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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 19 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

L’esecutivo ottiene la fiducia. Anche Berlusconi applaude: «La partenza mi sembra sia stata buona»

Comincia la Terza Repubblica In dieci giorni è cambiato tutto: Monti giovedì da Merkel e Sarkozy Il neo premier convince la Camera: «Non può essere un governo a tempo. Se riusciamo, riuscite anche voi, ma se falliamo fallite anche voi. E ora chiederemo una sforzo a chi ha dato di meno» Il discorso del leader centrista a Montecitorio: «Non perdiamo questa occasione»

Duro intervento del presidente Bce

Draghi avverte l’Europa: «Il peggio deve ancora venire»

Non è un governo tecnico, è il ritorno della Grande Politica di Pier Ferdinando Casini orrei fare qualche considerazione che non intendo rivolgere solo al Presidente del Consiglio e ai ministri, ma anche all’onorevole Bersani, all’onorevole Alfano e, naturalmente, a tutti i colleghi che, con passione, anche con travaglio, ma con serietà, oggi sono qui, in questo passaggio, che è uno snodo della nostra vita nazionale. Bisogna avere chiaro che siamo di fronte a un’occasione irripetibile: non sprechiamola! E non pensiamo che quest’occasione sia solo frutto di uno stato di necessità che accettiamo con il mal di pancia. a pagina 3

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Il primo obiettivo per superare l’emergenza

La carta vincente di Supermario: riportarci al tavolo dei Grandi

UNA SVOLTA NECESSARIA

Finalmente è tornata la strategia della coesione di Francesco D’Onofrio olte sono state le domande concernenti il nuovo governo: saranno le prossime settimane a dirci se l’Italia si trova in una situazione di emergenza economica che richiede l’adozione di provvedimenti prevalentemente economici, o se – come sembra – si è in presenza di una sostanziale mutazione radicale. a pagina 7

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di Enrico Cisnetto on Francia e Germania per risolvere la crisi».Tra i tanti riferimenti programmatici “interni” espressi dal presidente del Consiglio in sede di fiducia al nuovo governo, questo “europeo”sembra essere di gran lunga il più importante. Perché lo spread della Francia oltre i 200 punti (poi per fortuna subito calato), se da un lato è la prova provata che il complotto contro

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l’Italia e il governo Berlusconi che è stato evocato dalla destra non esiste e non è mai esistito – altrimenti Sarkozy, indicato come il mandante dell’aggressione finanziaria contro di noi, non sarebbe vittima dello stesso meccanismo di mercato – dall’altro lato è la certificazione del fatto che la crisi è prima di tutto eurosistemica e che solo in quella sede è risolvibile. a pagina 6

Appello ai governi Ue: «Le economie si indeboliranno in gran parte dei Paesi avanzati. Non potete più rimandare un intervento sul Fondo Salva-Stati» Franco Insardà • pagina 4

Parla Luigi Paganetto

«La crescita? Giovani e ricerca» Francesco Lo Dico • pagina 5

Casini, Bersani e Alfano a un convegno di Scienza e Vita con il presidente della Cei

«Libertà non è uccidere l’uomo» Leggi e valori non negoziabili: la bioetica secondo Bagnasco di Angelo Bagnasco utti ci rendiamo conto che siamo dentro ad una crisi internazionale che non risparmia nessuno, e che nessuno, nel mondo, può atteggiarsi da supponente maestro degli altri. I grandi problemi dell’economia e della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e dell’uso sostenibile

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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della natura, attanagliano pesantemente persone, famiglie e collettività, specialmente i giovani. Su questi versanti, che declinano la cosiddetta “etica sociale”, la sensibilità e la presenza della Chiesa sono da sempre sotto gli occhi di tutti. Fanno parte del messaggio cristiano come inderogabile conse-

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• CHIUSO

guenza. Ma oggi dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla vita umana nella sua nudità. Credo sia inevitabile allargare, seppur brevemente, l’orizzonte per poter meglio affrontare il tema della vita umana nella sua assoluta indisponibilità o, se si vuole, sacralità. segue a pagina 18

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Alla Camera 556 sì e 61 no: la vecchia maggioranza e la vecchia opposizione insieme per garantire il futuro del Paese

Il giorno della svolta

Fiducia record per Monti: «Lavoriamo insieme, un nostro fallimento sarebbe anche quello della politica». Stavolta Berlusconi applaude di Errico Novi

ROMA. Li guarda negli occhi. Con la forza dell’onestà, del servitore dello Stato. Di chi si sente chiamato a una missione «quasi impossibile» ma non cerca neppure uno straccio d’alibi. Con il senso dell’umiltà, con tono drammatico, ma anche con una sfida. Ecco, Monti si rivolge ai suoi interlocutori, ai leader politici nell’aula di Montecitorio, e con lo sguardo e le parole li chiama letteralmente a una sfida. «Non vi chiedo una fiducia cieca, che sia invece una fiducia vigilante. Ma credo che se faremo un buon lavoro e voi deciderete non accordarcela, dovrete anche considerare la fiducia dei cittadini in

tempo, eccome se lo siamo, ripete nel suo intervento. Ma appunto dice poi che seppure dipendente dal voto in aula, il suo esecutivo è pronto a misurarsi con le forze politiche nel giudizio dell’opinione pubblica.

posizione. Plausibilmente le scosse potranno arrivare anche da altri. Questo Monti lo sa. E proprio il fatti di lasciar trasparire questa consapevolezza conferisce un’intensità drammatica al suo intervento.

C’è una drammaticità nelle parole del professore Monti (lui chiede di non accantonare il titolo, «i presidenti passano, diceva Spadolini») che persino intenerisce, di sicuro colpisce Pier Ferdinando Casini che non è certo il principale destinatario del messaggio: «Si può sussurrare dicendo parole molto forti, Monti ci dà un esempio di come si possano dare messaggi poANGELINO ALFANO litici e poco tecnici in modo raffina«Non c’è alcuna to». Pesano la difopposizione ficoltà della sfida a riesaminare e il rischio che la la tassazione complicazione si sugli immobili, innalzi proprio ma c’è una forte per i capricci delle opposizione forze chiamate aldi principio la responsabilità. ad una imposta Espressione con patrimoniale cui ora lo stesso indiscriminata, neopremier declicentralista na la precedente e depressiva» definizione del «governo di impegno nazionale». voi». Lui, il tecnico che non è sta- Sa di dover risolvere nodi comto eletto, mette alla prova i partiti plicatissimi e che c’è chi in aula e proprio sul piano del consenso. fuori lo ostacolerà anziché aiuNon avremmo accettato un man- tarlo. Non solo la Lega, che almedato a tempo ma di fatto siamo a no si schiera apertamente all’op-

Però visto che i miracoli non finiscono più, come dice Enrico Letta in un bigliettino al premier “catturato”dai fotografi di Montecitorio, il giorno della seconda e decisiva fiducia lascia intravedere anche altro. Intanto i numeri sono da record assoluto: 556 favorevoli e 61 contrari. Poi nella partita del destino che apre laTerza Repubblica ma non esaurisce certo l’incredibile sfida, succedono altre cose inimmaginabili. Prima di tutto il neo presidente del Consiglio infrange d’incanto lo schema del direttorio franco-tedesco: giovedì vedrà a Strasburgo Merkel e Sarkozy «per avere d’ora in poi la presenza dell’Italia nelle decisioni europee». Conferma di aver ricevuto da entrambi incoraggiamenti telefonici già giovedì e promette in ogni caso di approfondire «anche con Barroso e Van Rompuy» le questioni più urgenti che riguardano l’Eurozona. Una rivoluzione rispetto alla perdita di peso accusata di recente dall’Italia. Ma un ulteriore è più inatteso miracolo, come lo stesso Monti ammette poco dopo il voto di fiducia in conferenza stampa, è nel livello del dibattito in aula. Esordisce Franceschini

che fa di tutto per parlare di riforme e correggere l’impennata polemica della settimana scorsa, sempre dal Pd si impone lo slancio patriottico di Bersani, chiude un Alfano che parla con tono più

Il biglietto di Enrico Letta

«Caro Mario, hai fatto un miracolo! Quando vuoi, dimmi forme e modi con cui posso esserti utile...»: ha fatto scalpore un biglietto di Enrico Letta al premier, rivelato dai fotografi.

sobrio degli altri, e dice apertamente: «Noi della maggioranza siamo lieti di lasciare il governo in buone mani».

Rassicura, il segretario del Pdl, chi teme si scivoli in un «compromesso storico». Qui c’è invece, osserva, «una coalizione della responsabilità e dell’impegno». Molti consensi dall’Mpa (parla Lo Monte) e dai fuoriusciti del Pdl, con Antonione che

evoca la grosse koalition. Bella definizione dal rutelliano Pisicchio: «Questo è un governo parlamentare, nel senso della più corretta calligrafia istituzionale». Dal Terzo polo arrivano in generale i consensi più limpidi anche sui punti decisivi del programma: «Riforma delle pensioni, mercato del lavoro, dismissioni e privatizzazioni, chiedere di più a chi è diventato molto ricco e ha accumulato patrimoni», elenca il vicepresidente di Fli Bocchino. Poco dopo ai cronisti Monti confermerà l’intenzione di privilegiare l’equità con la seguente precisazione: «Faremo in modo che lo sforzo da compiere, fiscale e di ammodernamento, sia chiesto a chi ha dato meno fin qui». Nella dichiarazione di voto pronunciata da Casini c’è più che in altre l’idea di un passaggio storico: «Siamo chiamati a ricucire l’Italia, oggi che non c’è nemmeno più l’alibi di Berlusconi la storia è nelle nostre mani».

A tenere vivo il fuoco della polemica è come previsto la Lega. C’è un intervento sorprendente di Vanalli a inizio dibattito, poi però Martini e gli altri tornano a battere duro sul «governo dei tecnocrati» fino alla requisitoria di Reguzzoni, che se la prende con Europa e banche «pronte a ridurre i parlamenti nazionali a mero dettaglio». Prefigura uno Stato che depreda risparmi e pa-


il governo Monti

19 novembre 2011 • pagina 3

La politica non perda questa occasione Le nostre alleanze del futuro dipenderanno dai comportamenti rispetto a questo governo di Pier Ferdinando Casini orrei fare qualche considerazione che non intendo rivolgere solo al Presidente del Consiglio e ai ministri, ma anche all’onorevole Bersani, all’onorevole Alfano e, naturalmente, a tutti i colleghi che, con passione, anche con travaglio, ma con serietà, oggi sono qui, in questo passaggio, che è uno snodo della nostra vita nazionale. Penso che il Presidente del Consiglio, nella sua replica, abbia dimostrato che si può sussurrare dicendo cose molto forti. Credo che la nostra mente oggi dovrebbe andare ai quattro anni che abbiamo vissuto, non certo per riaprire ferite né per rivendicare primati per chi sta all’opposizione o chi ha legittimamente governato grazie alle scelte degli elettori. Non è il momento: avremo tempo, ci saranno competizioni elettorali, ci sarà la possibilità di riflettere con forza e con passione su quello che sono stati questi quattro anni. In quest’Aula abbiamo votato 51 volte la sfiducia al governo Berlusconi: esprimere oggi dei giudizi sarebbe pleonastico. E del resto gli italiani che ci ascoltano sanno benissimo che cosa pensiamo.

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re ad intermittenza nelle vicende della politica italiana perché è un alibi per chi fallisce: è più facile prendersela contro nemici invisibili o costruirseli a tavolino che assumersi la responsabilità di un esame di coscienza. Oggi siamo qui tutti - chi ha sostenuto il governo precedente e chi lo ha contrastato ad assumerci le nostre responsabilità. Tutto il resto è una perdita di tempo, è polemica strumentale. Un ex presidente del Consiglio, un amico di molti di noi, nei giorni scorsi ha detto: «È giusto, buono, il governo Monti, ma nasce sulla sconfitta della politica». Mi permetto di correggerlo. Io penso che la sconfitta della politica sia costituita dai governi che, dopo avere suscitato tante aspettative nella gente durante la campagna elettorale, le deludono nel corso del loro operato. Lì nasce la sconfitta della politica, lì vi è la delegittimazione della politica. E questo, purtroppo, è capitato in passato troppo spesso.

per il Parlamento: le Camere sono umiliate dall’inefficienza, dalla scarsa produttività dei mesi passati, non certo dal governo dei tecnici (il Presidente del Consiglio Monti, peraltro, ci ha dimostrato ieri ed oggi che è tutto salvo che un tecnico, perché è stato più raffinato di noi politici nel dare dei messaggi, tutti politici e poco tecnici).

Siamo di fronte a un’occasione irripetibile: non sprechiamola e non pensiamo che quest’occasione sia solo uno stato di necessità che accettiamo con il mal di pancia. Guai! Qualche settimana fa in quest’Aula parlammo dell’antipolitica e io dissi che l’ondata antipolitica avrebbe travolto tutti, senza distinzione di ruoli tra maggioran-

Nessuna spada di Damocle sulla testa dei ministri: lavoreremo insieme seguendo un disegno comune

Questo governo nasce Ma una classe dirigente che guarda da un atto straordinario di volontà polisempre indietro e non sa mai superare le polemiche è destinata a perdere e ad affossare il proprio Paese. Oggi siamo chiamati a pacificare la nazione, a rendere coesa l’Italia, a legare ad un destino comune tutti i nati sul territorio della nostra Repubblica. Coesione e integrazione. In una parola: siamo chiamati a ricucire l’Italia dopo troppe polemiche, dopo troppe risse, dopo tante incomprensioni. Si volta pagina nel nome dell’Italia e degli italiani. E questa pagina la gira il Parlamento che riassume in sé la volontà del popolo. Che cosa vuole la gente? Un armistizio, una pausa, una pacificazione, un lavoro comune. Altro che dualismo tra tecnici e politici! Questa contrapposizione è incongrua almeno quanto l’evocazione dei poteri forti. Un’abitudine che ricor-

trimoni, si infiamma per un precedente passaggio di Franceschini sulla cittadinanza agli immigrati: «Come si fa in una situazione del genere, vengono prima i nostri giovani». Poi però apre al confronto sui singoli provvedimenti: «Li sosterremo se li riterremo utili». E insomma il capogruppo lumbàrd, varesino come Monti, dà la sensazione di non volersi autoconfinare nella riserva dell’irrilevanza. È vero che Bossi emette una sentenza delle sue con quel «prima o poi la gente si incazzerà e Monti sarà cacciato». Ma intanto il ministro del Welfare Fornero, prima, e lo stesso premier subito dopo, informano che lunedì il Consiglio dei ministri varerà uno «schema di decreto su Roma Capitale». Si tratta proprio di uno dei tasselli che

tica. Qui discuteremo i provvedimenti del Governo, qui li emenderemo, qui mandando in soffitta, almeno temporaneamente, gli scontri ideologici - ci assumeremo la responsabilità, insieme al Governo, di risolvere o di avviare a soluzione la crisi italiana. Tutti sappiamo ciò che ci divide. Oggi, però, dobbiamo rimuovere gli ostacoli e privilegiare un minimo comune denominatore di riforme condivise. Guai a giocare la carta della divisione del mondo del lavoro. Nessuno può pensare che sacrifici e scelte impopolari siano favorite da spaccature ideologiche nel sindacato o tra i lavoratori. Dobbiamo lavorare esattamente nella direzione opposta per creare, con le forze sociali, la coesione attorno al lavoro del governo. C’è un ruolo centrale, dunque,

guzzoni proprio sugli immigrati, ma si intravedono possibilità di dialogo. L’idea del miracolo si arEcco dunque che persino la Le- ricchisce senza sosta, fino alle ga non si autoesclude del tutto. parole di Berlusconi. Come il C’è un forte scontro Bersani-Re- giorno prima al Senato, il premier uscente semPIERLUIGI BERSANI bra quasi voler bilanciare le apertu«Non possiamo re formali dei solo parlare suoi, si dice intenalle tasche to a preparare la degli italiani, campagna elettodobbiamo rale e parla di siparlare anche tuazione «fuori al loro cuore... dai canoni della ai nostro cuore democrazia». Epche si sono pure è da lui che addormentati arriva il vero, dedopo la cura cisivo segnale di del vecchio disgelo: «Monti è governo» partito bene», ammette. Al momenmancano per completare l’iter del federalismo.

za e opposizioni. Oggi gli alibi sono finiti. Fin qui ci siamo nascosti tutti dietro agli alibi: tutti ci siamo nascosti dietro a Berlusconi. Si è nascosta la maggioranza e si è nascosta anche l’opposizione. Oggi non ci sono più alibi per nessuno. La storia è destinata a cambiare ed è nelle nostre mani, sempre che sappiamo assumerci seriamente le nostre responsabilità. Ma è importante anche avere la percezione netta - lo voglio dire alle forze politiche di destra e di sinistra - che dal grado di sostegno a questo governo e dalla responsabilità nel sostenere scelte impopolari, nasceranno o meno nuove alleanze politiche, matureranno sintonie inedite per il futuro. È finita l’epoca degli ideologismi, è finita l’epoca degli schemi: destra, sinistra e centro non sono più rappresentativi di nulla. Dal modo con cui noi sosterremo, sui provvedimenti concreti, l’azione di questo esecutivo si delineerà e si dipanerà il futuro della politica italiana: mai più coalizioni contro qualcuno o per qualcuno.

A questo punto, vorrei rivolgere un omaggio deferente al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, con il suo scrupolo istituzionale e la sua intelligenza politica, ha assecondato e favorito questo esito, nel rispetto di chi ha vinto le elezioni e di chi ha responsabilmente svolto il suo ruolo critico in quest’Aula. Ora, noi non lesineranno la fiducia al nuovo governo condizionandola al merito di questo o quel provvedimento: non vogliamo mettere alcuna spada di Damocle sulla sua testa. C’è un disegno generale di politica economica e di politica europea, che condividiamo, e lavoreremo in Parlamento per realizzarlo insieme.

to insomma le insidie ci sono, il professore-premier non le nasconde, ma l’unico a suscitare preoccupazioni vere è proprio quel Di Pietro che fa di tutto per preconizzare catastrofi, pur concedendo la fiducia.

