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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 22 OTTOBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Mentre i governi ci chiedono azioni immediate, sul dl sviluppo Alfano dice: «Arriva nelle prossime settimane»
Ultimatum all’Italia
La Ue ci processa: «Diteci precisamente cosa farete per la crescita» Domani riuniti a Bruxelles i leader dell’Eurogruppo. Rinviate le decisioni sul fondo Salvastati, Roma sale sul banco degli imputati. Rehn: «Serve un impegno vero, vogliamo vedere i conti» CREDIBILITÀ
di Francesco Pacifico
Non eravamo mai caduti così in basso
ROMA. Il salvataggio greco e il fondo Salva Stati sono di fatti usciti dall’agenda del prossimo Consiglio d’Europa. Con Angela Merkel che ha rinviato ogni decisione ferale a mercoledì prossimo, il vertice di domani rischia di essere incentrato su un altro problema dell’Eurozona: la sostenibilità del debito italiano, legato soprattutto alla scarsa crescita di Roma. E tanti indizi fanno pensare che sia già tutto pronto per mettere un processo il Belpaese.
di Osvaldo Baldacci Via l’Italia, povera Italia. Il nostro bel Paese non merita di essere trattato così dall’Europa e dai mercati. La nostra storia e cultura hanno dei fondamenti. a pagina 2
Morale, politica e strategie internazionali
La morte e la Storia Quattro domande sulla fine di Gheddafi e sull’inizio della nuova Libia
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Un continente in ritardo, un’Unione autolesionista
DIPLOMAZIA
Un consiglio a Bini Smaghi: lasci la Bce di Gianfranco Polillo Smentendo ogni previsione, Ignazio Visco sostituirà Mario Draghi nel difficile compito di Governatore della Banca d’Italia. Ne siamo felici.
Kamikaze d’Europa, ora fermatevi! Serve una governance condivisa per contrastare la crisi: soltanto in questo modo potremo andare oltre le incertezze del III Millennio
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Oscar Giannino • pagina 4
Mentre Berlusconi scherza con Scilipoti
Le polemiche su indignati e black bloc
Moderati e riformisti, è ora di unirsi
Violenza, non basta condannare
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È giusto uccidere a sangue freddo un tiranno? Nel mondo si riapre un’antica discussione, mentre i ribelli arrestano anche Saif, il figlio del raìs
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Ora possiamo tornare a casa? E dobbiamo? La Nato ne discute. Per Parigi è finita ma Londra replica: «Bisogna ancora proteggere i civili» Fra democrazia e islam, quale futuro attende il popolo libico? Sul tavolo del Cnt è già arrivata la sharia come “base della legge”...
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di Enrico Cisnetto
di Francesco D’Onofrio
Se la situazione non fosse drammatica, ci sarebbe da ridere. Siamo alla vigilia di un doppio vertice Ue decisivo per le sorti dell’eurosistema che si apre all’insegna dello scoramento del presidente Jean Claude Junker, secondo cui l’Unione Europea sta dando di sé “un’immagine disastrosa”.
La manifestazione del 15 ottobre a Roma, nel contesto delle manifestazioni di “indignados” che hanno avuto luogo in tante città, ha avuto una specificità italiana concernente gli innumerevoli episodi di violenza fisica che si sono svolti prevalentemente a Piazza San Giovanni.
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
206 •
Le incertezze del governo italiano hanno minato le nostre chance economiche? Inglesi e francesi hanno già in tasca contratti e concessioni
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 22 ottobre 2011
la crisi italiana
L’Italia senza credibilità
Non eravamo mai caduti così in basso di Osvaldo Baldacci ia l’Italia, povera Italia. Il nostro bel Paese non merita di essere trattato così dall’Europa e dai mercati. La nostra storia, la nostra cultura, persino la nostra economia hanno fondamenti migliori di quelli che appaiono. Ma la nostra politica no. Abbiamo problemi seri, non c’è dubbio, abbiamo una crisi di crescita, un problema strutturale del nostro sistema economico che si innesta sulla crisi congiunturale del sistema finanziario internazionale. Ma è ormai palese che la famigerata lettera della Bce era solo l’inizio delle “ingerenze”europee nella situazione italiana. Benedette ingerenze, perché ci indicano una strada per risolvere i nostri problemi, una via che la nostra classe dirigente non sembra in grado di imboccare da sola. Ma certo rimane la tristezza e l’amarezza di fronte all’interminabile elenco di raccomandazioni che tutte le realtà internazionali si sentono in dovere di fare all’Italia. Ormai ci trattano da cattivi pagatori, siamo un’azienda insolvente in commissariamento, la cui gestione controllata non può più essere fatta in funzione degli azionisti (noi cittadini) ma solo in funzione dei creditori finché i debiti non siano estinti e l’azienda Italia non torni a camminare con le sue gambe sulla retta via.
V
Palese che la responsabilità di questo fallimento dell’azienda Italia sia degli amministratori, dei governi, del governo, che continua a danzare sull’orlo del baratro. Facendoci perdere ulteriore credibilità e costringendo a una gestione etero diretta per salvare il Paese nonostante i suoi ministri, anche nell’interesse del resto della comunità economica internazionale che non vuole essere trascinata nel vuoto dalla sconsideratezza di pochi. E per questo, per inciso, dobbiamo dire grazie all’Europa e grazie all’euro: senza, saremmo stati abbandonati al nostro destino. Ieri l’ennesimo schiaffo, l’ennesimo richiamo all’urgenza di un impegno per lo sviluppo e la crescita. Mentre il premier dice «non ci sono soldi, qualcosa ci inventeremo», l’Europa ci dà un ultimatum per trovare risorse, iniziative e programmi che rilancino la crescita indispensabile per pagare i nostri debiti e rimettere in carreggiata l’Italia. «Occorre dettagliare obbiettivi e scadenze», ha detto il portavoce del commissario agli affari economici e monetari, Olli Rehn. È la stessa cosa che tutte le istituzioni europee ripetono; è quello che nei fatti compie la BCE quando compra i nostri Bond e diventando creditrice acquisisce il potere di condizionarci, di salvarci o condannarci; è quello che affermano le agenzie di rating quando ci declassano ma non ci bocciano, intendendo “l’Italia ce la può fare, se vuole”, ha i numeri, le risorse, le forze, ma deve trovare la volontà, e le manca la guida. Ecco, chi è al timone domenica arriva al fondamentale vertice europeo come a un ultimo esame, a un ultimo round di una prova difficile. Come a un rendiconto che un debitore in amministrazione controllata deve fare al creditore. Tutta l’Italia responsabile se ne rende conto, tutta sa che abbiamo la possibilità e il dovere morale di farcela, di essere all’altezza del nostro Paese. Tutti, dai ceti produttivi al capo dello Stato. Speriamo che anche il governo cominci finalmente a rispondere all’appello.
Il Commissario: «Attendiamo che domani Palazzo Chigi faccia chiarezza sulle riforme»
Lo schiaffo di Mr Rehn
Bruxelles ci avverte: «Senza misure per la crescita potrebbe finire il sostegno della Bce al debito italiano.» Ma c’è lo spettro della richiesta di una nuova manovra di Francesco Pacifico
ROMA. Il salvataggio greco e il fondo Salva Stati sono di fatti usciti dall’agenda del prossimo Consiglio d’Europa. Con Angela Merkel che ha rinviato ogni decisione ferale a mercoledì prossimo, il vertice di domani rischia di essere incentrato su un altro problema dell’Eurozona: la sostenibilità del debito italiano, legato soprattutto alla scarsa crescita di Roma. E tanti indizi fanno pensare che sia già tutto pronto per mettere sotto processo il Belpaese. Già prima che il segretario del Pdl aveva rinviato a data da destinarsi il decreto di sviluppo, Olli Rehn, commissario all’Economia e agli Affari monetari, aveva avvertito attraverso le colonne de Les Echos: «La Commissione europea si attende che al vertice Ue di domenica l’Italia ribadisca con chiarezza i suoi piani di risanamento dei conti pubblici e di riforme strutturali». Non contento, il politico finlandese, di solito benevolo verso Roma, ha anche tracciato un filo tra l’evoluzione delle nostre finanze pubbliche e il cantiere delle riforme europee, «perché riteniamo che se l’Italia avesse un solido impegno con una tabella di marcia precisa questo faciliterebbe di molto i nego-
ziati tra paesi domenica». Parole che ricordano i warning che si lanciavano ai tempi della Commissione europea. E nelle quali si legge una sottile minaccia che innazittutto potrebbe frenare il sostegno ai nostri Btp (oggi da parte della Bce, domani dal Esm). Ma che potrebbero persino far presagire la richiesta all’Italia di una nuova manovra finanziaria, che in patria già danno per certa gli esponenti del Terzo Polo e l’ex ministro delle Finanze,Vincenzo Visco. Al momento, però Bruxelles, si sofferma sul decreto sviluppo. Infatti, dopo il rinvio annunciato da Alfano, l’Ue è stata costretta a chiarire cosa si attende dall’Italia. Attraverso il portavoce di Rehn,Amadeu Altafaj, ha fatto sapere a Palazzo Chigi «di aver preso atto del ritardo nella presentazione delle misure per lo sviluppo da parte del governo, ma incoraggia il governo a ”presentare urgentemente il suo piano per la crescita». Perché, «i fondamentali dell’economia italiana sono solidi», ma come hanno già segnalato Trichet e Draghi nella loro lettera di agosto «sono necessarie ulteriori riforme strutturali per realizzare il potenziale di crescita e di creazione dei posti di lavoro». Domani, co-
Angela Merkel: «La Francia non si muove di una virgola sul fondo Salvastati»
22 ottobre 2011 • pagina 3
Ma il dl sviluppo è un’araba fenice Il governo rinvia ancora. Alfano: «Il provvedimento non sarà pronto prima di fine mese» ROMA Qualcuno non deve avere avvertito Angelino Alfano delle nuove intenzioni della Ue. Mentre da Bruxelles arrivavano i primi segnali al governo per un’accelerata, il segretario del Pdl è andato in televisione e ha annunciato che «il decreto sviluppo arriverà per la fine del mese».
Troppo per un’Unione che al Consiglio d’Europa di domani si attende da tutti i Paesi sotto attacco della speculazione le misure prese per contrastare la crisi. Non a caso il ministro competente, Paolo Romani, ha visto Giorgio Napolitano per chiedere aiuto a reperire le risorse necesserie che Tremonti nega. Ma al lavoro ieri mattina presto non c’erano soltanto l’ex editore di Lombardia 7 e l’ex Guardasigilli che interveniva alla “Telefonata” di Belpietro, per mettere la faccia su rinvio figlio della mancanza di risorse e delle risse nel governo. In contemporanea Silvio Berlusconi aveva convocato a Palazzo Grazioli una serie di funzionari del ministro dello Sviluppo economico per conoscere lo stato dell’arte del decreto. Alla stregua di uno studente che in prossimità dell’esame ha bisogno dei migliori insegnati privati. Il premier cerca un colpo ad effetto per gli esaminatori di Bruxelles e ha smentito sia taglia al Welfare sia condoni. Ma cosa dirà il Cavaliere in parte l’ha anticipato Angelino Alfano. Il segretario del Pdl ha spiegato «che i provvedimenti saranno più di uno e che saranno incentrati sulla sburocratizzazione e sul rilancio delle infrastrutture».
Difficilmente il premier si soffermerà pienamente sulla tempistica del provvedimento. Stando a quanto sarebbe stato deciso al vertice di Palazzo Grazioli che ha sbloccato la nomina di Ignazio Visco in Bankitalia, i primi a vedere la luce saranno i decreti sulle misure a costo zero (come quelli per la semplificazione). Gli altri, cioè le misure per incentivare la crescita, saranno varati non appena incamerate le risorse necessarie. Nel Pdl sono in molti a temere che questa prassi finisca soltanto per rafforzare la linea Tremonti. Il
completando anche il pacchetto energia (gli incentivi per le rinnovabili, la conferma della detrazione del 55 per cento alle ristrutturazioni edilizie per il prossimo triennio e le modifiche alla Borsa elettrica), al ministero delle Infrastrutture si studiano invece misure per agevolare la finanza di progetto, visto che non è facile reperire le risorse necessarie per le opere strategiche già sbloccate dal Cipe. Per quanto messo in secondo piano, si attendono in settimane da Tremonti le stime sul costo delle
Domani Berlusconi traccerà a grandi linee il testo. Pressioni su Tremonti per il concordato quale si è vantato pubblicamente di non aver dato soldi all’economia reale pur di non aumentare il peso del deficit. Romani sta continuando a selezionare le oltre 300 proposte arrivate dai suoi colleghi ministri. Intanto, al ministero di via Veneto, risolta la grana banda larga con i soldi della Cdp, i funzionari del dicastero starebbero studiando come tamponare il taglio da 300 milioni deciso per il fondo di garanzia bancaria alle Pmi. Operazione non complessa visto il peso della garanzia e il basso tasso di insolvenza. Se i tecnici dello Sviluppo stanno
me si augura il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini, Berlusconi deve presentare le linee guida del decreto sviluppo. E gli conviene farlo in maniera convicente: vuoi perché le stesse informazioni Bruxelles le attende da tutte le economie appesantite dal debito, vuoi perché perché per il momento non si vogliono lanciare ombre sulle finanze italiane con lo spread tra Btp e Bund che ancora ieri era vicino ai 400 punti base.
Non a caso Amadeu Altafaj ha ribadito prima che i saldi tutti lacrime e sangue della manovra di bilancio di agosto sono «corretti» se permettono «all’Italia di conseguire il pareggio di bilancio nel 2013». Anche perché questo salasso è propedeutico al varo di «misure ambiziose con un calendario per la loro attuazione, in modo da rafforzare la fiducia dei mercati. È importante porre l’enfasi non soltanto sulle misure di consolidamento di bilancio, ma anche sulle misure per il rafforzamento della crescita». Un’Italia al palo e nel mirino degli europartner rischia con più difficoltà di difendersi dalle accuse di Sarkozy e dalle richieste francesi di liberare il posto di membro del board della Banca centrale europea oggi occupato da Lorenzo Bini Smaghi. Non a caso Les Echos, molto sensibile agli interessi transalpini, ieri notava che dopo la nomina di Ignazio Visco in Banca d’Italia «resta ancora il grande mistero su Lorenzo Bini Smaghi, che era
misure al vaglio. Al riguardo tra i tecnici di via Veneto si registra una certa insofferenza per i ritardi della Ragioneria generale dello Stato. Mentre sull’inquilino di via XX si registra un pressing sempre più forte per preparare un concordato di massa, che l’ex tributarista invece vorrebbe evitare. In ogni caso nessuno finora ha risposto alla sollecitazioni europee. Ci ha provato, indirettamente, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sottolineando che «con semplificazioni importanti si darà grande impulso alla crescita, ma occorrono anche risorse
in pole position e che si suppone lasci il suo posto nel board della Bce a un francese».
Un tempo si sarebbe detto minuzie, ma Sarkozy non vuole affrontare l’ultima coda della riforma della governance europea senza una copertura a Francoforte.Anche perché è sempre lo stesso il nodo sul quale si è iniziato a discutere all’Eurogruppo di ieri e sul quale si continuerà a dibattere fino a mercoledì prossimo: l’allargamento della dotazione del Fondo Salva Stati, con la conseguenza trasformazione del veicolo in una banca proposta da Parigi.Al riguardo la Bild avrebbe fatto raccontato di un’Angela Merkel che durante un vertice con i parlamentari della Cdu sarebbe sbottata con un «i francesi non si muovono di una virgola» nei negoziati per risolvere la crisi dell’euro. Parole smentite dalla cancelleria, secondo la quale non ci sono distanze sull’evoluzione dell’Efsf tra Parigi e Berlino, ma di fatto confermato da Philipp Rosler. Il vice-cancelliere tedesco, e leader dei liberali, ha rifiutato l’idea che il Salva Stati possa avere l’autorizzazione ad agire come una banca e di ricevere finanziamenti dalla Bce. Per i francesi concedere una licenza bancaria permettere all’Esm, permetterebbe al veicolo di poter aumentare la sua dotazione grazie la leva finanziaria per arrivare a una potenza di fuoco anche vicina ai 2mila miliardi di euro. Berlino invece vuole che sia soltanto la Bce
aggiuntive. Credo che con un po’ di fantasia si possano trovare e, a mio avviso, si devono trovare». Berlusconi quindi deve reperire le risorse necessarie per rimettere in moto l’economia. Anche perché sul decreto sviluppo si gioca una partita che è politica quanto economica. A nome dei compagni di Fare Italia Adolfo Urso e Pippo Scalia, l’ex ministro Andrea Ronchi ha confermato che «è invotabile un provvedimento che sarà a costo zero». Più chiaro uno degli storici aspiranti al trono di Berlusconi, Roberto Formigoni. Il governatore della Lombardia ha sottolineato quanto «il decreto sviluppo non possa essere fatto solo con zero risorse: è un passaggio delicato per lo stesso governo. È giusto che il premier dica di voler governare fino al 2013, ma il passaggio del decreto sviluppo è fondamentale: dirà la qualità del proseguo della legislatura, è essenziale per dare ossigeno alle nostre imprese e alle nostre famiglie».
Intanto Emma Marcegaglia sottolinea i ritardi del governo e nota che nel dibattito politico «non si parla delle riforme profonde di cui abbiamo bisogno: una riforma fiscale che abbassi le tasse su lavoratori e imprese, liberalizzazioni vere, un piano di vendita dei beni pubblici, investimenti sull’energia». (f.p.) a fornire con le sue emissioni garanzie al debito dei Paesi più vulnerabili. Temendo che ipotesi diverse possano azzoppare anche la raccolta tedesca, che 48 ore fa ha visto salire al 2 per cento (circa un terzo di quello italiano) l’interesse riconosciuto ai suoi sottoscrittori.
È per le divisioni con i francesi, il calo di consenso tra i propri elettori, i timori dei produttori del secondo Paese esportatore al mondo (l’indice Ifo, quello che misura le aspettative sull’andamento dell’economia tedesca, a ottobre è sceso per il quarto mese consecutivo a 106,4 punti) che Angela Merkel ha ottenuto di chiudere la partita europea dopo l’ennesimo passaggio in Parlamento. Non contenta, ha finito per creare altre tensioni ribadendo che le banche creditrici della Grecia dovranno accettare sui titoli in loro portafoglio una minusvalenza sui rimborsi superiore al 21 per cento indicato finora. Berlino spinge per arrivare anche al 50 per cento, nonostante la Francia e la Bce sono contrari. Una decisione che ha finito anche per rendere più complesso il lavoro dei ministri delle Finanze, convocati all’Eurogruppo straordinario per sbloccare la prossima tranche da 8 miliardi di euro del maxi prestito greco, le condizioni per far partecipare i privati al prossimo salvataggio di Atene e – soprattutto – le perdite che si assumeranno le banche detentrici del debito ellenico.
la crisi italiana
pagina 4 • 22 ottobre 2011
All’origine della crisi, Usa e Vecchio Continente erano aree concorrenti. Ma non è stato capito
Kamikaze d’Europa fermatevi! Dopo aver rinunciato a farlo sullo scacchiere mondiale come “terza forza” tra Usa e Brics, ora l’Ue nemmeno di fronte all’estremo rischio che corre sa darsi una governance condivisa, sia politica sia banco-finanziaria. Un suicidio... di Oscar Giannino el Nuovo Mondo post 2007, quando è entrato in crisi il modello d’intermediazione finanziaria globale di stampo anglosassone, ma diventato comune a tutti i Paesi avanzati, le vecchie teorie del contrasto inevitabile tra sistemi continentali e oceanici vanno tutte riscritte. Molti in Europa continuano a non rendersene conto. E a credere, a maggior ragione per l’origine “americana”della crisi finanziaria 4 anni fa, che in realtà siamo all’ennesima riproposizione di Terra e Mare di Carl Schmitt. A giudizio di chi qui scrive, niente potrebbe essere più errato (...).
N
Tra l’estate 2007 e la grande paura che ha dominato fino a metà 2009, al termine della discesa del commercio mondiale che aveva toccato quasi un 40% meno in volumi e valori tra primo e secondo trimestre 2009, politici europei, ma anche e soprattutto intellettuali e media community (meno i banchieri e finanzieri) hanno ricorso a un classico topos geopolitico. «La storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime», scriveva Carl Schmitt nel suo Terra e Mare. Il Mare inteso come la negazione della differenza, la Terra come variazione e difformità. La Terra divisa dai confini tracciati dall’uomo. Il Mare permanentemente instabile. Il Mare come caos. La Terra come gerarchia e ordine. Il Mare come il Capitale, la Terra come
il Lavoro. Il Lavoro crea, il Capitale distrugge. L’origine della crisi si prestava secondo molti a questo iperconservatore criterio di lettura. Erano le potenze del Mare, gli Stati Uniti eredi dell’Impero britannico, ad aver dato origine e sostegno - fino a imporlo in tutto il mondo - al modello d’intermediazione finanziaria ad alta leva e bassa congruità patrimoniale che esplodeva, tra-
Washington resta titolare di una supremazia che Bruxelles si sogna scinando il mondo intero nella crisi. Politici e intellettuali europei riducevano così l’esasperato greed dei banchieri e finanzieri “modello americano” all’ennesima riproposizione, a ben vedere, della “classica” contrapposizione tra lo spirito comunitario prussiano e l’individualismo inglese, proposto tanto tempo fa da Oswal Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente. Con la differenza che il presunto “superiore modello di civiltà europeo”- basato su welfare e diritti, alta spesa pubblica e alto prelievo fiscale – prendeva il posto della buona vecchia Prussia militarista di un tempo, usata da Spengler come emblema dell’olismo conti-
nentale rispetto allo sfacciato e anomico individualismo anglossasone. Anche nella lettura geopolitica della crisi proposta molto spesso da Giulio Tremonti, risuonano elementi di questa tradizione.
Il modello europeo sarebbe il MorgenLand, la terra del mattino per la sua presunta superiorità sociale, l’Occidente anglosassone l’Abenland, la cupa tetra del declino. Da noi l’istinto potente a ordinamenti statali e comunitari, da loro l’istinto predone dei mari, pronto al bottino e mai all’equa distribuzione. Gli eccessi di Wall Street – condivisi dalle banche europee di ogni tipo, come si è visto dai massicci salvataggi del 2009 - non dipendevano da errori di regolazione della politica, bensì riproponevano l’immagine dell’America come l’Eterna Cartagine, l’anti-Eurasia per eccellenza, il cui spirito mercantile e predatorio si era innestato sulla certezza di rappresentare gli eletti dal Signore, a maggior ragione con le guerre figlie del settembre 2001. La crisi del 2007-2008 ha in effetti rappresentato la parola fine – al di la delle lunghe e dolorose code in corso ancor oggi degli interventi in Iraq e Afganistan post 2001. Ma la neonarrativa Terra-Mare sull’origine della crisi finanziaria ha fatto molto male proprio a quell’Europa che politici e intellettuali hanno considerato “superiore”. Credere che negli Usa il capitalista predone si sia sostituito al politico e sia an-ecumenico, mentre l’Europa sia continentalmente politica ed ecumenica per definizio-
ne, applicato all’economia e alla finanza è altrettanto sciocco che credere che il monoteismo religioso sia figlio della terra desertica e il monoteismo capitalista del mare sconfinato (...). Tutta la popolarissima impostazione critica di Zygmunt Baumann contro il mercato e il capitalismo – che sarebbe “liquido” in quanto immateriale nei suoi sviluppi postindustriali, e in quanto liquido negatore dell’Uomo appunto, cioè dell’Uomo europeo superiore in quanto non individualista - si fonda a ben vedere su tale presupposto. Agli occhi di tali filoni, derivati finanziari e repackaging di debito pubblico e privato senza capitale di rischio adeguato da parte degli arrangers finanziari - i pilastri del modello andato in crisi con Lehman - si prestavano eccezionalmente bene a ipostatizzare quel dio denaro disincarnato da ogni bene oggetto principe della loro esecrazione, puro flusso che disintermedia ogni radicamento umano, identità statale e fondamento sicuro. Sciocchezze, che a ben vedere non identificano affatto l’origine finanziaria della crisi 2007-2008 (...).
Nell’arida realtà dei fatti, la crisi di quattro anni fa consegnava all’Europa una grande occasione. Il circuito dei simmetrici interessi tra Usa e Cina-Brics conosceva un’imprevista frattura. L’Europa avrebbe dovuto infilarcisi a testa bassa, in nome dei propri interessi e di un mondo più stabile, nel quale giocare un maggior ruolo (...). Poiché erano i prodotti finanziari di debito
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ricana nei confronti della Cina, cioè la politica di contenimento dell’influenza di Pechino lungo il margine esterno continentale asiatico, l’esigenza considerata prioritaria dagli Usa di un’unitaria politica di tutela degli accessi alle aree produttrici di materie prime strategiche colà situate (...). È in coerenza a questo riposizionamento strategico che l’Europa riveste sempre meno interesse per gli Usa. Le ultime parole veramente impegnative sul ruolo euroatlantico risalgono a Clinton, nel 1998. Poi siamo stati richiesti impegni solo nella “nuova” Nato, di proiezione antiterrorismo. Ma l’Europa non ha compreso che era suo primario interesse, concorrere con uomini e mezzi alla Rimland Policy in quanto tale. Sono gli Usa, che da quattro anni a questa parte hanno firmato una nuova batteria di accordi bilaterali, economici e militari, con India e Indonesia, Filippine e Australia e Nuova Zelanda, fino al pieno accesso di forze Usa alle basi militari australiane annunciato lo scorso 15 settembre.
americano – privato e pubblico, nel frattempo in via di accrescersi del 45% in 3 anni da 10 a 14,5 trilioni di dollari – detenuti dai cinesi, ad andare incontro a pericolosi rischi di insolvenza, nell’obbligata più estesa cornice di governance mondiale - il G20 - l’euroarea avrebbe dovuto battersi per una o più delle quattro tradizionali vie conosciute per dare concretezza ma insieme maggior stabilità all’interdipendenza tra Paesi avanzati e Paesi emergenti. La prima era quella monetaria. Il peg tra dollaro e yuan renmimbi non può essere unilateralmente allentato su pretesa americana, almeno finché i Treasuries Usa continueranno ad aver bisogno di acquirenti pubblici cinesi. E ne hanno oggi più bisogno che mai, dopo il giusto downgrading del debito federale americano.
