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he di cronac

Non dovete combattere troppo spesso contro un solo nemico, altrimenti imparerà tutte le vostre tattiche Napoleone Bonaparte

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 25 NOVEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Tutti i mercati continentali reagiscono al “nein” con una flessione, mentre lo spread tocca i 480 punti

La guerra degli Eurobond L’Italia torna tra i Grandi. Monti e Sarkò: «Cambiamo le regole» Parigi e Berlino: «Colpiti dalle impressionanti riforme di Mario, lo sosterremo e verremo a Roma». La Merkel resiste agli Stability Bond: ma ormai è sotto assedio e l’Eliseo ha in mente un piano preciso... UNA VITTORIA ITALIANA

LA GERMANIA DA CONVINCERE

La prima pietra Due contro uno, di un nuovo Angela sente governo della Ue puzza di bruciato di Rocco Buttiglione

di Gianfranco Polillo

l vertice triangolare Merkel-Monti-Sarkozy (in ordine alfabetico) non poteva produrre risultati immediati, mapone tuttavia la prima pietra di una politica. In primo luogo è importante il fatto che il vertice abbia avuto luogo. Questa volta Merkel e Sarkozy non si sono trovati da soli. Sarkozy ha rimarcato che l’Italia è la terza grande economia della zona euro. Dopo un intervallo l’Italia riprende il posto che le spetta nella Unione Europea. a pagina 5

e non è un assedio, poco ci manca. Angela Merkel è stretta in una morsa che le lascia poco spazio di manovra. Da un lato i suoi “mercanti nel tempio” che vorrebbero tutti i benefici dell’euro senza pagare dazio alcuno. La protezione di un grande mercato, come quello dell’eurozona, dove le esportazioni tedesche mantengono il loro primato e l’utilizzazione dei proventi che ne derivano per fini esclusivamente tedeschi. Dall’altro il mondo intero. a pagina 4

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L’opinione del grande giurista

Onida:«Fare in fretta, le Borse non aspettano» «Perdere tempo è dannoso, serve una leadership forte e determinata» Errico Novi • pagina 3

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Cori di consensi per l’esordio del ministro

Fornero comincia da pensioni e Fiat «Gli industriali non lascino il Paese. La riforma dei vitalizi c’è, va sveltita»

L’intervento davanti al Csm

Napolitano: «Un nuovo codice per i giudici» Monito del capo dello Stato alle toghe: «È arrivato il momento di cambiare rotta» Giancristiano Desiderio • pagina 6

Osvaldo Baldacci • pagina 7

Oggi si vota in Marocco, lunedì in Egitto: Karim Mezran analizza il probabile esito

E se gli islamici vincono tutte le elezioni? «Ma forse a rimetterci sarà proprio il fondamentalismo» di Luisa Arezzo è poco da farsi illusioni: gli islamici in Nordafrica conquistano potere, ma forse questo non significherà la catastrofe che tutti immaginano. Dall’Egitto che lunedì andrà al voto e dove i Fratelli Musulmani vinceranno, al Marocco che oggi comincia la sua tornata elettorale e che vede il Pjd in pole position. Dalla Tunisia, che il mese scorso ha sancito la vittoria del partito islamico moderato Ennhada, alla Libia che manifesta un rigurgito islamista mai visto prima

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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e fino alla blindata Algeria, è tutto un crescendo di potere religioso. «Inevitabile» secondo Karim Mezran, presidente del Centro Studi Americani e professore di Storia del Medio Oriente presso il Bologna Center della Johns Hopkins University. Partendo dalla situazione in Egitto: «I militari hanno cercato fin dall’inizio di mantenere il controllo, usando tattiche dilatorie e di “melina”». a pagina 10 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto I leader di Parigi e Berlino entusiasti del Professore: «Fiducia nell’Italia, sosterremo le sue riforme e ci rivedremo a Roma»

Tutti pazzi per Mario

Il piano Sarkozy-Monti: far digerire a Merkel gli eurobond, ma con forti sanzioni per gli inadempienti. Grande accoglienza per il nostro premier le borse di Riccardo Paradisi

ostegno all’Italia da parte di Francia e Germania ma condizionato dalle riforme che Monti promette di realizzare nei prossimi mesi – «faremo i compiti a casa» promette il premier italiano – Nein secco invece della Cancelliera Merkel sugli eurobond e su una Bce più interventista sulla crisi.

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La sostanza del vertice di Strasburgo è questa. L’asse franco-tedesco riaccoglie l’Italia al tavolo decisionale europeo e afferma la propria volontà di sostenerlo. Angela Merkel non nasconde però l’enormità del compito italiano: «Auguro a Monti un pieno successo perché ha un grande lavoro davanti». Un ”lavoro molto impressionante”dice la Merkel di fronte alle misure anche «strutturali» che il governo italiano è intenzionato ad adottare. Monti presenta una rassegna di quelli che ha chiamato “compiti a casa”: «L’Italia centrerà il pareggio di bilancio nel 2013 e presenterà un rilevante avanzo primario l’anno successivo». Ma per centrare questo obiettivo – impressionante per la Merkel e prima di tutto per gli italiani – occorre appunto «fare sforzi particolari a causa dell’elevato stock di debito». Rigore ed equità ha sempre detto Monti e a Strasburgo ribadisce il concetto. Tutto dovrà avvenire «in modo sostenibile, quindi attraverso

Il rendimento del Btp a 10 anni risale al 7%, lo spread con i bund tocca i 480 punti

Dopo il “no” tedesco le Borse si deprimono stata improvvisa, non esagerata ma comunque indicativa. La corrente di vendite sulle Borse di tutta Europa e anche su Piazza Affari che ha colpito ieri i mercati a fine giornata è presumibilmente imputabile al “nein”espresso dalla Cancelliera al nuovo tentativo di rimettere gli eurobond al centro del dibattito su come salvare l’Eurozona. L’indice Ftse Mib segna una lieve perdita dello 0,03% dopo aver registrato un calo superiore al punto percentuale. Parigi cede lo 0,13%, Londra lo 0,60%, Francoforte lo 0,58%. Le vendite si sono registrate subito dopo l’incontro tra il premier Monti, la cancelliera tedesca Merkel il presidente francese Sarkozy che non nascondono le loro preoccupazioni, rallenta. Il nuovo «no» della cancelliera tedesca all’ipotesi degli Eurobond probabilmente deprime i listini del Vecchio Continente. Il rendimento del Btp a 10 anni risale al 7% e il differenziale con il Bund si riavvicina a 480 punti base (478,1). Stabili tassi e spread di Spagna e Francia: il rendimento dei Bonos spagnoli è al 6,57% con lo spread a 435 punti e il tasso degli Oat francesi è al 3,63% con la forbice rispetto al Bund a 142,2 punti. Intanto Borsa Italiana aderisce all’iniziativa promossa da Abi e dai principali istituti bancari italiani e partecipa al Btp Day del prossimo 28 novembre. Per l’intera giornata la società non applicherà alle banche e agli intermediari partecipanti all’iniziativa alcuna commissione di negoziazione per le ope-

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razioni di acquisto dei titoli di stato italiani in «conto terzi» effettuate sul Mot. «Riteniamo importante dare il nostro contributo alla riuscita di questa iniziativa congiunta che ha l’obiettivo di sostenere e rafforzare la fiducia degli investitori privati in una fase delicata per la nostra economia» ha commentato Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato di Borsa Italiana. Per quanto riguarda i titoli italiani, Mediobanca conferma il rialzo dai minimi di seduta dove è scesa dopo che una fonte della Fondazione Mps ha confermato a Reuters di aver iniziato nei giorni scorso la vendita progressiva della propria partecipazione in Piazzetta Cuccia.

Resta in denaro Finmeccanica: il mercato, secondo un operatore, sembra apprezzare la prospettiva di un imminente ritiro delle deleghe da parte di Guarguaglini. In evidenza l’automotive tricolore, contagiato dall’effervescenza del settore europeo (+2,5%). Fita industrial, secondo un operatore, beneficia anche delle indicazioni per il mercato dei macchinari agricoli fornite ieri dal numero uno del settore Deere & Co. CNH, secondo Mediobanca, genera il 56% delle vendite di Fiat Industrial. Ieri è ßtato anche l’ultimo giorno lavorativo a Termini Imerese. Per la banca d’affari «questa chiusura abbatterà circa 150/200 milioni di euro di costi fissi e variabili che, in un anno duro come si prospetta il 2012, sarà un sostegno alle attività europee in difficoltà».

una crescita economica che garantisca la tenuta dei conti. Non è in discussione l’obiettivo del pareggio di bilancio del 2013 ma è in discussione cosa fare se si entra in una fase recessiva peggiore del previsto. È un tema noto a ciascuno, tutti devono fare il compito a casa, noi lo faremo, dando anche la soluzione ai problemi comuni».

Ma sarebbe inutile lavorare su scala nazionale e non agire contestualmente a livello europeo, riformando la governance dell’Unione e la funzione della Bce. E se la Cancelliera su questo punto s’ostina a resistere - malgrado il disastro di mercoledì dei bond - Sarkozy, con un piede già nella crisi, sembra cominciare a capire l’antifona. «Le prime economie dell’Europa sono determinate a fare di tutto per sostenere e garantire la solidità dell’euro.Vogliamo un euro forte e stabile, vogliamo fare in modo che sia una valuta competitiva e che ci sia un progetto politico per l’euro». Monti segue in scia: «Abbiamo espresso tutti e tre insieme che la priorità principale è una buona salute dell’eurozona e la salda tenuta dell’euro». Forme e modi di sostegno all’euro devono però ancora essere individuati con precisione. I tre sono d’accordo sul fatto però che quali che siano gli ammortizzatori non potranno più fornire alibi per ulteriori disinvolture sul bilancio dei paesi eu-


prima pagina

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l’intervista

«Basta attese, i mercati non scherzano» Fabrizio Onida: subito un piano per difendere i titoli, poi un ministro europeo dell’Economia di Errico Novi

