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he di cronac
La politica è una faccenda troppo seria per essere lasciata ai politici
Charles De Gaulle
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 17 NOVEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Oggi la fiducia al Senato, domani alla Camera. Intanto arrivano gli auguri e i «complimenti» anche dal Vaticano
Il governo della speranza Monti dà il via a un’impresa difficile ma decisiva per la nostra storia Ha tentato fino all’ultimo di avere dentro i partiti ma poi si è convinto: «Forse è meglio così. E adesso andiamo avanti di corsa». Passera superministro, tre donne: una squadra di alto profilo Presidente del Consiglio e ministro dell’Economia
Mario Monti Sottosegretario alla presidenza del Consiglio
Corrado Clini
Antonio Catricalà
Lavoro e politiche sociali
Affari Esteri
Elsa Fornero
Giulio Terzi di Sant'Agata
Salute
Interni
Renato Balduzzi
Anna Maria Cancellieri
Università e Istruzione
Giustizia
Francesco Profumo
Paola Severino
Beni Culturali
Difesa
Lorenzo Ornaghi
Giampaolo di Paola
Senza portafoglio
Sviluppo economico, Infrastrutture e Trasporti
Enzo Moavero Milanesi Piero Gnudi Fabrizio Barca Piero Giarda Andrea Riccardi
Corrado Passera Politiche Agricole
Mario Catania
LA MISSIONE
Per salvare il Paese, per aprire la Terza Repubblica
Il neo-premier presenta la sua squadra
Le prime reazioni: qualche mugugno nel Pdl
Che bella scoperta: la classe dirigente
Un coro di evviva ma Calderoli s’infuria
I
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
di Errico Novi
di Marco Palombi
ue cose su tutto. L’idea di eccezionalità che ispira la giornata di Mario Monti e la storia di molti dei suoi sedici ministri. Sono i due paradigmi, i due fuochi di un planetario nuovissimo per le istituzioni e per l’Italia. Nasce il 63° esecutivo della storia repubblicana, ma è diverso da tutti gli altri.
e battute su Passera ieri si sprecavano, nei commenti sentiti a Montecitorio. Più sobri i commenti ufficiali, con Pd e Terzo Polo a sostegno del nuovo governo, il Pdl sconta ancora la rabbia per aver perso palazzo Chigi, Italia dei Valori indecisa e la Lega felice di tornare nelle osterie padane.
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D
di Osvaldo Baldacci eri alle cinque del pomeriggio è sorta una nuova alba. Come sarà il nuovo giorno dipende da noi, ma che si sia arrivati a un nuovo inizio è certo. Col giuramento di questa particolare squadra di ministri molto è cambiato. Guai ad esprimere la soddisfazione di chi crede che siamo ad un punto di arrivo. Siamo al contrario ad un punto di partenza. Si è aperta una nuova strada, e questo è fondamentale, visto dove ci stava portando quella vecchia. Ma percorrerla, e farlo fino in fondo, e trovare le mete giuste, questo è un impegno tutto di affrontare. Non ci possiamo esimere dal mettere in evidenza come, più ancora della lista dei nomi, delle competenze e del modo in cui sono state fatte le scelte, le immagini già segnano una forte discontinuità con il mondo precedente. Innegabile che ci sia un forte segnale di grigia professionalità: non è negativo, è un segno di serietà e di decoro rispetto al mondo dell’apparenza cui eravamo stati abituati. Da una parte e dall’altra, da un clima generale. Credo che un mondo sia finito, e che volendo dar via una moneta fuori corso, saranno tutte e due la facce a finire in archivio. Questo governo porta una grande ventata di novità assolutamente necessaria. a pagina 7
Ambiente
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I «consigli» di Onida, Sapelli e Vaciago
Come leggere una mostra sulla Dc alla luce di oggi
Ecco l’agenda dei primi cento giorni
La prevalenza (storica) del Centro in politica
di Francesco Lo Dico
di Riccardo Paradisi
on sarà facile, ma il nuovo governo deve avviare subito tre rivoluzioni: quelle del fisco, del mercato del lavoro e delle pensioni. È questo il consiglio a Monti e Passera lanciato da tre economisti: Valerio Onida, Giulio Sapelli e Giacomo Vaciago. L’importante è muoversi subito.
entre Mario Monti presenta la squadra del suo nuovo governo a due passi da Montecitorio, nel tempio di Adriano di piazza di Pietra, s’inaugura una grande mostra sulla Democrazia cristiana. Se non si tratta di una coincidenza significativa è però un sincronismo importante.
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
223 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 17 novembre 2011
IL NUOVO ESECUTIVO
il governo Monti
ANTONIO CATRICALÀ
GIULIO TERZI DI SANT'AGATA
ANNA MARIA CANCELLIERI
PAOLA SEVERINO
GIAMPAOLO DI PAOLA
CORRADO PASSERA
MARIO CATANIA
CORRADO CLINI
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Fino a oggi ha ricoperto il ruolo di presidente dell’Antitrust
Ministro degli Esteri. Bergamasco, classe ’46, ex direttore politico alla Farnesina, è ambasciatore d’Italia a Washington
Ministro dell’Interno. Romana, 67 anni, ex commissario straordinario al Comune di Parma e a Bologna
Ministro della Giustizia. È l’ex vicepresidente del Consiglio della Magistratura Militare, è vice rettore dell’Università Luiss di Roma
Ministro della Difesa. 67 anni, di Torre annunziata, è ammiraglio e presidente del Comitato militare della Nato
Ministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti. È amministratore delegato di Intesa Sanpaolo
Ministro dell’Agricoltura. Nato a Roma nel 1952, dal 2009 è capo Dipartimento delle politiche europee dello stesso dicastero
Ministro dell’Ambiente. Nato a Latina, 64 anni, è l’attuale dg per lo Sviluppo sostenibile, il clima e l’energia dello stesso ministero
ROMA. Due cose su tutto. L’idea di eccezionalità che ispira la giornata di Mario Monti, e lo spinge a sollecitare fino all’ultimo i partiti ma anche a rivalutare l’esito esclusivamente tecnico della sua ricerca; e la storia di molti dei suoi sedici ministri, su tutti quella di un prefetto donna indicato per il ministero dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, a sua volta corteggiata dalla politica per una candidatura a Bologna da lei rifiutata, ora pronta a servire lo Stato. Sono i due paradigmi, i due fuochi di un planetario nuovissimo per le istituzioni e in generale per la vita pubblica italiana. Nasce il sessantreesimo esecutivo della storia repubblicana, ma è nettamente diverso da tutti gli altri. Non solo perché è appunto composto da donne e uomini con specifiche competenze e privi di tessere, insomma da ”tecnici”; non tanto per
Napolitano: «Sono state trovate soluzioni idonee». C’è un’idea di eccezionalità che il presidente incaricato ha provato fino all’ultimo a completare con Letta e Amato questo giacché esempi ravvicinati, compreso il governo Dini, se ne trovano a riguardo; ma anche e soprattutto perché qui non c’è una tangentopoli a seppellire la Repubblica con le sue macerie, c’è piuttosto l’urgenza di aprire una nuova pagina. Davvero diversa, eppure condivisa dalle maggiori forze parlamentari, non commissariate ma chiamate a svolgere una parte decisiva.
A impressionare, della lista di Monti, è alo stesso modo lo spessore dei curriculum e la modesta proiezione mediatica conosciuta finora dai nomi che la compongono. Tre donne per altrettanti ministeri di primissima fascia, la cui presen-
Quell i ch e p o te v a n o di ventare m inistri
za è evocata dal presidente incaricato con particolare forza: Cancellieri all’Interno, la penalista e vicerettore della Luiss Paola Severino alla Giustizia ed Elsa Fornero, economista scelta per Lavoro e Politiche sociali. Agli Esteri va l’ambasciatore a Washington Giulio Terzi di Sant’Agata. Poi c’è forse l’uomo più forte, insieme con il premier, di questo esecutivo: l’ad di Intesa Corrado Passera che assomma due dicasteri essenziali, lo Sviluppo economico e le Infrastrutture. Scelta, spiega Monti, che «corrisponde a una logica precisa: mettere al centro le iniziative coordinate per crescita e sviluppo». Passera d’altronde può essere considerato uomo forte tra i ministri ma in ogni caso ben al di sotto rispetto al peso del premier: allo stesso Monti infatti va come previsto anche l’interim dell’Economia. Certo è che messi insieme, il presidente del Consiglio e il responsabile del superdicastero Sviluppo-Infrastrutture esauriscono la struttura portante di tutto l’esecutivo. In una fase in cui tutto ruota attorno alla crisi, i detentori delle competenze economiche giocano la partita quasi da soli. Il che non mortifica il ruolo del ministro dell’Agricoltura Mario Catania. Né i prescelti per la Cultura Lorenzo Ornaghi, per Università e Istruzione Francesco Profumo e per l’Ambiente Corrado Clini. Ma dalla sola lettura di deleghe e nomi gli equilibri risultano chiaramente definiti. Completano la squadra un sottosegretario alla presidenza di grande rilievo come il vertice dell’Antitrust Antonio Catricalà e cinque ministri senza portafoglio: Enzo Moavero agli Affari europei, Piero Gnudi per Turismo e sport, Fabrizio Barca alla Coesione territoriale e Andrea Riccardi al neonato dicastero della Cooperazione internazionale e integrazione. In tutto fanno diciassette ministri, capo del governo compreso, più il sottosegretario alla presidenza.
Prevale l’idea di una politica che rimette se stessa e il Paese nelle mani di ROCCO SABELLI Attualmente amministratore delegato di Alitalia, il suo nome era stato fatto come possibile responsabile delle Infrastrutture
La scoperta della classe dirigente Il governo tecnico è l’occasione per capire una cosa che avevamo dimenticato: la quantità di competenze pronte a «salvare» il Paese di Errico Novi un governo di alto profilo. Pur senza prendervi parte, nonostante il pressing esercitato, fino all’ultimo minuto, fin dentro lo studio di Napolitano, da un Monti che al telefono le ha tentate tutte per avere Giuliano Amato e Gianni Letta. E completare così l’idea dell’eccezionalità con il miracolo di Pdl e Pd messi insieme anche nella squadra. Resta la distinzione tra esecutivo e partiti, ma l’ostilità. Si afferma appunto l’idea di un affidamento forte (anche da parte del
CARLO SECCHI L’ex rettore della Bocconi di Milano era in cima alla rosa dei candidati ad occupare il posto più alto del ministero dello Sviluppo economico
Vaticano: «Bella squadra», si compiace il cardinal Bertone). È questo il significato di un battesimo lungo, sofferto. Celebrato con una riunione di oltre due ore tra capo dello Stato e il presidente del Consiglio incaricato. Un’attesa lunghissima, segnata dall’ ultimo spasmodico sforzo di coinvolgere a diverso titolo le forze politiche. Slancio che non trova esito ma che porta appun-
PIERO ALBERTO CAPOTOSTI Professore di Giustizia costituzionale a “La Sapienza”, è stato presidente della Corte Costituzionale. Era in lizza per il ministero della Giustizia
il governo Monti
17 novembre 2011 • pagina 3
ELSA FORNERO
RENATO BALDUZZI
FRANCESCO PROFUMO
LORENZO ORNAGHI
ENZO MOAVERO MILANESI
PIERO GNUDI
FABRIZIO BARCA
PIERO GIARDA
ANDREA RICCARDI
Ministro dell’Welfare. Vicepresidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, insegna Economia politica a Torino
Ministro della Salute. Nato nel 1955, è l’attuale direttore dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas)
Ministro dell’Istruzione. Già rettore del Politecnico di Torino, lascerà la presidenza del Consiglio nazionale delle Ricerche
Ministro dei Beni culturali. Lombardo, classe 1948, dal 2002 è alla guida dell’Università Cattolica di Milano
Ministro degli Affari europei, senza portafoglio. 57 anni, è giudice presso la Corte europea di Giustizia di Lussemburgo
Ministro del Turismo e dello Sport, senza portafoglio. Membro del Cda di Unicredit, ha guidato l’Enel e l’Iri
Ministro della Coesione territoriale, senza portafoglio. È capo dipartimento delle Politiche di Sviluppo del ministero dell’Economia
Ministro dei Rapporti con il Parlamento, senza portafoglio. È responsabile del Laboratorio di Analisi Monetaria alla Cattolica di Milano
Ministro della Cooperazione internazionale, senza portafoglio. Studioso della Chiesa, è fondatore della Comunità di Sant’Egidio
to il professor Monti a sciogliere la riserva e accettare l’incarico alle 13 e 20. Con la rinnovata convinzione che in realtà proprio «la non presenza di politici agevola anziché ostacolare il radicamento dell’esecutivo in Parlamento». Innanzitutto perché «toglie un motivo di imbarazzo ai partiti», ma qui il neo premier fa di necessità virtù. Più vera e profonda l’altra motivazione: «La stessa nascita di un esecutivo per molti aspetti innovativo riflette la convinzione nelle forze politiche che si tratta di un momento straordinario per le difficoltà dell’economia e per quelle esasperate nei loro rapporti». Ecco, questo è vero, indiscutibile e probabilmente ben chiaro a Berlusconi come a Bersani, a Casini come a Veltroni e forse persino a Bossi e Di Pietro, i più lontani e critici. Nasce un governo straordinario, «anomalo» come lo definisce lo stesso Monti, che ha il tratto della ricostruzione nazionale e dello sforzo più alto possibile. Anche nel senso che si mettono a disposizione del Paese alcune delle sue energie migliori.
