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AI LETTORI Domani, per le festività di Ognissanti, liberal non sarà in edicola. Torneremo giovedì

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 1 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Sì all’ammissione nell’organismo Onu: il mondo si spacca. L’Italia si astiene

Palestina, strappo dell’Unesco Insorge Israele. E gli Usa minacciano: «Taglieremo i fondi» di Pierre Chiartano

Così le istituzioni internazionali perdono autorevolezza

n primo timbro sulla carta d’identità di uno Stato che sembrava un “effetto ottico”è stato messo: la Palestina è entrata nell’Unesco.Voto a sorpresa ieri, cancellerie internazionali in subbuglio, Washington interdetta, taglierà i fondi all’agenzia, con Parigi, Pechino e New Dehli che hanno votato a favore. Un grande applauso ha accolto il risultato della votazione avvenuta ieri a Parigi. È imprevedibile ciò che il voto d’ammissione nell’agenzia Onu potrà significare. Diplomazia coi nervi a fior di pelle dunque. Sono stati 107 i voti a favore e 14 contrari. Israele: «una tragedia». I palestinesi: «questo è un giorno storico». a pagina 10

Una forzatura che fa male alla pace in Medioriente

U

di Osvaldo Baldacci Unesco ha riconosciuto lo Stato palestinese. Dovrebbe essere una buona notizia, specie per chi crede che la soluzione della pace in Medio Oriente passi attraverso la soluzione dei Due Stati, come più o meno tutti ormai dicono. Invece non è una buona notizia. a pagina 11

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Il ministro Sacconi continua a inseguire il fantasma del terrorismo: «Da noi nuovi nuclei clandestini»

Un altro giorno di guerra L’Ocse lancia l’allarme in attesa del G20: tutta Europa a crescita zero Crolla ancora Piazza Affari, lo spread oltre i 410 punti, va alle stelle il costo dei titoli di Stato, inflazione al 3,4% e disoccupazione record. Napolitano: «La nostra risposta è inadeguata» ARRIVA DRAGHI

di Franco Insardà

L’era-Trichet finisce con un’ombra: lo sviluppo mancato di Gianfranco Polillo il giorno del passaggio del testimone, ai piani alti della Bce. Jean Claude Trichet termina il suo mandato per lasciare il posto a Mario Draghi, nuovo presidente della banca centrale. Una nomina che dà prestigio all’Italia. Una doppia festa, quindi: quella per il commiato e l’altra per il nuovo arrivo, appena turbata dal caso Bini Smaghi, di cui non si conoscono le future intenzioni. Brutta vicenda, quest’ultima, che dà corpo alle mille leggende che circolano sull’uomo e i suoi burrascosi trascorsi sia in Banca d’Italia, sia al Ministero dell’economia per terminare con la freddezza che ne ha sempre caratterizzati i rapporto con la diplomazia italiana. Ma è anche tempo di bilanci: di valutazione di ciò che è stata la Bce sotto lo scettro del banchiere francese. Francese di nascita, tedesco per cultura. In un momento in cui le borse lanciano nuovi segnali d’impazzimento e lo spread marca un nuovo record. segue a pagina 4

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

ROMA. L’elenco è impressio-

Parla Hélène D’Encausse

nante: Borse a picco, spread che vola a quota 410, titoli di Stato sotto attacco, inflazione e disoccupazione record. E in Europa le cose non vanno meglio con l’Ocse che prevede un 2012 a crescita (quasi) zero: uno striminzito +0,3 contro il 2% previsto. Così il presidente Napolitano ha voluto ricordare che la nostra risposta è ancora inadeguata. a pagina 2

«Così Putin uscirà di scena. Tra sei anni»

I trucchi del mercato

Parla Carlo Dell’Aringa

Eppure in Borsa c’è (sempre) chi ci guadagna

«Pensate alla scuola, invece di litigare sull’articolo 18»

Ogni giorno si scambiano Secondo l’ex collaboratore quasi quattro miliardi di titoli: di Marco Biagi, «per rilanciare le banche rischiano poco, il mercato del lavoro servono più servizi per l’inclusione» i risparmiatori moltissimo Giancarlo Galli • pagina 6 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

Francesco Pacifico • pagina 7 212 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Luisa Arezzo arla Hélène Carrère D’Encausse, segretario dell’Accademia di Francia e massima esperta di storia russa/ «L’epoca di Vladimir Putin è al tramonto e nel 2018 lo zar uscirà di scena». Secondo l’esperta, «Benché le prossime elezioni non saranno democratiche, quelle successive invece potrebbero esserlo. Una nuova generazione di giovani infatti guarda già al futuro ed è ragionevole immaginare che presto sarà capace di imporre i propri leader». a pagina 12

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’Europa Drasticamente ridotte le stime di crescita della zona euro per il prossimo anno: +0,3% rispetto al +2% previsto

Pericolo recessione

In vista del G20 l’Ocse lancia l’allarme: Pil europeo fermo nel 2012. Aumenta ancora lo spread italiano: ormai è fisso sopra i 400 punti la polemica di Franco Insardà

Il titolare del Welfare: «Attenzione ai nuovi nuclei clandestini»

ROMA. Poche parole per chiedere agli alleati di rispettare la dignità dell’Italia e per ricordare alle forze politiche di casa nostra (di maggioranza e opposizione) di non sottovalutare gli impegni presi in sede europea. Perché per Giorgio Napolitano «il superamento della grave crisi economico- finanziaria richiede più che mai una volontà di stretta integrazione, coesione e solidarietà nell’Unione Europea» Un monito da non sottovalutare a due giorni dal vertice dei Grandi di Cannes, l’Ocse dimostra che le economie più mature sono vicine alla stagnazione, mentre gli emergenti non ce la fanno a tirare la ripresa. Una tendenza che mina l’esito del G20 che dovrebbe finalmente chiudere le querelle sulla riforma della governance comunitaria e decidere le soluzioni per evitare che da Grecia, Irlanda e Portogallo il contagio si estenda a Spagna e Italia.

Il presidente della Repubblica, nel suo intervento alla cerimonia del 180° anniversario del Consiglio di Stato, ha ribadito che è certamente essenziale «una visione ampia, innanzi tutto europea», ma ha raccomandato di non cadere in «equivoci pericolosi». E ha spiegato che «la necessità, sempre più matura, di estendere l’area della sovranità

Ma Sacconi insegue il fantasma del terrorismo n Italia, l’importante è dissimulare e quindi il ministro Sacconi insiste e, nero su bianco, spiega il suo pensiero sul terrorismo prossimo venturo: «Quello che è successo a Roma è sì sintomo di insofferenza giovanile, ma indica anche che sono al lavoro nuclei organizzati che operano clandestinamente per trasformare il disagio in rivolta». I dati Ocse, la Borsa a picco, i titoli che costano allo Stato più del 6%, la disoccupazione record… questi sono tutti temi che non riguardano il ministro del Lavoro di questo nostro povero paese. No, il problema è un altro: «Oggi, in Italia non esiste (ancora...) un movimento eversivo da cui possano scaturire energie terroristiche paragonabili a quelle che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni del secolo scorso. La crisi delle ideologie ha colpito anche le progettualità rivoluzionarie – concede bontà sua Sacconi – ma quello che è successo a Roma ci dovrebbe tuttavia far riflettere sull’esistenza, nel nostro Paese, di spinte ribellistiche di non sottovalutabile potenzialità eversiva. Le tossine degli anni Settanta continuano a produrre patologia politica. L’Italia non vive una condizione di guerra civile. Viviamo, tuttavia, quotidianamente un dibattito politico e una dialettica da guerra civile. Le parole corrono, i concetti si semplificano e si amplificano e concorrono alla creazione del ”contesto” nel quale dalla ”character assassi-

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nation” è agevole passare all’intolleranza insistita nei luoghi pubblici e al tentativo di violenza fisica sul ”nemico”». Naturalmente al ministro con l’elmetto sfugge che anche le sue parole «concorrono alla definizione del contesto», come lo chiama lui. Poi, l’ammicco sgradevole: «Marco Biagi non è stato ucciso da una possente organizzazione terroristica. È stato assassinato da un gruppetto di una decina di persone (infermieri, tecnici di radiologia, precari universitari) che pensavano di fare un favore alla societá eliminando quello che anche voci non rivoluzionarie descrivevano come un “nemico dei lavoratori”. Non è necessario temere un ritorno all’eversione di massa degli anni Settanta, per paventare che un dibattito politico manicheo ed esasperato come quello dei giorni nostri possa produrre un “contesto” nel quale un gruppetto sparuto di esagitati possa tentare di eliminare il nemico dei lavoratori di turno». Vuoi vedere che Sacconi non ha letto Sciacia e non sa a che cosa si riferisce quando parla di «contesto»? Sarebbe tuttavia il male minore, di fronte a tanta sfrontatezza.

condivisa il cui esercizio sia affidato in Europa alle istituzioni dell’Unione, nulla toglie all’esigenza di un efficace funzionamento e quindi di un rafforzamento delle strutture di uno Stato nazionale come il nostro, storicamente caratterizzato da intrinseche debolezze e oggi esposto a rischi di grave inadeguatezza». Il capo dello Stato ha quindi spiegato che, proprio di fronte all’avanzamento del processo di integrazione europea «restano affidate inderogabili funzioni agli stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee».

Con Bruxelles che potrebbe imporci un taglio draconiano al debito pubblico (di 35 miliardi all’anno, applicando alla lettera la riforma della governance comunitaria) e i mercati che scommettono contro il rischioItalia, anche ieri il presidente della Repubblica ci ha messo la faccia si è preso l’onere di dimostrare quanto il Belpaese possa essere affidabile. In un messaggio al neo presidente dell’Irlanda, Michael Daniel Higgins, l’inquilino del Colle ha ricordato che i Ventisette devono «operare nelle sedi comunitarie per far sì che l’Unione Europea risponda alle pressanti attese di pace, giustizia e benessere dei cittadini e continui a perseguire gli obiettivi di democrazia e sviluppo sociale».


la crisi italiana

1 novembre 2011 • pagina 3

l’Italia

«La nostra risposta è inadeguata» Nuovo richiamo del Colle nel giorno in cui disoccupazione e inflazione tornano a volare di Francesco Lo Dico

ROMA. La cessione di sovranità all’Europa non può e non deve consentire che lo Stato abdichi alle sue funzioni. Specie «uno Stato nazionale come il nostro, caratterizzato da intrinseche debolezze e oggi esposto a gravi rischi di inadeguatezza». Nel corso della cerimonia del 180° anniversario del Consiglio di Stato, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha lanciato un duro monito al governo. «È necessaria una visione ampia, innanzitutto europea», ha ammonito il Quirinale, ma questa non deve indurre a cadere in “equivoci pericolosi”. «Anche nel quadro di un ulteriore avanzamento del processo di integrazione europea», ha chiarito il capo dello Stato, «restano affidate inderogabili funzioni agli Stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee. Ma la vera stoccata alla maggioranza guidata da Silvio Berlusconi arriva subito dopo: «Non c’è dubbio che in tempi recenti vi sia stato un sensibile scadimento del processo di formazione delle leggi», ha tuonato Napolitano, che ha auspicato «un forte impegno a reagire a tale scadimento». Tre le funzioni inderogabili di questo Stato, dovrebbe esserci ad esempio l’impegno a frenare l’autentica catastrofe sociale rappresentata dagli ultimi dati Istat. Il tasso di disoccupazione giovanile italiano sale dall’8 per cento di agosto all’8,3 di settembre. Le stime provvisorie dell’istituto rilevano che tra i ragazzi compresi tra i 15 e i 24 anni, il 29,3 per cento è disoccupato, con un incremento perDello stesso tenore anche il messaggio che il presidente Napolitano ha inviato al al neo presidente della Repubblica della Bulgaria Rosen Plevneliev al quale ha scritto che la cooperazione tra Italia e Bulgaria «potrà infondere rinnovati stimoli a un coraggioso e coerente sviluppo del processo d’integrazione europea. Sono certo - scrive ancora Napolitano - che avremo modo di operare con successo per l’ulteriore sviluppo dei tradizionali rapporti di amicizia e di collaborazione tra Italia e Bulgaria, sia sul piano bilaterale, sia nel contesto dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica».

