per Fatah è una delle osservazioni semplicistiche che si sono impadronite del dibattito Gerusalemme Est e in alcuni villaggi in Israele. La loro vittoria è un altro brutto colpo per il presidente palestinese Mahmoud Abbas e i suoi colleghi nella leadership di Fatah. Ancora una volta, come nel caso del ritiro unilaterale da Gaza, i palestinesi hanno impa-
della forza ha posto l’ex capo di stato maggiore Ya’alon alla testa di coloro che si oppongono all’accordo Shalit. Da un lato, costoro erano pronti a lasciare che un soldato israeliano marcisse in stato di prigionia, pur di non cedere ad Hamas. Dall’altro, essi stan-
no conducendo una guerra senza quartiere contro i principali rivali politici di Hamas, che vogliono uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Ya’alon e i suoi colleghi stanno anche minacciando di annettersi i territori e di bloccare il trasferimento dei salari ai dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese, compresi i membri delle forze di sicurezza palestinesi.
La tesi secondo cui l’affare Shalit sarebbe un grande trionfo per Hamas e un colpo fatale per Fatah è una delle osservazioni semplicistiche che si sono impadronite del dibattito pubblico fin da quando l’esecutivo israeliano ha approvato l’accordo. In effetti, in assenza della possibilità di progressi nel processo di pace e nella politica degli insediamenti, l’affare Shalit è “l’unico spettacolo a disposizione”. Meshaal e Ne-
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Corte suprema. Tuttavia, è stato spalleggiato dalla destra religiosa, la quale giudica la decisione di Netanyahu come un “premio al terrorismo”.
Quando il ragazzo tornerà a casa dovrà passare dalle forche caudine della stampa nazionale. Eroe o capro espiatorio di un compromesso apparentemente amaro per Israele? È paradossale, eppure la liberazione di Shalit sta sollevando molti più dubbi che certezze. Del governo Netanyahu si dice che stia cedendo indiscriminatamente al nemico, per un solo uomo e senza rendersi conto di negoziare con i terroristi. Eppure, quando il premier faceva l’arrogante di fronte a Obama per la questione degli insediamenti, lo si accusava di eccessiva intransigenza. Resta poi la domanda, retorica e mai scontata: con chi si dialoga se non con gli avversari? Sharon, a suo tempo, ha evacuato Gaza in un’estate. E ancora oggi glielo fanno pesare perché la
Una volta che il soldato sarà arrivato al valico di Kerem Shalom, inizierà la liberazione dei detenuti palestinesi: questo l’accordo con Gaza. Per l’operazione, blindati tutti i valichi bambini della pasta di Samir Quntar, il druso affiliato all’Olp, responsabile del massacro di Naharya (1979).
Nel biennio 2006-2008, Israele è stata governata da Kadima, il partito di centro fondato da Sharon prima che cadesse in un coma irreversibile. La sua ultima creatura politica era stata salutata come la quadratura del cerchio per far uscire il Paese da un bipolarismo ormai sterile e condurlo alla risoluzione del processo di pace. Il piano non è riuscito. E non solo per l’ictus che ha annientato il Leone del Negev. Il suo successore Ehud
Olmert ha trascinato Israele verso l’ennesimo conflitto su Gaza, senza risolvere i problemi. Il processo di pace è andato avanti come un macchinoso volano e l’ingovernabilità ha fatto della Knesset un’aula parlamentare in cui le crisi di governo sono all’ordine del giorno. Olmert è caduto e il Likud di Netanyahu ha guadagnato la premiership solo a costo di un patchwork di partiti che ingloba, non si sa come, esponenti della destra ultra-ortodossa, quella laica, gli immigrati russi e i laburisti. Questi i fatti. Stando ai precedenti, è già una fortuna che Shalit sia vivo. Aveva
vent’anni quando è stato sequestrato. Oggi sta per tornare in libertà con un bagaglio di cattività che può portarlo a essere il paladino dei promotori di un dialogo con Hamas, come pure per coloro che invece vorrebbero spianare Gaza senza tanti scrupoli. Cinque anni di prigionia per cosa? Per tornare tra le braccia della propria famiglia. Questo sì. E ieri, a tale proposito, si è consumato l’ulteriore dramma tra suo padre, Noam, e i congiunti di alcune vittime di attentati terroristici, firmatari del ricorso contro l’accordo fra il governo e Hamas. Ricorso che non può essere accolto dalla
scelta non è stata presa a tavolino con la controparte palestinese. Questo vuol dire che l’esecutivo israeliano abbia i giorni contati? Il segretario generale dell’Onu, Ban ki-Moon, ha accolto l’accordo come «una tappa positiva per la pace». Nella sequela di superficialità che stanno facendo da corona al caso, il Palazzo di vetro non si smentisce. In che maniera il ritorno a casa di Shalit sbloccherebbe i negoziati? L’Onu è convinto che dopodomani Israele riconoscerà Hamas come un interlocutore credibile e quindi lo accoglierà al tavolo della pace? Il problema è anche palestinese.