L’Europa avrebbe dovuto percepire il proprio immediato interesse non a una mera riforma di facciata in sede Fmi dei pesi tra le tre aree del mondo – Usa, Ue, Brics – quale quella approvata 2 anni fa su regia americana. Il valore di cambio dello yuan-renmimbi andava collegato a una modifica sostanziale del paniere monetario di riferimento, rispetto al solo dollaro, e l’euro avrebbe dovuto giocare un ruolo sostanziale, di quasicomprimario. La seconda era quella delle bilance dei pagamenti. Il sostegno dei fori multilaterali finanziari ai Paesi affetti da squilibri - siano essi bolle di asset, o eccesso di debito pubblico – andava e va commisurato a criteri che contemplino il dovere maggiore di sostegno a carico di chi è in forte attivo nelle partite correnti. Ed è un criterio da adottare non solo a livello “macro”, tra le tre macroaree, ma anche al loro interno. In caso contrario, si finisce per credere a un impossibile modello di stabilità nel quale tutti gli attori siano in posizione attiva o meglio fortemente attiva, mentre ciò è possibile solo a Paesi in forte avanzo commerciale o in forte eccesso di risorse finanziarie o materie prime. La terza è quella delle bilance commerciali, e rappresenta senza entrare in troppi dettagli un sottoinsieme della seconda, centrata sull’attivo e passivo nell’export e non solo sui flussi di capitale dall’estero. La quarta, infine, importantissima, aveva a che fare con l’origine stessa della crisi: l’omologazione il più possibile secondo standard comuni dei criteri contabili e patrimoniali; della disciplina dei ratios patrimoniali per gli intermediari finanziari, commisurati a precisi e comuni profili di rischio per tipi di asset e impie-
ghi; della vigilanza bancaria e sugli intermediari non bancari; regolazione congiunta delle dark pools e del capitale non bancario Over The Counter, cioè al di là dell’orizzonte di ogni vigilanza, multiplo per oltre 10 volte almeno se non più, dell’intero Pil annuale planetario. L’Euroarea non ha avuto forza e intelligenza di giocare alcuna di queste quattro partite. Il G20 ha perso già ogni capacità d’interventi operativi. Gli Usa lo concepiscono come una mera cornice di fondo rispetto al G2, in cui l’unica potenza associata è la Cina. Il World Stability Forum, affidato alla guida di Mario Draghi, ha dovuto elaborare le proprie sacrosante raccomandazioni tenendo conto che il tallone monetario mondiale resta il dollaro; che il riequilibrio delle bilance dei pagamenti e commerciali è affidato alla libera volontà cioè alla mera congiuntura; che ogni Paese continua a concepire vigilanza bancaria e dei mercati finanziari come una riserva di sovranità; e che infine non c’è alcun accordo tra Usa e Ue su principi contabili standard comuni. In tutto questo, è l’Europa a perderci e non gli Usa, che restano pivot e playmaker grazie al dollaro, in cui sono denominati tutti i mercati delle commodities mondiali. Quel che a molti statisti e intellettuali europei è
RISK È IN EDICOLA Da lunedì il nuovo numero di Risk, da cui è tratto l’articolo che qui pubblichiamo in anteprima, sarà in edicola. Dedicato al Giappone e intitolato: ”Il Sol tornante”, ospita fra gli altri, saggi di: Michael Auslin, Carlo Jean, Edward Luttwak, Andrea Nativi, Davide Urso e Stefano Silvestri
sfuggito, è la portata del ripensamento strategico americano, in corso almeno dalla Quadrennial Defense Review del 30 settembre 2001, precedente alla crisi finanziaria, ma da questa ulteriormente confermato e rafforzato. Data da allora la Rimland Policy ame-
Ogni presunzione di superiorità del cosiddetto “modello sociale europeo” cade per effetto della crisi dell’eurodebito. A due anni dalle elezioni greche che ci svelarono i 15 punti di Pil di maggior deficit pubblico occultato da Atene, la divergenza radicale nell’euroarea ha finito per mettere in questione la tenuta stessa della moneta comune. Non rileva qui ripercorrere la lunga strada imboccata dagli “eurovirtuosi” - Germania e alleati, Olanda e Finlandia in prima fila – per sostituire le inefficaci sanzioni politiche previste dal Trattato agli euroviziosi con il giudizio quotidiano dei mercati, molto più severi nel giudicare in termini differenziali il rischio-Paese, ma senza però pensare a una necessaria cornice di strumenti dotati di capitalizzazione e procedure adeguate per l’intervento automatico, a sostegno di emergenze tali da mettere a rischio l’euro stesso. La Germania ha ottenuto il sostanziale commissariamento della Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda, e analogo processo è in corso in queste difficili settimane per l’Italia. Ma l’esposizione del suo sistema bancario al rischio-Paese ha puntualmente riprodotto – e ampliato – il rischio contagio che nel 2008 depresse la crescita mondiale dopo Lehman. Il semidefault greco – nell’ordine delle cose – può essere compatibile con la permanenza di Atene nell’euro solo in ragione dello scarso peso del Pil greco nell’euroarea, ma è impossibile per ogni altro euromembro. È l’ingresso della crisi dell’eurodebito
nella sua ultima fase, da giugno in avanti, a portare la responsabilità preminente della grande frenata in corso nell’economia mondiale: il commercio mondiale, rimbalzato del 15% nel 2010 dopo quasi 13 punti persi nel 2010, stenterà nel 2011 a crescere più del 5,5% alla luce dei pessimi dati che da giuno hanno preso a rimbalzare in tutti i Paesi avanzati.
Dopo aver rinunciato a farlo sullo scenario mondiale come terzo pilastro tra Usa e Brics, L’Europa nemmeno di fronte all’estremo rischio che corre essa stessa si è decisa a darsi una governance realmente condivisa, sia essa politica – è più complesso, alla luce dei Trattati vigenti - o meramente banco-finanziaria. Oltretutto, l’Europa ha dimenticato di aver beneficiato copiosamente degli interventi straordinari messi in atto dalla Fed. Oltre il 38% dei 16.500 miliardi di prestiti a costo zero e acquisti di asset praticati dalla Fed nel post Lehman – l’elenco preciso dell’ammontare e dei beneficiari lo abbiamo appreso a metà luglio scorso, grazie a una norma bipartisan varata dal Congresso che ha vinto l’opacità del regolatore monetario Usa – sono andati a banche e soggetti finanziari europei. Ed è anche per questo, che il segretario al tesoro americano Tim Geithner si è presentato furibondo prima al G7 di Marsiglia in agosto, poi all’ultimo Ecofin, e infine al Fmi di Washington di fine settembre, usando nei confronti dell’irresponsbilità e delle divisioni europee parole durissime, fuori da ogni convenzione e misura diplomatica. Tedeschi ed europei hanno risposto a muso duro alle richieste americane. Ma purtroppo sono ancora dalla parte del torto. Media e politici si crogiolano in interrogativi oziosi sul presunto ruolo-ombra giocato dal sistema finanziario e politico americano, nell’aggravare la crisi dell’eurodebito. Le agenzie di rating che abbassano la fiducia verso Paesi e banche europee sono americane, certo. Ed è verissimo che il deflusso di capitali americani dal circuito finanziario europeo è massiccio. Come è realtà che in Usa sia divenuto proibitivo per grandi banche europee fare provvista di capitale a breve nell’overnight market. Ma gli euromembri possono solo prendersela con se stessi, se hanno creduto a una moneta unica senza unificazione reale dei mercati dei beni, dei servizi e del lavoro sottostante. E se chiacchierano a vuoto della presunta superiorità di diritti sociali garantiti secondo costi insostenibili oggi, e impossibili per le nuove generazioni.
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la crisi italiana
Fabrizio Saccomanni, Anna Maria Tarantola e Giovanni Carosio affiancheranno Ignazio Visco nella sua nuova avventura
Il segno dei quattro
Il Direttorio di Via Nazionale è composto da un nucleo di professionisti di formazione diversa, ma tutti accomunati dalla passione per l’economia. Ecco chi sono gli uomini (e la donna) che hanno vinto la battaglia di Bankitalia ue romani, un napoletano, un leccese e una lodigiana: anche se quest’ultima, nata a Casalpusterlengo il 3 febbraio 1945, ha un nome come Anna Maria Tarantola, evocante sonorità sciamaniche che sembrerebbero piuttosto appropriate al salentino Giovanni Carosio, nato a Galatina il primo agosto del 1945. Assieme alla Tarantola e a Carosio, il terzo vicedirettore è Ignazio Visco, nato a Napoli il 21 novembre 1949. Che ora è chiamato a guidarli tutti come Governatore. A completare il Direttorio, appunto i due romani: il Governatore Mario Draghi, nato il 3 settembre 1947; e il Direttore generale Fabrizio Saccomanni, nato il 22 novembre 1942. Anche se poi Saccomanni è romano di nascita ma milanese di formazione, visto che ha la laurea alla Bocconi. Draghi viene invece dalla Sapienza di Roma, come Carosio e Visco. Anzi, Draghi e Visco hanno in comune anche l’avere avuto come relatore Federico Caffè: l’economista di sinistra maestro del keynesianismo in Italia, che
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di Maurizio Stefanini scriveva sul Manifesto e che la mattina del 15 aprile 1987 scomparve misteriosamente senza lasciar traccia. Carosio si laureò invece in Scienza della Finanze, mentre la Tarantola sudò all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e fece la tesi su Teorie neoclassiche e Keynesiane di fronte ai problemi monetari internazionali. Gli ulteriori studi post-laurea Draghi, Saccomanni e Visco li hanno fatti in America: rispettivamente, al Mit di Boston; a Princeton; alla University of Pennsylvania. Carosio e la Tarantola sono invece di perfezionamento inglese: rispettivamente, a Cambridge e alla London School of Economics.
Come spiega lo Statuto, “il Direttorio è un organo collegiale, costituito dal Governatore, dal Direttore generale e da tre Vice direttori generali, competente per l’assunzione dei provvedimenti aventi rilevanza esterna relativi all’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite dalla legge alla Banca per
il perseguimento delle finalità istituzionali, con esclusione delle decisioni rientranti nelle attribuzioni del Sebc. Le deliberazioni sono assunte a maggioranza dei presenti; in caso di parità prevale il voto del Governatore. Delle riunioni viene redatto apposito verbale”. Il Governatore è al contempo membro del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea, membro del Gruppo dei Sette e del Gruppo dei Venti oltre che del Consiglio d’Amministrazione della Banca dei Re-
La nomina di un interno ha evitato uno strappo interno
golamenti Internazionali. Mentre il Direttore Generale sostituisce il Governatore in caso di assenza, oltre ad avere la competenza degli atti di ordinaria amministrazione della Banca. Draghi, che ha comandato tutti prima di volare a Francoforte, è però l’unico a non essersi formato in Bankitalia.
Saccomanni invece è stato al Fondo Monetario Internazionale, nella Banca Centrale Europea, nella Banca dei Regolamenti Internazionali e nell’Unione Europea. Ma sempre in rappresentanza di Bankitalia, di cui è stato una specie di ambasciatore itinerante. In ultimo tra 2003 e 2006 lo avevano designato vicepresidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, prima di essere designato il 2 ottobre 2006 direttore generale. A reincollare con un discreto successo un po’ di cocci, dopo i disastri dell’era Fazio. E anche di nuovo a rappresentare la Banca d’Italia all’estero, e stavolta ai massimi livelli. Ministeriale ma cosmo-
polita Saccomanni rientra in pieno nello stereotipo del romano quando si apprende che il tratto caratteriale più descritto da chi l’ha conosciuto è la bonarietà. La passione per il golf, condivisa con Draghi, da una parte; la passione per la musica classica, con un abbonamento ormai trentennale a Santa Cecilia, dall’altra: sono ulteriori particolari di un carattere a cui dovrebbe piacere prenderla con calma. Saccomanni fu appunto colui che riuscì a venire a capo dell’uscita della lira dallo Sme, nel terribile 1992. E colui che ne pilotò il rientro, nel 1996. Insomma: è a Saccomanni che dobbiamo se l’Italia è riuscita a farsi ammettere subito nell’Euro. Nel 2000 Saccomanni fu anche fra i grandi registi dell’unico intervento mai fatto dalla Bce per frenare il superdollaro di allora. Sia che la calma non vada confusa con la pigrizia; sia che la passione europeista sua stata tale da farlo lavorare fuori dagli orari di ufficio a scapito anche i golf e concerti. Il ruolo di Saccomanni nell’assicurare quel grande successo di Prodi
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In caso contrario, sarebbe un fastidioso smacco a quell’asse franco-tedesco che sta governando l’Europa
Un consiglio a Bini Smaghi: adesso lasci la Bce
Difficile immaginare Parigi non rappresentata nella Banca centrale e le pressioni di Nicolas Sarkozy si faranno sempre più insistenti di Gianfranco Polillo mentendo ogni previsione, Ignazio Visco sostituirà Mario Draghi nel difficile compito di Governatore della Banca d’Italia. Ne siamo felici per le caratteristiche dell’uomo, per la sua indubbia preparazione e – perché no – per la sua simpatia e il suo disincanto. Le poche volte che lo abbiamo incrociato, in qualche paludato dibattito di politica economica, questi tratti umani ci hanno sorpreso di più del rigore con cui esponeva le sue tesi. Tesi che in quelle occasioni, ma non solo, abbiamo assolutamente condiviso. Quindi tutto è bene quel che finisce bene: si potrebbe dire, anche quando dal cilindro, dopo uno scoppiettante ma anche disarmante siparietto, esce un coniglio o meglio un economista di vaglio, schivo da protagonismo e restio ai richiami del mondo dello star system. Garantirà la lunga tradizione della Banca, solita a parlare con i numeri più che con le battute a effetto o l’ostentazione.
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Saranno in molti a rivendicare di essere stati i kingmaker.Tutte tesi difficili da dimostrare. Il nostro punto di vista è diverso. Conoscendo un po’ l’ambiente di Banca Italia, sapevamo ch’era tra i migliori. Poco più giovane di Mario Draghi, come Draghi, veniva dalla covata di Federico Caffè, quel grande economista italiano scomparso misteriosamente. Un professore che durante gli anni un po’ folli del ’68 era solito sedersi nei banchi di Fontanella Borghese – oggi facoltà di architettura – e cercare di convincere noi ribelli immaginari della necessità di non abbandonare tutto in nome di una rivoluzione tutta da fare. Questo spiega perché, quando parlavamo con gli amici, sussurravamo, quasi con timore, il nome di Ignazio Visco, come possibile alternativa. L’inferno che si era scatenato in quei giorni roventi per quella nomina ci faceva apparire come degli ingenui: incapaci di comprendere i giochi della politica, le reti di complicità allestite, le grandi ambizioni dei diversi candidati che a veder bene è stato anche l’unico grande successo dei governi dell’Ulivo e dell’Unione in Italia, ci ricorda poi un’altra sua caratteristica: l’essere considerato appunto vicino al centro-sinistra. Anche se sulla sua sostanziale indipendenza nessuno si permette di dubitare. In particolare, è stata la sua bono-
con i loro sponsor e padrini. Oggi il quadro è più chiaro. Mario Draghi alla presidenza della Bce, Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, Vittorio Grilli direttore generale del Ministero dell’economia. Chi resta fuori da tutto è solo Lorenzo Bini Smaghi, che è sì nel board della Banca centrale europea, ma in una situazione di oggettiva difficoltà.
Nicolas Sarkozy ha da tempo rivendicato quel seggio, dopo la staffetta tra Jean Claude Trichet e Mario Draghi. Del resto è difficile che la Francia non possa essere rappresentata in quell’or-
Economista, grande conoscitore dei meccanismi finanziari, ha una lunga esperienza internazionale
mia e esperienza diplomatica a consentire a Draghi e Tremonti di cooperare, senza prendersi per i capelli. Carosio si è invece formato al Servizio studi, occupandosi di analisi dell’attività bancaria e poi di determinazione degli obiettivi della politica monetaria e di programmazione degli
ganismo. Sarebbe un bello smacco per quell’asse franco-tedesco che nel bene o nel male (forse più nel male) sta governando l’Europa. Le giustificazioni finora addotte – l’indipendenza dei membri del board della Banca centrale europea – per resistere al necessario ricambio sono deboli e destinate a soccombere di fronte al peso della real politique: la molla che muove il mondo. Se fossimo in Bini Smaghi non insisteremo ulteriormente. La sua carriera è stata scandita dalla partecipazione nei grandi santuari delle Istituzioni. Prima in Banca d’Italia, poi al Tesoro, quindi alla Bce. Essere civil service significa anteporre le ragioni generali alle pur legittime aspirazioni professionali. Del resto Bini Smaghi è un uomo di valore. Economista, profondo conoscitore dei meccanismi finanziari, con una lunga esperienza internazionale. Queste qualità non possono essere disperse. Non sappiamo quale sarà il suo futuro destino, nonostante il rincorrersi delle voci. Quello che è certo è che una collocazione si troverà in grado di premiarlo per il gesto di umiltà che vorrà compiere, nel lasciare il posto che ancora occupa. Consentendo così al suo Paese di poter onorare gli impegni sottoscritti.
Le destinazioni possono essere diverse sia in Italia sia in Europa, se vorrà continuare a lavorare nelle Istituzioni. Poi vi sono gli organismi internazionali: dal Fondo monetario internazionale all’Ocse oppure il grande mondo delle banche. Fu questa, ad esempio, la scelta compiuta da Mario Draghi, dopo l’esperienza fatta come direttore generale del Tesoro. E così si comportò Domenico Siniscalco, dopo aver lasciato la carica di ministro dell’Economia. L’unica cosa certa – lo diciamo per sdrammatizzare la situazione – è che non finirà in cassa inteNaturalgrazione. mente comprendiamo la delusione. Ma chi non l’ha conosciuta nel corso della sua carriera professionale. L’importante, in questi casi, è farsene una ragione e continuare a dare ciò che ciascuno di noi è in grado di fare.
interventi, fino a quando non è diventato nel 1985 responsabile della Direzione Bilanci e Situazioni aziendali del Servizio Normativa e Interventi della Vigilanza. Dirigente dell gruppo di lavoro della Banca d’Italia che partecipa alla riforma della legislazione sui bilanci, dal 1993 Capo del Servizio Vigilan-
za sugli Enti Creditizi e dal 1987 membro del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria dal 1987, ha partecipato all’elaborazione del primo e del secondo Accordo di Basilea sull’adeguatezza patrimoniale delle banche e alla definizione delle norme per la loro applicazione in Italia. Direttore centra-
In basso Lorenzo Bini Smaghi, attualmente nel board della Bce ma in procinto di dimettersi per l’arrivo di Mario Draghi. Nella pagina a fianco, da sinistra: Fabrizio Saccomanni, Anna Maria Tarantola, Ignazio Visco e Giovanni Carosio le per l’area Banca centrale e mercati dal marzo 2004, Direttore Centrale dell’Area Vigilanza Creditizia e Finanziaria nell’aprile del 2006, come stretto collaboratore di Draghi è stato da lui fatto vicedirettore generale l’11 gennaio 2007, assieme a Visco. Per conto suo dal 1990 al 1997 capo del servizio studi della Banca d’Italia. Grande esperto di macroeconomia e profondo conoscitore dell’intera cassetta degli strumenti econometrici, tant’è che ha a lungo lavorato al modellone di Bankitalia, ha lascia l’incarico per diventare fino a luglio 2002 chief economist e capo del dipartimento economico dell’Ocse. Rientrato in Italia, nel 2004 Fazio lo ha nominato direttore centrale per le attività estere. Anna Maria Tarantola è stata invece nominata vice direttore generale dal gennaio 2009.
Assunta all’Ufficio Vigilanza I della Sede di Milano è stata poi dal 1996 Direttore della Succursale di Varese, dal 1998 Titolare della Direzione Intermedia di Vigilanza-Cambi della Sede di Milano, dal 2002 al settembre 2005 è Direttore della Filiale di Brescia, poi alla Sede di Bologna, nell’aprile 2006 Funzionario generale preposto all’Area Bilancio e controllo con la qualifica di Ragioniere generale, dall febbraio 2007 Funzionario generale preposto all’Area Vigilanza bancaria e finanziaria con l’interim della sovrintendenza all’Area Bilancio e controllo fino al luglio 2008. Anche lei però durante la sua carriera ha svolto importanti ruoli di rappresentanza per Bankitalia, in Italia e all’estero: dal Banking Supervision Committee al Comitato di Sicurezza Finanziaria e al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Interna, esperta, donna, e unica “padana” tra i cinque: a un certo punto per questo si è iniziato a parlare di lei come di un possibile candidato a sorpresa per sostituire Draghi. “Mentre i grilli e i draghi si fanno la guerra, la tarantola tesse la tela”, è stata una battuta che è circolata.“Vogliamo essere alla pari di una Francia che ha mandato Cristine Lagarde a dirigere prima il Fondo monetario internazionale e di una Germania in cui la Merkel detta le regole in Europa?”, è stata la sua sponsorizzazione da parte dell’onorevole del Pdl Lella Golfo. Mentre la laurea alla Cattolica ha fatto parlare anche di appoggi da un Vaticano che ancora non ha digerito del tutto la disgrazia di Fazio.
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politica
La debolezza economica mondiale spinge la politica a non prendere decisioni coraggiose. Serve un impulso nuovo per superarla
Moderati e riformisti, uniti! Il bipolarismo non sopravviverà all’uscita di scena di Berlusconi Che contro le minacce europee risponde con barzellette stantie di Enrico Cisnetto e la situazione non fosse drammatica, ci sarebbe da ridere. Siamo alla vigilia di un doppio vertice Ue decisivo per le sorti dell’eurosistema che si apre all’insegna dello scoramento del presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Junker, secondo cui l’Unione Europea sta dando di sé “un’immagine disastrosa”. Obama sceglie di parlarne con Merkel, Sarkozy e Cameron, così come della Libia dopo Gheddafi, ma si guarda bene dal chiamare Roma, mentre ormai quel poco di relazioni continentali le tiene direttamente Napolitano. Lo spread ha nuovamente sfondato quota 400 punti, mentre l’agenzia di rating Fitch dice che l’Italia è “solvibile ma potenzialmente illiquida e quindi ha bisogno, come anche la Spagna, di “un fondo di protezione”. I nostri partner ci sollecitano misure ambiziose per la crescita, con una tempistica certa, e la risposta del premier è che “non c’è fretta, c’inventeremo qualcosa”, mentre i ministri litigano sull’introduzione della pagella on-line nelle scuole, indicata come uno degli strumenti per fare pil. In più, con la scelta eccellente di Visco siamo riusciti per il rotto della cuffia a sistemare la successione di Draghi ma chiudiamo la partita Bankitalia con un pesante passivo di credibilità e ci rimane aperta, per nostra insipienza, quella della Bce per via degli impegni presi e non mantenuti con Sarkozy. Eppure, in questo scenario apocalittico, il presi-
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dente del consiglio se ne esce con un “sapete come mai sono durato cinque anni l’altra volta e altrettanto succederà anche stavolta? Semplice: grazie alla mia personale autorevolezza”. D’accordo, Berlusconi parlava al congresso (sic) del movimento (sic) di “responsabilità nazionale”(sic) dell’incredibile Scilipoti, e questo giustifica almeno in parte l’ila-
rità. Ma il fatto è che non c’è proprio niente da ridere.
Stiamo vivendo uno dei momenti più difficili della nostra storia repubblicana, e se il Cavaliere con il suo pervicace atteggiamento s’incarica di prendersi sulle spalle tutto il pesante fardello delle responsabilità, anche di più di quelle meriterebbe, d’altro canto non si vede all’orizzonte nessuno che sappia mettere in campo comportamenti all’altezza della gravità del momento. Il Pd si limita a chiedere e richiedere a Berlusconi un passo indietro che lui ha già detto in tutte le lingue di non essere intenzionato a fare, e non scioglie alcun nodo di quelli, politici e programmatici, che si porta dietro da sempre. Mentre nel centro-destra, tranne eccezioni più uniche che rare (Pisanu), nessuno è capace di mettere in discussione la premiata ditta della senilità “Berlusconi & Bossi”, e l’unico coraggio sembra essere quello di tentare di mettere in mora le nozze d’oro con i fichi secchi di Tremonti (decreto sviluppo a costo zero) senza peraltro indicare, al di là del solito condono fiscale, uno straccio di politica di contenimento strutturale della spesa pubblica che consenta di trovare le risorse che allo stato delle cose non ci sono. La verità è che tutti elucubrano sul “dopo Berlusconi” – in modo rituale a sinistra, in modo carbonaro a destra – senza minimamente ragionare su cosa davvero si-
gnifichi. Il nodo da sciogliere, da un fronte come dall’altro del sistema politico, è quello riguardante il bipolarismo. Due le questioni: sopravviverà all’uscita di scena di Berlusconi? È utile o meno che ciò accada? La mia risposta è no a entrambi i quesiti: è bene che non sopravviva, e comunque è impossibile che succeda. Ed è bene perché la versione italica del bipolarismo è risultata pessima, ma sarebbe sbagliato anche inseguirne una versione più europea. Primo perché non ne saremmo capaci, e secondo perché si tratta di un sistema politico destinato ad essere messo da parte anche laddove nel passato ha funzionato. Ma andiamo con ordine. Il bipolarismo all’italiana è stato prima creato e poi incarnato da Silvio Berlusconi. Lui è stato il padrone assoluto del suo partito e (in coabitazione con Bossi) della sua maggioranza – tanto che ha fatto fuori tutti quelli che, a torto o a ragione, riteneva volessero mettere in discussione questo assunto – lui è stato l’unico collante che ha tenuto insieme le coalizioni avverse. La linea di demarcazione tra l’uno e l’altro polo non è mai stata quella della differenza di idee e programmi – anche perché si tratta di materia prima scarseggiante – ma della contrapposizione frontale tra berlusconismo e anti-berlusconismo, cosa che non poteva che produrre “non-governo”.
In queste condizioni, è pensabile sottrarre Berlusconi e pensare che l’impalcatura del sistema regga ugualmente? Evidentemente no. Dunque, prima ancora di addentrarci in una discussione sull’opportunità o meno di disporre di
politica ROMA. Per ritrovare folle osannanti Silvio Berlusconi è dovuto andare alla festa «dell’amico Mimmo». E lì, davanti alla platea simpatizzante del primo congresso nazionale del Movimento di responsabilità nazionale, dopo aver intonato Fratelli d’Italia con il “re dei peones” il Cavaliere ha lanciato nuovi messaggi alla nazione nel tentativo di dimostrare che è ancora in grado di guidare questo Paese.
Con la platea amica si lascia andare a battute, come quella rivolta a una contestatrice «L’aspetto fuori così ci spieghiamo. Anche perché è molto carina». E a ringraziamenti per i responsabili che, con il loro appoggio, consentiranno al governo Berlusconi di «durare cinque anni. Non posso che esservi riconoscente: grazie ai responsabili abbiamo evitato la crisi. I responsabili condividono con la maggioranza l’urgenza di fare le tre grandi riforme di cui il Paese ha bisogno: costituzionale, fiscale e della giustizia». Senza mancare di sottolineare, però, che la durata del governo è possibile: «Grazie alla mia personale autorevolezza». Sul governo lo stesso Scilipoti, ad apertura dei lavori ha detto: «Qualcuno nell’anima e nel cuore vorrebbe mandare già a casa Berlusconi. Ma io mi interrogo: se abbattiamo il governo e apriamo una crisi al buio, dove si andrà a finire? Ve lo dico io... se viene abbattuto il governo gli speculatori che fanno parte di quella lobby non nobile delle banche sono pronti a distruggere questo Paese». Silvio Berlusconi nel suo intervento ha, in pratica, ripetuto, punto per punto, le cose che aveva già detto ai deputati del Pdl nell’incontro di giovedì. A partire dal tema a lui più caro e più di effetto su una platea amica: «Da quando sono sceso in campo non mi hanno fatto mancare nulla, solo aggressioni mediatiche e giudiziarie che so-
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Il presidente del Consiglio al congresso del Movimento di responsabilità nazionale
Il Cav nelle mani del re dei peones Il premier: «Sì alle preferenze nella legge elettorale. Grazie a Mimmo durerò 5 anni» di Franco Insardà no continuate aggressioni mediatiche, politiche, giudiziarie con 103 indagini e 40 processi. Dal golpe giudiziario del ’94 fino ad oggi. Se quel duomo di marmo mi avesse preso alla tempia sarei sotterrato». Si è difeso dalle accuse per le cene a Palazzo Grazioli: «Cene eleganti, carine, divertenti, allegre, che sono state trasformate in cose indicibili». E sulla sua discesa in campo, decisa anche da sondaggi che davano i comunisti «al 72 per cento», ribadendo compiaciuto: «Ho sottratto l’Italia ai comunisti ortodossi».
Ribaditi gli stessi argomenti lanciati giovedì alla riunione con i deputati del Pdl: riforma costituzionale, fiscale e della giustizia
Il premier è ritornato sulla legge elettorale e sul possibile referendum: «Un milione e 700mila firme di cittadini chiede la reintroduzione delle preferenze. Una indicazione chiara di questa volontà di scelta e quindi dobbiamo introdurre una variante che consenta ai cittadini e non alle forze politi-
un sistema politico bipolare, sarebbe utile prendere atto una volta per tutte del fatto che questo bipolarismo non sopravviverà al suo fondatore. Tutti dicono, però: ma siccome è vero che questo fa un po’schifo, approfittiamone per farne un altro, più virtuoso. Peccato che se a destra come a sinistra il ceto politico rimane l’attuale, c’è da domandarsi chi e su quali basi (non teoriche) possa trasformare cioè che è patologico in fisiologico. Ma se anche fosse, rimane il tema dell’opportunità. Perché ovunque ci sia un sistema bipolare oggi si tende verso forme di governo più larghe?