Nel guardare negli occhi il pericolo, Monti ripassa la battuta del Cavaliere sulla spina da staccare: «Siamo rasoi elettrici? O forse polmoni artificiali?». Ironia con punte d’amaro, eppure ammirevole. Ringrazia Gianni Letta che segue i lavori in tribuna e tutta l’aula applaude l’ex sottosegretario alla presidenza. Si ribella al marchio di uomo dei poteri forti («sono espressioni di pura fantasia che considero offensive») richiama tutti alla dignità che non deve cercare alibi: «La

prima cosa da fare è non scaricare le responsabilità sugli altri, guardiamo prima a noi stessi». Vale anche per la società civile che «troppo facilmente punta il dito contro la politica: ne sono indignato». E insomma l’idea che resta di più è che se il suo esecutivo fallisce, falliscono tutti. «Speriamo di favorire una almeno parziale deposizione delle armi tra le forze contrapposte e di far comprendere ai cittadini l’assunzione di misure non facili, non gradevoli». Missione complicata, al pari di quella assunta da commissario Ue contro Microsoft: «Dissero che ero il Saddam degli affari». Dal Papa, per voce di padre Lombardi, arrivano gli auguri. Con la voce pacata, Monti ringrazia e apre la Terza Repubblica.


pagina 4 • 19 novembre 2011

il governo Monti

Secondo il presidente della Banca centrale europea per la stabilità serve una governance Ue molto più robusta

«Aspettiamoci il peggio»

Draghi fa appello ai governi europei: «La crisi sarà ancora più grave. Subito misure forti per la crescita e nuovi fondi per il Salva-stati» di Franco Insardà

ROMA. Cambiato il padrone di casa cambia anche il bon ton all’Eurotower. Così Mario Draghi - in un’operazione verità che rientra appieno nella rivoluzione in corso - cancella il dogma dell’inflazione e conferma quanto da sempre scritto in dottrina, cioè che il costo del denaro è la miglior leva dello sviluppo dichiarando: «La crescita nelle Ue è ridotta per questo abbiamo tagliato i tassi. I rischi di rallentamento sulla crescita economica sono aumentati. È il motivo per cui la Bce ha deciso di tagliare i tassi di interesse di 25 punti base, agendo nel pieno rispetto del suo mandato di garantire la stabiità dei prezzi nel medio termine». Ci si attende, secondo il presidente della Bce, che l’attività subisca «indebolimenti» nella maggior parte delle economie avanzate. La Draghi-economics prevede la fine della sudditanza alla Bundesbank. Perché dopo aver ribadito ai tedeschi che non esiste allarme inflazione ecco il numero uno della Bce schierarsi nel fronte che chiede una maggiore dotazione del fondo Salva-stati. «È urgente - ha detto Draghi al Congresso Bancario Europeo di Francoforte l’applicazione degli accordi tra

i leader dell’Eurozona di aumentare le capacità di intervento del Fondo europeo per la Stabilità Finanziaria».

Mario Draghi ha ripercorso la storia del fondo di salvataggio partita dall’aiuto alla Grecia: «Siamo a oltre un anno e mezzo dal vertice che ha lanciato il fondo Efsf come parte di un pacchetto di sostegno finanziario da 750 a 1.000 miliardi di euro; a quattro mesi dal vertice che ha deciso di rendere disponibile l’intero volume di garanzie e a quattro settimane dal vertice che ha deciso di usare la leva finanziaria per quadruplicare o quintuplicare le risorse, e che ha dichiarato il fondo interamente operativo con l’utilizzo di tutte le sue risorse in maniera efficace per assicurare la stabilità finanziaria nell’area euro. Aggiungendo: «Dove è l’applicazione di decisioni prese oramai da molto tempo?» e sottolineando il significativo periodo di tempo trascorso dal vertice europeo in cui si decise di rafforzare il Efsf, autorizzandolo a comprare titoli di stato, ricapitalizzare le banche e fornire fondi ai paesi dell’Eurozona che hanno difficoltà di ac-

cesso ai mercati dei capitale per finanziare il debito pubblico. Il presidente della Bce ha fatto, quindi, intendere di essere pronto a continuare a sostenere il debito dei Piigs, sia farsi garante delle operazioni di rifinanziamento della Efsf. Ma il presidente della Bce ha avvertito che «le attività economiche si indeboliranno in gran parte dei paesi avanzati. Nessuno Stato può considerarsi al riparo dall’attuale crisi».

In risposta alle difficoltà del momento, rimangono per Draghi «della massima importanza» le misure straordinarie introdotte dalla Bce nel corso de-

garantire la stabilità dei prezzi. Draghi ha inoltre ripetuto che la Bce assume le sue decisioni «in piena autonomia».

Olli Rehn, commissario europeo agli Affari economici e monetari, sostiene, infatti, che dal primo novembre Mario Draghi non pensa più in italiano. Il Wall Street Journal lo ha persino indicato come il killer di Silvio Berlusconi per aver ridotto gli acquisti dei Btp nella settimana ferale per il Cavaliere. Da par suo l’ex governatore di Bankitalia non ha mai nascosto di sentirsi tedesco sulla gestione delle finanze pubbliche. Ma per il momento

nanziaria «sono cruciali sia conti pubblici ”solidi” dei paesi dell’area euro, sia riforme strutturali sulle loro economie». Avvertendo anche guadagnare la credibilità dei mercati è «un processo lungo e laborioso. Mantenerla una sfida permanente. Ma perderla è una cosa che può succedere velocemente, e la storia mostra che riguadagnarla ha costi economici e sociali enormi».

Il presidente della Bce ha parlato anche delle difficoltà di funding per le banche: «Ne siamo consapevoli così come delle situazioni “acute” che si registrano sul mercato interbancario, provocate dalle tensioni sui titoli di Stato, dall’accesso più difficile ai finanziamenti dei mercati e alla carenza di garanzie. Finora - ha aggiunto Draghi - la Bce ha adottato diverse misure non convenzionali per garantire che il finanziamento a breve termine non rappresenti un problema per le banche dell’eurozona, come le aste di liquidità illimitata e le operazioni di rifinanziamento a più lungo termine, oltre a tre operazioni supplementari in dollari e al lancio

Per Draghi guadagnare la credibilità dei mercati è «un processo lungo e laborioso. Mantenerla una sfida permanente, ma riguadagnarla ha costi economici e sociali enormi» gli ultimi tre anni, fra cui le aste a finanziamento illimitato e a lunga durata. Ma i paesi dell’eurozona, ha ribadito, non devono dipendere solo dalla Bce ma devono «implementare con la massima urgenza le decisioni del summit europeo». L’obiettivo primario della Banca centrale europea resta, secondo il suo presidente, quello di

Fallisce il vertice fra Merkel e Cameron

appoggia la Germania soltanto nel tentativo di rendere più rigida la governance europea. Come ha ripetuto anche ieri: «Per la stabilità finanziaria nell’area euro è essenziale una governance economica molto più robusta». Ma non solo. Il capo della politica monetaria europea ha aggiunto che per la stabilità fi-

E Lon dra r es ta a lla fi n es t ra a guar dar e il decli no de ll’ eur o

on andiamo d’accordo, disse la Merkel. Restiamo amici però, rispose Cameron. Si potrebbe sintetizzare in questo scambio di battute il vertice bilaterale anglo-tedesco che si è tenuto ieri a Berlino. Il primo ministro Cameron era atteso dalla cancelliera Merkel, e soprattutto dal suo entourage, con una certa diffidenza. La richiesta tedesca agli inglesi di definire una politica comune per salvare l’euro era stata accolta da Londra con una condizione difficile da accettare per la Germania. «Tassare le transazioni finanziarie a livello unicamente europeo sarebbe un suicidio politico», aveva commentato nei giorni scorsi il cancelliere dello scacchiere britannico, George Osborne. I tedeschi l’avevano presa come una mancanza di partecipazione alla crisi.

di Antonio Picasso

Prima di incontrare la Merkel, Cameron ieri ha fatto scalo a Bruxelles, per stringere la mano al presidente della commissione europea Barroso e al numero uno del consiglio Ue van

N

Rompuy. Qui il confronto è apparso più sereno. Tuttavia non ha partorito alcunché di nuovo. Per l’Unione, è necessario accelerare il processo di integrazione britannica. Per Cameron il progetto è possibile, ma senza fretta. Quel che preme a Londra, dove sono sì anti europeisti ma anche molto pragmatici, è dare ossigeno alla moneta unica e definire una politica economica comunitaria impostata sulla stabilità, la crescita e la creazione di nuovi posti di lavoro. In teoria anche la Merkel sarebbe favorevole all’idea di più Gran Bretagna in Europa. Il problema è che i suoi collaboratori vorrebbero che Londra accettasse i diktat senza fiatare. I Tory, dal canto loro, si guardano bene dal proporre un simile progetto ai propri elettori. In un’economia britannica in cui la City resta il cuore pulsante, molto più di qualunque industria, la proposta di una Tobin tax in formato comunitario è improponibile. Cameron infatti ha spiegato che «un’imposta sulle transazioni finanziarie è fattibile solo a livello globale». Questo prevedrebbe il


L’economista e l’allarme euro: «Dobbiamo ripensare le regole»

«Ripartire dai giovani per salvare l’Europa»

Nella pagina precedente il premier inglese David Cameron con la cancelliera tedesca Angela Merkel; qui a fianco il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi e a destra l’economista Luigi Paganetto

Luigi Paganetto: «Nuove politiche di occupazione per reggere il confronto con i Paesi emergenti» di Francesco Lo Dico

di un secondo programmi di acquisti di covered bond. Ma la politica monetaria nella situazione attuale deve basarsi su tre principi: continuità, consistenza e credibilità».

Intanto ieri la settimana a Piazza Affari si è chiusa all’insegna della cautela: il Ftse Mib è salito dello 0,23% e l’All Share ha segnato un +0,14%. Milano, che ha rallentato sul finale in scia al ritorno sopra i 470 punti (478) dello spread Btp-Bund, è stata una delle piazze migliori in un’Europa contrastata, mentre restano i timori sulla crisi del debito. È diminuito anche lo spread tra titoli di stato spagnoli e tedeschi, che in apertura aveva segnato nuovi record sopra 500 punti. Il differenziale tra i rendimenti dei Bonos decennali e i Bund equivalenti tedeschi si è attestato su 446 punti. Cos’ come lo spread tra Oat decennali francesi e Bund, fermo a 158 punti. Formati i nuovi governi in Grecia e in Italia la prossima settimana dei mercati finanziari sarà concentrata ancora sull’andamento degli spread e sulla risposta che i leader europei daranno alla crisi, anche dopo le sferzate di Mario Draghi.

coinvolgimento di Usa, Russia e potenze emergenti asiatiche. Il tutto in favore delle organizzazioni internazionali, Banca mondiale ed Fmi. L’Europa, invece, ragiona nell’ottica del proprio giardino di casa. Il problema è che se le tasse di Bruxelles approdassero sul Tamigi, Cina e India non ci penserebbero due volte a ritirare i propri maxi investimenti dalla City. Sarebbe un suicidio, appunto, come dice Osborne.

Su questa scia va anche visto il nodo della Bce. Cameron sarebbe d’accordo nell’aiutare l’Ue se solo la Banca centrale avesse voce in capitolo e facesse da traino ma Berlino, si sa, dell’istituto di Francoforte non vuole sentire parlare. Gli inglesi sarebbero pure d’accordo a condividere con gli amici d’oltre Manica la crisi. La loro crescita è simile alla media europea, cioè poco oltre il punto percentuale. La disoccupazione è intorno all’8% e anche loro hanno un problema che si chiama pensioni. Londra, però, si chiede quale sia il tornaconto nell’in-

ROMA. Aumentano i rischi nell’area euro. «Ci aspettiamo che l’attività economica s’indebolisca in gran parte delle economie avanzate», ha detto Mario Draghi nel suo primo intervento pubblico nelle vesti di presidente della Bce. Preoccupato da una generale stagnazione di tutte le maggiori economie europee, impietosamente sottolineata dall’aumento dello spread (dalla Francia alla Spagna), l’ex governatore della Banca d’Italia ha bacchettato ieri gli indugi dell’Unione europea. Serve «una governance economica molto più robusta» ha sottolineato, chiedendo «l’urgente messa in pratica delle decisioni del consiglio Ue e del vertice europeo». Il riferimento è naturalmente all’implementazione del fondo salva-stati. «Dov’è la realizzazione di queste misure? Non dobbiamo aspettare oltre». Un appello per certi versi inatteso. Che conferma come l’epicentro stesso della crisi, da molti individuato in un’Italia che continuava e continua a non ispirare fiducia nei mercati nonostante l’avvento di Monti, sia da individuare nella stessa Eurolandia. «È proprio così», conferma Luigi Paganetto, docente di Economia internazionale all’università Tor Vergata di Roma. «La verità è che la produttività europea viaggia a rilento. Fino agli anni 90, i singoli stati europei avevano una crescita superiore a quella degli Stati Uniti. Segno che l’Unione europea deve riflettere sui suoi meccanismi di funzionamento generale». Professore, perché da evento che sembrava logica conseguenza di condotte statali poco virtuose, la speculazione morde ormai un po’ un tutta Europa? Il Vecchio continente è caratterizzato da una demografia senile e poco incline all’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Economie emergenti come come quelle di Brasile, India e Turchia, sono trascinate dai forti consumi dei giovani. È difficile reggere il confronto se si punta su classi generalmente molto inclini al risparmio. Se l’Europa vuole cambiare passo deve puntare decisa su convincenti politiche di occupazione giovanile. Germania e Francia, che molto hanno fatto in tal senso, sono le uniche economie europee che non hanno perso terreno.

Molti sostengono però che a rendere il quadro più fosco di quanto sembri, sia soprattutto la manovra a tenaglia degli speculatori. L’attacco ai titoli di Stato è diretta conseguenza di questo mancato sviluppo. Bene ha fatto Monti a metterlo al centro del suo programma. Se è vero che per un verso dobbiamo dare rassicurazioni sufficienti sul nostro debito, con politiche che attestino una vigilanza rigorosa sui conti, al contempo bisogna fare in modo che chi investe da noi lo faccia sulla base di concrete misure di sviluppo. I mercati hanno bisogno di investire sull’idea concreta di un trend positivo a medio termine. Che tradotto significa riforme strutturali, e non misure tampone. Anche il fondo salvastati, così come è concepito, sembra più una misura tampone che una vera soluzione. Sarà sufficiente aumentare le quote parte, per risolvere le difficoltà dell’Unione? L’escogitazione di qualunque meccanismo di tutela, non può prescindere da due requisiti come l’indipendenza e l’autonomia dello stesso. Se di volta in volta le soluzioni sono affidate alla discrezionalità decisionale dei vari Merkel e Sarkozy, è chiaro che viene a mancare un indirizzo preciso. L’istituzione dell’European Stability Mechanism, che dal 2013 potrà acquistare titoli di stato sul mercato secondario, ma con maggiori garanzie per lo stato finanziato, rappresenta un passo in avanti. Basterà, visto che molti sottolineano come tutto potrebbe diventare più semplice se solo la Bce venisse trasformata in prestatore di ultima istanza? L’opposizione delle Germania a questa risoluzione è nota. E al momento resta determinante. La quadratura potrebbe però essere trovata a metà strada con un organo intermedio autorizzato a comprare titoli anche sul mercato primario. Resta però la necessità che tale organismo resti, come già sottolineato, autonomo e indipendente dall’influsso di questo o di quel leader politico. È plausibile ritenere che il nuovo governo Monti possa riportare l’Italia al posto che le compete nel tavolo dei padri fondatori dell’Europa. È auspicabile, e da quello che sembra è molto probabile. L’Europa non potrà che giovarne.

Serve un organo intermedio autorizzato a comprare titoli anche sul mercato primario. A patto che sia davvero indipendente dai Merkel e Sarkozy di turno

tervenire. Mettendo in discussione l’autonomia della City, cosa verrebbe in cambio? A Bruxelles, Barroso e Rompuy non hanno saputo rispondere. «Nulla!» Si è praticamente sentito dire Cameron dalla Merkel. In tal caso, non si può biasimare la Gran Bretagna se preferisce seguire la sua secolare tradizione diplomatica. Restare a guardare. Rapsodico è, al contrario, l’atteggiamento tedesco. La Germania sospetta di non poter contare nemmeno sulla Francia: sembra che sia arrivato il turno di Parigi nell’attacco speculativo. Berlino, quindi, cerca di sganciarsi. Per farlo deve trovare un’alternativa. Fuori dall’Europa, ma senza andare tanto lontano. È strano però come la Merkel corteggi Cameron promettendogli lacrime e sangue. Tuttavia, Londra non ha sprangato la porta. Ha solo gentilmente rifiutato: una volta riavviate le macchine istituzionali italiane e sciolte le riserve elettorali spagnole, Cameron potrebbe avere un quadro più lucido della situazione europea e tornare con un ramoscello d’ulivo a Berlino.


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il governo Monti

L’Italia ha bisogno di credibilità, ma per questo non bastano i buoni propositi, servono segnali politici inequivocabili

Ricomincio da tre

Ossia: Berlino, Parigi e Roma. Già dalla prossima settimana si capirà il vero obiettivo di Supermario: riportarci al tavolo dei Grandi per decidere insieme i destini dell’Europa. E stavolta anche Sarkozy e Merkel sembrano d’accordo di Enrico Cisnetto on Francia e Germania per risolvere la crisi». Tra i tanti riferimenti programmatici “interni” espressi dal presidente del Consiglio in sede di fiducia al nuovo governo, questo “europeo”sembra essere di gran lunga il più importante. Perché lo spread della Francia oltre i 200 punti (poi per fortuna subito calato), se da un lato è la prova provata che il complotto contro l’Italia e il governo Berlusconi che è stato evocato dalla destra non esiste e non è mai esistito – altrimenti Sarkozy, indicato come il mandante dell’aggressione finanziaria contro di noi, non sarebbe vittima dello stesso meccanismo di mercato – dall’altro lato è la certificazione del fatto che la crisi è prima di tutto eurosistemica e che solo in quella sede è risolvibile.

«C

Questo non significa , sia chiaro, che non esista anche

una “crisi italiana”: nel nostro caso, è bene ripeterlo per i troppi politici che si auto-assolvono scaricando la colpa su “Merkozy”, le crisi sono due e dunque i problemi e i pericoli sono doppi. Risolvere quella nazionale è condizione necessaria ma non sufficiente, non risolverla ci condannerebbe ugualmente anche se l’Europa riuscisse a trarsi d’impaccio. Finora, non abbiamo per nulla

sciolto, anzi, i nostri nodi, e siamo stati esclusi da quell’euroclub – pur diviso da interessi contrastanti – dove si prendono (o si dovrebbero prendere) le decisioni continentali.Vedremo ora se il governo Monti saprà avviare a soluzione almeno un po’ dei tanti problemi italiani. E pur nella prudenza di un approccio che non poteva non tener conto del carattere straordinario di questo esecutivo –

Non pare di maniera la disponibilità dei tedeschi e dei francesi

senza per questo rincorrere chi paventa una caduta, o addirittura un’interruzione, della legittimità democratica, che non c’è, non fosse altro perché la Costituzione non dice che il premier viene eletto direttamente dai cittadini, e quella del nome sulla scheda è una finzione oltreché una forzatura del dettato costituzionale – Monti ha già suscitato grandi speranze che alcune scelte riformatri-

ci a lungo enunciate e mai praticate vengano finalmente messe in pratica.

Alle quali se ne aggiungerà ben presto un’altra, purtroppo: quella di portarci fuori dalla recessione ormai in atto. Nessuno in questa fase delicatissima ha avuto ancora il coraggio di porre la questione, ma con i dati disastrosi di settembre relativi all’industria, usciti ieri, è diventato chiaro anche ai ciechi che terzo e quarto trimestre dell’anno avranno il segno meno quanto a pil, predisponendo un trend per il 2012, quantomeno nella sua prima metà, a dir poco allarmante. Così, le ultime previsioni per il 2011 e il 2012 della Commissione Ue, che danno per il pil italiano rispettivamente un +0,5% e un +0,1%, sembrano persino consolanti (si fa per dire), tanto che molti istituti di ricerca e uffici studi le considerano già superate e stimano


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La ricostruzione dell’identità europea passa anche attraverso la ridefinizione della nostra

Finalmente ritorna in Italia la strategia della coesione

Territoriale, sociale e generazionale: sono questi i tre ambiti nei quali il nuovo governo è chiamato a compiere la sua “rivoluzione culturale” di Francesco D’Onofrio olte sono state – e sono – le domande concernenti il nuovo governo: saranno le prossime settimane a dirci se l’Italia si trova in una situazione di emergenza economica che richiede l’adozione di provvedimenti prevalentemente economici, o se – come sembra – si è in presenza di una sostanziale mutazione persino antropologia rispetto ai tanti anni che abbiamo alle spalle, che si tratti della Prima o della Seconda Repubblica. Appare infatti necessario affrontare la questione di fondo che abbiamo di fronte da un punto di vista non esclusivamente tecnico-economico, ma – appunto – da un punto di vista più generale, nel quale i profili tecnicoeconomici sono certamente essenziali, ma non sufficienti.