tanyahu impersonano ora i ruoli principali, e i leader di Fatah non possono fare altro che assistere allo spettacolo dalla tribuna delle Nazioni Unite. Ma non ha senso isolare l’affare Shalit dalla trattativa complessiva tra Israele e i palestinesi. Israele potrebbe neutralizzare il successo di Hamas e trasformarlo in un episodio passeggero.
Quale fazione palestinese avrebbe il sopravvento se Netanyahu annunciasse oggi di essere disposto a riprendere i negoziati sulla base dei confini del ‘67 ed a congelare l’attività edilizia negli insediamenti fino al termine dei colloqui? Cosa accadrebbe alla “grande vittoria” di Hamas se Netanyahu decidesse di liberare Marwan Barghouti e centinaia di prigionieri di Fatah dopo aver trasferito i territori dell’area C al controllo palestinese? Ma la “vittoria di Hamas” non è il solo mito che sta fiorendo attorno all’affare Shalit. Un intero gruppo di presunti “fatti” va di pari passo con tale mito: 1) l’accordo incoraggerà altri sequestri a fini di scambio: ma una rapida occhiata a un sito web di Hamas o di al-
In primis perché Hamas ha dato l’ok al rilascio in cambio di un’importante libbra di carne. Forse nemmeno la segreteria del partito di rende conto della forza propagandistica e operativa scatenata dallo scambio. Dei 1.046 ex detenuti quanti saranno quelli disposti a seguire una quotidianità da ex galeotto e non imbracciare nuovamente il kalashnikov per andare a cercarsi un nuovo Shalit? E ancora: Hamas adesso spera di guadagnare terreno rispetto a Fatah?
Tutte queste domande hanno una risposta. Ma nessuna di esse è inconfutabile. Si può pensare che Netanyahu abbia ceduto per rafforzarsi sul fronte progressista e poi calare l’asso in merito agli insediamenti. Shalit in cambio di una revoca alla road map sui confini ante ’67. Si può fare! Come del resto si può fare un’altra guerra su Gaza ora che tutti sono tornati nella Striscia. Hamas, dal canto suo, canta vittoria. E sul breve periodo può avere anche ragione. Ma che farà Khaled Meshal se a Damasco Assad fosse costretto a ritirarsi e a Teheran gli Ayatollah non avessero più un assegno da staccare? Peraltro molti dei detenuti palestinesi saranno esiliati in Egitto. C’è da capire quanto sia soddisfatta la Giunta militare del Cairo nel vedersi arrivare questo blocco di sospetti terroristi. E Fatah? Abu Mazen è rimasto tagliato fuori dai giochi. Formalmente era naturale. Realisticamente fa capire come per Israele sia facile snobbare il proprio interlocutore ufficiale e andare a parlare con chi ritiene l’effettivo rappresentante di un mondo palestinese sbriciolato in troppe compagini. Perché questa è l’Anp. Tra un neanche un mese, saranno sette anni dalla scomparsa di Yasser Arafat. Possibile che il processo di pace sia ancora orfano di un personaggio tanto discusso?
a causa della crescente rabbia tra le giovani generazioni. 3) Deportare i prigionieri “di grosso calibro”è un successo israeliano: ma i rischi presi da Israele e lo sforzo profuso nel (fallito) tentativo di assassinare Meshaal nel 1997 in una strada di Amman, e nell’uccisione dell’uomo di Hamas Mahmoud al-Mabhouh a Dubai, mostrano che l’esilio può essere un habitat ideale per i terroristi professionisti. Sarebbe più facile per i servizi di sicurezza israeliani monitorare i militanti nei territori e agire contro di loro quando necessario.
tre organizzazioni che appoggiano la lotta violenta mostrerà che rapire soldati e civili israeliani rimane in ogni caso un ordine permanente.