Come mai la signora Merkel ha perso la capacità decisionale che aveva proprio quando ha archiviato l’esperienza della Große Koalition? La verità è che la crisi economica ha messo a nudo la scarsa capacità dei governi di prendere decisioni impopolari – che sia, in Ger-
che, di scegliere i candidati. La legge elettorale che presentammo fu cambiata da Ciampi per una sua personale interpretazione. Il premio di maggioranza fu frazionato al Senato in tutte le regioni e oggi così la legge elettorale consente la governabilità per la Camera ma non al Senato». A proposito del Parlamento il Cavaliere è tornato a parlare delle difficoltà che si incontrano nella produzione delle
mania, spiegare che occorre salvare l’euro per arrivare ad un esecutivo europeo eletto direttamente dai cittadini che gestisca il debito “comune”, o che sia, in Grecia come in Italia, far tirare la cinghia a chi ha vissuto per anni al di sopra delle possibilità del paese – e quindi ha fatto emergere la necessità stringente di
leggi, ma aggiunge: «Quando c’è un capo dello Stato intelligente e puntuale come Napolitano le leggi vengono firmate». Seguendo uno spartito preciso ha toccato tutti i tasti a lui cari: «La nostra Costituzione dà al presidente del Consiglio solo una possibilità di suggestione. Ma nessun potere. Il premier e il governo hanno solo il potere di proporre alle Camere disegni di legge e decreti legge, niente di più. Non posso dimissionare un ministro...».
La riforma della giustizia che il governo intende varare è «la prima cosa da fare è non consentire che ci siano partiti politici al suo interno e soprattutto rivedere la formazione del Csm, per essere certi che i giudici facciano i giudici, anziché utilizzare la giustizia come arma politica». A questo proposito il Cavaliere ha esposto la sua teoria: «Se un legge non piace a qualche pm di Magistratura de-
che questa sia una fase emergenziale in cui occorre che moderati e riformisti uniscano le forze, è sicuro.
Un orientamento che se altrove è necessario, da noi è drammaticamente indispensabile. Perciò, il Pd sciolga il dubbio: vuole fare il fronte delle opposizio-
Nel centro-destra, tranne eccezioni più uniche che rare (Pisanu), nessuno è capace di mettere in discussione la premiata ditta della senilità “Berlusconi & Bossi” coalizzare le forze politiche maggiori per evitare che la ricerca facile del consenso impedisca di fare le grandi scelte obbligate. Non si tratta né di perseguire vie consociative, né tantomeno di mettere tra parentesi il gioco democratico, ma di capire che i sistemi politici non sono buoni o cattivi in assoluto, ma in relazione ai momenti storici che si vivono. E
ni a Berlusconi o governare il paese evitandogli il baratro? Nel primo caso darà ancora una volta l’occasione a Berlusconi di ricandidarsi e si troverà costretto o a scegliere tra Casini e Vendola-Di Pietro – con il rischio di perdere le elezioni – o di subire la tentazione di mettere tutti nel mucchio per fare numero, trovandosi così, ammesso (e non con-
mocratica la impugna e la porta davanti alla Corte costituzionale, formata per lo più da giudici di sinistra, perché i tre presidenti di sinistra che si sono succeduti li hanno scelti nella loro area politica». Ricordando il precedente della legge Pecorella sulla non impugnabilità delle sentenze di proscioglimento: «Una legge giusta che fu, lamenta, inopinatamente rigettata dalla Consulta».
Tra gli obiettivi da raggiungere c’è quello di più ampio partito di centrodestra saldamente ancorato ai valori del popolarismo europeo: «Non lascerò la politica prima di aver lasciato in eredità una nuova formazione che si riconosca nei valori del Ppe e da contrapporre alla sinistra dilaniata dalle divisioni. Infine, Berlusconi si dice «convinto che gli Usa ci indicano la strada del vero bipolarismo, la democrazia funziona bene se ci sono due parti in campo. Ho fatto un gran lavoro di convincimento nei confronti delle forze di centrodestra perché entrassero nella grande casa dei moderati fondando il Pdl». Poco prima di lasciare il palco, Berlusconi ha ringrazia il padrone do casa Scilipoti per aver preso nel suo intervento «una parte finale del mio primo discorso del ’94 sui valori base del nostro movimento politico. Non c’è una sola virgola da cambiare in ciò che dissi diciotto anni fa, sono i valori fondanti di tutte le democrazie occidentali». A sostegno del premier arriva l’amico di sempre: Fedele Confalonieri. Memore dei trascorsi musicali paragona la parabola del Paese al jazz: «Il jazz è il mondo dell’improvvisazione e nell’improvvisazione si può mantenere una jam session per ore e ore, con gli artisti che possono suonare fino a quando ne hanno voglia». A dar ragione a chi dice che la regola del governo Berlusconi è proprio l’improvvisazione.
cesso) che gli riesca, nella condizione di non riuscire a governare dopo aver vinto le elezioni. Bersani (Letta mi sembra già orientato) scelga invece di proporre fin da subito un’alleanza al centro (non solo con Casini ma a chi ci sta del Pdl, senza Berlusconi ovviamente) aperta a esponenti della società civile, mettendo una linea di demarcazione invalicabile sia nei confronti dei massimalisti che dei giustizialisti, e chiedendo che altrettanto accada sull’altro fronte verso i federalisti-separatisti. Si dirà: ma la stessa mossa potrebbero farla i moderati verso il Pd? Certo. Ma sappiamo che chi sta al governo ha sempre meno spazi di manovra di chi sta all’opposizione. In tutti i casi, per incontrarsi bisogna che si muovano tutti quelli che capiscono la gravità dell’ora e vogliano reagire. Non c’è più molto tempo. www.enricocisnetto.it www.terzarepubblica.it
commenti
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segue dalla prima Numerose sono state le considerazioni che da parte politico-partitica e politico-culturale sono state svolte anche in riferimento ai tanti episodi di violenza fisica che hanno avuto luogo proprio laddove il grande corteo italiano avrebbe dovuto concludersi. In queste considerazioni vi è stato soprattutto il tentativo di distinguere l’amplissima manifestazione di protesta dalle violenze fisiche che si sono svolte appunto in Piazza San Giovanni. Si tratta di considerazioni che hanno molto oscillato tra una qualche cultura del passato e molto rari tentativi che si potrebbero definire di “cultura del presente”.
Si è parlato, infatti, di qualcosa che sembrava ripetere le complesse vicende italiane degli anni Settanta, che hanno visto il rapporto tra manifestazioni di piazza e violenze fisiche in modi che sono sembrati quasi ripetersi anche a Roma lo scorso 15 ottobre. Vi è stato anche chi ha visto una sorta di ripetizione della vicenda genovese del 2001, sia per quel che concerne lo specifico episodio della violenza sul blindato dei carabinieri, sia per quel che concerne la definizione di “black bloc”dei protagonisti delle violenze medesime. Non vi sono state almeno sino ad ora - significative e autonome riflessioni proprio sulle violenze accadute. Si è infatti assistito a una sorta di condan-
Deplorare i black bloc sì, ma evitiamo di cadere in una sorta di retorica dell’anti-violenza
Condannare è giusto ma non è sufficiente na unanime delle violenze fisiche medesime nella quale ha finito con il prevalere una sorta di retorica della condanna della nonviolenza, più che ad una necessariamente approfondita analisi di due aspetti di fondo, che appaiono invece rilevanti proprio per capire questo fenomeno. Da un lato, infatti, si è tenuto a ribadire non solo la estraneità della violenza fisica rispetto al corteo, ma anche la negatività stessa della violenza sulle cose rispetto agli obiettivi politici e culturali del corteo degli “indignados” italiani; dall’altro, sembra che ci si sia limitati ad una pur necessaria condanna della violenza sulle cose. Il contesto internazionale dei cortei ha certamente un significato molto rilevante, anche a prescindere da qualunque violenza fisica sulle cose. In questo caso è stato infatti in gioco un aspetto molto importante della globalizzazione in atto. Il contesto italiano aveva a sua volta un punto di riferimento specifico nelle politiche del governo, considerate complessivamente troppo inclini a recepire in Italia
di Francesco D’Onofrio
La difficile realtà italiana ha attirato rivoli di protesta che si sono mescolati fino a fare tilt decisioni assunte altrove: veniva dunque contestato il modo di intendere il difficilissimo rapporto tra sovranità nazionale e globalizzazione. Queste due considerazioni rappresentavano in qualche modo il contributo italiano al contesto sovranazionale della giornata. Ma non sembra che si
sia dedicata attenzione adeguata per cogliere proprio nel rapporto tra protesta politica e culturale da un lato e violenza anche fisica dall’altro, la specificità italiana.
Questa infatti non può essere riassunta esclusivamente nella denominazione di “anarco insurrezionale”delle violenze che hanno avuto luogo in Piazza San Giovanni. Occorre infatti andare oltre la pur necessaria condanna della violenza per cercare di capire le ragioni specifiche degli avvenimenti romani alla luce proprio del rapporto tra protesta e violenza che è diverso in ciascuno degli elementi che hanno concorso al corteo italiano.Vi era infatti un confluire nel corteo italiano di esperienze e pratiche anche molto diverse l’una dall’altra, proprio in riferimento al rapporto tra protesta politica e culturale da un lato e violenza fisica dall’altro. Non occorre ripercorrere i più noti tra questi diversi filoni di protesta confluiti nel corteo romano per cogliere questo aspetto fondamentale della violenza. Ba-
sti pensare, ad esempio, al complesso movimento noto come “No Tav”; a quella parte di movimento studentesco radicatosi prevalentemente nella “Sapienza”; alla variegata specie di precariato, profondamente diverso qualora proveniente da lavoro pubblico o da lavoro privato; a quella parte di movimento sindacale che ha fortemente contestato le più recenti scelte di Marchionne; ai tanti altri “rivoli di protesta”che hanno concorso ad ingrossare il corteo romano fino a farlo diventare un fiume tumultuoso. È proprio in riferimento all’insieme di questi “rivoli” che ha finito con l’assumere una propria e specifica valenza l’area definita degli “anarco-insurrezionali”. La categoria dell’infiltrazione e quella della contiguità vanno dunque respinte entrambe proprio alla luce del rapporto tra proteste politico-culturali da un lato e violenza fisica dall’altro. La condanna della violenza fisica occorre pertanto ripeterla persino a premessa di qualunque riflessione su quanto accaduto in Piazza San Giovanni, ma non può bastare da sola se non si vuol cadere in una sorta di retorica dell’anti-violenza. Il fatto che i protagonisti delle violenze di Piazza San Giovanni siano stati tanto numerosi, prevalentemente giovani, molti tra di loro romani e comunque quasi nessuno straniero, deve dunque indurre a ricercare le ragioni della comprensione di questo fenomeno.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Ritorna “Typee”, lo “scandaloso” esordio narrativo dello scrittore americano tra autobiografia, romanzo e invettiva antioccidentale
di Pier Mario Fasanotti
MELVILLE, IL BUON SELVAGGIO
icompare, proprio come una balena bianca nel grande mare della narrativa, il romanzoreportage di Herman Melville intitolato Typee. Sottotitolo: Avventure in Polinesia. Lo ripropone la casa editrice Piano B (283 pagine, 15,00 euro). Ma c’è un’avventura giornalistico-editoriale dentro quella che si snoda tra navi, capanne, dirupi, alberi di frutta e indigeni selvaggi. Alla fine di settembre del 1891 il New York Times pubblicò il necrologio dell’autore di Moby Dick specificando che lo scrittore era diventato famoso, molti anni prima, per aver descritto il suo soggiorno tra i cannibali delle Isole Marchesi (nell’Oceano Pacifico). Come si chiamava? Henry Melville. Una distrazione, un refuso. Una clamorosa svista, come ebbe a rilevare Fernanda Pivano nella sua introduzione (nel 1981) a Taipee (altro nome lievemente cambiato, sia pure parzialmente e con fonetica alla fine sostanzialmente esatta). Data della comparsa di Typee: 1846. Seguirono Omoo e poi Moby Dick (che in origine era con il trattino, ossia Moby-Dick).
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Incipit folgorante: «Sei mesi in mare!», da mettere accanto - solo se si fosse conosciuto meglio quest’opera prima - all’altrettanto leggendario inizio, diventato famosissimo, del viaggio del capitano Achab: «Chiamatemi Ismaele». Scopriamo in queste pagine la vita di uno dei più grandi scrittori americani. Il quale, tra i 20 e i 25 anni, si guadagnò da vivere a bordo di navi e baleniere, anche in qualità di semplice mozzo. L’esperienza, in mezzo a quella gente sconosciuta e riduttivamente ascritta alla categoria dei selvaggi mangiatori di carne umana, fu lo scrigno dove poi la penna realistico-fantastica di Melville frugò per dare forma letteraria a un coacervo di annotazioni e riflessioni. Attenzione, però: le pagine scritte, in un anno, da Mister Henry, o mister Herman, incontrarono ostacoli editoriali. La sua prima «avventura» con chi stampava libri. Melville consegnò il manoscritto alla Harper&Brothers nel 1845. Ricevette un rifiuto. Ecco la motivazione «critica»: «… troppo strano per essere vero» e «troppo ben scritto» per uscire dalla penna di un semplice marinaio. Insomma, una delle prime testimonianze di quell’idiozia editoriale che pare davvero non conoscere né tempo né latitudini. Certo, Melville non era uno scrittore, anche se aveva studiato e pure insegnato. Tremendamente attuale questa considerazione che, se presa alla lettera, impedirebbe l’uscita di tutte le opere prime. Fatto sta che Typee arrivò nelle mani dell’editore inglese John Murray che decise di pubblicarlo nella collana «Colonial and Home Library», con un titolo didascalico, lungo e poco attraente. Seguirono ristampe piratesche dopo un autentico boom di vendite. L’edizione americana trovò scogli moralistici per via delle «licenziosità» contenute nel testo. Pare che Melville abbia accettato di apporre «censure volontarie». Nella lettera a un amico prima definisce come odious i ritocchi. Successivamente ne parla in termini più morbidi: judicious. Segno che era combattuto nella revisione delle sue avventure polinesiane, intrinsecamente piccanti visto che descriveva esseri umani nudi ed estremamente liberi. Non fu così automatico convincere intellettuali e largo pubblico che quel tipo di vita nelle isole Marchesi rispondeva a verità. Ma quel che sollevava scandalo era il fatto che lo scrittore americano considerasse un paradiso l’isola del suo soggiorno. John Bryant, curatore dell’edizione Penguin (nel 1996), elenca tre punti «scandalosi», tutti riferentesi alla sessualità di quei selvaggi: il tabù delle mestruazioni, la poliandria e la pratica del pekio, una sorta di regola che allentava i lacci morali consentendo rapporti tra cognati. Più in generale dava fastidio il fatto che Melville fosse finito tra i cannibali dell’isola di Taipivai - e lo erano davvero - senza essere sbranato e mangiato. Fu invece trattato benissimo.
Il giovane protagonista che si addentra nella valle misteriosa e lussureggiante della Polinesia era un disertore. Decise di non tornare più a bordo a causa del brutale trattamento riservato ai membri dell’equipaggio. Si portò dietro l’amico Richard Tobias Greene,Toby nel romanzo, anch’egli disgustato dalla vita tra rozzi e volgari marinai.Tra i tagli che Melville dovette accettare per vedere in libreria il suo Typee c’è quello che si riferisce a una regina polinesiana che esamina i tatuaggi sul corpo nudo di un marinaio, sollevando la propria veste per mostrare i propri e quella della biondissima moglie di un
anno IV - numero 36 - pagina II
melville, il buon
selvaggio
Diretto è poi l’aggancio con Rousseau: «… la continua felicità che, per quel che io posso giudicare, sembrava regnare nel paese, proveniva soprattutto da quell’unanime sensazione che Rousseau ci racconta di aver gustato una volta: la semplice allegra coscienza di una sana esistenza fisica… e infatti i Typee avevano ragione di felicitarsi con se stessi, poiché il male era per loro quasi sconosciuto». E il cannibalismo? Melville adotta una visione assolutoria, almeno parzialmente, visto che lo ricollega sempre al conflitto armato tra i Typee e la tribù della limitrofa baia di Happar. L’elemento per così dire sociologico del romanzo s’accentua quando si legge più avanti: «Non riuscii fare a meno di pensare di essermi imbattuto in un popolo diffamato, e pensai parecchio alla disgrazia di avere una cattiva fama, che in questo caso dava a una tribù di selvaggi mansueti come agnellini la reputazione di una associazione di famelici cannibali». Aggiunge, tuttavia, che il prosieguo degli eventi gli fornirà l’occasione di considerare «un po’ troppo avventato» il giudizio espresso in termini apertamente entusiastici.
missionario. Quest’ultima, se all’inizio era quasi venerata dagli indigeni successivamente fu sbeffeggiata perché il suo corpo, ovviamente, si rivelò identico a quello degli autoctoni. Con la sola differenza: era molto più smorto. Typee è il resoconto sapientemente romanzato di un’autentica avventura, là dove attraccavano le navi francesi e gli ufficiali di Parigi si comportavano da padroni, arroganti e anche violenti se il caso, o l’astuzia di colonizzatori, forniva loro l’occasione. Verso i francesi che esportavano la furba gerarchia sociale tra genti ingenue sia pur violente nei combattimenti, l’io narrante di Melville ondeggia tra ammirazione meramente politica e profondo disgusto morale. Ma Typee è anche un testo di antropologia, che accarezza da vicino la teoria del «buon selvaggio» di Jean-Jacques Rousseau. Melville insomma descrive l’uomo allo stato libero, lontano dalla contaminazione europea e americana, e lo colloca immediatamente in uno stato di felicità naturale. C’è un passo in cui lo scrittore parla apertamente degli «evoluti Typee», tribù pacifica pur essendo cannibale con la comunità nemica, insediatasi nell’altro vallone dell’isola. Scrive Melville: «Il termine “selvaggio”, secondo me, è spesso applicato a sproposito. Quando considero i vizi, le crudeltà e le mostruosità di ogni specie che germogliano nell’impura atmosfera di una civiltà febbrile, sono propenso a credere che per quanto riguarda la colpevolezza rispettiva delle parti, quattro o cinque isolani delle Marchesi, inviati come missionari negli Stati Uniti, sarebbero presso a poco utili quanto un numero uguale di americani inviati nelle isole con analoghe mansioni». E ancora, riferendosi alla parlata dei Typee: «… il loro idioma è quasi completamente sprovvisto di termini esprimenti le soavi idee applicabili all’infinita serie di delitti civilizzati». Un Melville apertamente sarcastico.
Il giovane bianco che si avventura assieme all’amico Toby nel primitivo (ma armonioso) villaggio dei Typee, dopo momenti di pericolosa diffidenza e inevitabile incomunicabilità, viene trattato con estrema gentilezza. I selvaggi gli forniscono cibo, gli curano la ferita a una gamba, gli mettono a disposizione una specie di maggiordomo. E lui, tra le altre cose, ammira le splendide sembianze di un’isolana, Fayaway, esempio di bellezza e dolcezza femminili. I selvaggi sono tutti tatuati. Alcuni in modo pesante, anzi deturpante (linee orizzontali sul viso). E i capi della comunità insisteranno poi affinché l’ospite bianco faccia altrettanto col proprio corpo, in segno di amicizia e comunanza. Di Fayaway riferisce: «Le mani erano soffici e delicate come quelle di una contessa… i suoi piedi, sempre nudi, erano piccoli e avevano la forma aggraziata di quelli che spuntano dalle vesti di una dama di Lima… e la pelle della fanciulla, a causa delle continue abluzioni e per l’uso di unguenti emollienti, era liscia e vellutata». Sono i segni di un innamoramento non solo letterario, e il continuo tentativo di paragonare l’eleganza naturale delle donne Typee a quella di molte «evolute» e privilegiate occidentali. Il romanzo prende le mosse dalla stessa vita di Melville che tra la primavera e l’estate del 1839 aveva attraversato l’Oceano Atlantico. Dopo un anno di pausa, il giovane mozzo tornò a far parte della ciurma di una nave chiamata Acushnet (Dolly nel romanzo). L’imbarcazione levò l’ancora da New Bedford, nel Massachussetts, diretta alle Azzorre, alle isole di Capo Verde e a caccia di capodogli nei misteriosi mari del Sud. Dopo aver doppiato Capo Horn e dopo una sosta a Rio de Janeiro, la nave passò per le Galapagos e si avvicinò alle Isole Marchesi. Con un equipaggio che era allo stremo. A quei tempi l’isola di Nuku Hiva contava circa 80 mila abitanti, suddivisi in varie tribù, spesso in guerra tra loro. La parlata somigliava a quella tahitiana o all’hawaiiana. Non c’erano segni di comunicazione scritta, perlomeno codificata. Un reportage romanzato, abbiamo detto. In effetti Melville è ancora lontano dalla saga di sapore esistenzialista che avvolgerà la caccia del capitano Achab alla balena bianca. In ogni caso Typee è insieme romanzo e resoconto più o meno esatto dei costumi e comportamenti polinesiani con ibridazioni storico-letterarie. Ma è anche uno studio antropologico ante litteram e, soprattutto, un pamphlet intriso di polemica contro l’imperialismo occidentale.
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22 ottobre 2011 • pagina 13
ACCIDIA trana cosa l’accidia. Difficile da definire, e difficile da afferrare. Sfuggente, mobile, proteiforme. Suoi abili cacciatori erano i monaci del deserto nei primi secoli dell’era cristiana. Esploratori della psiche umana e dei suoi pensieri più nascosti e insidiosi. I monaci vivevano appartati, lontani dalle città, eppure sembravano conoscere gli uomini. Il loro sguardo risultava fulminante, un’esatta radiografia dell’anima che portava allo scoperto le sinuosità dell’io, gli inganni, le illusioni, le maschere, le chimere, e tutta la complicata attrezzatura di cui l’io si serve, insieme alle nebbie e ai pantani della psiche rimasta invischiata dalle acque nere dell’accidia. Perché un monaco come Evagrio, nel III secolo, si occupa dell’accidia? Semplice: perché ce l’ha in casa. È il mostro in agguato che si nasconde nella quiete solitaria delle celle e ne sconvolge l’ordine, prendendo il volto di un’indomabile irrequietezza o del torpore e del tedio, dell’indolenza o del ripiegamento malinconico e della tristezza. Tutte queste cose è l’accidia. «Non vi è passione peggiore», si legge nella Vita e detti dei padri del deserto. E negli Otto spiriti della malvagità Evagrio ne disegna il profilo: «L’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella sua mente fantastica sui visitatori… Quando legge, l’accidioso sbadiglia spesso, ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani, e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro… Il monaco accidioso è pigro nella preghiera e non pronuncia le parole dell’orazione». Demone meridiano, così viene anche chiamata l’accidia, perché assedia il monaco nell’ora più calda, il giorno appare una distesa interminabile, come, d’altra parte, è il deserto; il piccolo monastero è schiacciato da una luce oppressiva che irretisce lo spirito, lo fiacca, lo svuota. In quell’ora di frontiera l’accidia libera i suoi veleni e infetta l’anima fino a provocarne la paralisi. Avvolge l’anima e soffoca l’intelletto, dice ancora Evagrio. È asfissia, mancanza di respiro, peso che opprime.
S
Ma non pensiamo che l’accidia si fermi lì. Al contrario: fa un lungo viaggio dentro l’uomo e attraverso il tempo. Esce dal deserto ed entra nelle città, dai primi secoli dell’epoca cristiana procede, veloce come un’epidemia, verso il cuore instabile della modernità. E lì la ritroviamo terribilmente e pericolosamente intatta come l’avevano diagnosticata i Padri. Con altri nomi: lo Spleen di Baudelaire ad esempio. È mutato il paesaggio, si è spenta la luce schiacciante del deserto, e circola quella sfibrata, livida, bassa, greve, della metropoli moderna, il cui spazio stordente viene solcato da una moltitudine di gente sfinita che abita la letteratura europea dalla metà dell’Ottocento fino a tutto il Novecento. Sono creature instabili, spossate dall’indolenza e dall’inerzia. A Culkaturin, il protagonista del Diario di un uomo superfluo di Turgenev, fa seguito l’Oblomov di Concarov. Poi verranno le Memorie del sottosuolo
Avvolge l’anima e soffoca l’intelletto, è un peso che opprime. La sua inerzia corrosiva si riproduce oggi su scala mondiale e infetta intere classi dirigenti. L’Italia vi si rispecchia nel suo declino…
Il nuovo inizio della Storia di Maurizio Ciampa
Fukuyama ne ha decretato la fine. Ma insegna un mistico del IV secolo: «Se imporremo al nostro pensiero dei limiti stretti… lo spirito ritornerà al suo antico fervore, recedendo dall’imbarazzo irrazionale». Un modo, accessibile anche a noi, per tentare di cambiare cultura. Seppur faticosamente… di Dostoevskij. Questi alcuni capitoli di una moderna epica dell’accidia, definitivamente uscita dalle celle dei monaci, per indossare nuovi abiti mentali e portare il suo passo stanco dentro il ritmo della civiltà urbana. Non inganni il suo dinamismo, la sua frenesia eccitata, il
suo culto del nuovo. È soltanto l’altro volto dell’immobilità, è il suo cono d’ombra. Per convincersene basterà passare attraverso il fuoco freddo delle Memorie del sottosuolo: «Noi non sappiamo neppure dove stia di casa la vita adesso, e che cosa sia e come si chiami.
Fate che ci lascino soli, senza libri, e subito ci confonderemo, ci smarriremo, non sapremo che cosa amare e che cosa invece odiare… A noi ci pesa persino essere uomini… Siamo nati morti, del resto è un pezzo che non nasciamo più da padri vivi». «Lo Spirito - diceva Baudelaire - geme in preda ai lunghi tedii». Qui, con Dostoevskij, il gemito prende voce, mentre l’uomo si aggira, sperduto, ai lati della vita. «La mia vita è cominciata con il tramonto - sussurra l’Oblomov di Concarov. Dal primo momento che ho avuto coscienza di me ho sentito che mi spegnevo». Ma la storia non finisce qui, procede ancora oltre. Pieno Novecento, tra due guerre, che sembrano mettere in scena la deflagrazione del mondo e della ragione umana. C’è chi, per nulla impressionato, guarda nelle fibre dell’epoca. È un giovane filosofo fuggito dalla Russia sovietica, si chiama Alexandre Kojève, insegna, come precario, se così si può dire, in un grande tempio della cultura parigina: L’Ecole Normale. Ha di fronte a sé un nutrito manipolo di giovani intellettuali che diventeranno assai noti a partire dai primi anni del dopoguerra: Georges Bataille, Jean-Paul Sartre, Jacques Lacan, Raymond Queneau, André Breton, Maurice Merleau-Ponty, e molti altri. A loro Kojève mostra le complesse architetture dell’hegeliana Fenomenologia dello Spirito, estraendone l’epitaffio per l’epoca: «Il Mondo e l’Uomo non possono più muoversi. Il Mondo è morto, è passato, con tutto ciò che questo comporta».
L’immobilità snervante, l’irrequietezza da fermo, l’asfissia spirituale, non è più la quotidiana dannazione del monaco solitario, ma il tono e il demone di un’intera epoca. Lo avevano capito gli scrittori russi alla metà dell’Ottocento, guardando nei recessi dell’animo umano; lo aveva capito il filosofo Alexandre Kojève frugando nel pensiero moderno. Il suo epitaffio, che dava voce alla mortifera immobilità del mondo, torna a risuonare come una lucida e ferma constatazione. L’inerzia corrosiva dell’accidia si riproduce ora su scala mondiale. Nel 1992, poco dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dei Paesi del socialismo reale, Francis Fukuyama, un giovane politologo statunitense, scriverà un libro destinato a fare il giro del mondo: La fine della Storia e l’ultimo uomo. Forse anche la crisi economica e di sistema che sta stringendo l’Occidente è un segnale significativo. Nessuno si muove. Passeggiamo tutti sull’orlo del baratro. L’inerzia o il torpore sono diventate il costume corrente di un’intera classe dirigente. In Italia fa da specchio al suo declino, di fronte al quale non può semplicemente cambiare governo - e certo non sarebbe poco -, occorre cambiare cultura, e, con grande fatica, riaprire la Storia che si era chiusa. «Se imporremo al nostro pensiero dei limiti stretti… lo spirito ritornerà al suo antico fervore, recedendo dall’imbarazzo irrazionale», diceva Diadoco di Fotica, un secolo dopo Evagrio. Ma forse sono parole buone anche per l’oggi.