Figure che finora sono state lontane dalle istituzioni politiche. Che come detto non hanno quasi mai avuto proiezione mediatica particolare. E che però emergono per offrire un contributo di competenza ora che le difficoltà sono più aspre. È l’altro carattere di questa storia, a cui si è accennato all’inizio. È davvero emblematico il caso di Anna Ma-
CESARE MIRABELLI Membro del Consiglio superiore di Bankitalia, consigliere generale presso lo Stato della Città del Vaticano. Anche lui era nella rosa per la Giustizia
VINCENZO CAMPORINI Il generale, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e Capo di Stato Maggiore della Difesa, era stato indicato come possibile ministro della Difesa
ria Cancellieri. Il prefetto ha respinto la spietata corte sia del Pdl che del Pd in vista delle Comunali di Bologna. Insediata come commissario dopo l’uscita di Delbono, avrebbe potuto tranquillamente continuare da sindaco eletto ma non ha voluto cedere a una scelta di parte. Ha preferito non entrare nella logica dei partiti e delle appartenenze. Non esita ora a mettersi al servizio dello Stato, in un contesto in cui lo spirito di coesione prevale su tutto. Con il segno di una classe dirigente che non esita ad accor-
Anche da Oltretevere arrivano gli applausi: «Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro» ha commentato il segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone rere al capezzale di un Paese sotto assedio. Immagine che ben si colloca in quella generale della ricostruzione, dell’impegno straordinario. E che è riferibile a tutti i ministri del governo Monti.
Innanzitutto alle altre due signore di questa squadra: una, il nuovo guardasigilli Paola Severino, è in assoluto la prima donna in Italia a fare il ministro della Giustizia. Elsa Fornero conferisce di per sé al dicastero del Welfare un indirizzo significativo, essendo tra i professori di economia (insegna a Torino) che hanno fatto più ricerca sulle pensioni: è a capo di uno tra i maggiori centri studi europei del settore, ed è forse la più esplicita sostenitrice di un’immediata applicazione universale del metodo contributivo. C’è un ministro senza portafoglio come Andrea Riccardi che quasi inventa da solo il dicastero assegnatogli, Cooperazione e integrazione. Lo suggerisce di fatto lui, con la sua storia di «moderno eroe d’Europa» come lo definisce SALVATORE SETTIS Archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, il suo nome era spuntato tra i possibili candidati a ricoprire il ruolo di ministro dei Beni culturali
Time in virtù dell’impegno per la pace. Allo stesso modo pare emblematico nel nuovo esecutivo il profilo di Giampaolo Di Paola, scelto per la Difesa: capo di stato maggiore sia con Berlusconi che con Prodi, capo di gabinetto alla Difesa sia del berlusconiano Scognamiglio che dell’ulivista Mattarella. Uno dei pochi uomini insomma di cui tutte e due le parti in conflitto si sono fidate in questi anni, nonostante l’atmosfera da guerra civile fredda.
A Napolitano va il ringraziamento più caloroso tra quelli rivolti da Monti dopo aver letto la sua lista. E il capo dello Stato dice che «è stato difficile» ma che con il presidente incaricato «sono state trovate soluzioni idonee», in grado di suscitare l’apprezzamento dell’Europa. Parole pronunciate alla cerimonia di giuramento che si svolge nel pomeriggio al Salone delle feste. Poco dopo il nuovo premier incontra il predecessore Berlusconi a Palazzo Chigi: anche a lui aveva riservato un saluto «cordiale» in mattinata, ed espresso «rispetto per l’opera svolta». Difficile immaginare fino a due giorni da un passaggio di consegne così dolce. A Passera spetta anche il compito di tenere alto il morale: «L’Italia vale più di quanto dicano i mercati». Certo si dovrà andare «di corsa», come promette il premier: oggi fiducia al Senato, domani alla Camera. E poi in trincea per risalire la china dello spread. Non ci saranno rimpasti, assicura Monti. Nemmeno per riprovarci con Pd e Pdl e ottenere rappresentanti dei partiti. Tentativo condotto dal presidente incaricato fin nello studio di Napolitano, a costo di tenere in sospeso il Paese più di due ore oltre il previsto, con la lista dei ministri bloccata.Telefonate ai limiti del tempo massimo, inutili perché Bersani non ha cambiato idea, mentre Berlusconi ha soprattutto chiesto garanzie sulla Giustizia, Ma ormai è fatta, come dice Napolitano. «Ci pensi lei», grida la folla plaudente a Monti. Già entrato in partita: «Sono qui per questo». LUISA TORCHIA Esperta di Diritto amministrativo, insegna alla facoltà di Giurisprudenza di Roma Tre. Di lei si parlava per il dicastero della Pubblica amministrazione
Di Pietro si appresta ad essere “di lotta e di governo”: «Diremo sì alla fiducia a Monti, ma non entriamo nella maggioranza»
Solo Calderoli s’arrabbia
Un coro di evviva per il nuovo esecutivo. Il leghista contro l’assenza di un dicastero per il federalismo. E nel Pdl c’è anche chi mugugna di Marco Palombi
ROMA. «D’altronde Passera deve girare». «Profumo Passera, è il governo della continuità». I commenti per così dire informali circolati in un piccolo assembramento di deputati del Pdl nel cortile interno di Montecitorio sono al solito assai più divertenti delle reazioni dettate alle agenzie. Le posizioni ufficiali, infatti, sono quelle che sono e certificano una realtà già conosciuta: Pd e Terzo Polo sono convintamente a sostegno del nuovo governo, il Pdl sconta ancora la rabbia per aver perso palazzo Chigi e le divisioni al suo interno, Italia dei Valori non sa che fare e la Lega si appresta a tornare nelle osterie padane a blaterare su terùn e negher.
Partiamo proprio dalle truppe del senatùr: Roberto Calderoli, l’uomo dal comunicato più veloce del West, è riuscito a commentare il governo Monti praticamente nello stesso istante in cui il nuovo premier leggeva la lista dei ministri. «La nascita di un ministero per la Coesione territoriale – ha messo a verbale il chirurgo maxillo-facciale più famoso di Bergamo – significa aver creato il ministero del centralismo, ovvero che ancora una volta il Nord verrà spremuto per garantire a qualcuno di
continuare a mangiare a sbafo…». Di più: «Se il buongiorno si vede dal mattino, allora è notte fonda e sarò felice di votare contro la fiducia al prossimo esecutivo. Un governo che non ha neanche un dicastero ad hoc delle riforme? Il nord non potrà accettare questo ennesimo schiaffo».Vanno allora chiarite tre cose: il ministero degli Affari regionali e della Coesione territoriale esisteva già nel governo Berlusconi, occupato da tal Raffaele Fitto, e Fondi per la coesione territoriale si chiamano appunto i soldi europei per le regioni svantaggiate. D’altronde il nuovo ministro, Fabrizio Barca, ex collaborato-
mo Garavaglia, ospite di Sky, sosteneva che il suo collega stesse «prendendo un granchio», visto che quel nome «significa che si tenterà di spendere bene i fondi europei, che se continuiamo così ci verranno tolti». Per il resto, par di capire, secondo Calderoli il Nord si governa da Monza e un ministero delle Riforme può tranquillamente sostituire le riforme vere. Siccome ogni moneta ha il suo rovescio, però, c’è pure chi si lamenta per il Mezzogiorno: «Dall’elenco dei nomi scandisce il “responsabile” Pippo Gianni - mi pare di individuare un solo esponente governativo che non sia del Nord. Questo governo, così com’è parte male». In realtà, per i pignoli, ci sono cinque romani, uno di Latina e due meridionali su 16 ministri, più il sottosegretario Catricalà a palazzo Chigi, che è calabrese.
Osvaldo Napoli: «Qui sono ben visibili le impronte del tecnoprodismo» re di Ciampi, ha studiato negli ultimi anni proprio il Mezzogiorno e le inefficienze della sua governance. È tanto vero che il senatore leghista Massi-
Divertente pure la posizione di Antonio Di Pietro. Visto che non gli hanno dato un Gianni Letta o un Giuliano Amato su cui sparare, non può lasciarsi andare in libertà al suo istinto populista, ma neanche intrupparsi con gli altri: «Non faremo parte di maggioranze politiche precostituite. Vogliamo che questo
governo inizi, per questo daremo il contributo con il voto di fiducia. Poi vedremo provvedimento per provvedimento il suo operato». Votiamo sì, ma non si dica, in sostanza: «Non ci sarà nessuna figura dell’Idv tra i sottosegretari – dice l’ex pm – e saremo sentinelle all’interno del Parlamento degli atti che di volta in volta questo esecutivo porrà in essere». Più netto e movimentista è stato il suo amiconemico Luigi De Magistris, l’uomo che sostiene nelle tv commerciali di ogni dove che il capitalismo è finito: «Non mi riconosco in un Governo che ha una maggioranza confusa e che non rappresenta negli uomini, la sofferenza del Paese – sostiene il sindaco di Napoli in evidente stato di alterazione egotica –. Se Idv darà l’appoggio al nuovo governo, lo farà perché il momento è particolare e il Paese necessita di un segnale forte. Io ritengo, però, sia necessario creare alternative serie e concrete ai governi voluti dai poteri forti. Io costruisco alternative politiche nel Paese, ritengo il governo Monti transitorio». Qui finisce la, diciamo, opposizione al governo
dei professori, a non voler contare i Cobas che sono già in piazza contro i liberisti, Nichi Vendola che vede “ombre” e “un passato che non passa”(non così Giuliano Pisapia, entusiasta) e i giovani del Pdl che non vo-
Roberto Calderoli: «Non c’è il mio ministero, cominciamo male...» gliono che il Paese venga amministrato da Goldman Sachs.
