2011_11_23

Page 1

11223

he di cronac

Come si sa, funzione propria del genio è fornire idee ai cretini venti anni dopo Louis Aragon

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 23 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il presidente del Consiglio: «L’Unione al centro della nostra azione». E Bertone attacca i mercati “autoreferenziali”

L’Italia ritorna in Europa Sarkozy: «Con Merkel e Monti prepareremo i prossimi vertici Ue» Barroso: «Sfida immensa per Roma ma abbiamo fiducia». Il premier: «Ora saremo più incisivi» Domani il vertice a Strasburgo con Francia e Germania che segna il nostro rientro tra i Grandi PARTITI E SONDAGGI

Non sottovalutate la popolarità del Professore

Caso Enav e attacchi a Casini

Il Giornale, ovvero quella voglia di colpire l’uomo della svolta

di Errico Novi ent’anni o quasi di politica fatta sui sondaggi non sono serviti. Ancora non bastano a decifrare davvero gli italiani, il rapporto tra società e potere, tra opinione pubblica ed eletti. Il caso Monti ne è la prova più lampante. segue a pagina 2

V

di Osvaldo Baldacci iena fiducia nella giustizia e nella magistratura. Lo ha ribadito con forza e chiarezza ieri Pier Ferdinando Casini in relazione alla vicenda Enav, in cui è stato tirato in ballo più da un titolo de Il Giornale che dall’inchiesta. «Una vicenda lunare» ha definito Casini tutta la questione, e subito ha dato mandato agli avvocati di sporgere querela nei confronti di Tommaso Di Lernia. Ovvero uno che, si fa sfuggire il leader dell’Udc, «non mi sembra sia Santa Maria Goretti».

P Napolitano: «Immigrati cittadini» Il Colle chiede l’intervento “rapido e efficace” del Parlamento

LA ROTTURA CON I REPUBBLICANI

Lo strappo di Obama: ora è reale il rischio “double deep”

La Lega: «Faremo le barricate» Il presidente della Repubblica: «Assurdo non dare, a chi nasce qui, i diritti di tutti gli altri». E Calderoli reagisce duramente come se fosse Le Pen (senior)

di Gianfranco Polillo olo qualche mese fa, chi parlava di “double deep” – una seconda crisi, dopo la breve ripresa seguita alla caduta del 2009 – era considerato un menagramo. Un corvo da tenere a distanza. a pagina 4

S

segue a pagina 7

Marco Palombi • pagina 6

La giunta militare non molla il potere e propone un referendum per la successione

Sul Cairo l’incognita del voto Il governo si dimette e i generali annunciano: «Via nel 2012» di Luisa Arezzo l segnale che il vento stava per cambiare si è avuto ieri pomeriggio quando alcuni generali sono scesi in piazza Tahrir per unirsi alla folla oceanica che a gran voce urlava «andatevene» alla giunta militare guidata dal generale Tantawi. Accolti come degli eroi, circondati, baciati, toccati come fossero dei fantasmi. Erano mesi che i manifestanti li aspettavano. In decine di migliaia hanno riempito la piazza simbolo dell’intera Primavera araba, quella che gli egiziani temono gli venga rubata. a pagina 10

I

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

227 •

Erdogan e l’ultimatum ad Assad

La “nostra” guerra è finita male

La Turchia abbatte i ponti siriani

Stiamo perdendo il treno per Tripoli

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Mario Arpino

opo il re, il pascià. Recep Tayyp Erdogan è il primo leader dell’area a chiedere al dittatore siriano Basar al Assad – dopo il sovrano moderato di Giordania,Abdullah – di lasciare il potere. a pagina 12

veri motivi per cui l’Occidente, la Nato ed alcuni volonterosi sono rimasti coinvolti nella campagna aerea sopra la Libia sono ancora oggetto di approfondimento. Ufficialmente, tutto è iniziato da Bengasi. a pagina 15

D

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

I

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il commento

prima pagina

pagina 2 • 23 novembre 2011

Il premier e l’apprezzamento dell’Italia

Quanto pesa la popolarità del Professore di Errico Novi segue dalla prima Finora la lettura delle pubbliche aspirazioni ha privilegiato un’idea di faziosità estrema, di impulso irresistibile alla divisione in schieramenti, ravvivato dal gusto del tifo come adesione incondizionata. È come se da metà degli anni Novanta a oggi si fosse guardato a una prova pure importante qual è l’indagine demoscopica con un’ottica del tutto sfalsata. Quella vista finora come appartenenza irriducibile è piuttosto richiesta di soluzioni. Che poi è quanto si aspetta di solito, nell’Occidente progredito, la pubblica opinione dalla politica. Ebbene, adesso che per la prima volta in diciassette anni non c’è il governo di una parte contro l’altra, e nemmeno il caso degenerativo dell’esecutivo ribaltonista, si afferma una verità sottovalutata.

Il governo Monti, la soluzione politica nata dal passo indietro di Berlusconi e da uno sforzo di pacificazione senza precedenti, riscuote il giudizio favorevole di 8 italiani su 10. Lo dice tra gli altri il sondaggio realizzato da Demos per Repubblica. Secondo il quale l’84 per cento degli intervistati esprime fiducia nei confronti del nuovo presidente del Consiglio. Non è questo l’esecutivo nato senza politici al proprio interno? Non è l’esatto contrario dei governi di una parte sola, nati dopo focosissime campagne elettorali? E allora non è forse la prova, questo governo Monti, che l’aspirazione diffusa in Italia è un’altra, quella di avere una guida che risolva i problemi? È evidentemente così. E appunto i risultati inequivocabili delle ricerche demoscopiche in tempo reale dovrebbero indurre anche a rivedere le indicazioni elettorali del recente passato. Persino quella del 2008, quando l’alleanza tra Pdl e Lega ha conseguito un successo e una maggioranza parlamentare da record. Più che la revanche dell’Italia di centrodestra contro quella prodiana, quel risultato dev’essere ricondotto al più naturale significato di un’esortazione a governare senza conflitti. In quello specifico caso, a offrire soluzioni senza dar luogo alla parossistica rissosità della precedente coalizione di centrosinistra. Attesa per un esecutivo efficace più che aspirazione faziosa. Dovrebbe essere riletta in questo senso la domanda rivolta dagli italiani alla politica. E forse è anche il caso di valorizzare in pieno la scelta compiuta in questi tre anni dal Centro. Fin dal 2008 l’Udc e poi le altre componenti moderate costituitesi nel Terzo polo hanno chiesto che si desse vita a un governo di responsabilità nazionale. Con la proposta, fin quando è stato possibile, che a guidarlo fosse lo stesso Berlusconi. Più che il colore, contava la mission: pacificare e offrire soluzioni vere in tempi difficili. C’era non solo un’opzione strategica in quella proposta, evidentemente, ma anche una corretta lettura delle attese generali. Dignità, credibilità, capacità di governo: sono urgenze avvertite assai più nel profondo rispetto alle revanches faziose. Sono attese che danno significato anche al rapporto degli italiani con il paradigma europeo: un governo capace di discutere con pari dignità nella Ue e di accoglierne le richieste, come ha fatto ieri Mario Monti, può essere poi in grado, per l’opinione pubblica, anche di restituire potere negoziale al Paese. Cioè di stare in Europa con l’orgoglio di chi partecipa alle decisioni e non è più il problema da risolvere. Anche qui c’è un gioco di piani sfalsati rispetto alle aspirazioni degli italiani. Finora rappresentati con significative declinazioni nell’antieuropeismo. Monti può dimostrare che un buon governo spinge il Paese a una visione completamente diversa.

il fatto Mercati in affanno: Piazza Affari perde l’1,54 per cento. Tensioni anche sul debito francese

Monti-Barroso, buona la prima

Via libera dal leader della Ue: «Ha l’autorità per guidare il suo Paese», e da Van Rompuy: «È un patrimonio per tutti». Il premier garantisce: «Rispetteremo gli impegni presi» di Francesco Pacifico

ROMA. Almeno il deficit di credibilità è stato colmato. Ma a guardare gli effetti, la prima giornata del tour europeo di Mario Monti non mostra discontinuità rispetto al recente passato: l’Italia resta sotto tutela dell’Europa, che si accinge a presentare un conto molto salato al Paese che è pure tra i fondatori dell’Unione. Una sorveglianza molto stretta, che rischia di andare avanti anche nei prossimi anni, come accadrà in Grecia o negli altri Piigs che hanno chiesto prestito al Fmi e alla Ue. Soprattutto se non ripartirà presto l’economia (anche quelle nazioni che più amano le nostre macchine di precisioni e prodotti di lusso). Al riguardo José Manuel Barroso è stato chiaro. Incontrando il successore di Silvio Berlusconi ieri a Bruxelles, il presidente della Commissione non ha brillato per diplomazia: «All’Italia non si chiede uno sprint, ma piuttosto una maratona sul percorso verso la riconquista della fiducia sui mercati. Perché la situazione resta difficile, anche se l’ampio consenso ricevuto in Parlamento dimostra che il Paese è determinato a superare una volta per tutte le difficoltà». Non ci sono margini di manovra, in una fase nella quale il Pil americano cresce meno del previsto (+2 per cento nel terzo trimestre), la Cina s’interroga se il caso di guardare soltanto all’inflazione con il Pil che sale sotto la soglia psicologica del 9 per cento e in Europa la Spagna fa fatica a vendere il suo debito nonostante gli acquisti della Bce. Una situazione che – con il Bund tedesco che vede salire lo spread con il Btp a 490 punti, quello dei Bonos a 474 punti e quello con gli

Oat a 167 – non poteva non far crollare le Borse. Milano ancora maglia nera cede l’1,54 per cento, Francoforte l’1,22, Parigi lo 0,84 e Londra lo 0,30. Eppure ieri a Bruxelles l’Italia ha fatto non passi avanti in un’Europa, che aveva abbandonato il Cavaliere alle ire dei mercati. E non soltanto perché prima Barroso – Monti «ha la mia piena fiducia e stima, ha l’autorità per guidare l’Italia» – eppoi Herman Van Rompuy – «è un patrimonio per tutti i membri del Consiglio europeo» – hanno fatto intendere che a Roma non ci sono alternative al governo dell’ex rettore della Bocconi. Il presidente del Consiglio italiano, pur non entrando nel merito delle misure che si accinge a prendere, ha confermato che non intende discostarsi dalla linea tratteggiata per il nostro Paese a Bruxelles o a Berlino. «In linea generale», ha dichiarato con accanto il leader della Commissione, «intendo rispettare gli impegni assunti dal mio governo, per quanto riguarda gli obiettivi di finanza pubblica, fra cui il pareggio di bilancio nel 2013, anche se di questo oggi (ieri, ndr) non ho ancora discusso con Barroso». Quindi il programma ricalca le misure della lettera della Bce inviata a Palazzo Chigi ad agosto e che Berlusconi e Tremonti avevano provato ad affievolire. Anche per questo, e quasi a mo’ di professione di fede, il professore ha ripetuto che «il monitoraggio dell’Ue è benvenuto, non è un retropensiero e c’è piena sintonia con quello che l’Europa ci chiede». Ma un’Italia che stringe la cinghia anche per il bene dell’Eurozona, pretende di potere avere maggiore margine di manovra sulle politiche di sviluppo. «Per-


la polemica

Il Vaticano attacca: mercati fuori controllo La Cei chiede politiche per le famiglie, Bertone contro laicismo e finanza autoreferenziale di Riccardo Paradisi mercati non sono tutto. Prima del profitto e degli investimenti viene la persona umana. Dopo essersi espressa per la necessità di una governance della finanza la Chiesa cattolica torna a intervenire sulla crisi e ribadisce il primato della persona sull’economia, la necessità d’un modello di sviluppo che coniughi libertà e solidarietà. E così aprendo a Fiuggi i lavori del Convegno delle Caritas Diocesane Monsignor Mariano Crociata invita a tornare ai fondamentali della dottrina sociale cattolica partendo proprio dalla virtù della carità. «Non basta formulare astratti discorsi, occorre aprire nella nostra società senza misericordia, dove gli individui si agitano e si scontrano come atomi impazziti, degli spazi di reale comunicazione fra le nostre povertà».

I

Per il numero due

partire dalla famiglia come modo per aggredire la crisi e trovare il punto di svolta».