M

Si tratta in sostanza di una questione frequentemente indicata ma in qualche modo assente nella specifica vicenda politico-economica italiana, non meno che nella condizione europea quanto meno a partite dall’avvento dell’euro. Si tratta in particolare della questione della coesione, intesa questa sia nel senso di coesione territoriale, sia nel senso di coesione sociale, sia nel senso di coesione generazionale. Coesione dunque – come pure è stato detto nella presentazione del Governo al Parlamento – intesa quale valore per così dire costitutivo di una comunità, anche a prescindere dalle diverse proposte di governo. Non si tratta, peraltro, di una necessità solo italiana, perché anche l’Europa ha bisogno – soprattutto oggi nel contesto della globalizzazione – di coesione ad un tempo territoriale, sociale e generazionale. La coesione territoriale costituisce, infatti, il punto specifico della questione che nel contesto europeo viene oggi conosciuta quale questione dei confini. E non si tratta solo di confini territoriali, sol che si consideri la tormentatissima questione dell’adesione della Turchia. Coesione sociale significa – innanzitutto – rapporto tra le diverse società nazionali europee, che nel corso degli ultimi secoli sono state spesso contrapposte le une alle altre. Ma prima ancora dello scontro tra le diverse identità nazionali, la coesione sociale concerne i rapporti interni a ciascuna identità nazionale. La coesione tra le generazioni, infine, viene in rilievo allorché si ponga attenzione ai modi con i quali in ciascun Paese sono state affrontate le questioni concernenti proprio i rapporti tra le generazioni, non soltanto ai fini della previdenza. Tre dunque sono le dimensioni della coesione da porre a fondamento an-

che delle specifiche misure tecnico-economiche che l’emergenza finanziaria italiana pone in evidenza. Risiede, pertanto, in questa specifica multidimensionalità della coesione il profilo più squisitamente antropologico del contesto nel quale è venuta a trovarsi l’Italia nel corso degli ultimi tempi, caratterizzati proprio dal processo di integrazione europea da un lato, e dall’epoca nuova della globalizzazione tendenzial-

I nostri problemi vanno ben oltre le contrapposizioni localistiche che hanno trionfato in questi anni

mente mondiale dall’altro. Questo intreccio tra le tre dimensioni della coesione finisce pertanto con il costituire un punto di approdo sostanzialmente nuovo nella lunga storia nazionale italiana. Il territorio ha infatti rappresentato ad un tempo il punto di arrivo del processo di unificazione nazionale e della stessa Grande Guerra. I rapporti tra i diversi strati della società italiana sono stati di volta in volta posti anche a fondamento delle politiche pubbliche, soprattutto di quelle fiscali. I rapporti tra le generazioni – infine – sono stati rinchiusi molto a lungo all’interno della comunità familiare, come ci ricordano anche le recenti domande poste a tutti noi dall’ultimo censimento della popolazione italiana. Nel corso dell’intera storia nazionale, le decisioni politiche di fondo hanno pertanto riguardato di volta in volta questi tre distinti aspetti della coesione.

Il processo di costruzione dell’unità europea ha vissuto questi tre aspetti in modi non necessariamente convergenti. La dimensione nazional-statuale ha infatti costituito il fondamento stesso dei modi con i quali le decisioni politiche italiane sono state assunte. Il processo di integrazione europea – che pure è vissuto con una progressiva riduzione della originaria sovranità statuale italiana – ha potuto convivere con le nostre specifiche divergenze. L’emergenza che ora siamo chiamati ad affrontare costituisce dunque per un verso il punto di approdo di questa necessaria convergenza tra il contesto nazionale italiano e il più ampio contesto europeo, e il punto di partenza per la definizione di una nuova fase del processo europeo medesimo. Questo è chiamato a sua volta ad adottare contestualmente decisioni concernenti la dimensioni territoriale, sociale e generazionale della coesione. Due nuove dimensioni della coesione sono apparse all’orizzonte dell’integrazione europea in questa stagione di globalizzazione mondiale: ambiente e migrazioni. Il contesto della globalizzazione, pertanto, pone l’Europa tutta di fronte alla necessità di adottare decisioni che tengano conto della natura tridimensionale della coesione e, contestualmente, della insufficienza di essa nel nuovo contesto universale.

che quest’anno non andremo oltre un paio di decimi di punto sopra lo zero, e che per l’anno prossimo ci sarà una contrazione della ricchezza di almeno un punto.

M a s e no n s u s s i s t ev a n o dubbi che l’abbinata “risanamento & crescita” fosse l’obiettivo fondamentale del governo Monti, meno scontata, e per certi versi ancora più confortante, era la volontà di tornare ad essere arbitri del comune destino della moneta unica. Così come non pare di maniera la disponibilità mostrata dagli interlocutori francesi e tedeschi a consentirci di riguadagnare la centralità perduta nei processi decisionali europei. E tutto ciò è importante perché l’Italia deve assolutamente (im)porre il tema dell’integrazione politico-istituzionale dell’eurosistema. La credibilità acquisita mettendo mano ai nostri problemi dovrà tradursi in pari riconoscimento di peso nel porre la questione delle questioni: la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. E noi più di altri dovremo chiedere che si avvii questo processo di devoluzione ad un governo federale eletto direttamente dai cittadini europei di quote importanti delle attuali poteri sovrani, per il semplice motivo che abbiamo più degli altri interesse a che questo accada. Lo avevamo prima che scoppiasse la guerra degli spread e vedessimo in faccia il pericolo del default, perché eravamo comunque il paese più debole per crescita e livelli di modernizzazione del sistema socio-economico e della macchina amministrativa pubblica, lo siamo a maggior ragione oggi che abbiamo la pistola alla tempia dei mercati finanziari.

Monti, che conosce bene i limiti dell’Europa – anche se non si è mai lasciato andare ad una critica severa, guardando sempre la parte piena del bicchiere – è l’uomo giusto, per credibilità personale, esperienza di commissario Ue e ruolo di risanatore nel paese delle “non riforme”, per porre ai suoi colleghi il tema dell’upgrading federale dell’eurosistema. Scelta praticabile solo in un quadro politico di larghe intese, o comunque di ritrovata concordia nazionale. Per questo è bene dire chiaro e forte alle forze parlamentari che hanno consentito con così vasto consenso la nascita del governo Monti che la loro responsabilità, circa la leale collaborazione con l’esecutivo, non riguarda solo le misure d’emergenza per far fronte all’incendio appiccato dagli spread, ma valica i confini e diventa europea. Ed è, non sfugga a nessuno, una responsabilità epocale. (www.enricocisnetto.it)


società

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È proprio da questo Paese che i primi missionari, in modo stabile e continuativo, avviarono l’opera di annuncio del Vangelo

150 anni di “unità” cattolica africana Fno a domenica 20 novembre, la visita di Benedetto XVI nel Benin per festeggiare un secolo e mezzo di evangelizzazione nell’area on l’Africa nel cuore Papa Benedetto XVI è arrivato in Benin, dove parlerà a tutto il Continente provando a farne sentire la voce ai media internazionali. Per inciso, alla partenza da Fiumicino il Pontefice è stato salutato dal neo capo del governo italiano Mario Monti. All’arrivo invece il Papa è stato accolto dai rappresentanti di un Paese che è considerato all’avanguardia della democrazia africana. «Il Benin è un Paese in pace», nel quale «funzionano» le istituzioni democratiche e si respira uno «spirito di libertà e responsabilità», di giustizia e di senso del «lavoro per il bene comune», ha affermato Benedetto XVI spiegando ai giornalisti, durante il volo verso Cotonou, la scelta di questo Paese per il suo secondo viaggio in Africa.

C

Il Papa ha anche osservato che, pur in presenza di una «grande diversità di religioni, queste diverse religioni convivono nel rispetto reciproco e nella responsabilità comune per la pace, per la riconciliazione interna ed esterna. Mi sembra - ha spiegato - che questa convivenza tra le religioni e il dialogo interreligioso come fattore di pace e di libertà siano un aspetto importante».

di Osvaldo Baldacci Il Benin, che tra l’altro è la patria del voodoo, è stata anche una delle porte di partenza degli schiavi verso le Americhe. È il secondo viaggio in Africa di Papa Ratzinger dopo quello in Camerun e Angola del 2009, e rappresenta il ventiduesimo viaggio apostolico di Papa Benedetto XVI, che durerà fino a domani.

In Benin il Pontefice avrà come cuore della visita la firma dell’Esortazione Apostolica Post-sinodale della seconda As-

l’opera di annuncio del Vangelo nel Paese. Non trascurabile che l’aeroporto internazionale di Cotonou è dedicato al cardinale Bernardin Gantin, scomparso nel 2008, primo africano chiamato al vertice della Curia romana, e che subito ieri Papa benedetto XVI appena atterrato ha voluto ricordare. Ma andando in Benin, il Papa vuole dare «un incoraggiamento al continente africano nel suo insieme». In Benin infatti il Papa porterà l’Esortazione apostolica post-sinodale Afri-

Il viaggio del Pontefice, ha detto ieri in un briefing padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, rappresenterà «un incoraggiamento al Continente nel suo insieme» semblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi. Il Benin, come spiegava nei giorni scorsi il portavoce vaticano padre Lombardi, è un Paese geograficamente piccolo, con solo sette milioni di abitanti, ma importante per la Chiesa perché fu da lì che prese avvio l’evangelizzazione dell’Africa occidentale. Con l’arrivo di Benedetto XVI, la popolazione cattolica locale festeggerà i 150 anni da quando i primi missionari avviarono

cae munus, (in italiano «L’impegno dell’Africa»), che in un’ottantina di pagine raccoglie quanto emerso nel Sinodo Africano dell’ottobre 2009 e che domani consegnerà ai trentacinque capi delle conferenze episcopali nazionali e ai sette responsabili delle Conferenze regionali del continente. Per l’Africa «solamente le buone intenzioni non possono funzionare», ha detto il Papa sull’aereo che lo porta in Benin.

«Si dicono e talvolta si fanno cose buone», ha detto, ma bisogna «osare, andare oltre, dare oltre che ricevere». Sia sull’aereo sia nel suo primo discorso una volta arrivato all’aeroporto, Benedetto XVI si è subito rivolto a tutto il continente, ma allo stesso tempo ha provato a incarnare la voce del Continente Nero di fronte al resto del mondo. «La modernità non deve fare paura, ma essa non può costruirsi sull’oblio del passato», ha affermato. «Il passaggio alla modernità - ha spiegato rispondendo al saluto del presidente del Benin Bony Yayi - deve essere guidato da criteri sicuri che si basano su virtù riconosciute, quelle che enumera il vostro motto nazionale, ma anche quelle che si radicano nella dignità della persona, nella grandezza della famiglia e nel rispetto della vita». «Tutti questi valori - ha detto ancora il Pontefice - sono in vista del bene comune, l’unico che deve primeggiare e costituire la preoccupazione maggiore di ogni responsabile. Dio si fida dell’uomo e desidera il suo bene. Sta a noi rispondergli con onestà e giustizia all’altezza della sua fiducia». Ma il Papa non si tira indietro dal

fare una tirata d’orecchio anche al continente: No alla «sottomissione incondizionata alle leggi del mercato o della finanza», al «nazionalismo e tribalismo esacerbato e sterile, che possono diventare micidiali», alla «politicizzazione estrema delle tensioni interreligiose a scapito del bene comune o infine alla disgregazione dei valori umani, culturali, etici e religiosi». «Certamente - ha spiegato rispondendo a una domanda sui risultati ottenuti da molte operazioni di peacekeeping e dalle conferenze di riconciliazione e verità nazionali che si sono tenute in diversi Paesi - il Continente patisce grandi difficoltà tuttavia questa freschezza della vita che c’è in Africa, la gioventù così piena di entusiasmo e di speranza, ma anche di umorismo e di allegria, ci mostra che c’è qui una riserva di umanità».

Rivolto al mondo invece il Pontefice ha dato un chiaro messaggio contro lo sfruttamento dell’Africa dimenticata dai media. «Ciò che conta per il progresso civile è superare la barriera dell’egoismo». E pur con le sue contraddizioni, l’Africa può rappresentare davvero «una riserva di umanità» per un Occidente «in deficit di speranza».


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

SHAKESPEARE

SEGRETI E BUGIE

“ANONYMOUS” il film di John Orloff abbatte il mito del grande Bardo, attribuendo a Edward De Vere, Conte di Oxford, la paternità delle opere

di Anselma Dell’Olio nonymous, spettacolone rinascimentale, è una volgare manipolazione storica, una turlupinatura letteraria, una risibile mitomania controfattuale. A parte questo, è un sapido divertissement altobasso, e tiene inchiodati allo schermo per l’intera rutilante durata di 130 minuti. È curato ed elegante nei valori formali e tecnici: costumi, production design, fotografia, trucco, sonoro sono impeccabili in questo sfacciato, birichino libello ai danni di William Shakespeare, il prolifico, ispirato drammaturgo inglese, autore senza pari di sonetti sublimi, indimenticabili per potenza icastica, slancio romantico e ironia mordente. La teoria è nota e bisecolare. Mostri sacri come Mark Twain e Sigmund Freud si sono convinti che il figlio semi istruito di un guantaio analfabeta, un provinciale, non poteva aver scritto di suo pugno quel vasto, portentoso tesoro della letteratura inglese. Un mero attore non avrebbe potuto sviluppare tali conoscenze della natura umana, della vita di corte, delle giravolte tragiche e comiche, delle ambizioni e dei destini umani. Le diverse congetture sul Bardo «autentico» includono Christopher Marlowe, Francis Bacon e Ben Jonson.

A


shakespeare, segreti e

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Sono una settantina i candidati proposti dagli anti-Stratfordiani, a partire dalla metà dell’Ottocento, il picco della bardolatria, com’è battezzata l’adulazione shakespeariana. Forse il tentativo di abbattere l’idolo è il contrappasso inevitabile della promozione a divinità di un essere umano, sia pure un genio come l’uomo di Stratford su Avon. Nel 1920 si comincia a fantasticare su Edward De Vere, diciassettesimo conte di Oxford, cortigiano della Regina Elisabetta, drammaturgo, poeta lirico, sportivo e mecenate delle arti. Lo sceneggiatore John Orloff si è incapricciato di questa nomination durante gli studi di cinema a Los Angeles. È lui che ha adattato per lo schermo A Mighty Heart Un cuore grande, con Angelina Jolie (2008), l’autobiografia di Marianne Pearl, vedova di Daiel, il giornalista decapitato da terroristi islamici, Il regno di Ga’Hoole - La leggenda dei guardiani, film d’animazione di Zack Snyder, e che ha scritto due episodi di Band of Brothers - Fratelli al fronte, candidati agli Emmy (Oscar della tv Usa). Dopo diversi rifiuti, il progetto fantaletterario su Shakespeare ha convinto Roland Emmerich, produttore e autore di film catastrofici e fantascientifici come Independence Day, The Day After Tomorrow L’alba del giorno dopo e 2012, che hanno sfondato il box office e lo sdegno dei critici. A differenza di altri «mestieranti», Emmerich si compra gli script e detta le revisioni. Gran parte della buona riuscita di questo film in costume, molto parlato, ribollente d’intrighi di corte, complicate congiure, successioni al trono e complotti bizantini, che richiede attenzione ai dialoghi, è certamente merito suo. È probabile che l’originale di Orloff avrebbe stordito, anziché coinvolto il pubblico dei multiplex.

Un attore trafelato in trench e sciarpa (Derek Jacobi, stimato attore classico e antistratfordista) scende da un taxi e corre sul palcoscenico; con un prologo prepara il pubblico per una commedia sul «mistero» di Shakespeare. Poi siamo nel tardo regno elisabettiano. Un uomo che scopriremo essere Ben Jonson, scappa con un pacco di manoscritti, inseguito da soldati del regno. Entra in un teatro, si cala in una botola e nasconde il grande fascio di fogli dentro un baule. Gli inseguitori danno fuoco all’edificio, costringendolo alla resa: lo portano in ceppi nella Torre di Londra. Accusato d’aver scritto commedie sediziose, urla «sono un poeta, non un criminale!». Poco dopo parte il primo di molti flashback (e flashforward) con un salto indietro di alcuni anni. Il conte di Oxford (Rhys Ifans) ha convocato Jonson nella sua aristocratica dimora. Chi conosce l’indole del drammaturgo e attore Jonson, figura di primo piano del teatro elisabettiano, spiritoso anno IV - numero 40 - pagina II

e ironico autore di Volpone, o la volpe (1606), non lo riconoscerà nel timoroso, impacciato, humourless personaggio interpretato da Sebastian Armesto. (Lo humour non è nelle corde del regista di Stuttgart). DeVere consegna all’autore un pacco di manoscritti, commedie e tragedie storiche. Lo compensa bene, purché li firmi col suo nome e li metta in scena (Jonson lavora con l’atto-

re-produttore Shakespeare). Le opere procurerebbero all’autore nobiluomo infinite noie a corte e anche peggio - per il contenuto politico, se a De Vere fosse attribuita la paternità. Si assiste a una partita di tennis antico, che movimenta una conversazione sulla controversa questione della successione a Elisabetta, anziana e senza eredi, almeno legittimi. (Il film ipotizza un numero impressionante di bastardi nati dalla Virgin Queen). L’erede naturale sarebbe Giacomo Stuart, ma la regina giura, in odio alla sorellastra Maria, che ha fatto decapitare per aver congiurato contro di lei, che nessuna di quella stirpe scozzese e cattolica salirà al trono dei Tudor. Poi c’è un altro salto indietro, a 40 anni prima.Troviamo il ragazzo De Vere (Jamie Campbell Bower) «orfano», affidato da Elisabetta al suo potente consigliere William Cecil per essere istruito e cresciuto con la sua famiglia. Per avallare la strampalata ipotesi sul Conte di Oxford come il vero Bardo, lo vediamo recitare per la regina, appassionata di teatro, a dodici anni in Sogno di una notte di mezza estate (che avrebbe scritto a nove anni, secondo la cronologia delle opere firmate da Shakespeare). Le attenzioni reali si devono anche alla tenerezza per un figlio bastardo che la sovrana non può riconoscere. A sostegno della superiorità

culturale di Oxford, vediamo la giornata del giovane Edward, scandita da lezioni di francese, greco, geografia, storia e scherma. In realtà l’uomo di Stratford non era affatto ignorante. Il padre John era uno stimato consigliere comunale (Alderman) e come tale il figlio aveva diritto di frequentare gratis la King Edward IV Grammar School (King’s New School). Imparava

intellettuale lo abilita a proseguire nello studio e nella lettura da solo. Come actor-manager sempre alla ricerca di nuova ispirazione per ammaliare il pubblico, famelico di nuove trame forti, era motivato ad approfondire, a scopo di adattamento e manipolazione, i più interessanti testi disponibili. Il teatro allora era come la televisione d’oggi, fonte di divertimento, svago e informazione per spettatori avidi d’intrattenimento. Divoravano tragedie politiche colme di violenze, commedie e storie d’amore scacciapensieri a cui gli attori davano vita. In ogni caso è sempre più credibile che un attore ambizioso scriva Amleto, piuttosto che un bambino di nove anni s’inventi una delle più surreali e fantasiose trame comiche del teatro elisabettiano. Tra le congetture sposate da Orloff, c’è quella della regina giovane (Joely Richardson) così soggiogata dal talento del figlio illegittimo, da prenderlo come amante. Vice is nice, but incest is best, insegnano quei birboni d’inglesi, secondo la vulgata tanto irreprensibili in pubblico quanto debosciati in privato. Invece da cariatide anziana, l’incartapecorita figlia d’Enrico VIII e Anna Bolena è tal-

bugie

mothy (Peter Minus negli Harry Potter), lo raffigura come un gioviale, furbo, buffonesco crapulone e bevitore di birra, un guitto etilico. Quando cala il sipario sulla prima rappresentazione dell’Enrico V (durante il quale il conte di Oxford ascolta rapito in un palco la propria eloquenza in bocca all’attore Shakespeare), il pubblico estasiato grida «Autore! Autore!». Il pavido Jonson è nascosto in un angolo, indeciso sul da farsi. Non ha nemmeno letto il testo; non voleva prendersi il rischio di firmarlo prima di vedere la reazione del pubblico. Lo sconcerto, l’esitazione dell’inetto Jonson, spingono Will a presentarsi come l’autore, accogliendo gli osanna della folla, giacché è già sul proscenio come protagonista. Secondo la ricostruzione del film, la figura di Polonio, il ciambellano traditore del padre di Amleto, è ricalcato su Lord Cecil, pomposo consigliere di Elisabetta e odiato suocero di De Vere, che «uccide» l’origliatore dietro la tenda per mano del principe di Danimarca. Edward si sarebbe vendicato anche del detestato cognato Robert Cecil, gibboso figlio di William e segretario di Stato della Regina, trasformando l’infido, assassino e traditore Riccardo III in un malefico gobbo.