ROMA. Aspettare? Strada già battuta. Senza successo. I mercati, loro, non aspettano affatto. E scommettono sul default, forti di un meccanismo inarrestabile che produce sfiducia, innalzamento dei tassi sui titoli, quindi maggiore indebitamento, quindi ulteriore sfiducia. Fabrizio Onida è tra gli economisti italiani con più specifica visione europea: oltre che per la cattedra di Economia internazionale di cui è titolare alla Bocconi, anche per il suo passato di presidente dell’Ice. E non trae indizi di grande incoraggiamento dalla conclusione del vertice di Strasburgo. Segnata come già avvenuto altre volte da una valutazione positiva di alcuni strumenti di difesa comune del debito, la cui effettiva introduzione viene però sempre proiettata nel futuro. È ancora questo l’ostacolo, professore? Essere d’accordo ma non procedere? Guardi, intanto a me pare che la cancelliera tedesca tenda ad assecondare le perplessità di alcuni esponenti del suo Parlamento. Di certo è questo il suo incedere rispetto all’emissione di titoli comuni. Stability bond sì ma con molte condizioni preliminari. Nessuno nega che quella dei titoli comuni sia un’operazione assai complessa, più di quanto appaia a molti. Nello stesso tempo tutti vediamo che i mercati giocano come giocano. Cioè in modo pericoloso. Con la conseguenza di rendere l’emissione di nuovi titoli ogni volta più penosa. Aggiungiamo che anche la Bce ha le proprie ragioni ad opporsi a una modifica statutaria che le consenta di fare

da prestatore di ultima istanza. Tutte cose note, vere. Che non attenuano il pericolo proveniente dai mercati. E da Strasburgo arrivano elementi positivi soprattutto in termini di una credibilità italiana pienamente ritrovata, ma non rispetto a eventuali colpi d’ala. Mettiamola così: la speculazione continua a trovare motivi per ritenere di poter scommettere su una difficoltà a ridurre deficit e debito in modo convincente. Perciò dopo aver considerato probabile il default greco ora passa al Portogallo, a sua volta downgradato. Gli investitori non solo non affollano le aste dei titoli ma vendono quelli che già posseggono. Con l’ormai nota conseguenza che lo spread, o meglio gli spread, si inalzano ancora. E qui il meccanismo sfugge di mano.

non avesse acquistato i titoli pubblici sarebbe stata colpevole di sovversione. Paradigma illuminante. Parliamo di una fase, di un decennio nel quale in Italia si è consumata una progressiva rottura tra Banca e Tesoro. In ogni caso non si esce dalla situazione se non c’è oggi in Europa un intervento provocato da un input politico di acquistare questi titoli, e il soggetto che li acquista, o l’unità politica necessaria per un fondo di garanzia. Non ci sono chiusure assolute. Ma la Merkel fa capire che si tratterebbe in ogni caso di un processo lungo, che è cosa verso cui andare ma possibile con impegni precisi dei Paesi membri. Ma allora serve un piano d’emergenza temporaneo. In attesa che si arrivi a un ministro dell’Economia europeo o a un fondo monetario europeo. Con la Bce protagonista? Dei tre leader riuniti a Strasburgo, Monti è il più aperto a nuove soluzioni. La Banca centrale europea è guidata da un italiano. In effetti l’unica autorità oggi esistente per assolvere le funzioni di cui parliamo è proprio la Bce. Che però non si dice disposta ad acquistare tutti i titoli messi in vendita perché lederebbe in questo modo la propria capacità di garantire la stabilità monetaria. Cioè verrebbe meno alla propria funzione di preservare l’euro dall’inflazione. Funzione che non mi pare oggi venga messa in discussione. Professore, mettiamola in modo drastico: lei crede che con l’attuale leadership europea, quella delle istituzioni

La mossa compiuta dalla Bundesbank ha un precedente in Italia: Carli sosteneva che non assorbire i buoni lasciati invenduti sarebbe stato un atto di sovversione

ropei. Per questo Francia e Italia - il pronunciamento in merito della Germania è tacito - si sono detti favorevoli a sanzioni per chi non rispetta il patto di stabilità anche si è opportunamente ricordato che nel 2003 a infrangere le regole furono le stesse Francia e Germania che oggi fanno i primi della classe nell’eurozona. Da parte dei tre leader europei viene espressa anche «fiducia nella Banca centrale europea e nei suoi leader». Ma quali dovrebbero essere queste misure di sostegno all’euro? Sarkozy anticipa che nei prossimi giorni Francia e Germania faranno delle proposte concrete per la modifica dei trattati Ue con gli obiettivi di «migliorare la go-

Lo capiscono tutti che arrivare a emettere titoli a tassi del 7 o dell’8 per cento produce un aggravio del deficit per i prossimi 4 o 5 anni. E che si va dunque nella direzione esattamente opposta a quella necessaria per restituire fiducia. È così, se non c’è un deciso intervento a sostegno dei debiti sovrani. Da attuare come? È interessante quanto avvenuto mercoledì in Germania, con la scelta della Bundesbank di assorbire i titoli tedeschi invenduti. Era così ai tempi di Carli, secondo il quale se la Banca di’Italia

vernance dell’Eurozona» e di una «maggiore integrazione delle politiche economiche «Informeremo il governo Monti delle nostre proposte nei dettagli – dice Sarkozy - e speriamo che l’Italia voglia associarsi a queste proposte».

tro» ma «la crescita».«Dobbiamo andare verso una unione fiscale se vogliamo dare stabilità radicale all’Eurozona – dice Monti onorando la politica del bastone – ma in questo contesto gli stability bond – politica della carota - potrebbero dare

comunitarie e quella dei singoli Paesi membri, davvero sarà possibile arrivare a un deciso cambio di passo? Se lei mi chiede se oggi ci sono i Mitterand e i Kohl le devo per forza dire di no. Con la postilla che i leader di oggi sono espressione dei direttori che li individuano. Quindi queste leadership sono incompatibili con un vero cambiamento. Messa così tendo a dire di sì. E il giudizio proviene dal fatto che ancora non sono state decifrate fino in fondo le implicazioni e l’entità della crisi del 2007-2008. Né sappiamo davvero quanti titoli tossici ci sono ancora in circolazione. Sappiamo che in questi anni si è discusso, e che si continua a discutere, della sorveglianza dei mercati. Di come regolare il sistema bancario. Ancora nulla è stato realizzato, però. E intanto non possiamo che interrogarci sul modo in cui viene utilizzata la liquidità circolante. Nemmeno l’oro ha visto particolarmente accresciute le proprie quotazioni. E in tempi in cui viene svalutata la forma di investimento tradizionale e sicura dei titoli pubblici, non c’è che da restare smarriti.

governance e di sanzioni: è un pacchetto complessivo che presenteremo insieme». Tradotto: Monti e Sarkozy sono favorevoli agli eurobond, la Merkel ancora no. La Francia lascia invece cadere formalmente il pressing sulla Banca centrale

«Non è in discussione l’obiettivo del pareggio di bilancio del 2013 ma è in discussione cosa fare se si entra in una fase recessiva peggiore del previsto. È un tema noto a ciascuno, tutti devono fare il compito a casa, noi lo faremo» Proposte ancora generiche che per essere tali dividono tutti. L’elemento di divisione sono però ancora gli eurobond «Non sono necessari» - ribadisce la cancelliera Merkel, specificando che la priorità attuale «non è essere a favore o con-

un contributo decisivo. Tutto è possibile dentro una solida unione fiscale, molte altre cose rischiano di diventare pericolose al di fuori di un’unione fiscale». Sulla stessa linea Sarkozy: è «pericoloso parlare di eurobond senza parlare, insieme, di

europea. Dopo il vertice trilaterale Sarkozy ha cambiato decisamente linea rispetto ai forti richiami lanciati dal suo governo verso l’istituzione monetaria: «È stato concordato di rispettare l’indipendenza della Bce. Dobbiamo avere fiducia in questa

istituzione essenziale, e astenerci dal fare commenti positivi o negativi. Ci siamo adattati alla situazione». Ci saranno altre occasioni comunque. La cancelliera tedesca e il presidente francese saranno a breve a Roma per un altro incontro trilaterale su invito del premier italiano Monti. Chissà se per quella data, ancora da destinare, Monti e Sarkozy saranno riusciti a convincere la Merkel sulla necessità di una riforma della Bce e sugli eurobond. L’Europa se lo augura. Insieme a quei tedeschi che pensano con Helmut Kohl che l’euro non serve a germanizzare l’Europa ma a europeizzare la Germania.


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l’approfondimento

Ambigua anche la posizione Usa: se da una parte apprezza il mercato unico europeo, dall’altro teme la concorrenza della valuta

Assedio a Berlino

La Merkel è stretta in una morsa che le lascia poco spazio di manovra. Da un lato i suoi “mercanti nel tempio”, che vogliono i benefici dell’Euro senza pagare dazio. Dall’altro il mondo, che preme per evitare il “double deep” di Gianfranco Polillo e non è un assedio, poco ci manca. Angela Merkel è stretta in una morsa che le lascia poco spazio di manovra. Da un lato i suoi “mercanti nel tempio”che vorrebbero tutti i benefici dell’euro senza pagare dazio alcuno. La protezione di un grande mercato, come quello dell’eurozona, dove le esportazioni tedesche mantengono il loro primato e l’utilizzazione dei proventi che ne derivano per fini esclusivamente tedeschi. Dall’altro il mondo intero che preme affinché si impedisca la prospettiva del “double deep”: la nuova recessione che metterebbe in ginocchio il mondo intero. Inutile dire che le pressioni maggiori vengono dall’Occidente. Non sono solo i Paesi più esposti a premere per una nuova governance europea, capace di far fronte alla grave crisi di liquidità che ne caratterizza le relative economie e che rischia di trasformarsi – se si prolunga nel tempo – in un vero e proprio stato d’insolvenza, che metterebbe fine all’euro e al sogno della stes-

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sa identità europea. Spagna, Portogallo, Grecia e Italia sono in prima linea nel sostenere questa posizione: un fronte comune in cui si giocano interessi economici e prestigi personali. La Francia è più defilata e incerta.Teme per la sua tripla A, destinata a evaporare se la pressione dei mercati dovesse continuare; ma, al tempo stesso, non vuol rinunciare a quel legame privilegiato con il suo potente vicino. Ha sempre la speranza che, nel possibile disastro collettivo, scatti una sorta di piano B: un’unione doganale ristretta, con una moneta unica, che tagli in due il vecchio disegno di un euro esteso anche ai partner più deboli. La Francia conserverebbe, seppure ridimensionato, il sogno della “grandeur”. La Germania avrebbe a fianco a sé un alleato che possiede ancora un deterrente nucleare contro l’orso russo: un animale che , a quanto pare, ha perso il pelo, ma non il vizio. In una situazione così incerta, Josè Barroso, nella sua qualità di presidente della Commissione europea, ha deciso di

giocare la sua carta. Una mossa pesante. Propone di far nascere gli “stability bond”: qualcosa, al tempo stesso, di simile e di diverso dagli euro-bond, proposti a suo tempo da Giulio Tremonti. Quest’ultima proposta ricalcava il vecchio piano Delors, ponendo l’accento su una contraddizione storica dell’Europa dei quindici. Non si è mai visto uno stato tendenzialmente federale operare come l’eurozona. Il suo bilancio è striminzito rispetto a quello degli Stati nazionali che la compongo-

Finora è riuscita a fare lo slalom fra i pericoli, ma i mercati premono

no e impedisce qualsiasi tentativo di politica economica. A differenza degli Usa, dove il bilancio federale è prevalente, non era possibile alcun tentativo di tipo keynesiano a sostegno dello sviluppo.