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musica
Pop Melodicamente dEUS pagina 14 • 22 ottobre 2011
di Stefano Bianchi n album come Keep You Close si fa felicemente apprezzare per una ragione molto semplice: la classe non è acqua. Soprattutto se in ballo ci sono i dEUS (tassativo, altrimenti s’arrabbiano: d minuscola, il resto maiuscolo), vent’anni di carriera alle spalle e una solida reputazione da (concedetemi il gioco di parole) dEUS ex machina. La band, infatti, nasce nel 1991 con lo scopo di spezzare il monopolio angloamericano del rock. Lo fa da Anversa con un paio di mosse strategiche: dopo qualche demotape autogestito, il gruppo belga si fa notare nel ’94 col singolo Suds And Soda che gli garantisce il contratto con l’etichetta Island. Da qui al primo disco il passo è breve. Worst Case Scenario, riconosciuto dai critici fra le incisioni più influenti degli anni Novanta, è puro eclettismo: un rompicapo sonoro che fila dall’art rock al jazz fino alla sperimentazione citando Velvet Underground e Charles Mingus, Tom Waits e Captain Beefheart. Da allora, causa mutazioni d’organico che li hanno portati più volte sull’orlo della crisi, non è che i dEUS abbiano inciso molta altra musica. All’altezza, però: salvaguardando la fama di cult band. Al bizzarro My Sister = My Clock (’95), mini concept album all’insegna dell’horror-fantasy ambientato in Ucraina, hanno fatto seguito il lo-fi e «bluesato» In A Bar, Under The Sea (’96), lo psichedelico &
U
poppettaro The Ideal Crash (’99), l’ammiccante Pocket Revolution (2005) e il notevole Vantage Point (2008). Tom Barman, istrionico vocalist e chitarrista, regge fin dal debutto le redini del gruppo che comprende Mauro Pawlowski (chitarra, voce), Alan Gevaert (basso), Klaas Janzoons (tastiere, violino) e Stephane Messeghers (batteria, voce), ha inciso nel giro di sei mesi il nuovo disco e se l’è fatto produrre da Adam Noble (Paul McCartney, U2) e David Bottrill Tool (Muse, David Sylvian, Placebo). Impostato sull’evoluzione e la bellezza della melodia dopo aver preso le distanze, ha precisato Barman, «da quel suono veramente forte, che ti colpisce in faccia» riferito ai precedenti capitoli discografici della band, Keep You Close è stato prima «collaudato» nei concerti estivi così da rendere ogni canzone «più matura per le registrazioni». Melodicamente efficaci come certi temi da film di
Ennio Morricone e John Barry, la title track e The End Of Romance sprigionano carezze orchestrali e strappi elettrici mentre Dark Sets In, avvolgente e ipnotica, ricorda il miglior Nick Cave e Twice (We Survive) procede melliflua, in punta di piedi, ma pronta a spiccare il balzo felino. Ghost, sostenuta da umori musicali che ricordano i Cure più orecchiabili, si evolve in rock possente; e riaffiorano gli anni Ottanta anche in Constant Now: vocazione radiofonica e stretta osservanza funky, ripensando agli INXS. The Final Blast, con basso e batteria jazz per uno svolgimento rapido e swingante, è invece un mordi e fuggi di chitarre e pianoforte, mentre il ritmo sgranato e prezioso di Second Nature fa da contrappeso alla conclusiva Easy, caustica melodia intossicata da disturbi elettrici che diluisce atmosfere progressive rock a metà strada fra King Crimson e Van Der Graaf Generator. Oltre che su disco, i dEUS vanno ascoltati (e apprezzati) dal vivo. Approfittatene: saranno all’Estragon di Bologna il 7 dicembre e l’8 ai Magazzini Generali di Milano. Suoneranno Keep You Close da cima a fondo, fra coreografici giochi di luce e proiezioni video, per poi scandire i pezzi più gloriosi del vecchio repertorio. dEUS Keep You Close Pias/Self 14,99 euro
Jazz
zapping
L’ALTRA ANIMA di Alice Cooper di Bruno Giurato
esplosione dei generi ci ha consegnato esempi meravigliosi di rockstar a più facce. Che se da una parte demoliscono la vera o presunta «ideologia» rock (in fondo a ben vedere non è mai esistita: Eric Clapton è politicamente un conservatore, il «sulfureo» blues è un genere tradizionalista) dall’altra ci consegnano avventure abbastanza inaspettate. Si veda il caso Alice Cooper. Quello del glam rock, quello dei serpenti in mano, quello del trucco sbavato negli occhi. Quello che solo al nominarlo l’immaginario puzza di solfiti. Il re dello shock rock ha dichiarato, in una recente intervista al The Sun, di aver preso temporaneamente il posto di insegnante presso la sua parrocchia in Arizona: «Immaginatevi le facce dei parrocchiani quando hanno scoperto che io, Alice Cooper, avrei insegnato la dottrina religiosa ai loro bambini. Di solito la mia immagine è accostata al satanismo e al Diavolo», ha detto. Alice, all’anagrafe Vincent Furnier, ha aggiunto di essere figlio di un Pastore e di ispirarsi a lui per tenere le lezioni ai bambini: «Cooper è un personaggio che interpreto sul palco, non sono realmente io. Sono figlio di un uomo di chiesa e vado a messa tutte le domeniche. Sono molto credente». Certo Alice, per quanto protestante e a rigore iconoclasta, non avrebbe fato a pezzi Crocefisso e Madonnina sulla Labicana come i bolsi indignati romani, e magari non firmerebbe appelli sulla laicità dello Stato. Perché a chi ha l’arte (un’arte qualsiasi) basta l’arte, e chi non ce l’ha si avventura nell’Ideologia. Solo chi è può permetttersi di apparire, e infine prendersi il lusso più sovrano e incredibile nell’epoca dell’immagine: quello di smentirla.
L’
Ritratto di Django e del suo mondo zigano
Django Reinhardt il musicista jazz europeo che può vantare il maggior numero di saggi scritti sulla sua vita e sulla sua musica. Dal primo, che Charles Delaunay, a cui si deve la scoperta di Django, pubblicò nel 1954 a un anno dalla morte del grande chitarrista zigano a quelli successivi di Dietrich Schulz-Kohn, Max Abrams, Patrick Williams e degli italiani Roberto Colombo e Maurizio Franco, questi lavori, oltre a tracciare sommariamente la storia umana del musicista più importante del jazz europeo, si limitavano a esaminare la produzione musicale, iniziata quando Django - che in lingua rom significa «Mi sveglio» - giovane banjoista accompagnava, alla fine degli anni Venti, i fisarmonicisti che animavano i bals musette della Rue de Lappe. L’ultimo fra i lavori su Django Reinhardt è stato pubblicato recentemente dalla torinese Edt. È uno straordinario libro dell’americano Michael Dregni che traccia, con intenti storici oltre che musicologici,
È
di Adriano Mazzoletti la vita di Django ricchissima di particolari inediti e ancora sconosciuti. Le ricerche effettuate da Dregni, che a differenza di Delaunay o Schulz-Kohn non ha avuto la possibilità di incontrare Django, scomparso per una emorragia cerebrale nel 1953 a soli 53 anni, sono di grande importanza. È riuscito a ritrovare lontani parenti ancora in vita, musicisti che avevano avuto la possibilità di suonare o conoscere Django agli inizi della carriera e gli altri cosiddetti «cugini», andandoli a rintracciare nelle loro roulottes nei vari campi rom sparsi fra Francia e Belgio, ma non solo. Dregni, che vive negli Usa a Minneapo-
lis, ha rintracciato gli atti di nascita, di battesimo, di matrimonio e da questi è risalito ai padrini e ai testimoni. Ha parlato con centinaia di persone, tra cui i musicisti Stéphane Grappelli, che con Django aveva costituito nel 1934 il celebre «Quintette du Hot Club de France», Hubert Rostaing, Pierre Michelot, Martial Solal, che proprio con Reinhardt aveva inciso i suoi primi dischi, ma anche con Babik, Nin Nin, Naguine e Négros, rispettivamente figlio, fratello, moglie e madre di Django. Dal racconto di Dregni risulta un Django Reinhardt inedito, inserito nella cultura zingara e nell’ambiente musicale
parigino degli anni Venti e Trenta. È il mondo zigano che per la prima volta, in un’opera su questo musicista, viene descritto con grande dovizia di particolari. La vita nomade, i rapporti con i fratelli e quelli con i gadjé, parola di derivazione sanscrita che indica i non zingari. «Alla sua morte, secondo la tradizione zelimos, il rito funebre manouche, - scrive Dregni - la famiglia lascia il carrozzone e poi lo brucia con tutti i beni mondani dello scomparso. In memoria si può tenere solo una foto». L’ultima parte del suo lavoro, Dregni, la dedica al jazz zigano, lo stile inventato da Django che oggi continua con artisti come Biréli Lagrene, Dorado Shmitt, Stochelo Rosenberg, Rocky Gresset e decine di altri musicisti rom sconosciuti che spesso è possibile ascoltare nei bar, nei caffè e nelle metropolitane di mezza Europa. Michael Dregni, Django. Vita e musica di una leggenda zingara, Edt Torino-Siena Jazz, 428 pagine, 22,00 euro
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riste destino della critica: uno sta lì, un po’ patetico, a misurare le parole, a cambiare venti volte un aggettivo - grazie alla docile complicità del computer (un tempo, con la Lettera 24, era impossibile) - a tormentarsi, per scoprire se certe tournures possano avere un senso o turbare certe suscettibilità, e poi scopri che la disinvolta mannaia-tsnumani del caposervizio d’un altro foglio (non parlo della nostra, amatissima) ti falcidia di più d’un terzo la recensione e umilia l’artista, e allora capisci che il ruolo del critico è davvero sopravvissuto, e male. Chiedo udienza dunque a voi, per ritornare sull’argomento, che ci sta a cuore, e che tocca ancora il tema della levità, di cui ci già siamo occupati, perché leggerezza calvinesca, levità e spirito-esprit (nel doppio senso del termine) non significano certo, tout court, evasività, vacuità, spensieratezza, anzi (l’unica citazione dotta che mi concederei, è la geniale considerazione di Hofmannsthal, convinto che nel Moderno «la profondità si è raccolta in superficie». E non già superfluità decorativa). Appunto, questo tema tocca molto il mondo appartato e resistente, riflessivo, dell’artista torinese Giorgio Griffa, che mi sembra giusto risarcire di quel «taglio» umiliante. Curioso che a Torino, contemporamente alle celebrazioni un po’ cimiteriali del pur ragguardevole movimento dell’Arte Povera, ci siano tre segnali di ribellione della «Leggertà»: le immagini di Ghirri, di cui abbiamo parlato, la curiosa mostra d’un giovane musicista dal trovarobato creativo e pneumatico, come Mirco Marchelli, e il nostro Griffa che ha spettinato la Galleria Biasutti con una sorta di allegra e luminosa invasione di segni e di barthesiane calligrafie d’una lingua indecifrabile. Per questo (mi) consigliavo di non appesantirlo troppo, con interpetazioni saccenti e spropositate, perché la leggerezza pensosa questo esige, o meglio consiglia: il riserbo della parola critica «sperticata» e almeno altret-
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Moda
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L’alfabeto in sogno del mercuriale Griffa di Marco Vallora tanta levità esegetica, senza voler far scattare a tutti i costi le serrature tronfie delle casseforti critiche o cercare d’imbottigliare forzosamente questi vispi folletti o grilli cromatici, entro i botticini preparati dell’asfissiante entomologia manualistica. Che è il cibo ormai del giornalismo d’arte. Spero che lui, per esempio, accetti il parallelo, non poi così irriverente, delle sue danze cromatiche, da sciamano ebbro, con le capriole impazzite dell’Apprendista stregone di Honegger, che invece aveva mandato in furia un
suo collega poverista. Apprendista che pasticcia con i segreti alchemici, in assenza del suo Maestro e tutto, intorno segni, oggetti, regole, formule - improvvisamente impazza e s’anima, incontrollabile, compreso lo spazzolone folleggiante del colore (il pennello?) che disegna sul cielo del foglio volute rabescate, magistralmente inafferrabili. Riserbo di predica, dunque, su queste opere, felici d’essere libere, disarcionate e nomadi (sulle pareti, senza nemmeno ambizioni di cornici borghesi o preamboli paratestuali) ed erroneamente sog-
giogabili a qualsivoglia movimento irrigimentato: talvolta ci sono delle opere così risolte in sé e autosufficienti, nella loro autonomia, senz’urgenza d’ulteriori commenti cerimoniosi e stampellanti, che non soltanto guatano con giusto sospetto l’agguato o l’attentato dello sproloquio critico, ma rendon risibile l’ufficio stesso dell’interpretazione verbosa. Per lo meno a chi possiede un poco di sensibilità, per ribellarsi a quel giogo vanesio. Che al limite vorrebbe saper zampillare dei versi freschi alla Penna o Caproni o Zanzotto, che forse potrebbero essere i poeti del pantheon soffice di Griffa. Non forzieri da forzare, ci paiono queste pandette ammattite dell’ex avvocato Griffa, queste steli di Rosetta pirotecnicamente esplose, questi cantini da chitarrone del Tiepolo di Würsburg appena saltati d’innanzi i nostri occhi: altra ci pare la «combinatorietà» infinita di Griffa, che rimbalza dalle metrature intermittenti dei suoi fogli scapricciati, sfuggiti al calendario rigido dell’esplicabilità, con leggera sonorità di celesta o triangolo o clavicembalo. Eppure, se ci si volta indietro, verso la cometa discreta della sua bibliografia, quella pesantezza di fiato critico sistematicheggiante, un poco s’avverte e soffoca la sua levità. In un unico testo, parbleu!, vedersi schierare, irrigimentati, i nomi di Leonardo, Galileo, Cartesio, Vico, cabala. Einstein & Cassirer, Wittgenstein & Merleau-Ponty, troppa grazia, davvero: si getta la spugna! S’individui semmai la scarrucolante melanconia auto-ironica di questi «alfabeti in sogno», che danzano scollacciati minuetti diderottiani, finto-cicisbei e invece graffianti. Non griffati, ma sgraffiti, graffiati: come per una protesta metafisica. In anni minimalisti, in cui Niele Toroni ripete identica, ovunque, la stessa pennellata, Daniel Buren mette le strisce a Palais Royal, Opalka minia esatto il suo calendariale battito metronomico, il mercuriale Griffa mette le ali ai calzari greci delle sue tinte pastello ed evapora, persistente.
Giorgio Griffa - Di segni, di numeri, Torino, Galleria Biasutti, fino al 5 novembre
Autunno androgino sulle orme di Marlene
a moda, bravissima ad anticipare le tendenze e a trasformarle in provocazioni, punta sull’androgino, mito antico e affascinante, e ci induce, se non in tentazione, in confusione. Ragazze con le bretelle rosse, la cravattina e la gonna di vernice. Ragazze con giacche, camicie bianche maschili a cominciare dal colletto, e capelli corti. Con scarpe stringate, mocassini e classici tessuti del completo da uomo. Dove vanno? Alla ricerca di una nuova identità. La moda autunno inverno 2011/2012 ha un filone androgino che piace a molti stilisti, da Frankie Morello a Michael Kors, senza dimenticare Dolce&Gabbana e Costume National. Il confine maschile-femminile si fa sempre più sfumato e incerto. Basta guardare il sex symbol James Franco con tanto di rossetto e cipria sulla copertina di Candy, rivista transgender, per capire che niente è più definito. E anche le ricerche antropometriche dimostrano che anche i corpi stanno cambiando. Il tipo androgino, oggi molto in tendenza, ha già le sue icone. Nella it-list, accanto alle
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di Roselina Salemi famose Tilda Swinton e Keira Knightley, elegante, sottile, porcellanata, o alla ormai lanciatisima Noomi Repace, la Lisbeth Salander della trilogia di Millennium, spuntano la modella Daria Werbowy e l’attrice Catherine Moennig, protagonista della serie Dexter. Ragazze con la cravatta. La deriva è pericolosa. In passerella arrivano già uomini che indossano le collezioni femminili. E piacciono. Il più famoso ha i capelli biondi, i tratti delicati, la bocca morbida e imbronciata. L’intensità di Cindy Crawford unita alla bellezza irregolare di Kate Moss (dicono). È stato il volto della campagna di primavera 2011 di Marc Jacobs ed è prenotassimo per tutto l’inverno. Si chiama Andrej Pejic, ha poco più di vent’anni e «una struttura meravigliosa», secondo Vogue. È l’incarnazione del femiman, moderna sintesi tra uomo e donna. Così non resta che rifugiarci nel passato, tra Greta Garbo e Marlene Dietrich, due attrici
davvero flexisexual. Furono in tante a comprarsi il basco della Garbo in Ninotchka (1939) e a imitare il suo taglio di capelli a mezza lunghezza (al tempo, andavano le acconciature cortissime alla garçonne). A cogliere al volo l’ispirazione di Marlene Dietrich e dei suoi tailleur pantaloni. Giorgio Armani ha detto di lei: «Il suo look androgino che non scadeva mai nel travestitismo. Portava il cappotto maschile, i pantaloni larghi, la giacca-tailleur, tutti pezzi che hanno contribuito a definire il concetto del mio stile». E ci risiamo. Basta leggins, basta vita bassa, basta shabby. I jeans sono meno skinny. I day must per l’autunno sono la mini-cappa, la camicia bianca, le scarpe di vernice stringate, i guanti, il blazer in principe di Galles e il classico Borsalino. Un tocco di rosso per vivacizzare. Quanto ai pantaloni, ci sono varie scuole di pensiero. Larghi, a vita alta, nella variante shorts (un recupero degli anni Settanta) o gonna pantalone che le signore di molto gusto, come Inès de La Fressange vivamente sconsigliano. Ma le vetrine sono piene, nessuno le darà ascolto.
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il paginone
Sondare il visibile, al di là dell’apparenza, affinando sempre di più la tecnica per arrivare a esiti personalissimi e inconsueti. Quello del pittore di Aix è fin dall’inizio uno stile tutto a sé, diverso da tutti i suoi contemporanei. Dove precisione del dato sensibile e tensione per l’assoluto si amalgamano. Al padre della pittura moderna è dedicata una mostra a Palazzo Reale di Milano di Rita Pacifici uando nel 1907, il Salomn d’Autumn dedica una retrospettiva a Paul Cézanne, a un anno dalla morte, i maggiori esponenti della cultura del tempo sono lì. Ci sono Picasso e Braque, Apollinaire e Gertrude Steine, tra le prime, coraggiose collezioniste del pittore provenzale. Tra i visitatori c’è anche Rainer Maria Rilke. Il poeta tedesco è al suo terzo soggiorno parigino e ogni giorno, dal sei al ventidue ottobre, osserva i cinquantasei Cézanne per poi lasciare, nelle lettere alla moglie Clara, un diario dello choc provocato da quelle opere possenti, che si impongono al di sopra di ogni altro stimolo visivo. Il sette ottobre, alla sua seconda visita, Rilke scrive: «Tutta la realtà è dalla sua parte: in quel denso azzurro ovattato che gli è proprio, nel suo rosso e nel suo verde senz’ombra, nel nero rossastro delle bottiglie di vino. Di quale povertà sono i suoi oggetti, le mele sono tutte mele da cuocere e le bottiglie di vino starebbero bene in tasche slargate di vecchi cappotti». Mai si era vista una pittura così vicina alle cose. Cézanne appare a Rilke di una modernità sconvolgente, un’esperienza che si lascia alle spalle qualsiasi mimesi precedente: il realismo di Courbet, le forme salde di Manet, tutto appare oltrepassato da un’idea pittorica che si spinge verso un punto di non ritorno.
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L’incontro con il pittore francese determina una svolta nella poetica di Rilke, chiarendogli l’aspirazione a celebrare quanto c’è di oggettivo e durevole nell’esistenza. D’altra
Cézanne, Les Ateliers du Midi, la mostra che si è aperta giovedì a Palazzo Reale (fino al 26 febbraio, prodotta dal Comune di Milano e Skira, a cura di Rudy Chiappini), con circa quaranta opere che arrivano dai più importanti musei del mondo, rende omaggio al pittore provenzale e ne evidenzia il profondo legame con il paese d’origine. Coordinate geografiche importanti perché ad Aix, nel sud della Francia, Cézanne nasce nel 1839, muore nel 1906 e qui produce tutta la sua innovativa pittura. Nella casa di famiglia del Jas de Bouffan, a Chateau noir e all’Estaque, e poi nell’atelier des Lauves, alla periferia di Aix, l’ultimo studio dove prende corpo la leggenda di un vecchio cupo, irascibile e misantropo. Il Midi è luogo amato immensamente dall’artista, esplorato a lungo in gioventù nelle passeggiate con Zola, eletto a rifugio negli anni della maturità e degli studi.Terra, dunque, che s’identifica con la pittura stessa di Cézanne, sorta da un incessante dialogo con la natura, portato avanti con rigore e dedizione, fino alla fine.
Alle origini del suo percorso, Cézanne è pittore romantico e letterario. Un giovane insoddisfatto del lavoro di banchiere imposto dal padre, che sperimenta le proprie capacità espressive dipingendo sui muri della casa temi convenzionali, come Les Quatre saison, o Le Diable enchainé e La Reve du poete, dove emergono il rapporto con la tradizione locale e la passione per gli autori conosciuti al Louvre: gli spagnoli, i veneti so-
La sua ricerca fu accompagnata da clamorosi insuccessi che lo spinsero al totale isolamento. Ma le sue opere che rivelano “perfetta oggettività” e “celato splendore” avrebbero cambiato la poetica di Rilke parte anche Picasso, proprio alla fine di quel 1907 realizza Les Demoiselles d’Avignon, annuncio del cubismo, impensabile senza l’espressione plastica di Cézanne. La lezione altissima del maestro di Aix penetra nel cuore del Novecento, alle radici della sensibilità e dell’estetica contemporanea.
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prattutto e, tra i moderni, Delacroix, Courbet, Daumier. Non è attratto da Ingres né da Degas, poco sanguigni, privi di «carne». Qualcosa di personale appare nei paesaggi del ‘65, dove lascia il pennello per la spatola nel tentativo di raggiungere quella concretezza e determinazione dei volumi che appa-
E fu subito re subito punto focale degli interessi del pittore. L’avventura pittorica di Cézanne ha il suo vero inizio con il soggiorno, dal 1872, ad Auvers sur Oise. La vicinanza a Pissarro impone un cambiamento di rotta radicale. Dai soggetti dell’immaginazione a quelli reali, dai colori scuri filtrati dalla memoria alle tonalità chiare e luminose del paesaggio provenzale, catturato in una lunghissima serie di varianti: La Maison du docteur Gauchet, La Vieille route à Auvers sur Oise, Vue prise du Jas de Bouffan, La maison du pendu, esposto nel ‘74 nella prima mostra ufficiale del gruppo stretto intorno a Monet, dimostrano quanto sia ricca di esiti per l’artista
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ta, attento non alla verità anatomica ma alla struttura invisibile. «Ora la natura per noi uomini è più in profondità che in superficie», scriverà all’amico Emile Bernard (testimonianza fondamentale per la conoscenza dell’artista raccolta da Skira in Mi ricordo Cézanne). Per restituire questa dimensione, il pittore diffonde nei quadri il suo blu e i colori azzurrati, sovrappone strati su strati di materia, crea immagini dal cromatismo denso e dai ritmi diversi che non hanno più a che fare con le limitate capacità di percezione della retina. Alla poesia dell’attimo e della fugace impressione visiva, il pittore di Aix opporrà sempre lo sguardo che scava e cerca di comprendere ciò che permane al di là della mutevole apparenza.
La ricerca di Cézanne è accompagnata da clamorosi insuccessi. Dopo le critiche ricevute al Salon del ‘74, anche le sedici tele esposte alla terza mostra degli impressionisti nel ‘77 sono accolte con ironia. I suoi dipinti appaiono grotteschi, incomprensibili. Quel che dipinge non ha che fare né con il passato romantico e sentimentale né con la nuova tendenza, priva di tecnica e mestiere. Il pittore si allontana da tutti, in un isolamento che non cesserà mai e che apre la stagione più proficua della sua arte. Cézanne procede nell’osservazione della natura, si accanisce sul paesaggio riprendendo ciò che vede in tutte le possibilità e condizioni. Colline, campagne, vedute di Auvers, i dintorni di Aix, le cave di pietra, il Jas de Bouffan, il castello di Medan dove va a trovare l’amico Zola per l’ultima volta nel 1885, strade e moltissimi alberi. Autentico genere a parte, che affascina il pittore non solo per la possibilità di
scisse a congiungere, con effetti sorprendenti, precisione del dato sensibile e tensione per l’assoluto. La terra «dalla luce implacabile» che ritaglia e isola ogni cosa, e «pesa ormai sulla sua anima al pari d’una fatalità», continua a offrire al pittore un repertorio infinito di stimoli visivi. In un’inesorabile marcia verso la meta, tra il 1885 e il 1886 l’artista trova il centro, l’oggetto intorno a cui si cristallizza la propria ansia conoscitiva. Il massiccio roccioso della SainteVictorie, che domina la pianura e incombe, attraverso la vetrata, nello studio che si è fatto costruire ai margini della città, diventa per Cézanne un’autentica ossessione figurativa. Circa quaranta gli oli, altrettanti gli acquerelli, per afferrare la vita segreta della montagna, per ricrearne, attraverso la materia colorata, la stessa essenza geologica. Negli ultimi anni, la Sainte Victoire è ripresa con maggiore insistenza e con una diversa tecnica di scomposizione. Un altro passo verso l’astrazione che non offusca la maestosità di questa immagine, simbolo dell’ideale costruttivo del maestro. E tutti i suoi soggetti, da Le Vase bleu al Portrait d’Henry Gasquet, che proviene dal Texas, a Le Jardinier Vallier, di proprietà londinese, tutti i paesaggi senza figure, da Lerocher rouge a Dans le Parc Chateau Noire, dei musei parigini, rivelano ormai la «perfetta oggettività» e il «celato splendore» che incantò il poeta tedesco.