Colpisce la correttezza politica di tanti critici, che tacciano di pregiudizio classista i cineasti,

a tradurre dall’inglese in latino e viceversa; studia autori classici come Ovidio, Plauto, Cicerone e Seneca. All’epoca in scuole simili s’insegnava anche il greco, ma non è accertato che fosse nel curriculum della New School. Al primo posto si approfondiva la religione, il catechismo cattolico, in un’epoca in cui cresceva l’intolleranza verso la Old Religion.

Le difficoltà economiche di John impediscono a Will di frequentare l’università. Gli antistratfordisti dubitano che con sette anni d’istruzione, sia pure di livello, Shakespeare abbia sviluppato la vasta cultura dei testi a lui attribuiti. Certamente la consistente formazione

mente conturbata dalle magnifiche parole scritte dal figlio ed ex amante recitate a teatro, che attanaglia la scollatura dell’abito sontuoso, facendo saltare i bottoni del corpetto. Non è da meno, in quanto a trovate plateali e ingiuriose per gli stratfordiani, la rappresentazione dell’uomo Shakespeare. Rafe Spall (Shaun of the Dead, Hot Fuzz), roseo, rotondo figlio del rubicondo Ti-

rei di dubitare del genio di un commoner a favore di uno «che nasce». Dietro la riesumazione dell’accusa, nata dall’indignazione dei partigiani di Shakespeare già nell’Ottocento, si scorge un malcelato snobismo verso un regista di popcorn movie, che osa infangare un’icona culturale superiore. Il film, però, oltre a farsi seguire come un thriller, è così palesemente falso, da far pensare a uno scherzo del tedesco pop, che non si vergogna d’inseguire il box office e conosce il valore della provocazione. Anonymous, invece di smascherare Shakespeare, finisce per seppellire la candidatura di De Vere. I denigratori del film temono che la disinformazione sul Bardo inquini la cultura dei giovani, troppo acerbi perché ne colgano l’infondatezza. È proprio una disgrazia se i teenager corrono a vedere un film d’epoca su una disputa letteraria? Da vedere.


MobyDICK

arti

Mostre

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I cronisti dell’umano

di Marco Vallora uriosamente, nel mondo dell’arte odierna, così legata spesso al primato del concettuale, raramente si tien conto dell’intelligenza in gioco dell’artista stesso, che dovrebbe risultare ovvia e determinante. Artista che ha pure la spocchia proterva di declinare il proprio credo in puffi-aforismatici, che dovrebbe sostenere l’impianto tutto del suo conceptual-progetto... e allora altro che gli asini cascano lì (l’abbiamo già ombreggiato, parlando di alcuni sopravvissuti dell’Arte Povera, fatto salvo il genio, pure teorico, di Paolini). Ma quando l’intelligenza innegabile si lega anche alla stravaganza simpatica, ecco che allora, e per fortuna, ci si trova di fronte al duo dandysytico e provocatorio Gilbert & George (un po’ troppo stancamente e meccanicamente plagiato e mimato dal nostro Ontani). Anche loro sono in parte «meccanici», ironicamente, perché si muovono a scatti & cortesie, come due automi fuggiti da un salotto vittoriano, timidi comprimari d’una Signorina Omicidi, in parte parodiando Wittgenstein ma tramutandolo in un assolo di Beckett, in parte evocando i Limericks del Reverendo Lear, senza dimenticare i couplets irresistibili dell’altro duo operettistico, trasparentemente ispiratore, di Gilbert & Sullivan. Sotto la palpebra pachidermica e rugosa dello sguardo vigile di Keaton, appunto nel Film di Beckett. Perché, per quanto lisci come bambini imborotalcati, occhi spalancati di tweed, anche loro vivono in un film perenne e muto di agudezas: sculture viventi, da quando si son pittati tutti d’oro, per ironizzare il mercato, e son saliti su una specie di podio-carillon, a cantare una canzoncina insulsa e infantile, propagandando non già «siete tutti creatori» (stoltizia demagogico-sessantottina) ma: l’«arte per tutti». «Che anche un bambino può capire. Perché tutti hanno provato che sia la sofferenza, il sangue, la speranza, la morte». Contro l’astrattismo, l’arte minimal «così senza cuore», contro l’odiato motivetto concettuale di moda, che non tocca più né materia né opera (loro fanno tutto rinascimentalmente da soli, guai disturbarli alla porta del loro appartamentino di bamboli in trance!), non hanno più smesso di galleggiare su quel piedistallo assurdo, da invasato predicatore poli-

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Intelligenti, stravaganti, dandy e provocatori, sculture viventi contro ogni finzione mercantile. Al Lingotto di Torino i desideri geometrizzati dei “bad boys” Gilbert & George tico all’angolo della strada, e con aplomb tutto londinese (sia pure dell’Est proletario, volutamente prescelto) e un’ironia mascherata, che si fa disegno, dispensano la loro eccentrica morale strampalata.

«Le sculture Gilbert & George - (ecco, la & commerciale) - hanno una vasta gamma pronta per voi, contattateci». Un campionario, che va dalle «sculture-intervista a quelle bar, danzanti o sfacciate». Come la vita. Ma tutto reificato, allegramente: marmificato, in una pasta di bêtise, che distrugge ogni finzione mercantile. Eppure la derisione genera sempre una bava vera di melanconia. «Con lacrime che scorrono sui nostri volti ci appelliamo a voi affin-

ché gioiate nella vita del mondo dell’arte». La vita, prima di tutto: «Siano soltanto scultori umani, in quanto ogni giorno ci alziamo, qualche volta camminiamo, leggiamo raramente, mangiamo spesso, pensiamo sempre, ci divertiamo a divertirci, rilassarci per vedere, combattere la noia, esser sognatori diurni, bere il tè, sentirci stanchi, filosofare tantissimo, criticare mai, morire molto piano». La fisiologia al servizio dello humour che diventa icona. Stralunato decalogo d’understatement trasognato, con sottofondo nonsensical alla Noel Coward, che c’introduce a questa curiosa coppia, che vive insieme l’arte & la vita, senza dannunzianare e che ha avuto l’ardire d’ostentare una sessualità marginalizzata in an-

ni duri (con i loro «cartelloni» sperma & Aids, spesso esibizionisti, che guazzano, però con sofisticazione, nell’universoescort). Una simbiosi dandistico-post-wildiana, che non cerca soltanto lo scandalo: anche loro, in fondo, han «venduto» il corpo dorato al mondo, e con distacco, odiando i curators, ragionano visivamente sulle miserie del mondo dell’arte. «Si mossero e sostarono un attimo, non vedendo alcunché». Uno scatto di vita-fotogramma ed ecco l’«alcunché»: un pochissimo, ma comunque significativo, senza mai enfasi, burlandosi delle Pizie del Moderno, che espugnano le scalee dei Guggenheim. O non saranno mica i grandi ditoni, finto-insultanti, contro la borsa-nutrice, a cambiare la vita e la Storia dell’Arte, con a latere, per foto-réclame, l’assessore di turno? Loro, sul mercato del cate-«cretinismo incensato», ma anche sui puzzle di farfalle di Hirst, o sulle Cicciolone di Koons, scherzano, impietosi. Loro che, «topi di campagna», scendono dalle brume romantiche (uno addirittura da Brunico) e posano ad aristocratici-cacciatori di Gainsborough e Constable, prima al college insieme («a piangere a due») poi giù, nella Londra «ancora dickensiana» di ubriaconi e clochards, a farsi bad boys e scoprire per la prima volta cabine telefoniche e bus, stupri e poliziotti.

Raccolgono, benjaminianamente, tutto quanto è scartato, vile, destinato alla ramazza mattutina dello spazzino, come quei tesserini di calendario, che si sfogliano nei film hollywodiani. Vanno per cabine di telefoni e raccolgono tutti quei foglietti dei desideri, che promettono dettagliate soddisfazioni erotiche, destinate a chi ha desideri ma non soldi, e se li immagazina via, nelle tasche. Creano una griglia «automatika», di tredici tasselli, che assomiglia al simbolo dell’uretra, con cui il teosofo libertario Leadbetter siglava i suoi proclami, a favore della masturbazione libera. Al Lingotto ne nasce come un mantra incantatorio, un flusso ornamentale di desideri geometrizzati, che sarebbe piaciuto a Riegl e che non a caso ha suggestionato anche il warburghiano Didi-Huberman. «Quando ricevi una cartolina, certo, è solo una forma: ma dentro c’è il sentimento, l’amore, vari affetti, brutte notizie, tutto quanto è umano». The Urethra Postcard Art of Gilbert & George, Pinacoteca Agnelli, Torino, fino al 4 marzo 2012


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n romanzo. E, come ogni romanzo che si rispetti, pieno di colpi di scena, di intrighi, di amore e di dolore, fino alla conclusione tragica. La storia, autentica, del re di Roma, figlio di Napoleone e di Maria Luisa d’Austria, che lui stesso (Napoleon, François, Charles, Joseph, e più tardi Franz) riassunse in modo amaro: «La mia nascita e la mia morte. Ecco tutta la mia storia». Si potrebbe quindi archiviare la sua esistenza come si fa sulle lapidi: «Parigi, 20 marzo 1811 - Vienna, 22 luglio 1832». Non fu così, ovvamente, e a raccontarcelo è Alessandra Necci (Il prigioniero degli Asburgo - Storia di Napoleone II re di Roma, Marsilio editore, 382 pagine). L’autrice, come capita regolarmente ai biografi, si è invaghita del suo personaggio (la stessa accusa fu rivolta perfino a Renzo De Felice, accusato di eccessive simpatie per Mussolini), descrivendolo, pagina dopo pagina, come una vittima della perfidia del potere.

U

Sembrava, alla nascita, un predestinato alla gloria. Figlio legittimo di Napoleone (che da poco aveva avuto un altro figlio, Alessandro Floriano Giuseppe, da Maria Walewska, la contessa polacca che si era perdutamente innamorata dell’imperatore), erede al trono imperiale, re di Roma, il suo futuro appariva splendente quanto il sole che ad Austerlitz (pochi anni prima) aveva salutato uno dei trionfi in battaglia del padre. Era bello, coccolato da tutti, e soprattutto dall’augusto genitore che riponeva in lui la speranza di creare una solida dinastia. Un giorno, l’uomo più potente della Terra confidò alle persone che gli erano più vicine: «Lo invidio, la gloria lo attende, mentre io ho dovuto correrle dietro. Io sono stato Filippo, lui sarà Alessandro. Per afferrare il mondo, non dovrà che tendere le braccia». Nelle strade di Parigi, la gente cantava: Et bon, bon, bon! C’est un garçon! Vive Napoleon! Negli ultimi mesi della sua breve vita, la gente tornò per strada a gridare Vive Napoleon!, e alludeva proprio a lui, il giovane ventenne, l’unico che potesse contrastare l’ascesa al potere di Luigi Filippo d’Orleans. Ma il veto dei potenti che avevano disegnato la nuova geografia politica d’Europa nel Congresso di Vienna del 1815 valeva ancora. Perché il ricordo delanno IV - numero 40 - pagina IV

il paginone

MobyDICK

Colpi di scena, intrighi, tragedia in una vita (breve), appassionante come un romanzo. La storia di Napoleone II, erede al trono imperiale di Francia, destinato a un futuro splendente, raccontata in un bel libro da Alessandra Necci le conquiste del padre continuava a terrorizzare i padri della Restaurazione. Ma nel periodo che divise quegli evviva ci fu una lunghissima stagione di sofferenza e di solitudine. La principale causa dei dolori del giovane rampollo fu l’atteggiamento della madre, Maria Luisa, giudicato senza attenuanti da Alessandra Necci. Altri storici, dedicando i propri studi soprattutto al periodo nel quale resse il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, elogiano la moderazione e la saggezza della figlia dell’imperatore d’Austria, che seppe conquistarsi l’affetto dei sudditi. Era falsa, egoista, irresoluta e influenzabile, sostiene la Necci. Incapace di provare affetti sinceri. Quando il marito cadde in disgrazia, Luisl (così veniva chiamata in confidenza) lo abbandonò al suo destino. Si scelse un amante, Adam von Neipperg, che sposò dopo la morte di Napoleone. Andò su tutte le furie quando venne a sapere della relazione di Napoleone con la Walewska, pur avendolo preceduto nel tradimento. Da Neipperg ebbe due figli (Albertina e Guglielmo), che trattò come estranei, al punto di non rivelare loro di esserne la madre. Si comportò più o meno allo stesso modo con il piccolo Aiglon (l’Aquilotto, erede dell’Aigle, l’Aquila, come era chiamato

l’imperatore dei francesi). «I contatti con la madre sono scarsi, sempre regolati dal cerimoniale», racconta Alessandra Necci riguardo all’infanzia solitaria del principino. «Maria Luisa non è affettuosa né tanto meno portata ad accudirlo, e non è in grado di stabilire un rapporto che comunque non le viene facilitato in nessun modo. Quando la famiglia è alle Tuileries, il piccolo viene condotto dalla governante e dalle altre dame negli appartamenti della mamma. Maria Luisa lo guarda e continua a ripetere “Buongiorno, buongiorno”, ma non lo prende in braccio e non ci gioca. Torna ben presto a sbrigare la corrispondenza, o a leggere, mentre il piccolo si annoia».

Lui, il piccolo principe (che fu un bambino precocissimo: bello, educato, pieno di curiosità, infatuato delle glorie paterne), quando non gli fu più possibile intrattenere rapporti con il padre, riversò il suo affetto (e il suo bisogno di affetto) sulla madre, e sul nonno, l’imperatore d’Austria, Francesco II. Ma lei si inchinò alla ragion di Stato che le suggeriva di trasferirsi a Parma senza il bambino, per non insospettire le diplomazie europee (e per farsi gli affari propri, con la nuova famiglia che si era creata). Soltanto quattro o cinque volte (fra il 1816 e il 1832) trascorse le vacanze estive in Austria, concedendo qualche ritaglio di tempo a Franz (prigioniero degli Asburgo: il nome di Napoleone fu cancellato e il terzo nome fu pronun-

Il Grande di Massimo Tosti

Cresciuto nel mito del padre, ignorato dalla madre, ostaggio degli Asburgo, non si fece mai illusioni sul proprio triste destino. Che dalla culla alla tomba considerò insignificante

ciato e scritto nella grafia tedesca). Il nonno era più espansivo della madre. Ma il bambino, e poi il ragazzo, finì per legarsi soprattutto (nei primissimi anni, prima che fosse cacciata dalla Corte di Vienna) alla governante Madame de Montesquiou, e poi all’austero precettore Maurice Dietrichstein (che, alla fine, si intenerì anche lui per la sorte di quel ragazzo). Un giorno, quando il Napoleone II aveva appena un anno e mezzo, il prefetto della Senna, Nicolas Frochot, esclamò: «Diavolo del re di Roma! Non ci si ricorda mai di lui!». Fu la sua condanna, per tutta la breve esistenza.


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Zero

In apertura la copertina del libro “Il prigioniero degli Asburgo”. In alto, Napoleone II bambino. A sinistra, il Palazzo de Les Invalides e Maria Luisa d’Austria con il figlio. Sopra, un’immagine dell’imperatore da giovane

O si dimenticavano che ci fosse, oppure lo trattavano come se fosse un inconveniente, e non un ragazzo con la sua personalità, i suoi diritti, le sue ambizioni e i suoi legittimi sogni. Lui studiava, faceva di tutto per non sfigurare di fronte al monumento paterno, per riconquistarsi l’amore della madre, per rassicurare il nonno riguardo ai sentimenti austriaci. E gli altri pensavano soltanto ai fastidi provocati dalla sua presenza ingombrante. Matternich, il cancelliere austriaco che aveva curato insieme con Talleyrand la regia del Congresso di Vienna, se avesse potuto l’avrebbe eliminato fisicamente. Un giorno (ai tempi del Congresso, quando il bambino non aveva ancora quattro anni) il Gatto e la Volpe lo incrociarono nel parco di Schönbrunn. Metternich domandò a Talleyrand. «Lo riconoscete, monsignore?». E l’altro che, quanto a cinismo, non era secondo a nessuno, replicò: «Lo conosco, sì, ma non lo riconosco». Erano ancora i tempi nei quali il piccolino covava qualche illusione sul proprio personale potere. Credeva davvero di essere un re, e si comportava di conseguenza, dettando ordini a destra e a manca, e pretendendo di essere ubbidito. I pochi coetanei che lo frequentavano, gli dovevano baciare la mano, in segno di devozione. Dopo Waterloo, nessuno più fu disposto a favorirne i desideri. Agli insegnanti veniva chiesto non di educarlo, quanto piuttosto di rieducarlo, sradicandolo dall’affetto per il padre e per la Francia, levandogli i giocattoli e i libri francesi (che sfogliava ricordando quel che gli avevano raccontato riguardo al loro contenuto).