Alla domanda se il cambio di esecutivo risponda all’appello rivolto dallo stesso Crociata per una nuova etica pubblica, il vescovo risponde: «Io guardo il versante del mondo della Chiesa e delle persone, la valutazione sul risvolto pubblico e istituzionale non ha bisogno di essere espressa in questo momento. Io direi che nel mondo ecclesiale e nel mondo sociale più vasto, c’è una varietà e una ricchezza di persone che comprendono che bisogna ricominciare dalla persona, da persone rette, competenti, capaci di dedicarsi per il bene di tutti e di spendersi anche con qualche sacrificio di sé perché il bene di tutti sia perseguito». Su quanto abbia inciso il forum di Todi

di Stato Vaticano Monsignor Tarcisio Bertone aprendo il consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), di fronte a una platea di prelati giunti da tutta Europa. Bertone mette in guardia dal ”laicismo intollerante” e dal ”relativismo”. Riferendosi all’Europa Bertone ha parlato di ”contesto indifferente e ostile”, a volte addirittura in ”aperto conflitto” con valori cristiani come vita e famiglia. Un contesto in cui «è sempre più difficile distinguere tra verità, errori e menzogne», in cui la laicità sfocia talvolta in un ”laicismo intollerante” e in cui si affaccia la«dittatura del relativismo che tende ad escludere Dio, la dimensione comunitaria e pubblica della fede o la presenza di simboli religiosi». In questa situazione – esorta Bertone - e’ necessario ”riconoscere gli ostacoli”e ”cercare di smontare i pregiudizi”per «preparare quanto meglio possibile il terreno prima di gettare il seme del Vangelo». Del resto se da un lato si registra una sorta di «erosione culturale e sociale dei valori tradizioni», dall’altro «siamo anche testimoni di una inedita ricerca personale, a tratti disorientata, della presenza di Dio». Nell’Europa di oggi - ha rimarcato infatti Bertone - «è sempre più difficile distinguere tra verità, errori e menzogne. Accanto a una sana laicità è presente una laicismo intollerante. Il principio della

«A Todi è stata segnalata la volontà del mondo cattolico di promuovere i valori fondamentali che sono nella nostra fede e a fondamento della nostra umanità»

della Cei servono politiche per le famiglie: «La famiglia è un punto nevralgico, dove tutte le persone si trovano ad incrociarsi. Lì abbiamo i giovani, gli adulti che perdono il lavoro, gli anziani che presentano le loro difficoltà, i malati. La famiglia racchiude il punto di maggiore difficoltà ma nello stesso tempo anche il punto di maggiore potenzialità, perché lì le persone trovano il luogo di maggiore solidarietà e di sostegno reciproco per cui senza dubbio si deve

sulla politica italiana, il segretario Cei osserva che «È stata segnalata la volontà del mondo cattolico di promuovere i valori fondamentali che sono nella nostra fede e a fondamento della nostra umanità, questa visione capace di orientare il cammino della vita sociale e il cammino condiviso della nostra unità nazionale». A insistere sugli stessi punti è il segretario

ché tra rigore e crescita attraverso le riforme struttruali non vedo contraddizione», sottolinea il professore. E se non bastasse, reclama di poter discutere alla pari con Germania e Francia. delle prossime modifiche alla governance Come si confà alla seconda economia industriale dell’area. Un scatto di orgoglio che fa piacere alla Commissione, nel momento nel quale diventa più crudo il braccio di ferro con Angela Merkel sul lancio degli eurobond. Dimenticando le blande aperture di 24 ore fa, ieri la cancelliera ha confermato il suo no: «Se dobbiamo dibattere di Eurobond, è meglio farlo alla fine delle crisi non adesso che siamo in mezzo alla crisi. Non sono una risposta di lungo termine. Anche perché l’aumento degli spread di rendimento tra i titoli di Stato dei paesi dell’Eurozona rappresenta una reazione esagerata dei mercati ai rischi legati al debito sovrano». Questa mattina la Commissione rende pubbliche le sue proposte sulle future emissioni. Che rischiano, però, di non fare molta strada. La Merkel, infatti, ne ha approfittato per sottolineare che in passato, quando c’era più stabilità sul debito sovrano, «i mercati avevano sottostimato le differenze di competitività tra i diversi paesi dell’Eurozona e ora stanno sovrastimando i rischi e le divergenze». Di conseguenza, bisogna seguire la strada opposta a quella invocata da Barroso: spingere le economie più deboli verso il rigore. Infatti ecco la cancelliera rilanciare un suo vecchio cavallo di battaglia: «I paesi eu-

non discriminazione spesso viene abusato come arma nel conflitto dei diritti per costruire una dittatura del relativismo che tende a escludere Dio, la dimensione comunitaria e pubblica della fede o la presenza di simboli religiosi, e che si pone in aperto conflitto con i valori cristiani tradizionali: contro il matrimonio tra un uomo e una donna, contro la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale».

In questo contesto di relativismo e materialismo pratico i mercati si muovono di conseguenza, sganciati da ogni principio e limite con logiche ”totalmente autoreferenziali”e questo meccanismo, che la crisi fa venire a galla, è insostenibile, «perché mette a rischio la tenuta stessa delle economie nazionali e sovranazionali». Insomma in questa fase di Borse in fibrillazione, in cui gli italiani e i popoli europei corrono sulle monrusse dello tagne spread, il Vaticano non sta a guardare e denuncia la scissione tra etica e finanza. Parole quelle di Bertone inserite in un più ampio ragionamento sulla nuova evangelizzazione, nella convinzione che esista una stretta relazione tra la crisi sul piano economico e la crisi di valori. La Chiesa non s’arrende al fondamentalismo del mercato.

ropei che non rispettano gli impegni di bilancio», dice, «dovranno cedere una parte della loro sovranità nazionale. Soltanto un cambiamento dei trattati europei è l’unico modo per ripristinare la fiducia dei mercati. Altrimente cade l’euro e con esso l’Europa». Quindi per Barroso e per Van Rompuy è stato musica sentire da Monti che «per l’Ue e non per l’Italia» bisogna discutere «se e come si debba tener conto del ciclo economico nella valutazione quantitativa degli obiettivi di bilancio», scindendo le finialità e le premialità sulla spesa corrente e sugli investimenti.

Juncker o il mio predecessore, il ministro Tremonti». «In piena sintonia con quello che il governo ci chiede», il professore si appresta ad annunciare venerdì al commissario all’Economia Olly Renh una piattaforma molto ambiziosa. Perché accanto alla stretta da 25 miliardi di euro per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013 (a quanto pare sicuramente attraverso interventi sulle pensioni, reintroduzione dell’Ici e aumento dell’Iva) ecco un pacchetto di sgravi fiscali e di liberalizzazioni per rimettere in moto il Paese. Non a caso dopo il loro incontro,Van Rompuy si è detto «felice del fatto che il premier Monti presenterà molto presto le misure basate sui tre pilastri del consolidamento fiscale, della crescita economica e dell’equità sociale. Ho piena fiducia nella sue capacità di attuare un programma ambizioso, importante non solo per l’Italia ma per l’Eurozona». Oltre che sulla forza dell’economia italiana, Van Rompuy suggerisce al Belpaese di farsi forte del «basso livello del debito privato e del dinamismo delle sue piccole e medie imprese». In quest’ottica tra Palazzo Chigi e via XX settembre già lavorano a una delle più pesanti eredità lasciate da Berlusconi: la delega fiscale da approvare entro fine gennaio 2012 che deve rimodulare i 720 sconti tra detrazioni, deduzioni ed esenzioni, che generano un’erosione del gettito pari a 253 miliardi di euro. Perché senza una riforma entro il 30 settembre 2012, scatterà automaticamente un primo taglio lineare per 4 miliardi, al quale ne seguirà uno di 16 miliardi per il 2013.

Bruxelles presenta le sue proposte sugli Eurobond. Ma la Merkel conferma il suo no: «Non sono una risposta sul lungo termine». E minaccia: chi non ha i conti a posto dovrà cedere parti della propria sovranità nazionale Anche sugli eurobond il professore non si discosta da quanto dichiarato dalle massime istituzioni comunitarie e prova a gettare acqua sul fuoco con Berlino: «È importante che non siano un modo per eludere la disciplina di bilancio»

Da fautore di un mercato unico del debito, non sa se tratterà il tema al vertice di domani con Merkel e Sarkozy. «Ma sono stato sollecitato a portare nuove proposte. Perché sono dell’idea che non debbano esistere tabù e il tema specifico io stesso l’ho proposto, come ha fatto anche il presidente dell’Eurogruppo


pagina 4 • 23 novembre 2011

l’approfondimento

Chi parlava di “double deep” era considerato un menagramo. Ma oggi quella possibilità è diventata più che probabile, per tutti

Il pianeta in retromarcia Non solo il Vecchio Continente: la spaccatura di Washington sul debito apre scenari inquietanti sul futuro dell’economia globale, che ora teme una nuova recessione. Dobbiamo unire un mondo con troppe gambe e una testa troppo piccola di Gianfranco Polillo

olo qualche mese fa, chi parlava di “double deep” – una seconda crisi, dopo la breve ripresa seguita alla caduta del 2009 – era considerato un menagramo. Un corvo da tenere a distanza, se non altro per scaramanzia. E invece, passo dopo passo, sembra che questa sia la prospettiva più probabile: con inizio già dalla fine dell’anno in corso. Certo: ancora tutto non è chiaro. Sono in troppi a giocare con le cifre incerte delle previsioni. A distanza di pochi giorni, la Bundesbank ha smentito i calcoli della Commissione europea che prevedevano per la Germania una crescita, nel 2012, dello 0,8 per cento. Secondo la banca, invece, sarà compresa in una forchetta tra lo 0,5 e l’1 per cento. Come si vede non c’è la notizia. Ma questo ha dato il destro alla grande stampa internazionale di rincarare la dose, per accentuare le tinte fosche della crisi. Gli stessi eccessi si riscontrano negli analisti di

S

borsa. “Le borse – titolava il Corriere della sera – perdono altri 194 miliardi”. Tutto vero: naturalmente. Ma se confrontiamo i trend, il discorso cambia. Rispetto ai punti di minima (22 settembre 2011) Milano guadagna ancora l’8 per cento ed è seconda solo a Francoforte (più 10,8 per cento). Mentre a cedere sono solo: Portogallo e Belgio. La Francia, nuovo bersaglio della speculazione internazionale, perde solo lo 0,5 per cento. Quindi: attenzione a non fare da cassa di risonanza. La crisi è già tanto difficile e non ha bisogno di una nuova enfasi, nella ricerca di titoli a effetto. È sulla sua complessità che bisogna ragionare con freddezza e senza colpire alla pancia di risparmiatori che temono, giustamente, per le loro sostanze.

Sul piano strettamente tecnico – e quindi razionale – il rischio vero è quello di una “tempesta perfetta”. Il peso dei debiti sovrani è tale da non con-

sentire più a tutto l’Occidente da fare da traino. Gli Stati Uniti sono in difficoltà per quanto riguarda il limite d’indebitamento. Il contrasto tra Democratici e Repubblicani è anche venato dal demone dell’ideologia e delle grandi manovre in vista della prossima campagna elettorale. La Fed, dopo la sua politica espansiva – il quantitative easing – è rimasta senza munizioni, tanto più che la Bce di Trichet aveva stretto i cordoni, limitandosi

A Monti spetta il compito di fare luce sull’Italia e sulla sua reale situazione

ad acquistare titoli dei Paesi più esposti, sul mercato secondario. Il cambio di passo è avvenuto con Mario Draghi che ha ridotto i tassi d’interesse di riferimento e fatto capire che potrebbe ripetere la mossa. Una maggiore sinergia tra Fed e Bce, per aumentare la liquidità internazionale, sarebbe la benvenuta. Avremmo forse un po’ più d’inflazione, nel breve periodo, ma il suo rapido riassorbimento nei prossimi mesi. Se non facciamo questo, il contagio della recessione si estenderà inevitabilmente alle economie emergenti. Campano di esportazioni. Ma se la domanda estera, prevista in forte contenimento, non aumenta è difficile sperare che gli antichi tassi di sviluppo possano essere mantenuti.