Ma dai mercati arrivano messaggi diversi. Infatti, per capire il presente, è utile leggerlo attraverso il pessimismo degli investitori: nonostante la nascita del Fondo Salvastati e

centuale di quasi un punto e mezzo rispetto ad agosto 2010. È la percentuale più alta dal gennaio 2004, e tradotto vuol dire che migliaia di under 25 hanno perso il posto di lavoro negli ultimi mesi. Cifre che sposano alla perfezione la nozione di “scadimento” illustrata dal capo dello Stato. «La necessità di estendere l’area della sovranità condivisa il cui esercizio sia affidato in Europa alle istituzioni dell’Unione», ha ricordato Giorgio Napolitano, «nulla toglie alla esigenza di un efficace funzionamento e quindi di un rafforzamento delle strutture di uno Stato nazionale come il nostro, storicamente caratterizzato da intrinseche debolezze e oggi esposto da rischi di grave inadeguatezza». E niente appare di più fragile e inadeguato, del presente regalato dal governo ai giovani italiani fotografati dall’Istat. Uno scenario che può essere presentato con parole dannunziane: “Settembre. Andiamo. È tempo di migrar”.

con un aumento congiunturale di 0,1 punti percentuali. Rispetto ad agosto, altri 21mila italiani tra 15 e i 64 anni sono dunque diventati inattivi. In netto calo anche gli italiani che un lavoro ce l’hanno già, o l’hanno salvato fino a questo momento: scendono a 22,911 milioni, con un calo dello 0,4 per cento rispetto ad agosto. Numeri aridi, che diventano molto più tangibili se applicati alla pelle dei cittadini: è bastato il tempo di qualche bagno estivo, per cancellare il posto di lavoro di 86mila persone tra agosto e settembre. In questo caso, uomini e donne pagano il conto alla pari. Il tasso di occupazione maschile, pari al 67,7 per cento, diminuisce di 0,2 punti percentuali rispetto ad agosto ma resta invariato su base annua. E anche quello femminile, pari al 46,1 per cento, scende di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali, sebbene peggiori di un ulteriore 0,2 per cento a livello tendenziale.

Il Quirinale bacchetta il governo: «No ad equivoci: cedere sovranità all’Europa non significa rinunciare a far funzionare lo Stato»

Nello specifico, l’istituto statistico fotografa un tasso di disoccupazione maschile che cresce di 0,3 punti percentuali toccando quota 7,4 per cento in quest’ultimo mese (0,2 per cento in più rispetto allo scorso anno). E un tasso di disoccupazione femminile ancora più disastroso: dal 9,4 per cento dell’anno scorso al 9,7 di quest’anno. Ma ancora più inquietante è la percentuale di donne che oltre a non lavorare non cerca neppure un’occupazione: l’istituto statistico parla di un tasso di inattività femminile pari al 48,9 per cento contro il 26,9 per cento di uomini dai pari requisiti. Una donna italiana su due non ha un lavoro, insomma. Mentre per gli uomini la proporzione è di 26 inattivi su cento. Per uno che lavora, ce ne sono due che non sono occupati, ma hanno smesso di spedire curriculum. Al netto di uomini e donne, il tasso di inattività si attesta quindi al 37,9 per cento,

il programma di ricapitalizzazione delle banche, ieri sono schizzati gli spread tra il Bund e i principali titoli di Stato europei (a quota 407 punti base il differenziale tra il decennale tedesco e il nostro Btp, mentre l’interesse sul decennale italiano si conferma sopra il 6%). Peggio hanno fatto le Borse: le vendite sui titoli bancari fanno arretrare Milano, la peggiore dell’area, del 3,82 per cento, Francoforte del 3,23, Parigi dell’3,16, Madrid 2,92 e Londra dell’2,77.

terà all’1,6% per il 2011 mentre l’anno prossimo la crescita sarà appena dello 0,3% rispetto alla precedente stima del 2% sia per il 2011 e sia per l’anno prossimo. L’Ocse, comunque, rivede al ribasso le stime anche per le altre economie del G20. Gli Stati Uniti nel 2011 cresce-

Ma per prevedere il futuro si deve partire dalle ultime stime di crescita dell’Ocse sulle economie del G20 e in particolare dell’area euro. Secondo l’Organizzazione di Parigi l’incertezza è cresciuta in modo considerevole ed è entrata in una fase di notevole rallentamento. Per la zona euro l’economia rallen-

ranno all’1,7% e l’1,8% l’anno prossimo rispetto alla precedente stima del 2,6% e 3,1%. Angel Gurria, segretario generale dell’Organizzazione, ”promuove” le misure adottate dal vertice Ue dello scorso 26 ottobre, alla vigilia del G20 di Cannes. Ma aggiunge la necessità di adottare misure che «vanno

Numeri così foschi dicono che il Paese è in ginocchio. E che immaginare qualunque tipo di crescita in mezzo a una simile strage sociale è puro esercizio di fantasia. Pensare di tornare sulla strada dello sviluppo attuando più licenziamenti per tutti, è forse uno di quei “pericolosi equivoci” temuti dal presidente Napolitano. Brutte notizie anche dall’inflazione, che dal 2,4 per cento di agosto sale al 2,6 di settembre. Più in generale, crescono i costi al consumo di quasi tutti i beni e i servizi, con la benzina rincarata del 17,8 per cento nell’ultimo anno e dello 0,8 su base mensile. Prezzi alle stelle, disoccupazione in aumento, lavoro giovanile in caduta libera e nuovi licenziamenti per tutti a breve termine. Più che lo scenario di un Paese civile, quello italiano assomiglia sempre più a un noto romanzo di Cormac McCarthy: un padre e un figlio che trascinano un carrello vuoto. Circondati dal nulla.

nella giusta direzione e possono favorire uno scenario di crescita più sostenuta» ma che devono essere implementate «in maniera completa e decisa». Un punto, questo, sul quale l’Ocse evidenzia «la necessità di informazioni dettagliate». Secondo Gurria se la situazio-

Borse in calo sulla scia di Wall Street con Milano peggiore d’Europa. Lo spread tra il Btp e il bund tedesco balza sopra i 409 punti, mentre l’interesse sul decennale italiano sale oltre il 6% ne finanziaria, alla luce dei problemi del credito negli Usa e del debito sovrano nell’Eurozona, dovesse aggravarsi come nella crisi del 2007-2009, le principali economie «rischiano un calo fino al 5% del Pil, entro la prima metà del 2013». L’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economi-

ci ha ricordato come nel 2008 il G20 riuscì ad affrontare la crisi con un piano chiaro e coerente che scongiurò una seconda grande depressione: «L’adozione di un piano analogo oggi è imperativo per ricostruire la fiducia».

L’Ocse precisa che si tratta comunque di stime effettuate «in uno scenario al netto di decisioni e azione politica di ampio respiro per risolvere i problemi in corso». Nel briefing note del segretario generale dell’Organizzazione Angel Gurria si legge che «le incertezze sulle previsioni economiche di breve termine sono cresciute drammaticamente negli ultimi mesi. Alcuni eventi, per lo più legati alla crisi della zona euro e alle politiche fiscali degli Usa, dovrebbero dominare gli sviluppi economici dei prossimi due anni».


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la crisi italiana L’ultimo giorno di Trichet alla Bce. Ora tocca a Draghi gestire la crisi

La dura eredità del banchiere di ferro La sua rigidità sul debito pubblico s’è attirata anche la critica del Nobel dell’Economia Krugman di Riccardo Paradisi opo il mercato unico e l’euro all’Europa ora occorre l’unione economica anche per svolgere «una rigorosa sorveglianza sia delle politiche fiscali che della politiche per la competitivita». Nel suo discorso di fine mandato della scorsa settimana Jean-Claude Trichet, presidente uscente della Bce, aveva messo il dito nella piaga dell’Europa in crisi.

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Per realizzare questa governance non ci vuole «necessariamente un ministro delle Finanze che amministri un budget federale» ma un’istituzione che abbia «diretta responsabilità in almeno tre campi: primo, la rigorosa sorveglianza delle politiche fiscali e di quelle per la competitività, con la possibilità, in casi eccezionali, di prendere decisioni immediatamente applicabili in una particolare economia che potesse

mettere in pericolo la stabilità finanziaria della zona euro». Secondo, responsabilità esecutive in relazione a un sistema finanziario che deve raggiungere una completa integrazione. Terzo, «la rappresentanza dell’Unione presso le istituzioni finanziarie internazionali». È questo il severo piano d’azione per l’Europa concepito da un grande banchiere europeo nato e cresciuto nell’alveo della tradizione politico-economica francese. Ingegnere civile minerario, presso la ”École nationale supérieure des Mines” di Nancy Trichet Trichet si laurea in Economia all’università di Parigi e nel contempo consegue un diploma dell’Istituto di studi politici di Parigi. Tra il 1969 e il 1971 perfeziona i propri studi presso la Scuola Nazionale di Amministrazione aziendale (ENA) lavorando anche presso la ”Inspection générale des Finances”poi dal 1975 la sua carriera prosegue al Dipartimento del Tesoro. Un anno dopo è Segretario generale del CIASI (comitato interministeriale per il miglioramento delle

segue dalla prima Dire che questa situazione sia colpa del vecchio inquilino, sarebbe una forzatura inaccettabile. Anzi, in un certo senso, si potrebbe affermare il contrario. Le borse penalizzano il mancato rigore finanziario: la linea che Trichet aveva inutilmente predicato negli anni precedenti. Salvo poi arrendersi di fronte alla tempesta finanziaria. Il suo sostegno indiretto a tutti i paesi in difficoltà – Grecia, Spagna e Italia – mediante acquisti di titoli del debito sui mercati secondari è stata un’azione ripetuta che non solo contraddiceva alla rigidità ipotetica delle tesi espresse, spesso con grande determinazione, ma si poneva ai confini stessi dello Statuto della Bce. Una contraddizione non risolta. E’ mancata duttilità di fronte ad una crisi dalle caratteristiche sconosciute, rispetto agli eventi del passato. Ma soprattutto è mancata la consapevolezza che l’uomo, e quindi la società fatta di uomini, come diceva Emanuel Kant è un “legno storto”, che la teoria, più di tanto, non può pretendere di trasformare. Deve, al contrario, tener conto di questo dato di realtà e comportarsi di conseguenza.

Prima della “grande crisi” l’euro si è continuamente sopravvalutato nei confronti del dollaro, perdendo terreno solo rispetto allo yen. La moneta di un Paese che, nonostante tutto, resta uno dei principali esportatori globali,

strutture industriali). Quindi Consigliere del Ministro dell’economia (1978) e Consigliere del Presidente della Repubblica per l’industria, l’energia e la ricerca (1981). Nella seconda metà degli anni ’80 ricopre il ruolo di vicedirettore per gli affari bilaterali e capo del servizio affari internazionali, del Dipartimento del Tesoro; direttore del Gabinetto del Ministro dell’economia, delle finanze e della privatizzazione; direttore del Dipartimento del Tesoro; governatore supplente del Fondo monetario internazionale (fino al 1993); governatore supplente della Banca mondiale; censore della Banque de France. Dal 1992 al 1993 è presidente del Comitato monetario europeo prima di diventare Governatore della Banque de France e Governatore della Banca mondiale, fino al 1995. Dal 1995 al 2003 è Governatore supplente del Fondo monetario internazionale. Infine dal1 novembre 2003 ad oggi ricopre il ruolo di secondo presidente della Bce (Banca centrale europea), dopo l’olandese Wim Duisenberg.

grazie alla qualità di una produzione che ha pochi rivali. La giustificazione tecnica era data dal sostanziale equilibrio delle partite correnti della zona dell’euro. Un dato macroeconomico incontestabile, ma anche una visione che restava alla superficie del fenomeno. Se si fosse guardato dentro i numeri, sarebbe risultato evidente la grande asimmetria che divide i paesi che ne sono componenti. Da un lato un forte surplus delle partite correnti dei Paesi continentali (Germania, Austria, Paesi Bassi e via dicendo). Dall’altro i Paesi della sponda sud (compresa la Francia) alle prese con un deficit simmetrico.