La scelta della “fermezza”da parte dei governi israeliani nel caso di Ron Arad non scoraggiò i rapitori di Nachshon Wachsman. Il rifiuto del governo di
Yitzhak Rabin di negoziare la liberazione di Wachsman e il (fallito) tentativo di liberarlo non hanno dissuaso i carcerieri di Shalit. 2) Alcuni dei 1.150 terroristi liberati nell’accordo Jibril del 1985 causarono la prima intifada nel 1987: ma in primo luogo, la prima intifada non fu violenta. In secondo luogo, l’Intifada scoppiò
Infine, il “fatto” che Hamas sia emerso come il grande vincitore palestinese dell’affare Shalit è dubbio. La liberazione di Gilad Shalit sottrae all’organizzazione la maggiore merce di scambio nei confronti di Israele. Lo spazio di manovra delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) è cresciuto, mentre lo spostamento del quartier generale di Meshaal da Damasco al Cairo ne limiterà la portata delle operazioni. Se oltre a ciò avesse luogo un qualsiasi progresso nel processo di pace, l’Egitto avrebbe un forte interesse a limitarla ulteriormente.
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I suoi confratelli: «Dava fastidio a molti, soprattutto alle compagnie minerarie»
Il martire di Mindanao Padre Fausto Tentorio è stato ucciso ieri dopo la messa: lavorava da decenni con le tribù più povere delle Filippine di Vincenzo Faccioli Pintozzi opo 32 anni spesi in preghiera e dedizione, i frutti raccolti sono rappresentati da due proiettili sparati in faccia. Un missionario italiano, originario della zona di Lucca, non è scampato all’odio e all’avarizia dei “signori della terra” filippini e ha pagato con la vita l’impegno a favore dei tribali, i più poveri fra i poveri del sud-est asiatico. Padre Fausto Tintorio, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime), è stato ucciso ieri mattina nell’isola di Mindanao (Filippine). P. Fausto, 59 anni, è stato ucciso da uno sconosciuto mentre si preparava a partire dalla parrocchia di Nostra Signora del Perpetuo soccorso ad Arakan, in North Cotabato. Come ogni lunedì, aveva un incontro con i sacerdoti della diocesi nella casa del vescovo. L’assassino si è avvicinato a lui e lo ha ucciso con due colpi alla testa. Non si conosce ancora l’autore né il
D
superiore Pime delle Filippine, p. Gianni Re, non ha voluto per ora rilasciare alcuna dichiarazione. Ha solo detto: “Sono profondamente addolorato. P. Fausto era uno dei miei più cari amici”.P. Tentorio, nato a S. Maria di Rovagnate (Lecco), era entrato nel Pime dal seminario della diocesi di Milano. I suoi compagni di studio lo ricordano come una persona semplice e affabile. Il padre Giulio Mariani, missionario del Pontificio Missioni Estere (Pime) a Zamboanga, confratello e amico personale di P. Fausto Tentorio, lo ricorda così: «Un uomo semplice, umile, gioviale, un padre e un amico per le migliaia di tribali senza voce della diocesi di Kidapauan. La sua morte ci ha scioccato».
Parlando con l’agenzia AsiaNews, voce del Pime, p. Mariani sottolinea la bontà e la gentilezza del missionario, da otto anni in prima linea per la difesa e l’e-
Il vescovo di Kidapawan voleva portare il corpo del missionario in cattedrale, ma i suoi fedeli lo hanno fermato: «Vogliamo vegliarlo nella parrocchia dove ha vissuto e lavorato per anni» movente dell’uccisione. Secondo testimoni egli indossava un casco di sicurezza ed era impossibile vederlo in viso. Dopo l’assassinio, il killer si è allontanato sicuro con una motocicletta. P. Tentorio lavorava da tempo fra i gruppi tribali della diocesi, vivendo con loro. La sua evangelizzazione comprendeva anche l’impegno per garantire sopravvivenza e diritti a queste popolazioni spesso derubati delle terre ed emarginate. Leonardo Revoca, ex parrocchiano di p.Tentorio e consigliere comunale ad Arakan ha sottolineato l’impegno del missionario per fermare la diffusione dell’industria mineraria, che sta distruggendo la vita delle popolazioni indigene. Il
vangelizzazione dei tribali: «Fausto faceva il suo lavoro con discrezione e semplicità. Noi lo chiamavamo il ‘tribale’– racconta – perché sulla testa portava sempre una bandana colorata e non si separava mai dalle sue collane e braccialetti, tipici degli indigeni». Il sacerdote dice che al momento nessuno sa di preciso chi e perché ha ucciso p. Fausto, che ha sempre lavorato con discrezione e umiltà. Tuttavia, fonti locali di AsiaNews sottolineano che da anni società minerarie, interessate ai terreni degli indigeni, ed esercito lo consideravano un personaggio scomodo. Nel 2003 i militari avevano tentato di ucciderlo, accusandolo di collaborare con i guerriglieri maoisti del New People’s
Alcuni parrocchiani di Arakan piangono la morte di padre Tentorio. A destra, il missionario del Pime, ucciso dopo 32 anni di missione con i tribali nelle Filippine. Nella pagina a fianco, le immagini del massacro dei copti egiziani Army. In quell’occasione, i tribali gli avevano fatto da scudo umano, salvandogli la vita. P. Fausto Tentorio è il terzo missionario del Pime ad essere ucciso nelle Filippine e nell’isola di Mindanao. Nel 1985 p.Tullio Favali è stato ucciso a Tulunan, nella diocesi di Kidapawan, da un gruppo di guardie private armate; nel 1992, p. Salvatore Carzedda, impegnato nel dialogo con i musulmani, è stato ucciso a Zamboanga. Nel 2007, p. Giancarlo Bossi era stato rapito da un gruppo di fuoriusciti del Moro Islamic Liberation Front, ma è stato rilasciato dopo oltre due mesi di cattività. Nel 1998 è stato rapito anche p. Luciano Benedetti. I suoi rapitori, un gruppo musulmano, lo hanno liberato dopo circa 2 mesi.