Dentro al partito del predellino, peraltro, la fibrillazione non è affatto un ricordo del passato. Se, infatti, il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto si mantiene su una generica approvazione («Indubbiamente una lista di ministri di alto livello qualitativo, dalla prossima settimana in poi vedremo cosa farà il governo»), altri sono più apertamente ostili. È il caso, per dire, di Osvaldo Napoli, arciberlusconiano un tempo vicino a Claudio Scajola: «Nell’esecuti-
il governo Monti
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Gianni, ovvero la storia d’Italia Sulla testa di Letta si è combattuta l’ultima (ingiusta) battaglia della guerra civile bipolare ROMA. L’ultimo riconoscimento glielo ha riservato ieri Giorgio Napolitano alla fine del giuramento del nuovo governo: «Uno speciale ringraziamento al dottor Gianni Letta per la scrupolosa collaborazione istituzionale e la sensibilità con cui è riuscito a tenere vivo e limpido il rapporto tra la presidenza della Repubblica e il governo nell’interesse nazionale del Paese e per la coesione sociale». Ma i tratti migliori dell’uomo li offrono i soprannomi conquistati sul campo.“Zolletta”, destinato al quindicenne magrolino e infaticabile che d’estate va a lavorare nello zuccherificio di Avezzano. “Provvisorio” – in verità un’autocitazione – appellativo che accompagnerà i quattordici anni alla guida del Tempo e che dimostrano la capacità di adattamento a una realtà fluida come quella romana. “Eminenza azzurrina” – copyright di Francesco Cossiga – riconoscimento al civil servant che negli anni della maturità offre alla causa del Cavaliere la sua faccia rassicurante e le sue idee pettinate, fino a diventare il volto presentabile del berlusconismo. Previdente com’è, Gianni Letta il suo commiato dalla cosa pubblica l’ha fatto il 12 novembre. Nell’ultimo Consiglio dei ministri dell’era berlusconiana, e quando la piazza salutava il Cavaliere con urla e monetine, eccolo scandire: « Ho fatto il mio percorso, in tutti questi anni ho servito il Paese, ora tocca ai giovani, con questa esperienza ho concluso». Perché a un democristiano bastano poche parole per salutare gli amici, chiedere l’onore delle armi agli avversari e accettare le sentenze della storia. E al di là dei giudizi sulla scelta di campo, nessuno può negare che Letta sia stato il faro più luminoso nella diaspora democristiana scatenata da Tangentopoli. In fondo è grazie anche a lui se Forza Italia, il primo partito italiano nell’ultimo ventennio, non si è ridotto all’armata liberale liberista e libertaria vo del senatore Mario Monti ci sono le impronte, chiare e visibili, del tecno-prodismo. È un peccato originale che peserà
di Franco Insardà vagheggiata dai fondatori Antonio Martino e Giuliano Urbani, preferendo atteggiarsi a succursale nostrana del Ppe. Brillante e giovane avvocato che abbandona la tranquillità e la sicurezza della provincia per seguire in città (e con un maestro come Renato Angiolillo) il sogno del giornalismo. Direttore del Tempo, lo storico organo della Dc capitolina orientata a destra e verso il Vaticano, che oltre a fare il giornale deve sostituirsi all’editore e occuparsi di relazioni pubbliche e di fund rising. Tanto che Alberto Sordi, per omag-
Napolitano ha voluto dedicargli «uno speciale ringraziamento per la scrupolosa collaborazione» giarne l’onnipresenza, gli regala un cameo in“Io so che tu sai che io so”. Vicepresidente di Fininvest che gestisce l’annosa riforma delle Tv e prova a rendere più simpatico il Biscione, che nell’arco costituzionale ha veri amici soltanto tra i socialisti. Ma è negli anni della mancata rivoluzione del berlusconismo – come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel 1994 nel 2001 e nel 2008 – che Letta si è trasformato da mandarino a leader politico.
E sono proprio il potere e il consenso conquistati che forse hanno spaventato il Pd e lo hanno spinto a porre il veto su una sua permanenza a Palazzo Chigi. Letta infatti è l’unico che può disporre e proporre sotto l’ombra del Capo: il suo pedigree andreottiano ne fa il perfetto ambasciatore del centrodestra in Vaticano (e non solo perché è Gentiluomo di sua Santità) nel mondo delle partecipazioni statali e con le parti sociali. Eppoi – in un mondo di barbari che grazie a Mani pulite
molto sull’azione del governo. Altre presenze, autorevoli e importanti quanto si vuole, hanno più una funzione di dissimulazione che altro». Il riferimento, per chi non frequenta le psicosi da universo concentrazionario dei palazzi romani, è ai due ministri di Intesa San Paolo (Corrado Passera, Elsa Fornero) e a Piero Gnudi, considerati amici dell’ex premier. Altri ancora, come La Russa, insistono
Lorenzo Cesa: «Un ottimo governo e soprattutto un grande risultato politico»
sono saltati dalle sedie delle circoscrizioni agli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama – è l’unico a sapere decrittare i messaggi di Oltretevere, a conosce gli usi e i costumi per trattare con il Palazzo, con una burocrazia che prescinde dai colori politici, ad anticipare le necessità dei produttori.
In queste condizioni l’uomo che considera la mondanità un mezzo e non un fine, che tiene bassi persino i toni delle cravatte e per understament ha rifiutato la tessera di Forza Italia e del Pdl, è gioco forza costretto a riempire il vuoto politico dovuto a un premier che soltanto una settimana fa, salendo al Colle per dimettersi, ha capito quant’è diverso guidare un Paese da un’azienda. Letta in questi anni ha sdoganato Berlusconi presso gli eredi del Pci, i cardinali riottosi verso il signore della Tv commerciale e i resti dell’Iri che attraverso Fintecna controllano ancora un tesoretto da 5 miliardi di euro. C’è anche chi dice che è grazie a lui se nel giro di pochi anni Massimo D’Alema è passato dall’augurarsi che il Cavaliere “finisse a chiedere l’elemosina a piazza Navona” a definire Mediaset ”una risorsa della Nazione”. Se nel 1998, grazie alla crostata all’albicocca della signora Maddalena, è partita quella Bicamerale che negli intenti delle teste d’uovo dei due Poli doveva riscrivere la Costituzione e le regole del bon ton politico. In quest’ottica c’è la normale amministrazione: rimpinguare le buste paghe dei poliziotti e dei vigili del fuoco alleggeriti da quei ragionieri del Tesoro, sbloccare i fondi alla sanità, ricordare a tutta la compagnia che la ricostruzione dell’Abruzzo non è soltanto una passerella. E c’è quella straordinaria: sostituirsi ai ministri e agli amministratori inadempienti e dare mandato ai propri bracci armati – su tutti la Protezione Civile – per realizzare
che bisogna tornare presto alle urne e tutti sono terrorizzati all’idea che, se staccano presto la spina, Monti finisca per essere il candidato premier alle elezioni degli avversari.
Più tranquilla, almeno apparentemente, la situazione dentro il Pd e il Terzo Polo: «Grande soddisfazione per la qualità di tutti i nomi del governo Monti», sostiene Pierluigi Bersani, «ora c’è la possibilità di lavorare bene in Parlamento». Felice Pier Ferdinando Casini: «Un governo ottimo: l’avrei votato anche a scatola chiusa, ma dopo aver letto i nomi sono ancora più convinto». Il leader dell’Udc è allietato anche
quelle maxi opere tanto a cuore al Cavaliere, ritornato a Palazzo Chigi con l’idea di passare alla storia con un piano casa da fare impallidire quello di Fanfani nel Dopoguerra. Soltanto la magistratura saprà dire se sono stati corretti o meno certi i rapporti con gli Scelli e i Bertolaso. Fatto sta che, pezza dopo pezza al presappochismo imperante, Letta si conquista i galloni dell’interlocutore affidabile, soprattutto nel momento in cui Giulio Tremonti seleziona con troppa cura gli amici e avoca a sé tutta la cassa. Così bussano alla porta del sottosegretario imprenditori orfani dell’Ancient regime, sindacalisti legati alle vecchie regole delle relazioni industriali, ministeriali frustrati e messi nell’angolo. Ma tutto questo ha un prezzo. L’azione di governo è scandita da un’eccessiva moderazione. S’incarognisce la guerra con Tremonti, si mettono le basi perché il centrodestra imploda tra ripicche, spread ingestibili e inchieste giudiziarie. In fondo Renato Brunetta, nel lontano 2005 e tra gli applausi dello stato maggiore di Forza Italia, l’aveva messo in guardia: «A Gianni Letta dico che la politica è un’altra cosa. È sentire la gente, rischiare. È orgoglio, è viso aperto, è andare a prendere i fischi in piazza come ha fatto Tremonti a Bologna...».
da un prodotto collaterale del nuovo esecutivo: «Da domani nulla sarà come prima: abbiamo un governo di larga convergenza e l’effetto immediato è che si è verificata la fine della diaspora della Dc». Fuori dal palazzo vanno citati i pareri di Susanna Camusso della Cgil («professionalità e competenze»), Alberto Bombassei di Confindustria («ci porterà fuori dalla crisi»). In Borsa invece, per dirla
Nichi Vendola: «È difficile non percepire alcuni segni di continuità con il passato» in termini che capiscono anche i politici, vogliono vedere cammello: lo spread resta a 520, il Mibtel è sostanzialmente fermo.
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il governo Monti
I “consigli” a Mario Monti (e anche a Corrado Passera) di Valerio Onida, Giulio Sapelli e Giacomo Vaciago
L’agenda dei cento giorni Riforme del fisco, del lavoro e delle pensioni: ecco le tre rivoluzioni da avviare subito (d’accordo con Ue e Bce) per uscire dall’emergenza di Francesco Lo Dico
ROMA. «Il nuovo governo è chiamato a misurarsi con una fondamentale esigenza già messa in luce dalla famosa lettera della Bce del 5 agosto: rilanciare la crescita coniugandola con il rigore. È da questi presupposti che parte il lavoro del presidente del Consiglio e della sua squadra. Bisogna supporre quindi che le priorità del nuovo esecutivo sia attuare provvedimenti che diano fiato alla imprese, impostino tagli alla spesa pubblica e disegnino una riforma fiscale che intervenga sui patrimoni, compresa la reintroduzione dell’Ici, in una formula progressiva che esenti i soggetti meno abbienti e incida via via in maniera più consistente con il crescere del reddito». Fabrizio Onida, professore di Economia internazionale presso l’Università Bocconi di Milano ormai da quasi trent’anni, delinea così i possibili scenari che si dispiegano davanti all’attività del nuovo governo Monti. E anche Giacomo Vaciago, professore di Economia politica alla Cattolica di Milano, concor-
da con la diagnosi del collega: «Le due paginette inviate all’Italia da Draghi e Trichet sono traducibili in un concetto semplice: alzare il potenziale di crescita economica del nostro Paese. Monti e i suoi ministri sanno benissimo che è arrivato il tempo di cominciare a usufruire i benefici dell’euro, di cui sino ad oggi abbiamo subito in massima parte i costi. Credo
La fretta potrà essere bilanciata dalle aperture davvero importanti fatte dalle forze sociali pertanto che in cima all’azione di governo ci sia un pacchetto di vere liberalizzazioni che riescano finalmente a trasformare le gare d’appalto in competizioni leali dove davvero vinca il migliore. È ora di porre fine alle municipalizzate che premiano l’amico del sindaco di turno. Il professor Monti dovrà realizzare in breve tempo quella ri-
voluzione liberale da sempre proclamata da Berlusconi ma mai minimamente messa in campo con provvedimenti veri. I tecnici proveranno a coniugare sacrifici ed equità in una visione che privilegerà l’economia sociale di mercato tanto cara al professore».
Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica presso l’università degli studi di Milano, immagina invece così i prossimi cento giorni di governo: «È molto probabile che verrà presto avviato un processo di riforma delle pensioni, in quanto sarebbe un segnale lungimirante nei confronti della speculazione finanziaria. E poi occorre ridare ossigeno alle imprese restituendo loro competitività, attraverso la defiscalizzazione dei redditi da capitale. Alleggerire il carico fiscale che grava sulle nostre imprese, insomma». A proposito di riforma delle pensioni, Fabrizio Onida precisa che «l’autorevolezza e la competenza della dottoressa Fornero consentiranno di intavolare un dialogo proficuo con le parti
sociali. Portare a 67 anni l’età per le pensioni di vecchiaia è più che opportuno. Anzi, i risparmi ottenuti potrebbero ragionevolmente portare a un reivenstimento delle risorse su un altro nodo che Monti e la sua squadra dovranno sciogliere, come quello dei lavoratori precari. Non possiamo continuare a permettere che i diritti viaggino a due velocità. Occorre che vengano tutelati anche gli outsider, e non sono gli insider che godono di protezioni sconosciute alla maggior parte dei giovani. Il nuovo governo tenterà probabilmente di tagliare il cuneo contributivo, attraverso un patto generazionale tra giovani e anziani».