Ed ecco allora il ruolo svolto dalle banche. Hanno preferito convertire in prestiti ai paesi più deboli, l’eccesso di credito derivante dalla loro superiorità mercantile. Che poi a questo gioco abbiano partecipato anche le banche di altri Paesi, che spesso non potevano permetterselo, è stato solo conseguenza di quel moral hazard, che è ancora oggi all’origine della grande crisi. Per contrastare questi fenomeni la BCE ha fatto poco. Non poteva, certo, impedire il grande gioco della speculazione. Poteva tuttavia utilizzare la sua grande influenza per lanciare segnali più decisi e non limitarsi soltanto alle rampogne contro chi non riusciva a reggere il passo dei più forti. Avrebbe potuto, ad esempio, chiedere all’economia tedesca una maggiore apertura, nel campo dei servizi, per accrescere la forza di una motrice


la crisi italiana Una carriera costantemente in ascesa quella di Trichet ma non senza zone d’ombra e ostacoli. Nel novembre 1995, quando Trichet è governatore della Banca di Francia, Henri Lachmann (presidente di Strafor-Facom) e Jean-Marie Messier (numero uno di Générale des Eaux), lanciano contro di lui un duro attacco, supportati da tutto l’arco costituzionale transalpino da Chirac a Sarkozy, a Jospin: a nessuno piace la sua l’intransigenza, la sua rigidità. Il secondo duro attacco che a Trichet viene sferrato all’interno del sistema è alla vigilia della sua partenza dall’Eurotower. Stavolta è il finanziere Edouard Carmignac, che sul Financial Times stigmatizza, con una pagina a pagamento, la politica monetaria di Trichet: ”Addio, non la rimpiangeremo!” si intitola la lettera indirizzata al presidente della Bce, accusandolo di aver affossato l’industria francese con la sua politica del franco forte degli anni ’90, aggravato l’impatto della crisi del 2008 sottostimando la sua portata con il doppio aumento del tasso di sconto nel 2008, alla vigilia del crac Lehman Brothers e, più recentemente, di aver intrapreso un’azione troppo timida per salvare la moneta unica, mettendo a repentaglio l’euro con aumenti sconsiderati e con un sostegno ai paesi europei indeboliti dal debito che è stato manifestamente inadeguato. Carmignac, patron di una delle più note società di gestione di fondi d’investimento suggerisce l’alternativa alla dottrina Trichet: «tagliare il tasso d’interesse della Bce a zero», cosa che «fornirebbe una spinta positiva e benvenuta, in particolare, dai paesi membri più deboli». L’esortazione a Trichet è che la Bce possa acquistare sul mercato quantità illimitate del debito sovrano dei Paesi in difficoltà dell’eurozona senza sterilizzare tali interventi ma fissando dei limiti quanti-

tativi (una percentuale del Pil) sugli acquisti sui singoli Paesi. C’è chi si è domandato anche se Trichet abbia voluto lasciare al suo successore il nostro Mario Draghi, lo spinoso compito di convincere i tedeschi ad abbassare i tassi di interesse. Un ipotesi maliziosa anche se con l’addio di Trichet comincia a vacillare anche il suo credo monetarista duramente criticato anche dal premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Il quale accusa la politica monetaria restrittiva seguita dalla Banca centrale europea di aver causato l’innalzamento dei tassi di fronte alla crisi facendo l’opposto di quello che sarebbe necessario per far ripartire l’economia. E rischiando di accelerare la dissoluzione dell’euro. In un commento sul New York Times, Krugman se la prendeva recentemenre proprio con il presidente della Bce e con la sua ossessione per la lotta all’inflazione che

«Molti leader della zona euro non comprendono la gravità della crisi del debito, che è diretta conseguenza di anni di violazione delle regole del Patto di Stabilità» spinge la banca «ad alzare i tassi proprio quando dovrebbe invece stimolare la crescita, per fermare rischi d’inflazione che esistono solo nella fantasia». Ma Krugman critica Trichet anche sulla questione del debito pubblico, il tema su cui il banchiere europeo torna a battere anche in coda alla sua presidenza. Il nobel afferma infatti che «questa storia riguarda, se mai, la sola Grecia. La Spagna aveva un avanzo primario e un debito basso prima della crisi del 2008. Difficile dire che fiscalmente stia peggio della Gran Bretagna». Ma Spagna e Italia, quest’ultima ”con un debito più alto ma deficit più piccoli”, sono di fronte a vendite di massa dei loro

titoli di stato che alzano i rendimenti a livelli record. «Potrebbero evitare questo dramma, scrive Krugman, se la Bce comprasse debito spagnolo e italiano proprio come fanno la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra». Ma queste ultime hanno una loro moneta, e una banca centrale propria, «mentre l’Europa ha un’autorità centralizzata, e un gruppo di ”moralizzatori”, non solo tedeschi secondo i quali i problemi del continente sono una semplice storia fatta di eccesso di debito seguito dalla punizione e che quindi va risolta con una ricetta di austerità fiscale».

Nell’ultimo giorno alla guida dell’Eurotower invece Trichet ribadisce la sua critica alle leadership europee dei paesi in difficoltà proprio sul tema dell’Euro: «Molti leader della zona euro non comprendono la gravità della crisi del debito che è conseguenza di anni di violazione delle regole del Patto di Stabilita». I problemi che l’Unione europea si trova di fronte adesso si sarebbero potuti infatti evitare, sostiene Trichet, se i paesi avessero ascoltato i numerosi avvertimenti dell’Eurotower sul fronte dei conti pubblici. Per questo “Bisogna agire immediatamente” considerando che gli appelli per il taglio dei deficit e dei debiti sono spesso rimasti isolati. Linea dura insomma, malgrado le critiche. Sarà la stessa linea che adotterà Draghi? O la linea dura sarà temperata da una visione alla Krugman?

Un’ombra su Trichet: la crescita dimenticata di Gianfranco Polillo

che doveva trainare il convoglio europeo. Ma questo non è avvenuto e solo oggi ci si accorge che il problema della crescita, che l’Ocse proprio oggi ha ulteriormente declassato, è il vero fattore di ritardo europeo rispetto ai grandi cambiamenti dell’economia mondiale.

Crescita e stabilità: qui si coglie la differenza profonda – anche dal punto di vista dei relativi statuti – tra la Bce e la Fed americana. Una polemica sotterranea permanente di cui, soltanto oggi, si possono cogliere le implicazioni di carattere politico. Nell’attacco speculativo contro l’Italia, la dimensione del suo debito pubblico, indubbiamente, conta; ma pesa molto di più la stagnazione che sembra prevalere nelle previsioni dei principali organismi internazionali. Anche se continuiamo a ritenere che l’industria italiana potrebbe riservare più di una sorpresa. Mario Draghi sarà in grado di correggere questa rotta? I margini sono, natu-

ralmente, quelli che sono. Ci troviamo tuttavia, di fronte, a un banchiere centrale, per molti tratti atipico. Basti rileggersi i suoi scritti recenti e più antichi. Per Draghi l’assillo della crescita è elemento costante del suo pensiero. L’ha detto con chiarezza, in ogni possibile occasione. Al tempo stesso il clima complessivo dell’Europa è cambiato, grazie soprattutto alla pressione di un tasso di disoccupazione che rischia, altrimenti, di divenire endemico. Ed ecco, allora, che l’Atlantico – il grande oceano che divede l’Europa dagli Stati Uniti – sembra essere diventato più piccolo, se non altro per le pressioni esercitate dallo staff di Barack Obama, per trovare una nuova consonanza. Non sarà, comunque facile, questa lunga traversata del deserto per avvicinare sensibilità e linguaggi, se non proprio i diversi statuti delle banche centrali. Ma se c’è un uomo che può riuscirci, per preparazione tecnica, prestigio internazionale e senso politico: questo è proprio Mario Draghi.

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la crisi italiana

L’economia ha lasciato il campo alla finanza: spesso la credibilità conta più della sostanza. In Italia ne sappiamo qualcosa...

I trucchi della Borsa

Cade ogni giorno eppure c’è sempre chi ci guadagna. Ecco chi e come: le aziende e le banche rischiano poco rispetto ai piccoli risparmiatori. Quelli che il governo non difende, anzi. È questa la ragione della crisi delle famiglie. di Giancarlo Galli enerdì 28 ottobre, in via Filodrammatici a Milano, s’è celebrata l’annuale assemblea di Mediobanca. Fondata nell’aprile 1946 da Enrico Cuccia, banchiere indimenticabile, è stata per oltre mezzo secolo il Sancta Santorum o più prosaicamente il “salotto buono”della finanza italiana. Quest’anno il clima era un po’ smorto. Bilancio claudicante ed un magro dividendo (17 centesimi lordi, in parte prelevati dalle riserve), con la quotazione del titolo in Borsa arrancante attorno ai 6 euro. Alla tribuna, un piccolo azionista ha fatto garbatamente rilevare come nemmeno un decennio fa l’amministratore delegato Vincenzo Maranghi (succeduto a Cuccia, poi egli stesso deceduto), avesse categoricamente affermato che le azioni della società valevano “almeno” 19 euro. Chiedendo, senza peraltro trovare risposta, i perché del tracollo. In realtà la

V

situazione di Mediobanca (che possiamo considerare “Il meglio del peggio”) subisce i contraccolpi borsistici delle sue più significative partecipazioni: dalle Assicurazioni Generali alla Rcs-Corriere della Sera, dall’Italmobiliare (Italcementi) della famiglia Pesenti alla Telecom alla Pirelli ed alla Gemina, per citare le maggiori. Senza dimenticare il “buco” delle obbligazioni greche.

E se Alberto Nagel, l’Amministratore delegato, è riuscito a tenere il timone nel pieno della bufera, lo si deve alla sua capacità di “diversificare”: finanziamenti alle piccole e medie imprese, raccolta di risparmio fresco con la neonata Chebanca. Certo, la crisi internazionale è sotto i nostri occhi, ma è plausibile che le quotazioni delle società industriali e delle banche, veleggi fra un meno 70 ed un meno 90 per cento rispetto ad un lustro fa? Sicuramente s’era

esagerato puntando sulla prospettiva (inesistente) del “rialzo infinito”; ora, innestata la retromarcia, nonostante qualche recente sprazzo in positivo, siamo al ribasso senza fondo. Un dato fa tremare le vene dei polsi: l’indice generale delle quotazioni stilato da Mediobanca a Capodanno 2006 con base 100, si colloca a quota 47. Hanno davvero le società quotate perso nel volgere di un lustro più

L’indice generale delle quotazioni nel 2006 aveva base 100, ora è a quota 47

della metà del loro valore? In caso affermativo, in quale modo si spiega che la stragrande maggioranza di presidenti, amministratori delegati, manager (eccezioni: Alessandro Profumo di Unicredit, Cesare Geronzi di Generali usciti di scena con milionarie liquidazioni), continui a presidiare la miriade di poltrone gratificati da favolosi emolumenti? Eppure sono le stesse figure che, innanzi al

degrado della politica, invocano radicali cambiamenti. Troppi conti non quadrano nella galassia finanziaria , dando corpo a quantomeno maliziosi pensieri. In primis, attorno ad una parola, un concetto, un inafferrabile fantasma che si muoverebbe dietro le quinte, come in un teatrino dei Pupi: la universalmente deprecata “Speculazione”. Puntualmente chiamata in causa, senza che mai nessuno spieghi.