Questo era, semmai, appannaggio delle singole nazioni, ma in una versione lilliput: capace di generare debito ma non crescita economica. Al tempo stesso il mercato unico, come insegnava Mario Monti prima di diventare Presidente del consiglio, era solo virtuale. Le barriere fisiche, rappresentate dalle scarse vie di comunicazione, ne deviavano la concorrenza, aumentando i costi di transazione – come dicono gli economisti – secondo le caratteristiche territoriali di ogni Stato. Delors, giustamente, suggeriva di seguire la via opposta, che avrebbe recato con sé un’accelerazione nella costruzione politica e non solo economica e monetaria dell’Europa. La logica degli “stability bond” è diversa. Oggi la grande specula-

zione internazionale ha il vantaggio di doversi confrontare con mercati segmentati. Basta un minimo investimento per far crollare, come fossero birilli, il valore dei titoli di ciascun Paese. Una volta l’Italia, l’altra il Portogallo, quindi la Francia e così via. La vecchia storia degli Orazi e dei Curiazi. Se fosse invece la Comunità a emettere bond, come collaterale di tutto o parte del debito dei singoli Stati, lo scontro sarebbe tra eguali. Con un mercato obbligazionario europeo che è maggiore di quello americano, la speculazione, forse, non si fermerebbe; ma accorrerebbe manovrare capitali di ben più ampia portata, facendo crescere il rischio sistemico di ogni operazione. C’è, infine, un altro elemento da considerare: l’atteggiamento degli americani. Partecipano all’assedio contro Angela Merkel o ne sono i coperti sostenitori? Rispondere non è facile: a causa delle profonde fratture, che non da oggi dividono l’establishment di quel Paese. Il manifatturiero,


Le visioni diverse dei tre leader devono incontrarsi ora con il ruolo della Bce nella crisi

La prima vittoria del premier, la prima pietra di una nuova Ue Dal summit di Strasburgo non potevano uscire soluzioni immediate: ma la proposta italiana disegna un’Unione più elastica e articolata di Rocco Buttiglione l vertice triangolare MerkelMonti-Sarkozy (in ordine alfabetico) non poteva produrre risultati immediati, pone tuttavia la prima pietra di una politica. In primo luogo è importante il fatto che il vertice abbia avuto luogo. Questa volta Merkel e Sarkozy non si sono trovati da soli. Sarkozy ha rimarcato che l’Italia è la terza grande economia della zona euro. Dopo un intervallo l’Italia riprende il posto che le spetta nella Unione Europea.

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Naturalmente questo è solo un successo di prestigio ma anche il prestigio conta nelle relazioni internazionali. Prima di venire ai risultati concreti è bene sottolineare un altro punto. Ha fatto buona impressione il fatto che Monti non si sia presentato con l’aria di uno che ha l’acqua alla gola e che chiede soccorso immediato per non affogare. Al contrario si è mostrato fiducioso nei propri mezzi e nella capacità dell’Italia di affrontare con le proprie forze il programma di risanamento che le sta davanti. Nel vertice, come ho già detto, non si sono prese decisioni né sarebbe stato possibile o corretto che decisioni fossero prese. Il luogo della decisione sono gli organi propri dell’Unione. Si delineano però alcuni orientamenti ed alcune posizioni negoziali. Riassumiamo il nodo della questione. La Francia vorrebbe tendenzialmente che la Banca Centrale Europea comprasse tutti i titoli di stato dell’area euro non assorbiti dal mercato, magari emettendo, a questo fine, dei titoli propri. Questa sarebbe, pensa Sarkozy, l’arma assoluta contro i mercati per ripristinare il primato della politica. È, del resto, quello che ha fatto la Bundesbank quando il mercato non ha assorbito per intero una emissione di titoli di stato tedeschi. La Bundesbank ha, semplicemente, comprato tutti i titoli inesitati. La Germania, però, non vuole che la Banca Centrale Europea faccia la stessa cosa per i titoli degli altri stati europei. I tedeschi pensano che se la Banca Centrale Europea intervenisse in modo illimitato questo incoraggerebbe gli stati meno responsabili ad andare avanti per la loro strada, producendo inflazione ed esportandola negli altri paesi europei. I tedeschi pensano che bisognerebbe piuttosto intervenire in altri due modi. Prima di tutto è necessario un controllo centrale sui bilanci dei singoli stati e sulle loro politiche di produttività in modo da evitare che uno stato possa fare troppi debiti che poi non è in grado di ripagare. Il vincolo costituzionale al pareggio di bilancio corrisponde a questa preoc-

cupazione tedesca. In secondo luogo bisogna pensare a procedure che consentano ad uno stato di fare un fallimento ordinato, con il minimo di danni per se stesso e per gli altri. La

Ha fatto buona impressione il fatto che Monti non si sia presentato con l’aria di uno che ha l’acqua alla gola proposta di Monti si situa, mi pare, a metà strada fra queste due proposte estreme. Bisogna consentire alla Bce o, in alternativa, al fondo salvatati di fare gli eurobonds o di disporre comunque di mezzi sufficienti a battere la speculazione. La Bce non sarebbe però tenuta a compiere queste operazioni di salvataggio. Essa le farebbe solo nel caso in cui lo stato in questione accettasse il vincolo di una rigorosa politica di risanamento. Se uno Stato non potesse o non volesse accettare questo percorso bisognerebbe procedere ad un fallimento ordinato.

G l i S t a t i che hanno i conti in ordine o comunque sono in grado di riportare in ordine i loro conti non verrebbero, in questo modo, abbandonati alla speculazione. Quelli che invece sono in difficoltà non a causa di una ondata speculativa isterica ma per dubbi legittimi sulla loro capacità di fare fronte ai loro impegni saranno accompagnati verso il fallimento ordinato. Dalla proposta italiana risulta una Unione europea più elastica ed articolata, che dispone di un armamentario più vasto e flessibile per fare fronte

alle crisi. La discussione non si è conclusa e ciascuno dei contendenti ha tenuto a ribadire le sue posizioni bandiera. di L’impressione è comunque che si cominci a delimitare uno spazio all’interno del quale cercare una soluzione comune.

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specie quello che esporta, è stato sempre a favore del mercato unico e dell’euro. Un conto è vendere in tanti piccole botteghe, ciascuna con le sue regole e la sua moneta; un altro poter disporre del più grande mercato del mondo, sempre più omologato non solo dal punto di vista economico, ma nella progressiva uniformità dei gusti e dei comportamenti dei consumatori. Un solo esempio per capirne il vantaggio. L’i-pad costa sempre circa 800: siano essi dollari o euro. Questo significa che se l’acquisto avviene negli Usa, a causa della diversità del cambio, si ha un risparmio di circa il 30 per cento. Perché Apple non pratica una politica dei prezzi differenziati in valuta locale? Semplicemente perché non gli conviene. Forse i ricavi sarebbero maggiori, ma non tali da compensare gli effetti collaterali, in termini di complicazioni amministrative, budget pubblicitari, organizzazione della rete di vendita e via dicendo. Il sistema finanziario americano ha, invece, visto sempre nell’euro un pericoloso concorrente e l’ha sempre osteggiato, fin dalla sua nascita, ingaggiando economisti ed esperti capaci di ribattere alla tesi dei loro oppositori, anch’essi accademici. Un euro credibile era un pericoloso concorrente per chi ha il diritto di battere l’unica moneta di riserva oggi esistente. Se non vi fosse stato quell’antico privilegio, oggi, in pancia alle banche cinesi non vi sarebbero solo dollari svalutati. Una diversa miscela (dollari, euro, yen, diritti speciali di prelievo del Fmi) avrebbe consentito continui arbitraggi e costretto gli Stati Uniti a contenere quel deficit della bilancia dei pagamenti, che si trascina da oltre un ventennio.

Questo equilibrio instabile tra le forze in campo giustifica le posizioni oscillanti dei suoi dirigenti politici: un colpo al cerchio e una alla botte, a secondo dell’evolversi della congiuntura, nella speranza di salvare capre e cavoli. Quel che resta del mercato unico, guidato dall’euro, e il monopolio assoluto nella gestione della liquidità internazionale che costringe tutti gli altri Paesi a finanziare comunque e a prescindere il suo doppio deficit (bilancia dei pagamenti e debito dello Stato). Una situazione paradossale. Il giorno stesso che Obama grida“al lupo al lupo”del possibile default del suo Paese, lo spread dei titoli di Stato americani nei confronti del bund tedesco è appena pari ad 1 punto base, contro – tanto per avere un termine di paragone - i 500 italiani. Finora Angela Merkel ha fatto lo slalom tra tutte queste insidie. Ma il tempo sta finendo anche per lei, come mostra l’ultima asta, sui titoli appena emessi. Quel mezzo fallimento, in termini di richieste da parte degli operatori, dimostra che la morsa si sta serrando. Ed è venuta l’ora di decidere.


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politica

Intervento del Colle e del guardasigilli Severino alla cerimonia di insediamento del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura

La giustizia di Napolitano

Il capo dello Stato: «Serve un valido codice deontologico per i magistrati». Poi l’invito ad attuare quella riforma del settore di cui il Paese ha bisogno ra possiamo provare e abbiamo il dovere di essere tutti più giusti. Anche i giudici. È, in fondo, il senso delle parole che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha pronunciato ieri, affiancato dal neoministro della Giustizia, Paola Severino, alla cerimonia di insediamento del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura.