Fu trasformato brutalmente in un ostaggio, prigioniero degli Asburgo e della ragion di Stato. La madre, Maria Luisa, lasciò l’Austria diretta a Parma, il 7 marzo del 1816, tredici giorni prima del quinto compleanno del figlio: un’ulteriore prova di insensibilità. Quello fu il periodo più duro per Napoleone II. Si svegliava la notte, assalito dagli incubi, maltrattava i suoi insegnanti, resisteva ai loro metodi repressivi. Un giorno, quando gli annunciarono che la madre era in arrivo a Vienna, domandò al nonno perché non tornasse anche il padre. «Perché è stato un uomo cattivo e l’hanno messo in prigione. E se sarai cattivo, faranno lo stesso anche con te». Arrivò il giorno in cui (con due mesi di ritardo) si seppe che Napoleone Bonaparte era morto a Sant’Elena. Luisl lesse la notizia sulla Gaz-

zettà del Piemonte (la Corte di Vienna si era dimenticata di informarla) e reagì da par suo. «Il trauma non deve essere molto forte - scrive la Necci - perché la sera si reca a vedere il Barbiere di Siviglia» (il Regio di Parma era già allora un teatro prestigioso). Franz, viceversa, si dispera, e continuerà a piangere per alcuni giorni. È in qull’epoca che si manifestano i primi sintomi della malattia che lo porterà alla tomba. La morte in esilio, in un isolotto sperduto dell’Atlantico contribuisce a rinfocolare il mito bonapartista. Il piccolo orfano (dopo lo sgomento dei primi giorni) si comporta da adulto: riscopre l’orgoglio e dimostra di essere dotato anche di uno spirito pungente e raffinato. Una sera, una signora, gli si rivolge con un sospiro, dicendo: «La Francia era più bella dodici anni fa». E lui le mormora: «Anche voi, signora».

A sedici anni è un ragazzo splendido, alto un metro e novanta, elegante, raffinato, aristocratico. «Le donne lo mangiano con gli occhi, lo seguono, si fanno trovare sulla sua strada quando esce a cavallo. Viene considerato come il principe azzurro delle favole». La madre (in una delle sue rarissime visite a Vienna) gli regala la sciabola che Napoleone aveva riportato dalla campagna d’Egitto. Ma la sua indulgenza nei confronti di lei comincia ad appannarsi. «Mia madre è buona - dice a un amico - ma priva di forza. Non è la sposa che mio padre meritava». Quando la Francia insorge, la popolarità di Napoleon, François, Charles, Joseph è alle stelle. Metternich pronuncia il suo verdetto: «Escluso una volta per tutte da tutti i troni». A corte ha soltanto un’amica del cuore, la principessa di Baviera, Sofia (qualche pettegolo mormora che sia il giovane Bonaparte, e non l’arciduca Francesco Carlo, legittimo sposo di lei, il padre del futuro imperatore Francesco Giuseppe). Ma queste sono chiacchiere. Lui, Napoleone, ripete: «Fra la mia culla e la mia tomba c’è un grande zero». Alessandra Necci chiude il suo libro (bellissimo) riportando l’ultima leggenda: «Si dice che la pendola della sua stanza abbia cessato di bettere le ore nell’istante della morte». Dal 14 dicembre 1940, per volontà di Hitler (che sperava di infoltire così il numero dei collaborazionisti) il corpo dell’Aiglon è sepolto nella cappella dell’Hotel des Invalides accanto a quello del padre, traslato lì lo stesso giorno di cento anni prima.

altre letture di Riccardo Paradisi

Un ponte di-vino tra l’uomo e gli dei evanda tra l’umano e il divino, il vino è rappresentato nei momenti più alti dell’umanità: dal culto di Dioniso all’Ultima cena di Gesù con gli apostoli. Nel saggio Vino tra storia e cultura (Odoya, 352 pagine, 20,00 euro) John Varriano, professore emerito di Storia dell’arte al Mount Holyoke College del Massachusetts, indaga il ruolo che ha avuto questa bevanda nella storia e nell’arte. Il vino e la sua divinità (Dioniso e Bacco) sono infatti il soggetto cardine di gran parte dell’arte degli ultimi secoli dal Bacchino malato di Caravaggio fino alle nature morte. Il vino è «poesia in bottiglia», come scrive Variano: appare in tutte le lingue dalla penna di talenti diversi come Emily Dickinson, Lord Byron, Charles Baudelaire e Pablo Neruda. Questa storia culturale del vino è un raffinato e ampio affresco che non rinuncia a studiare gli aspetti legati all’espansione commerciale del vino, le sue eccellenze e i metodi di vinificazione (come quelli studiati da Pasteur).

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Malaparte, il Machiavelli del colpo di stato ecnica del colpo di Stato che Adelphi ora ripubblica nella collana della sua piccola biblioteca (269 pagine,14,00 euro) rappresenta il primo, clamoroso e straordinario successo internazionale di Curzio Malaparte. E ancora oggi mantiene intatto il suo potere per l’attualità della sua analisi di ingegneria politica. Un saggio che, in una prosa classica, teorizza l’arte del rovesciamento di qualsiasi tipo di regime dividendo il mondo degli attori politici in due grandi categorie, quelle dei catilinari e dei ciceroniani. Uno stile tacitiano quello di Malaparte che tocca il vertice nella ricostruzione dei colpi di stato dei primi decenni del secolo scorso e soprattutto nelle pagine dedicate alla imminente rivoluzione a Pietrogrado con un ritratto impareggiabile della psicologia di Stalin: «Stalin è un barbaro, nel senso leninista della parola, cioè un nemico della cultura, della psicologia e della morale dell’Occidente. La sua intelligenza è tutta fisica, istintiva, non ha pregiudizi d’ordine culturale e morale». Hitler invece viene definito un «Giulio Cesa-

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re in costume tirolese». Mussolini, antitesi di quegli antichi romani o condottieri rinascimentali cui viene assimilato dalle apologie dei Plutarchi ufficiali.

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Né Marx né Bentham: serve Gesù i sono molte cose che agiscono contro l’uomo e Chesterton nel suo Ciò che non va nel mondo (304 pagine, 22,00 euro) ne elenca alcune: dalla solitudine dell’uomo alla sua alienazione nel lavoro e nella vita. Alienazione indotta sia dal capitalismo che dal socialismo (il primo la giustifica in nome della produzione, il secondo pretende di ridefinirla nel tentativo di dare vita all’homo novus), dal rifiuto delle leggi divine al femminismo - criticato perché reclama il diritto di applicare alla donna categorie maschili -, fino ai sistemi educativi che tendono sempre di più a irreggimentare i bambini trasformandoli in proprietà dello Stato. In sintesi però ciò che non va nel mondo si riassume in questo: che si tende a cambiare l’uomo per adattarlo alla società piuttosto che adattare la società alle esigenze dell’uomo. Illuminanti anche le pagine sul libero amore propagandato dai progressisti: «Un’illusione che riduce la sessualità a una serie di episodi e implica una lunga vacanza dalla vita».

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La piazza contro la democrazia a piazza che scardina un governo nasce dalla democrazia, ma la democrazia che si serve della piazza genera la dittatura. A cinquant’anni di distanza dai morti di Reggio Emilia e dalle barricate di Genova contro il governo Tambroni e il congresso del Movimento sociale, Sommossa di Franco Palmieri (Bietti, 224 pagine, 17,00 euro) è la ricostruzione sociologica, culturale e politica degli accadimenti che portarono all’uccisione di cinque attivisti del partito comunista da parte della polizia. Ma è anche la rappresentazione di una gioventù combattuta tra il miraggio dell’incipiente boom economico e le suggestioni di un populismo ideologico che spinge all’estremismo e al massimalismo politico una generazione in una città come Reggio Emilia dove ebbero origine gli anni di piombo.

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Narrativa

MobyDICK

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orse si potrebbe partire, per commentare l’ultimo romanzo di Elena Ferrante L’amica geniale, dal termine smarginatura. Parola che l’io narrante spiega in maniera chiara e meticolosa proprio a metà del romanzo. La smarginatura è una sensazione, uno stato d’animo dell’amica geniale, la giovane Lila amica di Elena, voce narrante, un modo di improvvisa rivelazione e conoscenza del mondo che s’insinua nell’animo del personaggio in un momento preciso dell’esistenza per poi, trovato il varco, insediarsi come malessere e sottofondo dell’esistenza. Lila sente e poi teorizza la smarginatura: «il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura… in quelle occasioni si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose». Non sembri peregrino ma la smarginatura è proprio una parola fondante della ricchezza narrativa della Ferrante, racchiudendo insieme, e facendo la sintesi, della forza espressiva della scrittrice e della dirompenza delle storie a cui ci ha abituati negli anni. E per andare fino in fondo a questa breve pista, la smarginatura coglie il senso della dissoluzione e della deformazione, quella parte concreta dell’oscenità di vivere come atto e come linguaggio. La rivelazione dei nostri contorni labili e della repulsione di fronte al movimento, a volte percepito come estraneo, del mondo. E la rivelazione del mondo così com’è, lo scollamento di sentirlo come un’appartenenza, e che la giovane protagonista vede in una forma di visionarietà vicina e intima a quella di un’altra grande scrittrice napoletana come Anna Maria Ortese. Vedere il mondo come estraneo e violento, sentirne la forza di repulsione è questa la smarginatura che percorre fisicamente il corpo dell’adolescente Lila, il distacco: «un senso di repulsione aveva investito tutti i corpi in movimento… la frenesia che li scuoteva. Come siamo malformati, aveva pensato, come siamo insufficienti… il tumulto del cuore l’aveva sopraffatta si era

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Poesia

libri

Elena Ferrante L’AMICA GENIALE Edizioni e/o, 327 pagine, 18,00 euro

Lila, una vita

in dissolvenza Dopo “L’amore molesto” e “I giorni dell’abbandono”, il nuovo romanzo - il primo di una trilogia - di Elena Ferrante di Maria Pia Ammirati

sentita soffocare». Una parola non solo non marginale ma che si porta dietro una serie di corollari semantici come repulsione e distacco che sono l’intima struttura di questo straordinario romanzo. Elena Ferrante è un caso unico nel panorama della narrativa italiana, il caso di una scrittrice ostinatamente lontana dalle cronache al punto da rinunciare all’identità svelata: ancora oggi della Ferrante non si hanno il volto e il nome. Ancora oggi l’esercizio mondano è quello di cercarne l’identità dietro altri scrittori. Dal suo esordio che la impose senza potentati editoriali con L’amore molesto (1992) fino a I giorni dell’abbandono (2002), lo stile e le ossessioni non sono stati rimpiazzati, la forza espressiva della lingua, lo scavo impietoso sui personaggi non si è fermato in quest’ultimo romanzo che però, secondo noi, segna una tappa. Resta la brutalità della vita certo come indagine, ma si sposta, anche come impianto narrativo, dal microcosmo di personaggi schiacciati nel qui e ora, allo scenario di vita da raccontare sul profilo di una lunga Storia. Dalla forza, diremmo, dell’azione drammatica come la storia della protagonista dei Giorni dell’abbandono, o come il ritorno alle origini sulle tracce di una madre non amata nell’Amore molesto, alla vita seguita nel suo percorso di formazione di Elena che nasce nei vicoli di Napoli e crescendo sente la smarginatura, senza capirla fino in fondo, sente cioè il desiderio di separarsi da quell’ambiente e da quel mondo per il quale prova repulsione. È ancora una volta la lingua, il napoletano, questo miscuglio di forza e volgarità. Questa prepotenza dell’osceno e del primitivo che si incolla alla figura della madre, e che crea ancora, come nel romanzo d’esordio, la crasi di lingua e maternità, cioè una sorta di luogo da cui una volta generati, bisogna fuggire. L’amica geniale, che si configura come il primo libro di una trilogia, è ancora una prova della straordinarietà e unicità della scrittrice Elena Ferrante.

Memoria e desiderio coi colori dell’estate

prile è il più crudele dei mesi, genera/ Lillà da terra morta, confondendo/ Memoria e desiderio, risvegliando/ Le radici sopite con la pioggia della primavera». Sono celebri versi di Thomas Stearn Eliot da La terra desolata che certamente in Giovanni Piccioni hanno trovato alloggio e sedimento. Soprattutto si rinforza ora, ma è già presente in nuce nel suo lavoro poetico sin dalla plaquette Per dire di un anno (2000), quel dittico, asse cardinale dell’intero componimento eliotiano, «memoria e desiderio», in altre parole passato e futuro, che s’accavallano e si rimandano l’un con l’altro anche in questa nuova raccolta di Piccioni, Forma del mattino (Raffaelli editore, 104 pagine, 12,00 euro). Il poeta chiama in causa un’intera stagione, l’estate, attorno alla quale tesse il suo canto lieve, elevato con una raffinata e colta sapienza letteraria fondata su due numi quali Mario Luzi («quando arrestavi/ i giorni in fuga/ incidevi la trama delle parole») e Giuseppe Ungaretti (decisivo nella scelta della forma-verso adottata e poi ben assimilato anche sul piano filosofico e linguistico), giostrando su quei due pedali eliotiani

«A

di Francesco Napoli di cui si è detto: il passato estivo e il futuro incerto sul profilo del proprio orizzonte prospettico. Nella raccolta non c’è la stessa valenza funerea della quartina di Eliot, ma una ricercata intensità poetica sì. E in Piccioni è una stagione intera a far da leitmotiv di un’acuta riflessione, sensibile e sintetica come solo la poesia sa esserlo, una riflessione pervasa da quella costante dubitativa instillatasi nell’uomo del Novecento e qui sintomaticamente rintracciabile in testi costellati da una fitta serie di interrogativi. «L’estate di Piccioni è quella bella del bambino che si sente riscaldato dai suoi colori» osserva con attenzione Roberto Mussapi nell’Introduzione al volume, ed è già un buon punto di partenza perché in quel mito personale Piccioni si rispecchia e sa di non potersi più confrontare. Il poeta si misura con quell’indefinito sentimento di cose perdute che, al contrario dell’aprile eliotiano, nulla può più rigenerare, neppure la forza della memoria («Vivrò via via attonito/ il depauperarsi degli altri,/ mi separerò/ dal confine del passato,/ per-

Il sentimento delle cose perdute e gli interrogativi sul futuro nella nuova raccolta di Giovanni Piccioni

derò la vivida memoria»). Al più intuitivo e immediato riflesso metaforico legato alle stagioni dell’uomo, in questo nucleo mitopoietico sembra prevalere soprattutto un senso di inappartenenza pressoché inappagabile, un’avvertita estraneità («la mente si dividerà/ assente all’esistente?») a un mondo ormai lontano e fanciullesco che nella voce e nel pensiero assumono i connotati di un distacco dal quotidiano vivere dell’adulto. Incide profondamente questa estraneità sino a temere poi lo smarrimento della via maestra della parola poetica, a temere di non riuscire più a nominare «quanto si svela all’anima mia», a incidere con efficacia «la trama delle parole», restando come vinto in attesa di «quel sole/ che ridia/ un colore/ ora stinto». Quella di Piccioni non è affatto una ripresa del famoso mito pascoliano bensì una più generale considerazione che a far base da sé rivela la condizione dell’essere, dilaniato tra memoria di quanto occorso e desiderio di trovare una risposta ai numerosi interrogativi spinti sino a un denso nucleo metafisico che trovano poi un’esemplare misura in questi incisivi versi: «Andare così/ privo di te,/ non capire se/ matura è/ la carne/ vivo/ il sangue./ Dio, perché?».


spettacoli I mantra di Meshell (nel mito di Miles) MobyDICK

Cd

adonna ci aveva visto giusto arruolandola nella Maverick, la sua etichetta discografica. Era il 1993 e Michelle Lynn Johnson, in arte Me’Shell NdegéOcello (si pronuncia n-daygay-o-cello, che nella lingua swahili dei suoi genitori significa «libera come un uccello») debuttava con Plantation Lullabies esibendo capelli rasati a zero, lineamenti duri e bicipiti guizzanti. All’epoca l’avevo intervistata a Parigi per poi sentirla cantare e suonare basso e tastiere alla Cigale. Immobile al microfono, più che rap sparava canzoni rivoluzionarie in un magma incandescente di funk, hiphop, jazz e fusion. All’improvviso, accennò passi di danza tribale per poi voltarsi e dirigere col pugno chiuso la sua band. Mi disse: «L’unica alternativa all’hip-hop è il silenzio. L’hip-hop è l’inverso del capitalismo e il contrario del colonialismo. È rifarsi alle radici senza mediazioni né compromessi». Me’Shell NdegéOcello, cantautrice anti romantica, era la Patti Smith nera. E Rolling Stone, nel ’94, la segnalò come migliore artista emergente. Diciotto anni dopo, lasciatasi alle spalle altri dischi come Peace Beyond Passion, Bitter e Devil’s Halo, la quarantaduenne berlinese che è cresciuta a Washington, ha vissuto a New York e ha studiato basso jazz alla Duke Ellington School of the Arts si è semplificata in Meshell Ndegeocello ed è radicalmente cambiata con la sua musica. «Per troppo tempo ho urlato contro tutto e tutti», spiega. «Oggi mi tengo ben stretta le mie opinioni, ma non combatto più contro il resto del mondo». È in pace con se stessa. Si sente libera. Come Weather, il nuovo album

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Teatro

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di Stefano Bianchi che racchiude i colori dell’autunno. «Amo i jazzisti perché non hanno paura di affrontare le sfide, anche le più pericolose», puntualizza. «Per questo motivo la mia band ha sentito il bisogno di esplorare nuovi generi, sfidando l’incertezza e l’avventura». La musica jazz rimane la sua passione più grande, sublimata ascoltando John Coltrane, Herbie Hancock e Miles Davis: «Il mio eroe. Che ha avuto il coraggio di confrontarsi con Time After Time di Cyndi Lauper e Human Nature di Michael Jackson senza doversi giustificare coi puristi». Anche Meshell, come Miles, non deve giustificare nulla delle nuove canzoni gonfie di immagini e poesie. Perché sono belle, punto e basta: «Sono come dei mantra, esplosi nella mia mente e poi tradotti in musica». Prodotto da Joe Henry e suonato con Chris Bruce (chitarra), Deantoni Parks (batteria), Keefus Ciancia (tastiere) e Gabe Noel (violoncello), Weather è gusto del rallenty, dell’orchestrazione, del groove seduttivo: a cominciare dall’omonimo brano che è soul music ad ampio respiro,

folkeggiante e crepuscolare, proseguendo con l’assoluta beltà di Chelsea Hotel di Leonard Cohen, dedicata a Janis Joplin. Soul è anche Rapid Fire: avvolgente, giocata sulla spoken word anziché sul canto. Succede, poi, che il pop di Chance e Dirty World suoni fin troppo facile. Ma al successivo ascolto, rivela tocchi di rhythm & blues e funky. A Bitter Mule e Feeling For The Wall sono invece scarne melodie, mentre Oysters è voce, pianoforte e null’altro per cogliere la perfezione. E le ballate? Objects In Mirror Are Closer Than They Appear, sostenuta da violoncello e piano, coglie il senso della quiete; Crazy And Wild, con la voce sovrapposta a quella di Benji Hughes, instilla atmosfere dark e un pizzico di jazz. Il 25 novembre, unica data italiana, Meshell Ndegeocello suonerà alla Salumeria della Musica di Milano. Non mancate. Meshell Ndegeocello Weather, Naïve/Self 17,99 euro