E a proposito di mancate tutele, è opportuno cercare di comprendere quale possa essere l’indirizzo di Mario Monti rispetto alla riforma del la-
L’esecutivo ha un obiettivo economico e una «missione culturale»
Mario Draghi è l’uomo con il quale il nuovo governo dovrà cercare di stabilire una sorta di rapporto privilegiato, dal momento che proprio la Banca Centrale Europea è alla base di ogni progetto di risanamento della nostra economia. E Corrado Passera sarà una sorta di manager dell’emergenza
voro. «Il concetto guida non può che essere la flexsecurity», spiega ancora il professor Onida. «Occorre rivedere il nostro welfare e concepire ammortizzatori sociali universali, che in questo momento sono nella disponibilità di pochi, come ad esempio accade nel caso della cassa integrazione. Credo si tenterà inoltre di lanciare il contratto di apprendistato in modo da ridurre il numero di giovani che non cercano più un’occupazione, e si appronterà un contratto di lavoro a tempo indeterminato, che conceda progressive garanzie mano a mano che il rapporto di lavoro evolve nel tempo». «Un welfare che comprenda tutti e non che tutela soltanto alcuni», rilancia Giacomo Vaciago, «bisogna dare sostanza e completezza al lavoro intrapreso anni fa da Pietro Ichino. Il governo Monti proverà a riformare il mercato del lavoro, e tenterà di farlo insieme alle parti sociali. Queste però non dovranno arroccarsi sulle loro posizioni, perché è tempo di smetterla di fare i paladini del passato, e cominciare a rappresentare anche i diritti dei giovani a entrare nel mercato del lavoro».
Su questo fronte, Giulio Sapelli è molto esplicito: «Abolire l’articolo 18 è inevitabile. Oggi non tutela più i lavoratori ma i rappresentanti sindacali. Sarà necessario coniugare la flessibilità alla sicurezza, introdurre l’apprendistato e abolire Cococo, Cocopro e similia. Il governo Monti farà il possibile per realizzare questa riforma, ma temo che sia la più difficile di tutte». Altro importante capitolo della lettera Draghi-Trichet è il dimagrimento della spesa
pubblica. «Per il momento i tagli possono essere soltanto immaginati come necessari», spiega Fabrizio Onida, «ma non credo che essi possano essere determinati dal governo in tempi brevissimi. Nelle voci della spesa pubblica bisogna fare operazioni di risparmio selettive, che non possono prescindere da un’attenta rassegna dei costi: la squadra di Monti starà già probabilmente pensando a una spending review, che il precedente esecutivo ha messo da parte». E su un altro dei punti più sanguinosi della lettera della Bce, il professore aggiunge che «per quanto mi riguarda, impiccarsi al pareggio di bilancio nel 2013 è sbagliato e costringerebbe a vere acrobazie contabili, dal punto di vista del deficit la situazione italiana è molto più rassicurante di quella di molti altri Paesi e la fretta sarebbe cattiva consigliera». E sulla fretta ha qualcosa da aggiungere anche il professor Sapelli: «Le dismissioni del patrimonio pubblico sono necessarie, ma si faccia la massima attenzione affinché non si tramuti nel sacco dei lanzichenecchi già visto negli anni Novanta. Eni e Finmeccanica teniamocele ben strette».
Ultimo nodo, infine, è rappresentato dai costi della politica, sui quali Onida, Vaciago e Sapelli concordano: «Sarà fatto il tentativo di intervenire su alcune sacche di privilegio, ma Monti sa bene che l’operazione avrebbe più un valore simbolico che un reale ritorno economico. La sfida è ardua, ma i professori hanno fiducia nel loro collega: «Va appoggiato, è la persona giusta e gli auguriamo buon lavoro».
Salvare l’Italia e aprire la Terza Repubblica
Un governo di alto profilo: adesso si può consolidare una stagione completamente nuova della politica di Osvaldo Baldacci eri alle cinque del pomeriggio è sorta una nuova alba. Come sarà il nuovo giorno dipende da noi, ma che si sia arrivati a un nuovo inizio è certo. Col giuramento di questa particolare squadra di ministri molto è cambiato. Guai ad esprimere la soddisfazione di chi crede che siamo ad un punto di arrivo. Siamo al contrario ad un punto di partenza. Si è aperta una nuova strada, e questo è fondamentale, visto dove ci stava portando quella vecchia. Ma percorrerla, e farlo fino in fondo, e trovare le mete giuste, questo è un impegno tutto di affrontare.
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Non ci possiamo esimere dal mettere in evidenza come, più ancora della lista dei nomi, delle competenze e del modo in cui sono state fatte le scelte, le immagini già segnano una forte discontinuità con il mondo precedente. Innegabile che ci sia un forte segnale di grigia professionalità: non è negativo, è un segno di serietà e di decoro rispetto al mondo dell’apparenza cui eravamo stati abituati. Da una parte e dall’altra, da un clima generale. Credo che un mondo sia finito, e che volendo dar via una moneta fuori corso, saranno tutte e due la facce a finire in archivio. Questo governo porta una grande ventata di novità assolutamente necessaria, anzi indispensabile vista la grave crisi economica che ne ha determinato la nascita. La scelta di competenze specifiche, la lontananza da indicazioni partitiche, l’assenza di polemiche (persino tra le preesistenti forze politiche, con rare eccezioni), persino il modo di fare comunicazione a partire dall’ormai già affermato Monti Style, sono tutti elementi che cambiano radicalmente il fare politica in Italia. Il fare politica, perché questo non è un governo che segna la fine della politica, ma solo la fine della precedente politica, della fase faziosa e becera che abbiamo vissuto fino a pochi giorni fa. Quell’era si stava chiudendo comunque. Quello era il tramonto. Per questo parlo di una nuova alba: perché non potevamo sapere quanto la notte sarebbe stata lunga. Più volte nei giorni scorsi si è temuto che la soluzione indicata da tutte le realtà più responsabili potesse invece saltare per colpa di residui di realtà irresponsabili ancora persistenti. Per questo il governo segna un nuovo inizio. L’inizio di una nuova politica, di un nuovo clima politico.
sto governo, democraticamente legittimatissimo dal consenso popolare, dato che è il Parlamento a rappresentare questa legittimazione insieme al Capo dello Stato e alla Costituzione, spero che questo governo segni uno stile cui ci si conformerà per i prossimi anni. Uno stile di sobrietà e di serietà. Uno stile di servizio al Paese offerto da personaggi eminenti (in futuro politici, certamente) in nome dell’interesse nazionale e del bene comune.
Uno stile di scelta secondo criteri di merito e di competenza, che non potranno mai essere assoluti (i valori sono sempre opinabili, variabili, leggibili sotto vari punti di vista) ma certo in ogni livello della società (non è solo la politica) devono prendere il posto di criteri di promozione legati alla fedeltà vassallare. Uno stile che si confronti quotidianamente con la realtà e la verità, per incidere operativamente senza lasciare suppurare le ferite. Questo è un inizio, è un’alba. Il mondo vecchio è finito, il nuovo governo ha aperto la porta di un mondo nuovo. Ma non basta aprire la porta. Dietro la porta c’è una strada. Bisogna raccogliere le forze e il coraggio per addentrarsi nell’orizzonte, e questo segnerà il nuovo mondo. Spero che il nuovo governo avvii una nuova politica, e spero che tutto questo sia caratterizzato dal sacrificio. No, non sono pazzo. Non sono autolesionista, masochista. E nemmeno mi arrendo semplicemente al fatto che la situazione è così difficile che dobbiamo soffrire per forza. Sacrificio e sofferenza non sono sinonimi. La sofferenza non è mai un fine, può solo essere un mezzo necessario per raggiungere però obiettivi positivi. L’allenamento è una fatica che si fa in funzione di vincere una gara. L’etica del sacrifico che questo governo sarà chiamato a imporre alla scena italiana dovrà rimanere anche dopo nel senso migliore ed etimologico del termine: sacrum facere, rendere sacro. Non c’è all’interno il concetto di auspicabile sofferenza. C’è il senso di un orizzonte più ampio, di una meta desiderabile che vale la pena di raggiungere anche a costo di qualche rinuncia.
Più della nuova fase, porta sollievo il pensiero che non riuscivamo a vedere la fine di quella (disastrosa) precedente
Una nuova era che non dovrà essere fatta a immagine e somiglianza di questo governo: questo è un governo tecnico emergenziale, che prima o poi, spero dopo aver mietuto i necessari successi, lascerà di nuovo il passo al confronto politico pienamente detto, quello del giusto confronto tra posizioni diverse democraticamente sostenute. Ma spero che que-
Per questo mi ha molto colpita una delle prime frasi del premier, che ha sottolineato che l’Italia non ha bisogno di lacrime e sangue ma di sacrifici. Forse aveva in mente proprio questo, forse questo significato glielo do io, ma credo sia un punto cruciale che dovrà segnare la nuova politica non faziosa, non becera, non violenta, non ottusa. Per questi motivi questo governo tecnico oltre a salvare economicamente l’Italia ha la possibilità di dare il via a una nuova più vera e più efficace politica per il bene del Paese.
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entre Mario Monti presenta la squadra del suo nuovo governo a due passi da Montecitorio, nel tempio di Adriano di piazza di Pietra, s’inaugura una grande mostra sulla Democrazia cristiana. Se non si tratta di una coincidenza significativa è però un sincronismo che offre la suggestione di un parallelo suggestivo: come la Dc è stato il partito che ha accompagnato la ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra così – fatte le debite proporzioni - la nuova fase politica all’insegna dell’unità nazionale, può segnare la fine d’una guerra civile fredda che ha paralizzato il Paese e diviso frontalmente gli italiani per oltre un quindicennio, avviare la ripartenza del Paese.