Recessione, quindi, su recessione. Soprattutto perché alcuni Paesi – la Germania in testa, ma anche l’Italia – sono specialisti nella produzione d’impianti. La cui maggior parte

sono venduti proprio su quei mercati. Ed ecco allora il rischio – quello vero – di un possibile avvitamento. Ma basta aumentare la liquidità? Se ci limitassimo a questo, seguiremmo le orme di Alan Greenspan – il vecchio presidente della Fed – che tanti danni ha prodotto nel favorire l’eccesso di debito. È quindi necessario che le regole, discusse in seno al Financial Stability Board, oggi inceppate dai veti contrapposti tra le due sponde dell’Atlantico, siano rapidamente introdotte, per evitare gli sbandamenti speculativi del sistema finanziario ed in particolare dello shadow banking. Quel sistema ombra che agisce al di fuori di qualsiasi controllo. Questi sono i dossier aperti che Mario Monti dovrà discutere nel suo incontro sia con Angela Merkel sia con Nicolas Sarkozy e gli altri dirigenti europei. La manovra di risanamento dell’economia italiana occuperà, naturalmente,


L’ex ambasciatore Usa all’Onu: la crisi finanziaria è solo la conseguenza di un altro deficit

Né unita né democratica: ecco il vero spread dell’Europa Bruxelles ha un sistema di potere non rappresentativo e centralizzato, che fa finta di ignorare le opposizioni dei Paesi membri e dà solo ordini di John R. Bolton ontinua senza sosta la crisi dell’euro, la valuta comune a diciassette membri dell’Unione europea. A causa di imponenti deficit di budget di diverse nazioni dell’Eurozona, alcune di queste potrebbero ritrovarsi a dover dichiarare il default sui propri titoli di Stato; oppure l’euro stesso potrebbe disintegrarsi, colpendo in maniera profonda il futuro politico ed economico dell’Ue. Eppure i media stanno riservando pochissima attenzione a un problema diverso ma anche più importante che ha colpito il Vecchio Continente: il cosiddetto “deficit di democrazia”. Questo enorme divario in crescita fra le istituzioni remote dell’Ue di Bruxelles e i cittadini degli Stati membri sottolinea in maniera efficace la crescente frustrazione e l’impotenza che i singoli votanti percepiscono. Per combattere la crisi dell’euro, le elite dell’Ue stanno ignorando o rovesciando le opposizioni popolari per far passare durissime misure di austerità, imponendo alle democrazie sovrane delle politiche richieste dai leader di altre, più potenti nazioni europee. Nonostante i rimedi e le richieste imposte dall’Ue a nazioni come Grecia e Italia si siano rivelate alla fine sostanzialmente corrette (dal punto di vista finanziario), esse portano con loro un costo enorme e corrosivo: la lacerazione della rappresentazione popolare all’interno dell’Ue.

C

Una delle critiche più persistenti che vengono poste al sistema dell’Ue riguarda la sua mancanza di legittimazione democratica. Le sue istituzioni di base sono burocratiche e opache, e le decisioni vengono prese sia da membri non eletti della Commissione europea oppure vengono negoziate dai governi membri. Queste decisioni vengono poi imposte agli Stati membri senza possibilità di un giudizio indipendente o di dissenso ragionato all’interno dei corpi legislativi nazionali. L’unico organismo europeo eletto dal popolo, il Parlamento europeo, ha poco potere ed è considerato da molti come non consequenziale. Dal

momento che i Parlamenti nazionali sono eletti in maniera diretta dalla popolazione, il processo intergovernativo dell’Ue non è controllabile in maniera democratica né dalla popolazione europea in senso generale né a livello nazionale. Quindi, la crescente presa di potere di chi decide a Bruxelles porta con sé in maniera inevitabile un ulteriore allontanamento fra i cittadini ordinari e le legislature nazionali, sempre meno importanti. Il primo mi-

I burocrati che, non eletti, impongono dure sanzioni a tutti rischiano di finire male nistro britannico David Cameron ha stimato in un buon 50 per cento le azioni significative del Parlamento in materia economica che di fatto ricalcano quello che i burocrati europei hanno già deciso. Nessuno conosce come finirà il gioco, ma un punto è chiaro: se alcune nazioni dettano le proprie decisioni alle altre, causano una crescente tensione che si aggiunge al deficit democratico. In Grecia, ad esempio, l’ex primo ministro Papandreou ha proposto un referendum nazionale per approvare in maniera definitiva le dure misure di austerità finanziaria che gli erano state imposte dall’Ue per rispondere alle proprie obbligazioni rispetto al debito pub-

blico (misure che lui aveva accolto). La Cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy hanno squarciato l’aria con le loro urla di sdegno all’idea che il popolo potesse avere una voce in capitolo. In Gran Bretagna, gli smottamenti dell’Eurozona hanno spinto gli oppositori della centralizzazione crescente del potere in Bruxelles a spingere per ristrutturare i rapporti fra Londra e l’Unione. Alcuni hanno proposto un referendum per determinare il futuro britannico rispetto all’Ue; altri preferiscono l’ipotesi di rinegoziare i trattati base dell’Ue, in modo da ridare alcune competenze “chiave” ai membri (o almeno a Londra) oppure fornire maggiori opzioni a quei membri che vogliono decidere da soli cosa dare a Bruxelles e cosa tenere. Altri membri scettici – come Danimarca, Svezia e altri Stati dell’Europa centrale e orientale – potrebbero decidere di unirsi a Londra in questo sforzo. Una volta ancora è la Germania a opporsi, chiedendo di risolvere questa situazione senza cambiamenti di sorta. Una controversia ancora in corso.

Coloro che in Europa spingono per misure di austerità molto dure sostengono di essere titolati a farlo per evitare nuove, irresponsabili politiche fiscali da parte di quelle nazioni che non guardano al futuro. E sicuramente c’è del merito nel sostenere che non possano essere i tassati tedeschi (o di altre nazioni) quelli a cui guardare per essere sicuri che i fondi non mancheranno mai. Ma, in un senso più profondo, la profondità straordinaria della crisi sottolinea graficamente quanto siano fragili le stesse strutture essenziali dell’Ue, e in particolar modo l’intero “progetto euro”. Se salvare la moneta richiede costrizioni drammatiche del dissenso politico e del dibattito democratico, c’è sicuramente qualcosa di essenzialmente sbagliato nelle procedure. Se la democrazia può essere così facilmente soppiantata davanti a “questioni serie”, e i votanti possono scegliere i loro governi soltanto per materie non importanti, allora sono a rischio la vitalità e la londella gevità democrazia stessa. L’Europa potrebbe sopravvivere a questa crisi senza danni permanenti all’euro o alle istituzioni, ma non ci sono dubbi che il deficit democratico si sarà ampliato in maniera sostanziale.

23 novembre 2011 • pagina 5

un posto. Ma i problemi più urgenti sono quelli ai quali abbiamo accennato, soprattutto nel loro versante europeo. Occorre apprestare rapidamente le difese a favore di un “Continente smarrito”, per riprendere un vecchio libro di Walter Laquer, vincendo le pur comprensibili resistenze nazionali. La posta in gioco è troppo alta. Senza un “prestatore in ultima istanza”, sarà molto più difficile salvare l’euro. Non deve essere necessariamente la Bce. Può essere l’Efsf – il Fondo salva Stati – opportunamente rifinanziato e ristrutturato, per rendere possibile un suo eventuale ricorso al mercato. Il tutto accompagnato da una maggior presenza del Fmi e da regole ferree e automatiche per quanto riguarda il rispetto dei vincoli imposti da una nuova governance europea. Non si tratta di “commissariare” Stati sovrani – com’è stato detto qualche tempo fa in un eccesso di polemica politica – ma di dare unità a una realtà che ha troppe gambe – i singoli Stati – ed una testa troppo piccola – la Commissione europea – per garantire un’univoca direzione di marcia.

Se ognuno, invece, andrà per la sua strada, la moneta unica – vale dire l’euro – non potrà reggere alle sollecitazioni di cavalli imbizzarriti, che finiranno, inevitabilmente, per rovesciare il carro destinato ad essere trainato. Come si vede, i problemi specifici dell’Italia sono importanti, ma quelli europei lo sono ancora di più. Basta guardare ai mercati. Gli spread sui titoli italiani o spagnoli non fanno quasi più notizia. Oggi al centro della speculazione internazionale è soprattutto la Francia, le cui debolezze strutturali sono state per molto tempo occultate dal gioco di squadra tra i due grandi protagonisti della vita europea: vale a dire Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Alla fine, tuttavia, i nodi sono venuti al pettine. Era inevitabile. I mercati guardano con occhio distratto alle bizzarrie della politica che, a volte, possono rappresentare un’aggravante. Sono, invece, molto più attenti ai fondamentali dei singoli Paesi: il loro tasso di sviluppo, la dinamica – e non solo lo stock – del debito, gli equilibri nella bilancia dei pagamenti, la ricchezza finanziaria netta delle famiglie. La fragilità francese nasce da questi confronti di carattere internazionale: solo leggermente migliori – come mostra del resto il peggior andamento della sua borsa – di quelli italiani. Da troppo tempo – qui c’è un motivo anche politico – al centro di una cattiva comunicazione. Ora, però, si gioca a carte scoperte. E a Mario Monti spetta il difficile compito di fare un po’ di luce.


politica

pagina 6 • 23 novembre 2011

Il Parlamento «dia risposte chiare, rapide ed efficaci» sulla questione dei “nuovi” italiani

La sfida di Napolitano «Immigrati cittadini» Il presidente: «Assurdo non dare a chi nasce qui gli stessi diritti di tutti gli altri». La Lega esplode di Marco Palombi

ROMA. È una legge sacrosanta, certo, ma è anche il cuneo che la nuova fase politica finirà per infilare nel rapporto tra i partiti che si ispirano al popolarismo europeo e la Lega Nord, destinata invece a tornare ad orbitare nella galassia dei partiti xenofobi europei (magari anche con un discreto ritorno in termini elettorali, proprio come i loro colleghi). Ci si riferi-

sce alla nuova legge sulla cittadinanza invocata ieri da Giorgio Napolitano, ma che aveva già caratterizzato il dibattito alla Camera per la nascita del governo di Mario Monti.

Dario Franceschini, per dire, l’aveva citato al primo posto degli impegni futuri del Parlamento nel suo intervento di venerdì scorso, subito rintuzzato

dall’omologo lumbard Marco Reguzzoni: «Mi dispiace aver sentito oggi, al primo punto del discorso del collega, il diritto di cittadinanza agli stranieri. Questo veramente dimostra a cosa si è ridotta la sinistra». A quel punto anche Pierluigi Bersani era voluto intervenire: «Cari leghisti, abbiamo centinaia di migliaia di figli di immigrati che pagano le tasse, van-

L’ex ministro promette “barricate” contro la richiesta del Colle. Dimostrando miopia umana e politica

Se Calderoli risponde come Le Pen di Giancristiano Desiderio n Europa gli italiani sono i meno prolifici: fanno meno figli. Gli immigrati, anche e soprattutto in Italia, hanno un tasso di nascita superiore a quello nazionale. Dunque? Semplice: o facciamo più figli o riconosciamo come italiani i nati in Italia da genitori stranieri.

I

nale. La via dell’integrazione è una necessità proprio per difendere la nazionalità italiana e la nostra cultura. Al contrario, la via dell’estromissione, del non-riconoscimento, della difesa della nazionalità su basi di sangue e

«La vera follia sarebbe quella di concedere la cittadinanza basandosi sullo ius soli e non sullo ius sanguinis, come prevede invece oggi la legge». Se questa è la linea difensiva della Lega, allora, se ne può trarre la conclusione che il leghismo si avvia a diventare lepenismo. Una posizione che sfugge al buon senso prim’ancora che al principio dell’accoglienza e della tolleranza. Il presidente della Repubblica, infatti, ha posto un tema cruciale proprio in difesa della nazione italiana: o lo Stato italiano investe sulla sua cultura e sul diritto alla cittadinanza italiana oppure gli italiani sono destinati alla decadenza. È un

In pochissimo tempo il partito di Bossi - e soprattutto il partito di Maroni - sta buttando a mare il profilo istituzionale che aveva costruito in tanti anni di governo

È questa la situazione demografica che ha indotto il presidente della Repubblica a dire durante l’incontro con la federazione delle chiese evangeliche in Italia che “è una follia che i figli di immigrati nati in Italia non siano italiani”. Si può tranquillamente aggiungere che è una evidente follia demografica e nazio-

terra è un palese autogol: gli immigrati aumentano e gli italiani diminuiscono. La Lega con l’ex ministro Calderoli si è opposta alle parole del capo dello Stato e si dice pronta a fare le barricate in Parlamento e nelle piazze:

A sinistra il presidente della Repubblica Napolitano. In alto, un barcone di immigrati verso le coste di Lampedusa. In basso Calderoli. Nella pagina a fianco, Sallusti


politica no a scuola e parlano italiano e che non sono né immigrati né italiani, non sanno chi sono. È una vergogna». Ieri, come detto, è tornato sul tema addirittura il capo dello Stato: non importa che abbia detto solo una cosa di buon senso, anzi che l’abbia ridetta, visto che il trattamento che la Repubblica riserva ai nuovi italiani è uno dei suoi cavalli di battaglia, quanto gli effetti che questa posizione ha in questo momento sulla tattica e la strategia delle forze politiche. La Lega già ha ricominciato a straparlare di “barricate” e a stretto giro, facile previsione, torneranno pure i bergamaschi in armi, mentre il Pdl - per bocca di Cicchitto e La Russa, ma in stretto coordinamento con Silvio Berlusconi ha voluto bloccare sul nascere la cosa: attenti che facciamo cadere il governo, è stata l’esplicita minaccia.