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Noi tutti che veniamo da quasi un ventennio di scontri politici e istituzionali tra governo e associazione dei magistrati, tra ministri e pm, tra berlusconiani e antiberlusconiani, non possiamo non accogliere le parole di Napolitano non solo come un invito al senso della giustizia praticato nel corpo vivo delle istituzioni ma anche come la necessaria occasione storica che si attendeva per riformare il sistema giudiziario e innalzarlo agli standard europei. Proprio il capo dello Stato ha fatto esplicito riferimento «al momento particolarmente difficile e complesso» per poi esprimere

di Giancristiano Desiderio l’augurio che il ministro Severino «promuova quel confronto costruttivo che auspico da sempre e senza il quale non possono recuperarsi né l’efficienza né quel limpido e razionale funzionamento del sistema giustizia al quale occorre mirare con rigore, serenità e senso del dovere». Napolitano ha parlato - potremmo dire utilizzando una parafrasi del titolo di un libro di un filosofo italiano recentemente scomparso come Franco Volpi ora uscito da Adelphi - con la sua solita «civile chiarezza». È possibile che non intenda solo chi non vuole intendere. È bene utilizzare la stessa chiarezza del Colle. L’occasione storica per riformare il sistema della giustizia italiana è data dall’uscita di scena a Palazzo Chigi di Berlusconi. Fino a quando al governo c’era l’uomo che, al di là del bene e del male, ha unito e contemporaneamente diviso gli italiani alla maniera in cui in uno stadio si dividono, perfino militarmente, le due tifoserie, ebbene, la

riforma della giustizia non è stata possibile farla. La giustizia, con Berlusconi al governo, è stato per ben due decenni il nervo più scoperto dell’intera vita democratica. I ministri si sono succeduti ma al cambio della guardia a via Arenula, da Bondi ad Alfano, da Conso a Diliberto passando per Flick e Castelli fino a giungere a Nitto Palma, non ha mai corrisposto una riforma condivisa, come deve essere soprattutto quella del sistema giudiziario, ma polemiche politiche e scontri istituzionali che hanno fatto parlare i commentatori e anche gli storici di «guerra civile virtuale» o «guerra civile mentale». Al governo Berlusconi, con qualunque ministro alla Giustizia, non si è mai riconosciuto la legittimità di intervenire nella giustizia. L’accusa che ogni volta scattava era fin troppo scontata: ciò che muove il presidente del Consiglio a riformare la giustizia è solo il suo interesse a non farsi processare. E, in verità, le leggi sfornate dai governi Berlu-

sconi in più di un’occasione sono state proprio ad personam: fatte su misura delle esigenze processuali del presidente del Consiglio come il sarto gli cuce addosso i suoi vestiti. A loro volta, però, i berlusconiani replicavano che la giustizia era giacobina, a orologeria e, insomma, c’era un uso politico della magistratura e della giustizia.

Una controaccusa che, come l’accusa delle leggi ad personam, aveva la sua parte di verità storica che era particolarmente evidente quando si faceva notare - lo specialista del ramo è sempre stato Cicchitto - fino a quando Berlusconi era solo un imprenditore non suscitava l’interesse dei pm, invece, una volta “sceso in politica” con un discreto successo si è trasformato nel politico e nell’italiano più indagato d’Italia. Comunque si giudichi la vicenda politica, rimane un fatto storico che nel ’94 l’allora premier Berlusconi, nel giorno in cui a Napoli presiedeva il summit del G8, ricevette a mezzo stampa dalla prima pagina del


politica n coro di consensi per le prime parole del ministro del Welfare Elsa Fornero. Un clima che fa ben sperare per il prossimo futuro e per uno dei nodi vitali della riforma del sistema Italia. Solo i fatti dimostreranno se questo coro di consensi prelude a una collaborazione fattiva per affrontare insieme e con efficacia i problemi sul piatto, o sono invece solo uno sbarramento di fumo per non scoprire le carte in attesa di tirare ognuno dalla sua parte. Particolarmente apprezzate le parole sulla riforma delle pensioni che già c’è ma va accelerata, e specialmente quelle in difesa dei lavoratori in cassa integrazione, ma anche quelle sulle grandi fabbriche che non devono lasciare l’Italia, perché i soggetti deboli da tutelare sono i lavoratori. Chiaro il riferimento alla Fiat nell’ultimo giorno di produzione di Termini Imerese. Dopo 41 anni infatti la Fiat ha lasciato la Sicilia.

U

Una soluzione alternativa per ricollocare i lavoratori di Termini è stata ipotizzata, ma l’accordo ancora non c’è. Mercoledì 30 le parti (Fiat, Dr Motor e sindacati) presso il ministero dello Sviluppo tenteranno di chiudere la partita per dare inizio alla fase di riconversione industriale, con da sciogliere soprattutto il nodo degli incentivi a carico di Fiat per la mobilità. Gli operai annunciano un presidio permanente fino al raggiungimento dell’accordo. In questo contesto sono arrivate le parole del neoministro. La Fornero ha garantito che il nuovo Governo sta seguendo con “molta attenzione il caso Fiat” e si è dichiarato “disponibile, nel pieno rispetto dell’autonomia della parti, a offrire il contributo costruttivo del Governo

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La riforma del sistema previdenziale «c’è già, va soltanto accelerata»

La Fornero inizia da Fiat e pensioni Consensi per le prime parole del ministro del Welfare: «Pronti a fare la nostra parte» di Osvaldo Baldacci alla soluzione della vicenda”. Fornero ha sottolineato che in questa vicenda “la parte più debole è costituita dai lavoratori” e ha sollecitato le grandi imprese come la Fiat a “non abbandonare il Paese”. Ora starà proprio al nuovo governo il compito di creare le condizioni perché si fermi la desertificazione industriale dell’Italia, rilanciando l’economia, compito per il quale è stato formato.

Accorato appello agli industriali: «Le grandi fabbriche non lascino il Paese, ma tutti dobbiamo ricordare che i soggetti deboli sono i lavoratori»

E a questo proposito le prime parole della responsabile del Welfare sono andate a toccare anche il nodo pensioni, di cui è una riconosciuta esperta e che come si sa è tra i più controversi. «La riforma delle pensioni, largamente già fatta, potrà vedere accelerati i tempi», ha detto il ministro all’assemblea della Cna durante il suo primo intervento pubblico da titolare del dicastero del Lavoro la Fornero ha citato la riforma pensionistica stilando l’elenco degli “ele-

Corriere della Sera il primo avviso di garanzia firmato dal pool di magistrati di Mani Pulite. Ora, se Dio vuole, questa storia è alle nostre spalle. Dunque, possiamo fare quella riforma della giustizia che serve al Paese e agli italiani e non quella che sarebbe servita al politico Berlusconi o quella che sarebbe servita ai giustizialisti. Perché il punto è proprio questo: la riforma è necessaria.

Al tempo in cui si discuteva dei parametri di Maastricht per - come si diceva allora - entrare in Europa e dare vita all’Euro e giungere fino ai nostri giorni in cui gli Stati indebitati fanno tremare banche, finanze e la moneta unica, si parlò anche di «una Maastricht per la giustizia». Una formula non particolarmente esoterica che, in sostanza, metteva in luce le deficienze del sistema giudiziario di casa nostra. A partire, soprattutto, dall’inesistenza del

“giudice terzo” visto che in Italia non vige la separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e dei magistrati inquirenti o pubblici ministeri. Non è un caso che il più delle volte la discussione tra le parti si sia arenata proprio sulla questione della “separazione” e si sia fatto ricorso al compromesso della separazione delle funzioni. Ma al tem-

menti positivi”sui quali l’Italia può contare.

Elenco che comprende anche il risparmio delle famiglie e l’imprenditoria. In videoconferenza, la responsabile di via Veneto non è entrata nel merito dei provvedimenti allo studio del governo, ma si è limitata a dire che i tempi di attuazione delle misure già varate “possono essere accelerati”. I temi sui quali il Governo dovrebbe lavorare sulla previdenza dovrebbero essere l’estensione del contributivo pro-rata per tutti, l’anticipo dei tempi sull’aumento dell’età di vecchiaia delle donne nel settore privato (al momento l’adeguamento a quella

neanche un dialogo tra i due schieramenti politici e parlamentari ma un confronto che prevedeva sempre e comunque il convitato di pietra della magistratura e della sua associazione di categoria. I giudici organizzati, in altre parole, sono stati sempre una parte attiva che - per stare al caso della separazione delle carriere - non ha certo favo-

L’occasione storica per riformare il nostro sistema giudiziario è data dall’uscita di scena da Palazzo Chigi di Silvio Berlusconi. Il confronto ora può essere davvero costruttivo. La svolta è necessaria e serve a tutti gli italiani po la discussione era viziata all’origine e il dialogo sulla riforma - che generò anche una commissione Bicamerale presieduta da D’Alema - era un dialogo tra sordi fatto non per intendersi ma per fraintendersi. Per altro, non era

rito il percorso della riforma. Ma oggi, per riprendere l’auspicio di Napolitano, il confronto deve essere costruttivo perché è proprio questa la premessa indispensabile affinché il sistema giudiziario recuperi efficienza, trasparenza

degli uomini e delle donne nel settore pubblico è prevista tra il 2014 e il 2026) e l’anzianità arrivando in tempi brevi a quota 100 (tra età anagrafica e anni di contribuzione). Sono questi infatti i campi sui quali sono state già fatte riforme per le quali però l’andata a regime è troppo lenta. Non è escluso anche l’anticipo delle regole sull’aumento dell’età pensionabile legandola all’incremento dell’aspettativa di vita dal 2013 al 2012.

Parlando più in generale della crisi e dell’azione del Governo, il ministro Fornero ha ricordato le prospettive congiunturali “non certo lusinghiere” sia a livello globale che per il Paese che ha, inoltre, “problemi strutturali di lungo termine”. Ha quindi ribadito che l’esecutivo si baserà su “tre principi fondamentali: rigore finanziario, equità di interventi e crescita per dare prospettive alle nuove generazioni”, che sono “la cifra di questo governo”. Il rigore, ha spiegato, “deve essere associato a uno stile di azione improntato alla sobrietà”, il rigore “non è solo quantitativo: è una diversa cultura del rapporto tra individui e spesa pubblica”. L’equità “vuol dire che i sacrifici devono essere calibrati sulla capacità dei singoli di sopportarli”. “Non possono essere i più deboli a sopportare la parte maggiore dei sacrifici che la situazione impone”. Secondo il ministro, inoltre, i provvedimenti di rigore «che il Governo prenderà, dovranno essere accompagnati da stimoli alla crescita e questi stimoli dovranno eliminare tutti gli ostacoli che mortificano la crescita, sarà necessario rimuovere lacci e lacciuoli che in questi anni hanno mortificato la crescita e le opportunità del nostro Paese».

e razionalità. Anzi, proprio perché il politico e imputato Berlusconi non è più al governo, proprio la parte organizzata e attiva della magistratura ha il dovere istituzionale di facilitare il dialogo e spianare la strada a una riforma che non può essere fatta né per tutelare corporazioni, né per avvantaggiare partiti, né per conservare privilegi.