Su il sipario, a Roma è di scena la lettura

i sa, il lunedì i teatranti riposano. E che fare, se proprio di lunedì, siete presi da un’indicibile improrogabile inalienabile voglia di teatro? Se siete a Roma non avete che da raggiungere via Nazionale per essere confortati dalle letture sceniche di Artisti Riuniti (un gruppo fecondo di uomini di spettacolo che ha smesso di stare a guardare). Dopo aver svelato e condiviso, nelle precedenti sette edizioni, testi per il teatro frutto di penne non esclusivamente teatrali, Artisti Riuniti propone ora una selezione di testi inediti di autori contemporanei commissionati per l’occasione a chi il teatro lo scrive di mestiere. I temi: ancora una volta l’inestinguibile patria, se non ora quando? e la famiglia, un evergreen, letti - ma in alcuni casi sarebbe più giusto dire interpretati - da un manipolo di valenti artisti. Ovviamente sempre sotto la direzione artistica di Piero Maccarinelli. Insomma delle serate uniche di particolare pregio che più di una volta hanno fruttato agli autori premi e messinscena. E allora ecco nel dettaglio cosa hanno ancora in serbo per noi oltre ai due appuntamenti, già esauriti, con la drammaturgia di Stefano Massini - L’alba a mezzanotte - e

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di Enrica Rosso

Stefania Sandrelli interprete di “Dolores Ibarruri versa lacrime amare” di Antonio Tabucchi per gli Artisti Riuniti all’Eliseo di Roma

Luca De Bei che ha presentato Di notte che non c’è nessuno. Il prossimo incontro è per lunedì 28 novembre con la scrittura a quattro mani di Rosa A. Menduni e Roberto de Giorgi. Farà giorno, un triangolo di personaggi a confronto per raccontare un pezzo di storia e interrogarsi su come i fatti hanno influito sulla situazione attuale in compagnia di Franco Graziosi, Manuela Mandracchia e Alberto Onofrietti. Eccezione alla regola del lunedì faranno le serate di venerdì, sabato e domenica prossimi. In prima nazionale, al Palazzo Santa Chiara, Stefania Sandrelli accompagnata al pianoforte dal maestro Antonio Di Pofi, sarà l’interprete di Dolores Ibarruri versa lacrime amare di Antonio Tabucchi già edito da Feltrinelli (www.palazzosantachiara.it o 06 6875579 per i dettagli). A seguire il 12 dicembre Nuvole di Roberto Cavosi, ovvero quattro quadri per ricostruire un’esistenza affidato al talento esecutivo di Maria Paiato, Daniela Giordano, Euridice Axen, Francesco Bonomo e Sandra Toffolatti. Bisognerà poi pazientare fino al 13 febbraio per ascoltare, questa volta con il beneplaci-

to di Face à Face - parole di Francia per scene d’Italia - Il sistema di Ponzi di David Lescot nella traduzione di Gioia Costa. In pratica la ricostruzione della storia dell’italiano Charles Ponzi, emerito truffatore d’inizio secolo immigrato negli Stati Uniti. Oltre ai già citati incontri, il 5 dicembre, a chiudere idealmente il cerchio tra le varie arti, Palomar e Artisti Uniti presenteranno una serata-evento dal romanzo Acciaio di Silvia Avallone, finalista del Premio Strega 2010 e vincitrice del Premio Campiello Opera Prima 2010. In anteprima dal film diretto da Stefano Mordini una pioggia di immagini a visualizzare le parole interpretate per l’occasione dal vivo da Michele Riondino,Vittoria Puccini, Matilde Giannini, Anna Bellezza e Massimo Populizio. E se proprio non potete essere presenti fisicamente alle varie serate potete consolarvi con l’audiolibro di Iliade, l’aspra contesa andato in scena ai Mercati Traianei nel 2007: come direbbe Paolo Conte «uno spettacolo di arte varia» che ha registrato il sold out.

I Lunedì di Artisti Riuniti, Roma, Teatro Piccolo Eliseo, info: www.teatroeliseo.it - tel. 06 4882114 / 06 48872222


Babeliopolis

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modi per viaggiare nello spazio sono sempre stati innumerevoli: a cavalcioni di un drago, in mongolfiera, trascinati da uno stormo di oche, portati in alto da sfere piene di rugiada, su un vascello catturato da una tempesta, poi con proiettili sparati da un cannone, sommergibili e automobili volanti, infine con veri e propri razzi autopropulsi. Spulciando la fantascienza dei primordi, o protofantascienza, se ne leggono delle belle, sempre più belle man mano che vengono alla luce opere sconosciute o dimenticate. Ecco un esempio recentissimo. C’è chi entra in un armadio relegato in soffitta e si ritrova nel fantastico mondo di Narnia, come i ragazzi del ciclo di romanzi di C.S.Lewis resi popolari ormai - come d’uso - dai film tratti dalle sue Cronache di Narnia, e chi entra in un armadio (a specchio) e si ritrova a viaggiare nello spazio in compagnia di uno scienziato stralunato, di alcuni prosciutti e scatole di conserva. Vedi un po’ i casi della vita… e vedi le differenze tra il fantastico non scientifico e il fantastico pseudoscientifico.

I

La seconda avventura ce la racconta un curioso romanzo di proto-fantascienza satirica del 1905 scoperto da Alvaro Cebello Viro, docente di lingua e letteratura spagnola all’Università di Liegi che ce lo presenta insieme a Fabrizio Foni e al traduttore Riccardo Trani in una edizione bilingue: Sei giorni fuori dal mondo, per le Edizioni Nerosubianco di Cuneo. Autore, per noi italiani totalmente ignoto, Juan Pérez Zùniga (1860-1938), «scrittore di facezie e di “letteratura amena”» che narra una bizzarra storia di cui lui stesso è protagonista insieme a Pompeyo Marròn che sul biglietto da visita si autodefinisce «inventore e martire». Martire della scienza naturalmente perché non viene creduto e aiutato da chi dovrebbe promuovere le novità. Ideatore di un meccanismo che annulla la gravità terrestre si deve adattare alle circostanze e lo installa dove può, in un armadio: qui fa entrare il curioso autore-co-protagonista e parte a razzo vero l’alto, lasciando di stucco Joaquìn Xaudarò, il disegnatore che illustra appunto questo romanzo, divenuto anche lui personaggio della storia. I nostri due eroi (uno di essi del tutto riluttante) giungono prima sulla Luna, dove trovano strani abitanti che sembrano dei banchetti a quattro piedi animati e poi su Venere. Ma qui ci arriva il solo Zùniga perché nel frattempo il povero Marròn a causa di una cattiva digestione di prosciutto che gli complica una preesistente appendicite, defunge e viene lanciato nello spazio. Su Venere lo scrittore-astronauta non trova le belle donne che si aspetta, ma una singolare popolazione di piccoli esseri che usano strane bende di lamé come mezzi di trasporto e che lo vorrebbe chiudere in una specie di museo interplanetario come animale piovuto dallo spazio. Alla fine fugge e, bene o male, maneggiando a caso la macchina di Marròn, torna sulla Terra e se la deve vedere con i familiari infuriati. Zù-

MobyDICK

ai confini della realtà

Viaggio

spaziale in un armadio di Gianfranco de Turris niga è uno scrittore umoristico di un umorismo di cento e più anni fa che usa battute, giochi di parole, calembour (alcuni dei quali ovviamente datati e con riferimenti alla situazione

politico-sociale del suo tempo, che però sono spiegati nelle note dei curatori) che scrisse evidentemente questo breve romanzo per satireggiare I primi uomini sulla Luna di Wells (1901)

Nato nel 1905 come satira di un’opera di Wells, “Sei giorni fuori dal mondo” racconta la bizzarra avventura di due involontari eroi partiti a razzo verso Luna e Venere. L’autore è Juan Pérez Zùniga, “scrittore di facezie e letteratura amena”. A ristamparlo le Edizioni Nerosubianco

che venne tradotto in spagnolo nel 1905, l’anno in cui uscì Sei giorni fuori del mondo: i precisi riferimenti e confronti che lo scrittore-protagonista fa a Wells non lasciano dubbi. Ma quel che è più curioso, come sottolinea Fabrizio Foni nella sua postfazione, sono i punti di contatto con uno scrittore italiano che mescolò, anch’egli, protofantascienza e satira: Yambo (Enrico Noivelli, figlio di Ermete, il famoso attore drammatico). Oggi dimenticato ma da riscoprire, Yambo illustrò ampiamente le sue opere con disegni assai tipici e inconfondibili. E in effetti, soprattutto la copertina originale di Sei giorni fuori dal mondo, riprodotta nella edizione italiana, lo ricordano in modo impressionante.

I due scrittori nulla sapevano ovviamente l’uno dell’altro, ma la coincidenza sta a dimostrare quale fosse il clima di un’epoca lontana che, ma mano che si approfondiscono gli studi in materia di narrativa popolare, dimostra una comune dimensione europea. Da questo punto di vista non c’è molta differenza tra Paesi all’epoca industrialmente avanzati (Gran Bretagna, Germania, Francia) e quelli che si ritiene che per un luogo comune non lo fossero (Italia, Spagna). In tutti proliferavano i «romanzi meravigliosi», le «avventure straordinarie», certamente ispirate da Verne e Wells, ma non solo da essi. Per esempio, è curioso il fatto che proprio nel 1905 uscì a puntate sulla rivista Viaggi e avventure di terra e di mare diretto da Emilio Salgari, una rivista molto aperta alla proto-fantascienza, Il fascino del’ignoto di Anton Ettore Zuliani, un lungo racconto a puntate che descrive anch’esso un viaggio su Venere di un gruppetto di italiani (c’è anche una vezzosa signorina e il cattivo di turno che cerca di sabotare l’impresa è un… tedesco) grazie anche qui a un congegno che vince la gravitazione. Storia ben più avventurosa e accattivante di quella di Zùniga, e questa volta scritta prima che approdasse, nel 1910, la traduzione del romanzo di Wells (la si può leggere nell’antologia da me curata Le aeronavi dei Savoia, Nord, Milano 2001). Infatti l’idea dell’antigravità come modo per staccarsi dal suolo e viaggiare nello spazio non lo inventò Wells come tutti pensano, ma apparve per la prima volta in un romanzo italiano opera di un professore di geografia toscano, Ulisse Grifoni, che nel 1885 pubblicò Da Firenze alle stelle, poi ampliato nel 1897 in Dalla Terra alle stelle. Libro semisconosciuto anche nel nostro Paese sino a non moltissimo tempo fa. Ovviamente la fama e la popolarità di Wells hanno prevalso. Questo per dire che certe idee e certe immagini circolavano nell’ambito della letteratura popolare (nei cui confronti giustamente Foni spezza una lancia) in tutta Europa indipendentemente dalla storia, dalla cultura, dallo sviluppo scientifico e dalla presenza o meno della Chiesa presenti in ogni nazione del Vecchio Continente.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Rifondazione politica: l’Udc ha sempre avuto ragione ORA FACCIAMO L’EUROPA POLITICA Fatto in Italia il governo Monti, ora bisogna essere (noi Paese fondatore) veri promotori dell’Europa politica. Quella economica e finanziaria, lo abbiamo ampiamente visto e lo stiamo “duramente” provando sulla nostra pelle, forse neanche c’è. E se pure ci fosse, certamente non basterebbe. L’Europa di oggi non è quella immaginata e disegnata dai padri fondatori De Gasperi, Schumann e Adenauer, tanto meno quella desiderata dal loro popolo. Un’Europa così non va, non regge e non potrà mai funzionare. Non si possono chiedere sacrifici così grandi ai cittadini dell’area-euro senza una vera prospettiva “unificante”, puntando solo a riparare i guasti di una mancata costruzione dell’Europa politica, prima ancora che economica e monetaria. Questo mi sembra il vero argomento di oggi per il futuro, questo è a mio avviso il vero, grande tema. Per questo ho promosso, ed è attivo da giorni su Facebook, il gruppo “E ora vogliamo l’Europa Politica”. In queste ore sta raccogliendo migliaia di adesioni... trasversali. Chiaramente, l’edificazione di un’Europa che sia davvero politica sarebbe possibile solo se i nostri amati leader europei avessero la forza, il coraggio e la volontà di cedere un minimo di sovranità nazionale. Fare un passo in dietro per far nascere l’Europa migliore, l’Europa dei cittadini e delle istituzioni europee, non solo democraticamente elette ma fortemente rappresentative, e soprattutto capaci di governare e decidere. Cioè: l’Europa Politica. Solo così la sua classe dirigente potrà costruire un vero spirito europeo che non sia più solo geografico, né si presterebbe al gioco di alcuni che (sventolando lo “spettro” dei mercati e della speculazione senza nome e senza patria) tentano come in questi ultimi mesi di costruire “assi” per governare l’Europa tutta. Bisogna fare presto e bene, altrimenti il fallimento dell’Europa così come la conosciamo oggi è solo rinviato. E inutili saranno questi e altri sacrifici cui tutti saremo ancora chiamati in nome di un’Europa da compiere. Io non so voi, ma vi confesso che non so bene dove stiamo andando. Ma di certo, come tanti, non voglio rimanere fermo, o peggio sul baratro, di un’Europa che a oggi è per molti ma non per tutti! Vincenzo Inverso S E G R E T A R I O NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L

L’evoluzione del quadro politico nazionale conferma la bontà delle scelte fin qui compiute dall’Udc. I fatti evidenziano che il Partito, forte di una sua autonomia funzionale ed aggregatrice, si propone sempre più come simbolo di una rifondazione della politica, che passa anche attraverso il ritorno delle preferenze nel sistema elettorale, scelta da sempre propugnata e che ora si profila come indispensabile. I valori sociali e cristiani, la difesa delle Istituzioni, la moralizzazione della politica, che sono alla base del nostro agire, vanno ancor più evidenziati, ponendoli anche quale argine ad eventuali diaspore che possano realizzarsi a seguito dell’implosione dell’attuale bipolarismo, al fine di evitare che in tanti possano offrirsi, sotto mentite spoglie, quali soggetti integrativi, mantenendo abitudini e modalità di azione che potrebbero ledere il processo di crescita morale e politica che Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa implementano con il loro lavoro quotidiano. Gestire la cosa pubblica perseguendo esclusivamente gli interessi della collettività, porre il cittadino al centro, valorizzare l’impegno dei cattolici in politica, rappresentano gli elementi fondanti di una democrazia partecipativa nella quale non prevalgano posizioni di mero potere. La necessaria azione di risanamento dei conti messi in campo dal Governo regionale non deve e non può però essere l’unica direttrice sulla quale muoversi.Vi è bisogno di coniugare risanamento e sviluppo dando priorità ad iniziative, anche legislative, tese a favorire le famiglie, le fasce più deboli, i lavoratori che rischiano quotidianamente di uscire dal mondo del lavoro e i giovani che ancora non intravedono prospettive occupazionali. Sono questi a mio avviso i temi da porre al centro del dibattito da svilupparsi in occasione del congresso provinciale di Napoli del nostro partito, propedeutico alla celebrazione di quello regionale.

Carmine Mocerino, consigliere regionale Udc della Campania

IL MIRACOLO DI MONTI E NAPOLITANO Sono d’accordo con Giancristiano Desiderio quando afferma che: «Il miracolo montiano di fare il governo non ci sarebbe stato senza il lavoro istituzionale svolto da Giorgio Napolitano. Proprio il lavoro del Quirinale dovrà essere la stella polare del governo Monti per portare l’Italia fuori dalla zona pericolosa di un debito sotto attacco e, al contempo, per rimettere l’Italia tra i Paesi europei affidabili nei conti e nelle istituzioni. Un lavoro necessario che, naturalmente, non sarà senza ostacoli ma è bene che i partiti politici - come hanno dimostrato responsabilità al momento della nascita del governo Monti - così continuino nel loro impegno istituzionale nell’ora delle decisioni e dei provvedimenti. Del resto, il programma europeo se assunto con sincerità faciliterà l’impresa e garantirà risultati gratificanti per tutti».

Giulio Mirella

COESIONE E RESPONSABILITÀ, ECCO COSA SI CHIEDE AI POLITICI Con il Governo Monti a tutti i politici italiani è data una chance per dimostrare di essere davvero all’altezza degli incarichi che i cittadini hanno loro affidato. È necessario, dunque, concretizzare nei fatti lo spirito di coesione e di responsabilità, affinché il neo premier, Mario Monti, sia messo in condizione di attuare efficacemente la sua azione di governo che, sicuramente nella prima fase, dovrà essere incisiva e tempestiva, anche per ridare credibilità internazionale al nostro Paese.

Barbara Conte

PIÙ INVESTIMENTI, MENO TAGLI L’assottigliarsi delle risorse economiche, la composizione demografica del Paese (invecchiamento e calo delle nascite), l’integrazione degli immigrati impongono sfide nuove. C’è bisogno di un cambio culturale nel rapporto e nella gestione della spesa

L’IMMAGINE

APPUNTAMENTI VENERDÌ 2 DICEMBRE - ORE 17 - CASERTA PIAZZA MARGHERITA - CIRCOLO NAZIONALE Convegno “Etica della Speranza” organizzato dal Coordinamento Provinciale Circoli Liberal Caserta. Concluderà i lavori: onorevole Ferdinando Adornato VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Volo solitario Avete mai provato la sensazione di non riuscire a rendere in una foto la bellezza di un luogo? Knut-Sverre Horn, dalla Norvegia, si è sentito così durante un viaggio in Islanda, prima di realizzare questo scatto. Una spiaggia di lava, bellissima e deserta, e un solitario gabbiano in volo: quanto serve per descrivere l’austerità e la sconfinata solitudine di alcuni paesaggi islandesi

LE VERITÀ NASCOSTE

Terrorismo? La soluzione è evitare il bagno Potrebbe essere una scena de L’aereo più pazzo del mondo, ma è successo davvero. Il pilota di un volo della Delta Airlines da Asheville, in Nord Carolina, a New York, aeroporto La Guardia, è rimasto chiuso in bagno. Questo ha innescato una commedia degli equivoci a 11.000 metri di quota che stava per mettere in moto la macchina antiterrorismo Usa. Il soccorritore del pilota è stato infatti scambiato dal copilota in cabina per un terrorista perché parlava «uno strano inglese». Quando il salvatore del pilota, che aveva dato l’allarme picchiando ripetutamente sulla porta della toilette, è andato a bussare alla cabina di pilotaggio, il numero due non ha aperto la porta blindata e ha avvisato la torre di controllo. «Il capitano è scomparso nel retro, mi dicono che è rimasto chiuso in bagno, e un uomo con un forte accento straniero chiede di entrare in cabina, ma non ho intenzione di farlo entrare», ha comunicato via radio il co-pilota. La torre di New York gli ha suggerito di dichiarare lo stato di emergenza e di atterrare ma nel frattempo, fortunatamente, il comandante è riuscito a liberarsi e a rassicurare i suoi colleghi e le forze dell’ordine già pronte ad intervenire a terra.

del welfare in Italia. Lo Stato deve guardare alla politica sociale non come a un costo ma come a un investimento. La drammatica riduzione di risorse è l’effetto dei tagli che si sono avuti negli ultimi tre anni. L’aspetto più duro di questo ultimo provvedimento è che va a colpire servizi essenziali: l’assistenza agli anziani, ai disabili, alle famiglie e ai minori. Questo per un’impostazione sbagliata delle politiche di riduzione.