In concreto. Quotidianamente, in Italia si scambiano (“passano di mano”, in gergo) dai tre ai quattro miliardi di titoli, fra azioni ed obbligazioni. Chi muove queste cifre colossali? A guardar bene, trattasi in larga misura di scambi virtuali, che si aprono e chiudono nel volgere di ore, al massimo giorni. Ed alle spalle degli operatori, Banche e Fondi d’investimento che operano “con i soldi degli altri”: lucrando se guadagnano, scari-


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I consigli del professor Carlo Dell’Aringa, ex collaboratore di Marco Biagi

«Riformate la scuola, altro che l’articolo 18!»

L’economista: «Per sconfiggere la disoccupazione servono ammortizzatori sociali e servizi per l’inclusione» di Francesco Pacifico

ROMA. Carlo Dell’Aringa ha scritto con Marco Biagi il Libro bianco sul lavoro. Ha firmato decine e decine di contratti come presidente dell’Aran. Da circa 30 anni insegna questi temi alla Cattolica di Milano. E ha vissuto per anni sotto scorta nel mirino delle br. E per tutto questo, quando sente il suo amico Maurizio Sacconi scagliarsi ancora contro l’articolo 18, sbotta: «Parlare di licenziamenti rischia di apparire schizofrenico: prima abbiamo spiegato che bisogna estendere la cassa integrazione per evitare i licenziamenti, ora diciamo che licenziare aiuta la ripresa». E la flessibilità? Va nella giusta direzione avvicinare le tutele per superare il dualismo tra assunti e collaboratori e che è fonte di ingiustizia. Mi chiedo se davvero togliere il reintegro dopo il licenziamento per ingiustificato motivo economico sia un fattore fondamentale per risolvere la disoccupazione giovanile. Guardando all’esperienze di altri Paesi, scopriamo che da noi il precariato incide la metà rispetto al numero dei dipendenti, a differenza di quanto avviene in Germania, Francia, Svezia, Olanda e Svizzera. Peccato però che da noi tre under 24 su dieci siano a casa. Viva i precari? Paradossalmente, sì. E lo dico conscio dei troppi falsi Cocopro e delle finte partite Iva. Perché non avere più somministrazione, più tempi determinati, più apprendistati, se all’estero tutto questo crea occupazione? Altrove esiste il welfare in entrata. Esatto, perché la questione non è se mantenere o meno il reintegro obbligatorio nelle aziende sopra i 15 dipendenti. Soprattutto in un Paese senza ammortizzatori sociali, senza servizi per l’occupazione, che è all’ultimo posto per esperienze lavorative durante il cursus formativo, con apprendimento scarso e con ancora più scarso orientamento per scendere le facoltà e gli istituti che meglio rispondono all’offerta di lavoro. La soluzione? Si possono avvicinare anche in altri modi: per esempio alzando il periodo di prova. Non si capisce perché da noi deve durare poche settimane e in Germania sei mesi. Potrebbe essere un buon sostituto della libertà di licenziamento, sul quale i sindacati sarebbero pronti a discutere e che darebbe il tempo alle imprese di tutelarsi in prospettiva di un contratto permanente. Per Sacconi c’è già l’apprendistato? L’apprendistato è già un contratto. E le imprese non sono sempre disponibili a farne. Berlusconi guarda al lavoro di Ichino. La proposta, e lo dice lo stesso Pietro, rischia

di non essere realizzabile senza mettere in campo importanti ammortizzatori sociali. Rischia di trasformarsi in una scappatoia per fare i licenziamenti. Secondo me, è di difficile attuazione in queste condizioni, perché costringerebbe le aziende a pagare altissimi sussidi, di due o tre anni. Dia un consiglio a Sacconi. Invece di mettere due dita negli occhi ai sindacati, dovrebbe tirare fuori lo Statuto dei lavori e legarlo ad altre misure già esistenti come l’apprendistato e e integrarlo con altre per combattere le finte collaborazioni. Qual è il suo obiettivo? Non faccio processi alle intenzioni. Maurizio crede in una forte liberalizzazione del lavoro e in un ridimensionamento delle relazioni sindacali su scala decentrata, essenzialmente aziendale. Propositi giusti, ma senza spingerci verso estreme conseguenze. Biagi non ha mai parlato di articolo 18. Nel Libro Bianco non c’è traccia.Venne chiesto un intervento in seguito dalla Confindustria di D’Amato e concesso da Maroni come sperimentazione per tre mesi. Lei ha vissuto per anni sotto scorta. Le ultime minacce le ho ricevute a settembre. Ma l’allarme di Sacconi mi sembra un po’ esagerato. Il che non vuol dire che non possa succedere qualcosa. Nel 2002 i servizi segreti avevano denunciato che c’erano turbolenze, oggi non arrivano segnali. Ma è anche vero che sono cambiati i luoghi di sofferenza del lavoro: l’industria è stata più colpita dalla cassa integrazione, ma la precarietà più brutta si trova tra false partita Iva o nelle piccole unità dei servizi. Sale la disoccupazione. Nei mesi scorsi si era congelata verso il basso. Paghiamo la crisi degli ordini e delle vendite, soprattutto alle grandi imprese, quelle che più hanno sofferto la crisi: vorrebbe dire che accanto al debito pubblico c’è un non meno grave problema di competitività. E che alcune imprese puntano ormai solo a ridurre la base occupazionale. Per l’Ocse le cose andranno peggio. Certo, perché molti Paesi hanno messo in campo soltanto misure tampone. Non basta soltanto la cassa integrazione.

«Ha ragione l’Ocse che le cose andranno peggio: abbiamo messo in campo soltanto misure tampone»

cando le perdite sulla clientela. Con meccanismi vieppiù sofisticati. Chi andasse a guardare i bilanci delle società, grandi e piccole, blasonate o meno, constaterebbe che gli “azionisti di controllo” sono sempre gli stessi. Immutabili. Le loro quote societarie sono granitiche. Quel che viene trattato in Borsa, dunque, è il cosiddetto “flottante”, che mai supera il 40-45 per cento del capitale sociale. Semmai, non raramente, accade che i grandi azionisti profittino delle crisi borsistiche per rimpolpare i loro “pacchetti”. Magari accantonandoli sotto opportune coperture, pronti a rivenderli allorché le Bore torneranno al bello. (È accaduto ed accadrà, possiamo esserne certi). Se i milioni di italiani che direttamente o indirettamente (cioè attraverso i Fondi) hanno messo i loro risparmi in Borsa ci hanno rimesso la camicia, nemmeno si sono salvati i più prudenti, coloro che si sono affidati ai titoli di Stato. Bot, Btp, Cct. Il ministero del Tesoro ha accumulato una montagna di debiti prossima ai 2mila miliardi di euro, il 120 per cento del Pil, la ricchezza annualmente prodotta. Peggio di noi sta soltanto la povera Grecia, con un debito pubblico intorno al 150 per cento del Pil. E sappiamo come sta andando a finire. Atene, dopo avere per anni (complici i governi dalla differente matrice, conservatori e socialisti), falsificato i bilanci così da venire accolta nel Club dell’euro, si trova sull’orlo della bancarotta. Ad evitare il peggio, le verrà concesso un “mezzo fallimento”: il taglio a metà del suo debito pubblico. In altri termini,

di ogni 100 euro ne pagherà 50. Il resto verrà condonato.

Ufficialmente ed a gran voce, si afferma che il “taglio2 non si potrà ripetere né in Italia né in Spagna (altro malato grave, che fra poche settimane andrà alle elezioni anticipate); ma possiamo metterci la mano sul fuoco? Le incertezze infatti si moltiplicano, e l’ultimissima emissione di Btp decennali ha toccato il tasso record del 6,06 per cento lordo. Non accadeva dal 1997, alla vigilia dell’euro! Così, chi detiene titoli di vecchia emissione trema. Se il valore nominale, corrispondente a quanto sborsato, è sempre 100, dovessero venderli in anticipo ne ricaverebbe assai meno: appena 88 per un Cct con scadenza 2017, ad esempio. Il che, tradotto in soldoni, dimostra quanto i timori sono grandi. Amare ciliegine sulla torta che comincia a puzzare di bruciato: il moltiplicarsi delle polemiche e dei personalismi. Il nostro premier Silvio Berlusconi, che si guarda ormai in cagnesco col superministro Giulio Tremonti dal carattere spigoloso e permaloso più di una bella donna, s’è lasciato scappare una frecciatina sull’euro (“E una moneta che non ha convinto”). Probabilmente un po’ di ragione l’ha, per quel che avvenne, Romano Prodi governante, accettando un cambio che ha fatto aumentare i prezzi al consumo; ma valeva la pena rimestare nel passato, e fattosi bacchettare, costretto a correggersi? La credibilità internazionale italiana non è certo confortata dall’“affaire” Lorenzo Bini Smaghi. Secondo un “patto fra gentiluomini”, l’economista toscano membro del direttorio della Bce (Banca centrale europea), avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni in coincidenza con l’arrivo di Mario Draghi alla presidenza. Invece s’è impuntato, e vuole restare, facendo schiumare di rabbia la Francia di Sarkozy che dopo l’uscita del Governatore Jean-Claude Trichet non avrebbe più voce nel supremo consesso della Bce. I lacunosi regolamenti non contemplano un caso del genere, ma è possibile che l’intero schieramento politico (sull’uscita di Bini Smaghi tutti concordano), si lasci tenere sotto scatto dalle pretese di chi doveva, per definizione, essere “un servitore dello Stato”? Pur senza voler tirar morali facili, s’ha la sgradevole impressione di trovarci, quantomeno sul delicato fronte economico-finanziario, in un’Italia con un debole nocchiero, mentre la tempesta rischia di aggravarsi: dalla crisi della Borsa a quella delle obbligazioni pubbliche, coi rischi di una ripresa dell’inflazione dietro l’angolo. Che sia l’ora di un Governo d’emergenza?


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il paginone

ovant’anni fa, il viaggio del Milite Ignoto. Per il ciclo dei 150 anni dell’Unità d’Italia, una mostra su un treno ricorda quell’evento che purtroppo fu forse l’ultimo a unire tutti gli italiani, prima della micidiale frattura rappresentata dall’arrivo al potere del fascismo. Non a caso la storiografia più recente ha identificato proprio in questa data il termine di una stagione come quella risorgimentale: alimentata ancora da ideali comuni di unità e libertà, ma anche di matrici culturali che parlavano a un Paese le cui radici affondavano nella tradizione contadina e rurale e a un sentimento diffuso di religiosità cristiana. La cerimonia religiosa di Aquileia prima e di Roma poi, nella solennità della Basilica di Santa Maria degli Angeli, rappresentavano appunto questa anima spirituale. Mentre il tema del “viaggio”della salma e la sua successiva inumazione all’interno del Vittoriano rimandavano alla cultura civile del nuovo Stato unitario.