Napolitano spera che la Scuola superiore della magistratura sia utile per la maturazione di una cultura giuridica non nozionistica e per l’adozione di «un valido codice deontologico volto ad affermare il necessario rigore nel costume e nei comportamenti del magistrato». In questi anni di “guerra civile virtuale” troppi pm sono diventati politici e leader politici. E, allora, il primo buon costume è quello di ritornare ognuno al proprio lavoro e riformare con senso istituzionale la giustizia.


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ella nostra rilettura shakespeariana abbiamo fino ad ora un po’ sorvolato su di un aspetto che, come tutti sanno, risulta essenziale per la drammaturgia del Bardo ma anche in tutto il teatro elisabettiano: la follia. Tuttavia la nostra attesa era finalizzata all’esposizione di questa grande tragedia, Re Lear, che certamente coglie il tema dell’insania nella maniera più forte e avvincente, tematizzandola nella stessa figura del protagonista, tanto più del suo alter-ego, appunto il Matto, il petulante ma grande e geniale fool della situazione. Se anche in Amleto la follia viene in qualche maniera riscontrata come fondamentale viatico per la ricerca della verità (la celebre battuta di Polonio «C’è del metodo in questa follia»), in Re Lear c’è anzitutto un esplicito riferimento alla follia come componente essenziale del pensiero più grande e abissale di Shakespeare, quello del Mondo-Teatro: «Quando nasciamo piangiamo perché ci ritroviamo in questo grande Teatro di pazzi», così esclama il vecchio Re nel IV atto. È evidente che qui la pazzia approdi ad una consapevolezza diversa, in qualche maniera universale.

N

Il pensiero del Mondo-Teatro sembra risolversi nella stessa pazzia. E se vogliamo c’è anche una «verissima pazzia», come la definiva Leopardi, in questa stessa nostra ricerca, che pretende di voler evincere il problema fondamentale della filosofia occidentale, la questione dell’essere che da Parmenide ad oggi risulta chiave del pensiero filosofico, all’interno della drammaturgia e nella storia della teatralità. Ma certo, come andiamo notando di volta in volta, soprattutto in Shakespeare c’è una consapevolezza particolare di tutto questo: il Bardo inglese costruisce il suo teatro (e certamente un metodo in tale “follia” non glielo si può negare) interamente attraverso quella che si può definire una vera e propria “officina dell’essere e del non-essere”. È ciò che ricorre in continuazione nei suoi drammi, commedie e tragedie, e che qui in Re Lear si ricollega al tema della sempre evocata follia. E come specificava il nostro Leopardi, «chi si fissasse sull’essere o non-essere di tutte le cose, costui sarebbe assolutamente pazzo, ma raggiungerebbe l’assoluta verità». Ed è quanto accade a tutti i più importanti personaggi di Re Lear fin da quando, nelle scene iniziali del dramma, viene messo in crisi quell’ordine di Potere basato sostanzialmente sulle “mappe geografiche”: siamo infatti in una Bretagna precristiana, il Vecchio Re vorrebbe abdicare a favore delle tre figlie, Regan, Gonerill e Cordelia (tutte da sposare rispettivamente ai conti di Albany, Cornovaglia e - non è stato ancora deciso - Francia ovvero Borgogna). Bisogna dire che anche qui l’aura favolistica non abbandona Shakespeare e, come bene ha scritto anche Stanley Cavell, l’aspetto filosofico del Re Lear è tutt’uno con quello favolistico. Re Lear chiede alle tre figlie una dimostrazione d’affetto, e se le prime due riescono ad adularlo, così non sarà delle vera e sincera Cordelia: e tale richiesta può così sembrare l’inizio di una grande «favola del nulla» che rappresenta la conformazione dell’intera vicenda. Quando infatti Cordelia risponderà alla domanda del padre con «Nulla, mio signore», «Nulla», replicherà Lear, «Nulla» confermerà Cordelia; e così Re Lear, balzando

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Benvenuti all’off

La pazzia è uno degli aspetti che attraversa quasi tutta l’opera di William Shakespeare. Soprattutto nella grande tragedia del “Re Lear” di Franco Ricordi

lettera anonima al padre, che ha il potere di provocare il bando di Edgar: questi finirà per denudarsi completamente delle proprie fattezze, ridursi ai minimi termini nei panni del peggiore fra gli accattoni, nella chiara consapevolezza e agnizione anche per lui di «essere un nulla», di essere stato annientato dal bando subito a tradimento; e riferendosi ad una fiaba antica dirà di sé «Povero Turlygod, povero Tom, eravate ancora qualcosa; Edgar, io, sono niente».

«Quando nasciamo piangiamo perché ci ritroviamo in questo grande Teatro di pazzi», fa esclamare il poeta inglese al vecchio Re nel IV atto con la sua battuta nel pieno del discorso nichilistico del Novecento replicherà: «Nulla verrà fuori dal nulla». Da qui l’inizio della fine per Lear e la sua generazione, essendo la tragedia anche un grande dramma di mutazioni generazionali, che come noto riguarda anche i due figli del Duca di Gloucester, Edgar ed Edmund, nella trama parallela. Anche qui, come un po’ in tutta la tragedia e questa volta in maniera assai netta, as-

sistiamo ad una spartizione fra “buoni” e “cattivi” che può sembrare anche un po’ ingenua, se non fosse supportata proprio dal genio filosofico-favolistico di cui sopra. Edmund sta tramando per conseguire l’eredità del padre che, per legge, andrebbe tutta al fratello maggiore Edgar. Ma Edmund non ci sta, e proprio il suo essere bastardo (ovvero figlio di una madre diversa) lo sprona a superare queste illogiche e assurde tradizioni.

Edmund è intelligente, bello e accattivante, una sorta di Jago più giovane, tanto più orgoglioso di essere un bastardo, concepito «nel furto segreto del piacere», piuttosto che in un letto «stanco, stantio e stupido, fra uno sbadiglio e l’altro». Così riesce nell’intento di una

E dopo che a metà della tragedia una tempesta sembra fare da contrappunto a questo annientamento delle personalità più importanti, Lear, il fido Matto ed Edgar, entrerà sotto mentite spoglie il perspicace Conte di Kent che, all’inizio dell’intrigo, aveva dovuto abbandonare Lear (proprio perché si era accorto del tradimento da parte dell’infido Osvald e delle due figlie maggiori) e si ripresenta sotto le vesti di un «dotto tebano»; quando Lear gli chiede quanti anni ha, lui risponde: «Non così giovane da innamorarmi di una donna perché canta, né così vecchio da innamorarmi di tutte le donne; ho quarantotto anni». E nell’intrigo ordito da Edmund - che riesce a far innamorare di sé le due figlie di Lear, Regan e Gonerill - il povero padre Gloucester finirà accecato e in lui, che poco prima aveva gridato al cielo la celebre


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ficina della follia

L’autore costruisce i suoi lavori interamente attraverso un vero e proprio laboratorio dell’essere e del non-essere”. Ma sempre collegata alla pazzia battuta «Noi siamo per gli Dei come le mosche per i ragazzi, ci ammazzano per gioco», si imbatte il figlio maggiore, Edgar, in quella che è forse la scena letteralmente più “pazzesca” del dramma: una scena che è stata spesso paragonata al novecentesco Teatro dell’Assurdo, e che certo può rappresentare il culmine di un vero «metateatro della pazzia».

Edgar descrive pedissequamente l’assurdo paesaggio delle scogliere di Dover, e Gloucester gli chiede di condurlo sulla cima dello strapiombo. Poi, dopo aver innalzato l’ultima preghiera agli Dei, Gloucester si getta, credendo di voIn queste pagine, da sinistra: un disegno di Michelangelo Pace; uno dei ritratti del drammaturgo inglese Shakespeare; una rappresentazione teatrale della sua opera “Re Lear”; un particolare della casa di Shakespeare a Stratford-upon-Avon

lare dalle scogliere. Ma in realtà, con l’assurda complicità del figlio, non fa che un ruzzolone per terra. Ed è talmente infantile, nella sua comicità, che analogamente a ciò che riguarda certe situazioni di Lear, non si può fare a meno di pensare alla vecchiaia ultima come a una “seconda fanciullezza”: Gloucester è caduto per terra, per un attimo sembra svenuto, poi Edgar gli si avvicina fingendosi un avventore: «Edgar: Chi siete

signore? Gloucester: Andate via, lasciatemi morire. Edgar: Dieci alberi maestri uno sull’altro sono meno dell’altezza da cui sei caduto tu. La tua vita è un miracolo. Parla di nuovo. Gloucester: Ma sono caduto o no?».

Questo è il grande “teatro filosofico” di Shakespeare, una equazione e identificazione del gioco teatrale con la follia, la follia divertita ancorché crudele di

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mettere in scena un dramma a due persone di cui uno, peraltro anche spettatore, è cieco! La cecità di Gloucester è l’anticamera della follia, e non a caso di lì a poco arriva il vecchio protagonista che, già nella didascalia shakespeariana, è definito mad, pazzo. E le tirate di Lear sembrano ricordare la pazzia di Ofelia, per quanto sensate e insensate appaiano allo stesso tempo, tanto che Edgar afferma: «Senso e non senso uniti insieme, ragione nella pazzia!». Un grande Teatro della Pazzia si scatena, e il solo personaggio che sembra approfittare di tutto è Edmund, il bastardo «aiutato dagli Dei», che sta anche cercando di sovvertire malamente i figli contro i padri: «Se il vecchio cade, il più giovane balza in sella». Tuttavia alle soglie dell’ultimo atto Edmund si accorge che il doppio gioco con le figlie di Lear potrebbe essere rischioso; ma non riesce ad evitare la sfida con un rappresentante dell’esercito avverso (sostenuto dai francesi), che altri non è che suo fratellastro Edgar sotto false sembianze: egli si presenta al duello con un «nome perduto», e però altrettanto nobile quanto l’avversario che viene a sfidare. In un grande duello “a mosca cieca” le sorti di Edmund cadono nelle mani dei giusti, e finalmente si compie la catarsi.