Giancarmine Vicinanza

IL GOVERNO DEI CUSTODI Quella che stiamo vivendo è la crisi della democrazia rappresentativa. Il popolo ormai non elegge più i suoi rappresentanti in Parlamento, che è in mano a potentati e a gruppi di pressione italiani e stranieri. La situazione potrebbe portare in quello che già Platone chiamava “governo dei custodi”. Il politologo statunitense “liberal” Robert Dahl ha scritto nel suo La democrazia e i suoi critici che «il governo dei custodi potrebbe sostituire la democrazia, forse non nei simboli e nelle convinzioni, ma nella pratica. Avremmo il trapianto dei simboli della democrazia sul governo di fatto delle élite politiche. L’adozione del governo dei custodi segnerebbe il tramonto dell’ideale democratico». Ho l’impressione che con l’imposizione del professor Mario Monti da parte del presidente Napolitano a guidare un governo deciso dall’alto si sia su questa strada. Il professor Monti è un garante di altissimi interessi finanziari al cui interno non vige la cosiddetta “democrazia” e che, quindi, la democrazia dei cittadini non controlla. Con il nuovo “corso Monti” il Parlamento, alla fine, diventerà un inutile e costoso orpello da dover eliminare, magari in parte, soltanto per giustificare la definizione di “democrazia parlamentare”. È un frutto della globalizzazione? È ciò che vogliono gli Italiani?

Giorgio Rapanelli - Corridonia


società

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L’intervento del cardinale Angelo Bagnasco che ieri ha aperto il convegno di «Scienza e Vita» sull’educazione alla democrazia

Non uccidete l’uomo «Il primo istinto verso l’amore e la verità è la tutela della vita, dal concepimento alla morte» di Angelo Bagnasco segue dalla prima Per poter parlare di qualcosa, infatti, bisogna innanzitutto chiederci se esiste qualcosa fuori di noi. E, se esiste, possiamo conoscerla? Oppure siamo dentro ad una realtà unicamente costruita dal soggetto pensante, siamo alle prese solo con le nostre opinioni individuali, senza una presa diretta sulla realtà oggettiva? È il problema antico ma non scontato della conoscenza. Come rispondere? Dando fiducia al mondo e all’uomo! La conoscenza, infatti, parte da un atto positivo di fiducia. La storia umana della conoscenza - nonostante grovigli a volte sofferti - corre sostanzialmente su questo filo e testimonia che, ogni qualvolta lo scetticismo si è imposto, gli esiti personali e sociali non sono stati più felici. Il figlio di questo atteggiamento è lo scetticismo che genera inevitabilmente quel nulla di significato e di valore, quello svuotamento della vita e del mondo che già Nietzsche aveva annunciato. In realtà egli lo fa derivare dalla dichiarata “morte di Dio”, ma quando la ragione viene cancellata dall’orizzonte, anche la fede si indebolisce: «Cerco Dio! cerco Dio! (…) Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io!».

Se l’uomo è libero per dono di Dio, ed egli si realizza attraverso l’esercizio della propria libertà (in actu exercito), bisogna chiederci se qualunque forma di esercizio realizza la persona oppure no. A ben vedere, come qualunque agire non si qualifica da sé ma è qualificato da ciò verso cui tende - camminare per fare una passeggiata non è lo stesso che camminare per andare a fare una rapina - così la libertà, se per un verso è valore in se stesso in quanto è condizione di responsabilità, per altro verso non è la sorgente della bontà morale. La libertà è qualificata dal contenuto che scelgo liberamente, e sta ad esso come il contenitore sta al suo contenuto. Il fatto che un atto sia una mia scelta non qualifica l’agire come buono, vero, giusto. Inoltre, non bisogna dimenticare che la bontà e il male morale non sono astrazioni lontane alle quali sacrificare gli uo-

mini nei loro desideri individuali; il bene è tale perché mi fa crescere come persona mentre il male mi diminuisce nella mia umanità. E se le persone crescono nel loro essere persone, la società intera cresce dato per acquisito che tra l’individuo e la collettività vi è un rapporto reciproco. Oggi la tendenza diffusa è rendere la libertà individuale un valore assoluto, sciolto non solo da vincoli e norme ma anche indipendente dalla verità di ciò che sceglie; in tale modo però essa si rivolta contro l’uomo e perde se stessa, diventa prigioniera di se stessa come ogni personalità narcisista. Ecco perché il Signore Gesù ricorda che la verità libera la libertà e rende libero l’uomo. Oggi vi è una certa allergia per ciò che si presenta come assoluto, cioè oggettivo, universale e definitivo: sembra di sentirsi come in una gabbia insopportabile. Ma, dobbiamo chiederci, qual è la vera prigione: l’assolutismo di una libertà individualista o l’assolutezza della verità? La Chiesa, inviata dal suo Signore come sale della terra e luce del

mondo, svolge la sua missione evangelizzatrice in molti modi, con la Parola, i Sacramenti e il servizio della carità. Fa parte del suo servire il mondo l’essere con umiltà e amore coscienza critica e sistematica della storia: non è arroganza, ingerenza o intransigenza, ma fedeltà a Dio e agli uomini. È portare il suo contributo alla costruzione della civitas terrena.

È dunque giusto riconoscere la rilevanza pubblica delle fedi religiose: però se il semplice riconoscimento è già un valore auspicabile e dovuto, dall’altro è fortemente insufficiente in ordine alla costruzione del bene comune e allo stesso concetto di vera laicità. Potremmo dire che è come una cornice di apprezzabile valore ma che deve essere riempita di contenuti. Fuori dall’immagine, la laicità positiva non può ridursi a rispetto e a procedure corrette, ma deve misurarsi con l’uomo, per ciò che è in se stesso universalmente, cioè con la sua natura. È questa - la sua conoscenza integrale e il suo rispetto plenario - che invera le diverse

culture e ne misura la bontà o, se si vuole il livello intrinseco di umanesimo. A questo livello primario si colloca il doveroso apporto dei cristiani come cittadini, consapevoli che le principali virtù di chiunque si dedichi al servizio della città è la competenza e il merito: questo è l’insieme di onestà, spirito di sacrificio e stile sobrio. Essi offrono il loro contributo senza per questo do-

ver mettere tra parentesi la propria coscienza formata dalla Dottrina Sociale della Chiesa, dal Magistero autentico e da una solida vita spirituale nella comunità ecclesiale, ricordando che la coscienza è l’eco della voce di Dio - come affermava il beato Newman - ed deve essere sempre attenta perché le opinioni, le ideologie, gli interessi o le abitudini, non oscurino quella supre-

Casini, Alfano e Bersani alla tavola rotonda si sono confrontati sui ”valori non negoziabili”

«Non mettiamo tra parentesi la bioetica» di Riccardo Paradisi l Convegno nazionale di Scienza e Vita dal titolo “Scienza e Cura della Vita: educazione alla democrazia” è stato l’occasione per i leader dei maggiori partiti italiani Angelino Alfano (Pdl), Pier Ferdinando Casini (Udc) e Pier Luigi Bersani (Pd) di fare il punto sul tema bioetico.

I

lori e prassi, ovvero tra ciò che si dice e ciò che si fa. «È quello che abbiamo fatto con l’agenda bioetica durante il nostro governo: noi abbiamo prodotto quell’agenda perché questo è il nostro credo e da questo discende la nostra azione politica». Alfano ha anche spiegato che «Ora c’è un

credenti. Dove è in corso una ricerca per trovare una base comune di umanesimo forte che aiuti a creare un prepolitico che in politica aiuti l’uomo ad essere più umano. Ma oltre a produrre pensiero si devono cercare le strade che portano al bene comune e Ratzinger lo fa. Le basi dei contenuti etici positivi del diritto naturale come è stato concepito dalle grandi costituzioni dei paesi liberali. Non c’è dubbio su questo. Si parte da li per dire che c’è una sostanza etica prepolitica, che deve esserci un universo condiviso di valori. Qualsiasi aggregato sociale non può esistere sull’assolutamente relativo, altrimenti non funziona». Il diritto non è solo una forma ma è una sostanza di dignità non è solo una convenzione. «Eppure – sottolinea Bersani con il relativo occorre confrontarsi. Il relativismo non è solo nichilismo. Per que-

La domanda sul fine vita - dice il leader dell’Udc - potrebbe avere una risposta chiara dalle maggioranze che si costituiranno e che decideranno sull’approvazione di questa legge

Una questione che il governo Monti, per la sua qualità tecnica, metterà da parte ma che resta sottotraccia come tema dirimente e incandescente del dibattito politico. Un tema che il presidente della Cei Bagnasco – nella sua relazione introduttiva - ha definito ineliminabile dall’agorà, perché ha a che fare con il diritto alla vita. Senza il quale nessun altro diritto può esistere. Il segretario del Pdl Angelino Alfano ha rivendicato al centrodestra e al governo Berlusconi è necessario delineare una linea di coerenza tra va-

altro governo che, giustamente, non ha assunto impegni programmatici su questi argomenti. Resta il dato che la vita, qualcuno la dà e qualcuno la toglie. E quel qualcuno non è il Parlamento». Diverso il discorso di Bersani ovviamente, anche se aperto a un confronto serrato. «Il Pd è un partito di credenti e non


società sotto il profilo morale; da umanesimi differenti discendono conseguenze opposte per la convivenza civile. Se si concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si tende, come si potrà costruire una società aperta e solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? E se lo si concepisce in modo materialistico, chiuso alla trascendenza e centrato su se stesso, un “sasso” che rotola nello spazio, come riconoscerlo non come “qualcosa” tra altre cose, ma come “qualcuno” che è qualitativamente diverso dal resto della natura? L’uomo si autotrascende nel senso che è

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prio diritto, e che spesso nemmeno possono opporre il proprio volto? Vittime invisibili ma reali!

E chi più indifeso di chi non ha voce perché non l’ha ancora o, forse, non l’ha più? La presa in carica dei più poveri e indifesi esprime il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento. E modella, educa, la forma di pensare e di agire - il costume - di un popolo e di una Nazione, il suo modo di rapportarsi al suo interno, di sostenere le diverse situazioni della vita adulta sia con codici strutturali adeguati, sia nel se-

La cultura contemporanea deve riconciliarsi con il dolore e la morte se vuole riconciliarsi con la vita, poiché i primi fanno parte della seconda. Bisogna far morire la morte

ma voce che indica la via della verità e del bene. Il ministero di Pietro, che è servizio di verità e di carità, è posto da Gesù perché la coscienza non si smarrisca tra gli innumerevoli rumori del mondo. Se, come ha affermato il Santo Padre Benedetto XVI, «la

questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 75), allora i cattolici non possono tacere circa la concezione dell’uomo che fonda l’umanesimo integrale. Non tutti gli umanesimi, infatti, sono equivalenti

sempre più di se stesso, tende ad andare oltre di sé per essere sé, già e non ancora, finito e desiderio di infinità, tempo ma con la scintilla di eterno: è la creatura di confine fra cielo e terra, umano ma chiamato all’intimità con Dio. Individuo ma non individualista, unico ma non chiuso, soggetto aperto al mondo e agli altri in virtù dell’istinto di comunione nella verità e nell’amore. Tra questi, la vita umana, dal suo concepimento alla sua fine naturale, è certamente il primo. La coscienza universale ha acquisito una elevata sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana. Ma ci dobbiamo chiedere: chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il pro-

gno dell’attenzione e della gratuità personale. A volte si evidenzia che un conto è la presa in carica, il prendersi cura della vita fragile di chi questo vuole e comunque ne ha diritto, e un altro sarebbe la volontà diversa di chi determina un diverso comportamento. Torniamo ad un punto cruciale: se la libertà individuale abbia o non abbia qualcosa di più alto a cui riferirsi e a cui obbedire. Abbiamo visto che l’autodeterminazione non crea il bene e il male, ma ciò che è scelto. Ora la libertà è tenuta a fare i conti con la natura umana, con il suo bene oggettivo poiché per questo Dio ce l’ha donata, perché costruissimo noi stessi e non per andare contro noi stessi. Ma anche fuori da

In alto, un’immagine di Angelo Bagnasco. Qui sopra, da sinistra: Pier Ferdinando Casini, Pierluigi Bersani, Angelino Alfano sto il compromesso in politica e la dialettica è un bene infinito».

Casini tenta una sintesi e avverte che la questione bioetica non può essere messa tra parentesi: «Questo governo che nasce oggi non ha e non poteva avere le cosiddette questioni etiche tra le sue priorità. Anche se la domanda sul fine vita potrebbe già avere una risposta chiara: le maggioranze che si costituiranno decideranno sull’approvazione di questa legge. Guai infatti all’ipotesi che un governo di legislatura blocchi questo percorso, che deve procedere. Noi abbiamo interesse a consolidare un

consenso per evitare che questi temi vengano rimossi». D’altra parte «Quando certe questioni vengono strumentalizzate non si crea consenso intorno ad esse; guardiamoci da chi usa questi argomenti per creare divisioni. Questo sul metodo, perché sul merito non c’è bisogno che io dica come la pensi il mio partito su questi temi».

Un convegno che ha indispettito i Radicali Italiani e Associazione Luca Coscioni che hanno inscenato contro l’iniziativa un sit-in. «I manifestanti -spiega una nota dei Radicali- hanno organizzato una rappresentazione in cui un uomo vestito da car-

dinale con il volto di Bagnasco stringeva le mani di Alfano, Casini e Bersani, con sotto la scritta “larghe intese”» Nessuna lezione di democrazia e bioetica può venire dalla Cei e da Scienza e Vita dicono i radicali «ovvero dai due protagonisti del sabotaggio al referendum sulla legge 40 ai politici che sono dentro voglio dire che non servono larghe intese in salsa vaticana bensì i diritti civili che milioni di italiani aspettano da troppi anni». Ai radicali non sembra importare degli altri milioni di italiani che ritengono dirimenti i temi bioetica. Gli stessi che hanno bocciato i loro referendum.

un’ottica religiosa, penso si possa giungere alla medesima conclusione. A questo punto credo che le questioni siano due. Innanzitutto, come anche recita la nostra Costituzione, il bene della salute e quindi della vita, ma dovremmo dire ogni uomo, è un bene non solo per sé ma anche per gli altri; e questi altri non sono solamente i familiari e gli amici ma sono la società nel suo insieme. Qui sta una nota dolente a cui bisogna sempre più reagire: se l’uomo sta scivolando dalla realtà di persona a quella di individuo assoluto e geloso della propria assoluta indipendenza e autonomia, allora la società si concepirà come una massa di monadi dove ciascuno si arrangia a portare la vita, nutrendo dei diritti verso il corpo sociale come la casa, il lavoro, la sicurezza... ma lasciando gli altri fuori per tutto il resto.

Il punto non è far entrare la società nel privato, ma si tratta di ricuperare la natura relazionale della persona sicché la società possa e debba concepirsi e strutturarsi non solo come erogatrice di servizi, ma come comunione di destino. Cambia totalmente la prospettiva. Nessuno deve sentirsi solo e abbandonato nella società-comunione, né nei momenti di gioia né negli appuntamenti del dolore, della malattia e della morte. E se dietro al rispetto di ogni volontà ci fosse il desiderio di non prendersi in carica, poiché il prendersi cura richiede intelligenza e cuore, tempo e sacrificio, risorse umane e economiche? Una cultura siffatta sarebbe più rispettosa o più egoista, umana o violenta? E poi, mi sembra esiste un secondo nodo: dobbiamo recuperare il senso del dolore che è sistematicamente emarginato, nascosto nella sua naturalità, oppure è esorcizzato somministrandone dosi massicce e continuative nel tentativo di anestetizzare la sensibilità della gente e renderla quindi impermeabile. Due modalità diverse ma lo scopo è identico: far morire la morte. La cultura contemporanea deve riconciliarsi con il dolore e la morte se vuole riconciliarsi con la vita, poiché i primi fanno parte della seconda. E quindi dobbiamo recuperare la capacità di portarlo insieme. La persona sofferente ha paura di essere sola, abbandonata: tutti abbiamo sperimentato quanto una persona malata cerchi il contatto fisico della mano dell’altro, e questo piccolo, umanissimo gesto ha il potere di tranquillizzare e rasserenare. È la presenza, la compagnia d’amore che dobbiamo riscoprire non solo come singoli e famiglie, ma come società. Ma per questo dobbiamo rimettere al centro la relazione, sull’esempio di Dio che in Cristo ci ha incontrato nel nostro dolore, nelle molte fragilità della vita e nelle stesse gioie, facendo sentire che nessuno è solo, e che assolutamente nessuno sarà da Lui abbandonato.


il personaggio della settimana Si chiude la stagione-Zapatero: il Paese “punisce” i socialisti dando fiducia al Partido Popular

Il giorno (di) Mariano Domani la Spagna va al voto. Gli ultimi sondaggi danno a Rajoy un vantaggio di 14-18 punti su Rubalcaba e la maggioranza assoluta dei seggi di Enrico Singer li avversari più temibili di Mariano Rajoy non sono i socialisti di Alfredo Pérez Rubalcaba, erede sfortunato di quel poco che resta dell’era Zapatero ormai al tramonto. Il loro nome è Bonos. Sono l’equivalente spagnolo dei nostri Bot e, nel confronto con i Bund tedeschi, hanno ormai sfondato quota 500. Grazie all’intervento della Bce, ieri, hanno un po’ recuperato. Ma lo scenario non cambia. Lo spread sugli interessi che la Spagna paga per finanziare il suo debito pubblico è del 5 per cento superiore a quello della Germania. Con tutto quello che ne consegue. Una crisi economica da profondo rosso, cinque milioni di disoccupati con il poco invidiabile record del 40 per cento dei giovani senza lavoro, l’edilizia e il turismo - principali fonti di ricchezza del Paese - che non ripartono e un milione e 400mila famiglie senza reddito. Numeri che hanno precipitato la Spagna in fondo alle classifiche europee: peggio ci sono soltanto Romania, Estonia e Lituania. Da domani sera, quando le elezioni anticipate assegneranno, con ogni probabilità, la maggioranza assoluta al Partido Popular con il 45 per cento dei voti e 190 deputati su 350, i dati del dissesto non muteranno. Anzi, saranno il nemico da battere per il nuovo governo che ha già preparato una strategia in cento punti per invertire la rotta. Mai come questa volta il risultato di una consultazione elettorale in Spagna appare così scontato. Che il Psoe (Partito socialista operaio spagnolo) avesse perso il consenso popolare - i sondaggi gli attribuiscono al massimo il 30 per cento dei suffragi - era chiaro già quando José Luis Rodríguez Zapatero annunciò le dimissioni. Era il 31 luglio. Da allora la situazione economica è peggiorata e la svolta politica, il “cambio” come dicono gli spagnoli, è l’unica speranza rimasta e adesso sta per realizzarsi.