N

Molti Paesi hanno oggi il loro Milite Ignoto, ma l’idea originale fu dell’italiano Giulio Douhet, il generale profeta della guerra aerea. Quello custodito all’Altare della Patria di fronte alla romana Piazza Venezia, dunque, ha un po’ un titolo di primogenitura. Alla proposta di Dohuet, venuta nell’agosto del 1920, seguì un lungo dibattito a proposito del luogo della sepoltura. Il Pantheon, assieme ai primi due re Vittorio Emanuele II e Umberto I? Oppure il Vittoriano, simbolo nazionale nove anni prima consacrato dalla festa per il cinquantenario dell’Unità? Dopo un anno intero di discussione, il disegno di legge arrivò infine nell’estate del 1921, seguito dalla relazione della Commissione preposta dal Governo. I motivi per cui fu scelto il Vittoriano: gli ampi spazi del Monumento che avrebbe permesso a tutti gli italiani di accedervi con più facilità, e il cui altare bianco rappresentava tutti i valori dell’Italia unita. Proprio per questa discussione, l’originaria idea di Dohuet per la sua realizzazione finì per essere preceduta da altri Paesi. Il Milite Ignoto francese, ad esempio, fu posto sotto l’Arco di Trionfo il 10 novembre del 1920, e il giorno dopo il Milite Ignoto Britannico fu collocato nell’Abbazia di Westminster. Attualmente, ci sono nel pianeta 52 Militi Ignoti. Per la maggior parte risalenti alla Prima Guerra Mondiale, ma non tutti. L’Argentina, ad esempio, ne ha uno della Guerra di Indipendenza. Il Perù uno della Guerra del Pacifico contro il Cile. La Russia e il Brasile della Seconda Guerra Mondiale. E c’è pure chi ne ha più di uno. Gli Stati Uniti, ad esempio, davanti al Milite Ignoto della Prima Guerra Mondiale al cimitero militare di Arlington, in Virginia, hanno poi messo un Milite Ignoto della Seconda Guerra Mondiale, uno della Guerra di Corea e uno della Guerra del Vietnam, ma quest’ultimo è stato poi identificato e restituito alla famiglia quando questa l’ha reclamato. E ci sono anche un Milite Ignoto della Rivoluzione Americana a Filadelfia e uno sudista della Guerra Civile a Biloxi, in Mississipi. Il Cile a sua volta ne ha tre in luoghi diversi, anche se tutti della Guerra del Pacifico. E in Egitto nel monumento a forma di Piramide che Sadat aveva voluto dedicare ai Militi Ignoti della Guerra del Kippur ha finito per essere sepolto anche lui, dopo l’omicidio. Ma tornando all’Italia, dopo la legge una commissione fu allora costituita:

Il convoglio ha simbolicamente ripercorso le 15 città di allora. E domattina, alla s

Il lungo viaggio del Novant’anni fa, da Aquileia, arrivava a Roma il Milite Ignoto. Oggi, tutta l’Italia gli rende omaggio con una mostra rievocativa a bordo di un treno di Maurizio Stefanini

composta da un generale, un colonnello, un tenente mutilato decorato di medaglia d’oro, un sergente pure decorato di medaglia d’oro, un caporal maggiore e un soldato semplice decorati di medaglia d’argento, in modo che tutti i gradi

vi fossero rappresentati. Partendo dallo Stelvio, i sei percorsero tutto l’arco del fronte, selezionando dai vari cimiteri di guerra una salma per ognuno degli undici teatri di operazioni: Rovereto; Dolomiti; Altipiani; Grappa; Mantello; Basso

Piave; Cadore; Gorizia; Basso Isonzo; San Michele; Castagnevizza-Mare. I corpi dovevano avere abbastanza elementi di identificazione da permettere di accertare che fossero di soldati italiani, ma non da arrivare alla loro identità. Tutte le madri di dispersi avrebbero dovuto poter sentire quel morto come il loro figlio... Se durante l’operazione di dissepoltura appariva un qualunque elemento che anche indirettamente potesse portare all’identificazione, come una mostrina o una fiamma, le spoglie venivano nuovamente sotterrate. Ma lo stesso si faceva anche se stoffa, stellette o


il paginone

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gavano, si chinavano piangendo lungo i binari. Senza alcuna preparazione o direttiva ufficiale, infatti, una gran folla aveva seguito in pellegrinaggio i viaggi delle spoglie, già prima che arrivassero ad Aquileia. Quando iniziò il tragitto ferroviario da Aquileia a Roma le direzioni dei partiti della sinistra già neutralista diramarono finalmente l’ordine di boicottare l’iniziativa “bellicista”. Ma quando il convoglio arrivò a Pordenone il locale sindaco socialista, Guido Rosso, disobbedì nel modo più clamoroso emanando a nome dell’amministrazione comunale un solenne proclama. «Il Soldato Ignoto rappresenta un dovere voluto od accettato, e adempiuto con perfetta coscienza di umiltà. Superiore ai partiti, alle fazioni e alle passioni per la propria virtù che lo sublima, deve da tutti, che nel sacrificio ravvisano una fonte dell’umano progresso, avere profonda reverenza e profondo ossequio. Inchiniamoci!».

stazione Termini, Napolitano lo accoglierà sulle note della «Leggenda del Piave»

soldato senza volto scarpe non permettevano di distinguere se il caduto fosse italiano o austriaco. Spesso, nelle zone dei più feroci corpo a corpo, i morti erano infatti stati sepolti tutti insieme... Particolarmente straziante fu la ricognizione dell’ultima salma: un caduto sul Carso, con le gambe spezzate e il capo perforato da proiettili di fucile. Ma un po’ tutte le esumazioni erano state accompagnate da scene toccanti. Quasi sempre furono infatti presenti cittadini, spesso parenti e congiunti di dispersi, cui la vista di quei corpi riapriva tutte le ferite mentali del conflitto. Quando poi il 26 ottobre 1921 le undici bare furono portate nel Duomo di Aquileia, su ognuna fu posto un crisantemo di un mazzo inviato da un’orfana di guerra di sei anni, Ines Meneguzzo di Bassano.

«Chissà che questi fiori non vadano al mio papa che morì e non fu trovato», aveva vergato con grafia infantile sul bigliettino di accompagnamento. A scegliere il corpo fu la triestina Maria Bergamas, simbolicamente individuata a rappresentare la città per cui la guerra era stata fatta. Le foto ce la mostrano ormai invecchiata e triste nel suo abito di lutto, ma ancora bella, coi capelli e occhi chiari e la statura slanciata da “mula” giuliana. Suo figlio Antonio, accesso irredentista, di leva nell’lmperial Regio Esercito Austro-Ungarico aveva disertaIn queste pagine, alcune fotografie che raccontano il toccante viaggio del Milite Ignoto, da Aquileia a Roma, di novant’anni fa. Oggi, l’Italia lo ricorda e lo celebra attraverso la mostra “Il viaggio dell’eroe” a bordo di un treno che ripercorre tutte le tappe di allora

Prima della trionfale sepoltura al Vittoriano, la salma riposò per tre giorni a Santa Maria degli Angeli. Oltre un milione di persone si raccolse per assistere alle cerimonie ufficiali to per entrare nel Regio Esercito italiano, ed era stato dichiarato disperso in combattimento. Narrano i cronisti dell’epoca che Maria Bergamas iniziò a camminare decisa, quasi avesse stabilito di voler passare in silenzio davanti a tutte le bare prima di fare la sua scelta. Ma passato il primo feretro fu vinta dalla commozione, e cadendo in ginocchio indicò la seconda salma, ormai incapace di proseguire. E fu quello il Milite Ignoto, omaggio simbolico agli oltre 600.000 caduti della Grande Guerra. Gli altri caduti furono quindi accompagna-

ti al cimitero di guerra di Aquileia, proprio vicino alla statua del Cristo che distoglie una mano dalla croce per carezzare il soldato ferito. La cassa del Milite Ignoto, rinchiusa in una seconda bara di zinco e in una terza di quercia, fu sistemata su un affusto da cannone a bordo di un vagone ferroviario, contrassegnata sul coperchio da una bandiera, da un fucile a da uno di quei tipici elmetti con la crestina della Grande Guerra. Cinque giorni durò il viaggio, rallentato dai commossi omaggi di milioni di persone che tiravano fiori, pre-

Ancora più clamoroso fu il caso di Casalecchio sul Reno, dove un comitato per le onoranze era stato costituito su iniziativa del sindaco comunista, Sandro Vito. Dal partito gli arrivò una circolare con l’intimazione di ritirare il suo impegno.Vito la stracciò, ed andò a inginocchiarsi al passaggio del treno. All’arrivo a Roma, oltre un milione di persone si raccolsero per assistere al momento finale della laboriosa traslazione della salma.Tra loro, almeno 300.000 erano venute da fuori Roma, affluite da ogni parte d’Italia. La salma riposò poi per tre giorni a Santa Maria degli Angeli, prima dell’apoteosi finale lungo Via Nazionale, seguita a piedi dal re Vittorio Emanuele III. «Il viaggio dell’eroe» è appunto un treno rievocativo: bagagliaio, locomotiva, tre vetture mostra, una carrozza cinema e un carro speciale. Con fotografie e documenti selezionati dall’Istituto Centrale del Risorgimento e filmati concessi in prestito da La Cineteca del Friuli e dall’Archivio storico Luce. Nel primo vagone sono esposti cimeli, foto e materiali relativi alla scelta del caduto a Aquileia. Nel secondo vagone, i materiali espositivi relativi al viaggio. Il terzo è dedicato all’arrivo e alla traslazione a Roma. Nel quarto c’è, come già ricordato, la sala video. Nel pianale sono sistemati il braciere e la bandiera originali, assieme all’affusto di cannone su cui era stato poggiato il feretro. Presentato alla stampa il 28 ottobre dal ministro della Difesa Ignazio La Russa e dall’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti al binario 1 della Stazione Termini di Roma, con il patrocinio della Presidenza della Repubblica e l’accompagnamento di una banda musicale allestita per l’occasione dal Ministero della Difesa, il convoglio è poi partito da Aquileia, per rifare il percorso esattamente come novant’anni fa. Sosterà infatti in tutte le 15 città di allora, Cerimonie commemorative con istituzioni e autorità sono previste a Udine, Treviso, Padova, Rovigo, Ferrara, Pistoia, Prato, Arezzo, Chiusi, Orvieto e Orte. E visite saranno possibili a Venezia, Bologna e Firenze. L’arrivo a Roma è previsto il 2 novembre, quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano accoglierà al binario 1 della Stazione Termini il convoglio sulle note della Leggenda del Piave. Mentre dal 3 al 6 novembre il treno sarà aperto alle visite per i romani e i turisti, al binario 29.


mondo

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Hanno votato a favore Francia, Cina e India; astenuta l’Italia. L’ammissione sarebbe il primo passo verso il Palazzo di vetro

Lo strappo dell’Unesco Sì alla Palestina nell’organismo dell’Onu Rabbia degli Usa: «Basta finanziamenti» di Pierre Chiartano n primo timbro sulla carta d’identità di uno Stato che sembrava un “effetto ottico” è stato messo: la Palestina è entrata nell’Unesco.Voto a sorpresa ieri, cancellerie internazionali in subbuglio, Washington interdetta, taglierà i fondi all’agenzia, con Parigi, Pechino e New Dehli che hanno votato a favore. Un grande applauso ha accolto il risultato della votazione avvenuta ieri a Parigi. È imprevedibile ciò che il voto d’ammissione nell’agenzia Onu potrà significare. Diplomazia coi nervi a fior di pelle dunque. Sono stati 107 i voti a favore e 14 contrari. Israele: «una tragedia». I palestinesi: «questo è un giorno storico». «Tra i Paesi che si sono astenuti (in tutto 52), l’Italia e la Gran Bretagna. La Farnesina: «non abbiamo raggiunto una posizione coesa». È probabile che ora gli Usa mettano uno stop a finanziamenti dell’agenzia Onu.