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Una svolta che potrebbe accompagnare l’Italia oltre il tunnel del bipolarismo armato e verso la ricomposizione d’un quadro di valori condivisi. Un passo decisivo per ricucire il Paese, per recuperare la civiltà del confronto e l’autorità delle istituzioni. Un cambio di passo accompagnato dal favore della maggioranza degli italiani che nei sondaggi di questi giorni sembrano riscoprire voglia d’equilibrio e di moderazione e che oggi guardano con rispetto a quel passato non troppo lontano che è stato il lungo cinquantennio democristiano. Promossa dall’ Associazione «I Popolari», in collaborazione con la Fondazione Sturzo, la mostra espone 170 documenti, tra manifesti, volantini, audiovisivi e alcune lettere di speciale valore storico. Documenti
Oggi ci si sorprende dello stile sobrio, discreto di Monti – dice De Rita – perché evidentemente ci siamo dimenticati del costume e della moderazione dei Dc
originali, cimeli, 70 filmati d`epoca e 10 filmati Rai (prodotti da «La Storia siamo noi») e un film inedito curato da Gianni Minoli proiettato senza interruzione in Piazza di Pietra in cui scorrono le immagini della storia Dc dagli anni del dopoguerra degasperiano passando per quelli dello sviluppo per approdare al 1994, anno del tramonto della Dc. Nell’ambito della mostra anche quattro lectio magistralis, ultima e conclusiva quella del neoministro ai Beni culturali Andrea Riccardi alla presenza del Presi-
Quando il Centr Come leggere una mostra alla luce dei fatti di oggi: al Tempio di Adriano di Roma ricostruita la lunga parabola della Democrazia cristiana. Un modo per ripercorrere l’Italia del Novecento. E non solo di Riccardo Paradisi dente della Repubblica, su“La Dc, la Chiesa e il mondo cattolico”. «L’unità d’Italia ha spiegato Pierluigi Castagnetti, presidente de I popolari che ha introdotto l’iniziativa e le prolusioni degli ultimi due segretari Dc viventi, Arnaldo Forlani e Ciriaco De Mita - è stata fatta negli ultimi 50 anni grazie alle infrastrutture, ai programmi di tipo sociale e culturale che si sono avvalsi della scuola e poi della televisione che fu utilizzata per unire, per dare la stessa lingua agli italiani». Secondo Castagnetti, «allora le leadership politiche erano capaci di anteporre l’interesse
generale a quello di parte, politico in senso stretto, una lezione che vale ancora oggi». Del resto per cinquant’anni la storia della Dc ha coinciso con la storia dell’Italia e della sua Repubblica: Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro, Francesco Cossiga, Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti sono solo alcuni dei protagonisti di un partito che aveva molti difetti, che ha nella sua storia molte pagine buie, ma che è stato il partito che ha accompagnato, favorito e gestito la ricostruzione italiana. Paolo Messa autore con Giovanni di Ca-
pua del fortunato La Dc. Il partito che fece l’Italia (Marsilio) fornisce una lettura in parallelo tra la mostra e la svolta impressa in queste ore sulla politica italiana. Secondo lui si può sicuramente azzardare una metafora che tiene unite la grande mostra sulla Dc allestita a Roma: se oggi siamo al luglio del ’43 e quindi alla fine d’un periodo storico che ha segnato un epoca ventennale – senza con ciò essere un regime ovviamente – adesso inizia una fase di transizione in cui è evidente che il mondo cattolico deve avere un ruolo fondamentale». «Se-
il governo Monti
gnalo - continua Messa - che dopo il 25 luglio c’è stata Camaldoli, hanno avuto diffusione le idee ricostruttive e che nasce la Democrazia cristiana diventando poi nel 1948 un progetto politico compiuto che si presenta alle elezioni del 1948. Il punto di vista di chi oggi lavora con le lenti della prospettiva dovrebbe concentrarsi sul come consolidare una classe dirigente utile alla fine di questa fase di transizione. Le mostre come questa, i libri, la ricerca storiografia non rappresentano solo un lavoro di giusti-
due che secondo Messa vanno soprattutto evidenziati«Anche nei momenti più bui della repubblica la Dc ha tenuto fermo il principio della democrazia nel nostro Paese e il valore della laicità e dell’autonomia dello Stato. Autonomia non solo dalla Chiesa ma anche e soprattutto dalle ingerenze straniere la cui pressione è stata formidabile durante la guerra fredda». Ma i meriti della Dc, oscurati da una demonizzazione cominciata negli anni Sessanta e Settanta e depositatasi nella memoria del Paese non si limitano
un’esteta. Un’iniziativa che cade si diceva in un momento particolare di grande vitalità del mondo cattolico. Sono ben due i neoministri del governo Monti che erano presenti lo scorso ottobre alla convention di Todi dell’associazionismo cattolico: Lorenzo Ornaghi e Andrea Riccardi che s’è affacciato ieri alla mostra tra gli applausi del vasto pubblico presente al Tempio d’Adriano le cui prime file erano occupate dagli ex Dc oggi sparsi in ogni schieramento politico: da Casini a Franceschini da Bodrato a Tabacci
ro faceva l’Italia zia per la memoria può comunicare ai più giovani e non solo a loro un metodo di lavoro, la fatica della democrazia. Poi è certo si deve ragionare con la prospettiva degli anni cinquanta del duemila e non del Novecento: però il metodo, la moderazione, la responsabilità d’una classe dirigente come quella della Dc è un’eredità importante».
Del resto l’anomalia d’un quindicennio di estremismi opposti nell’arena del bipolarismo chiodato sono figli della grande anomalia italiana, ancora precedente e propedeutica a quella berlusconiana, quella della distruzione controllata del fronte moderato il cui cardine era proprio la Dc. Un’anomalia nata da Tangentopoli che finirà con la rinascita d’un polo cattolico liberale e sociale che a ben vedere costituisce l’identità profonda del Paese. Tra i meriti della Dc ce ne sono
alla tenuta istituzionale, ad aver garantito la democrazia nel Paese. Percorrendo gli spazi della mostra il visitatore può ricordare o apprendere che nel 1945 la capacità produttiva del Paese era ridotta al 30 per cento rispetto a quella del 1938, la produzione agricola era il 5°% rispetto a quella anteguerra. Un paese al tappeto insomma. In pochi lustri dal 48 il Paese si rimette in piedi e prende a correre. L’autostrada del sole e la Bologna-Taranto vennero costruite in meno di sei anni dal 1959 al 1964, un’impresa straordinaria che fece balzare l’ingegneria italiana al primo posto nel mondo. I progetti dell’autostrada del Sole furono addirittura presentati a New York. Con Fanfani parte anche il piano casa che produceva 4 mila vani alla settimana mentre il tasso di crescita del Paese dal 1945 al 1962 tiene una media del 5% annuo; dal ‘72 al ‘92 era superiore al tre per cento. Nel 1960 il Financial Times assegna alla lira l’oscar di moneta più stabile del mondo. La furia apocalittica di Pasolini che imputava alla Dc ogni nefandezza, compresa la mutazione antropologica degli italiani, era evidentemente un esercizio letterario di
che stanno ascoltando il discorso di De Mita. Castagnetti precisa però ai giornalisti che l’iniziativa è stata pensata nella primavera scorsa in un tempo in cui non c’era questo fermento poi sfociato addirittura in un cambio di governo. La mostra insomma vuole intanto essere un
L’autostrada del Sole e la Bologna-Taranto vennero costruite in meno di sei anni dal 1959 al 1964, un’impresa straordinaria che fece balzare l’ingegneria italiana al primo posto nel mondo momento di riflessione storica anche se nel suo discorso Arnaldo Forlani dopo aver ringraziato gli organizzatori per il servizio alla verità storica ha parlato d’un occasione da rinnovare «perché chi ha un comune denominatore democristiano oggi può portare il suo contributo di civiltà ed educazione politica nello
In alto, da sinistra: Andreotti; De Gasperi durante un comizio e con il suo sottosegretario Andreotti; Moro alla direzione della Dc e sempre Andreotti con Attilio Piccioni. Qui sotto, da sinistra: Francesco Cossiga, Moro e Bob Kennedy, Forlani con Piccoli e De Mita, una riunione con De Gasperi, Benigno Zaccagnini e Moro con Fanfani
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schieramento di appartenenza. In vista d’una prospettiva d’unità che potrebbe sempre ripresentarsi una volta cessata questa transizione. Nella stessa direzione l’intervento di Ciriaco de Mita. Critico su un bipolarismo dove gli schieramenti hanno al massimo sempre finto di vincere ma poi non hanno saputo e non hanno potuto mai davvero governare. «Per questo occorre lavorare per l’unità di un nuovo momento costituente, per ricostruire le coalizioni alternative nel rispetto della tradizione pluralista italiana».
D’altra parte, lo si diceva, la Dc è forse la forza politica ad essere più in sintonia con la tradizione culturale italiana. Nella sua lectio magistralis il presidente del Censis Giuseppe de Rita ne parla come ”il partito più italiano di tutti”, cattolicamente «collocato nel tempo della lunga durata, della lenta maturazione della realtà che nella cultura Dc la politica doveva accompagnare non dirigere». Non è mai stato il partito della rivoluzione la Dc «e per questo dai rivoluzionari del tutto e subito ha subito attacchi violenti, quelli della contestazione e del terrorismo ma anche poi quelli che hanno portato la Dc a sciogliersi negli anni Novanta sotto la pressione gisutizialista. Un partito che non gridava la Dc «Oggi ci si sorprende dello stile sobrio e discreto di Monti – dice De Rita – perché evidentemente ci si è dimenticati quel costume. Anche se questa divisa discreta la Dc l’ha pagata cara subendo gli attacchi senza saper elaborare e replicare con un suo controlinguaggio». Dovreste fare anche voi una mostra, sulla Dc», diceva D’Alema a Ciriaco De Mita alla mostra Avanti popolo sulla storia del Pci. De Mita annuiva ma replicava: «Sì, ma questa mi pare un po’ catacombale, come se la memoria fosse congelata e lontana». La mostra sulla Dc non dà questa impressione. Al netto della sua involuzione finale quella della Dc non sembra una storia morta. Forse perché i tempi lunghi della sua cultura cattolica e riformista alla fine hanno avuto ragione della rivoluzione.
il governo Monti
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Le ammissioni di Barroso e Van Rompuy accendono i riflettori sulla stabilità finanziaria (a rischio) dei cugini d’Oltrealpe
E adesso trema Sarkò La speculazione non si ferma e punta sulla prossima “vittima” europea di Enrico Singer nche Parigi, ormai, è sotto attacco. Sul fronte più insidioso: quello del costo del rifinanziamento del debito pubblico. Lo ha ammesso Manuel Barroso nel suo intervento di ieri al Parlamento europeo. Ma lo testimoniano soprattutto i numeri, quei 191 punti di spread che ci sono tra i titoli di Stato francesi e tedeschi. Non siamo ancora ai livelli dell’Italia. Ma l’occhio del ciclone si sta allargando.
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Il presidente della Commissione europea ha detto che, a questo punto, la crisi è sistemica e ha elencato tra i Paesi in difficoltà anche l’Austria e l’Olanda che, fino a poco tempo fa, erano considerati solidi e affidabili come la Germania. Il caso della Francia, però, ha un peso particolare. Per una ragione contingente: tra sei mesi Nicolas Sarkozy dovrà affrontare le elezioni presidenziali. E per una ragione strutturale: l’eco-
nomia francese è la seconda di Eurolandia dopo quella tedesca e nessun fondo salva-Stati – già in affanno di fronte ai problemi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo – sarebbe mai in grado di mettere in sicurezza la moneta comune se anche Parigi dovesse vacillare. L’implosione dell’euro, insomma, non sa-
parole, i provvedimenti-tampone non bastano più, è arrivato il momento di affrontare una revisione del trattato che ha dato vita all’euro: una specie di nuova Maastricht che, nei piani di Bruxelles, dovrebbe cominciare con il prossimo vertice europeo di fine anno per concludersi al massimo nel giugno del
L’economia francese è la seconda di Eurolandia dopo quella tedesca e nessun fondo salva-Stati sarebbe mai in grado di mettere in sicurezza l’euro se anche Parigi dovesse vacillare rebbe più soltanto un’eventualità teorica. Lo stesso presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, non ha nascosto la sua preoccupazione.
È vero che i mercati stanno forse reagendo in modo eccessivo, ma di sicuro non si placheranno se non saranno adottate misure adeguate. In altre
2012. Berlino e Parigi speravano di guidare il processo di riforma. Adesso tutto si complica. Per la svelata fragilità della Francia e, paradossalmente, per il recupero di credibilità dell’Italia. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy avevano liquidato con uno scambio di sguardi complici e di risatine il loro giudizio sull’affidabilità di Silvio
Berlusconi. Era il 22 ottobre. Da oggi si ritroveranno a trattare con Mario Monti – che della Ue conosce ogni segreto – e con la sua squadra di tecnici che, prevedibilmente, non snobberà gli appuntamenti europei come è avvenuto spesso nel recente passato.