La zona, tuttavia, era e rimane una delle più pericolose dell’intera regione. Il vescovo della diocesi di Kidapawan ed i suoi collaboratori - fra i quali il
p. Peter Geremia, del Pontificio Istituto Missioni Estere - sono riusciti soltanto dopo anni a convincere i militari di stanza a Mindanao che il loro lavoro pastorale con i tribali della zona non ha nulla a che fare con le attività di guerriglia dei ribelli locali. Il p. Geremia ha detto che alla fine essi sono riusciti a guadagnarsi la fiducia dell’esercito che si è proposto perfino di aiutarli nella loro missione. «Ci siamo recati insieme a mons. Romulo Valles sulle montagne, presso i campi dove sono stanziati i militari – racconta Geremia – ed abbiamo chiesto un chiarimento. Il colonnello che guida le operazioni ha parlato di accuse contro di noi, ma quando il vescovo gli ha chiesto delle prove concrete non è riuscito a formularne nessuna». La diocesi di Kidapawan si trova nella parte meridionale dell’isola di Mindanao: comprende nove città della provincia di Cotabato, due di Maguindanao ed
una di Sultan Kudarat. Essa copre un’area totale di 1.199 chilometri quadrati, con una popolazione di 670 mila abitanti. Il 78 % di questi è cattolico, mentre il 20 % è di fede musulmana: qui è scoppiato, nei primi anni ’70, un sanguinoso conflitto fra le due comunità che ha provocato un numero imprecisato di morti. La zona è tesa anche per la “guerra delle terre”, una battaglia fra bande paramilitari – a volte appoggiate dall’Esercito regolare – che in nome della ”guerra al comunismo” uccide in maniera indistinta chiunque aiuti i poveri e gli indifesi. Nonostante il clima sia ancora più teso per la presenza delle milizie ribelli comuniste, la Chiesa non ha mai smesso di adempiere alla sua missione soprattutto nei confronti della parte più debole della popolazione, i tribali. Qui
mondo
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L’esercito continua a negare ogni coinvolgimento, ma foto e testimonianze sono schiaccianti
Ora giustizia per i copti Soltanto affermando la verità sul massacro di Mapero l’Egitto potrà costruire una società nobile e democratica di Bernardo Cervellera corpi martoriati dei cristiani copti uccisi il 9 ottobre scorso attendono verità e giustizia. I 26 cadaveri ancora insanguinati, le teste sfracellate dalla violenza degli autoblindo militari, sono ammucchiati in alcune sale dell’ospedale copto del Cairo e in altri ospedali della città nell’attesa di autopsia. Ihsan Kamel, capo dell’ufficio di medicina legale, ha dichiarato che ci vorrà tempo e che i risultati saranno pubblicati solo il 27 ottobre. Egli ha anche affermato che tutto quanto si dichiara in questi giorni da parte di medici forensi potrebbe essere inaccurato. Forse quest’ultimo avvertimento è dovuto a scrupolo ed accuratezza scientifici. Ma non vorremmo che sia dettato dal tentativo di squalificare testimonianze di dimostranti e medici che in questi giorni hanno sottolineato che la morte di diverse vittime è stata causata da proiettili di armi da fuoco e dal peso schiacciante di veicoli pesanti. Magda Adly, capo di El Nadeem, un Centro di riabilitazione per le vittime della tortura, ha dichiarato di aver assistito all’autopsia sul corpo di otto degli uccisi a Maspero (la zona vicina a piazza Tahrir, dove è avvenuto il massacro). Secondo la Adly è evidente che sei cadaveri erano stati schiacciati da “veicoli pesanti” e due avevano ricevuto un “eccessivo” numero di pallottole. La testimonianza della Adly coincide con quella dei molti sopravvissuti al massacro del 9 ottobre, documentata con ampiezza da molti video pubblicati su internet. In queste immagini è evidente che i soldati hanno sparato contro la folla inerme, come pure è evidente che gli autoblindo hanno puntato diritto sui dimostranti indifesi. In Egitto e nel mondo vi è il tentativo di nascondere la verità. Un solo esempio: Mina Daniel, un cristiano che era anche uno dei leader della “primavera araba”di piazza Tahrir, è stato ucciso il 9 giugno con colpi di armi da fuoco e poi sfracellato da un autoblindo. Ma il certificato non dice nulla sulle cause della morte.