U

E il monito di Barack Obama, che restava ancora valido, «non ci sono scorciatoie per la pace e lo Stato palestinese», come aveva affermato a fine settembre nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu, non sembra contare più. La battaglia per il riconoscimento dello Stato palestinese da mesi si era spostata dai tavoli negoziali con lo Stato ebraico e i partner internazionali (il Quartetto), a contesti dove la politica dei fatti acquisiti – un riconoscimento all’Onu – poteva forzare i passaggi di un percorso infinito. Stati Uniti e Israele erano riusciti a evitare, a settembre, un voto che al Palazzo di vetro avrebbe ammesso lo Stato palestinese nell’Assemblea generale. Evitato quel “pericolo”, ieri, se ne è presentato un altro: l’Unesco, l’agenzia per l’educazione, la scienza e la cultura delle Nazioni Unite. Israele aveva lavorato intensamente per evitare il raggiungimento dei 2/3 dei voti a favore, vale a dire il risultato minimo che consentiva ai palestinesi di entrare nell’agenzia. Missione fallita per Gerusalemme. I Paesi che si sono astenuti sono 52, fra cui Italia e Gran Bretagna. Fra i 107 Paesi che hanno vota-

to a favore vi sono la Francia, oltre alla quasi totalità dei Paesi arabi, africani e dell’America Latina. Stati Uniti, Canada e Germania sono fra i 14 voti contrari.

Molto dura la reazione di Washington: «non possiamo accettare questa decisione», hanno sottolineato i rappresentanti Usa. Ancora più forte il commento di Israele. Si tratta di «una tragedia», secondo il portavoce di Gerusalemme. Mentre sull’altro fronte, per i palestinesi, è un giorno di festa. È stato questo il commento a caldo di Sabri Saidam, consigliere del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas: «questo è un giorno di festa, un giorno storico. Per noi – ha aggiunto – si tratta di uno dei pilastri nella nostra lotta per l’indipendenza, penso che siamo più che mai vicini a raggiungerla». Il voto, ha ancora detto, è un «grande messaggio» per chi, in seno al Consiglio di sicurezza, si oppone alla richiesta palestinese di adesione all’Onu. Per Hanan Ashrawi, importante esponente dell’Olp, si è trattato di «un trionfo dello spirito umano di fronte alle intimidazioni. È molto importante perché manda il chiaro messaggio che nel mondo vi è una maggioranza di Paesi che non vogliono rendere vittime i palesti-

nesi ed escluderli dalla comunità delle Nazioni», ha affermato la Ashrawi. L’Italia «ha optato per l’astensione in mancanza di una posizione coesa e unita dell’Unione europea», ha spiegato il portavoce della Farnesina. La difficoltà principale a cui lo Stato ebraico doveva a far fronte – qui come in altri consessi internazionali – era rappresentata dai grandi Stati arabi che sostenevano la richiesta di Abu Mazen. Missione fallita per Gerusalemme. Molti Paesi membri dell’Onu capivano perfettamente la posizione israeliana, ma sono stati sottoposti a pressioni da parte degli Stati arabi, i quali formano una vera coalizione. Lo stesso discorso vale per l’autocandidatura palestinese alla piena membership all’Onu.

Il dossier era stato presentato lo scorso 23 settembre dal presidente Abu Mazen, mettendo in seria difficoltà sia israeliani sia americani; ma il lavoro frenetico delle diplomazie era partito molto prima. Una guerra di nervi che da parte palestinese è meno simbolica che in passato, vista la presenza ormai importante sulla scena internazionale di un alleato: la Turchia. Ankara si muove ormai con perizia ed equilibrio, sa quando è il momento di alzare la voce, vedi il caso Mavi Marmara; e

Fra i 107 Paesi che hanno votato a favore vi sono la quasi totalità dei Paesi arabi, africani e dell’America Latina. Invece Stati Uniti, Canada e Germania sono fra i 14 voti contrari

Qui sopra, il «ministro degli Esteri» palestinese, Riad al-Maliki, ieri alla seduta dell’Unesco. A sinistra, la Segretaria di Stato Usa, Hillary Clinton. Nella pagina a fianco, il premier israeliano Netanyahu quando è il momento di non provocare: vedi la mancata visita a Gaza del premier Tayyip Erdogan nell’ultimo viaggio in Medioriente. Quindi in cabina di regia c’è un attore, la Turchia, che punta a regionalizzare

Israele, sfruttando il proprio ruolo di nuovo protagonista nel Grande Medioriente; che vuole tagliare la strada a Teheran in Nordafrica e stabilire una coesistenza d’interessi nel Meshraq. Uno scenario che ha pro-


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Le ombre di una scelta che rischia di compromettere ogni mediazione

È solo una forzatura (e non fa bene alla pace) Una decisione che getta discredito sulle istituzioni internazionali incapaci di avere una linea condivisa di Osvaldo Baldacci Unesco ha riconosciuto lo Stato palestinese. Dovrebbe essere una buona notizia, specie per chi crede che la soluzione della pace in Medio Oriente passi attraverso la soluzione dei Due Stati, come più o meno tutti ormai dicono. Invece non è una buona notizia. Non lo è neanche se si volesse circoscrivere la notizia sottolineando come l’Unesco sia l’organismo che si occupa di cultura e quindi potrebbe aver fatto una scelta tesa alla tutela del patrimonio culturale materiale e immateriale dei territori controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Sì, ma quali territori? Quali confini sono riconosciuti? E quali di queste zone sono realmente sotto il controllo dell’Anp e non sono invece autonome, anzi quasi secessioniste, sotto Hamas? Allora il punto è che questo riconoscimento finisce per essere non un sasso nello stagno che risulta una salutare provocazione per smuovere il cammino della pace, ma al contrario assomiglia di più a un cerino acceso gettato su un lago di benzina, capace di far deflagrare un gigantesco incendio in una situazione assai precaria. E che certo non sta vivendo il suo momento migliore, dato che le acque sono state appena smosse dalla liberazione dopo cinque anni del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di mille palestinesi. Siamo contenti per il caporale neopromosso, ma bisogna essere consci che questa scossa provoca delle conseguenze che vanno gestite con cura e pazienza perché diano risultati positivi e non invece controproducenti.

L’

Il commento di Israele: «È una tragedia». Per i palestinesi «è un giorno di festa». Roma «ha optato per l’astensione in mancanza di una posizione coesa e unita dell’Unione europea» babilmente reso possibile il colpo di mano all’Unesco. Il governo di Benjamin Netanyahu ha dato una mano, riuscendo a perdere i quattro pilastri della sicurezza regionale di Gerusalemme in poco tempo: i rapporti con Egitto,Turchia, Giordania e Siria. Con il solo felice intermezzo del rilascio del soldato Shalit, da anni nelle mani di Hamas. E se in una prima fase aveva saggiamente imposto il «silenzio stampa» ad ogni membro del governo, su quasi ogni argomento – laconiche e rare le dichiarazioni su Primavera araba e Siria – negli ultimi giorni il nervosismo traspariva dalle continue azioni di Tsahal, l’esercito di Gerusalemme. Comprese le ultime azioni a Gaza e nel West Bank. Giovanni Puglisi, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, prima ancora del voto, aveva già previsto l’esito favorevole.

«Temo che il voto della Conferenza Generale dell’Unesco sia favorevole all’ingresso a pieno titolo della Palestina. Del resto l’esecutivo si è già espresso favorevolmente con circa 40 componenti a favore su 55», aveva anticipato Puglisi. «Se la

Palestina entra scatta la legge Usa che vieta al Paese di restare in qualunque organismo internazionale dove siedano i palestinesi. Inoltre – ha spiegato Puglisi – il passaggio all’Unesco è ovviamente prodromo dell’ingresso nell’Onu. Se Obama fosse forte potrebbe anche non applicare la legge ma il presidente degli Stati Uniti è già in fase di rielezione e si trova con un Congresso a maggioranza repubblicana. Diverso sarebbe l’atteggiamento di Obama se fosse all’inzio del suo secondo mandato».

Se quindi i palestinesi entrassero e gli statunitensi uscissero, il primo effetto concreto sarebbe il danno alle casse dell’Unesco, che vedono gli Usa come primo finanziatore. L’Unesco dipende dagli Stati Uniti per il 22 per cento del suo bilancio, circa 70 milioni di dollari all’anno. Né l’amministrazione Obama, né Unesco vorrebbero che il taglio avvenisse, e i diplomatici stanno disperatamente negoziando con il Congresso Usa, con i palestinesi e con gli altri Stati membri dell’Unesco per trovare una soluzione per preservare il bilancio dell’agenzia.

fatto per ingenuità, torneremo dopo sulle preoccupazioni che destano queste scelte della Comunità internazionale. Per quanto riguarda Israele non giova certo alla situazione politica il fatto di farlo sentire sempre più isolato e accerchiato. Per la Palestina vale un altro discorso: hanno festeggiato come un evento storico questo riconoscimento, e infatti un evento storico è, però poi se si va a vedere bene nel dettaglio si tratta di un pezzo di carta dallo scarso valore che serve solo come un contentino che può in realtà peggiorare le cose. Infatti non solo mancano i riconoscimenti più importanti (e per la verità non mi risulta che gli Stati che hanno votato per il riconoscimento all’Onu diano poi un pieno riconoscimento allo Stato palestinese nei rapporti bilaterali), ma oltretutto manca un aspetto elementare della costituzione di uno Stato, vale a dire il controllo del territorio. Questo è l’obiettivo che l’Anp deve raggiungere, ed è particolarmente evidente che può raggiungerlo solo attraverso il dialogo con Israele. Né la lotta armata né i pezzi di carta /che sono poco più di mere enunciazioni di principio, non andando a toccare nessuna delle vere questioni aperte) potranno dare ai palestinesi quello Stato che possono ottenere solo nel processo di pace.

Secondo punto. Non mi sembra che la Comunità internazionale (e di conseguenza le sue decisioni) esca rafforzata da pronunciamenti di questo tipo. Intanto emergono tutte le divisioni profonde fra gli Stati, mettendo in evidenza ciò che divide invece di ciò che può progressivamente unire. E poi risulta esserci una eccessiva fioritura di pronunciamenti politici da un numero eccessivo di organismi del tutto scoordinati tra loro. L’Unesco, organo dell’Onu, riconosce uno Stato che l’Onu non riconosce e via così. Di questo passo l’unico risultato ce si otterrà è una perdita secca di autorevolezza e credibilità da parte degli organismi internazionali. In breve, gli ultimi punti. Irritando Paesi come gli Usa, l’Unesco danneggia se stessa mettendo a rischio una parte assai rilevante dei finanziamenti. Ultimo flash: la votazione ha messo in evidenza ancora una volta la divisione tra gli Stati, e in particolare ne è uscita malissimo l’Europa, i cui membri continuano sempre più a perseguire interessi tattici singoli piuttosto che costruire una politica estera comune quanto mai necessaria nel mondo globalizzato. Si pensa che potenze come Cina e Russia abbiano votato favorevolmente tanto per sport o al contrario hanno ben chiaro il ruolo che vogliono svolgere nel mondo di domani?

Non basta nemmeno la motivazione “culturale” fatta in nome della tutela del territorio: quali confini ha, questo territorio?