Andiamo con ordine. Cos’ha detto Giorgio Napolitano? Ricevendo la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, il presidente della Repubblica è partito da una constatazione: «Vorrei che il Parlamento avesse la consapevolezza che oggi si apre un campo di iniziativa ancora maggiore che in passato», visto che è possibile «una netta distinzione tra il governo e il Parlamento» e che quest’ultimo «ha dei campi a sé riservati in cui il governo non si propone di intervenire». A questo proposito, è il seguito, «mi auguro che si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità», si tratta di un «diritto elementare», ha sottolineato ancora il capo dello Stato, «che dovrebbe corrispondere ad una visione della nostra nazione di acquisire nuove energie per una società invecchiata, se non sclerotizzata». Un buon segnale in questo

senso - la conclusione - è la nomina del fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi al ministero per l’Integrazione. Stessi concetti, tolte le note di cronaca, già espressi esattamente sette giorni prima incontrando proprio alcune decine di figli di immigrati di seconda e terza generazione: il problema, infatti, è che la cittadinanza italiana si ottiene automaticamente solo essendo figli di italiani (anche residenti all’estero), mentre chi è nato nel nostro paese ha la possibilità di chiederla al compimento della maggiore età (e solo fino al giorno del 19esimo compleanno), a condizione che possa dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano. Il Colle, va detto, non si è occupato della riforma dell’intero diritto di cittadinanza (10 anni di soggiorno continuativo e legale, più il benestare inappellabile del prefetto), ma solo della condizione degli italiani senza certificato: bambini e ragazzi che qui nascono,

Il Quirinale: «È un diritto elementare, dovrebbe corrispondere a una visione della nostra nazione di acquisire energie per una società invecchiata» studiano, lavorano, si sposano. Tanto è bastato, però, per scatenare i demoni mediatici della politica da slogan.

Se Napolitano ha infatti incassato l’ovvio sostegno di Italia dei Valori, del Terzo Polo e del Pd («possiamo approvarla entro Natale»), il centrodestra è di nuovo precipitato in quella forma di psicosi che si manifesta quando la necessità di tenere attaccati il Pdl e la Lega per dare un futuro a parecchi dei

problema cruciale che è all’ordine del giorno da molto tempo ma ogni volta che si prova a “metterlo a tema” si scivola sulla polemica inconcludente. Questa volta, invece, si deve concludere. Non a caso il presidente Napolitano lo ha sottolineato dicendo che oggi c’è «la possibilità di fare in Parlamento quello che non si è potuto fare negli anni passati», certo - ha aggiunto - «il mare è ancora un po’ mosso ma credo ci siano maggiori possibilità di dialogo e confronto tra gli schieramenti». La Lega no. La Lega si è già tirata fuori da questo dialogo e, in pratica, è già salita sulle barricate. In pochissimo tempo il partito di Bossi - e soprattutto il partito di Maroni - sta buttando a mare il profilo istituzionale che aveva costruito in tanti anni di governo. Da partito che ambiva a riformare lo Stato è passato ad essere quasi un partito anti-sistema e i suoi stessi elettori, come ha documentato un sondaggio di Renato Mannheimer, non ne condividono le politiche.

Ha scelto, legittimamente, di non sostenere il governo Monti. Ma questa scelta di stare all’opposizione deve sempre e comunque

loro dirigenti, sacrifica il normale formarsi del pensiero laddove ci sia - o anche solo dell’opinione. È la Lega a reagire per prima, ovviamente: «Faremo le barricate in Parlamento e nelle piazze» promette Roberto Calderoli; per l’ex Guardasigilli Castelli «le esternazioni» dell’inquilino del Quirinale sono «al limite della costituzionalità» visto che «non è previsto che il capo dello Stato dia indicazioni di natura politica ai parlamentari»; Maroni s’improvvisa costituzionalista sostenendo che «lo ius soli stravolgerebbe la Carta».

23 novembre 2011 • pagina 7

Il caso Enav e gli attacchi a Casini

Quella voglia di colpire l’uomo della svolta di Osvaldo Baldacci segue dalla prima

Questo per non citare che tre dei tanti patrioti padani che ieri hanno voluto scendere nell’agone pubblico: questa, è la tesi, altro non è che la solita manovra per creare nuovi elettori di sinistra. A ruota s’è mosso il Pdl: poco importa che un pezzo del partito sia favorevole (ad esempio l’ex ministro Carfagna) o che la deputata Souad Sbai abbia proposto una legge in questo senso, il Cavaliere ha bisogno di bloccare il processo di divaricazione dalla Lega. «Ma si vuole facilitare o complicare la vita del nuovo governo? - butta lì Maurizio Gasparri - Noi lo sosteniamo con lealtà, ma se si mettessero in agenda temi come la modifica della legge sulla cittadinanza tutto si complicherebbe». Più esplicito il suo correligionario Ignazio La Russa: «Se c’è qualcuno che fa finta di sostenere Monti, ma in realtà vuole già creare le condizioni perché cada subito ha trovato la strada giusta: così andiamo dritti dritti alle urne». Visti questi due, Fabrizio Cicchitto appare persino dialogante, anche se l’ossessione giudiziaria torna a tormentarlo: «Se si propongono questioni fuori dall’agenda illustrata dal presidente Monti allora potrebbero emergere anche altri temi, ad esempio alcuni riguardanti la giustizia».

dettare le sue idee, azioni, parole su ogni altro “problema nazionale”? È curioso, ma la scelta di difendere il principio di nazionalità arriva da un partito che ha messo in discussione l’esistenza stessa della nazione italiana, fino al punto di inventarsi un’altra nazione - la Padania - e di invitare a fare un uso da toilette della bandiera bianca, rossa e verde. Ma, forse, questa estremizzazione del leghismo non stupisce più di tanto: in fondo è proprio dall’ideologia della tribù regionale e pre-unitaria che nasce l’idea piccola e xenofoba di difendere la nazione sulla purezza del sangue.

Una cultura nazionale grande, matura, sicura non teme di accogliere e di integrare: la “conquista”degli altri nei nostri confini nazionali non può non avvenire attraverso la cultura, il diritto, la storia. I bambini nati in Italia da genitori immigrati sono naturalmente italiani se lo Stato italiano è in grado di accoglierli prima di tutto negli asili e nelle scuole. Questo, di fatto, già avviene e sottolinea l’importanza strategica della scuola nella formazione dei “nuovi italiani”.

Come a ricordare che le accuse sono tutte da verificare. «Affermazioni ridicole quelle di Di Lernia - chiosa l’on. Roberto Rao - È noto a tutti che Casini non ha mai avuto alcun ufficio al partito dal 2001. Questo la dice lunga sull’attendibilità di questo signor Di Lernia».

L’imprenditore Tommaso

chitto. Questo anche perché è troppo evidente la smania di rivalsa da parte di un certo giornalismo militante. Ieri è stato il Giornale ieri a tirare in ballo Casini a tutta pagina, sbavando soddisfazione. Palese e triste l’intento di colpire chi in questo momento viene indicato come l’uomo della svolta.

Il leader di un partito che è stato sempre garantista, anche verso gli esponenti del PDL, ma a cui evidentemente i miliziani armati di penna non possono perdonare l’inversione di tendenza che si è avviata in questo Paese: non solo la resa politica del berlusconismo e l’ascesa di consensi del centro, non solo il cambio di governo, ma anche il cambio di stile che la-

Di Lernia, signore che tutti negano anche di aver conosciuto, è con l’ex consulente di Finmeccanica Lorenzo Cola il principale accusato e poi accusatore della vicenda Enav, nella quale hanno tirato in ballo a diverso titolo praticamente tutto l’arco parlamentare. Dalle accuse a tutti i partiti (dalla Lega ai Comunisti Italiani) di aver partecipato a una sorta di lottizzazione dei consigli di amministrazione di diverse società, è passato alle accuse di tangenti. Attualmente agli arresti domiciliari, Di Lernia sostiene di aver consegnato una tangente da 200 mila euro al tesoriere dell’Udc Giuseppe Naro, nella sede romana del partito. La “prova” principale starebbe nel fatto che il suo cellulare in quel giorno era in zona Piazza di Spagna. La vicenda, sia nel suo scenario più ampio sia in questi particolari finiti all’onore della cronaca, è tutta da chiarire, su essa indaga la magistratura che per ora ha preso provvedimenti cautelari solo nei confronti di alcuni manager delle aziende coinvolte. Il resto è tutto da dimostrare.

scia in fuorigioco certa faziosa aggressività. Un colpo di coda per fermare un rilancio della politica e del dialogo che auspichiamo sia ormai inarrestabile, e un tentativo di trascinare giù con sé nel baratro chi viene visto come il nemico vincitore.

La questione per ora è più che altro giornalistica. L’inchiesta deve fare il suo corso e si vedrà quali saranno gli sviluppi (nella stragrande maggior parte dei casi simili tutto finisce in nulla e gli accusati trasformatisi in accusatori non ne escono troppo credibili), ma intanto qualcuno ha avviato il processo sommario mediatico. Nessun complotto, dice Casini, che intanto incassa la solidarietà garantista di esponenti del Pdl come Alfano e Cic-

Ma il nuovo stile di tutta questa vicenda sta ancora una volta nella risposta di Casini: «Nella vita bisogna avere la serenità, io sono sempre stato fortunato e se adesso c’è da soffrire ingiustamente sono disponibile e forse mi migliorerò anche. Mi fido di quello che dice Naro. Ho piena fiducia nella magistratura, come è giusto che sia, perché un cittadino onesto e serio deve avere fiducia nei magistrati e non credo a complotti».


pagina 8 • 23 novembre 2011

on si è ancora spenta l’eco del confronto tra le varie associazioni cattoliche iniziato a Todi poco più di un mese fa; anzi c’è la netta sensazione che con il passare del tempo si vada facendo più acuto il bisogno di comprendere in che cosa consistesse la Buona politica al centro di un dibattito caratterizzato dalla assenza di politici. Di questo si è parlato ieri nel corso del seminario che si è svolto a palazzo Marini tra coloro che erano stati a Todi e quelli che invece a Todi non c’erano. Nella sintesi finale a cui hanno contribuito politici e non politici il messaggio chiaro ed urgente è stato che occorre rigenerare il senso della politica.

N

La nuova cultura politica di cui c’è bisogno deve perdere le asprezze ideologiche che l’hanno appesantita in questi ultimi anni e deve recuperare una visione dell’umano più completa ed equilibrata: inclusiva, aperta e dialogante. La cultura economico-liberale, di cui il nuovo governo sembra essere fautore, è la premessa per valorizzare creatività e spirito d’iniziativa a livello personale e istituzionale, evitando gli eccessi di un capitalismo egocentrico e discriminante. L’attenzione al sociale e la lotta alle discriminazioni di qualsiasi tipo siano devono recuperare in fretta il senso di una rinnovata solidarietà, evitando quell’approccio asettico e spersonalizzante, che ha segnato il recente fallimento dell’ultimo governo. Se si potesse guardare cosa c’è al fondo della attuale crisi politica, vedremmo chiaramente che più ci si allontana da una equilibrata sintesi di valori, tanto più l’uomo perde il senso della sua libertà e pregiudica la sua dignità. All’ideale cristiano dell’uomo che rivendica il suo diritto alla libertà ed esige rispetto per la sua autonomia, la politica ha dato risposte drammaticamente contraddittorie, che non hanno tenuto conto di quanto fosse profondo

La nuova cultura politica deve perdere le asprezze ideologiche e deve recuperare una visione dell’umano più completa ed equilibrata il bisogno dell’uomo di partecipare insieme agli altri per realizzare ciò che viene definito bene comune. Il tema del bene comune ha caratterizzato molti degli interventi di coloro che a Todi si sono spesi per chiedere un rinnovamento coraggioso della vita socio-culturale del Paese, e quindi della sua prospettiva politico-economica. Il bene comune, hanno ripetuto con fermezza e con convinzione anche oggi, o lo si cerca insieme e lo si realizza insieme, oppure smette di essere comune. E il bene perseguito da una sola parte politica, con un’unica prospettiva, per sua stessa definizione non può essere bene comune. La storia ha dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che non c’è bene generale se non c’è contestualmente attenzione al bene individuale, perché quando si umilia e si fa violenza anche ad un solo uomo, in lui si ferisce e si umilia l’intera umanità. L’ideologia della politica non può sacrificare la concretezza delle persone alla astrazione delle idee.