Naturalmente non prima del grande colpo di scena, il finale veramente “teatrale”, la disperata e ultima entrata in scena di Lear con la povera Cordelia morta fra le sue braccia, l’ultima figlia, l’unica che non l’ha tradito, simbolo inequivocabile di una sincerità e verità distrutte: «Lear: Urlate, urlate, urlate! Oh siete fatti di sasso! Se avessi io le vostre lingue e i vostri occhi li userei in maniera che la volta del cielo si squarcerebbe. Se ne è andata per sempre!». In Cordelia c’è una precisa relazione fra l’essere e la verità, la sua figura poetica si fa notare fin dall’inizio per la forza della verità che è in grado di contrapporre all’ipocrisia delle sorelle, pur consapevole dei guai che potranno occorrerle. Comprendere Cordelia, ha scritto Damby, significa «comprendere l’opera intera», e alla sua morte corrisponderà la fine di Lear. Albany nomina Edmund e Kent nuovi responsabili del regno, del suo governo, e Edgar non esita a chiudere la tragedia nel segno di una continuità fra vecchi e giovani, anche in antinomia alla ribellione di Edmund: «Edgar: I più vecchi hanno più sopportato; a noi giovani non sarà dato di vedere tanto né di vivere tanto». Ed è davvero indicativo come, proprio in questa tragedia dove abbiamo esperito la follia e l’assurdità della vita e del tutto, vi sia alla fine una «vittoria dei buoni», o per lo meno dei giusti contro «i cattivi della situazione». Un finale in qualche maniera catartico, proprio come scrive Aristotele della tragedia che provoca «pietà e terrore», ma che alla fine ci da anche un senso di soddisfazione per la gloria dei vincitori! E quando usciamo da teatro dopo una grande rappresentazione ci sentiamo, anche fisicamente, sia come attori che spettatori, più sani di prima. Se il teatro è malattia, come voleva Artaud, è certo si tratti di «malattia di persone sane». E quanto è sano, quanto è catartico, quanto ci fa uscire più in forma di prima, quanto ci fa sentire bene anche fisicamente questo grande teatro shakespeariano!


mondo

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Oggi il voto in Marocco. Lunedì in Egitto. La Libia ha nuovo governo, come la Tunisia. E i partiti musulmani crescono ovunque

Arrivano gli islamici Karim Mezran: «Ma non è detto che a rimetterci non sia l’estremismo» di Luisa Arezzo è poco da farsi illusioni: gli islamici in Nordafrica conquistano potere, ma forse questo non significherà la catastrofe che tutti immaginano. Dall’Egitto che lunedì andrà al voto e dove i Fratelli Musulmani vinceranno, al Marocco che oggi comincia la sua tornata elettorale e che vede il Pjd in pole position. Dalla Tunisia, che il mese scorso ha sancito la vittoria del partito islamico moderato Ennhada, alla Libia che manifesta un rigurgito islamista mai visto prima e fino alla blindata Algeria, è tutto un crescendo di potere religioso. «Inevitabile» secondo Karim Mezran, presidente del Centro Studi Americani e professore di Storia del Medio Oriente presso il Bologna Center della Johns Hopkins University. Partiamo dall’Egitto, cosa sta succedendo?

C’

I militari hanno cercato fin dall’inizio di mantenere il controllo, usando tattiche dilatorie e di “melina”; poi hanno cercato di affossare il cambiamento tentando di far passare la legge para costituzionale nella quale vincolavano qualunque Costituzione al fatto che le Forze Armate restassero indipendenti, cercando di dare una forma

I Paesi del Golfo hanno giocato un grande ruolo in queste rivoluzioni, che non a caso hanno colpito tutti gli Stati laici. Tranne il Bahrein... turca al sistema. Della serie: voi governate il Paese tranne ciò che riguarda i militari, il loro budget e la carriera. La gente non ha accettato e gli scontri si sono visti. I Fratelli Musulmani fin dall’inizio stanno facendo un gioco opportunistico: inizialmente hanno trattato con i militari contro le forze laiche e poi, temendo che i generali giocassero su più piani e che potessero schiacciarli, sono scesi in campo cercando di trarre il

Oltre 13 milioni chiamati alle urne dopo la riforma costituzionale voluta da re Mohammed VI

La rivoluzione illuminata di Rabat l Marocco, paese lambito ma non investito dal vento della Primavera araba, soprattutto per l’abilità mostrata dal suo monarca, re Mohammed VI, ad intercettare il “pericolo” e ad aprire a delle riforme, oggi va al voto. Alle urne sono chiamati 13 milioni e mezzo di marocchini per eleggere la nuova Camera bassa o Camera dei Rappresentanti, che resterà in carica per cinque anni. Ma sulla consultazione grava il pericolo dell’astensionismo, sempre molto alto nel Paese, e il timore che a godere della defezione possa essere il partito islamico. Che, anche sulla scia della vittoria del partito islamico al-Nahda alle elezioni tunisine del mese scorso, punta oggi alla vittoria. il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Pjd), islamico moderato (che attualmente con 46 deputati

I

di Laura Giannone è la prima forza di opposizione) punta apertamente a 70 o 80 dei 395 seggi del parlamento. Un’aspirazione che lo vedrebbe piazzato primo tra i partiti che partecipano al voto. La nuova costituzione voluta da re Mohammed VI e appro-

però scommettono sulla vittoria degli islamici. Proprio per contrastare l’ascesa del Pjd il 5 ottobre è stata costituita l’Alleanza per la Democrazia, una coalizione di otto partiti laici e pro-monarchia, da molti definita come il “Partito

Dei 395 seggi della Camera bassa, 305 sono assegnati nelle circoscrizioni locali e gli altri 90 in una lista nazionale destinata a garantire una rappresenza di donne (60 seggi) e di giovani (30 seggi) vata per referendum il primo luglio scorso, stabilisce infatti che il partito con il maggior numero di deputati goda del diritto di designare il primo ministro, carica in passato assegnata dal re, a prescindere dal risultato elettorale. Non tutti

del re”. Ne fanno parte, tra gli altri, due dei cinque partiti della coalizione al governo, oltre al Partito dell’autenticità e della modernità, fondato nel 2008 da uno degli uomini più vicini al monarca, Fouad Ali al-Himma. In molti scommet-

tono che l’Alleanza riuscirà a vincere, consentendo a Mohammed VI di scegliere il premier nella ristretta cerchia degli uomini a lui più fedeli.

La grande incognita per queste elezioni, tuttavia, riguarda la partecipazione degli elettori: tra tassi di astensionismo tradizionalmente alti e appelli a boicottare le urne. Le formazioni estremiste islamiche del gruppo salafita, di al-Adl wa al-Ihsan e dei separatisti del Fronte Polisario, hanno più volte chiesto in queste settimane di boicottare il voto, con l’obiettivo di delegittimare lo strumento elettorale e con esso la riforma costituzionale voluta da re Mohammed VI e approvata con un referendum il primo luglio scorso a maggioranza bulgara, avendo incassato il sì del 98 per cen-


mondo

maggior profitto dalla situazione. Essendo il partito meglio organizzato, è possibile che queste elezioni adesso le vinceranno. Conquistando così il diritto di controllare il Paese in diversa maniera e trovandosi a trattare con i militari da una posizione di forza, legittimata. Volevano le elezioni, questo era evidente... Sì, in base a questo ragionamento: fintanto che non si va alle elezioni non posso misurare la mia forza, e dunque agli occidentali non posso parlare. Ma se le consultazioni si tengono regolarmente e conquistiamo un’ampia quota di potere, potremo parlare di diritto. Così facendo, qualora il regime non dovesse poi parlare e trattare con loro, potrebbero denunciare la mancanza di democrazia nel paese. Ecco perché non sono cuore ed anima dalla parte dei rivoltosi, ma li aizzano senza mai schierarsi completamente. Se come sembra vinceranno, che cosa cambierà, visto che l’Egitto è un tassello fondamentale per la tenuta dell’intera regione,

basti pensare ad Israele? Il vero problema per Israele è il crollo della sicurezza in Sinai, ma per loro è fondamentale che ci sia nuovamente un governo al Cairo, seppur governato dagli islamisti (che non avranno la maggioranza assoluta). Io penso che non cambierà moltissimo e che sotto il

La Tunisia ha votato Ennhada perché Gannouchi è stato l’unico leader ad essersi speso per la gente. Non è detto che sia il simbolo di una svolta religiosa profilo internazionale dovranno comunque comportarsi “bene”. Ci sarà un riallineamento della politica estera dell’Egitto, che era onestamente troppo sblianciata. L’Egitto è sempre un paese arabo, deve mantenere una posizione verso Israele un po’ più equa. Se Mubarak fosse stato meno schiacciato

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sulle posizioni filooccidentali e israeliane avrebbe conservato un minimo di legittimità e forse tutto quel che è successo non sarebbe accaduto. Ricapitolando: se gli islamisti dovessero vincere non dichiareranno guerra ad Israele... Quali saranno i primi passi che faranno? Un conto è stare all’opposizione e un conto è dover rispondere al proprio elettorato e avere incarichi di governo. L’Egitto è in una posizione delicatissima: l’economia è a pezzi, il turismo è alle corde. È quella la priorità su cui il nuovo governo dovrà lavorare. Non ci fissiamo sul velo o non velo: dovranno lavorare sull’economia e basta. Si parla di El Baradei come prossimo premier. Lei cosa ne pensa? Che cerca di guadagnarsi una legittimità popolare che non ha. Non godendo di una struttura forte alle spalle, fa appello alla massa, diventa populista e demagogico. Deve cavalcare l’onda... Vuol dire che la sua denuncia sull’uso di gas nervino nei lacrimogeni lanciata mercoledì sia stata concepita come una sorta di propaganda interna? Sì, davanti alla fortissima macchina dei Fratelli Musulmani lui può solo ambire a finire sui giornali per farsi notare. Viceversa sparisce. Oggi cominciano le elezioni in Marocco: due incognite, l’astensionismo e l’avanzata islamica moderata. Cosa succederà? Il rischio islamista in Marocco è più quello del movimento alAdl wa al-Ihsan dello scieicco Yassin che è il vero movimento islamista marocchino. Non tanto quello del Pjd, che è comunque il partito d’opposizione di sua maestà. Rischi anti-sistemici in Marocco non ne vedo, una riforma comunque c’è stata, vera o finta che sia. Ma questo lo vedremo fra poco. Ancora non si è ben capito cosa voglia dire

to dei votanti. Riforma che verrà messa realmente alla prova da queste elezioni. Perché le novità principali riguardano proprio il parlamento, che avrà un peso maggiore nel processo legislativo, e il governo, non più sotto lo stretto controllo del re. Le modifiche alla carta, tuttavia, per alcune forze di opposizione sono solo una “facciata”e sostanzialmente non cambiano di molto l’equilibrio dei poteri. La riforma più importante è quella relativa al primo ministro, che in base alla nuova Carta sarà scelto tra le fila del partito che ha ottenuto il maggior numero di seggi in parlamento.