G

Zapatero si ritirerà a vita privata. L’ultimo atto che gli resta da fare è quello di sfilare da sotto il vetro della sua scrivania alla Moncloa il testamento del nonno, Juan Rodríguez Lozano, un ufficiale dell’armata repubblicana che fu fucilato dai franchisti nell’agosto del 1936 durante la guerra civile. È un foglio ingiallito che per Zapatero ha sempre avuto il valore di un riferimento ideologico, come lui stesso ha raccontato, perché contiene in una frase i tre punti sui quali ha cercato di incardinare la sua azione: «un desiderio infinito di pace, l’amore per il bene e il miglioramento sociale degli umili». La storia dirà se lo zapaterismo è stato all’altezza delle intenzioni. Di sicuro il socialista sognatore che amici e avversari chiamavano “el Bambi”, per via dei grandi occhi azzurri spalancati come

quelli del cerbiatto dinseyano, si è dimenticato dell’economia. È stato lento, come lo considerano anche i suoi compagni di partito. Lento soprattutto di fronte alla crisi finanziaria mondiale. L’economia non è il suo forte, e questo si era capito da subito. I critici adesso gli rimproverano di essere stato troppo attento ai diritti civili e di essersi disinteressato degli altri aspetti che determinano il benessere di un Paese: i soldi e il lavoro. Esattamente quello che il leader popolare, Mariano Rajoy, ha messo in cima ai suoi impegni. Il programma elettorale del Pp propone cento risposte per combattere la crisi, creare posti di lavoro e restituire alla Spagna un ruolo centrale in Europa. È un manifesto che contiene un elenco lungo di obiettivi: riforma del mercato del lavoro, competitività, conti pubblici in ordine, più credito per finanziare il rilancio, riforma fiscale per la crescita e l’uguaglianza, innovazione, infrastrutture, educazione di qualità per tutti, formazione professionale di eccellenza, nuove tecnologie, maggiore attenzione alla famiglia, trasparenza nell’amministrazione pubblica, valutazione del merito, giustizia veloce, più sicurezza e lotta rinforzata al terrorismo. Un programma ambizioso che dovrà essere realizzato secondo precise priorità per evitare che resti un libro dei buoni propositi. E questo sarà il compito del nuovo ministro dell’Economia. Un super-ministro, secondo alcune indiscrezioni che ipotizzano, addirittura, l’unificazione di alcuni dicasteri nelle mani di un vicepremier - il primo ministro sarà di sicuro Rajoy - che potrebbe anche coordinare l’economia e la politica europea. Il nome più sussurrato è quello di José Manuel González Páramo, professore e membro del board della Banca centrale europea. L’altro papabile è Luis de Guindos, anche lui economista di prestigio internazionale. Nel governo, poi, maga-

Il suo programma prevede riforma del mercato del lavoro, competitività, conti pubblici in ordine, più credito per finanziare il rilancio

ri agli Esteri, potrebbe entrare Rodrigo Rato, già ministro delle Finanze di Aznar passato al Fmi (è stato il predecessore di Strauss-Kahn) e adesso presidente del quarto gruppo bancario spagnolo. Infine Cristóbal Montoro, anche lui ex ministro economico di Aznar e attualmente responsabile economico del Partito popolare, potrebbe entrare nella futura squadra di Rajoy come ministro dello Sviluppo industriale o del Lavoro. Il parallelo con il governo tecnico di Monti viene spontaneo. In realtà, le personalità che riempiono le tabelle del totoministri sui principali giornali spagnoli hanno tutte una precisa storia e un’appartenenza politica alle spalle.

La vera similitudine tra l’esperienza che si annuncia a Madrid e quella che è già cominciata a Roma è un’altra: entrambi i governi puntano a un recupero di credibilità, oltre che a un riequilibrio dei conti. «La Spagna deve tornare ad essere leader della nuova Europa come lo fu negli anni ’90», ha dichiarato Cristóbal Montoro in un’intervista pubblicata ieri dal quotidiano ABC in cui ha indicato le grandi riforme più urganti: fisco, lavoro, amministrazione pubblica. Montoro ha anche tracciato una specie di scaletta del cambiamento: il 13 dicembre prima riunione del nuovo Parlamento che sarà eletto domani, il 20 dicembre formazione del governo, il 23 dicembre primo consiglio dei ministri e misure economiche. Prima di Natale, insomma, la Spagna di Mariano Rajoy vuole archiviare lo zapaterismo che gli elettori dovrebbero mandare in soffitta, per ironia della sorte, in una data particolare, il 20 novembre: lo stesso giorno in cui, nel 1975, morì il dittatore Francisco Franco. Più che le suggestioni del passato, però, quelle che contano sono le prospettive del futuro. Per gli spagnoli, ma non solo. Come nel caso dell’Italia, anche gli sviluppi della situazione in Spagna sono seguiti con particolare attenzione nel resto dell’Europa. A Bruxelles, capitale istituzionale della Ue, naturalmente. Ma soprattutto a Berlino e a Parigi dove prevalgono due sentimenti paradossalmente contrastanti. Da una parte c’è la soddisfazione e l’attesa di misure concrete per superare una crisi che – com’è stato ampiamente dimostrato – non è soltanto nazionale, ma mette in pericolo nel suo insieme Eurolandia con fenomeni di contagio sempre più accelerati. Dall’altra c’è la sensazione – per alcuni, il timore – che il dominio dell’asse franco-tedesco, finora favorito dalla debolezza degli altri Paesi, possa essere messo in discussione da un’Italia e una Spagna tornate autorevoli. La teleconferenza a tre Merkel-Sarkozy-Monti dell’altro giorno è stata il primo segnale di un diverso rapporto nella Ue. Quando ci sarà


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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

anche Mariano Rajoy a rivendicare il posto a tavola di Madrid, gli equilibri potrebbero cambiare. E un banco di prova è imminente. Tra meno di un mese la Commissione europea presenterà il suo “libro verde” sulla possibile introduzione degli eurobond per finanziare il debito pubblico dei Paesi della zona euro. Angela Merkel continua a interpretare la sua parte di Frau nein, la signora no che si oppone a quella che ha definito la “collettivizzazione” dei debiti dei Paesi-cicala che finirebbero per pesare sui conti dei Paesi virtuosi, in primo luogo sulle casse pubbliche della sua Ger-

detto in più occasioni che la Germania non è disposta a pagare per gli altri. Tuttavia, da quando anche la Francia è finita al centro della speculazione, le pressioni su Angela Merkel per arrivare a un compromesso sono diventate molto forti. E a Bruxelles si comincia a parlare di un possibile “piano B”: di un parziale accoglimento, da parte di Berlino, almeno del principio di una emissione di eurobond che sarebbero, però, limitati a garantire il debito di alcuni Paesi dell’euro, i più affidabili. C’è chi parla della possibilità di emettere dei bond comuni franco-tede-

considerando l’ipotesi di un «bond comune ai sei Paesi più forti della zona euro».

Tutti negano che una simile iniziativa segnerebbe la nascita di un doppio girone tra i diciassette Paesi dell’euro con i sei della tripla A garantiti dai bond comuni e gli altri lasciati a combattersi a colpi di spread. I sostenitori di questo piano - non si sa quanto condiviso dalla Merkel e da Sarkozy - lo definiscono un «inizio solido» dell’esperienza degli eurobond che sarebbe, comunque, «aperta» e dovrebbe coinvolgere via via tutti gli altri non appena raggiunti i parametri

In altre parole, a metà strada tra il minimo dell’1,7 per cento che pagano i Bund decennali tedeschi e il 6, 7 per cento dei Bonos spagnoli e dei Btp italiani per non parlare del 20 per cento dei titoli greci sui quali, però, pesa la possibilità di un taglio del 50 per cento. La Merkel ha

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Attenzione anche a innovazione, infrastrutture, formazione professionale, nuove tecnologie e giustizia veloce mania che sarebbe costretta a pagare anche una quota degli interessi di chi non segue una rigorosa politica di bilancio. Gli eurobond segnerebbero un armistizio nella guerra degli spread perché l’interesse di un titolo comune per finanziare il debito dei Paesi di Eurolandia risulterebbe, inevitabilmente, una media degli interessi attuali che potrebbe aggirarsi attorno al 4 per cento.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

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schi e di un loro possibile allargamento agli altri Paesi che godono ancora della tripla A a garanzia del loro debito: in pratica, oltre a Germania e Francia, l’Olanda, il Lussemburgo, la Finlandia e l’Austria. Si tratta soltanto di una voce che circola nei corridoi dei palazzi del potere europei e che rimbalza dai riservati – ma confermati – contatti tra gli esperti che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno incaricato di trattare l’estrema linea difensiva per salvare l’euro. Lo stesso Sarkozy, del resto, ha accennato nei giorni scorsi alla definizione di uno «standard coordinato» verso il quale il resto di Eurolandia dovrebbe convergere. E il Financial Times ha scritto che il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, starebbe

di sicurezza stabiliti. Ma anche con queste rassicurazioni, il piano B immaginato da Parigi e Berlino lascia fuori sia l’Italia che la Spagna e non tiene conto delle novità che si sono affermate, o che stanno per affermarsi, in questi due Paesi. Quando il futuro ministro Cristóbal Montoro avverte che la Spagna vuole tornare ad essere leader in Europa come lo era negli Anni Novanta, lancia un messaggio preciso e molto chiaro. Che s’intreccia a quello già partito da Mario Monti che, in questi pochi giorni, ha più volte ricordato il ruolo da protagonista che ha personalmente svolto nelle istituzioni europee e quello che l’Italia deve al più presto recuperare. Dopo le elezioni spagnole di domani, nei prossimi vertice europei si potrebbe determinare un nuovo clima.

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parola chiave ROVINE

Emblemi della Storia, sono un grande deposito del tempo, un archivio del suo inesorabile accumulo. Ma non è sempre il passato a produrle, perché sotto i nostri occhi se ne generano sempre di nuove

Il futuro? È appena stato di Maurizio Ciampa n una città come Roma, ma probabilmente accade in tutte le città in cui gli strati della memoria storica s’intrecciano al flusso del tempo presente, le rovine rappresentano una consuetudine visiva, formano le linee di un paesaggio consolidato. Basta pensare all’area dei Fori Imperiali o a quella dell’Appia antica. Roma è le sue rovine, una sorta di grande deposito del tempo, un registro o un archivio del suo inesorabile accumulo.

I

E a Roma, più che in altri luoghi del nostro pianeta, la storia si fa natura. Altrove le rovine lasciate dal passaggio del tempo occupano uno spazio circoscritto, magari molto esteso, e tuttavia delimitato: la collina del Partenone ad Atene ad esempio, oppure i magnifici templi di Paestum o quelli di Agrigento. A Roma le rovine sono una naturale filiazione del suo spazio; innervate nella città, ne fanno parte. Ma con uno strano effetto: sembrano non appartenere al passato, ma al suo presente,

di cui alimentano l’enigma. Sovrastano abitanti e visitatori con una forza incombente che pare schiacciarli. Pensiamo alle Vedute di Roma di Giovanni Battista Piranesi (è ancora in corso - alla Casa di Goethe, fino al prossimo 15 gennaio - una mostra con 35 sue acqueforti). Pur erose dall’azione del tempo le forme del Piranesi, le sue parlanti ruine, restano grandiose, non rinunciano a una loro granitica e monumentale immobilità. Mentre tutt’attorno minuscole figure umane appena tracciate si agitano all’ombra dei monumenti, come se volessero penetrare al loro interno violandone il segreto, come se gli uomini, rovine fra le rovine, fossero ridotti a una loro insignificante appendice. Quell’umanità, che sciama attorno ai grandiosi emblemi della Storia, testimonia l’inquieto ribollire del tempo, il disordine in cui versa il Mondo, il sotterraneo tumulto che costantemente scuote la scena della Storia. Uomini e rovine galleggiano in una fonda oscu-

rità che la luce dell’Illuminismo non ha ancora rischiarato. La Roma del Piranesi assomiglia a un mondo infero, una caverna, un antro stipato dai vessilli sbrecciati della Storia.

Piranesi muore nel 1778, non ancora sessantenne. Se fosse arrivato a festeggiare i suoi settant’anni avrebbe visto la Rivoluzione francese, e, qualche anno prima, avrebbe potuto leggere la Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo stesa, nel 1784, dal filosofo Immanuel Kant. Nelle limpide righe di questo testo, che compendia efficacemente lo Spirito dell’epoca, Piranesi avrebbe potuto constatare che l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità. Nelle vedute di Piranesi, nelle antichità, tantomeno nelle sedici tavole delle Carceri, questo non è per nulla chiaro. Piranesi è ancora sospeso a metà strada, ai bordi dell’esperienza illuministica. Le creature che affollano le sue opere, sperdute nel teatro scomposto delle


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per saperne di più

hanno detto

Marc Augè Rovine e Macerie Bollati 2004

Orazio Anche se il mondo cadesse a pezzi, le sue rovine mi colpirebbero impavido.

Elena Pirazzoli A partire da ciò che resta. Diabasis 2010

Georg Simmel La rovina di una costruzione mostra che nella scomparsa e nella distruzione dell’opera d’arte sono cresciute altre forze e altre forme, quelle della natura, e così, da ciò che in lei vive ancora dell’arte e da ciò che in lei vive già della natura è scaturito un nuovo intero, una unità caratteristica.

Antonella Tarpino Geografie della memoria. Case rovine oggetti quotidiani Einaudi 2008 Aleida Assmann Forme e mutamenti della memoria culturale Il Mulino 2002

Lucano Perirono anche le rovine.

Marco Belpoliti Crolli Einaudi 2005

Jacques Delille E quei due grandi ruderi si consolavano l’un l’altro.

Oliver Broggini Le rovine del Novecento Diabasis 2009

John Dyer Il Tempo che tutto divora qui siede sul suo trono di canute rovine.

W.G. Sebald Storia naturale della distruzione Adelphi 2007

Chateaubriand Tous les hommes ont un secret attrait pour les ruines. Ce sentiment tient à la fragilité de notre nature, à une conformité secrète entre ces monuments détruits et la rapidité de notre existence.

A cura di Danilo Eccher Boltanski Charta 1997

rovine, affondano ancora nello stato di minorità. Non saranno mai cittadini, resteranno sudditi, vittime della Storia, emarginati, rimasti intrappolati in un passato che neppure gli appartiene. Corpi estranei, così appaiono. Presenze quasi animalesche o mostruose. Infoltiranno le masse che, sul finire del Settecento, scuotono le acque di un tempo immobile, eterno come quello delle rovine. Ma senza uscire dall’oscurità.

Sul finire del secolo dei Lumi sembrava che l’abisso delle tenebre fosse ormai prosciugato. Non era stato celebrato il trionfo della Luce sulla Notte dell’uomo? Lo splendore del sole scaccia la notte tenebrosa, sono le parole che risuonano nel Flauto magico di Mozart, rappresentato per la prima volta nell’autunno del 1791. Ebbene, nel nuovo secolo, l’Ottocento, la notte perdura insidiosa. Lo si vede ad esempio in Goya: I fucilati del 3 maggio 1808 a Madrid, cui fanno seguito le incisioni dei Disastri della guerra, apre il periodo che si concluderà con le pitture nere della Casa del Sordo, quasi sulla soglia della morte del pittore nell’aprile del 1828. Qui il colore si dissolve, il segno si smaglia, la figura si frantuma, le geometrie della In apertura, le rovine di Ground Zero. A sinistra, Wall-E, il personaggio Disney che ripulisce la Terra dalle macerie. In alto, il Muro di Berlino. A destra, I Fori Imperiali di Roma

Hiroshima, Ground Zero, i resti del DC9 di Ustica di Boltanski ci raccontano degli spazi deflagrati dell’assenza, ci incoraggiano a estrarre un filo di memoria, a ributtare indietro il nulla mente deflagrano nel tumulto visivo del delirio. «Pare già di sentire - scrive Jean Starobinski in I sogni e gli incubi della ragione - il grido che risuonerà in un brano patetico dell’Aurélia di Gerard de Nerval: “L’universo è nella notte”». «Il giorno declina; la notte cresce», dirà, a conferma, Charles Baudelaire appena passata la metà del secolo. In questa notte si stagliano le rovine. Il loro spazio, ramificato e

tentacolare, non si esaurisce certo con le Antichità romane di Giovanni Battista Piranesi. Le scosse del Tempo continuano ininterrottamente a produrle.

Il Muro di Berlino e la voragine di Ground Zero sono le sue ultime drammatiche novità. Rovine assai diverse: a New York non c’è, come a Berlino, il resto di un muro, c’è un vuoto, che presto sarà riempito. Ma ora è un vuoto al centro della città, nel

suo cuore, un pezzo mancante nel corpo della sua memoria. Non ci sono rovine delle Torri Gemelle, c’è lo spazio deflagrato dell’assenza in cui sono precipitate qualche migliaio di vite umane, inghiottite dal nulla. Forse l’ultima immagine delle rovine, all’altezza dei tempi, l’immagine più aggiornata se così si può dire, è proprio questa: il nulla. Ground Zero è una linea di frontiera, dove finisce il pieno del mondo e comincia il vuoto dell’assenza, un avamposto nel deserto dei tartari. «Un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità», dice De Lillo in L’uomo che cade (pubblicato da Einaudi), capace di narrare quello che, per sua natura, non è narrabile. «Il futuro era questo, il futuro c’è appena stato»: a parlare così è uno dei personaggi del libro di De Lillo dedicato all’11 settembre. Che cosa se ne può dedurre? Che Ground Zero è una rovina del nostro futuro, non del passato. Non è la sola: forse anche l’esiguo resto di Hiroshima, la cupola svuotata con attorno qualche fantasma di muro, anche Hiroshima è rovina che viene dal futuro. Anche qui si apre la porta del nulla. Che è bene, credo, non smettere di fissare. È il solo modo per circoscriverne la presenza e non farla dilagare. Penso a Christian Boltanski, uno dei grandi esponenti dell’arte contemporanea, penso al suo ostinato lavoro, intriso d’angoscia, per estrarre un filo di Memoria dall’assenza. Anche Boltanski, come Piranesi, fa parlare le rovine. Sono le sue ro-

vine costruite; la sua opera fitta è una fabbrica di memoria. Il suo culmine è il Museo per la memoria di Ustica a Bologna: «9 grandi casse nere sono state disposte dall’artista intorno ai resti riassemblati del DC9, in ognuna di esse sono stati raccolti decine di oggetti personali appartenuti alle vittime: scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo».

Boltanski - dicevo - costruisce rovine, raccoglie resti di vita sparpagliata e ne fa reliquie, riscatta vita morta, la sacralizza. Prendiamo La casa mancante, una spaccatura nel fitto tessuto urbano della Grosse Hamburger Strasse a Berlino, prodotta da un bombardamento del ’45. Che cosa ha fatto Boltanski? Ha recuperato i nomi ormai dimenticati delle persone che lì abitavano, al numero civico 15 b, mettendo delle semplici targhette sui muri restanti. Ora sappiamo chi viveva lì, sappiamo che lì c’erano uomini, donne, bambini, risuonavano voci e rumori, scorrevano sentimenti, paura probabilmente, di sicuro il 3 febbraio ’45, il giorno del bombardamento che ha cancellato la casa. «Si può prendere - ha detto Boltanski - qualsiasi casa, a Parigi, New York o Berlino, e a partire da questa ricostruire tutta una situazione storica». Qualsiasi casa dunque, qualsiasi luogo, è rovina. Ma perché diventi Memoria occorre un gesto dell’uomo, un gesto fondamentale, ma forse anche semplice: ributtare indietro il nulla.


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