I
sono attivi programmi diocesani che mirano alla formazione cristiana, alla vita familiare, alla cura dei giovani ed al ministero vocazionale. Insieme a questi, vi sono programmi al servizio dei tribali, aiuti legali ed economici, e per lo sviluppo sanitario della zona.
Il Centro per l’azione sociale di Kidapawan è stato iscritto nelle istituzioni locali con il nome di GKK-Kidapawan Foundation Inc. La fondazione cerca di contribuire allo sviluppo completo della popolazione in modo da poter affrontare al meglio i bisogni socio-economici della zona, basati su risorse naturali limitate. Sono attive delle cooperative popolari, dove si insegnano le basi di diversi lavori. Il p. Geremia racconta che «da tempo, nella zona, si cerca di arrivare ad un compromesso ed ad un chiarimento con le forze dell’ordine. Noi siamo impegnati nel sociale a favore dei più poveri, questa è la nostra missione. Lo stesso vescovo, invitato dal colonnello ad interrompere queste attività per allontanare i sospetti, ha detto che questo è il lavoro che insegna il Vangelo ai suoi fedeli, e che senza di questo non si vive da cristiani». «Alla fine – conclude – ringraziando Dio i militari ci hanno creduto e, scusandosi delle incomprensioni, ci hanno addirittura offerto il loro aiuto nel nostro lavoro. Hanno assicurato che non succederà nulla a nessuno di noi». Una promessa non mantenuta.
Il tentativo più potente di cancellare quanto è successo il 9 ottobre viene dai militari. Due giorni fa, in una conferenza stampa, l’esercito ha rigettato tutte le accuse mosse contro di lui. Mostrando ai giornalisti video e foto, i due generali Adel Emara e Mahmoud Hegazy, hanno detto che i soldati non avevano munizioni letali e che gli autoblindo cercavano in tutti i modi di evitare di investire le persone che invece lanciavano molotov e pietre. Contro questo tentativo di cancellare la verità e la giustizia si è levato anche il capo degli ortodossi copti, papa Shenouda III. Incontrando il premier Essam Sharaf, egli ha ribadito che la manifestazione dei copti lo scorso 9 ottobre «era pacifica e i dimostranti non avevano armi». Nella sua catechesi del mercoledì
pomeriggio fa ha ribadito lo stesso concetto e ha dichiarato che il massacro dei giorni scorsi “non ha precedenti” nella storia recente della Chiesa in Egitto.
Egli stesso ha citato i primi risultati delle autopsie secondo cui due terzi dei martiri uccisi presentano ferite di armi da fuoco e che i restanti sono stati travolti e schiacciati da veicoli militari.
Il leader Shenouda III ha avvertito il governo del Cairo: «Il sangue dei martiri non si vende mai a un prezzo basso. Dovete porre rimedio» Molti cristiani e musulmani si domandano anche perché - se la manifestazione dei copti era autorizzata - vi era uno spiegamento di centinaia di poliziotti e migliaia di soldati. Ciò fa supporre che lo scontro fosse premeditato, forse per ritardare le elezioni, forse per mantenere lo stato di emergenza. La condanna dell’esercito e dei suoi metodi “fascisti”, peggiori che al tempo di
Mubarak, sta unendo i molti rappresentanti della “primavera araba”, ma anche tanta parte della popolazione egiziana. Eppure, contro tutto questo, vi è lo scandalo annunciato ieri: sul massacro di Maspero vi sarà solo un’inchiesta ed essa sarà condotta dai militari. Il ritornello dell’esercito è che fra i dimostranti vi erano persone violente, armate, che hanno iniziato gli scontri con le forze dell’ordine. Il ministro della Giustizia, Mohamed El-Guindy, ha dichiarato che sono iniziati gi interrogatori dei dimostranti arrestati e che gli accusati saranno giudicati non da un tribunale civile, ma militare. Le organizzazioni copte dell’Europa, in un loro comunicato giunto ad AsiaNews, condannano il “trionfo della vergogna” per l’esercito egiziano. Esse puntano il dito anche contro il ministro dell’Informazione, Osama Heikal, e contro i media a lui sottomessi, che hanno lanciato gli appelli contro i copti che “stavano uccidendo” l’esercito e l’Egitto.