il paginone Todi è stato anche un grande richiamo allo spirito di servizio di una politica che rinuncia alla sua sterile autoreferenzialità, per tornare ad occuparsi della concretezza dei bisogni delle persone. Per questo il cardinal Bagnasco ha insistito proprio a Todi perché si tornasse a declinare insieme la questione antropologica e quella sociale, senza separare il valore della vita e della famiglia dal valore della solidarietà e dell’impegno sociale. Abbiamo perso di vista in questi ultimi anni la necessità di un luogo di riequilibrio tra tutti i valori in gioco nell’agire politico e sperimentiamo la mancanza di un punto di sintesi tra tipologie di valori che qualcuno si ostina a porre in contrapposizione. Enfatizzando gli uni a scapito degli altri si finisce col trasformare gli uni e gli altri in disvalori, e quando si perde di vista il loro carattere fondativo e irrinunciabile, è facile scadere nella strumentalizzazione politica. Qualcuno parla di bipolarismo immaturo, ma la domanda che i cittadini si pongono è diversa: se il bipolarismo italiano in questi ultimi anni non è maturato sufficientemente, non è forse giunto il momento di cercare un altro modello? Todi ha offerto molti spunti per riflettere in tal senso: serve una soluzione diversa che contrasti sia l’accanimento di chi vuole tenere in vita a tutti i costi questo modello politico ingessandolo rigidamente nella sua struttura, sia la tentazione di chi vuole procedere ad una sorta di eutanasia politica, per staccare la spina ad un sistema considerato insoddisfacente, congedando tutti coloro che ne hanno fatto parte. Abbiamo sempre sostenuto che eutanasia e accanimento terapeutico non sono soluzioni efficaci, neppure in politica. Può e deve esserci una soluzione diversa, che recuperi il valore del dialogo e della collaborazione nel nostro sistema politico. Forse è giunto il momento di passare da una competizione aggressiva ad una cooperazione costruttiva, in cui quanto di buono si propone trova un nuovo spazio e un nuovo senso. Dovrebbe emergere un modo nuovo di far politica, che archivi definitivamente la violenza, anche quella verbale, per recuperare la cultura di un ascolto critico capace di esprimere una fedeltà creativa alla volontà popolare. Il terzo polo non può essere considerato come una minaccia per i due principali schieramenti di maggioranza e di opposizione, ma una grande opportunità di confronto e di collaborazione. Fare politica di centro non vuol dire fare una politica del né... né, né di destra né di sinistra, una politica povera di slanci e di ideali, perché chiusa in un’aurea mediocritas. Tanto meno vuol dire fare una politica che annoi e respinga i giovani perché non vi trovano quella spinta al cambiamento che li fa sentire protagonisti di un tempo nuovo. Il nuovo polo, nel suo stile moderato e propositivo, dice no alla violenza, ma non alla forza e alla determinazione con cui si difendono principi e valori.

E la presenza al convegno di ieri di tanti giovani universitari e di tanti giovani professionisti mostra che la nuova proposta politica fa presa su di loro, spalanca nuove possibilità di mettersi in gioco, mostrando che si può mantenere la fedeltà ai valori fondamentali, senza apparire antiquati, purché li si

Dal seminario sul dialogo tra associazionismo cattolic

Il dopo Todi è Archiviare subito i contrasti del bipolarismo italiano e ripartire dai valori cattolici. Il messaggio del convegno organizzato ieri dal Terzo Polo di Paola Binetti sappia coniugare in modo creativo. Anzi la sfida oggi è proprio in questa fedeltà creativa, che non si appiattisce su di un pensiero conformista incapace di riconoscere che il cambiamento non può prescindere dal rispetto per il fondamento dei valori, delle idee, delle cose. Eppure i nemici del Centro hanno buon gioco a ridurne la forza d’impatto sull’opinione pubblica, sollecitando un’azione di mediazione e di compromesso, una volta a destra e un’altra a sinistra, che impedisce il formarsi di una sana e schietta identità in chi ha ben chiaro in quale direzione vuole andare. Quella marcata dai suoi principi e dalla sua tradizione, ma assolutamente determinata ad andare avanti con coraggio e determinazione. Ferdinando Adornato ha sintetizzato in alcuni punti fondamentali lo spazio del dialogo necessario tra laici e cattolici: il forte senso delle Istituzioni, il profondo rispetto della legge naturale, l’amore alla libertà. Sono carattere identitari

molto più profondi di quanto non appaia e sui quali si può aprire un nuovo tavolo di confronto che consenta di dar vita a proposte capaci di riformare in modo strutturale il nostro Paese, senza destrutturarne la natura e la cultura. Dal dialogo di oggi appare evidente come il Centro abbia già cominciato a dare frutti di consenso e di apprezzamento da parte del mondo cattolico, al di là di quanto qualcuno avrebbe sospettato fino a poche settimane fa. Non a caso è proprio dal terzo polo che stanno partendo nuove iniziative che cercano di riproporre in modo diverso l’unità dei cattolici intorno ad un grande progetto politico, in cui ognuno possa riconoscere le proprie radici. È così che si possono aprire nuove prospettive di crescita e di sviluppo, di pace e di libertà per tutti. Il nuovo polo mostra già un forte respiro popolare, decisamente interclassista, attraversato da una pluralità di sensibilità, aperto a collaborazioni con forze politiche lai-


il paginone

co e politici, ecco alcune proposte per il nostro Paese

è già iniziato che, ma non per questo laiciste. Anche oggi Donato Mosella, Giuseppe Valditara, Luisa Santolini e Marco Calgaro hanno messo in evidenza come sia possibile governare le differenze e perfino i contrasti che possono apparire facendo riferimento alla dottrina sociale della Chiesa e ad una comune visione di un bene pubblico che, andando oltre gli interessi particolari, garantisca gli interessi di tutti. Tutto il Paese è un cantiere aperto, un laboratorio di idee, e speriamo che il nuovo governo riesca a creare il benessere necessario per trasformare l’Italia: quelli che a Todi c’erano e anche quelli che invece

Nella Caritas in veritate il Papa dice come l’etica non possa diventare “un’etichetta” per classificare situazioni, ma debba connotare l’attività umana non c’erano si sono impegnati in questa nuova forma di collaborazione. Si è detto tante volte in questi giorni che la crisi economica dell’Italia è anche e soprattutto una crisi di fiducia, ma una politica oggettivamente orientata alla ricerca del bene comune, ha il dovere di cercare una soluzione a questo problema, questo deve essere il suo principale valore e criterio di riferimento.

Annamaria Furlan, Franco Pasquali, Natale Forlani hanno insistito molto sul tema della distribuzione della ricchezza, come una sfida continuamente posta ai politici. Nella fedeltà creativa

allo spirito evangelico è possibile ri-scoprire un elemento di grande attualità politica per lo spirito cristiano, la necessità di sottrarsi alle logiche delle lobby di potere che più e meglio sanno piegare la politica ai loro interessi. Al laico cattolico impegnato in politica si chiede di muoversi con la libertà e la responsabilità necessarie per vivere la fedeltà a valori di giustizia e di solidarietà che ci trascendono e che sono uguali per tutti gli uomini. È quel principio di profonda umanità che fa sentire i vincoli di fraternità e solidarietà nei confronti di tutti gli uomini, a qualunque paese, razza o etnia appartengano. La lotta contro la corruzione esige una ricerca della verità negli stili della vita politica di tutti i partiti, che si traducono in un’esigente fedeltà ai principi della legalità, assunti come il quadro normativo in cui la passione per la giustizia si esprime nel modo più semplice e più rigoroso. Agostino Giovagnoli ha voluto inisistere sul fatto che da Todi è nata una proposta di Buona politica rivolta a tutti i politici, positivamente presenti a Todi proprio per la tensione etica che deve caratterizzare il loro impegno. Non c’è nostalgia della Democrazia cristiana, perché la Dc ha avuto le sue luci e le sue ombre e oggi occorre andare oltre quelle ombre per recuperare quelle luci che si erano già smarrite nell’ultima fase della sua esistenza. Lo ha detto Giuseppe Valditara e lo ha ripreso Marco Calgaro. Oggi

non servono grandi teorie economiche e nemmeno filosofie politiche particolarmente elaborate: il buon senso, illuminato da una visione più nobile e meno egocentrica del mondo, spinge a superare i modelli sociali corrotti che creano povertà e malattie, ignoranza e violenza. Non c’è dubbio sul fatto che la crisi attuale sia prima di tutto una crisi di natura etica: non a caso qualcuno ha parlato di disastro etico. E i parlamentari cattolici non possono farsi sconti in fatto di etica pubblica, perché i loro cedimenti creano scandalo nella pubblica opinione, gettano un discredito contestuale sulla politica e sulla visione cristiana. Ma è lo stesso Benedetto XVI a metterci in guardia dall’abuso di questo termine e dalla strumentalizzazione che taluni ne fanno, ritenendo di potersi vantare di una presunta superiorità morale. «Bisogna, poi, non ricorrere alla parola “etica” in modo ideologicamente discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi - l’osservazione è qui essenziale! - non solamente perché nascano settori o segmenti “etici” dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla lo-

23 novembre 2011 • pagina 9

ro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale della Chiesa, che ricorda come l’economia, con tutte le sue branche, è un settore dell’attività umana».

In questo passaggio della Caritas in veritate emerge con chiarezza come l’etica non possa diventare “un’etichetta”, buona per classificare situazioni e persone, ma debba connotare intrinsecamente tutte le attività umane. Non è solo un tema da affrontare sul piano politico o culturale, ma è piuttosto un modo di essere delle attività umane, che o sono eticamente coerenti o non si possono più neppure giudicare come pienamente umane. C’è molta insicurezza in giro, e non solo a livello politico-economico, perché c’è l’incapacità di interpretare i fenomeni che stiamo vivendo. Ma c’è anche molta speranza, c’è un ottimismo che incomincia ad intravedersi, anche in assenza dei riscontri economici che pure tutti, ingenuamente, ci saremmo aspettati. Gli spread e la borsa non sembrano confermare questi timidi segnali di ottimismo. Ma ci sono. E Mimmo delle Foglie nella sua conclusione finale ha ben evidenziato come serva una apertura al cambiamento, che ci consenta di gestire un quadro nuovo di soluzioni possibili. Un compito non facile, dobbiamo riconoscere coraggiosamente i nostri limiti e superare la falsa attrattiva di soluzioni facili che in realtà potrebbero destabilizzare ulteriormente il nostro sistema sociale. Nessuno possiede oggi soluzioni sicure e solo con una profonda umiltà, umana prima ancora che politica, possiamo costruire una nuova competenza anche in politica che abbia una triplice radice: una matrice emotiva, necessaria per sentire il disagio degli altri come se fosse nostro, una matrice pratica, che ci dia il coraggio di affrontare i problemi senza rimandarli in modo pusillanime, e una matrice etica, per convincerci che il ritorno alle virtù, anche a quelle più semplici, è l’inizio di una strada sicura da percorrere insieme. Pierferdinando Casini e Francesco Rutelli hanno mostrato fino a che punto la buona politica può fare la differenza se si riesce ad essere dialoganti senza cedimenti, animati da uno spirito riformatore senza sterili polemiche, disposti a realizzare un grande progetto politico superando le divisioni. Nella grande stagione che Todi ha lanciato i cattolici sono destinati ad essere tutt’altro che irrilevanti se sapranno essere coerenti e disponibili all’ascolto e al dialogo, alla collaborazione efficace con tutti coloro che vogliono mettersi al servizio del Paese, con il nuovo Governo di Mario Monti e con tutte le altre forze politiche, con il mondo delle associazioni e con tutte le persone di buona volontà. In questa chiave, ha concluso Cristina De Luca, Todi può fare la differenza di stile e di progetto. A noi tocca mostrare di essere all’altezza della situazione.


le rivolte arabe/Egitto

pagina 10 • 23 novembre 2011

Tensione altissima al Cairo, una folla oceanica sfida i militari. Oltre 500 feriti. Gli Usa: «Basta violenze»

Piazza Tahrir non cede: il governo si dimette La Giunta promette le presidenziali entro giugno 2012. Incognita El Baradei per il governo di salvezza nazionale di Luisa Arezzo l segnale che il vento stava per cambiare si è avuto ieri pomeriggio quando alcuni generali sono scesi in piazza Tahrir per unirsi alla folla oceanica che a gran voce urlava «andatevene» alla giunta militare guidata dal generale Hussein Tantawi. Accolti come degli eroi, circondati, baciati, toccati come fossero dei fantasmi. Erano mesi che i manifestanti li aspettavano. Decine di migliaia di persone ieri hanno riempito la piazza simbolo dell’intera Primavera araba, quella che gli egiziani temono gli venga rubata. Un rischio, bisogna dirlo, tutt’altro che peregrino. Ma una vittoria la folla, dopo quattro giorni di scontri, decine di vittime e centinaia di feriti, l’ha otte-

I

nuta. Dopo una riunione di emergenza, alla quale hanno partecipato anche i Fratelli musulmani e alcuni leader salafiti, la giunta militare al potere in Egitto ha accettato le dimissioni presentate dal governo e ha assicurato che entro il 30 giugno 2012 si terranno le elezioni presidenziali. A confermarlo lo stesso Tantawi, capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, durante un discorso alla nazione aspettato per tutto il giorno e arrivato solo alle prime ore della sera. Un discorso pieno di incognite, che avrebbe anche dovuto sancire l’accettazione, da parte della Giunta, di un governo di salvezza nazionale probabilmente guidato da Mohammed El Baradei, l’ex di-

L’opinione di Shadi Hadid

I Fratelli Musulmani vinceranno, ma i salafiti non staranno a guardare di Laura Giannone

rettore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) nonché premio Nobel per la Pace, che dovrebbe prendere il posto del dimissionario Essam Sharaf. Speranza al momento disattesa anche se non rigettata completamente: «Presto sarà nominato un nuovo governo che gestirà il potere fino alla conclusione delle elezioni, che si svolgeranno secondo il calendario previsto».