I punti problematici di questa scelta di ieri sono molteplici. Riguardano anche l’Unesco stessa e persino l’Europa, però cominciamo dalla questione mediorientale. Risulta abbastanza evidente – e non solo dalle reazioni brusche di Israele – che ogni decisione di questo tipo finisce per essere non un passo verso la pace ma un ostacolo posto su quel cammino. È senz’altro vero che il dialogo per il processo di pace appare abbastanza fermo da un certo tempo, ma al contempo da un lato non ci sono state neanche crisi troppo gravi negli ultimi tempi dall’altro qualcosa sotto sotto si muove se nel silenzio si è comunque arrivati all’accordo per lo scambio di prigionieri. Questa poi è necessariamente una fase di attesa, per palesi motivazioni esterne: con tutto quello che è accaduto e sta accadendo nel mondo arabo, con il cambio di molti regimi fondamentali e l’incertezza e la tensione per altre situazioni, è inevitabile che ci si debba muovere con i piedi di piombo per evitare di dare scossoni controproducenti. Che è invece quello che è stato fatto. Siccome però crediamo che non sia stato


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grandangolo Parla la storica che ha appena pubblicato il suo ultimo libro

«La Russia di Vladimir Putin è al tramonto. E nel 2018 lo zar uscirà di scena» Per Hélène Carrère D’Encausse, segretario dell’Accademia di Francia e massima esperta di storia russa, il putinismo volge alla fine. E benché le prossime elezioni non saranno democratiche, quelle successive potrebbero esserlo. Perché c’è una nuova generazione di giovani che guarda al futuro e che presto sarà capace di imporre i propri leader di Luisa Arezzo ei prossimi sei mesi i cittadini russi saranno chiamati a due tornate elettorali: le parlamentari (che si terranno a dicembre di quest’anno) e le presidenziali (che si terranno il prossimo marzo). Non sfugge a nessuno che anche i processi in tribunale dei grandi oligarchi facciano parte di questo grande gioco. Un gioco che tuttavia, almeno nel breve periodo, risulta essere poco trasparente e decisamente poco democratico. Ne è testimonianza lo “scambio” di ruoli concordato da Putin e Medvedev e annunciato al mondo già alcune settimane fa. Scambio che potrebbe permettere a Putin di governare il Paese altri dodici anni e farne il più longevo politico alla guida del paese, con una permanenza che potrebbe durare - in totale - 36 anni, polverizzando i record del simbolo della stagnazione, Leonid Breznev (appena 18 anni), ma superando perfino Stalin (31) e lo Zar Pietro il Grande (33). Secondo Hélène Carrère d’Encausse, segretario permanente dell’Accademia di Francia, considerata la più autorevole storica vivente della Russia (e dell’ex Urss), invece, non sarà così. E Putin potrebbe essere costretto a cedere il suo scettro dopo il primo mandato di presidente, ovvero nel 2018 visto che dura sei anni. Nessuno scommetterebbe granché su questa ipotesi, lei invece si dice convinta. Perché? Perché la nuova generazione di cittadini russi, quella nata dopo il crollo del Mu-

N

ro e adesso appena ventenne, avrà una maggiore consapevolezza e potere. Putin non è il loro leader più amato, sta sì cercando di riportare la Russia ai vecchi fasti di potenza (cosa che i giovani chiedono), ma non è, politicamente parlando, un vero punto di riferimento. Ma come riusciranno queste “novelle”generazioni a mandare a casa un uomo che di fatto controlla e comanda il funzionamento dello Stato? Un uomo che non permette la nascita di nuovi partiti politici e l’ascesa di nuovi leader? È solo questione di tempo. La Russia è

profondamente incapaci di pensare a sè stessi. Figuriamoci di pensare seriamente alla democrazia. Al massimo, questa era un’utopia. Ma adesso le cose sono diverse. L’opinione publica sta maturando, c’è una nuova classe sociale che comincia ad essere un pochino più felice della precedente e che è pronta a guidare un cambiamento. Quanti anni saranno necessari? Diciamo cinque. Diciamo che alle prossime elezioni, quelle del 2018, ci saranno in lista delle alternative a Putin, vere

«Il vero problema non è la politica, ma la corruzione. È qui che si gioca il futuro di Mosca e del Cremlino» un paese recente, che ha cominciato a parlare di democrazia dopo 75 anni di regime comunista, di vero ed endemico sistema comunista. Per tre generazioni i cittadini non hanno conosciuto altro, e dopo il crollo del Muro erano ancora

e credibili. Adesso è ancora presto, adesso è ancora il momento del triste passaggio di consegne fra Putin e Medvedev, chiaramente non democratico. Le prossime elezioni saranno una far-

sa, non c’è dubbio. Ma è un passaggio obbligato che la Russia deve attraversare, è il suo prezzo da pagare per fare un passo verso un diverso futuro. Secondo molti esperti, non è invece esclusa un’involuzione del sistema politico. Lei non vede questo rischio all’orizzonte? No. Sono certa che la Russia non stia tornando indietro nel tempo e che non tornerà ad alcuna forma di autoritarismo in stile sovietico. Mosca vuole di nuovo essere rispettata e avere un peso specifico da grande potenza sullo scacchiere internazionale. Il problema principale, in questa delicata fase, non è la democrazia né tantomeno il vulnus politico. Il vero problema che la Russia deve affrontare è quello della lotta alla corruzione. È questo il male che realmente attanaglia la società, senza fare distinzioni di sorta. Colpisce il contadino quanto l’oligarca. È un male trasversale ed endemico, che non conosce età. E come si combatte? Ci vorranno almeno dieci anni di lotta serrata, ma il tema è sul piatto, tutti ne sono consapevoli. Due anni fa Medvedev ha scritto un articolo in cui metteva la lotta alla corruzione in testa alla sua agenda politica. La gente è consapevole di questo. E Putin sa che se non farà nulla per arginare questo male la situazione gli sfuggirà di mano velocemente. Non verrà perdonato dal suo popolo. Non verrà perdonato dalla nuova generazione che lo incalza.


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Derby russo davanti all’Alta Corte di Londra

Abramovich contro Berezovsky di Laura Giannone ra stuoli di avvocati e guardie del corpo va avanti a Londra il processo che vede scontrarsi due dei più noti oligarchi russi: Roman Abramovich e Boris Berezovsky. E ieri, davanti all’Alta Corte, il patron del Chelsea calcio, grande amico di Putin (che però ha definito il ritorno dello “Zar”al Cremlino «un fattore di rischio) e della bella vita, si è dovuto difendere dalle accuse del suo ex socio (nonché ex consigliere di Eltsin). È la seconda puntata di una saga che durerà fino alla prossima primavera e che ha già visto Berezovsky difendersi dalle accuse di corruzione mossegli dai legali di Abramovich. «Non sono un corrotto», aveva detto il miliardario riparato in Inghilterra dopo essere entrato in collisione con la presidenza Putin nel 2001. «È Abramovich il traditore» che ha dimostrato di essere interessato «più alla ricchezza e al potere, che all’amicizia e alla lealtà». Ma facciamo un passo indietro: Il magnate auto esiliato in Gran Bretagna ha citato in giudizio l’ex socio per averlo costretto, attraverso «minacce e intimidazioni» a vendere a ribasso le quote della compagnia petrolifera Sibneft, che avevano acquistato insieme. Berezovsky temeva che, in caso di rifiuto, Abramovich avrebbe chiesto a Putin di espropriarle.

T

In Russia c’è anche un problema di libertà di stampa. Molti dei giornalisti che hanno osato scoperchiare qualche pentola sporca hanno fatto una brutta fine. Mi ripeto: è solo questione di tempo. Non ci sono solo i giornali, c’è anche internet ormai. Certo, forse ancora l’accesso alla rete non è esattamente libero, ma le notizie passano i blocchi, si diffondono, circolano. Se Vladimir Putin non risolverà la questione, crollerà ancora prima di quanto predetto. La gente

«La gente è ormai pronta a scendere in piazza e a fare una rivoluzione. Ecco perché il timone presto passerà di mano» insoddisfatta è pronta a scendere in piazza e ad organizzare delle rivolte. Il problema dei media è relativo. Forse, ma conta decine di giornalisti misteriosamente uccisi. C’è una lista regolarmente aggiornata con tanto di nomi e cognomi. Il deficit democratico è così grave che sembra impossibile immaginare un cambio di rotta in tempi tanto brevi. Se la Russia vuole contare nel mondo, non ha alternative. Deve cambiare. Al momento, il cambiamento prevede una nuova alleanza con le repubbliche ex sovietiche. Putin ha chiamato questo In alto: Hèléne Carrere d’Encausse con il presidente Sarkozy. A sinistra: la copertina del suo ultimo libro e in alto Vladimir Putin. A destra: Abramovich

disegno geopolitico la nuova alleanza euroasiatica. Infatti ha appena firmato un trattato di libero commercio con molte ex repubbliche: Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, Armenia, Kirgikistan, Moldavia, Tagikistan, Uzbekistan e a breve entreranno anche Azerbaigian e Tagikistan. Ma questo lei non lo vede come un passo indietro? No. Direi che è un successo politico. Putin sta utilizzando i legami contratti durante l’epoca sovietica per far crescere strategicamente la Russia. L’Europa d’altronde è in declino, sono francese e mi creda se le dico che mi dispiace ammetterlo, ma è così. Mosca continuerà a considerare il Vecchio Continente un alleato, ma è consapevole che non sarà l’unico. Oltre all’alleanza euroasiatica, la Russia punta sul Brics (e soprattutto sul Brasile, la Cina e il Sudafrica) e il Medioriente. D’altronde i suoi confini arrivano all’Iran... Più che i suoi quelli del Turkmenistan... Sì, ma gli ex paesi sovietici sono ancora fortemente legati alla Russia, lavorano assieme. Mosca è a suo modo fortunata, perché si trova nel mezzo di varie culture: quella europea, quella mediorientale e quella orientale. È un immenso Paese che governa culture completamente diverse e questo può avere un peso decisivo nel nuovo mondo che si sta delineando. In questo nuovo mondo le relazioni con gli Stati Uniti che peso avranno? Per Mosca, l’America resta un sogno, anche adesso che non è più la superpotenza di un tempo. È con gli Usa che la Russia vorrebbe più avere a che fare. E con l’Italia? Una forte amicizia lega il nostro premier a Putin... Vladimir Putin è più interessato alla Germania e agli Usa che all’Italia. Per lui Berlusconi non è così importante. Mentre lo sono Angela Merkel e Barack Obama.

Nell’accusa presentata a carico di Abramovich, Berezovsky ha sostenuto che lui e il magnate georgiano Arkadi“Badri”Patarkatsishvili detenessero metà delle azioni di Sibneft, ma che Abramovich se ne fosse appropriato a un prezzo di realizzo quando, nel 2005, il proprietario del Chelsea vendette l’intera compagnia al colosso Gazprom per 8 miliardi e mezzo di sterline, con ampi margini di realizzo. Roman Abramovich ha respinto le accuse al mittente sostenendo che il denaro da lui versato a Berezovsky non avesse nulla a che fare con l’acquisto del 21,5% di Sibneft, ma che fosse una parcella per «la sua protezione e la sua assistenza politica» durante la transazione. Una versione dei fatti che non ha convinto né la Corte d’appello londinese né la stampa britannica. Il Daily Telegraph, ricorda che Berezovsky è stato in passato «il mentore di Mr. Abramovich ed è già riuscito a scampare a diversi tentativi di assassinio a Londra». Berezovsky, oggi nemico numero uno di Mosca, ha chiesto un risarcimento di due miliardi di sterline. Fino adesso, però, Abramovich ha respinto ogni addebito, anche se i suoi tentativi di annullare il processo sono sempre stati respinti dalla Corte d’appello di Londra. I legali dell’imputato hanno ribattuto che non esistevano accordi, «se non verbali», e hanno accusato l’oligarca caduto in disgrazia di aver usato la corruzione per mettere in piedi la Sibneft. Usare contatti col Cremlino negli anni post-sovietici non è una prova di corruzione, si è difeso il magnate. Che ha poi spiegato come il fine principale dietro la creazione della compagnia petrolifera fosse quello di istituire un flusso di fondi per il canale televisivo Ort, di cui era azionista, considerato ai tempi l’unico mezzo per promuovere la democrazia in Russia.

i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


cultura

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Dal caso-Scazzi ad Amanda Knox, passando per il delitto di Yara Gambirasio. Sono molti gli spunti di oggi. Eppure, da noi, non sembra esserci alcun Capote

Come letteratura crea Fino a che punto, ormai, le storie di cronaca nera influenzano gli scrittori di romanzi gialli e viceversa? di Pier Mario Fasanotti on quasi cent’anni di ritardo (rispetto agli anglosassoni) gli italiani si scoprono tutti giallisti. Il colore di questo genere di racconti veri si spalma in televisione, e così si moltiplicano programmi di focalizzazione se non di indagine vera e propria. Le reti Mediaset rincorrono maldestramente formule di grande successo come Chi l’ha visto? della bravissima Federica Sciarelli, e talvolta le ricostruzioni di antichi delitti e intrighi criminal-politici presentateci, con acume narrativo, da Carlo Lucarelli. Rai 3 diventa così imbattibile. Tutto il resto mediatico irrita per la sua genericità o per un disinvolto quanto vomitevole voyeurismo. A tal punto che viene da dire: e basta con questo “zi’ Michele” del delitto di Avetrana. Questo contadino così abile da passare in poche ore dalla parte del poveretto risso solo di lacrime a quella dello gnorri fino a lasciarsi andare a un’impennata d’arroganza dando della cretina a una reporter tv, grazie forse all’acquisita consapevolezza d’essere lui, solo lui, il prim’attore, il perno di una storia squallida e ambigua. Un sospiro di sollievo l’abbiamo avuto con la scarcerazione di Amanda Knox (delitto di Perugia), prima vista come la killer depravata dal volto candido e poi - davvero efficaci le parole dell’avvocato Buongiorno - come una Jessica Rabbit fatta muovere ad arte dalla matita di chi la voleva più lady Macbeth («Che io possa riversarti nelle orecchie i demoni che ho dentro»: Shakespeare, nell’omonimo dramma teatrale) che bambolina graziosamente americana solo sfiorata dal tritacarne vizioso dell’Italia di provincia.