L’Occidente sembra distante da quanto succede in Egitto. Pressata dai problemi dell’euro, la Ue ha condannato la violenza e ha chiesto più rispetto per i diritti delle minoranze; la Casa Bianca ha addirittura sposato la tesi dell’esercito egiziano. Il presidente Obama, infatti ha deplorato la «tragica perdita di vite fra i dimostranti e le forze di sicurezza», aggiungendo che «è tempo di moderazione da entrambe le parti». Così le richieste di democrazia, libertà di stampa, parità di diritti per cristiani e musulmani – il cuore delle lotte della “primavera araba” egiziana – sembrano allontanarsi. Di questa visione democratica fa parte anche il diritto dei cristiani a edificare luoghi di culto alla pari dei musulmani. Ancora una volta, la libertà religiosa si manifesta come l’elemento chiave dei diritti umani. La manifestazione dei copti – appoggiata anche da molti musulmani – era nata per rivendicare il diritto di una chiesa ad Assuan, distrutta dagli integralisti, appoggiati dal governatore locale (un ex generale). Con la sua tragica conclusione, essa ha però manifestato anche i tanti diritti umani di cui la popolazione egiziana è derubata. Alcune organizzazioni copte ci hanno inviato alcune fotografie terribili sul massacro dei loro fratelli di fede, chiedendo che vengano pubblicate. Pur con qualche esitazione e avvertimento abbiamo deciso di pubblicarle. «Il sangue dei martiri – ha detto Shenouda III ai funerali di alcune vittime – non è a basso prezzo»: esso è il prezzo enorme che gli egiziani pagano per la dittatura dei loro capi e per la superficialità dell’occidente. Finché non sarà fatta giustizia ai massacrati di Maspero, non ci sarà giustizia per nessun egiziano.
cultura
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La mostra, in corso fino all’8 gennaio 2012, espone opere provenienti dal museo e dalle più importanti collezioni pubbliche e private italiane e internazionali
Un italiano a Parigi Il Mart di Rovereto rende omaggio alla figura di Gino Severini, dagli esordi romani al grande successo nella Ville lumière di Angelo Capasso n una lettera scritta da La Roche il 18 Luglio 1927 al suo amico Jacques Maritain, Gino Severini propone uno squarcio preciso della sua epoca: «Forse aveva ragione Juan Gris, quando diceva, una sera che eravamo riuniti a casa sua, in rue de Ravignan: “È un’epoca di falliti; tutto fallisce oggi; la guerra ha fallito, la pace ha fallito, tutte le nostre aspirazioni hanno fallito e noi siamo tutti una massa di falliti”. Dico: “forse” aveva ragione, perché non sono di natura così pessimista per affermarlo, ma quando si vede il disordine dei giorni nostri, quando si considera ciò che ha fatto Picasso (che mi pare il pittore più dotato del nostro tempo) con tutto il suo talento, mi sembra che ci siano alcuni motivi per dubitare e scoraggiarsi. E dire che un giorno lo stesso Picasso mi diceva, nel mio studio, mentre guardavamo insieme alcune riproduzioni di Van Gogh: “Quel povero fallito di Van Gogh!”. Oggi quel pittore sembra il più ordinato, il meno pazzo, il meno fallito di tutti noi. Ecco un altro ricordo che riaffiora spesso alla mia mente di questi tempi: una sera, o una notte, che passeggiavo con Modigliani, questi mi dice: “Io non abbocco alle trovate di Picasso, lo fregheranno e fregheranno anche tutti gli altri”».