Ma il Consiglio prende tempo e si dice pronto a cedere i poteri soltanto dopo un referendum popolare, che con le elezioni alle porte è al momento di difficile calendarizza-

zione. Mentre non vi è dubbio che la proposta di Tantawi rischi fortissimamente di radicalizzare ancor di più la Piazza: subito dopo il suo discorso il movimento 6 aprile ha annunciato un sit in permanente per porre fine all’era militare. E non è escluso affatto che il Cairo possa trasformarsi in un teatro di nuovi scontri. Nelle attese dei manifestanti, infatti, il nuovo Primo ministro avrebbe dovuto traghettare il Paese alle elezioni presidenziali entro il prossimo 30 giugno. Una data che anticipa almeno di sei mesi quella precedente (che ancora non era stata fissata ma che orientativamente era stata prevista fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013). Confermato, invece, lo

In alto, la manifestazione oceanica di Piazza Tahrir, al Cairo. Ieri è stato anche giorno di funerali per le vittime degli scontri dei giorni scorsi. Sotto, El Baradei. A destra, dall’alto: Tantawi e Sharaf svolgimento delle legislative, che cominceranno lunedì prossimo, 28 novembre, e saranno spalmate lungo tre mesi: la prima tappa delle elezioni parlamentari per la Camera Bassa

a performance di Ennahda, il partito islamico tunisino che un mese fa ha stravinto conquistando il 41% dei seggi in parlamento ha aperto alla legittima preoccupazione che le prossime elezioni egiziane del 28 novembre possano siglare il successo della Fratellanza Musulmana, senza dubbio il movimento più organizzato del Paese. Gli exit pool li danno senza meno pronti a conquistare fra il 15 ed il 30 per cento dell’elettorato, ma c’è chi teme che possano ambire a un margine decisamente più alto. «Possibilità tutt’altro che peregrina» per Shadi Hamid, direttore del Brookings Doha Center, grande esperto di islam e politica nel mondo arabo. Direttore, pensa che i Fratelli musulmani vinceranno le prossime elezioni? Se si considera che Ennhada era data al 20 per cento massimo, si capisce subito che gli exit pool nei Paesi della cosiddetta Primavera araba lascino il tempo che trovano. Oltretutto, in questi Paesi ciò che davvero conta sono l’organizzazione e la strategia: due asset in cui la Fratellanza musulmana eccelle. E dunque, benché alcuni partiti più liberali e di sinistra stiano conquistando del terreno, è innegabile che la Fratellanza da tempo si sia messa in moto e stia giocando al meglio le sue carte. Quali sono e come? Innanzi tutto convincendo il suo elettorato ad andare a votare. Essendo la Fratellanza un movimento a carattere religioso

L


23 novembre 2011 • pagina 11

Il nervosismo è tale che la Borsa è stata sospesa per un’ora dopo che l’indice-guida aveva perso il 4,5 per cento, segnando profondo rosso per il terzo giorno consecutivo

partirà lunedì in nove province, comprese quelle del Cairo e di Alessandria. Nei collegi in cui i vincitori non otterranno una maggioranza assoluta si andrà al ballottaggio il 5 dicembre. Il 14 dicembre sarà la volta di altre nove province, con l’eventuale secondo turno il 21. Il 3 gennaio 2012 partirà la tappa finale del voto per la Camera Bassa negli ultimi nove goverantorati, compresi quelli del Si-

nai) con ballottaggio eventuale previsto per il 10 gennaio. Solo dopo il risultato definitivo e il varo di una nuova Costituzione sarà possibile stabilire la data precisa delle presidenziali.

Ma il se, in tutta questa vicenda, è d’obbligo. La situazione in Egitto è realmente esplosiva. L’accordo fra i militari e i partiti si gioca sul filo del rasoio e nessuno in questo momento può

più che politico, può contare su una disciplina che gli altri candidati si possono soltanto sognare. Questa disciplina è intrinseca alla cultura del movimento. Ogni membro della Fratellanza Musulmana segue un preciso percorso di formazione culturale ed è parte della Usra, o famiglia, che si incontra settimanalmente. Se un membro della Fratellanza scegliesse di restare a casa e non andare a votare, gli altri lo saprebbero e verrebbe subito scoperto. Ma non è solo un problema di aspettative. Ad ogni seggio sarà presente un coordinare della Fratellanza, mandato là a controllare e a far la conta dei voti. Parliamo di un Paese dove le piccole comunità (ma anche in seno ai quartieri più grandi) si conoscono tutte. Basti pensare alle aree rurali. Non è possibile immaginare uno scarto fra Fratelli votanti e voti raggiunti. D’altronde, è esattamente lo stesso metodo adottato da Ennhada in Tunisia. Non solo, avendo avuto 88 parlamentari nel governo precedente (dal 2005 al 2010) il gruppo è stato anche capace di creare nuovi servizi a livello locale. C’è però una competizione in seno alla Fratellanza.. Il braccio politico della Fratellanza, il Partito Libertà e Giustizia è rappresentato dal partito liberale al-Ghad di Ayman Nour, il partito Nasserist Karama e una serie di piccoli sono invece uniti sotto il capello della lista Alleanza Democratica. Ci sono

essere certo dell’esito finale. Lo stesso nome di El Baradei potrebbe saltare all’ultimo minuto per essere sostituito da quello di Abdelmoinem Abul Fotuh, possibile candidato alle presidenziali ed ex membro dei Fratelli musulmani. Gli stessi che ieri, in nome del dialogo, si sono sfilati dalla manifestazione «un milione di persone a piazza Tahrir» alla quale hanno aderito 35 partiti e movimenti egizia-

poi altre quattro liste principali, tre delle quali hanno un orientamento liberale o di sinistra (Blocco egiziano, Rivoluzione continua e la lista Wafd). Quest’ultima può contare su una serie di mecenati di spicco, anche perché il Wafd è guidato dal multimilionario Al-Sayyid Badawy. Insomma, ognuno di questi blocchi può ben sperare in ottimi risultati. Ma i partiti più significativamente liberali che chance hanno di vincere? Va detto che questi movimenti non hanno un programma chiaro, se non quello di combattere un ritorno alla teocrazia. Una strategia che potrebbe rivelarsi inutile in un Paese dove il 67 per cento della popolazione sostiene che l’Egitto dovrebbe essere guidato secondo la legge e gli insegnamenti del Corano e un altro 27 per cento afferma comunque di essere orientato a votare per chi persegue i valori e i principi dell’Islam. Anche qui vale la pena ricordare cosa è avvenuto in Tunisia: dove il Partito democratico progressista – praticamente l’alternativa anti-islamica del panorama politico – ha ottenuto un ben esiguo risultato. Gli unici due partiti più liberali (Congresso per la repubblica ed Ettakol), capita l’antifona, hanno scelto di mantenere ottime relazioni con Ennhada, piazzandosi così al secondo e terzo posto. Dunque secondo lei la Fratellanza Musulmana sbancherà le urne? C’è ancora una possibilità che non vada al

meglio. Ma io non ci spererei troppo. L’alternativa di un islamismo moderato potrebbe rivelarsi assai meno moderata del previsto. Molto prima della Primavera araba alcuni leader della Fratellanza mi raccontavano che molti dei loro giovani cedevano al fascino delle idee salafite. È vero che i salafiti hanno meno esperienza politica, ma sono ambiziosi (vogliono conquistare il 30% dei voti), rappresentano una novità nel panorama politico egiziano e imparano presto. Non a caso hanno stretto i ranghi mettendo assieme quattro partiti sotto il capello di Alleanza islamica. Non dimentichiamo che solo un anno fa l’82 per cento della popolazione – secondo un sondaggio – si è detta favorevole alla lapidazione per le adultere e al taglio delle mani per i ladri! Il punto è che queste elezioni non sono tanto caratterizzate dalle idee. Ma sono tutte rivolte alla ricerca del voto. Se la Fratellanza Musulmana dovesse raggiungere il suo obiettivo, conquistare oltre il 50% delle preferenze, l’Occidente avrebbe ottimi motivi per allarmarsi. L’Egitto sta vivendo una transizione rischiosa e complicata e in questo contesto bisogna vedere se gli elettori saranno in grado di scegliere i propri rappresentanti liberamente, senza aver paura delle intimidazioni. D’altronde, la democrazia prevede anche il rischio di fare la scelta sbagliata.

ni. E che non se ne andranno fintanto che Mohamed Hussein Tantawi non si dimetterà. La stessa promessa che era stata fatta a Mubarak all’inizio del 2011. Tra i gruppi che vi hanno preso parte ci sono gli attivisti del Movimento del 6 aprile, dell’Unione dei giovani di Maspero (i copti coinvolti negli scontri di fine ottobre al Cairo con la polizia, che provocarono 26 morti), della Coalizione dei giovani della rivoluzione, della Campagna per il sostegno a El Baradei presidente e dei Comitati popolari per la difesa della rivoluzione. Presente anche il Fronte salafita - i radicali islamici - che chiede una tabella di marcia chiara per la transizione del potere a un governo civile, processi rapidi per i responsabili delle uccisioni di manifestanti che si sono registrate in questi giorni, risarcimenti per le famiglie di quanti sono stati uccisi o feriti nelle proteste. Il Fronte ha rivolto un appello ai suoi sostenitori affinchè si radunino per protestare non solo in Piazza Tahrir, ma in tutto il paese. E infatti le proteste stanno dilagando anche ad Alessandria e a Suez. il nervosismo è tale che persino la borsa è stata sospesa per un’ora dopo che l’indice-guida aveva perso il 4,5 per cento, segnando profondo rosso per la terza giornata consecutiva. Preoccupazione per la possibile deriva violenta delle manifestazioni è stata espressa dal ministro degli Esteri italiano Giulio Maria Terzi di Sant’Agata che ha definito le violenze in Egitto «assolutamente inaccettabili». Anche la Casa Bianca ha definito le violenze «deplorevoli» lanciando un invito alla moderazione a tutte le parti coinvolte.

La possibile nomina di Mohammed el-Baradei a guidare il Paese in questa fase di transizione, se da una parte sarebbe senza dubbio un segnale di reale cambiamento, dall’altra è innegabile che ponga una serie di dubbi per l’ambiguità del suo operato negli anni della direzione dell’Aiea. Solo pochi giorni fa (e non è certo stata la prima volta) la stampa israeliana lo ha giudicato colpevole di aver coperto - durante gli anni della sua presidenza - l’avanzamento del programma nuclaere di Teheran. Accuse che aveva liquidato piccato come «false e non meritevoli di commento». Epperò non bisogna scordare che dopo anni di fallimenti rispetto alla politica nucleare dell’Iran, El Baradei, nell’ultimo atto politico del suo lungo ufficio a direzione dell’Aiea fece ricorso a un’espressione adeguata alla situazione, ammettendo che il dialogo con l’Iran (parliamo della fine del 2009, esattamente due anni fa) era arrivato in «un vicolo cieco». Parole, le sue, che legittimarono una dura risoluzione dell’Agenzia (la prima in quattro anni) contro l’Iran.


pagina 12 • 23 novembre 2011

le rivolte arabe/Siria

La Turchia sempre più apripista per l’opposizione di Damasco. Ora si cerca una soluzione condivisa senza intervento esterno

L’affondo di Erdogan

Il premier turco: «Assad si ricordi della fine di Hitler e Gheddafi» Mentre l’Onu studia nuove sanzioni, in Siria si continua a morire di Vincenzo Faccioli Pintozzi opo il re, il pascià. Recep Tayyp Erdogan è il primo leader dell’area a chiedere al dittatore siriano Basar al Assad – dopo il sovrano moderato di Giordania, Abdullah – di lasciare il potere. E, in un discorso televisivo, ha usato toni molto forti: «Per il benessere del tuo stesso popolo e della regione, abbandona la tua poltrona e basta. Se vuoi vedere che fine hanno fat-

D

to coloro che hanno continuato a combattere contro il proprio popolo pensa ai nazisti in Germania; pensa a Hitler e a Mussolini; pensa a Nicolae Ceausescu, in Romania. E se ancora questi esempi non ti bastano, se non capisci da solo cosa devi fare, pensa a quel leader libico ucciso appena 32 giorni fa». Per quanto infarcito di storia, un ultimatum niente male. Anche se mediato dalle parole del presidente turco, Abdullah Gul, che in visita ufficiale a Londra ha dichiarato che la Turchia «non accoglierà positivamente interventi esterni in Siria, per il momento», suggerendo che il cambiamento dovrebbe invece provenire dall’interno del Paese. «Non vogliamo entrare in guerra con la Siria. Cosa deve essere fatto è chiaro e sosteniamo con convinzione la decisio-

ne della Lega Araba» ha riferito Gul durante una conferenza indetta allo scopo di fermare le violenze ed iniziare un processo di riforme. «La Turchia non agisce sulla scia delle decisioni degli altri Paesi, bensì ascolta la voce del popolo siriano» ha affermato il Presidente durante la propria visita in Gran Bretagna. «Ci sono diversi gruppi e organizzazioni in Siria, inclusa la forte comunità cristiana del Paese» ha aggiunto Gul, sottolineando il rischio derivante dal possibile desiderio di vendetta di un qualsiasi nuovo regime, contro le organizzazioni che attualmente supportano il partito

Baath. Secondo quest’ipotesi molte persone continuerebbero a vivere sotto il regime autoritario senza opporvisi, in quanto la caduta di quest’ultimo potrebbe portare insicurezza, guerra civile e scontri. Gul sostiene che l’opposizione siriana dovrebbe promettere di salvaguardare i diritti e le libertà di tutti, in seguito alla caduta del regime. Secondo molti, i problemi siriani finirebbero nel momento in cui l’opposizione garantisse pari opportunità a tutte le fazioni e i gruppi politici della società, evitando di avanzare pretese dopo la disfatta del regime di Assad.