Non sarebbe stata possibile l’arte di Cézanne, commenta Rilke, senza Baudelaire e la percezione spietata del reale espressa nei Fiori del male. Libro che il pittore lesse e regalò poi a un amico, sporco di colori e pieno di annotazioni. Di Baudelaire, di Flaubert e
Teorizzava così, nel 1904, i risultati raggiunti dopo anni di studio: «Trattare la natura per mezzo del cilindro, della sfera, del cono, il tutto posto in prospettiva». Così qualsiasi soggetto sembra solidificarsi
o Cézanne l’immersione nel lavoro en plein air, ma anche quanto siano personali e inconfondibili le immagini che ne elabora. Anche mescolato agli impressionisti, Cézanne è già Cézanne. Non si lascia soggiogare dal valore della visione e restituisce frammenti di una natura intatta, limpida, mai dissolta nell’atmosfera. I paesaggi di questo decennio sono il preludio del periodo futuro, fermi, di una «quiete esasperata», che porta a galla l’ineffabile. Stessa capacità di penetrazione si ritrova nei ritratti, come nel celebre Portrait de l’artiste (dal Museo d’Orsay), nelle nature morte con le forme esaltate dalla luce, nelle numerose donne al bagno che Cézanne rivisi-
frantumare la luce ma per le forti linee verticali attorno a cui rapprende l’intera costruzione, e di cui è splendido esempio Grand Pin et terres rouges (nella versione della collezione giapponese del 1885 e in quella da San Pietroburgo del 1890). Il rinnovato impegno a sondare il visibile giunge a esiti di singolare intensità espressiva. Una pittura sempre più serrata e semplificata negli elementi, dalle pennellate fitte e parallele, dove è la geometria a scandire la visione.Teorizza così, nel 1904, i risultati raggiunti dopo anni di studio: «Trattare la natura per mezzo del cilindro, della sfera, del cono, il tutto posto in prospettiva». L’esito è rigoroso, qualsiasi soggetto sembra solidificarsi, definito da una complessa armonia cromatica ed emergere da uno spazio che nonostante l’applicazione dei principi tradizionali della rappresentazione, non è più quello consueto. È sufficiente vedere una natura morta della fine degli anni Ottanta, La Table de cuisine del Museo d’Orsay, per comprendere come l’artista riu-
di tanti altri scrittori, si alimentò certamente Cézanne, ma fu anche la letteratura a incrociare più volte questo personaggio fuori dal comune. E se nel genio tormentato di Frenhofer, protagonista del Capolavoro incompiuto di Balzac, l’artista ammise pubblicamente di identificarsi, il pittore Claude Lantier che si suicida per i ripetuti fallimenti, creato da Zola nell’Opera, scatenò l’ira dell’artista. L’enfasi romanzesca fu causa della rottura di un’amicizia fraterna, ma in fondo, metteva in luce quella grandezza tragica che al padre della pittura moderna appartiene davvero. Per l’isolamento in cui visse in attesa di una rivelazione, per quelle immagini conquistate a poco a poco e che, nell’ultima produzione, sono divorate dal bianco della tela e sembrano svanire. Un non finito che incalza, rompe l’equilibrio, costringe il pittore a distruggere i propri quadri. È il segno di arresto, di resa all’indeterminato e all’inconoscibile, contro cui Cézanne aveva combattuto per tutta la vita.
Narrativa
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libri
Pubblico e privato nella vicenda paradigmatica della famiglia Tramontana, raccontati da Paolo Di Paolo nel suo nuovo romanzo
Paolo Di Paolo DOVE ERAVATE TUTTI Feltrinelli, 219 pagine, 18,00 euro
iocato sulla falsariga della questione privata, apparentemente uno scenario generazionale, l’ultimo romanzo del giornalista e scrittore Paolo Di Paolo, Dove eravate tutti, è un libro più complesso di quanto appaia e scende deliberatamente e con vigore nei meandri della conoscenza del mondo come trasformazione dell’individuo, e nel rapporto asincronico tra tempo biografico e tempo della Storia. Un libro cedevole all’allusività del mondo come teatro dell’assurdo e insieme raccolta di quotidiane stupidità, allestimento di percorso di formazione che passa attraverso le tappe forzate della socialità e della famiglia, scoperte degli intrighi banali e sapidi comandati dall’eros degli adolescenti o di azzimati professori annoiati. E partiamo proprio da quest’ultimo particolare per riassumere la storia del protagonista, io-narrante, Italo Tramontana, imbranato ragazzo dell’83, figlio di un insegnante e di una casalinga. Una narrazione frammentata che raccoglie la biografia di Italo e della sua famiglia passando rapidamente dal tinello di casa alle prime pagine dei giornali, dalle prime feste del liceo con le aggressive fanciulle (dette le Ragazze Sbagliate) in cerca di «baci veri», al crollo delle Torri Gemelle. Pubblico e privato in continua tensione perché uno misuratore dell’altro, soprattutto nella lettura sociologica di come un ragazzo figlio degli anni Ottanta, gli anni dell’ebbrezza e del cazzeggio, cresca negli anni della dissoluzione economica e politica del Paese. La dissoluzione, come parola paradigma, risuona fuori, nel Paese-Italia, e dentro la famiglia Tramontana, una semplice e normale famiglia italiana con due figli adolescenti e un padre appena pensionato dalla scuola. Un’apparenza normale che si incrina su un episodio inspiegabile, il professor Tramontana, infatti, investe uno studente (un suo ex studente) fuori dalla scuola, il bello e arrogante Thomas Marangoni. La famiglia Tramontana viene scossa dal gesto che
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Riletture
L’Italia di Italo tra Storia e biografia di Maria Pia Ammirati
appare subito ambiguo e che viene immediatamente stigmatizzato dai conoscenti come un atto volontario di violenza, un fatto rabbioso scatenato dagli anni di insegnamento e frustrazione di un insegnante qualunque. Perché il professore fresco di pensione invece di fare vita ritirata e tranquilla si prende la briga di tornare sul sofferto luogo di lavoro e tenta di investire uno dei suoi studenti? È la domanda che si pone una famiglia sconcertata che si anima di una forza cinetica inaspettata, e comincia a muoversi in maniera centrifuga e scomposta. La madre e moglie del professore fugge, si rifugia a Berlino, mollando le incombenze familiari, la domesticità che garantisce il sistema di ordine e organizzazione della famiglia. Italo è costretto a raggiungerla per riportarla indietro e Berlino diviene un luogo di ritrovo e di svelamento. Il professore Tramontana ha investito Marangoni per dispetto, per odio, per antica frustrazione nata tra i banchi: «i professori in Italia contavano meno di zero», perché Marangoni è il frutto della decadenza di un’età nuova (per il placido professore), nella sua arroganza senza velature: «papà era stato denunciato dai carabinieri all’autorità giudiziaria per il reato di lesioni personali, ex articolo 582 del codice penale». Ma il centro del romanzo è Italo, spaesato come la sua Italia a cui ruba il nome non solo per plagio ma forse per amore, spaesato e disperso ma pure ossessionato dai suo vent’anni passati in un clima politico d’apocalisse con al centro la figura di Berlusconi. Il giovane studente di storia è attratto da quella figura così sfuggente eppure così carnale e viva e palpitante, l’uomo, il primo uomo che ha davvero dissacrato la politica, sovvertendone le regole, il primo ministro che dal ’94 governa una nave in tempesta. Italo cerca di capire, si serve della cronaca e della pubblicistica ma poi vuole andare a fondo per studiare il fenomeno B. rendendolo oggetto della sua tesi. Un libro che con leggerezza affronta la pesantezza della dimensione esistenziale di ognuno di noi.
La forza di Maigret? Non disprezzare mai nessuno ome spesso capita nella Parigi dove indaga il commissario Maigret piove. I coniugi Maigret sono a cena dai Pardon. Come sempre capita le donne si mettono in un angolo a chiacchierare, mentre i mariti iniziano per conto loro una serie di confidenze. Nello studio del medico, «che odora di poveri» - infatti la sua clientela è composta di meno abbienti - questi dice di essere stanco di lavorare anche sedici ore al giorno, di ricevere quasi ottanta pazienti. E si sfoga: «Vogliono fare di noi medici dei mediocri dipendenti statali…». Maigret non ha il tempo di ribattere perché irrompe in casa l’italiano Gino, titolare di un negozio di alimentari di rue Popincourt. E mette in moto l’inchiesta del commissario raccontando che sul marciapiedi di quella strada c’è un giovane che rantola. Lui e sua moglie, rincasando, hanno visto un uomo con un impermeabile chiaro e un cappello scuro pugnalare la vittima. Poi scappare. Infine ritornare e infierire nuovamente. Sette coltellate in tutto. Commissario e medico escono subito. La vittima, il ventunenne universitario Antoine Batille, morirà all’ospedale. Maigret si sente in dovere di andare dai genitori. Entra in una lussuosissima casa e li
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di Pier Mario Fasanotti aspetta per una decina di minuti: devono rientrare, sono andati a teatro. Maigret li informa. Annota Simenon (in Maigret e l’omicida di rue Popincourt, Adelphi, 167 pagine, 10,00 euro) che il raffinato appartamento dei facoltosi Batille è come all’improvviso scomparso, trasformato in una sorta di spazio neutro, occupato da due genitori travolti dal lutto. Una volta a casa, Maigret si guarda attorno e considera «stretta» la sua casa di boulevard Richard-Lenoir, «come se fosse appena tornato da un lungo viaggio». E poi, in pigiama, confessa a se stesso di trovarsi bene proprio lì. Sono squarci di vita coniugale, pacata, armoniosa, in netto contrasto con quel che capita nelle vie o in certe camere di Parigi. Da Batille padre ha appreso che il ragazzo, un paio di sere la settimana, si sedeva ai banconi dei bar e azionava il suo registratore. Era un collezionista di voci. Metteva da parte, per studiarli, quelli che lui chiamava «documenti umani». Maigret, interrogando poi una sua amica, scoprirà che il timido Antoine voleva dedicarsi all’antropologia, in Africa. Ovviamente, deduce Maigret, è
Doppia indagine nell’inchiesta del Commissario alle prese con l’omicida di Rue Popincourt
stato accoltellato perché qualcuno si è accorto che ha registrato uno spezzone di chiacchierata malavitosa. O solo imbarazzante o così segreta da muovere un killer. Il quale, tuttavia, non ha portato via il registratore. Questo è uno dei primi quesiti di Maigret che, come sempre, alla moglie che gli pone domande sull’indagine appena iniziata risponde: «Lo sai benissimo che non ho mai un’idea». Lui rimugina, interroga persone, scova passati e presenti di uomini che hanno oltrepassato il limite della legge, o stanno per farlo. Si arriva a ipotizzare che c’entri una banda di scassinatori, specializzata in furti di opere d’arte. Nella banda c’è un marsigliese. A pagina 70 il racconto potrebbe terminare. Invece Simenon innesta scarti narrativi. Fino alla conversazione telefonica tra Maigret e un uomo che ha il desiderio inconscio di farsi arrestare, ma anche di raccontare di sé. Chiede al poliziotto se è felice. Risposta: «Relativamente, come lo siamo un po’tutti». La signora Maigret si incuriosisce per la decisione del marito di passare il fine settimana in campagna. «E l’inchiesta?». «Ha bisogno di sedimentare». «Ti ha telefonato per provocarti?». «No… aveva bisogno di conforto». A quell’uomo triste lui aveva appena detto: «Io non disprezzo nessuno».
Società
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Una precisa vocazione: far arrivare oltre i confini dello Stato da cui trasmette, la parola del Pontefice e con essa l’universalità del cattolicesimo. Un percorso multilinguistico che si esprime oggi in quarantacinque lingue. Da Pio XI a Benedetto XVI, ottant’anni di Radio Vaticana in due volumi
di Sergio Valzania
l 12 febbraio del 1931, dalla palazzina Leone XIII partì il primo radiomessaggio inviato nell’etere dalla Città del Vaticano, istituita due anni prima a seguito degli accordi concordatari con lo Stato italiano. Pio XI si rivolse al mondo in latino, per venire subito tradotto nelle maggiori lingue moderne, con un tono biblico: «Udite o cieli quello che sto per dire; ascolti la terra le parole...». A ottant’anni di distanza dall’avvenimento storico che dette vita a quella che sarebbe diventata la Radio Vaticana, la Libreria Editrice Vaticana propone un’opera in due volumi per raccontare la vita e le avventure di un ente radiofonico pubblico sotto molti punti di vista unico. Il cofanetto Ottant’anni della Radio del Papa (292 pagine, 70,00 euro) offre insieme al pubblico sia la ristampa del testo, ormai introvabile, redatto da Fernando Bea nel 1981 per raccontare il primo mezzo secolo dell’emittente, sia quello recentissimo di Alessandro De Carolis, che affronta i tre decenni successivi e giunge così fino ai nostri giorni.
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L’ottimo livello della scrittura di entrambi gli autori accompagna il lettore in un percorso niente affatto scontato. Fin dalla sua nascita Radio Vaticana non fu un semplice accessorio del sistema pastorale e istituzionale creato da Pio XI come conseguenza del Concordato, ma ne rappresentò una delle realizzazioni di maggior importanza. Non a caso Bea apre il suo racconto proprio con la firma dell’accordo che fece nascere nascere lo Stato Pontificio, all’interno del quale il Papa volle che venissero subito realizzate la stazione ferroviaria e quella radiotelegrafica, del cui allestimento venne incaricato Guglielmo Marconi in persona. Nella stazione ferroviaria è già presente il germe dei viaggi pastorali in tutto il mondo inaugurati da Paolo VI con il pellegrinaggio in Terra Santa del 1964 e sviluppati da Giovanni Paolo II con più di cento viaggi, che nel corso del suo pontificato lo hanno tenuto per oltre cinquecento giorni complessivi fuori dal Vaticano e dall’Italia. Ma dove il Pontefice non può essere fisicamente deve arrivare almeno la sua parola e questa è la prima funzione della Radio Vaticana, che è anche l’emittente dei viaggi del Papa, dei giubilei e dei grandi raduni della gioventù. Essa li accompagna, li racconta e aiuta chi vi partecipa a vivere nella quotidianità dell’evento.Tanto che nel kit del pellegrino predisposto per l’Anno Santo del 2000, fino all’ultimo momento era previsto l’inserimento di una radiolina che permettesse la fruizione dei moltissimi programmi di servizio trasmessi quotidianamente in un numero sorprendente di lingue. Nell’originalità assoluta della missione che le è affidata sta la particolarità di questa radio. Se la Rai e i suoi omo-
In missione per conto di Dio loghi europei hanno per compito quello di rappresentare la cultura del paese a cui appartengono, RadioVaticana si rivolge invece di regola a quanti abitano al di fuori dei confini ristretti dello Stato da cui trasmette, la Città delVaticano, con una precisa vocazione all’universalità, sinonimo di cattolicesimo. Ben prima del Concilio Vaticano II e della liturgia celebrata nelle lingue nazionali, la radio del Papa ha imboccato un percorso di multilinguismo che la porta oggi a esprimersi in quarantacinque lingue, per la cui scrittura sono necessari una quindicina di alfabeti, all’interno di palinsenti complessi e articolati. Le trasmissioni così realizzate vengono diffuse direttamente attraverso le onde corte e medie, via cavo e satellite, ma sono soprattutto riproposte da centinaia di piccole emittenti sparse in tutto il mondo che le inseriscono nella propria programmazione nel modo che giudicano più opportuno. Questa modalità di distribuzione dei programmi prodotti ha costretto Radio Vaticana ad assumere una forma organizzativa particolare e l’ha resa adatta a misurarsi con i cambiamenti profondi che l’avvento di internet ha imposto e continua a imporre a tutto il mondo della comunicazione. Un’offerta di palinsesto chiusa, a orari stabiliti, in formati standardizzati e comunque estesi è sempre meno adeguata per un pubblico che ha sviluppato l’attitudine a dialogare con il computer e le sue forme di ibridazione con la telefonia, abituandosi a usufruire a richiesta di prodotti snelli. Proprio questa agilità coatta, questa necessità di un confronto quotidiano con modalità di distribuzione varie e differenziate ha modificato la struttura tecnica e redazionale di Radio Vaticana così
tanto da indurre il suo direttore, padre Federico Lombardi, a domandarsi: «Siamo ancora una radio?». Un interrogativo che la dice lunga sulla modernità dell’azienda di informazione massmediatica vaticana, che si trova ben più avanti di quanto non sia la larga maggioranza delle aziende pubbliche radiotelevisive di tutta Europa che ancora si attardano a domandarsi: «Quale radio, quale televisione dobbiamo diventare nel nuovo millennio?», senza essere consapevoli che nell’età dell’integrazione delle piattaforme ogni specificità è destinata ad annacquarsi e scomparire. Il Corriere della Sera pubblica sul suo sito internet inchieste filmate, diventando qualche cosa di molto diverso dal giornale a stampa che conoscevamo.
Non si può tralasciare infine di ricordare il puntuale monito rivolto da Benedetto XVI, con grande sensibilità per le regole fondamentali della comunicazione, ai redattori della Radio Vaticana in occasione della sua prima visita all’emittente. Alessandro De Carolis lo riporta con la dovuta sottolineatura quasi in chiusura del suo testo: «Non dimenticate che, per portare a compimento la missione affidatavi, occorre certo un’adeguata formazione tecnica e professionale, ma è necessario soprattutto che coltiviate incessantemente in voi uno spirito di preghiera e di fedele adesione agli insegnamenti di Cristo e della sua Chiesa». Splendida lezione di scienza della comunicazione: per trasmettere un messaggio in modo efficace bisogna avere qualcosa da dire e credere nella sua verità, senza per questo sentirsi autorizzati a rifiutare il confronto con chi vive in una diversa tradizione di pensiero.
ALTRE LETTURE
MCLUHAN, APPASSIONANTE COME UN ROMANZO di Riccardo Paradisi
ouglas Coupland, l’autore di Generazione X, racconta Marshall McLuhan, uno dei maggiori sociologi del Novecento, l’uomo che, come recita il sottotitolo, aveva previsto il futuro, internet compreso. La biografia, dal titolo secco Marshall McLuhan (Isbn edizioni, 198 pagine, 19,00 euro) mescola linguaggio pop e riferimenti colti, aforismi e curiosità, citazioni originali e personali. In occasione dei cento anni dalla nascita di Marshall McLuhan, Coupland riflette sulla vita e sull’opera di un intellettuale che ha rivoluzionato il modo di interpretare la realtà in cui siamo immersi oggi, lasciato espressioni ormai entrate nell’immaginario collettivo («il medium è il messaggio» e «il villaggio globale» sono solo due tra le più note) e previsto, con i suoi studi, l’impatto della tecnologia sulla nostra società. Coupland rompe le regole della biografia per creare un ritratto a tutto tondo di McLuhan, la fotografia di un genio indiscusso ricca di aneddoti e avvincente come un romanzo.
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LONDRA CONTRO ROMA LA GUERRA INGLESE ALL’ITALIA *****
l golpe inglese (Chiarelettere, 353 pagine, 16,00 euro) di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella è un libro che fornisce le prove, tratte dai desecretati archivi londinesi di Kew Gardens, della guerra segreta condotta contro l’Italia dagli inglesi. Una guerra irregolare mirata al controllo geopolitico ed energetico del nostro Paese. Una lunga strategia di condizionamento che si snoda dal delitto Matteotti all’omicidio Moro passando per l’attentato a Mattei. Dai documenti emerge che non è Washington a ordire piani per l’Italia, ma soprattutto Londra, che non vuol perdere il controllo delle rotte petrolifere e contrasta la politica filoaraba di Mattei, Gronchi, Moro e Fanfani.
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SOLDATI, MILITARI, GUERRIERI ...PRATICAMENTE SANTI *****
ristiani pacifisti? Ma no. Anzi la chiesa cattolica ha beatificato e santificato molti soldati, guerrieri, cappellani militari. Lo scrittore cattolico Rino Camilleri li racconta nel suo Santi militari (Estrella de Oriente, 256 pagine, 14,80 euro). La Chiesa non ha mai vietato ai fedeli il mestiere delle armi. Semmai, ha disciplinato questo mestiere, inventando quelli che oggi sono i capisaldi delle norme del diritto bellico: distinzione tra combattenti e civili, rispetto dei prigionieri e delle tregue, regole d’onore eccetera. Non a caso, il termine «cavalleresco» è entrato nell’uso a indicare un modo di affrontare quella dura necessità quando il ricorso alla diplomazia si è rivelato inutile.
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di Enrica Rosso io lo devi usare come fosse una carta da gioco quando non sai più cosa dire. Ma se esiste perché permette tutto questo?». Mutu, muto, senza parole, ma non per sempre, giusto quanto basta per capire chi sei - una vita - e accettarti gettando la maschera, comunque vada. Una storia di vita, molto attuale, molto italiana. Non cercate un teatro: non lo trovereste; il protagonista della nostra storia ha bisogno di un luogo appartato e sicuro. Fatevi piuttosto guidare dalla curiosità e dalle luci, godetevi il senso del luogo e iniziate a entrare nell’atmosfera… i luoghi sono come le persone, è l’emozione a farceli incontrare. Ecco, laggiù c’è un capannone un po’ isolato, ci siamo, siete arrivati. All’intero pochi oggetti fanno intuire un senso di ricovero allestito per una sopravvivenza temporanea, di quelle che non devono lasciare traccia: una brandina, delle cassette della frutta a uso mobilio, alcune scatole di cartone con su scritta la marca delle sigarette che contenevano, un contenitore per pizza con i resti di un pasto frugale, molte bottiglie vuote, cicche… insomma un paesaggio da tana. Troneggiano a lato della scena, fronteggiandosi, una grande radio - unico lusso - e una giacca modello Padrino accudita, nell’arco dello spettacolo, come fosse un pupo. Bene avete capito, siamo nel nascondiglio di Rosario, assassino di professione, «mafioso per fame e non per coraggio», appassionato di lirica, che di lì a poco si paleserà, ciabatte, asciugamano e schiuma da barba in faccia. Ha i suoi riti, le sue piccole gioie, i suoi trastulli (ad esempio anticipare le battute di Camaradossi prima che la radio le trasmetta). Tranquillo, è padrone del tempo e dello spazio. Il suo gioco si rompe nel momento in cui qualcuno bussa: è Salvuccio, il fratello minore, di professione prete, appena giunto in paese a sostituire il precedente messaggero di Dio giustiziato per mano dello stesso Rosario. I due non si incontrano da dieci anni e il dialogo non parte. Nonostan-
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Televisione
Teatro
MobyDICK
spettacoli DVD
Storie di vita
con tonaca e pistola
te il limoncello dello zio Turi, l’atmosfera non si scalda, i due fratelli parlano linguaggi diversi e hanno diversamente metabolizzato la storia comune. Tra di loro una pistola. Lauro Versari, regista dello spettacolo, dopo aver selezionato con cura la location in cui far vivere la storia, dirige i suoi attori con amorevole, tangibile empatia indirizzandoli verso un realismo cinematografico, tradito a tratti dai crescendo ritmici eccessivamente costruiti.
Per assecondare maggiormente il senso del furto di uno scorcio di vita vissuta, Versari non utilizza luci da teatro affidandosi totalmente a un’illuminazione da interno e su questo forse si potrebbero raggiungere risultati più interessanti, ovviamente nel rispetto della scelta fatta. Aldo Rapè ha scritto un testo lucido, d’impatto, trovando all’interno della struttura degli snodi emotivi forti. In scena restituisce un Rosario fortemente incarnato, spesso in balìa della rabbia, a tratti consapevole di essere in un vicolo cieco. Quando si mette in ascolto del fratello si fa tangibile il senso di vuoto che lo pervade. Gabriele Gallinari costruisce il suo percorso con calibro diverso: sotto il peso della tonaca che indossa sottintende, tralascia, ingoia, comprime al massimo per poi affondare e prepararsi al finale.
Mutu, NuovoMetaStudio di Roma, via dei Cluniacensi 107 (zona Tiburtina), giovedì-venerdì-sabato ore 21- domenica ore 18, fino al 27 novembre, posti limitati, si consiglia la prenotazione, info: www.oltreteatro.it - tel. 320.144.22.29
SUSSURRI E NOBEL: DUE ANNI CON SARAMAGO più di un anno dalla sua scomparsa, di José Saramago restano soprattutto le opere. Di carattere riservato, il premio Nobel portoghese non amò mai le luci della ribalta e solo in rare occasioni lasciò che l’uomo si rivelasse dietro lo scrittore. Eppure i suoi ultimi anni rivivono con nitidezza in José e Pilar, documentario del regista Miguel Gonçalves Mendes che segue la vita dello scrittore e della sua compagna, Pilar del Río, nel periodo compreso tra il 2006 e il 2008. La vita quotidiana e il lavoro di scrittura del Viaggio dell’elefante sono il leitmotiv di un film illuminante.
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PERSONAGGI
RADIOHEAD AL TOP (SECONDO “NME”) ul portale di Nme, la storica rivista britannica New Melody Express che di recente ha tagliato il traguardo dei sessant’anni di attività, non può mancare l’appassionante classifica dei centocinquanta migliori pezzi degli ultimi quindici anni. Ad aggiudicarsi l’intera posta è Paranoid android dei Radiohead, mentre la medaglia d’argento e quella di bronzo finiscono rispettivamente agli Arcade Fire con Rebellion (lies) e agli Outkast con l’indimenticata Hey ya!. Quarto e quinto gradino della hit per Stokes (Last night) e Killers (Mr. Brightside), sesti i White stripes con Fell in love with a girl, solo ottava Amy Winehouse con Rehab.
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di Francesco Lo Dico
Le intuizioni di King, detective dalle scarpe rosse a un po’ di tempo il genere poliziesco, in televisione, si è adattato al nuovo ruolo che ha la donna nella società, almeno in quella occidentale. Accanto ai maschi in divisa, di solito determinati, a volte un po’ rozzi anche se stakanovisti e intuitivi, sono comparse le poliziotte. E a questo proposito sul piccolo schermo si riproduce il meccanismo dell’ascesa professionale della donna di oggi: deve lavorare di più, assumere un comportamento che inglobi astuzia e durezza, con il rischio sempre alle porte che la sua vita privata sia minata o vada in frantumi. Fox Life è un canale Sky che manda in onda serial di tipo femminile, tutti orientati sul genere comedy. Ora fa il suo ingresso Jessica King, che è detective della polizia di Toronto (Canada). Alta, mora, occhi chiari, scarpe invariabilmente rosse con tacchi alti, disinvolta, battuta pronta, esitante solo nell’intimità della sua casa, che condivide
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col marito (un macho muscoloso, e pazientissimo dinanzi a una consorte in carriera). Per un anno la King è stata messa al call center della polizia. Una punizione, e una gran noia. È accaduto perché accusò di corruzione un collega. Capita che non si riesca a venire a capo di un episodio di scomparsa: è svanita nel nulla Lori, una bambina di
sette anni che fa spot televisivi, un’attricetta in erba che con i proventi pubblicitari consente al padre di riprendere la sua antica passione, il golf. Il capo della polizia richiama in servizio attivo Jessica King, affiancandola al detective Spears, noto per i cattivi rapporti con i giornalisti. Tra un diverbio e l’altro su chi comanda veramente la squadra, tra battute veloci che non sempre sono esilaranti ma scivolano nel «già sentito» televisivo, la King segue un’intuizione: Lori ha gli occhi azzurro intenso, mentre entrambi i genitori li hanno scuri. La genetica ci informa che un caso del genere è possibile su 16. Ecco il sospetto, ecco la pista da seguire. Mentre Spears continua a setacciare il mondo marcio dei pedofili, Jessica rintraccia il possibile padre biologico di Lori, ex attore e ora tassista frustrato. Viene spiato e pedinato oltreché interrogato. Le telecamere di alcuni minimarket lo riprendono mentre compra caramelle.
Troppe caramelle. A poco a poco l’innocuo e triste tassista, dall’aspetto gentile e affabile, vince sugli altri come sospettato numero uno. E a questo punto s’intrecciano vicende personali. Spears, in un momento cruciale della vicenda, confessa di non vedere più la figlia, Jessica tenta disperatamente di diventare madre, il tassista mostra tutta la desolazione di uomo solo. La mamma di Lori ammette che la bambina non è figlia del marito. Il serial poliziesco si tinge di rosa, appunto perché destinato a un canale molto seguito dal pubblico femminile. È un prodotto di media qualità King, denso di esagerazioni comportamentali intese a definire meglio la donna impegnata nel lavoro. Jessica rischia sempre di apparire nevrotica. E un po’ caricaturale. Anche i canadesi ci cascano. A loro discolpa c’è l’effettiva difficoltà a descrivere un essere oggi quanto mai mobile (mutabilis semper diceva Virgi(p.m.f.) lio) come la donna.