Finora la carica era invece assegnata dal re a una personalità di suo gradimento, a prescindere dai risultati elettorali. Il premier ha inoltre acquisito il potere di scegliere i ministri e sciogliere la Camera bassa. Si ridimensiona, quindi, il potere del re, che nella costituzione non è più definito ”sacro”, pur restando “inviolabile”. Modifiche sostanziali dunque ci sono, ma bisognerà metterle alla prova per capire quali margini di mano-

che chi vince possa esprimere il primo ministro: il partito o la coalizione? E il re dovrà per forza indicare il segretario del partito o scegliere una figura indicata dal partito? Interrogativi che a breve verranno sciolti. Il Marocco resterà l’unico Paese superstite della Primavera araba? È una monarchia. Non dimentichiamoci che c’è una forte influenza dei paesi del Golfo in tutta la Primavera araba. E gli obiettivi sono tutti stati i regimi laici, fatta eccezione per il Bahrein che è gli è sfuggito di mano. Non vedo un attacco congenito degli islamisti contro il Marocco, che già di suo è fortemente sensibile alla retorica islamica. È questo che protegge il Paese. Oltre a un re brillante. Di un paese non si parla più, benché sia stato anch’esso teatro di scontri in questi mesi: l’Algeria. L’Algeria di Bouteflika resta un’incognita. Non si sa nulla di quello che realmente accade. C’è un popolo stanco di guerra civile, un governante vecchio e malato che comunque sta ponendo problemi di successione, un establishment corrotto. Ma mancano dati concreti per capire dove stia andando realmente. E invece la Libia con il nuovo governo appena insediato? Questo governo non mi dispiace, è un esecutivo di transizione dove i grossi capi non si sono schierati; rappresentativo di tutta la società e dei vari clan, ma guidato da un uomo di spessore come el-Keeb. Certo, il paese vive un’aria da controrivoluzione più che di ideali, dove i valori locali, le forze regionali, le vecchie famiglie, gli ideali islamici prendono il sopravvento. Ma il fatto che sia stato fatto un governo nei tempi lascia sperare bene. Gli islamici libici sono diversi, non integralisti. Fratelli musulmani sì, molto islamici pure, ma più pragmatici che fondamentalisti.

donne (60 seggi) e di giovani con meno di 40 anni (30 seggi).

vra davvero lascino alla politica. Non dimentichiamo, infatti, che comunque vadano le cose, il monarca manterrà un potere pressocché assoluto in materia di politica estera, difesa e sicurezza. Nonché un ampio margine di azione in materia religiosa. Detto questo, per la

prima volta la consultazione popolare si confronta con le quote rosa e quelle giovanili, novità introdotte dalla riforma. Dei 395 seggi della Camera bassa, 305 sono assegnati nelle circoscrizioni locali e gli altri 90 in una lista nazionale destinata a garantire una rappresenza di

Il vento di modernità portato al Paese dal re è innegabile, prova ne sono i contrasti che in questi anni si sono verificati con le forze conservatrici. Contrasti che non gli hanno impedito, nel 2004, di introdurre una riforma liberale del diritto di famiglia che garantisce maggiori diritti alle donne. Mohammed VI, inoltre, si è schierato apertamente contro il fondamentalismo islamico, specialmente dopo l’attentato di Casablanca del 16 maggio 2003. Le forze di opposizione però, soprattutto quelle extra-parlamentari, tendono a sminuire l’importanza delle sue riforme (soprattutto l’ultima), definendole un puro intervento cosmetico che non limita il suo “strapotere”. Attacchi a cui il sovrano non ha replicato per non avvelenare il clima delle elettorale (anche qui in modo lungimirante: si è di fatto sottratto al tranello in cui volevano farlo cadere), e ha addirittura deciso di trasferirsi per l’intera durata della campagna elettorale in Francia.


mondo

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La Nobel per la Pace potrà candidarsi alle prossime elezioni. Ma non è solo questo il segno di un cambiamento in Myanmar

Lo strappo della Birmania L’apertura ad Aung San Suu Kyi, l’ok all’arrivo della Clinton. E una presa di distanza dalla Cina di Maurizio Stefanini finalmente arrivato il momento per il ritorno della democrazia in Birmania? L’opinione pubblica mondiale non se n’è quasi accorta, distratta da Primavere Arabe e tempeste finanziarie. Lunedì 21 novembre l’Assemblea Generale dell’Onu ha reiterato un voto di condanna in cui ha denunciato come in Myanmar, questo il nome ufficiale con cui lo storico Birmania è stato sostituito dopo il golpe del 1988, continui una violazione sistematica e generalizzata dei diritti umani. 45 i Paesi che hanno presentato la risoluzione, 98 quelli che l’hanno votata, 63 quelli che si sono astenuti, e 25 quelli che si sono opposti. Tra questi ultimi Cina, Russia, Cuba, Corea del Nord, Iran, Nicaragua, Sudan e Venezuela. Ma l’annuncio che Aung San Suu Kyi potrà candidarsi all’Assemblea dell’Unione, come si chiama il Parlamento di Rangoon, e quello che Hillary Clinton verrà in visita, sembrano garantire che stavolta qualcosa sta cambiando davvero. In effetti, secondo il governo la transizione sarebbe iniziata già dal referendum che il 10 maggio 2008 ha approvato col 93,82% dei voti una nuova Costituzione poi pubblicata nel settembre del 2008. Formalmente un sistema all’americana, con un presidente capo dell’esecutivo, una camera eletta in rappresentanza delle varie entità federate e un’altra in

È

rappresentanza della popolazione nel suo complesso. Ma 56 dei 224 deputati della Camera delle Nazionalità e 110 dei 440 deputati della Camera dei Rappresentanti sono comunque nominati dai militari, a preteso compenso del fatto che a questi è stato tolto il diritto di voto attivo e passivo: il che non ha peraltro impedito a gran parte dei membri della giunta di candidarsi, semplicemente col mettersi in pensione.

I deputati militari nel loro complesso costituiscono una sorta di terza camera col potere di designare uno dei tre candidati tra i quali poi il plenum dell’Assem-

to”e stranieri in genere. Si votò il 7 novembre 2010, e Aung San Suu Kyi fu liberata solo il 13 novembre successivo. 259 deputati su 330 eletti alla Camera dei Rappresentanti e 129 su 168 alla Camera delle Nazionalità andarono al Partito Unione Solidarietà e Sviluppo: erede fin nel nome di quella Associazione Unione Solidarietà e Sviluppo che era stata l’organizzazione di massa dell’ultimo regime militare. Altri 12 seggi alla Camera dei Rappresentanti e 5 alla Camera delle Nazionalità andarono al Partito Unità Nazionale: erede di quel Partito del Programma Socialista Birmano che era stato il par-

Il Paese è passato dal secondo più ricco del Sud-Est Asiatico, come era ai tempi del colonialismo inglese, al più povero. La speranza è che con la democrazia rifiorisca anche l’economia blea sceglie il presidente, dunque non eletto dal popolo. Il ministero dell’Interno è riservato a un militare. E una norma molto ad hoc impedisce di diventare presidente a chiunque abbia sposato un cittadino straniero: come fece Aung San Suu Kyi con l’inglese Michael Aris. Inoltre una legge elettorale vietò l’appartenenza ai partiti politici e dunque la possibile candidatura a detenuti, membri di ordini religiosi, appartenenti a gruppi insorgenti “definiti tali dallo Sta-

tito unico del regime militare precedente, tra 1964 e 1988. 12 seggi alla Camera dei Rappresentanti e 4 alla Camera delle Nazionalità andarono alla Forza Nazionale Democratica: fondata da quegli aderenti alla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi che pur restando all’opposizione non condivisero la scelta del boicottaggio fatta dalla maggioranza del partito, e che comunque dopo il voto denunciarono brogli sistematici. Il resto fu disperso tra

una pletora di partiti a base etnico-regionale. Il tutto fu giudicato positivamente da Cina e Russia; ma «insufficiente dal punto di vista dell’inclusione, partecipazione e trasparenza» dal segretario generale Onu Ban Ki-moon, «una truffa» dal governo delle Filippine, «un inaccettabile furto» da Barack Obama. Lo stesso giorno del voto duri scontri al confine con la Thailandia tra esercito e ribelli Karen dimostrarono inoltre come l’insurrezione generalizzata delle minoranze

etniche continuava. Il processo comunque andò avanrti il 4 febbraio scorso con l’elezione alla Presidenza di Thein Sein: il primo capo dello Stato civile in Birmania dopo mezzo secolo.

Solo che Thein Sein era stato dal 2007 primo ministro: un incarico che veniva meno con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, trasferendo i propri poteri giusto alla Presidenza. In più, si trattava di un civile semplicemente perché era uno dei 23 A sinistra, militari birmani. In alto: Aung San Su Kyi. A destra la liberazione di mille detenuti politici lo scorso mese. Thein Sein ha fatto capire che davvero qualcosa stava cambiando quando lo scorso 30 settembre ha ordinato la sospensione dei lavori di costruzione per la Diga di Mytisone: un progetto per il quale la Cina aveva messo 3,6 mld di dollari


mondo colto l’occasione per tornare in piazza, guidata dalla stessa leader Aung San Su Kyi. Proprio il montare della tensione ha spaventato il presidente, che il 14 agosto ha concesso a Aung San Su Kyi libertà di movimento da Rangoon, il 19 agosto si è incontrato con lei, e appunto il 30 settembre ha scritto una lettera all’Assemblea dagli inconsueti toni conciliatori. «Dobbiamo rispettare la volontà del popolo, dal momento che il nostro governo è eletto dal popolo. Abbiamo la responsabilità di venire incontro alle preoccupazioni del popolo, e così arresteremo la costruzione della Diga di Mytisone per lo meno durante il presente governo». Sospensione, appunto: non abbandono definitivo. L’idea implicita è che una nuova campagna elettorale in cui il tema sua esplicitato nel programma potrebbe portare a uno sblocco.