In fondo la debolezza italiana ha fatto gioco all’asse franco-tedesco che è riuscito a trasformarsi in una vera e propria diarchia capace di imporre la propria volontà agli altri. Ma andiamo per ordine. L’ultimo segnale di allarme è stato l’au-
mento della pressione sui titoli dei Paesi europei considerati “core” dell’Europa come Olanda, Austria e Francia. In particolare, lo spread tra gli Oat decennali francesi (l’equivalente dei nostri Btp a dieci anni) e i Bund decennali tedeschi ha raggiunto il livello massimo dall’introduzione dell’euro. Il debito pubblico della Francia è classificato ancora con una tripla A dalle agenzie di rating. Ma anche gli esperti francesi sono ormai convinti che il massimo dei voti mal si concilia con un differenziale diventato così ampio con i titoli pubblici
Il presidente americano sottolinea: «Sono e resto inquieto. Troppe turbolenze affliggono il Vecchio Continente»
Obama: «Preoccupato per l’Europa» l presidente americano Barack Obama è preoccupato, e lo rimarrà. La questione della “zona Euro”, le sue turbolenze e le sue incertezze non lo fanno dormire. Il leader della Casa Bianca si è detto ieri «profondamente preoccupato» per le turbolenze nella zona euro provocate dalla crisi del debito sovrano e della crescita difficile. Parlando durante la sua visita in Australia, Obama ha sottolineato di essere «stato profondamente preoccupato» per la crisi in Europa e «penso che sarò profondamente preoccupato domani e la settimana prossima», ha aggiunto, sottolineando che gli Stati europei devono «sostenere il progetto europeo». Il presidente Usa ha poi parlato della Cina, af-
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di Massimo Fazzi fermando che gli Stati Uniti non temono l’accresciuta potenza economica e militare cinese, né intendono isolarla. «È sbagliato pensare che temiamo la Cina. Così come è un errore pensare che vo-
condo le regole»: «Siamo felici dell’accresciuta influenza di una Cina pacifica. Quello che sono riusciti a fare, facendo uscire milioni di persone dalla povertà, è straordinario. Il principale messaggio
La Casa Bianca continua comunque a guardare a Oriente: «La Cina sta migliorando in tanti campi, ma deve fare di più». E la guerra dello yuan agita i mercati più della crescita economica gliamo isolarla», ha detto Obama durante una conferenza stampa congiunta con il premier australiano Julia Gillard. Quindi il presidente Usa ha rinnovato il suo appello perchè Pechino «giochi se-
che voglio mandare alla Cina, pubblicamente e in privato, è che la loro accresciuta potenza deve essere accompagnata da maggiori responsabilità. È importante che giochino secondo le rego-
le». Obama ha quindi invitato Pechino a ”rivedere” la sua posizione in materia commerciale qualora volesse aderire al Partenariato transpacifico (Tpp). Eppure, quando ha presentato il Tpp a Honoloulu, la posizione americana era leggermente più incrinata. Non sembra possibile, infatti, prevedere entro breve una fine della cosiddetta “guerra dello yuan”, lo scontro che vede contrapposti Washington e Pechino sulla rivalutazione della moneta nazionale cinese. Il presidente americano Barack Obama ha affermato che sulla questione la Cina «non ha ancora fatto abbastanza», mentre per la sua controparte Hu Jintao «non è il valore dello yuan che può risolvere i problemi americani». Parlando
il governo Monti punti base. Oggi, però, al governo c’è il centro-destra e Nicolas Sarkozy fa di tutto per presentarsi come il paladino della difesa a oltranza dell’euro assieme ad Angela Merkel. Tuttavia il deficit ha raggiunto il 5,8 per cento del Pil (il Patto di stabilità imporrebbe il 3,5) e la crescita ristagna.
Uno studio della banca tedesca Berenberg e del centro di analisi Lisbon Council, che classifica i Paesi della zona euro secondo la salute e la competitività delle loro economie, ha piazzato addirittura la Francia al tredicesimo posto – sui 17 di Eurolandia – tra l’Italia e la Spagna che sono, rispettivamente, quattordicesima e dodicesima. Tra l’altro, a parte le considerazioni politiche sul recupero di credibilità del governo Monti che scombinerà i piani della coppia Sarkozy-Merkel – c’è un ulteriore problema per Parigi che arriva sempre dall’Italia: le banche francesi sono le più esposte in Europa con i nostri titoli pubblici acquistati,
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pea ha proposto una vigilanza rafforzata da parte di Bruxelles sui bilanci pubblici nazionali. Quasi un commissariamento, specialmente nel caso dei Paesi che riceveranno aiuti dal fondo salva-Stati. «Le decisioni finali sui bilanci resteranno là dove devono stare: ai Parlamenti nazionali», ha messo le mani avanti José Manuel Barroso. Tuttavia la governance economica comune deve essere rafforzata aumentando le capacità d’intervento dell’esecutivo comunitario nell’ambito delle procedure per deficit eccessivo già previste dal Patto di stabilità che potrebbero spingersi fino a imporre il riesame dei bilanci nazionali. Non solo.
Secondo le proposte illustrate da Barroso, la Commissione potrebbe presentare direttamente proposte di emendamenti ai bilanci nazionali: in pratica delle manovre aggiuntive nel caso il suo monitoraggio dovesse evidenziare la necessità di nuovi provvedimenti. I dati sulla crescita del Pil nel
Lo spread tra gli Oat decennali francesi (l’equivalente dei nostri Btp a dieci anni) e i Bund decennali tedeschi ha raggiunto il livello massimo dall’introduzione della valuta comune continentale della Germania che hanno la stessa tripla A. Mantenere ancora questa valutazione sarebbe un non senso a livello finanziario, il che fa temere un possibile, imminente downgrading del debito della Francia.
Una settimana fa Standard & Poor’s inviò per errore ai suoi abbonati un messaggio che annunciava la perdita della tripla A e la Francia gridò allo scandalo attribuendo a quel misterioso sbaglio anche i contraccolpi sui mercati. Ora lo sdegno si è tramutato in timore. Prima della crisi, lo spread fra
Oat e Bund era nullo. All’inizio di giugno era salito a 30 punti base e c’era già chi si allarmava sulla piazza finanziaria di Parigi. Adesso che è balzato a quota 190 è rimasto soltanto un precedente peggiore con il quale confrontarsi e risale al lontanissimo aprile del 1982. François Mitterrand era stato eletto Presidente da un anno, il governo dei socialisti, alleati con i comunisti, aveva cominciato a varare nazionalizzazioni e aumenti del salario minimo. Deficit e debito pubblico erano partiti al galoppo. Lo spread arrivò a toccare i 743
per di più, a tassi meno favorevoli di quelli attuali. Ma le nubi di tempesta che si addensano sulla Francia non devono far scattare un meschino sentimento di rivincita nazionale.
Sono la prova di una situazione difficile che richiede contromisure efficaci. E qui si entra nella seconda parte dell’analisi sviluppata ieri anche da Barroso e Van Rompuy nei loro interventi al Parlamento di Strasburgo. Di fronte a quella che ha definito la crisi sistemica dell’area dell’euro, il presidente della Commissione euro-
terzo trimestre (appena lo 0,2 per cento sia nella Ue a 27 che nell’eurozona) dimostrano che l’intera Europa sta entrando in una fase di stagnazione e Barroso non ha esitato a parlare del rischio di una nuova recessione. Per contrastare questo estremo pericolo, sia Barroso che Van Rompuy hanno indicato una strategia complessiva – «l’euro non diventerà più forte con la frammentazione della Ue» – e hanno elencato una serie di iniziative. La Commissione presenterà il 23 novembre a Bruxelles non soltanto l’annunciato “Rapporto annuale sulla
al margine del vertice dell’Apec (l’incontro dei 21 Paesi che affacciano sul Pacifico) che si è svolto alle Hawaii, il leader Usa ha chiarito che i “leggeri miglioramenti” sulla questione non bastano e ha spronato Pechino a fare di più. Dura la reazione cinese: «Anche se lo yuan è salito di molto, questo non basta a risolvere i problemi degli Stati Uniti. Abbiamo aumentato di molto il valore monetario e continueremo a farlo, ma soltanto in maniera graduale».
La questione è cruciale. Il valore della “moneta del popolo (renminbi)”, infatti, condiziona in maniera diretta il costo del lavoro della manodopera cinese e dà a Pechino un chiaro vantaggio nel campo delle esportazioni. In questo modo, però, penalizza in maniera incisiva il tasso di occupazione americano e squilibra la bilancia commerciale fra le due nazioni: secondo i deputati repubblicani del Congresso, si tratta di “atti di pirateria”.Tuttavia le due economie sono troppo interconnesse per arrivare a uno
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ieri si è detto “preoccupato” per la situazione economica europea. In alto il francese, Nicolas Sarkozy, che deve affrontare l’assalto dei mercati
crescita”, che è la base di lavoro per la preparazione delle politiche di bilancio per il 2013, ma anche due proposte legislative per rafforzare la sorveglianza nei Paesi in difficoltà e il più volte annunciato “libro verde” sulla possibile introduzione degli eurobond. Contro gli eurobond, però, Angela Merkel ha già confermato il veto tedesco.
Tra Bruxelles, Berlino e Parigi, infatti, le ricette per uscire dalla crisi non coincidono. L’unico punto sul quale, a quanto sembra, è stata raggiunta un’intesa è la «rappresentanza unica» dell’eurozona nelle istituzioni internazionali come il G20 o il Fondo monetario internazionale, rappresentanza che dovrebbe essere affidata a Herman Van Rompuy. Tutta la partita per scrivere il nuovo libro delle regole che dovrebbe restituire forza alla moneta comune – la cosiddetta “Maastrichtdue” – scatterà dopo il vertice europeo di fine anno e, nelle intenzioni di Parigi e di Berlino, dovrebbe concludersi a giugno con il passaggio intermedio del Consiglio europeo di primavera. Ma in quei sei mesi ci sarà anche l’appuntamento delle elezioni presidenziali francesi (primo turno il 22 aprile, ballottaggio il 6 maggio) che potrebbe cambiare uno dei giocatori al tavolo se Nicolas Sarkozy dovesse perdere la sfida con il candidato socialista, François Hollande, come i sondaggi – per ora – prevedono. In ogni caso, a quello stesso tavolo ci saranno di sicuro altre novità. Ci sarà il nuovo primo ministro che uscirà tra pochi giorni dalle elezioni in Spagna. Ci sarà Mario Draghi come presidente della Bce, e ci sarà anche Mario Monti. E c’è da augurarsi che nell’asse Parigi-Berlino possano entrare altre voci.
strappo diretto, e Pechino continua a vantare un enorme quantitativo di debito estero americano in cassa: Obama, che conosce molto bene questi dati, ha sottolineato infatti la “necessità” di cooperare e di trovare “soluzioni che siano condivise e condivisibili, per la crescita e il vantaggio reciproco”. Dal vertice Apec, però, il presidente americano ha tratto anche qualche risultato: Barack Obama è riuscito a fare decollare il suo progetto per creare la più grande zona di libero scambio di tutto il mondo. Obama ha raccolto l’adesione di Canada e Messico alla proposta del Tpp, dopo aver già incassato l’ok del Giappone. Questa zona di libero scambio - che riunisce circa 800 milioni di consumatori e quasi il 40% dell’economia globale - diventerà una volta creata la più grande partnership commerciale del mondo, molto più avanti rispetto all’Ue che non produce che un quarto della ricchezza: «Ora abbiamo l’opportunità di muoverci verso il nostro obiettivo finale: l’economia regionale senza ostacoli».
mondo
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Le violenze ininterrotte del dittatore non fermano l’opposizione, che mette su un’armata e attacca con mezzi pesanti i centri del potere
I convertiti di Damasco
I ribelli assaltano una caserma e molti soldati si uniscono a loro. Dopo otto mesi di rivolte, la Siria è sempre più vicina al collasso di Antonio Picasso assalto alla caserma dell’intelligence, avvenuto ieri fuori Damasco, è conferma che della piena guerra civile in corso in Siria. La violenza e la lunghezza temporale degli scontri, siamo ormai a otto mesi, non possono farci parlare di un mero fenomeno di rivolta. Questo non porta a prevedere un immediato intervento delle forze straniere. Anzi. La Nato non si può permettere ulteriori manovre, visti gli impegni di Afghanistan e Libia. La Lega araba, dal canto suo, non vanta in passato operazioni militari congiunte. E questo lascia pensare che si atterrà alla tradizione. È plausibile invece un’iniziativa autonoma della Turchia, con il placet degli alleati arabi e occidentali. Il che darebbe ad Ankara lustro e forza diplomatica. Gli avvenimenti di ieri, inoltre, lasciano intendere che Assad ha una data di scadenza. Nessuno è ancora in grado di leggerla, ma c’è. Non sappiamo nemmeno in che maniera verrà deposto. Linciato come Gheddafi, oppure in fuga come il tunisino Ben Ali? C’è anche la strada del processo, come sta accadendo a Mubarak. Escludiamo però che se, per assurdo, il presidente siriano domani decidesse di invertire repentinamente la strategia e avviare le necessarie riforme, le opposizioni interne e la comunità internazionale difficilmente potrebbero accordargli fiducia. In merito è
L’
esplicativa la dichiarazione del ministero degli esteri francese alla notizia del rilascio di circa mille detenuti. Per Parigi, si tratta di un numero irrilevante. Qualunque iniziativa di apertura di Assad non potrà compensare i danni arrecati. Il compound preso di mira dal Free Syrian Army (Fsa) faceva parte delle aree di competenza dell’Air Force Intelligence. Stando alle dichiarazioni del Syrian National Council (Snc), la mens politica del Fsa, sembra che un reparto di quest’ultimo sia riuscito a penetrare negli edifici ricorrendo anche all’uso di elicotteri. È sicuro comunque l’impiego di artiglieria pesante da ambo i lati. La
frangia di opposizione, vuol dire che questa riesce a penetrare nel tessuto diplomatico internazionale, mentre in casa ha tutte le carte in regola per assumere il potere. Pare infatti che le Fsa siano costituite per lo più da disertori delle forze regolari, si parla addirittura di 15mila uomini. Non è una cifra irrisoria.