Cinema
MobyDICK
sghar Farhadi si è fatto notare in Occidente con About Elly, film del 2009 su un gruppo di amici trentenni della buona borghesia di Teheran durante un weekend al mare. Sperano di fidanzare Elly, una giovane maestra, con un loro amico divorziato, rientrato in Iran dalla Germania per trovare moglie. Elly è in angoscia forse per la madre, forse per altro, e vuol ripartire subito ma l’amica le nasconde la borsa; poco dopo sparisce. Nell’angoscia del mistero di dov’è finita, emergono segreti e tensioni fra le coppie. La storia complessa e avvincente, ha vinto l’Orso d’argento a Berlino. Il nuovo film è Una separazione, e ha preso l’Orso d’oro. I due film raccontano come si vive in quella nazione ricca di cultura e tormenti. Nader e Simin (Peyman Moaadi e Leila Hatami, ottimi) sono dal giudice per separarsi. Simin desidera espatriare in un altrove dove le donne sono più libere. Nader è d’accordo per la separazione; non intende abbandonare il padre con l’Alzheimer, ma non vuole che Simin porti via Temeh. Lei non può portare la figlia all’estero senza il permesso del marito, e l’udienza finisce in un’impasse. Simin, contrariata perché il permesso di espatriare scade tra quaranta giorni e solo lei sa quanta fatica e denaro c’è voluto per ottenerlo, si trasferisce dalla madre.Temeh resta con Nader, non solo vuole aiutare con il nonno, ma sa che la madre non andrà mai via senza di lei, e spera in una riconciliazione tra i genitori se lei resta con il padre. Nader ha bisogno di qualcuno per badare il vecchio mentre lui è al lavoro.Tramite amicizie trova Razieh, una donna molto religiosa che però non dice al marito di lavorare in casa di un uomo in assenza della moglie. Si consulta spesso con una guida religiosa quando è insicura sul corretto comportamento secondo il Corano: per esempio cambiare e lavare un maschio anziano incontinente. Un giorno Nader torna a casa e trova il padre da solo, per terra, legato al letto. È furioso, e quando Razieh torna c’è un diverbio. Lui l’accusa anche di aver preso dei soldi spariti. Finisce per cacciarla di casa con una spinta, perché lei non vuole accettare l’accusa di furto. La donna perde il bambino, senza aver detto apertamente a Nader che era incinta. Il marito della badante, una testa calda disperato, indebitato, disoccupato e malato di nervi, fa causa a Nader per omicidio del nascituro. La donna non glielo aveva detto, ma il datore di lavoro se n’era accorto o no? Come in About Elly, il racconto si complica ed emerge un affascinante intrico di differenze di classe, orgoglio, omissioni, bugie, mezze verità, onore e rettitudine morale. Entrano in gioco per i personaggi questioni di lealtà, amicizia, famiglia, coscienza, con rivelazioni a sorpresa che fanno testa-coda con un codice penale a effetto boomerang. Da non perdere.
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A
«The Guard» esce da noi con il bislacco titolo Un poliziotto da happy hour. È il felice debutto di John Michael McDonagh, fratello di Martin, autore del superbo In Bruges - La coscienza di un assassino, in cui Brendan Gleeson era il meraviglioso hitman di Bruges. Stavolta è un poliziotto non corrotto ma assai spregiudicato. Il film apre con il sergente Gerry Boyle (Gleeson), in un’auto della polizia ferma, mentre una fuoriserie rossa gli sfreccia accanto a una velocità supersonica. Boyle non batte ciglio. Subito dopo entra in campo dove la fuoriserie si è sfracellata lun-
Quel cavallo
nero
da scolpire nella memoria di Anselma Dell’Olio
go la costa, il giovane guidatore senza vita per terra. Con calma Boyle fruga prima nel cruscotto dell’ammasso di metallo accartocciato, poi nelle tasche del morto; estrae confezioni di droga. Scuote la testa verso il cadavere. «La mamma non sarebbe affatto contenta di questa roba», opina. Da una delle buste estrae una pillola e la ingoia. Guarda il mare grigio acciaio e il cielo coperto color cemen-
Delude su molti fronti “Melancholia”, il film di Lars Von Trier sulla distruzione della Terra, ma le scene iniziali sono struggenti nella loro terribilità, e anche Kirsten Dunst vale la visione. Da non perdere “Una separazione”, dell’iraniano Asghar Farhadi. E da vedere “Un poliziotto da happy hour” con l’eccellente Brendan Gleeson
to, inspira profondamente, ed espirando osserva: «Che stupendo cazzo di giornata!». Boyle è pessimo, ma non malefico. È molto affezionata alla mamma Eileen (Fionnula O’Flanagan) in fase terminale in una casa di riposo. Lei si anima quando arriva il figlio, che si siede ingombrante accanto al corpo consumato della madre. La loro conversazione, esilarante, è costellata di parolacce che sono un intercalare tanto innocuo quanto automatico. In Galway, sulla costa occidentale irlandese, Boyle fa i suoi comodi. È rude e irascibile, e grande amico di prostitute, una frequentazione che gli garba assai. Il film è un poliziesco pieno di turpiloquio e di poesia sanguigna. L’autore gestisce con perizia la storia di malaffare e corruzione nelle alte sfere delle forze dell’ordine. Il suo vero interesse, però, è l’incontro-scontro di Boyle con Everett, un agente del Fbi inviato dall’odiata Dublino (Don Cheadle) per indagare su una serie di omicidi legata al narcotraffico internazionale e su un grosso trasferimento di droga previsto nel porto della cittadina. Everett è compassato, educato e professionale quanto Boyle è irregolare, sboccato e demotico. L’irlandese mette il nero americano alla prova, con commenti razzisti parecchio ignoranti, ma forse hanno uno scopo. I due uomini si studiano come duellanti, finché arrivano alla conclusione che possono lavorare insieme, con fiducia reciproca nonostante le vaste differenze. La sparatoria finale sul molo è girata con maestria e tanta adrenalina, ma il gusto profondo del film è nei dialoghi alti-bassi, a volte colti a volte beceri ma sempre spiritosi, nelle parti di contorno e nella regia. Gleeson è un fatto, corposo e torreggiante esemplare d’attore incapace di deludere. Da vedere.
È impensabile non segnalare un film di Lars Von Trier (Le onde del destino, premio della giuria a Cannes nel 1996, Dancer in the Dark, Palma d’oro ancora a Cannes nel 2000). È il più singolare e ambizioso cineasta danese a comparire dopo Carl Theodore Dreyer, autore di La passione di Giovanna d’Arco (1928), un film da vedere prima di morire. La nuova opera di Von Trier (il von se lo è dato da solo) è Melancholia, dal nome del pianeta-bomba che nel film è destinato a distruggere la Terra. Il primo tempo è dedicato a Justine (Kirsten Dunst) e il secondo a sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg). Justine è una donna in carriera che si è appena sposata con Michael (Alexander Skarskard). La stretch limousine bianca che li porta alla splendida festa di nozze ha difficoltà a girare l’angolo del viottolo che porta alla magnifica tenuta di Claire e suo marito John (Kiefer Sutherland). Il regista ha sofferto di depressione, e questa lunga scena della macchina di razza impantanata è simbolica e premonitrice di disastri a venire. Il film delude su molti fronti, tra cui la lunga serata scombiccherata, con scontri tra una madre acida (Charlotte Rampling), un padre inaffidabile e donnaiolo, un datore di lavoro (Stellan Skarsgard) e la sua dipendente star (la sposa); purtroppo tutto questo è una pallida imitazione del feroce, ferente Festen, il capolavoro di Thomas Vinterberg. Le scene iniziali sono di struggente terribilità (sarebbe stato meglio rivederle alla fine, molto più potenti di quelle sulla fine del mondo), da non perdere, di uno splendore indescrivibile (il cavallo nero cadente resterà nella memoria per sempre), approfondite nel significato dalla musica di Wagner, magnifici presagi di sfortuna.Vale il viaggio anche per Kirsten Dunst, acclamata come miglior attrice a Cannes.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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MobyDICK
di Emilio Spedicato
l premio Nobel è dovuto al ricco industriale Nobel, noto per l’invenzione della dinamite; il premio è assegnato per la fisica, la chimica, la medicina, l’economia, la letteratura, la pace. Non per la matematica. Si dice, ma forse non è vero, che la moglie di Nobel fosse l’amante del maggior matematico svedese, Mittag Leffer, che probabilmente avrebbe avuto il premio... Motivo per cui Nobel escluse la matematica dalle discipline premiabili.Tuttavia vari matematici (Nash, Aumann, Kantorovich) sono stati premiati con il Nobel per l’economia giustificandolo con le applicazioni all’economia delle loro scoperte. Il premio è conferito da una commissione svedese, che sembra preferire gli scandinavi e ha dimenticato scienziati di grande valore (leggasi Hoyle), e qualche volta ha anche premiato per risultati poi rivelatisi non corretti. In generale il premio va comunque a scienziati di grandissimo valore. Numerosi gli italiani, fra cui recentemente Rita Levi Montalcini, ora ultracentenaria, e Renato Dulbecco, ancora attivo a 97 anni.
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Appena assegnati anche quest’anno tutti i premi, come di consueto nel mese di ottobre, dedico questa nota a Dulbecco, Nobel per studi di genetica applicabili alle cause e allo sviluppo dei tumori, in particolare di quelli (non sono tutti) originati da virus. Sino a qualche settimana fa il suo nome mi era noto solo vagamente, non essendomi mai occupato seriamente di genetica o di virus (a parte i libri divulgativi di Luigi Cavalli Sforza, Peter Duesberg, e il vecchio ma sempre affascinante Paul de Kruif, Cacciatori di virus, meno noto dell’altro bestseller Cacciatori di microbi che lessi da ragazzo). Entrato casualmente in una libreria discount a Milano, sono stato attratto dal libro Renato Dulbecco. Scienza, vita e avventura. Un’autobiografia (Sperling & Kupfer, 2001). Generalmente preferisco le autobiografie alle biografie in quanto, pur essendo entrambe incomplete e tacendo o alterando vari aspetti della vita, sono emotivamente più cariche, soprattutto per la parte che riguarda gli anni giovanili. Vedasi quella di Trotsky, dove la descrizione degli anni vissuti da ragazzo e adolescente nella grande steppa ucraina è di una meravigliosa bellezza, mentre confusa e incompleta appare quella in cui sotto la sua guida l’Armata rossa conquistò il potere annullando la resistenza dell’Ar-
La grande avventura del Progetto genoma mata bianca. Iniziato il libro, mi è stato quasi impossibile lasciare la lettura, non solo per il modo molto bello in cui Dulbecco scrive, ma per la descrizione dell’emergere di un grande studioso e scienziato attraverso le difficoltà della vita, fra cui la partecipazione alla campagna di Russia, dove fu ferito mentre quasi tutti i suoi compagni vi trovarono la morte. Dulbecco era ufficiale medico, e mi chiedo se abbia conosciuto quell’ufficiale che permise al tenore Di Stefano di restare in Italia, dicendo che sarebbe stato più utile con il suo canto di quanto potesse esserlo come soldato in Russia. Ufficiale che insieme a tutto il battaglio-
comperò un pianoforte a coda Steinway, che fu l’ unico oggetto di casa che portò con sé quando, dopo 22 anni di matrimonio reso difficile dalle lunghe assenze per motivi di lavoro, divorziò dalla prima moglie Rita, cui lasciò la casa e tutto quanto conteneva. Nel primo dopoguerra si iscrive anche a Fisica, ottenendo una seconda laurea. Più tardi interagì intensamente con il grande fisico Feynman, anche lui premio Nobel, che aveva interessi per la biologia. Nel 1947 è invitato in Usa, a Bloomington nell’Indiana, città nota come sede di una prestigiosa scuola musicale, dove hanno insegnato, citando soprani che conosco, Virginia
Immaginazione scientifica e fiducia nelle capacità della tecnologia. Questo ha spinto Renato Dulbecco a lanciare una delle sfide più straordinarie che ha aperto la strada all’ingegneria genetica. Come spiega la sua autobiografia, ritrovata per caso dieci anni dopo… ne di cui Di Stefano avrebbe dovuto far parte, morì in quella Ucraina che sorprese i soldati senza l’equipaggiamento adatto per l’inverno. Dulbecco è nato a Catanzaro nel 1914. Possedendo una notevolissima intelligenza, si iscrisse a Torino a medicina a soli 16 anni, incontrandovi altri due studenti maggiori di età, che saranno importanti per lui e come lui grandi nella ricerca medica: Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Laureatosi nel 1936 fece subito due anni di servizio militare. Con la guerra fu richiamato e inviato in Russia. Ritornò nel 1942 malato e vicino a perdere la vita. Accanto all’interesse per la medicina e il nascente campo della biologia molecolare, aveva interessi musicali: suonava il pianoforte e ammirava la bellezza della musica barocca, specie di Vivaldi. Ricorda che con i primi guadagni, in America,
Zeani e Gloria Davy. Passa poi al Caltech, a Los Angeles, dove sviluppa un mutante del virus della poliomielite, che sarà quello usato da Jonas Salk per il primo vaccino (che diede alcuni problemi, quello attuale fu sviluppato poi da Sabin). Inizia lo studio di virus interagenti con le cellule, potendo portare a tumori. Queste ricerche le continua in Inghilterra, all’Imperial Cancer Research Fund, e in California, nel nuovissimo Salk Institute, costruito in un luogo con spettacolare vista sull’oceano. Per i suoi risultati ottiene il Nobel nel 1975, diviso con David Baltimore e Howard Temin. La sua grande immaginazione scientifica e la fiducia nelle capacità della tecnologia di investigare il piccolissimo e complesso, lo portano a lanciare il Progetto Genoma, una delle più straordinarie avventure della scienza, il cui com-
pletamento, unito alle tecniche di modifica del Dna sviluppate dall’altro grande Nobel, Kary Mullis, aprono la strada all’ingegneria genetica. Quali saranno i risultati di tutto ciò ad esempio fra un secolo non possiamo dire, ma sicuramente sono state messe le fondamenta per eliminare o combattere molte malattie genetiche e il cancro, allungare l’età umana lavorando forse sui telomeri (strutture che proteggono il Dna da errori di replicazione), scegliere il tipo di figli... capire la nostra storia come specie e riprogrammare le cellule.
Il progetto partì in Italia, fatto raro, grazie all’approvazione di Rossi Bernardi, presidente del Cnr, e poi divenne internazionale, portato avanti anche da società private. La sequenza è stata completata nel 2001, e sebbene esistano dei dubbi e sia ancora da capire il ruolo preciso svolto dai vari geni (sono decine di migliaia), la realizzazione di quest’opera ha portato un cambiamento radicale nella mentalità della ricerca. Nel 1993, a quasi 80 anni, Dulbecco iniziò a lavorare all’Istituto di Tecnologie Biomediche del Cnr, a Segrate, vicino a Milano, la località dove stava il Cise, mio luogo di lavoro per sette anni. Dulbecco si è risposato con una ricercatrice più giovane di lui di origine scozzese, Maureen. In questo momento è in America e a lui i migliori auguri per la continuazione del suo lavoro... (Almeno fino ai 109 anni, età in cui il grande tenore Hugues Cuénod ancora cantava, e bene. Del resto anche il pianista Horszkovsky a 99 anni fece la sua ultima registrazione dell’integrale delle sonate di Beethoven. E a 99 anni Carmelina Gandolfo, la pianista accompagnatrice di Augusta Oltrabella e di Magda Olivero, ancora suona, fa lezioni e ha recentemente accompagnato per un’«audizione» davanti alla grande Olivero, il soprano americano Renée Fleming, oggi ai vertici).
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Piccole e medie imprese a rischio con la stretta sul credito bancario RIPARTE DAL SUD L’ITALIA DI DOMANI I Circoli Liberal sono impegnati fino al 30 ottobre in tre eventi di straordinaria importanza per rimettere al centro il Sud attraverso iniziative diverse ma tenute insieme da un unico filo conduttore, che è quello del bene comune e della buona politica. Oggi a Lecce, l’iniziativa promossa dal Terzo Polo “Riparte il Sud, cresce l’Italia” mette a confronto uomini e idee, che generano “valore e valori”nella comunità politica, sociale e economica del Sud, inteso come locomotiva e non più vagone di un treno che troppe volte è già passato, avendo mete e destinazioni diverse da quelle del nostro Mezzogiorno. Per Liberal, Marisa Grasso, vedova Raciti, Coordinatrice dei Circoli Liberal di Catania, con la sua relazione dal titolo “Educare i giovani, costruire la pace”sarà la testimonial di un impegno concreto sul territorio contro la violenza, tornata di attualità dopo i recenti fatti di Roma. Mercoledì 26 alle ore 18 al Palazzo dei congressi dell’Eur i Circoli Liberal di Roma e Lazio saranno al fianco dell’onorevole Alessandro Onorato, giovane capogruppo dell’Udc al Comune di Roma e animatore dell’associazione Cambiare Davvero che promuove un incontro al quale parteciperà anche il nostro leader Pier Ferdinando Casini per sostenere e raccogliere tre firme per tre proposte concrete. No auto blu. No affittopoli/svendopoli. No casta in Parlamento. Domenica 30 ottobre alle ore 11 al Castello dei Principi Capano ad Acciaroli/Pollica (il comune del sindaco ucciso Angelo Vassallo) il nostro presidente Ferdinando Adornato, alla presenza di numerosi dirigenti e amministratori locali, concluderà i lavori di un importante incontro (alla sua prima edizione) di approfondimento socio-politicoculturale, istituito all’indomani della tragedia del “Sindaco pescatore”, dal tema: “Quale Politica? Dalla crisi ai valori per un Sud che cambia”. Quindi il Sud al centro, per tre eventi che vedranno la mobilitazione di tanti amici impegnati a vari livelli di governo e di responsabilità politica, istituzionale e amministrativa, ma anche di tanta gente comune che ama il nostro Paese, ama il Sud e non vuole che l’autunno caldo della politica italiana ancora una volta lasci sul campo il bene comune, la buona politica, l’unità del Paese e le grandi potenzialità di una parte di esso che può e vuole essere protagonista in positivo della rinascita italiana. Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L
Le banche mantengono la redditività, hanno ricevuto sostegno pubblico e, malgrado tutto, rischiano di mettere in crisi un milione di piccole e medie imprese italiane per la stretta che stanno attuando nella concessione e mantenimento del credito, con la drammatica certezza che nei prossimi mesi ci ritroveremo con un’ulteriore accelerazione di queste politiche restrittive. La situazione richiede un’urgente risposta da parte del governo. Il decreto sviluppo preveda un sostegno concreto alle Pmi anche attraverso il rafforzamento e il sostegno ai fondi di garanzia e l’ulteriore capitalizzazione del fondo di garanzia esistente presso il Medio credito centrale. Serve spostare gli “aiuti”pubblici dalle banche alle imprese. Non c’è più tempo per rinviare queste scelte, così come c’è bisogno di chiarezza sugli investimenti fatti e da fare da parte del Fondo d’investimenti italiano del ministero delle Finanze per capitalizzare le imprese italiane. Altra questione seria da affrontare con urgenza riguarda il ruolo, rispetto alle politiche di sviluppo, che dovrà esercitare la Cassa Depositi e Prestiti. Il risparmio postale che foraggia la Cassa, dovrà servire in buona parte a rilanciare quelle politiche d’investimento per migliaia di opere pubbliche essenziali di piccola e media dimensione che dovranno e potranno servire alla ripresa proprio delle piccole imprese.
Carmelo Finocchiaro, Federcontribuenti
ATTENZIONE AI FACILI ACCESSI AL CREDITO In alcuni Paesi del Nord Europa gruppi di cittadini si sono uniti per dar vita a banche e finanziarie cooperative e di solidarietà, che erogano prestiti ai soci con tassi inferiori rispetto a quelli praticati normalmente dalle banche. Iniziative simili sono sorte anche in Italia e i cittadini volonterosi possono attivarsi per realizzarle. Attenzione però perché è un dovere importante delle banche esercitare il cosiddetto “merito di credito”, cioè riservarsi la facoltà di rifiutare un prestito se giudica che il destinatario non abbia i mezzi per restituirlo. La crisi americana del 2008, quella legata ai mutui “subprime”, è dovuta proprio al fatto che le banche non hanno esercitato questo loro diritto, concedendo denaro anche a chi non aveva i mezzi per restituirlo e poi cedendo subito il loro credito a società terze. Risultato: circa il 20 per cento dei mutui subprime è andato insoluto e i beneficiari hanno perso tutto, anche la casa.
Giacomo Servelli
RIFLESSIONI BIPARTISAN SULL’ETICA POLITICA Caro direttore, sono tempi, quelli che corriamo, in cui è diventato inevitabile distin-
guere l’azione politica buona da quella cattiva, il che significa sottoporla ad un giudizio morale. Valga un esempio. Il dibattito sulla questione morale riguarda spesso, e in Italia prevalentemente, il tema della corruzione, in tutte le sue forme, previste del resto dal codice penale, sotto la rubrica di reati quali: interesse privato in atti d’ufficio, peculato, concussione eccetera, e specificatamente con riferimento quasi esclusivo a uomini di partito, il cosiddetto tema delle tangenti. Basta una breve riflessione per rendersi conto che ciò che rende moralmente illecita ogni forma di corruzione politica (tralasciando l’illecito giuridico) è la fondatissima presunzione che l’uomo politico che si lascia corrompere abbia anteposto l’interesse individuale all’interesse giuridico, il bene proprio al bene comune, e ciò facendo sia venuto meno al dovere di chi si dedica all’esercizio dell’attività politica, avendo compiuto una azione politicamente scorretta. Il discorso sarebbe finito qui se, in uno Stato di diritto, com’è quello della Repubblica italiana, oltre al giudizio sull’efficienza e a quello morale o di morale politica, non si desse – sull’azione politica – anche un giudizio più propriamente giuridico, vale a dire di conformità o meno
L’IMMAGINE
VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Il batterio che abbatterà lo smog ei ghiacciai dello Stelvio scoperto un microrganismo per combattere l’inquinamento. È questo l’esito di una ricerca che getta le basi per creare nuovi studi per il risanamento di ambienti inquinati e per saperne di più della diversità biologica negli ambienti estremi. A condurla il gruppo dell’Ortles-Cevedale dell’Istituto di Microbiologia della facoltà di Agraria dell’Università Cattolica di Piacenza, che per tre anni ha studiato la biodiversità microbiologica dei ghiacciai. Partendo dagli studi effettuati nelle basi scientifiche antartiche e artiche che negli ultimi anni hanno evidenziato popolazioni microbiche altamente adattate a questi ambienti estremi, i docenti della facoltà di Agraria Fabrizio Cappa e Pier Sandro Cocconcelli hanno progettato una serie di ricerche sulla biodiversità microbica nei ghiacciai alpini, paradossalmente ancora poco studiati dal punto di vista microbiologico rispetto ad altre aree più oggetto di analisi scientifiche. L’area scelta per l’attività di ricerca è stato il ghiacciaio del Madaccio, nel massiccio montuoso dell’Ortles-Cevedale, vicino a Passo Stelvio, dove in tre uscite realizzate sul campo sono stati prelevati campioni di ghiaccio.
N
alle norme fondamentali della Costituzione, cui è sottoposto l’esercizio dell’azione politica anche degli organi superiori dello Stato. Il giudizio sulla maggiore o minore conformità degli organi dello Stato, o di quella parte integrante del potere sovrano che sono i partiti, alle norme della Costituzione e ai principi dello Stato di diritto, può dar luogo al giudizio – che risuona così frequente nell’attuale dibattito politico – di scorrettezza costituzionale e di pratica antidemocratica, il che accade per fare qualche esempio, nel caso dell’abuso dei decreti legge, di appello al voto di fiducia unicamente per stroncare l’opposizione e, per quel che riguarda i partiti, nella pratica del sottogoverno, che viola uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto, la visibilità del potere e la controllabilità del suo esercizio. Anche se spesso la polemica politica non distingue i vari gradi di giudizio e li pone tutti e tre sotto l’etichetta della “questione morale”, i tre giudizi quello di efficienza, quello di legittimità e quello più propriamente morale, sul quale pongo l’accento in modo particolare, devono essere però tenuti distinti per ragioni di chiarezza analitica e di attribuzione di responsabilità.
Angelo Simonazzi
GLI INDIGNATI PER I TAGLI ALLA SICUREZZA
APPUNTAMENTI VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal
LE VERITÀ NASCOSTE
Vuoti a prendere Con queste migliaia di bottiglie di plastica si potrebbero illuminare altrettante case. Basta riempirle d’acqua mista a qualche cucchiaio di candeggina per trasformarle in potenziali lampade a energia solare. Ideate da una studentessa del Massachusetts Institute of Technology, le Solar Bottle Bulb stanno rischiarando le case delle favelas brasiliane e filippine, come farebbe una lampadina di 55 watt
Sembra che tutti (dal ministro Maroni al leader dell’Idv Di Pietro) facciano a gara per proporre provvedimenti “speciali”per i cortei a rischio come quello di sabato scorso a Roma.Tutti invocano sanzioni più dure, ma nessuno pensa alle forze dell’ordine e ai tagli alla sicurezza. Così, paradossalmente, fra gli “indignati” ci sono anche poliziotti, carabinieri e finanzieri che pensano che la prossima mossa del governo sarà quella di mandarli in piazza senza caschi. Servono soldi, e se non arriveranno il nostro Paese sarà meno sicuro e pronto a gestire le emergenze di ordine pubblico.
Lettera firmata
politica
pagina 24 • 22 ottobre 2010
Parla e agisce come un capopolo. Ma l’ex pm continua a essere strutturalmente lontano dal cuore profondo dei napoletani
Fenomenologia di de Magistris
Si è autocandidato a leader di un futuro partito degli indignados per entrare nelle istituzioni e “bonificarle”. Ma in Italia ce n’è davvero bisogno? Ecco l’identikit e i progetti del nuovo sindaco di Napoli di Errico Novi un destino? Sì, diciamolo: è un destino di Napoli. Il leader populista, la figura che riassume in sé le attese immutabili - perché mai evase - e che soprattutto solleva la comunità locale dall’impaccio dell’autogoverno. Perché Napoli non ha mai avuto voglia di governarsi. Storicamente almeno, nel senso che c’è un passato inesplorabile anche per gli storici, da questo punto di vista. Si può dire di certo che la Napoli dal Medioevo ad oggi è sempre stata una città di sudditi. Al limite satelliti di un impero lontano, cioè Bisanzio, nell’era altomedievale, quindi di dinastie europee in prevalenza spagnole, fino ai Borbone. In un quadro in cui la comunità locale mai ha espresso quella capacità di rappresentanza propria dell’Italia comunale. Da qui, dal dato storico, verrebbe quello antropologico. Maturato nei secoli. C’è però materia per sostenere che il processo sia inverso. E cioè che se tante dinastie hanno avuto l’opportunità di insediarsi e regnare a Napoli è proprio perché qui c’è una connaturata riluttanza ad autogovernarsi. Chi scrive propende per questa seconda scuola di pensiero. E nel farlo si affida a un ancora non sufficientemente esplorato filone storiografico e sociologico che forse ha il suo recente epigono in Domenico Rea: di fatto, una spiegazione verosimile potrebbe far risalire il rifiuto di occuparsi del bene pubblico alla precarietà dell’insediamento umano. Questa è una terra di vulcani, di bradisismo, di terremoti. È la terra di una natura infida, così generosa nella bellezza dei suoi scorci quanto capace di rivoltarsi. Quella natura silente per secoli può eruttare e distruggere. Cosicché una pur approssimativa induzione sociologica può portarci a credere che il fatalismo dei napoletani sia legato alla geografia. Appunto alla precarietà dell’insediamento umano. Natural-
È
mente chi diventa fatalista perché sa che il proprio esistere è continuamente minacciato e quindi più precario di quanto già sia la vita umana, tende a occuparsi poco del futuro. Cioè della costruzione civile, del bene pubblico. L’affidarsi a un risolutore, a un leader che vorrebbe esaurire in sé tutto il peso della struttura civile è conseguenza inevitabile di tale condizione. È il surrogato che viene a colmare il vuoto della repubblica, nell’accezione classica della parola.