Il primo ministro turco, Recep Tayyp Erdogan, insieme al “leoncino” di Damasco, Bashar al Assad. Nella pagina a fianco, Hugo Chavez

Il Ministro degli Esteri francese, Alain Juppè, ha detto che il regime siriano non ha dimostrato alcuna volontà di dare il via al programma di riforme e

che adesso è troppo tardi. «Il Consiglio delle Nazioni Unite dovrebbe incrementare le sanzioni contro la Siria» ha affermato Juppe. In merito alla posizione della Francia sulla possibilità di un intervento militare della Turchia in Siria, Juppe ha dichiarato: «Siamo contro un intervento unilaterale. Se dovesse esserci un’azione militare questa deve essere decisa dalle Nazioni Unite». D’altra parte, le notizie che provengono dalla Siria del Leoncino sono ogni giorno peggiori: tre bambini di 10, 13 e 15 anni sono rimasti uccisi dai colpi di arma da fuoco esplosi a un posto di controllo delle forze di sicurezza siriane nella provincia di Homs, nel centro della Siria. E la repressione della rivolta popolare in atto nel Paese dal marzo scorso ha causato finora


le rivolte arabe/Siria

23 novembre 2011 • pagina 13

Gli irriducibili amici di Assad Da Chavez ad Ahmadinejad, da Putin a Hu Jintao, ecco chi sostiene il dittatore di Maurizio Stefanini l tempo della Guerra Fredda la Siria di Assad padre era uno stretto alleato del blocco sovietico il cui sistema politico aveva anche copiato il modello dei fronti nazionali delle democrazie popolari: anche se il partito dominante era quello Baath, e toccava ai comunisti fare la parte del partito satellite, o se no andare in galera. Dopo la caduta del Muro di Berlino, Assad padre riuscì anche ad allearsi con Bush padre, nello schieramento che affrontò il rivale baathista Saddam Hussein per togliergli di bocca l’osso kuwaitiano. Sempre in chiave anti-Saddam, però, Assad padre aveva coltivato anche l’alleanza dell’Iran degli ayatollah, facendo loro da sponda durante la guerra del 1980-88. In teoria, una pura intesa del tipo “il nemico del mio nemico è mio amico”, quella tra il laico Hafez Assad e gli ayatollah. Ma poiché il baathismo siriano si appoggiava sulla minoranza alawita contro la maggioranza sunnita, e una fatwa interessata aveva accreditato anche gli alawiti come una corrente sciita, ne era venuta fuori una specie di “internazionale sciita”in cui la Siria faceva da ponte tra l’Iran e un’alleanza libanese in cui stavano appunto gli sciiti filoiraniani di Hezbollah, gli sciiti filo-siriani di Amal, i filo-siriani laici di Baath e Partito Nazionale Sociale Siriano e perfino i cristiani filo-siriani, sia pure da poco, del generale Aoun. Ulteriormente estendibile a una partte degli sciiti iracheni. Iran, Hezbollah e Siria assieme proteggevano poi Hamas, e la Siria anche altre fazioni palestinesi antiAl Fatah e anti trattativa con Israele: sua Hamas che questi gruppi avevano a Damasco la sede.

A

Impossibile tenere assieme tutto, dopo l’11 settembre e la voga del movimento neocon. Con Bush figlio, dunque, Assad figlio si è trovato respinto nell’Asse del Male: il che ha voluto dire comunque buone relazioni anche con Gheddafi, Corea del Nord e il venezuelano Chávez, non gli ha impedito peraltro di recuperare rapporti con la Russia e di stabilirli con la Cina. Né bisogna dimenticare le reti di relazioni delle forti comunità di oriundi siriani in America Latina. In particolare, Iran e Corea del Nord si sono, da buoni amici, equamente distribuiti le responsabilità di aiutare i siriani a dotarsi di missili: Teheran ha fornito l’assistenza per quelli a oltre 3.500 morti, secondo i dati presentati dalle Nazioni Unite. Inoltre l’Esercito libero siriano (Esl, che riunisce i militari che si sono uniti ai civili antiregime) accusa il leader radicale sciita iracheno Moqtada Sadr di inviare in Siria suoi miliziani a sostegno della repressione compiuta dalle forze fedeli al presidente Bashar al Assad. In un’intervista pubblicata ieri mattina dal quotidiano panarabo saudita Asharq al Awsat, il maggiore Maher Nuaimi, portavoce del Consiglio militare provvisorio dell’Esl ha detto: «Ci sono gruppi armati che arrivano in Siria per sostenere l’esercito del regime e ce lo hanno confermato i civili siriani le cui case sono state assaltate (dai lealisti, ndr)... riconoscono i miliziani dal loro accento non siriano». «Non siamo an-

propellente solido; Pyongyang per quelli a propellente liquido. Inoltre nel 1991 la Siria ha acquistato dalla Corea del Nord 150 missili Scud-C, e nel settembre del 2000 avrebbe testato un missile nordcoreano Scud-D, dalla gittata di 700 km. E avrebbe ricorso al know how nordcoreano anche in campo chimico e batteriologico. Importante anche la base iraniana in costruzione a Latakia e le linee aeree aperte tra Caracas e Damasco.

Ma già a aprile, Hamas e Jihad Islami se ne erano andate da Damasco. Non è chiaro se cacciate da Bashar Assad che voleva accreditarsi presso l’Occidente come baluardo moderato contro l’integralismo, oppure perché con la rivolta in corso in Siria non era per loro più possibile ignorare l’ostilità dell’integralismo sunnita siriano al regime baathista. Gheddafi, che Bashar aveva cercato di difendere in sede di Lega Araba, è stato ovviamente travolto. Ma secondo il Daily Telegraph, poco più di un mese fa esponenti del regime irania-

Con il Presidente resta anche il governo libanese, che dopo l’ultimo ribaltone è sotto l’influenza di Hezbollah. Ma anche lì gli equilibri sono poco stabili e le spaccature più che visibili no avrebbero incontrato esponenti dell’area moderata dell’opposizione siriana: indiscrezioni che sono state ufficialmente smentite, ma non in modo troppo convincente. D’altra parte, proprio questo precedente può spiegare l’altra mossa dell’opposizione che ha cercato un dialogo anche con Mosca. I colloqui non hanno indotto la Russia a spostarsi in modo più impegnativo in senso antriAssad, ma fanno capire che comunque Putin e Medvedev non si farebbero nessun problema a trattare con ogni eventuale nuovo regime. Stessa linea d’altronde della Cina, che ha chiesto a sorpresa a Assad di dar retta al piano della Lega Araba, intanto che è ancora in tempo. In compenso, il 9 ottobre è venuta a Damasco una delegazione al completo dei Paesi dell’Alba, l’alleanza dei gover-

cora riusciti a catturare alcun miliziano (iracheno, ndr)», ha aggiunto Nuaimi, secondo cui «due aerei civili sono atterrati tre giorni fa all’aeroporto militare di Hama con a bordo numerosi combattenti di Moqtada Sadr». Secondo il portavoce

ranza sunnita. Intanto, la commissione incaricata da Damasco di stilare la nuova Costituzione ha già individuato i principi base del nuovo Testo e fondato una commissione ristretta per la sua formulazione finale. Lo riporta il quo-

Da Londra è il presidente Gul a moderare leggermente i toni: «Non siamo convinti dell’ipotesi di fare guerra. Ma ascoltiamo con attenzione i dolori e le richieste legittime del popolo siriano» dell’Esl, la 555esima compagnia dell’esercito regolare, agli ordini di Maher al Assad (fratello del raìs), è stata mobilitata per unirsi ai sadristi sciiti e dirigersi assieme verso Jisr ash Shughur, uno degli epicentri della rivolta nella regione nordoccidentale di Idlib a maggio-

tidiano al-Watan che, citando fonti della commissione, ha detto che il lavoro sarà completato la prossima settimana e che verrà convocata una conferenza stampa per illustrare i nuovi principi costituzionali. La fonte anticipa che la nuova Costituzione fonderà le basi di

ni chavisti d’America Latina. Il ministro degli esteri venezuelano Nicolás Maduro, quello cubano Bruno Rodríguez, il ministro delle Comunicazioni boliviano Iván Canelas, il sottosegretario agli Esteri ecuadoriano Pablo Villagámez e l’ambasciatrice del Nicaragua presso le Nazioni Unite Maria Rubiales hanno detto di essere arrivati «in Siria a mostrare solidarietà ed a sottolineare la nostro condanna delle interferenze straniere nei suoi temi interni».

Ma l’Alba era stata anche l’unica assise mondiale a ribadire a oltranza la sua solidarietà a Gheddafi, e non è che di sostegni al raìs sia arrivato niente: a parte le chiacchiere, e i meeting di preghiera organizzati da Chávez. Si è visto con quali effetti… Maduro era già stato a Damasco nel novembre del 2010 per un vertice trlaterale Venezuela-SiriaBielorussia, dalla Bielorussia è appunto appena arrivata una dichiarazione di appoggio ad Assad da parte degli studenti siriani ivi residenti, e sembra che armi nord-coreane stiano ancora arrivando in Siria. Poi con la Siria resta il governo libanese, che dopo l’ultimo ribaltone è sotto influenza di Hezbollah. Ma anche lì sono equilibri poco stabili, e due deputati per e anti-Assad si sono appena menati in diretta televisiva.

uno Stato civile e democratico, facendo notare che sono state analizzate alcune delle costituzioni vigenti, tra cui quella della Francia e del Marocco. In ogni caso, il cambiamento di marcia da parte di Ankara segna in qualche modo la fine di un armistizio, se non proprio di un sodalizio, che durava da tempo. Erdogan vedeva in Assad un solido ponte dove far passare il proprio lavorio diplomatico in vista di una maggiore influenza nell’area, e ne aveva sempre appoggiato le posizioni. A livello internazionale, i due hanno agito di concerto per almeno un lustro, operando grandi cambiamenti e riuscendo a contenere l’Iran “nucleare” di Mahmoud Ahmadinejad. Il sangue però sembra essere divenuto troppo anche per i turchi, che hanno abbandonato

Damasco al proprio destino.