Nell’assalto alla caserma, i ribelli hanno azzeccato anche la tempistica. Tra il novembre 1970 e il febbraio dell’anno successivo, si consumava il golpe firmato da Hafez el-Assad, padre dell’attuale presidente. La volpe di Damasco si mise motu propio alla guida del Baath e dell’esercito. Quarant’anni di dittatura, quindi, spregiudicata, familistica, gattopardesca. Quasi mezzo secolo di una Siria autoritaria, di cui nessuno si è mai potuto fidare e che oggi ha imboccato il viale del tramonto. Intanto prosegue il processo di isolamento internazionale ai danni del regime. Il vertice della Lega Araba, che si è tenuto a Rabat, ha confermato la sospensione della Siria in qualità di Paese membro. Damasco, per voce del suo ministro degli esteri, Walid al-Moallem, ha respinto la scelta dell’organizzazione. Ciò non toglie che il regime resti così abbandonato. Le spalle rivolte dalla Lega fanno il paio con lo smacco di Mosca. A fianco di Assad resta solo l’Iran. Ma Teheran come può giungere in soccorso dell’a-
Prosegue il processo di isolamento internazionale ai danni del regime. Il vertice della Lega Araba, che si è tenuto a Rabat, ha confermato la sospensione del governo di Assad scelta dell’obiettivo è legata al fatto che l’agenzia colpita resta una fedelissima del regime ed è colpevole di aver adottato le più sanguinarie misure repressive di questi ultimi mesi. Misure che, secondo l’Onu, avrebbero ormai provocato circa 3.500 morti, 17 negli scontri di ieri. Senza contare i feriti e soprattutto gli arresti. In tal senso si parla di decine di migliaia di fermi e sospetti.
È la guerra civile a tutti gli effetti, quindi. Con tanto di schieramenti sempre più distinguibili. Ancora ieri, alcuni rappresentanti dell’Scn sono arrivati a Mosca. Se il Cremlino dà ascolto a una
mondo
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Bufera sull’esercito, che non accenna a voler mollare la presa sul potere membri del Partito nazionale democratico (National Democratic Party, Ndp) di Hosni Mubarak potranno candidarsi alle elezioni. Lo ha annunciato ieri l’Alta corte amministrativa egiziana, che ha annullato una sentenza del tribunale della città di Mansoura che aveva vietato a sei membri dell’Ndp di iscriversi nelle liste. Ma il Paese continua a sprofondare nel caos, con l’esercito che non accenna a voler cedere il controllo sul potere e continua a violare i diritti della popolazione. Incarcerazioni, violenze arbitrarie, negazione dello stato di diritto continuano a scuotere la nazione e a provocare le accese contestazioni di partiti e attivisti politici.
I
La decisione di riammettere di fatto gli esponenti del precedete governo nell’agone politico egiziano, ad esempio, ha scatenato le proteste di molti esponenti dei partiti democratici nati durante le proteste di piazza Tahrir contro il regime. Essi annunciano nuove manifestazioni di massa in caso di nuove riammissioni di membri dell’Ndp. «Anche se la sentenza della Corte non è impugnabile – afferma Injy Hamdi, membro del partito dei giovani 6 aprile - noi ci batteremo affinché questi personaggi corrotti stiano lontano dalla politica». A tutt’oggi sono decine gli affiliati al partito dell’ex raìs che si presentano a elezioni come candidati indipendenti o all’interno di altre coalizioni. Lo scioglimento del partito di Mubarak, avvenuto il 16 aprile, è stata una delle principali richieste dei manifestanti durante le rivoluzione dei Gelsomini. Secondo la sentenza tutte le proprietà dell’Ndp sono state sequestrate e trasferite sotto la tutela dell’attuale Consiglio superiore dei militari. Nato nel 1978, l’Ndp ha dominato per oltre trent’anni il Paese, vincendo le elezioni con brogli e mettendo fuorilegge i partiti di opposizione. Mubarak, i suoi fi-
E in Egitto ritornano i sudditi del Faraone Alle elezioni saranno ammessi anche candidati del partito di Hosni Mubarak di Vincenzo Faccioli Pintozzi
La decisione dell’Alta Corte ha scatenato le proteste popolari. Il Paese sempre più incastrato in un caos di arresti arbitrari, censura e violenze. Mentre i Fratelli musulmani aspettano nell’ombra per imporre la shari’a gli e altri funzionari del partito sono sotto processo per corruzione e violazione dei diritti umani: processi che si preannunciano estremamente lunghi e farraginosi, data anche la grandissima popolarità di cui, soprattutto nelle campagne, i dirigenti del vecchio governo continuano a godere.
Un problema serio viene anche dalla questione dell’informazione e della censura. Hosni Mubarak è stato “detronizzato” in febbraio e il merito del cam-
mico, quando instabilità interne e crisi nucleare non permettono nemmeno agli ayatollah di dormire sonni tranquilli? La chiusura della Lega Araba era da prevedere. Le dichiarazioni del re giordano, Abdullah II, per cui «se fosse in Assad, abbandonerebbe il potere», così ha detto, sono state l’ultimo segnale di avvertimento. Del resto, il leader siriano da troppo tempo e con modalità eccessivamente provocatorie ha voluto beffarsi dei suoi ex partner. Le promesse di effettuare le riforme, così come erano state fatte di fronte agli oppositori e ai mediatori, sono rimaste insoddisfatte.
Non da ultimo a Riyadh, Amman e nelle altri capitali del Medioriente, non si ha certo l’intenzione di finire dietro le sbarre come Mubarak, o peggio ancora a sanguinare in un condotto fognario.
bio di governo è stato soprattutto del web: i giovani egiziani si sono organizzati su Facebook e Twitter per scendere in piazza a protestare.
La censura ha tentato di fermarli, eppure la “rivoluzione” è avvenuta comunque. Il risultato? La censura del web è tornata. La “rivoluzione” digitale ha fallito su tutta la linea. Anziché portare l’Egitto a una nuova fase democratica, il governo militare transitorio l’ha trasformato nel terzo paese del mondo
Vedi Gheddafi. Tanto vale abbandonare alla deriva i regimi incurabili e salvare quei Paesi ancora immuni dalla rivoluzione. Il Baath è, in questo caso, il ferito che nella colonna in fuga va lasciato al suo destino. Lo ha capito perfettamente la Turchia, anch’essa ex interlocutrice non secondaria per Damasco. «Assad pagherà a caro prezzo la sua repressione violenta», ha commentato il responsabile della politica estera di Ankara, Ahmet Davutoglu.
Una previsione realistica che suona pure come minaccia. Nel senso che potrebbe essere proprio la Turchia a regolare i conti e liquidare il Baat. Da notare che anche Davutoglu era presente a Rabat lunedì. Il Paese non è membro della Lega, ma ha voluto partecipare silenziosamente al vertice. Nel frattempo ad
per arresti e torture all’indirizzo dei blogger (appena dietro a Cina e Iran). Non esiste alcuna libertà d’espressione ed emerge il fondamentalismo. Ayman Youssef Mansour è l’ultimo dei blogger condannati dal Consiglio Supremo delle Forze Armate che controlla l’Egitto. Ha “osato” scherzare sull’islam in un aggiornamento di stato su Facebook.
Maikel Nabil Sanad è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico, poi portato in carcere
Ankara è atteso Alain Juppé, ministro degli esteri francese. È straordinario come un nemico comune riesca a mettere tutti d’accordo. C’è da chiedersi come in Israele vedono il loro primo nemico collassare per opera del fresco avversario turco. I segnali suggeriscono che la Turchia stia aspettando solo il via libera da tutti – da occidente e da oriente – per intervenire. Militarmente? È possibile. Del resto, Ankara sta già sorvegliando i confini con la Siria, se non altro per contenere la massa di profughi che scappano dall’artiglieria di Assad. Se poi, in questo modo, oltre al regime venisse sistemato anche il Kurdistan siriano, Erdogan e soci ne sarebbero ben lieti. Perché è vero che i kurdi siriani da sempre sono i più tranquilli, ma chi assicura che, a democrazia insediata, anche loro non alzino la testa e diventino
per lo stesso reato. Una deriva molto pericolosa. Sanad e Alaa Abd El Fattah, un altro blogger imprigionato, hanno disconosciuto la reggenza militare.Tuttavia, per la comunità internazionale è stato sufficiente eliminare un ex–alleato scomodo come Mubarak.Tunisia e Libia sono destinate a subire la stessa involuzione. La responsabilità, però, non è del web: è di chi lo controlla. L’Occidente ha facilitato la diffusione delle idee dei giovani perché voleva la sostituzione di Mubarak. Oggi gli stessi ragazzi sono stati messi a tacere e l’Occidente non ha più interesse ad aiutarli. Facebook, ad esempio, in quest’occasione non s’è affatto opposto alla rimozione delle pagine e dei gruppi degli attivisti egiziani. Internet è stato uno strumento democratico, finché non ha assunto un ruolo davvero importante.Al pari degli altri medium di massa, come la radio e la televisione, il web è destinato a essere controllato sempre più spesso dai poteri forti: le “rivoluzioni” non accadono per l’esclusiva volontà d’un popolo. Neppure nell’era digitale.
Ora, se il controllo del Partito pro-Mubarak dovesse tornare a essere incisivo nella vita politica dell’Egitto potremo aspettarci una nuova lotta all’ultimo sangue fra i vecchi oligarchi e i Fratelli musulmani, che si considerano gli ispiratori e i vincitori della “primavera” del Cairo e ora vogliono godersi i frutti del proprio operato. Ma questo significa l’introduzione della shari’a, della legge del Corano, come base per il diritto; la fine dei diritti civili e politici per buona parte della popolazione di fede copta; il reintegro di pratiche sociali che l’Egitto non vede da decenni e che vennero messe da parte. Un ritorno alle origini che assomiglia a un Medioevo, inaccettabile per chi ha combattuto per vedere invece la primavera nel proprio Paese.
elemento di disturbo regionale? Infine il quadro economico. Una recente analisi del Foreign Policy dice che la Siria regge ancora alle sanzioni imposte. Soprattutto i suoi affaristi, sparsi un po’ ovunque sul mercato globale, stanno tenendo aperti i rubinetti.
Ad agosto il governatore della Banca centrale, Abid Mayaleh, ha detto che le riserve nazionali ammontano a 18 miliardi di dollari.Tuttavia, l’annullamento del settore turistico non fa gioco al commercio nazionale. Inoltre, pare che la delegazione dell’Snc, a Mosca in questi giorni, si sia confrontata con i russi per avviare un piano di ricerche di idrocarburi una volta finita la rivoluzione. I petrolieri russi non prendono accordi al buio. Forse per Assad le ore contate sono ancora meno di quelle previste.
cultura
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Per alcuni, i canali di comunicazione di nuova generazione «democratizzano» l’arte. Per altri, la «spersonalizzano»
Mostra o “mostro” virtuale? Sempre più numerosi i musei che utilizzano nuove forme di tecnologie. Tra pro e contro... di Livia Belardelli ppuntamento a due passi dal Colosseo. Le rovine romane, accarezzate dall’arancio del tramonto che ne riscalda le crepe del tempo, salutano la giornata con la loro palpabile e cruda bellezza. «E allora com’era la mostra?» chiede lei. Lui non la guarda e non risponde.Tira fuori il cellulare dalla tasca e digita sullo schermo. Poi mostra soddisfatto il display illuminato. C’è sempre lui, in primo piano, il faccione incorniciato da un copricapo romano, il sorriso un po’ ebete, novello centurione del XXI secolo. Souvenir della mostra, forse l’unico. Lei accenna un sorriso: «Sì, ma la mostra com’era?». «È la tecnologia, bellezza, la tecnologia. E tu non puoi farci niente», si potrebbe dire parafrasando Bogart in L’ultima minaccia. E questa è una scena immaginaria e immaginata, forse verosimile, di certo“virtuale”. Serve a introdurre un “triangolo da considerare”: beni culturali, comunicazione e nuove tecnologie. Il punto di partenza può essere il museo. Luogo d’esposizione dell’arte ma soprattutto di comunicazione e trasmissione della cultura visiva.Va da sé che il secondo punto è il pubblico, oggetto di tale trasmissione e comunicazione. E poi c’è il mezzo, il canale, il filo che unisce questi due poli, la scintilla che dovrebbe attizzare il fuoco (sacro dell’arte?) e che a volte si limita a creare un cortocircuito.