C

E così via: dalla pallida adolescente ginnasta trovata morta in un bosco di Lombardia alla moglie del militare che sarebbe

stata uccisa nel momento in cui baciava il suo carnefice. Una volta appurata la sconcertante pochezza di certe ricostruzioni televisive, sbuca questa domanda: c’è da noi qualche ottimo giornalista d’inchiesta in grado di confrontarsi con Truman Capote che partì dallo studio di un delitto per arrivare a scrivere il suo capolavoro, A sangue freddo? Temo di no, in attesa di smentite, evitando appositamente di tirare in ballo

Ci si consola con “Menti criminali”, antologia di inchieste delittuose scritte da alcune prime penne di giornalisti americani

Dostoevskji che dopo la lettura sul giornale di un banalissimo crimine riassunto in poche righe si cimentò a cercare le ragioni di un gesto uguale, ed eternamente presente nella vita, con Delitto e castigo: non si abbia la presunzione di troppo grandi aspettative. Non credo eguagliabile oggi un testo come Cuore di tenebra di Conrad, a meno che lo si voglia barattare con prodotti

commercialmente appetibili ma letterariamente bassi, molto bassi, come i fumetti che s’ispirano a Dylan Dog.

Fumetti, appunto, storie a una sola dimensione, pasto per gli occhi e mai per l’anima che lacrima e ragiona. Ci si può consolare, o comunque è possibile riempire un vuoto letterario-giornalistico, leggendo Menti criminali (Einaudi, 290 pagine, 19,50 euro). Un’antologia di inchieste delittuose scritte da alcune prime penne dei newspapers-man americani. Sembrano ottimi soggetti per serial televisivi o romanzi in miniatura. Scrive Corrado Augias nella prefazione: «I nove casi contenuti in questa raccolta raccontano storie di crimini individuali commessi sullo sfondo di una società dove l’abbandono e il disorientamento possono diventare delitto». Infatti la ragione o la radice profonda dei crimini è facilmente individuabile in infanzie di violento abuso, di trascuratezza emotiva, di solitudini che galleggiano in un puzzle sconcertante in quanto mai spiegato, e nemmeno chiarificato nell’anima delle vittime inevitabilmente (così insegna anche la Psicologia) destinate a trasformarsi in efferatissimi e seriali carnefici. Così come quando noi lettori di giornali ci meravigliamo all’arresto di un uomo o di una donna “qualunque”, con apparenza rispettabile se non addirittura marchiata da serietà sociale, ecco, allo stesso modo, si comprende che «la cronaca nera e la narrativa gialla del resto sono

In queste pagine: Amanda Knox; le copertine dei libri “Menti criminali” e “A sangue freddo”; Federica Sciarelli nella redazione di “Chi l’ha visto?”; Salvo Sottile, conduttore di “Quarto Grado”; la piccola Sarah Scazzi; un disegno di Michelangelo Pace

sempre state divise da pareti sottili, comunicano facilmente, sono frequenti gli sconfinamenti» (annotazione di Augias). È proprio l’oltrepassare una certa “soglia”l’avvio del meccanismo delittuoso, solitamente inarrestabile. L’interesse del grande pubblico per queste storie che grondano sofferenza e obbrobrio va spiegato con le parole dello scrittore André de Lorde: «Da quando le grida delle Eumenidi risuonarono per la prima volta nei teatri dell’antica Grecia, gli esseri umani non hanno più smesso di appassionarsi allo spettacolo, reale o fittizio, del delitto e del sangue». Un misto di fascino e di disgusto: ecco la reazione dello spettatore innocente, il quale si fa sempre più convinto di ciò che scrive Augias: «Sappiamo che se alla ferocia si unisce una componente sessuale i due poli elettrici di questa reazione (disgusto e fascino, ndr) raggiungono e stimolano la parte più delicata della nostra sensibilità». La raccolta presentata dalla Einaudi pone comunque in risalto l’ondata di violenza che sovente si scatena nella società americana, rendendola tellurica e misteriosa. La soluzione di un caso - vera catarsi per chi lo segue nell’ondeggia-

re di opposte emozioni - a volte si riconduce alla fortuna di qualche investigatore, dopo anni di sbadataggine, di mancanza di intuizioni o, come diceva un filosofo, della capacità di “rilegare” certi fatti secondo un metodo che ricorda quello di Immanuel Kant, ossia analizzare piccole porzioni di realtà per illuminare il mondo.

A sbrogliare le carte c’è spesso un investigatore non propriamente stimato dai superiori, un detective magari incolto ma così testardo da raggiungere impreviste competenze. È il caso, scritto da David Grann e intitolato True Crime. Lo scenario è la Polonia. Nelle acque ge-


cultura

lide del fiume Oder viene scoperto da alcuni pescatori («l’insenatura pullula di pesci persici, lucci e persici sole») un cadavere con un cappio al collo e le mani legate dietro la schiena. Indosso aveva solo una felpa e biancheria intima. Evidenti segni di tortura e di un lungo digiuno. Si chiamava Dariusz, trentacinquenne pubblicitario, riconciliatosi da poco con la moglie, hobby della chitarra, affabile, mite secondo le dichiarazioni della vedova. Un rompicapo quel caso, e così dopo sei mesi l’indagine venne lasciata cadere per l’«impossibilità di trovare l’autore o gli autori», secondo la decisione del Pm. Al mistero s’interessa, tre anni dopo, il caparbio Jacek, investigatore del dipartimento di polizia di Wroclaw. Cominciò a studiare il dossier appena estratto dalla cassaforte. Jacek, alto, goffo, viso roseo, era abituato a lavorare in borghese: la gente si fidava di lui perché pensava che non avesse motivi per essere intimorita. Apparentemente ingenuo e ri-

gido, di sera studiava psicologia perché voleva comprendere «la mente criminale». Aveva abbastanza esperienza da sapere che nei casi irrisolti «la chiave per capire il delitto è spesso un indizio trascurato sepolto nelle carte originali». Intuì comunque che il cadavere così come si era presentato indicava segni di umiliazione, anche se non erano stati riscontrate tracce di abusi sessuali. Jacek scopre che la vittima ricevette una telefonata in base alla quale doveva incontrarsi nel pomeriggio con una perso-

na. Uscì dal suo ufficio lasciando nel parcheggio la sua Peugeot. Esame dei tracciati telefonici: la chiamata proveniva da una cabina telefonica, nei pressi. Altro elemento strano: non era mai stato trovato il cellulare di Dariusz.

La Polonia in quegli anni non era certo all’avanguardia informatica, tuttavia il detective scoprì che il telefonino era stato venduto su un sito di aste on line. Il compratore si era registrato come “ChrisB”. Si risalì a un intellettuale trentenne po-

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lacco di nome Krystian Bala. Un tipo strano. Jacek scoprì che Bala aveva pubblicato un intricato e sanguinolento romanzo intitolato “Amok”, straripante di sadismo e di pornografia. In copertina il disegno di un caprone, simbolo del diavolo. L’investigatore dalle sporadiche letture lo esamina da cima a fondo. Si sofferma anche in passi a lui un po’ ostici, come quando l’autore elegge a proprio “maestro” il filosofo Ludwig Wittgenstein e cita spesso brani di Nietzsche, come per esempio: «Le verità sono illusioni che hanno dimenticato di essere tali». A Bala piaceva molto l’idea del super-uomo, così come piaceva far passare come veri, di fronte agli amici, racconti su di sé che, con il passare del tempo diventavano miti ossessivi. Sempre agli amici confessava di odiare le «convenzioni», assicurava di essere «capace di tutto». E insisteva: «Non vivrò a lungo, ma vivrò al massimo». Bala era anche un libertino. Che poi sposò una compagna di liceo. Si iscrisse al dottorato in Filosofia, poi cambiò idea per ragioni economiche e aprì una società di pulizie: «La realtà è arrivata e mi ha dato un calcio nel culo». Dopo il divorzio viaggerà all’estero per poi tornare in Polonia «pieno di rabbia». Beve tanto, sputa volgarità, uccide una sua fidanzata, Mary: «Le strinsi il cappio attorno al collo, tenendola giù con una mano, e con l’altra mano le affondai il coltello sotto il seno sinistro». È un episodio del romanzo o realtà? Di certo è che l’ispettore considera “Amok” come un punto di partenza, addirittura una prova indiziaria. Nello scritto, Chris

(nome anche del protagonista) insinua di aver ucciso anche un uomo. E precisa: «Un uomo che dieci anni fa si è comportato male con me». La polizia consulta una psicologa, che ovviamente risponde che l’autore del romanzo è una personalità psicopatica con evidenti pulsioni sadiche. E ancora: rapporti irrisolti con i genitori e vocazione omosessuale repressa. Ovvia l’avvertenza: «Basare un’analisi dell’autore sul suo personaggio di fantasia sarebbe un grossolano errore». All’investigatore serviva solo una cosa: la confessione. Bala, arrestato, accettò di sottoporsi al test della macchina della verità. Risultato non fu conclusivo. L’intellettuale dall’apparenza mite divenne ben presto una «cause Célèbre». O «un caso assurdo». Alla fine la polizia scopre un legame tra Dariusz, cadavere trovato nell’Oder, e Bala. S’incontrarono in un locale notturno. Dariusz aveva abbordato Stasia, la moglie di Bala, ed entrambi si erano registrati in un motel. Non accadde però nulla: nessuno dei due voleva sconvolgere il proprio matrimonio.

Durante il processo, Krystian Bala era stato piazzato al centro di una gabbia di ferro. Scrutava l’aula. Nel suo reportage, il giornalista americano scrive: «Un processo si fonda sull’idea che la verità è, in qualche modo, raggiungibile». Eppure è anche, come ha osservato la scrittrice Janet Malcolm, una lotta tra «due narrazioni in competizione» e «la storia che meglio sa resistere all’attrito delle regole e dell’evidenza è la storia che vince». Certo, ma c’è anche un uomo accanto al libro che ha scritto, ove l’autore confessa di aver voluto stuprare la madre. Verdetto: colpevole. Il giornalista americano ha incontrato Bala. Il quale ha detto: «Tutta questa vicenda è una farsa, sembra scritta da Kafka... sono stato condannato a venticinque anni per aver scritto un libro, un libro!... ma non vede che cosa stanno facendo? Stanno costruendo questa realtà e mi stanno costringendo a viverci dentro». Bala teneva tra le mani una copia consunta del suo romanzo. Successivamente la Corte d’Appello annullò la sentenza originale. Tuttavia Bala non è stato fatto uscire dal carcere. In attesa del nuovo processo, il dottor Bala ha iniziato a scrivere il suo secondo romanzo. Promettendo che sarà «ancora più scioccante del primo».



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