Un destino che le sanzioni internazionali vorrebbero il più pacifico possibile, ma che la posizione granitica del dittatore sembra invece volgere al peggio. L’Occidente, come al solito, risulta quasi inutile: tanto incisivo nella crisi libica – con tutti i dubbi del caso – non trova una posizione comune in quella siriana. Sperando che il tempo non sia troppo tiranno e che le vittime non aumentino ancora, è il momento di prendere in mano il destino anche di quella protesta: prima che finisca come è finita con la Germania di Hitler o la Romania di Ceausescu. Perché una lunga e sanguinosa guerra civile non aiuterebbe nessuna delle parti in causa, e porterebbe con ogni probabilità alla morte del raìs.


pagina 14 • 23 novembre 2011

le rivolte arabe/Libia

L’esecutivo preparerà ed approverà la Costituzione e porterà il Paese alle prime elezioni libere dalla Rivoluzione del Colonnello

I “tecnici” di Tripoli

Sotto la guida di Abdurrahim el-Keeb nasce il primo governo post Gheddafi. Che non consegnerà al Tribunale dell’Aja Saif al Islam di Antonio Picasso poco più di un mese dal linciaggio di Gheddafi, la Libia post guerra civile compie i primi passi verso la ricostruzione. Ieri è arrivato a Tripoli il procuratore generale della Corte penate internazionale (Cpi), Louis MorenoOcampo. Motivo della visita stabilire il tribunale presso cui verrà processato il figlio del rais, Saif al-Gheddafi. Il magistrato argentino ha negato l’eventualità di un’estradizione. A patto però che il tribunale dell’Aja abbia voce in capitolo. L’ex delfino del colonnello, quindi, comparirà davanti a una corte libica – integrata da magistrati stranieri – e a questa risponderà dei crimini commessi dalla sua intera famiglia. «In maggio avevamo spiccato un mandato d’arresto nei confronti di Saif, perché eravamo in possesso delle prove sufficienti per accusarlo di crimini di guerra», ha detto Ocampo. «Tuttavia, abbiamo constatato che la Libia intende giudicare i suoi deposti tiranni. La corte internazionale è qui per capire quale strada intenda seguire Tripoli in questa scelta e per fornire la propria cooperazione». Con la missione di Ocampo, l’Onu ha voluto ricordare al Comitato nazionale di transizione (Cnt) che, sulla base della risoluzione del Consiglio di sicurezza, il governo ad interim è chiamato “lavorare insieme agli uffici della corte dell’Aja”. La comunità internazionale non vuole precludere un diritto di sovranità alla nuova Libia. È però interessata a far sì che il Cnt non sia né troppo indulgente né troppo duro con Saif.

A

Due i motivi di tanto interesse della Cpi e al tempo stesso della sua cautela. Primo evitare recrudescenze. Chi assicura che la guerra civile sia davvero terminata? Gli abiti indossati da Gheddafi junior sono quelli dei tuareg. Questo significa che al sud persistono sacche di instabilità che Tripoli è ancora impegnata a sgonfiare. Tempi di realizzazione: non ci è dato saperli. I fedelissimi del colonnello possono essersi messi d’accordo con le tribù locali, perfino con i militanti dell’Aqmi, pur di continuare a combattere. In un video

affinché i libici non liquidino Saif senza prima aver effettuato un’autopsia sul cadavere del regime. Già il colonnello è stato eliminato in una maniera un po’ troppo precipitosa. MorenoOcampo vuole mettere le mani sul figlio sopravvissuto. Ma a tempo debito. L’importante è far luce sui crimini commessi in questi oltre quarant’anni di dittatura. Anche a costo di mettere in imbarazzo le potenze straniere.

trafugato sabato, Saif prevede una nuova ondata di violenze nell’arco di un paio di mesi. È un problema che le forze ribelli sta già constatando. La resa immediata degli uomini di Gheddafi, così com’era stata pronosticata una volta massacrato il rais, non è avvenuta. In più, molti gruppi rivoluzionari sembrerebbero tutt’altro che dell’idea di consegnare le armi al Cnt. Insomma, è possibile che Tripoli debba gestire scontri tribali nel futuro prossimo. Questo non permetterebbe alla magistratura di portare a termine in maniera obiettiva un processo post Gheddafi. Inoltre,

Un’immagine delle manifestazioni che si sono svolte a Tripoli per festeggiare la caduta del Colonnello Muammar Gheddafi. Dopo alcuni mesi, il raìs è stato scovato e ucciso dalle milizie ribelli 33 giorni fa. In alto, una fotografia del nuovo premier libico Abdurrahim el-Keeb. Nella pagina a fianco Saif al Islam Gheddafi, il figlio ed erede del dittatore, che si è arreso alle nuove forze

sembra che Saif avesse offerto dieci milioni di euro alle tribù tuareg per aiutarlo a fuggire. La cifra non è stata prelevata, perché ai ribelli gli stessi tuareg hanno fatto la soffiata. Ma, conoscendo il doppio gioco che infesta le dune del Sahara, è plausibile immaginare che altro denaro sia circolato dalle sonanti tasche dei Gheddafi alle tribù. E queste, se ben lubrificate, potrebbero essere ben liete a proseguire un’attività per loro tradizionalmente quotidiana: la guerriglia nel deserto contro chiunque. Seconda questione: a L’Aja, come a New York, si sta pressando

Più complessa è la posizione di Abdullah al-Senussi, ex capo dell’intelligence del regime. Per molti aspetti la sua condizione è quella di un dead man walking. Sa troppe cose del regime perché la sua vita non possa essere messa in discussione. Soprattutto da parte di quegli ex amici di Tripoli che vogliono evitare che trapelino informazioni imbarazzanti. Sull’ex comandante pesa già una sentenza della giustizia francese per l’attentato al volo Uta 772, esploso nei cieli del Niger nel 1999 (170 morti, di cui 54 francesi). Parigi ha già chiesto di mettere le mani sul detenuto. Per inciso: in chiusura del giornale è arrivata la notizia da Washington che la cattura di Senussi sia ancora da confermare. Preso o no, non ci si stupirebbe se un giorno si venisse a sapere che Senussi oppure Saif al-Gheddafi siano morti scivolando nella doccia della loro cella e prendendo un caffè in casa propria. Passo altrettanto fondamentale nella ricostruzione della Libia, e forse anche meglio piantato, è quello della nascita di un nuovo governo ad interim. A presiederlo è Abdurrahim el-Keib, 61 anni, ex consulente delle più importanti


23 novembre 2011 • pagina 15

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Fondamentali per la cacciata del raìs, siamo stati dimenticati

Direttore da Washington Michael Novak

Ma l’Italia sta perdendo il treno per la Libia

Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

di Mario Arpino veri motivi per cui l’Occidente, la Nato ed alcuni volonterosi sono rimasti coinvolti nella campagna aerea sopra la Libia sono ancora oggetto di approfondimento. Ufficialmente, tutto è iniziato dopo le prime sommosse a Bengasi e a Misurata e le conseguenti repressioni dei lealisti di Gheddafi. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 1970 e 1973, votate in tempi insolitamente brevi, e la susseguente conferenza convocata il 17 marzo a Parigi dal presidente Sarkozy, hanno dato l’avvio ai fuochi d’artificio. Una delle ultime discussioni del dibattito internazionale è avvenuta a Roma pochi giorni fa, nell’ambito di un seminario nel quale, con il supporto dell’Istituto Affari Internazionali, ha esordito la neonata Nato Defense College Foundation. Non vi è ombra di dubbio che i due promotori di questa campagna siano stati Francia e Regno Unito, cui, con prospettive e motivazioni diverse, si sono poi aggiunte altre 14 nazioni, tra le quali l’Italia. Ormai, l’opinione comune è che i propositi umanitari che hanno dato l’avvio all’iniziativa siano stati senz’altro un fattore importante, ma sicuramente non l’unico e, con buona probabilità, nemmeno il più rilevante. Alcuni analisti parlano, senza troppe perifrasi, di una sorta di copertura ad operazioni che stavano comunque maturando da tempo. Il contributo dato dall’Italia è passato sinora sottotraccia, tanto che Barack Obama, nell’incontro di vertice a Nizza ai margini del G20, aveva pubblicamente lodato Sarkozy e la Francia,“…senza la quale questa guerra non si sarebbe potuta fare”. Per l’Italia, niente.

I

Ma ora che, con il contagocce, iniziano ad essere conosciuti i numeri dell’operazione Nato sulla Libia, è facile riscontrare come l’Italia abbia assolto con efficacia un ruolo di pieno rilievo, pur partendo dalla convinzione iniziale che questa “strana guerra” non si sarebbe mai dovuta fare. Ora auspichiamo pari efficacia anche nella fase politica, visto che questa, ai fini degli interessi nazionali, potrebbe avere valenza assai superiore al numero di bombe sganciate, alle sortite volate e agli obiettivi colpiti. Delle oltre 23 mila sortite volate dalle 17 nazioni (aeronautiche e, quando il caso, aviazioni imbarcate) che hanno partecipato alla fase attiva, secondo dati non ufficiali la palma andrebbe agli Stati Uniti, seguiti da Francia, Regno Unito, Italia, Canada, Emirati, Turchia, Qatar, Svezia, Belgio, Spagna, Olanda, Norvegia, Giordania e Grecia.Tuttavia solo 9 nazioni su 17, tra cui l’Italia, hanno partecipato alle operazioni di attacco con sganci reali. In quanto all’utilizzazione di armi di precisione - più efficaci, ma anche più dispendiose - si tratta di oltre 7.700 ordigni. Noi abbiamo utilizzato esclusivamente questo tipo di armamento, per una quantità che risulterebbe essere circa il 10% di tutta la coalizione. Quindi, se dovessimo badare solo ai numeri, potremmo essere considerati mediamente al quarto posto nella scala dei contributi. Ma non è così. Se, sotto altro profilo, computassimo anche le missioni di sorveglianza e ricognizione, dove avremmo prodotto circa il 22% del totale, saremmo al secondo posto. Poi, ci sarebbe da mettere in conto il supporto logistico fornito dalle nostre sette basi aeree a una media nel periodo di 200 velivoli, con punte fino a 250. Certo, noi siamo fieri di aver contribuito a “salvare i civili” da Gheddafi, come voleva l’Onu e ripeteva la Nato, anche se nulla abbiamo potuto per salvarli anche dalla vendetta dei vincitori. Ma è probabile che così abbiamo perso molto di ciò che dopo la “cacciata dei ventimila” avevamo ricostruito in quarant’anni di paziente tessitura. Ora, il nuovo Governo dispone di tutti gli elementi di forza per farsi valere nel processo di pace. E sarà bene che lo faccia da subito, prima che si inneschino alcuni “espropri”che i promotori della strana guerra stanno già cercando di perpetrare ai nostri danni.

i che d crona

Indicativo il fatto che la maggior parte dei ministri sia composta da reduci della guerra civile: Osama el-Gawaly va alla Difesa; Abdel Rahman Beneza, invece, alle Attività petrolifere major petrolifere arabe e statunitensi. Si tratta di un personaggio già apprezzato, soprattutto all’estero. Tuttavia, il suo curriculum politico non è dei più limpidi. Come oppositore a Gheddafi non gli si può dire nulla. Diversamente la potrebbero pensare le agenzie di intelligence statunitensi. El-Keib infatti è un fervente sunnita. Al punto tale da aver aiutato finanziariamente la comunità islamica di Tuscaloosa (Alabama, Usa), la quale è stata sorvolata dalle indagini post 11 settembre 2001.

C’è collusione? È indicativo invece come la maggior parte degli altri ministri neo eletti siano reduci della guerra civile. Osama el-Gawaly, ex comandante della guarnigione di Zintan, area dove è stato scovato Saif, ha assunto il dicastero della difesa. Abdel Rahman Beneza, infine, sarà il responsabile delle attività petrolifere. Sebbene queste ultime sia il settore che maggiormente necessita un riavvio affinché la Libia torni a pomparci i suoi idrocarburi,Tripoli vuole realizzare una vera rivoluzione culturale, che permetta di chiudere davvero capitolo Gheddafi. L’università della capitale in questi giorni ha riaperto le aule. Gli studenti si stanno rendendo conto che la sollevazione ha spazzato via un sistema scolastico modellato sul culto della personalità dell’ex rais. Appariscenti mura-

les con la scritta “Libia libera”, bandiere tricolori rosso, nero e verde che sventolano a ogni angolo del campus e tante studentesse, alcune con l’hijab. Il miglioramento del sistema educativo è cruciale, ma difficile. Bisogna cancellare una struttura che risale agli anni Ottanta, improntata sull’indottrinamento dello studente e non sulla sua crescita culturale. Agli albori del regime di Gheddafi nel 1969, vennero costruiti nuovi atenei, incoraggiate tecniche di apprendimento moderne e introdotte materie innovative. L’avvento della dittatura e la pubblicazione del Libro Verde bandirono lo studio di inglese e francese e fu ridotta l’importanza di discipline come matematica, scienze e medicina. Gli studenti superavano gli esami non dimostrando quanto avessero appreso, ma scandendo slogan patriottici. Per il rinnovamento del sistema, ai nuovi dirigenti è chiesto di valutare quali materie mantenere e quali cancellare. Al momento le modifiche più sostanziali riguardano il programma di storia, epurato dalle imposizioni e censure volute da Gheddafi. Un’altra questione delicata è cosa fare dei professori noti per la loro fedeltà al rais. Alcuni ritengono sia giusto avviare un processo di riconciliazione, altri chiedono che siano allontanati dall’insegnamento. È un dibattito appena avviato, ma che merita un incentivo.

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


Liberal’iPad

App di

Scarica l’

gratis fino

al 31 dicembre

Da oggi puoi sfogliare liberal dove vuoi, quando vuoi, sul tuo tablet

Fino al 31 dicembre 2011 potrai leggerci gratuitamente

Dal 1 gennaio 2012 l’abbonamento annuo ti costerà soltanto 50 euro invece di 130


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.