A
Oggi questo canale si chiama sempre più tecnologia, computer grafica, spesso realtà virtuale. Mezzo d’informazione per veicolare segni e contenuti, è a volte glorificata come innovazione eccezionale per coinvolgere un pubblico medio spesso poco motivato, altre volte demo-
nizzata dal “purista” dell’arte che la considera un mezzo per banalizzare l’approccio alla cultura o ancor peggio un vero e proprio muro che trasforma il canale - la tecnologia appunto in oggetto stesso della comunicazione. D’altronde la tecnologia non è neutra.
Facendosi portatrice di un messaggio comunicativo lo riplasma e lo modifica con il rischio di oscurare l’oggetto stesso e distogliere l’attenzione dell’utente. È dunque un mezzo potente e invasivo, pericoloso se non utilizzato nella giusta maniera. Ma è anche utile? Fino a che punto? Secondo Carlo Tamanini, responsabile della Sezione Didattica del Mart di Trento e Rovereto, le nuove tecnologie assumono un ruolo relativo, certamente un valido supporto ma nulla di più. «Sul loro ruolo non enfatizzerei. Per le nuove generazioni ad esempio, nate in un mondo di sofisticati supporti tecnologici, finiscono per risultare più affascinanti ambienti in controtendenza, dove le sollecitazioni visive della quotidianità possono decantare per lasciare spazio a nuovi stimoli percettivi». Ad essere importanti, continua Tamanini, sono le esperienze estetiche a diretto contatto con le opere d’arte che costituiscono di per sé stimoli ideali, capaci di provocare un ampio range di atti cognitivi, dallo stupore alla curiosità, dallo straniamento all’attrazione e all’avversione. Un’esperienza estetica che, a suo avviso, contiene già in sé quel potere attrattivo e comunicativo che non deve essere necessariamente supportato da un “arsenale”di tecnologie. Di fronte a uno sguardo non entusiastico su operato e utilità delle nuo-
A sinistra, Carlo Tamanini, responsabile della Sezione Didattica del Mart e le home page del Google Art Project e del Museo Virtuale dell’Iraq. Sotto, un’immagine delle Grotte di Lascaux. A destra, Francesco Antinucci, direttore di ricerca al Cnr in una nuova rete di segni e significati. Per renderla nuovamente comprensibile bisogna ricostruire l’ambiente da cui è stata prelevata, ricreare quel contesto portatore di significato che faciliterà lo scambio comunicativo tra essa e il pubblico.
ve tecnologie è d’obbligo però non dimenticare l’evidente mutamento avvenuto nel pubblico dell’arte. Il museo non è più luogo frequentato per lo più da cultori e studiosi ma si è “democratizzato” aprendo i battenti al consumo di massa che, in quanto tale, prevede un approccio meno tecnico e modalità più accattivanti per attirare l’attenzio-
ne di un utente meno recettivo e forse più sbadato. Proprio su questo pubblico la tecnologia, a patto che non cannibalizzi l’offerta artistica con i suoi “lustrini”, può avere un ruolo importante di guida e di ponte. Il museo per sua stessa natura tende a decontestualizzare l’opera d’arte, a prelevarla dal suo ambiente originario e ad inserirla
Così come accade per i media tradizionali (brochures, schede, tour guidati), anche la realtà virtuale e le nuove tecnologie in genere possono potenziare questo approccio e creare nuovi efficaci modelli di fruizione che vanno dalle istallazione agli schermi multimediali, dai filmati alle audio-guide. Esempi virtuosi di impiego delle nuove tecnologie oltre che all’interno del museo si trovano anche all’esterno, attraverso la creazione di siti internet che abbattono le barriere logistiche del museo reale e permettono una visita guidata virtuale
cultura gli Uffizi al Reina Sofia di Madrid fino al Metropolitan Museum di NewYork, passeggiando tra le sale, osservando le opere e godendo per alcune delle tele esposte di una risoluzione in gigapixel in grado di mostrare dettagli altrimenti invisibili all’occhio umano.
che, seppur ovviamente diversa dalla visita in carne ed ossa, può adempiere in parte alle necessità comunicative dell’utente. È chiaro che nella maggior parte dei casi la visita virtuale debba essere un primo step, un punto di partenza a cui far seguire la visita in loco. Ci sono però circostanze in cui la realtà virtuale fa le veci del luogo fisico. Esempio suggestivo sono le grotte di Lascaux, chiuse al pubblico a causa
Un ultimo esempio, che forse rende ancor più evidente la forza comunicativa delle tecnologie, sta nei tanti siti che importanti musei del mondo dedicano a un utente ancor più esigente e difficile da “catturare”, il bambino. Fermo restando che i laboratori di tanti musei - molti anche italiani come il Palazzo delle Esposizioni romano - riescono nell’intento utilizzando metodi del tutto tradizionali, esistono siti ad hoc che dimostrano come internet possa diventare un primo, ma ovviamente non unico, mezzo per incuriosire un pubblico meno adulto. Provare per credere, basta un click nel sito della Tate “kids”di Londra o una visita guidata (da un buffo alieno verde!) con Destination Modern Art (moma.org/interactives/destination) direttamente al MoMA di New York. Qualche click ulteriore per inseguire la ballerina di Degas tra le sale del museo o entrare ne La notte stellata di Vincent Van Gogh, ascoltare i suoni del campanile, del vento e della notte oppure indovinare i colori sulla tavolozza dell’artista. Quando, come nella maggior parte dei casi - esempio virtuoso è il museo degli Uffizi che dopo il lancio di Google Art Project ha visto un aumento di incassi e accessi - l’approccio virtuale non esaurisce le volontà di fruizione ma la moltiplica, le tecnologie avranno fatto bene il proprio lavoro. Sarà proprio quel primo contatto a farsi ponte con l’espo-
Mezzo d’informazione di massa che veicola contenuti, la realtà virtuale è a volte glorificata come innovazione capace di coinvolgeree un pubblico poco motivato.Altre viene demonizzata dal purista dell’arte della fragilità dei dipinti in esse contenuti, ma ricostruite attraverso un’istallazione in grado di rendere accessibile un patrimonio artistico altrimenti inconoscibile. Provocatoriamente, viene da dire, una memoria storica che diviene virtuale?
Altro esempio paradigmatico è il museo on line dell’Iraq, anch’esso di difficile fruizione a causa dell’instabilità del Paese ma ricostruito con semplicità ed efficacia attraverso un sito internet (virtualmuseum-iraq.cnr.it) che ricostruisce in 3d sale e oggetti permettendo di “visitare” non solo il museo ma anche, in un suggestivo volo d’angelo sulla città, l’antica Babilonia. Eccezionale esempio positivo di nuove tecnologie a servizio della cultura è Google Art Project. Basta accedere a googleartproject.com per effettuare un tour virtuale tra 17 musei del mondo, da-
sizione reale, a diventare modalità scatenante in grado di stimolare curiosità e volontà di approfondimento anziché insinuare il germe di quell’”anoressia dell’arte”, di cui parla Achille Bonito Oliva, provocata dalla smaterializzazione dell’opera attraverso la navigazione internet. D’altronde, se è vero che la conoscenza nasce dalla meraviglia nei confronti della realtà, come diceva Platone prima e Aristotele poi, è vero, a mio avviso, anche il contrario. La conoscenza di un artista, la sua “poetica”, il suo stile, sono elementi in grado di suscitare un senso di meraviglia davanti all’opera d’arte non sempre percepibile altrimenti. Sarà forse una meraviglia più intellettuale, meno naïve e diretta, mediata e stimolata appunto dalla conoscenza, ma in grado di originare quell’emozione che credo sia l’aspetto più bello della fruizione artistica.
i che d crona
Il professor Antinucci sulle nuove tecnologie
«Siano il mezzo, non la guida» L
uogo per eccellenza di conservazione ed “esposizione” dell’arte il museo ha il compito primario di veicolare conoscenze e valori in maniera efficace. Un compito questo, che, causa l’aumento esponenziale del pubblico spesso inversamente proporzionale al grado di istruzione, non sempre viene raggiunto. Il museo comunica poco e male sostiene Francesco Antinucci, direttore di ricerca all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr, auspicando un rinnovamento del museo che nasca dalle fondamenta e al quale solo dopo potrà seguire un uso efficace delle nuove tecnologie. Come possono le nuove tecnologie diventare strumento di conoscenza e agevolare la comunicazione? Le nuove tecnologie sono uno strumento molto potente ma non sono efficaci se non si procede prima a una riorganizzazione del museo. Non è mettendo due schermi o un computer che si risolve il problema. La tecnologia va integrata e deve seguire un lavoro di selezione e riorganizzazione del museo senza il quale non solo non sarà utile ma diventerà addirittura controproducente. Affiancare semplicemente la tecnologia è un modo per creare ulteriore confusione. Come può essere riorganizzato il museo per integrare nuove tecnologie? Innanzitutto non può esserci un’organizzazione tassonomica, le sale del museo non devono essere stipate da un’esposizione infinita di La quantità esemplari. confonde. È necessario selezionare pochi elementi fondamentali e concentrarsi su questi. Solo a questo punto possono essere d’aiuto le nuove tecnologie. Il museo infatti per sua stessa natura decontestualizza l’oggetto d’arte. Attraverso la tecnologia bisogna ricostruire quel contesto. La realtà virtuale, ma anche il vecchio cinema, sono efficaci mezzi per fare ciò ma solo a seguito di un importante lavoro di selezione dei pezzi. Come può avvenire tale ricostruzione del contesto?
Le faccio un esempio. Il museo di Castiglion Fiorentino. Un filmato ricostruisce una giornata al tempio e spiega come venivano utilizzati gli oggetti del sacrificio e le statuine delle offerte. Ogni tanto il filmato si interrompe e una luce illumina l’oggetto fisico nella vetrina della sala. È un modo semplice ma di grande impatto comunicativo. La semplicità deve essere alla base della comunicazione. La tecnologia non deve essere la guida ma il mezzo. Un’interfaccia grafica troppo elaborata rischia di essere fine a se stessa e non produrre alcun arricchimento cultura-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri)
le. La tecnologia deve essere a servizio di un’idea comunicativa, la parte forte è l’idea comunicativa. Bisogna capire cosa si vuole raccontare e qual è la maniera più efficace per farlo. Ed è necessario valutare il destinatario dell’informazione. Oggi infatti il bacino d’utenza del museo si è ampliato e l’utente medio non ha il background del passato, più esiguo e selezionato, né la preparazione per interpretare senza aiuto quanto il museo espone. La situazione che descrive è prettamente italiana o avviene anche altrove? È una situazione abbastanza comune ma paradossalmente sono proprio i Paesi con una tradizione culturale solida ad avere maggiori problemi perché non viene permessa una necessaria ma invasiva riorganizzazione. Paesi con una tradizione meno consolidata, così come i piccoli musei rispetto a quelli più grandi, hanno un margine di manovra maggiore e non incontrano le insormontabili resistenze di ministeri e sovraintendenze. La verità è che bisogna intervenire col bisturi e nessuno ha il corag(l.b.) gio di farlo.
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