I
tutto è qui che entra in contatto con la realtà artistica più strutturata di maestri quali Boccioni e Balla con cui condividerà l’interesse per le tematiche a sfondo sociale, per la tecnica divisionista ma anche per le prime battaglie ideologiche. In segui-
Nel suo lungo soggiorno francese entra in contatto con Picasso, Gris, Braque e Guillaume Apollinaire, partecipando al nascere del Cubismo
Quello compiuto da Gino Severini all’interno dell’arte è un viaggio articolato e significativo, che attraversa e segna alcune delle fasi più cruciali dell’evoluzione del pensiero e del linguaggio artistico della prima metà del Novecento. Il suo viaggio parte da Cortona, dove nasce nel 1883, e che lascia, appena sedicenne, per trasferirsi a Roma. È qui che avviene la sua formazione accademica, attraverso la frequentazione della scuola libera del nudo all’Accademia e quella di disegno a Villa Medici, ma soprat-
to all’esclusione dalla mostra degli Amatori e Cultori, nel 1905 Severini organizza insieme a Boccioni la Mostra dei rifiutati all’interno del foyer del Teatro Costanzi che riecheggia
l’atmosfera polemica del celeberrimo antecedente storico, il Salon des Refusé parigino del 1863. Ed è proprio a Parigi che il viaggio di Severini prosegue nel 1906, dove trascorrerà un lungo periodo della sua vita, affermanosi come uno dei protagonisti dell’avanguardia. I suoi studi romani sul divisionismo lo avvicinano al pointillismo di Seurat, che riecheggia in dipinti come il piccolo e vibrante paesaggio urbano di Pritemps à Montmartre (1909) e che sarà alla base della sua originale interpretazione del Futurismo.
Nel suo lungo soggiorno parigino Severini entra in contatto con Picasso, Gris, Braque e Guillaume Apollinaire, e partecipa al nascere e allo svilupparsi del Cubismo, in particolare contribuendo all’approfondimento del versante orfico del movimento. Ma i suoi rapporti con l’Italia non si interrompono, anzi durante il periodo parigino, Severini svolge un importante ruolo di collegamento fra gli ambienti artistici francesi ed italiani, in particolar modo apre una via di confronto e di scambio tra i dettami cubisti e le intuizioni futuriste. È in contatto con Filippo Tommaso Marinetti il quale lo invita dapprima ad aderire al movimento, e lo coinvolge poi in maniera più strutturata ed impegnata nelle fila della corrente che rivoluzionerà in maniera radicale la cultura europea. Nel 1910 Severini è firmatario del Manifesto della Pittura Futurista insieme a Boccioni, Balla, Carrà e Russolo e nel 1912 organizza a Parigi la prima mostra dei futuristi presso la Galleria Bernheim-Jeune. Nel 1913 e nel 1914 espone a Roma, in mostre futuriste, e in seguito partecipa
alle successive esposizioni futuriste in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1913 a Londra, presso la Marlborough Gallery, si tiene la sua prima mostra personale, che successivamente verrà presentata alla galleria Der Sturm di Berlino. Più tardi, nel 1923, è di nuovo in Italia, a Roma presente alla Biennale romana; poi a Milano per le due mostre del Novecento italiano (1926 e 1929) e a quella di Ginevra (1929). Nel 1928 fa ancora ritorno nella capitale, mentre nel 1930, con gli altri “italiani di Parigi”, è presente alla Biennale di Venezia; partecipa quindi alle Quadriennali del 1931 e del 1935, anno in cui vince il Gran premio per la pittura. Il filo che Severini tesse tra la Francia e l’Italia è sostenuto anche da una serie di scambi epistolari e di pubblicazioni. Attraverso la rivista di Broglio Valori Plastici rendiconta puntualmente la situazione artistica francese in atto: dedica il secondo numero della rivista ad una relazione che approfondisce i risvolti che l’arte produce in quel periodo in Francia, in particolare l’esperienza cubista, e, per la collana dedicata all’arte moderna, pubblica una monografia su Manet. Del Futurismo Severini fu senz’altro uno dei più interessanti ed originali interpreti. In maniera del tutto personale rispetto alla durezza dei canoni espressivi e talvolta violenti della pittura futurista, traduce il concetto di movimento in immagini pulsanti e visioni caleidoscopiche in cui spazio e tempo, tempo presente e memoria passata, sfondo e dettaglio si fondono in un’unica rappresentazione simultanea, che vive di fenomeni luministici.