De Magistris, si dirà, c’entra davvero con tutto questo? Diciamo che è esattamente il quesito a cui si vuole rispondere. Premesso che qui si sostiene l’ineluttabile e pato-
ranza. Di speranza, almeno, che faccia meno danni di altri. C’è una specifica ragione che dovrebbe suscitare l’auspicio di non vedere incarnata davvero in de Magistris la figura del leader populista. E la ragione è esposta qui di seguito. Napoli è in condizioni disperate. Il manifestarsi di tale rovina è così accentuato e ridondante da oscurare parte della realtà. Cioè la tragedia dei rifiuti per esempio è stata così visibile, così devastante, da aver imposto i suoi aspetti scenografici su quelli reali e più gravi. Si sottovaluta il livello di un inquinamento del ciclo dell’acqua strutturale e forse irreversibile, al punto che il triangolo Napoli-GiuglianoAversa è ormai da tempo l’area del
È stato eletto con il 65%, ma il risultato va calcolato un numero di votanti molto basso: in tutto 264.730, all’incirca un quarto della popolazione logica necessità per Napoli di un leader populista, resta da stabilire se de Magistris lo sia davvero. Se si iscrive cioè in una sequenza ben nota che va da Lauro a Bassolino. Anticipiamo la risposta: no, de Magistris non rientra in quel paradigma. Nonostante probabilmente lo desideri. E nonostante assuma alcuni atteggiamenti tipici del leader populista. Come l’autocandidatura a uomo forte di un futuro partito degli indignados. In un’intervista a Repubblica uscita due giorni fa, il sindaco di Napoli immagina il “movimento” che entra nelle istituzioni e le bonifica. Ma più che la vocazione del tribuno qui emerge il gusto per l’assemblearismo degli anni Settanta. Non a caso l’ex pm si è già inventato a Napoli le assise del popolo parallele al Consiglio comunale. Tardosessantottino insomma, ma non populista vero. (Ma non lo è). Il che da una parte induce a ridimensionare la figura. Dall’altra lascia aperto un piccolo lume di spe-
Paese a più alta concentrazione di tumori. A questo si aggiunga che la camorra costituisce l’unico efficiente modello industriale a Napoli e provincia. E che un numero sempre maggiore di napoletani civili, perbene, istruiti, fugge. Se resta, non fa figli, mentre la Napoli delle steppe suburbane pervase di camorra fino al midollo, prolifera, fa figli, si moltiplica secondo una progressione da fantahorror. Ecco, in un simile quadro resta poco a cui aggrapparsi. Poco in cui sperare. Un appiglio flebile, drammaticamente esile eppure da afferrare a tutti i costi è la Coppa America. Cioè il fatto che a Napoli siano state assegnate un paio di regate della grande manifestazione velica. Dovrebbero tenersi a Bagnoli. Cioè nello specchio di mare su cui s’affaccia l’unica vera spiaggia della città. E dove una presunta“illuminazione” dei primi del Novecento vide il sito ideale per un’industria siderurgica: l’Italsider. La vera e mai finora compiuta bonifi-
ca di Bagnoli e il suo recupero alla vocazione turistico-balneare è forse oggi la sola disperata occasione che Napoli ha per resuscitare.
E allora, per tornare all’oggi, cioè a de Magistris, bisogna chiedersi se un populista potrebbe mai fare per Bagnoli le cose che andrebbero fatte. Cioè verificare davvero lo stato di residui avvelenamenti della piana ex Italsider. Pretendere dal governo nazionale i fondi per liberare la spiaggia e la battigia dai metalli pesanti, rimuovere la vecchia colmata dell’Italsider (che interrompe la linea di costa), il pontile dove le navi venivano ad attraccare per scaricare l’acciaio. Fare tutte queste cose, approfittare della Coppa America per farne almeno una parte. E dopo le regate, previste per la primavera del 2013, completare quello che va completato. Aprire, prima, durante e dopo, alberghi, strutture ricreative. Fare insomma di Bagnoli una civile e sostenibile Copacabana. Può un populista essere così avveduto e capace di ascoltare i bisogni reali da realizzare una simile impresa? Probabilmente no. Ma appunto, de Magistris è solo un aspirante populista. Non un populista vero. E vediamo perché. Lauro, ma anche Valenzi e un po’ meno Bassolino hanno avuto la capacità di connettersi con il popolo. Che non vuol dire comprendere davvero i bisogni della città e rispondervi. Vuol dire piuttosto avere e coltivare un consenso ampio, esteso e radicato in tutte le fasce sociali, in tutti i quartieri. Nel caso di de Magistris non è così. Ha vinto con il 65 per cento, che però va calcolato su un numero di votanti molto basso, di mezzo punto appena superiore al 50 per cento. È stato eletto sindaco dunque da una minoranza di cittadini. In tutto 264.730, all’incirca un quarto della popolazione ufficiale. Numeri esigui se confrontati con quelli
politica
i che d crona
dei “movimenti”. Tanto è vero che nelle settimane scorse si era guadagnato una certa freddezza negli ambienti dell’antagonismo partenopeo. «È troppo sicuritario», era stato il commento di qualche giovane dei centri sociali interpellato durante i cortei. Ed è così: de Magistris è pur sempre un magistrato, ha subito istituito una Ztl per sorvegliare l’indisciplinato traffico partenopeo, ha provato persino a imporre un minimo di decoro nella sbrindellata macchina del Comune di Napoli. Come se non bastasse, domenica scorsa si è fatto notare a prendere un caffè con Gianfranco Fini, con il quale ha commentato i fatti di Roma. Sarà pure innamorato di Che Guevara ma il soprannome che la sinistra napoletana gli ha trovato più consono, manette a parte, è Gigino Napoleone.
del Bassolino al top del suo splendore mediatico, capace di viaggiare intorno a quota 400mila. In più de Magistris vede assottigliarsi il suo distacco al ballottaggio proprio nei quartieri popolari. Dove il 65 a 34 inflitto complessivamente a Lettieri si accorcia su uno score inferiore al 60 per il neosindaco e un po’ sopra il 40 per l’avversario. Periferie rosse a parte (Bagnoli e Barra-Ponticelli) i numeri forti dell’ex pm arrivano dai quartieri della borghesia, del ceto medio: soprattutto dal Vomero-Arenella, dove de Magistris viaggia sopra il 70 per cento. Non si tratta insomma di un capopopolo nella sua accezione prevalente. È uno che piace e fa il pieno di consensi in quella Napoli schierata a sinistra che c’è sempre stata a partire dagli anni Sessanta. A parte le amministrative del ’92, quando il “trio delle meraviglie” Pomicino-De Lorenzo-Di Donato realizzò la sua performance migliore e lasciò ai comunisti il 20 per cento, il Pci partenopeo ha oscillato tra i 25-27 e i 37 punti per lustri. Lui, de Magistris, attinge a piene mani in quella riserva mai estinta. Ma vi resta in fondo confinato. Ed è dunque un populista troppo minoritario per ricadere a pieno titolo nella categoria. Non a caso Gigino ’a manetta (così pron-
tamente soprannominato dal gergo impietoso della strada per le vie spicce seguite quand’era pm) cerca di uscire fuori dal suo recinto, almeno geograficamente, visto che non può farlo in termini propriamente politici. Approfondimenti e monografie già ne colgono la propensione a farsi leader nazionale. Due sabati fa è stato lui stesso ad annunciare il progetto ad una convention napoletana dell’Italia dei valori. Indiscrezioni già riferiscono di un brand, “L’Italia è tua”, mutuato dal nome del listone d’appoggio alle elezioni comunali (“Napoli è tua”). Ci sarebbe una prospettiva di rivendicazionismo
tamente legittimista. E con tutti gli sforzi, è difficile che il giustizialista sinistrorso de Magistris possa deragliare fino a questo punto. Però non è escluso che la proiezione sulla scena nazionale si realizzi paradossalmente meglio per lui di quanto non avvenne per Bassolino. Quest’ultimo fu ricacciato indietro nella riserva indiana del governo regionale dai vertici degli allora Ds. Lui, Gigino, fa i conti con una nomenclatura meno forte, meno competitiva.Tanto che alla suddetta convention lo stesso Antonio Di Pietro ha giocato in difesa e garantito che le ambizioni dell’amico-rivale sono quelle di tutta l’Ita-
Le sue apparizioni nella piazza anti-global sono timide.C’è,saluta,però si tiene preventivamente lontano dalle asprezze dei “movimenti” meridionalista. Anche questa tipica dei populisti del Golfo, si dirà. Lo stesso Bassolino tante volte si è autopromosso come leader di un Sud da riscattare. Ma è difficile riconnettersi con la tradizione più viscerale del nostalgismo sudista. Giacché questa è intrisa di revisionismo neoborbonico, riscoperta della Napoli terza capitale d’Europa. Ha cioè una vocazione schiet-
lia dei valori.Vista la scarsa vocazione popolare e populista, de Magistris sarebbe forse sì un attore di primo piano della politica romana, ma probabilmente riassimilato negli equilibri e redento da tentazioni sudamericane. A ben guardare anche le sue apparizioni nella piazza anti-global sono timide. C’è, saluta, però si tiene preventivamente lontano dalle asprezze
Un figlio della tipica borghesia intellettuale napoletana, in ultima analisi: ecco chi è de Magistris. Un ragazzo del “Pansini”, il liceo del Vomero, quartiere che più borghese non si potrebbe. Nutrito di letture terzomondiste e saldamente ancorato all’universo culturale tipico dei quaranta-cinquantenni di sinistra. Cantautori compresi. Ha scelto uno di questi, Roberto Vecchioni, quale presidente del Forum mondiale delle culture che si celebrerà a Napoli nel 2013. Altra tappa importante, ma non quanto la Coppa America, di un difficile percorso di recupero della città.Vecchioni ha cantato per de Magistris come per Pisapia, ed è soprattutto pure lui un ragazzo della Napoli collinare. «Un milanese del Vomero», si è subito autoproclamato. Con lui, il sindaco si sente a casa, al di là delle attitudini di un professore di Letteratura bravo a far canzoni nella difficile gestione di eventi internazionali. Si sente a casa, de Magistris, quando il sabato sera si concede poche decine di metri di passeggiata per raggiungere la pizzeria Gorizia di via Cilea, in compagnia dei vecchi amici. Non come certi grossi commercianti che incarnano il clichè del napoletano champagnone e se ne vanno per circoli nautici, abbronzati e vestiti alla caprese, e se proprio devono finire in pizzeria preferiscono la saletta riservata dello scintillante Ciro a Mergellina. È insomma troppo confinato, de Magistris, nel suo orizzonte di sinistra borghese, per essere un populista. Dialoga con Fini e persino con il socialista berlusconiano che governa la Regione Campania, Stefano Caldoro: sono soprattutto le prudenti strategie di quest’ultimo a orientare il sindaco sul destino di Bagnoli. Il che pare un’ottima cosa. Forse il solo cedimento schiettamente populista di de Magistris si compie alle partite del Napoli, occasioni in cui il sindaco si accomoda da settimane ormai di fianco al presidente de Laurentiis. Lui sì tribuno guascone e incendiario. Tanto da far apparire il sindaco per quello è, un corrucciato ragazzo di sinistra del Vomero.
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pagina 26 • 22 ottobre 2011
la fine del Colonnello
Parlano Dino Cofrancesco e Giacomo Marramao sulla legittimità dell’esecuzione sommaria del dittatore di Tripoli
Le domande su Gheddafi
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È giusto uccidere un tiranno? Il caso del raìs riapre un’antica discussione
Dopo Saddam il colonnello. Ma a cosa servono i tribunali internazionali?
di Riccardo Paradisi i può uccidere così un tiD’accordo, ranno? Gheddafi è stato un satrapo sanguinario, uno spietato dittatore, regista e mandante di orrendi attentati terroristici, ma la sua esecuzione sommaria, il vilipendio e l’esibizione del suo cadavere non sono forse mezzi che esprimono la stessa mentalità del colonnello libico, i mezzi usati per un lungo quarantennio di potere assoluto?
S
Seconda domanda: il mandato internazionale per l’intervento in Libia prevedeva la consegna di Gheddafi a un tribunale internazionale. Non è andata così. La “crociata democratica” in nord-Africa non si è conclusa con un processo al dittatore e il regolamento di conti che si preannuncia in larga scala in Libia, malgrado gli appelli un po’ pelosi alla conciliazione e alla pacificazione di Nicholas Sarkozy, non promette niente di civile. Si certo, sono stati i militi del Cnt a premere il grilletto ma la sostanza
delle cose cambia poco. E poi non ci si dovrebbe prendere troppo in giro. Senza il pesante aiuto delle aviazioni europee, senza le bombe francesi e inglesi, Gheddafi sarebbe ancora in sella. E vivo. Insomma si è obbligati a ragionare nel merito di contraddizioni ulceranti per noi occidentali esportatori di democrazia. Un obbligo che rende l’Occidente quello che è, un mondo ancora e malgrado tutto libero dove la laica consapevolezza di non avere la verità assoluta dovrebbe essere una seconda natura. Del resto non basta per sedare le coscienza che l’ufficio dell’Alto Rappresentante Onu per i Diritti Umani abbia chiesto l’apertura di un’indagine sulla morte dell’ex leader libico Muammar Gheddafi. E tanto meno è sufficiente la commissione d’inchiesta internazionale – di cui fanno parte la giordana Asma Khader, il canadese Philippe Kirsch e il giurista egiziano Sherif Bassiouni – che sta indagando sulle violenze commesse durante i
mesi del conflitto in Libia. Restano infatti i misteri, le complicità le omissioni e le omertà di tuti gli attori coinvolti in questa vicenda: a cominciare proprio da quelli europei.
L’Italia, senza dubbio – passata da un trattato d’amicizia a un’azione di guerra non dichiarata – ma anche la Francia e soprattutto la Gran Bretagna. Gheddafi, che dovrebbe essere sepolto nelle prossime ore in un luogo segreto, si porta nella tomba verità tanto imbarazzanti per tutti da essere desti-
li» E aggiunge: «Un processo equo e non vendicativo di fronte alla Corte penale internazionale sarebbe stato non solo uno strumento di conoscenza, ma anche un passo importante verso la costruzione della nuova Libia, ma sarebbe stato scomodo per tutti i Paesi implicati nei segreti di Gheddafi». Un’eredità scomoda quella di Gheddafi anche dal punto di vista della situazione politica in Libia. Insomma sarebbe bello domani salutare la democrazia a Tripoli ma intanto si registra il giubilo dei fratelli musul-
Può nascere una democrazia dalla fonte battesimale del brutale regolamento di conti come è avvenuto in Libia? L’Occidente in bilico tra forza e diritto, tra filosofia della libertà e realismo politico nate a rimanere nascoste. Ha ragione Emma Bonino a dire che questa morte fa comodo a molti: «Con Gheddafi verranno sepolti segreti che vedevano implicate le potenze occidenta-
mani, organizzazione attiva soprattutto nella zona confinante con l’Egitto. La realtà, come dice il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica è che «Una nuova democrazia
non può nascere in questo modo barbaro». Di più: il dato che la fase della liberazione da quel regime e il passaggio a un altro avvenga attraverso una resa di conti violentissima e non regolata è qualcosa che rompe lo schema con cui l’occidente veste le sue operazioni.
E se questo schema questa ideologia viene continuamente negata dalla realtà il rischio – sostiene il filosofo della politica Giacomo Marramao – è che si riduca a un’ipocrisia palese. «Noi abbiamo sviluppato in Occidente un catalogo di valori per il quale anche il più efferato degli assassini ha diritto a un giusto processo mentre questi momenti di liberazione, queste irruzioni liberatorie, si concludono ormai quasi sempre in una resa di conti sanguinosa con il dittatore. Non so se ci si rende conto che questo rischia di generare una ritribalizzazione, in alcune zone del mondo, delle relazioni internazionali». La motivazione di coloro che ritenevano inutile o
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peggio pericoloso un processo a Gheddafi segue una logica molto machiavellica che però non cela, dice Marramao, ma ribadisce, la verità che ci sono dei segreti inconfessabili. «È anche comprensibile la rabbia repressa d’una lunga dittatura. Una guerra civile non è mai una cena di gala . Però anche un moto di ribellione organizzato dovrebbe garantire la cattura del dittatore e poi un processo. Ho sempre sostenuto – continua Marramao chiamando a paragone la caduta del fascismo italiano - che anche per Mussolini era necessario un processo e che la sua esecuzione sommaria fu un errore. Occorre avere uno sguardo lucido su queste cose anche per dare una svolta al sistema delle relazioni internazionali e delle democrazia».
Certo anche il processo internazionale ha le sue ambiguità. È quello che Carl Schmitt ha chiamato il paradigma di Norimberga. La storia e le sentenze scritte dai vincitori. Ma, lascia capire Marramao, meglio questo che il regolamento di conti senza regole. Il fatto è che la globalizzazione innescata dall’Occidente sembra aver sortito un’eterogenesi dei fini: «Più che esportare democrazia abbiamo importato barbarie. Quello che io temo in questo mondo globalizzato è una normalizzazione dell’uso della violenza per il regolamento». Eppure la politica e in particolar modo la politica internazionale è la somma più o meno equilibrata di rapporti di forza. Il dilemma e il dovere dell’Occidente è proprio quello di dover conciliare forza e diritto, libertà e ordine. «L’Occidente deve avere coscienza che molte sue acquisizioni sono straordinarie. Ma che esse, come ha insegnato la storia, non sono mai definitivamente acquisite alla sua coscienza. Deve anche avere la consapevolezza che non è solo al mondo e che ha che fare con contesti culturali differenti e aggressivi. Se vuole mantenere un primato culturale quando proclama principi fondamentali deve essere il primo a ri-
Parigi e Londra in festa, Mosca vuole chiarimenti
L’Onu: «Un’inchiesta sulla sua morte» ll’indomani della morte di Muammar Gheddafi, fanno ancora discutere le immagini e i video che lo immortalano poco prima e poco dopo la sua uccisione. E ora l’Onu chiede che venga aperta un’inchiesta sulla vicenda «dal momento che ci sono quattro-cinque versioni diverse» sulla dinamica dell’uccisione dell’ex ra’s, ha detto il portavoce dell’alto commissario, Rupert Colville. Chiarimenti e maggiori dettagli che l’Onu, che ha già avviato una commissione di inchiesta sulla Libia, ritiene necessari per stabilire se il colonnello È stato ucciso «durante una forma o l’altra di scontri o se è stato giustiziato dopo la sua cattura», ha detto ancora il portavoce. Le riprese fatte «con cellulari quando era ancora vivo e dopo la morte sono inquietanti», ha aggiunto Colville. Secondo il medico legale, Gheddafi è morto per un colpo d’arma da fuoco. Come si vede anche dai numerosi video consegnati alla stampa, «Gheddafi è stato arrestato da vivo, ma è stato ucciso più tardi», ha detto ad Al Arabiya il medico. Un proiettile «ha penetrato i suoi intestini - ha spiegato il medico legale - poi c’è stato un altro proiettile nella testa, che è entrato e uscito». Il quintogenito del rais, Mutassim, invece è morto dopo il padre, dice ancora il medico. Il cadavere dell’ex dittatore libico, che ora si trova a Misurata, sarà comunque inumato tra qualche giorno, anche se c’è ancora grande riserbo sul luogo di sepoltura che probabilmente sarà Sirte o Misurata. Nel frattempo, anche l’altro figlio di Gheddafi, Saif alIslam, è stato catturato dai ribelli libici a sud di Zliten.
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L’uomo stava fuggendo probabilmente verso il sud del Paese per raggiungere il Niger. Sull’esecuzione del Colonnello, comunque, le cancellerie mondiali si sono divise. E se per Berlusconi “sic transit gloria mundi”, diversa è la posizione di Mosca. «Le circostanze della morte di Gheddafi pongono un’imponente mole di interrogativi», ha detto il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov. «Ci interessa inoltre conoscere quali sono state le azioni della Nato dal punto di vista della legge internazionale». La Francia, invece, sceglie la linea dura: «Gheddafi ha rifiutato le buone condizioni che i combattenti libici gli avevano presentato per la sua resa». Lo ha detto il ministro degli esteri francese, Alain Juppé. «Spettava al popolo libico arrestarlo e portarlo davanti alla giustizia. Gli eventi sono andati diversamente - ha aggiunto il ministro durante la sua visita ufficiale in India - Gheddafi ha avuto un atteggiamento molto aggressivo. Aveva ricevuto buone condizioni per arrendersi e le ha rifiutate». Secondo il ministro Frattini, «un processo sarebbe stato un momento ancora più alto per rendere giustizia al popolo libico». Per il titolare della Farnesina, «rimane l’amarezza di non aver potuto vedere lui e i suoi figli alla sbarra. Con un processo si sarebbe data l’impressione che la pagina della nuova Libia iniziasse secondo lo stato di diritto». Gli inglesi, che persero 270 civili in un bombardamento aereo ad opera del Colonnello, sono meno teneri. Tutti i giornali aprono con la foto del volto devastato e il titolo “Questo è per Lockerbie”
spettarli». Non si può tenere insieme la Statua della libertà e Guantanamo. «Lo stato di eccezione può essere dichiarato – ammette Marramao - ma non in modo intermittente e arbitrario: per alcuni soggetti e non per altri. La democrazia ha bisogno di una classe dirigente e un ceto politico che sia in grado di oeprare con il massimo grando di esperienza, di realismo e di trasparenza». Dino Cofrancesco, storico delle dottrine politiche, ai tribunali internazionali invece non ci crede. E dice che si, un tiranno si può anche ammazzare in questo modo. «Critico l’idea che il tiranno vada deferito a un tribunale internazionale. Perché la maniera di sbarazzarsi del tiranno è una decisione politica, non giuridica. La giuridicizzazione della politica porta al fatto che un dittatore come Gheddafi debba essere deferito a una corte internazionale. È un punto di vista molto discutibile anche dall’ottica liberale. Perché il fondamento del liberalismo è proprio la divisione tra politica e diritto. Quando si è in guerra la decisione di attaccare e non attaccare deve essere affidata alla giurisdizionalità del comandante delle forze in campo che poi, davanti alla storia si assumerà le sue responsabilità. Il diritto vale all’Interno della comunità politica». Anche Cofrancesco richiama il paragone con Mussolini, ma a differenza di Marramao ritiene che «La decisione di eliminarlo è stata giusta. Portarlo davanti a un tribunale avrebbe significato offrirgli una tri-
buna da cui mettere in profondo imbarazzo i suoi nemici, tirando fuori magari gli appoggi inglesi, il carteggio con Churchill». L’eliminazione fisica invece consente un’era nuova. «La giustezza dell’abbattimento della tirannide con mezzi spicci avrà poi la sua controprova d’efficacia e dunque di giustezza se dopo si ricostruisce una comunità civile».
Ed è la controprorva che s’attende in Libia. Nei confronti della quale Cofrancesco è però molto pessimista. «Questo intervento è stato sbagliato e dissennato. Ma una volta cominciato andava finito. E questa era l’unica maniera possibile. A cosa sarebbe servito un Gheddafi che dalla sbarra d’un tribunale avrebbe ancora di più screditato i regimi democratici occidentali rivelando rapporti ultradecennali di complicità, concessioni sottobanco e trattative? Del resto non dobbiamo impararle da lui queste verità». Un ragionamento ultrarealista. Non a caso Cofrancesco vede in Machiavelli un padre del liberalismo. «Non perché fosse un liberale ma perché è lui ad avere distinto la politica dalla morale. Con Machiavelli non si può fare più la guerra in nome della morale. Bobbio, che è stato un mio maestro, ha scritto delle pagine bellissime sul processo di Norimberga. Ma con quelle pagine oggi io non sono d’accordo. Bobbio indicava in Norimberga il momento etico dell’azionismo. La realtà è che il diritto era solo quello dei vincitori non quello del generale tedesco che era sottoposto a processo. Se davanti a un processo quello che viene messo sotto accusa non riconosce il diritto di chi lo accusa allora si esce dal diritto e si entra nella prosecuzione della guerra con mezzi impropri e mascherati. È più onesto allora procedere con azioni di guerra». Anche da un punto di vista liberale insomma un tiranno può essere ammazzato alla fine di una guerra civile. Il dilemma resta. E forse non è risolvibile. Ma guai a non porselo.
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la fine del Colonnello
Parla il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica: «Si apriranno enormi conflitti per la nuova gestione delle risorse naturali»
Le domande oltre Gheddafi
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Quale può essere adesso il futuro della Libia, democratico o islamico? Le incertezze italiane penalizzeranno la nostra economia?
di Pierre Chiartano inale tragico per il rais di Tripoli. Con titoli di coda che raccontano quanto la fine del colonnello tra la gente della sua tribù a Sirte, abbia il marchio della cattiva coscienza di alcuni interessi europei. Non c’è da gioire per una morte senza giustizia. In tante cancellerie occidentali tireranno un sospiro di sollievo, con il colonnello morto, muoiono anche certe scomode verità. Ma si aprono anche gli scenari del dopoGheddafi di cui, in verità, si parla da mesi. I due punti cruciali sono, come il governo di transizione, prima e quello eletto poi, sapranno gestire l’equilibrio interno tra le numerose fazioni e quello esterno tra i tanti interessi. E poi c’è il conflitto «feroce» per la gestione delle risorse libiche che non sarà meno duro di quello combattuto con le armi. E che vedrà sicuramente l’Italia dover difendere rendite di privilegio da posizioni decisamente svantaggiate. Il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) ri-
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spetto agli accordi economici con l’Italia ha sempre rimandato la decisione al governo che verrà eletto “democraticamente”. I numeri – prima della rivolta – ci dicono che la Libia è il quinto fornitore dell’Italia, con il 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore, con circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro. La Libia risulta essere il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia. Il nostro è il terzo Paese investitore tra quelli europei (escludendo il petrolio) e il quinto a livello mondiale. L’importanza del mercato libico è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese italiane.
L’Eni è il primo operatore internazionale nell’estrazione del petrolio e del gas. Ci sono sempre stati tra gli esponenti libici del Cnt e i vertici dell’Eni
sentimenti di reciproca amicizia, ribaditi a parole. Staremo a vedere cosa deciderà il nuovo governo di Tripoli, quando ci sarà. Il gruppo guidato da Scaroni paga al governo di Tripoli anche una tassa del 4 per cento sugli utili, imposta alle compagnie petrolifere.
Un onere che per il Cane a sei zampe, che è in Libia dai tempi di Mattei – e ha una presenza assicurata fino al 2045 grazie al rinnovo delle concessioni – ammonta a 280 milioni di euro l’anno. Insomma, in ballo
segretario agli Esteri Alfredo Mantica, spesso coinvolto in missioni in Libia e buon conoscitore della realtà nordafricana. «Per gli interessi italiani esistono dei contratti internazionali», ma il Cnt ha sempre affermato che a decidere sarà il nuovo governo eletto. «Esiste anche una realtà, come il gasdotto che arriva in Sicilia, che è proprietà dell’Eni. Il gas passa da lì.Tutti hanno bisogno di soldi, anche il Cnt. Appena arriva il petrolio e il gas si pagano le royalty e chiunque lo faccia, all’interno di re-
«Viste le potenzialità energetiche della Libia, lo scontro sarà economicamente feroce. Si tratta d’interessi giganteschi. L’Italia è stata privilegiata perché geograficamente e storicamente vicina» ci sono tanti quattrini. Ci siamo fatti aiutare nell’analisi sul futuro della Libia e sul futuro degli interessi italiani in quel Paese, da un autorevole esponente della Farnesina, il sotto-
gole stabilite, è il benvenuto. Non credo che verranno toccati grandi interessi. È vero che si apriranno degli enormi conflitti per la nuova gestione delle risorse naturali. Vedremo
come il sistema Italia saprà difendere i propri. Parliamo di grandi contratti per infrastrutture e forniture che nel 2008 davamo per scontati». L’Italia dunque uscirà dal privilegio per entrare nel “libero mercato”.Certamente chi è stato nella cabina di regia della ”rivolta” – l’Eliseo – prima o poi presenterà il conto. Morto il dittatore l’agenda libica per diventare un Paese ”normale” sarà veloce quanto complicata. E non dobbiamo farci troppe illusioni sulla nuova democrazia, del resto anche l’Europa ha impiegato oltre mezzo secolo e due conflitti sanguinosi prima di far trionfare un modello che oggi è la cartina di tornasole per giudicare le altrui esperienze.