Frequentatore dei cabaret, dei cafè, dei locali da ballo, Severini racconta la sua visione di quell’universo notturno brulicante di luci e di danze in capolavori come La danza del pan pan al Monico (1911), Geroglifico dinamico del bal tabarin e Ballerina in blu (1912). In particolare Danseuse parmi les tables (1912) è forse una delle
opere in grado di incarnare il culmine di questa fase di ricerca e il punto di sintesi delle diverse direzioni di indagine maturate dall’artista fino a quel momento. Nel quadro, fattori quali il tratto segmentato e vibrante della radice divisionista, la scomposizione cubista di piani e figure e l’accelerazione dinamica del movimento dei soggetti, convogliano ed implodono, segnando lo scoccare al passaggio estremizzante successivo che che lo porterà tra il 1913 e il 1914 ad un livello di astrazione quasi totale del soggetto dipinto (Expansion de la lumière), che l’artista giustificherà teoricamente con l’urgenza di riuscire a riunire sulla
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i che d crona
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
collezioni pubbliche e private italiane e internazionali come la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, il Centre Pompidou, la Estorick Collection di Londra e la Fondazione Thyssen di Madrid e il MoMA di New York.
In queste pagine, alcune delle più suggestive opere dell’artista italiano Gino Severini, attualmente esposte al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto. La mostra chiuderà il prossimo 8 gennaio 2012 superficie bidimensionale non solo la traccia dei dati percepiti attraverso l’osservazione, ma anche quella dei ricordi trattenuti dalla memoria.
Questo punto di azzeramento è propedeutico al produrre una svolta ulteriore all’interno della poetica dell’artista, certamente sollecitata dai cambiamenti che seguono allo scoppio del primo conflitto mondiale, che viene operata sia in termini di prassi pittorica, con un ritorno alla figurazione e alla ricomposizione dell’immagine, che in termini teorici. Se la Maternità del 1916 pone, a livello iconografico, le basi di questo sentore di ritorno al classicismo, di quel “rappel à l’ordre”(richiamo all’ordine) cui risponderanno, da lì a breve, Picasso, Derain e De Chirico il quale, nel 1919, definirà questa tendenza come
un “ritorno al mestiere”, il volume Du cubisme au classicisme (1921) raccoglierà le ragioni teoriche di questa evoluzione classicista descrivendo puntualmente le fasi di passaggio da un’estetica “cubofuturista” ad una pittura “neoclassica”. Ed è sempre su un processo di richiamo, del ritorno e del “ripensamento in chiave postmodernista delle scoperte e dei linguaggi dell’avanguardia” che si sviluppa la produzione artistica di Severini nelle fasi successive della sua ricerca. Attraverso un viaggio à rebours, l’artista sembra tornare, diverse volte e secondo un diverso approccio, a ripensare il proprio lavoro, riguardando al futurismo, e all’astrazione, e producendo opere cariche di un lirismo assorto e previdente, in cui si annidano in germe molti dei fermenti che prende-
ranno poi diversamente corpo e direzione nell’arte europea degli anni a venire.
Questo lungo e denso viaggio compiuto da Severini all’interno della storia dell’arte italiana ed europea viene ripercorso in maniera approfondita dalla mostra Gino Severini 18831966 ospitata presso il Mart Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto fino a Gennaio 2012. L’esposizione mette in risalto non soltanto la sua figura di Severini quale artista avanguardista e rivoluzionario attraverso un itinerario composto da una selezione di settantotto opere, provenienti dal Mart e dalle più importanti
Ma ricentra anche il suo ruolo di teorico raffinato e progressista attraverso la presentazione di una selezione importante di materiale d’archivio proveniente dall’Archivio Severini conservato in parte al Mart e in parte a Roma da Romana Severini e attarevsro la pubblicazione di un volume (Correspondance Gino Severini Jacques Maritain (1923-1966), Collana Documenti del Mart, 14, l’Archivio del ‘900 del Mart curato da G. Radin, edito dal Mart e da Leo S. Olschki Editore, Firenze) che raccoglie gli scambi epistolari tra Maritain e Severini incentrati su disquisizioni di natura estetico-artistica e filosofica e su riflessioni relative alla contemporaneità. Curata da Gabriella Belli e MariePaule Vial, la mostra del Mart nasce da un progetto sviluppato in collaborazione con Daniela Fonti, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, e rispetto alla prima tappa francese dell’esposizione svoltasi presso il Musée de l’Orangerie di Parigi ad aprile scorso, si arricchisce non soltanto di due importanti tele del 1915 non presenti nella mostra parigina Lanciers italiens au galop (Lanciers à cheval) proveniente dalla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino e Train de la croix rouge traversant un village, importante prestito del Guggenheim Museum di New York), ma anche di quindici opere realizzate da Severini negli anni Quaranta e Cinquanta, per aprire un ulteriore spiraglio di approfondimento su un periodo ancora troppo poco studiato della ricerca dell’artista e per fornire uno sguardo ampio e completo sull’intero arco cronologico del lungo e complesso itinerario artistico di Severini e sulla sua, altrettanto importante, riflessione teorica.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
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