«Dovrà essere mantenuto l’impegno preso dal leader del Cnt: la nascita entro 30 giorni di un governo di transizione unitario, che rispetti le varie componenti del mondo libico che dal 17 febbraio ad oggi si sono manifestate. Parliamo
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della gente di Bengasi, di Misurata, dei berberi e dei tripolini, come degli stessi lealisti, coloro i quali, fino in fondo, sono rimasti con Gheddafi. Se il colonnello fino a ieri ha resistito a Sirte, vuol dire che godeva del consenso e dell’appoggio di una parte della popolazione. Almeno di quella di Sirte». Il segretario generale della Nato avvertiva su eventuali colpi di coda dei lealisti rimasti senza leader. «È chiaro che in questo momento servirebbe capire come si sono organizzati. Dove siano rifugiati, se in Algeria, in Tunisia e in altre zone. Credo che se nascerà un governo forte e inclusivo, capace di mediare tra le diverse componenti e aspettative, l’opposizione dei lealisti si spegnerà immediatamente. Se invece qualcuno pensa di creare un sistema dove gli interessi di alcuni prevalogono su quelli degli altri, chi si sentirà marginalizzato avrà un motivo per continuare la lotta. Il problema si risolverà solo con la politica. Altrimenti potremmo trovarci di fronte a una guerra civile oppure al l terrorismo. Dobbiamo lavorare, affinché in Libia nasca il governo di transizione che poi possa portare la Libia verso istituzioni “democratiche”, quanto meno più democratiche di quelle dell’era gheddafiana». La stampa ha ridotto i problemi interni al Cnt al modello, ormai consolidato, del conflitto tra “secolaristi” e “islamisti”, ma è intuibile che sia una semplificazione eccessiva.
«In effetti è una semplificazione. La storia conta, che l’area cirenaica e quella di Tripoli siano in conflitto dai tempi dell’impero Ottomano è un dato di fatto. Frizioni che forse vengono da ancora più lontano nel tempo. Cirene era una città greca e Tripoli era romana. Sono dunque due realtà differenti strutturalmente, socialmente ed economicamente. In Cirenaica c’era la confraternita dei senussi che aveva dato il re alla Libia. Ma prima ancora il grande combattente per la libertà libica contro gli italiani: Omar al Mukhtar. In Cirenaica sono più legati ai valori tradizionali anche dell’Islam. È accertato che ci sia una maggior presenza di cellule di al Qaeda rispetto ad altre zone. Può darsi anche che Bengasi sia più influenzata dall’estremismo». Ricordiamo che la presenza islamica nelle forze armate del Cnt è forte e c’è anche una componente di salafiti. Una presenza monoritaria, ma attiva. «I giochi sono complicati. Il comandante militare a Tripoli è noto come un ex combattente afghano, come afferma di essere. È stato messo in quel ruolo non certo da un’organizzazione terroristica, ma da altri at-
Manifestanti in festa a Sirte e in tutte le città della Libia per la conferma della morte del dittatore, Muammar Gheddafi. Ieri è stato preso anche il figlio prediletto, Saif. In basso il Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che ieri ha guidato il Patto atlantico in una riunione sulla guerra
Preso anche Saif, il figlio prediletto del Colonnello
La Nato resta in guerra: «Ora proteggiamo i civili» a chiusura delle operazioni militari in Libia sarà con tutta probabilità graduale. L’Alleanza dovrà verificare se vi siano le condizioni di sicurezza per i civili e se le nuove autorità libiche siano in grado di mantenere il controllo e la pace nel Paese. Le posizioni degli Stati membri non sono ancora unanimi. La Francia, che nella missione ha avuto un ruolo preponderante, ha già fatto sapere di ritenere la missione «finita». «Penso che possiamo dire che l’operazione militare della Nato è conclusa - ha commentato il ministro degli esteri transalpino, Alain Juppé - e che l’insieme del territorio libico è sotto il controllo del Cnt». Anche il governo italiano sembra essere su questa linea e già nei minuti immediatamente successivi alla cattura di Gheddafi sia il premier Berlusconi sia il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, parlavano di una fine della guerra sempre più vicina. La Gran Bretagna mette però le mani avanti spiegando, attraverso il segretario alla Difesa, Philip Hammond, che l’Alleanza porrà un termine alle operazioni in Libia appena i civili saranno al sicuro. La questione è però anche di tipo politico-diplomatico. Parigi ha infatti già messo le mani avanti facendo sapere che la Francia «avrà un ruolo da partner principale con la Libia, in un Paese in cui i dirigenti sanno che ci devono molto». Anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussenn, ha detto giovedì pomeriggio che il momento di dichiarare concluse le operazione «è molto più vicino. Concluderemo la missione coordinandoci con l’Onu e il Cnt». E sulla stessa linea si è espresso anche il presidente americano Barack Obama. «Tutto lascia immaginare che l’operazione non durerà ancora per molto», hanno confermato fonti diplomatiche a Bruxelles. Certo, osservano le stesse fonti, la morte del Colonnello non era l’obiettivo della missione, avviata in base alle risoluzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu per proteggere la popolazione civile. Ma in ogni caso «dovrebbe essere al massimo una questione di giorni. La decisione sullo stop alle azioni dovrà comunque essere presa dal Consiglio Atlantico». L’operazione della Nato in Libia aveva preso il via il 31 marzo scorso. Fino ad oggi gli aerei delle forze dell’Alleanza hanno compiuto oltre 26 mila missioni, di cui 9.618 considerate d’attacco, cioè contro obiettivi specifici. Il 21 settembre scorso la durata della missione era stata prolungata di tre mesi. Parigi spinge per andare via, mentre Londra prova una posizione diversa: «Rimaniamo, a protezione dei civili. Qui si lanciano rastrellamenti».
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tori comparsi sulla scena. C’è poi un momento di riflessioni sui berberi, da sempre una minoranza all’interno del mondo arabo. La storia dell’Algeria è costellata dalla lotta tra arabi e berberi. Che Misurata si senta la città martire e rivendichi una leadership è vero. Poi ci sono le tribù del deserto che definiamo genericamente tuareg, perché è un nome rappresentativo, che sono ancora un’altra realtà. Il Qatar ha giocato un ruolo importante, ma non so se dobbiamo inserirlo nella lista degli sponsor del radicalismo musulmano». Ricordiamo che la rete satellitare qatarina al Jazeera ha giocato un ruolo non secondario, nei primi giorni della rivolta, nel veicolare una narrativa della realtà quanto meno “imprecisa” e funzionale agli interessi di Parigi.
«Il Qatar forse ha sostituito l’Arabia Saudita impegnata altrove. Nel mondo arabo c’è la debolezza egiziana e l’attenzione particolare dell’Algeria. Partite complesse che non si possono ridurre allo scontro tra moderati e fondamentalisti. Il momento cruciale per una vera valutazione sarà
quando si parlerà della nuova costituzione. Lì si vedrà la distinzione tra Islam moderato e radicale. Se ci sarà ”anche” o ”solo” la sharia». Dopo l’apertura alla cultura democratica fatta dal premier turco Tayyip Erdogan, nel suo recente viaggio al Cairo, sui vantaggi di una costituzione laica rispetto alle aspettative dell’Islam e con gli interessi che Ankara ha in Libia, diventa difficile per Parigi o Londra dare le carte al tavolo di Tripoli senza tenere conto del nuovo protagonismo turco in tutta la regione. Parliamo di 15 miliardi di dollari di investimenti e di oltre 50mila turchi che lavoravano in Libia prima della rivolta. «C’erano anche 38mila cinesi in Libia. Tanto per non dimenticare nessuno. Comunque che la Turchia, oggi, nel Mediterraneo centrorientale sia il protagonista più vivace e attivo è un dato certo. È attiva in Siria come in Iraq e ultimamente anche in Somalia. Ankara oggi guarda non solo alla realtà araba, ma a quella islamica più in generale. La Turchia esercita un forte peso politico ed economico. Anche i Fratelli musulmani non sono tutti radicali, alcuni hanno anche capito che l’Islam forse si difende meglio all’interno di una democrazia, tipo quella turca».
Fratelli musulmani che assomigliano sempre di più a una democrazia cristiana col Corano in tasca. Ora occorre vedere se gli interessi di Parigi, estremamente “attiva”nella vicenda libica, tanto da utilizzare forze speciali sul terreno, e quelli di Ankara non entreranno in conflitto. «Viste le potenzialità energetiche della Libia, credo che lo scontro sarà economicamente feroce. Si tratta d’interessi giganteschi. L’Italia è stata privilegiata non per Gheddafi, ma perché siamo geograficamente i più vicini e siamo lì da molto tempo. Non escludo neanche che forti interessi cinesi e russi possano influenzare la situazione. Senza dimenticare il Qatar e il confronto tra sciiti e sunniti che giocherà un ruolo anche in Libia. Con la Francia evito il derby, faccio solo una battuta, anche cattiva. Se Sarkozy avesse avuto dei sondaggi migliori, all’epoca in cui è scoppiata la rivolta, avrebbe agito alla stessa maniera? Guardando a una Libia unitaria, il grido di “Vittoria” di Cameron e Sarkozy sembra una stonatura. Se vogliamo un Paese stabile, dobbiamo affermare che non ha vinto nessuno. Ora dobbiamo aspettare i 30 giorni promessi dal Cnt per avere il governo di transizione. Poi vedremo».
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il personaggio della settimana La numerosa prole è frutto anche di precedenti matrimoni. Che certa Francia gossippara ha sempre seguito
La mossa delle Marianne A fianco alla corsa all’Eliseo tra Sarkò e Hollande, c’è quella in rosa delle rispettive first lady, Carla e Valérie, che si combatte a suon di figli. La coppia presidenziale, con l’arrivo della neonata Giulia, ne vanta 5 in tutto. Gli sfidanti ben 7 di Enrico Singer inalmente è arrivata anche la piccola Giulia, con l’atteso, inevitabile, movimento di simpatia per il Presidente neo-papà e per la neo-mamma Carla Bruni. Ma se la corsa all’Eliseo si dovesse decidere soltanto a colpi di figli, la vittoria sarebbe comunque saldamente in mano alla coppia che ha lanciato la sfida a Nicolas Sarkozy e alla sua première dame. Con un punteggio tondo, per di più: sette a cinque. Sì, perché François Hollande, candidato socialista alle presidenziali della prossima primavera, ha quattro figli avuti con la sua ex (e anche ex candidata socialista del 2007) Ségolène Royal, e la sua attuale compagna, la giornalista Valérie Trierweiler, ne ha altri tre dal suo precedente marito, giornalista anche lui e segretario di redazione di Paris Match, il settimanale dove, 22 anni fa,Valérie cominciò a lavorare. A dire il vero, anche Sarkozy ormai ha raggiunto quota quattro: oltre a Giulia, ha avuto due figli dalla prima moglie (uno, Jean, lo ha già reso nonno) e un altro dalla seconda.
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Novanta, la cantante, la donna impegnata nel sociale e ora la moglie del Presidente e la mamma felice di Giulia, i francesi sanno - o credono di sapere già tutto, il personaggio da scoprire è proprio Valérie Trierweiler. Certo, milioni di persone la conoscono in Francia perché la vedono in tv: conduce un programma politico sul canale Direct 8 oltre a scrivere, sempre di politica, su Paris Match. Ma pochi sanno chi è davvero questa bella signora dagli occhi azzurri e dai lunghi capelli castani che tiene il video con presenza sicura. Philippe Labro, che è un suo grande amico e che ne ha guidato i primi passi a Direct 8, dice che in lei «c’è del cristallo che può brillare, ma che si può anche rompere». Una donna forte che definisce la sua storia d’amore con François Hollande «la cosa più bella del mondo», ma che ha passato un anno d’inferno tra continui ripensamenti quando, nel 2006, il rapporto era costretto alla clandestinità
Ma Carla, dalla sua precedente unio-
Sopra, un’immagine di Carla Bruni. A destra, Bernadette Chirac. Nella pagina a fianco, uno scatto dell’Eliseo e una foto della compagna di François Hollande, la giornalista Valérie Trierweiler
ne con il professore di filosofia Raphaël Enthoven, ha avuto, nel 2001, un solo figlio, Aurélien. Così il bilancio è, appunto, di 7 a 5. Nell’Europa della crescita zero - in fatto di natalità oltre che di Pil - bisogna ammettere che le due coppie che si contendono la presidenza della Repubblica francese rappresentano una bella eccezione e provano che molta acqua è passata sotto i ponti della Senna. Sono davvero lontani i tempi della schiva Yvonne de Gaulle, sempre un passo indietro rispetto al generale, della filantropa Claude Pompidou, grande appassionata d’arte, o di Anne-Aymone Giscard d’Estaing, unica moglie di un Presidente a partecipare agli auguri di fine anno in tv, per non parlare della combattiva Danielle Mitterrand o della borghese Bernadette Chirac. Le first lady francesi di oggi e, forse, di domani, somigliano più a personaggi usciti da un serial televisivo ricco di intrecci e retroscena in stile Desperate Housewives che dall’iconografia classica della Marianna. E cominciano a solleticare l’attrazione per il gossip anche in un’opinione pubblica come quella francese che è tradizionalmente abituata a non occuparsi degli affari privati - e, soprattutto, di cuore e di letto dei suoi politici. Se di Carla Bruni, l’italienne, la modella più pagata degli anni
Il socialista ha avuto dalla Royal 4 pargoli mentre la sua attuale compagna, la Trierweiler, altri 3 dall’ex marito
perché lei era sposata, lui viveva ancora con Ségolène e c’erano i figli di mezzo. I due si erano conosciuti molti anni prima. Per lavoro. Valérie aveva 23 anni (è nata il 16 febbraio del 1965 a Angers, nella Loira) quando nel 1988, giovane giornalista parlamentare, incontrò per la prima volta Hollande che era stato appena eletto all’Assemblea nazionale, ma era già tra i consiglieri dell’allora presidente socialista François Mitterrand. Hollande era molto disponibile con i giornalisti - è stato anche portavoce del Ps - e dava del tu a quelli che gli davano del tu e del voi a quelli che gli si rivolgevano con il voi. «Io gli ho dato del voi fino all’ultimo minuto», racconta Valérie. Ma, col tempo, la frequentazione professionale - era lei a occuparsi del partito socialista per Paris Match - si è trasformata in una lunga amicizia che, un giorno, è diventata complicità sentimentale. E ha provocato l’addio tra Ségolène Royal e François Hollande.
Quando la più famosa coppia della sinistra francese andò in pezzi molti azzardarono delle dietrologie politiche legate al presunto rancore di François per la designazione di Ségolène - con la quale non era sposato, ma legato da un Pacs - a sfidante di Nicolas Sarkozy.Tra la sconfitta della Royal alle presidenziali, in maggio, e le elezioni legislative del giugno successivo che assicurarono al nuovo Presidente anche la maggioranza assoluta in Parlamento, maturò la rottura definitiva e la stessa Ségolène chiarì che la politica non c’entrava niente e che il motivo della fine della loro lunga unione era un «caso di bigamia insopportabile». Vista dall’altra parte, quella parola “fine”messa anche nero su bianco con un comunicato ufficiale «ho chiesto a François di lasciare il tetto coniugale» - è stata una liberazione, l’inizio di un amore alla luce del sole, di una nuova vita in un bell’appartamento moderno del 15° arrondissement, vicino al parco André Citroën. Anche Valérie si è separata dal marito - Denis Trierweiler, del quale ha mantenuto il cognome che aveva sposato sedici anni fa dopo un primo, breve, matrimonio con un altro uomo dal quale non aveva avuto figli. Chi la conosce bene racconta che nei primi tempi della sua nuova unione ci sono stati anche problemi: pressioni esterne, a quanto pare, da parte di Ségolène Royal sulla direzione di Paris Match per farla mettere da parte. Una specie di vendetta. Con tanto di voci fatte circolare ad arte per dipingerla come una donna che ha rubato il marito a
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Marine Le Pen, la terza incomoda Marine Le Pen nasce a Neuillysur-Seine il 5 agosto 1968. Europarlamentare dal 2004 e Leader del Front National dal 16 gennaio 2011, avvocato, segue le orme del padre Jean-Marie e si iscrisse al Fn. Sposata e madre di tre figli, nel 2002 divorzia dal primo marito e convola a seconde nozze con Éric Iorio, importante membro del suo partito. Divenuta nell’aprile del 2003 vicepresidente del Front National, nel 2004 si candida alla presidenza della regione Île-de-France ottenendo il 12,3 per cento dei voti. Viene generalmente considerata l’espressione di una tendenza nuova, e più moderata, che affiora nel Front National soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 2002, in cui il padre riceve un consenso maggiore rispetto a Jospin e arriva al ballottaggio. Dopo le europee del 2004 ottiene un seggio a Strasburgo. Nel 2012 sfiderà alle elezioni presidenziali per la corsa all’Eliseo Nicolas Sarkozy e François Hollande.
un’amica. Un’accusa che Valérie respinge: altro che amica, in diciotto anni giura di avere visto Ségolène soltanto due volte a cena in occasioni pubbliche sempre per il suo lavoro di giornalista. «Fare la giornalista era il suo sogno sin da giovanissima, quasi un’occasione di riscatto dopo un’infanzia difficile. Quando ha finalmente ottenuto la sua tessera stampa numero 63331 per lei è stato come raggiungere la vetta dell’Himalaya», ha scritto Marie Guichoux, una sua collega del Nouvel Observateur che le è molto vicina. In effetti Valérie ha costruito da sola tutto quello che ha otte-
mani della vittoria di François Hollande alle primarie del Ps, ha lasciato il servizio politico del settimanale e ormai si occupa di cultura. Nella sua vita è esplosa anche una misteriosa storia ancora non del tutto chiarita.
Il settimanale l’Express ha rivelato che Valérie Trierweiler è stata messa sotto osservazione da una squadra speciale della polizia - la Direction du Renseignement - che si occupa di raccogliere informazioni sensibili che potrebbero essere usate contro di lei. O, molto più verosimilmente, contro il suo compagno
te due. Con Marie-Dominique Culioli, ha fatto due figli: Pierre, nato nel 1985, che fa il produttore musicale, e Jean, nato nel 1986, che fa il politico a Neullysur-Seine, lo stesso comune della periferia ricca di Parigi dove ha mosso i suoi primi passi anche Nicolas. Che con la seconda moglie – Cécilia Ciganer-Albéniz conosciuta nel 1984 e sposata nel 1996 – ha avuto il terzo figlio, Louis, nato nel 1997. Il divorzio da Cécilia (che a sua volta si è poi risposata) fu pronunciato nell’ottobre del 2007, pochi mesi dopo l’insediamento all’Eliseo e a non molta distanza dall’ufficializzazione
Anche il presidente in carica ne aveva 4. La première dame invece, prima di Giulia, aveva dato alla luce Aurélien nuto. È partita da Angers a 19 anni, era la quinta di sei figli di una famiglia modesta che viveva della pensione del padre, invalido civile di guerra (da ragazzo aveva perso una gamba saltando su una mina), e a Parigi ha seguito dei corsi di giornalismo fino a che, quattro anni dopo, è entrata a Paris Match. E ha scoperto che sua madre aveva ragione quando diceva a lei e ai suoi fratelli: «Non fate come me, andate sempre oltre i vostri limiti». Il suo nuovo ruolo di compagna di un possibile, futuro Presidente, però, ha già avuto un contraccolpo sulla sua vita professionale: all’indo-
François Hollande quando la battaglia elettorale delle presidenziali entrerà nel vivo. E questo ha contribuito a farle decidere di mettere da parte, almeno per ora, il giornalismo politico. La prospettiva di sfilare a Carla Bruni il titolo di première dame è senz’altro più intrigante. Del resto, a Parigi, dicono che era destino: nella coppia degli sfidanti socialisti a Sarkozy ci doveva essere una giornalista. Se la candidatura fosse stata quella di Dominique Strauss-Kahn, si sarebbe chiamata Ann Sinclair, una anchorwoman ormai in pensione, ma ancora più nota di Valérie Trierweiler (ha
condotto per anni la trasmissione politica di punta di Tf1), che è la moglie di DSK e che è rimasta al suo fianco anche nei momenti peggiori della tempesta esplosa a New York sul caso della falsa violenza sessuale denunciata da una cameriera del Sofitel. Tra rivelazioni vere e fasulle, tra interviste a effetto e racconti di amici, i francesi stanno comunque scoprendo che le protagoniste della corsa in rosa all’Eliseo qualche storia sentimentale un po’ sopra le righe ce l’hanno tutte. Come i loro mariti o i loro compagni. A partire da Sarkozy che di mogli, prima di Carla Bruni, ne ha avu-
della rottura tra François Hollande e Ségolène Royal. Un albero genealogico di unioni e di abbandoni che non è facile seguire. E dal quale non è indenne, naturalmente, anche Carla Bruni che ha due anni meno di Valérie (è del 1967) e, nel 2001, ha avuto il primo figlio, Aurélien, da Raphaël Enthoven, allora giovane professore di filosofia e conduttore di programmi televisivi che era sposato con la scrittrice Justine Lévy, figlia del filosofo Bernard-Henry Lévy. Quella vicenda, tra l’altro, ispirò a Justine Lévy il libro Rien de grave (Nulla di grave) in cui ci sono giudizi al vetriolo su Carla che, nel romanzo, diventa Paula, «la modella imbellita con il bisturi». Anche Carla ha dedicato qualcosa a questa storia: una canzone intitolata, appunto, Raphaël che fa parte del suo primo album Quelqu’un m’a dit.
E, per non lasciare a metà il gossip, c’è da aggiungere che Raphaël Enthoven, ormai divorziato da Justine Lévy, nel 2008 ha avuto il suo secondo figlio, Sacha, con l’attrice Chloé Lambert. Di fronte a questa sovraesposizione di figli di coppie presidenziali passate, presenti e future, gli osservatori politici francesi si dividono. C’è chi è convinto che rappresentino punti a favore per i loro padri e per le loro madri (tra l’altro, Thomas Hollande fa già parte dello staff che si occupa della propaganda di François così come Jean Sarkozy è un giovane e rampante dirigente dell’Ump, il partito di papà) e chi è convinto del contrario. Dai tempi dello scandalo del figlio di Mitterrand, Jean-Christophe, per le tangenti sugli affari in Africa della ElfAquitaine e di Mazarine, la figlia segreta del Presidente socialista, le questioni di famiglia sono state quasi sempre un fardello imbarazzante più che una freccia al proprio arco per centrare l’obiettivo dell’Eliseo. La corsa delle presidenziali del 22 aprile e del 6 maggio del 2012 è appena cominciata ed è presto per dire quanto influirà nel risultato della sfida tra Sarkozy e Hollande la corsa in rosa tra Carla e Valérie e quella delle rispettive tribù di figli. Ma c’è da scommettere che un peso i due clan (quello dello sfidante è stato già ribattezzato «il clan degli olandesi») lo avranno, eccome.
ULTIMAPAGINA
L’artista americano apre un locale solidale dove i clienti in difficoltà possono lasciare un’offerta o fare volontariato
Mangi ma non paghi: solo da di Francesco Lo Dico ualcosa dev’essere rimasto impigliato nel suo dna. L’ombra di cene consumate coi vicini nel dopoguerra. Poche pietanze umili, ma per tutti. Per chiunque aveva fame. In Bon Jovi, sciacchitano che vo fà l’americano, c’è una scheggia di nonne di Sicilia. Di enormi pentoloni di latta ricavati dalle fusoliere degli aerei. Di mestoli che cavavano amore fumante, dalla stessa lamiera che pocanzi sibilava di pallottole. Jon Bon Jovi, discendente di emigranti siciliani più noti come Bongiovanni, ha toccato da tempo l’apice del successo. Eppure nel tempo libero non sceglie di improvvisarsi regista, produttore o opinionista come altre rockstar mature. Lui preferisce far qualcosa di meno cool, come dare da mangiare a chi possiede pochi verdoni, e tanta dignità. È questo lo spirito che anima il suo nuovo ristorante che ha aperto i battenti la settimana scorsa a Red Bank. Si chiama Soul Kitchen proprio come quello dell’omonimo bellissimo film di Fatih Akin.
le verdure vengono raccolte nell’orto del locale. E ancora il dessert. Di tanto in tanto, Bon Jovi in persona accoglie i clienti con una grande bottiglia di vino, e molti potranno vederlo all’opera in cucina perché tra un riff e l’altro lava i piatti gomito a gomito con gli altri volontari. Fondato dalla JBJ Soul Foundation, il ristorante di Bon Jovi nasce come il tentativo di dare una risposta comunitaria alla morsa della crisi. «Pensiamo sia il tempo per un ristorante del genere», ha chiarito Bon Jovi, «un posto costruito, basato e finalizzato alla comunità». L’idea è frullata per la testa al nostro dopo un servizio della Nbc. Si parlava di una ceffetteria di Denver, chiamata The Same Café, un posto dove gente bisognosa di un pasto poteva saldare il conto prestano servizio di volontariato.Sei mesi dopo, arrivano i prodromi del Soul Kitchen al St Anthony’s of
Q
Il locale, dalla facciata rosso mattone, l’insegna sobria e un giardinetto all’esterno si trova a Red Bank, nello stesso New Jersey che ha dato i natali al nostro. Ma guai a pensarlo come un luogo glamour frequentato da celebrities che spilluzziccano tartine insipide. Il posto, come recita il sito collegato, «è un locale dove tutti possono sedersi a mangiare». Chiunque ha cioè la possibilità di essere servito anche se non indossa blazer e cravatte inamidate. Chi ha i soldi sborsa contante, chi è senzatetto o è stato licenziato può invece pagare facendo un’offerta, o prestando del volontariato nella comunità della cittadina. «Ci voleva un ristorante del genere in un periodo in cui una casa su cinque vive sotto il livello di povertà», ha detto Bon Jovi alla cerimonia di presentazione. Più abile con la sei corde, che con i soffritti, l’artista ha precisato che non si arrischierà a improvvisarsi gourmet. «Ma sono un esperto nel lavare i piatti», dichiara con voce roca senza cedere un millimetro al terreno della retorica. Al tavolo del Soul Kitchen ci si siede e si ordina dal menu, ma non c’è nessun
BON JOVI Il ristorante nasce come il tentativo di dare una risposta alla morsa della crisi. «È il tempo giusto», spiega la star, «per un luogo pensato a misura della comunità» prezzo stampigliato a ratificare l’inaccessibilità di alcune portate. Sono benvenute famiglie, gruppi di amici, vicini, che hanno intenzione di coniugare la buona cucina alla buona azione del lupetto scout.
Non per niente, chez Bon Jovi, vige l’idea del community restaurant, vissuto non come scannatoio per turisti, ma come luogo di aggregazione no profit.“Sì, ma che cosa si mangia?”, malignerebbero i più scafati. Ci sono tre menu basati sulla cucina americana regionale e su ingredienti freschissimi: insalata o zuppa, secondi di pesce, di carne e di tipo vegetariano. Molte del-
Padua a Red Bank: pasti gratuiti “pay for help” tutti i venerdì sera, grazie alla cooperazione di cittadini e volontari. Dopo un inizio a rilento, l’iniziativa si è trasformata in un grande successo. E a quel punto, il Soul Kitchen è passato dalla carta alla realtà di Red Bank.
A proposito della cittadina dove è sorto al posto di un’officina, «può essere qualunque città, può essere l’America», spiega Bon Jovi. Non è difficile immaginare, come di lì a poco ammette lo stesso Bongiovanni, che il Soul Kitchen può essere considerato come un progetto pilota, un modello di sviluppo alternativo che potrebbe presto avvalersi dell’effetto contagio. «C’è un grande bisogno di posti del genere, sia per lo sviluppo delle zone urbane che di quelle suburbane», argomenta il frontman della band di recente tornata al successo con un apprezzato Greatest Hits. E c’è tanto bisogno di enormi pentoloni di latta, di quelli delle nostre nonne, persino in luoghi bombardati per secoli dalla cultura del soli contro tutti.