Ma a Pechino ci sono rimasti di sale, tra richieste di colloqui per “chiarire” la disputa e indagini sulla stampa internazionale a proposito dei crescenti sentimenti anti-cinesi non solo a Myanmar, ma un po’ in tutta la regione. Il vicino Vietnam ha addirittura concluso un’alleanza con l’ex-nemico americano, apposta per lanciare alla Repubblica Popolare un avvertimento. Non è chiaro se Thein Sein ha utilizzato la mobilitazione popolare come pretesto per allentare un abbraccio che minacciava di essere sempre più stritolante, o se al contrario è stato il risenti-

alti ufficiali che il 29 aprile 2010 avevano lasciato la divisa apposta per prendere la testa del Partito Unione Solidarietà e Sviluppo e partecipare alle elezioni. Entrato formalmente in carica il 30 marzo, proprio Thein Sein però ha fatto capire che davvero qualcosa stava clamorosamente cambiando quando lo scorso 30 settembre ha ordinato la sospensione dei lavori di costruzione per la Diga di Mytisone: un progetto idroelettrico per il quale la Cina aveva messo 3,6 miliardi di dollari, e che però avrebbe dovuto servire soprattutto per l’immensa fame di energia della Repubblica Popolare. La stessa per la quale il 30 ottobre del 2008 era stata completata l’altra mostruosa infrastruttura idroelettrica della Diga delle Tre Gole. Costruita in territorio birmano sul fiume Irawaddy ma destinata appunto a rifornire soprattutto il territorio cinese, la Diga di Mytisone sarebbe stata alta 152 metri, e sarebbe stata completata entro il 2019. Ma era ubicata in un’area ad alto rischio sismico, ed avrebbe obbligato a sfollare 12.000 abitanti di 62 piccoli villaggi. Per questo, aveva provocato una doppia mobilitazione: quella armata dei ribelli Kachin, che avevano iniziato ad attaccare l’esercito nella zona; e quella pacifica della Lega Nazionale per la Democrazia, che aveva

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mento anti-cinese la chiave che ha permesso all’opposizione di tornare sulla scena. A ogni modo, l’allontanamento dalla Cina implica un riavvicinamento all’Occidente, che non poteva non richiedere nuovi passi sulla via della transizione. Il 6 ottobre è stata istituita una Commissione per i Diritti Umani. Il 12 ottobre è stato clamorosamente rilasciato Zargana; un famosissimo comico che nel 2008 era stato condannato a 59 anni per essersi preso gioco dell’inefficienza del regime nell’affrontare il devastante ciclone Nargis, che aveva ucciso 140.000 persone. Assieme a lui sono stati liberati altri prigionieri politici di cui non è stata data una cifra ufficiale, ma che sono stati stimati tra i 200 e i 300. È vero che ne restano dentro altri 1000-1500: esclusi dalle due amnistie che nel 2009 e a maggio hanno rimesso in libertà prima 7000 e poi altri 15.000 detenuti, però per reati comuni. Subito prima, l’11 ottobre era stata promulgata la nuova legge che consente sia la libertà sindacale che quella di sciopero: e qui siamo veramente alla rivoluzione, per un Paese dive i sindacati erano al bando dal 1962, e che l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (Ilo) ha più volte accusato di sottoporre detenuti e mem-

tato di crearsi complicazioni con i Paesi occidentali. Il 18 novembre dopo un congresso di 100 dirigenti la Lega Nazionale per la Democrazia ha deciso all’unanimità che pur mantenendo gran parte delle sue critiche al processo politico in corso si registrerà come partito in modo da partecipare a elezioni suppletive che si terranno all’inizio del 2012 per eleggere 48 deputati. Ciò permetterà anche a Aung San Suu Kyi di essere eletta, e di rientrare in pieno nel processo politico.

Emendata la legge elettorale che impediva agli ex-detenuti politici come Aung San Suu Kyi di candidarsi, per la Lega restavano essenzialmente tre nodi: l’impegno chiesto ai candidati di dichiararsi a favore della Costituzione del 2008; il rifiuto del governo di “ammettere il furto” di quelle elezioni del 1990 in cui la stessa Lega aveva stravinto; i detenuti politici ancora dentro. Ma una promessa formale di Thein Sein a Aung San Suu Kyi che i detenuti saranno liberati «non appena possibile» e l’articolo su un giornale ufficiale in cui il presidente dell’Assemblea Shwe Mann ha riconosciuto la vittoria della Lega nel 1990 sembrano aver convinto che anche su questi ultimi punti in sospeso c’è in

L’allontanamento dal Dragone implica un riavvicinamento all’Occidente, che richiedeva nuovi passi sulla via della transizione. Il 6 ottobre è stata istituita una Commissione per i Diritti Umani bri di minoranze etniche a pratiche di lavoro forzato assimilabili a una vera e propria schiavitù. Ci sono, è vero, alcuni requisiti da rispettare, ma tutto sommato abbastanza ragionevoli: un sindacato dovrà avere almeno 30 iscritti e lo sciopero dovrà avere un periodo di preavviso. «Chiaramente, si tratta di un passo estremamente positivo» ha commentato l’Ilo, i cui esperti erano stati contattati al momento di redigere la legge. Anche la Lega Nazionale per la Democrazia ha manifestato apprezzamento, e per spiegare la legge il vice-ministro del Lavoro Myint Thein ha accettato di rilasciare un’intervista a una radio dell’opposizione in esilio. Ovviamente, la notizia sarebbe stata più positiva ancora se accompagnata dal rilascio dei numerosi sindacalisti che restano invece per il momento ancora in galera.

Proprio in riconoscimento a questa evoluzione, il 15 novembre è venuto in visita il ministro dello sviluppo internazionale britannico Andrew Mitchell, pur se appena arrivato ha chiesto subito il rilascio dei residui prigionieri politici. Il 17 novembre il vertice di Bali dei dieci Paesi dell’Asean ha a sua volta concesso per la prima volta a Myanmar di ospitare uno dei prossimi incontro del gruppo, nel 2014. Poiché ciò implica la presidenza di turno l’Asean in passato aveva evi-

corso un’evoluzione positiva. E il 21 novembre tre movimenti di guerriglia delle minoranze etniche in rivolta hanno a loro volta annunciato una tregua, mentre altri due hanno accettato di iniziare negoziati. Già il 18 lo stesso Obama aveva però chiamato Aung san Suu Kyi, e dopo un colloquio telefonico ha annunciato che a dicembre verrà in visita lo stesso Segretario di Stato Hillary Clinton. Il primo Segretario di Stato Usa a recarsi nel Paese in mezzo secolo. Se ne ricaverà un’immagine positiva, allora le sanzioni saranno tolte, e Myanmar uscirà dal ghetto internazionale in cui è stata rinchiusa per tanto tempo. Un Paese con immense riserve di gas e petrolio non ancora sfruttate, un grande potenziale idroelettrico, il 75% delle riserve mondiali del pregiato legno tek e il 90% dell’esportazione mondiale di rubini che però sia Bulgari che Tiffany e Cartier rifiutano per via dell’embargo internazionale al governo repressore, un passato di primo esportatore di riso del mondo e un presente di secondo produttore di oppio, una ricchezza turistica intatta, produttore di zaffiri, perle e giada, il Paese è passato dal secondo più ricco del Sud-Est Asiatico, come era ai tempi del colonialismo inglese, al più povero. La speranza e che con la democrazia possa tornare a fiorire anche l’economia.


cultura

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In «Religione all’italiana», Garelli fotografa la fede nel nostro Paese. Che continua a essere a maggioranza cattolica

Losing my religion? Un’inchiesta ci dice che in Italia c’è voglia di sacro, ma con qualche riserva sulla Chiesa di Gabriella Mecucci li italiani e i portoghesi sono i due popoli più religiosi d’Europa. L’80 per cento ha la propensione a credere in Dio contro il 63 per cento degli spagnoli, il 60 del belgi, il 53 dei francesi. Un indiscutibile primato per la verità toccato anche in passato. Ma se la fede è ampiamente diffusa, di che tipo di fede si tratta? A questa e ad altre domande risponde una ricerca coordinata da Franco Garelli su un campione di 3.160 persone, e ora pubblicata dalla casa editrice il Mulino col titolo: Religione all’italiana. Quali ne sono gli ingredienti? Si ritrovano insieme secolarizzazione e voglia di sacro, fede dubbiosa e atei devoti, protagonismo della chiesa e cattolicesimo su misura, bricolage religiosa e potenza del carisma.

G

Il rapporto con Dio dei nostri connazionali sfugge alle vecchie rigidità e si presenta come flessibile, accomodante, selettivo. Ciascuno adatta a sé la tradizione operando gli scosta-

menti dall’ortodossia e dalla pratica che più gli si confanno. La stragrande maggioranza della popolazione continua a identificarsi col cattolicesimo (al secondo posto, ma a distanza abissale, si trova l’Islam) anche se non sempre condivide le indicazioni della gerarchia ecclesiastica e se ne discosta soprattutto nella morale sessuale e interna alla famiglia. Contesta dunque certi orientamenti? Niente affatto. Un grandissimo numero di intervistati invita la Chiesa a tenere i propri principi ben fermi. Vuole che indichi punti di rifermento ben riconoscibili, per poter però anche allontanarsene nel momen-

piangono o all’ancora più comune moltiplicarsi dei miracoli. Oggi però c’è qualcosa di nuovo che va ben aldilà dei confini nazionali. Il fenomeno ha spinto alcuni studiosi a parlare di «reincantamento del mondo».

Un processo che contrasta con la «deprivazione spirituale» che pure in tanti, e di recente, hanno denunciato. Altrove questa nuova spiritualità si distanzia dalla religiosità vera e propria e si rivolge in modo massiccio verso la New Age e verso i nuovi culti; da noi al contrario resta, nonostante qualche flessione, fortemente ancorata al cattolicesimo. Particolarmente in-

Un gran numero di intervistati invita il Vaticano a tenere fermi i principi.Vuole che indichi punti di riferimento riconoscibili,per poter però allontanarsene nel momento in cui appare più giusta un’altra scelta to in cui gli appare più giusta un’altra scelta. In questo modo la “religione all’italiana” salva capra e cavolo: forti valori di riferimento ma anche libera adattabilità ad essi. Dalla ricerca di Garelli emerge comunque una crescente «voglia di sacro», «un’esperienza diretta del trascendente, del tutto singolare e inedita per il tempo presente». Un numero sempre maggiori di italiani dichiarano di avvertire segnali del soprannaturale. Di esperienze del genere era in passato assai ricca la religiosità popolare, basti pensare al fenomeno delle Madonne che

teressante è la distinzione fra spiritualità e religiosità. In Italia il tasso di chi si dichiara impegnato in una ricerca religiosa e in una ricerca spirituale è identico ( 73 per cento), col secondo in leggera crescita, mentre in altri Paesi occidentali si distanzia anche di molto, con un forte incremento - soprattutto nel mondo anglosassone - di chi privilegia la spiritualità rispetto alla reliSe la fede giosità. «tradizionale» nel nostro

Paese tiene bene le proprie posizioni, vediamo però come si manifesta e in quali forme, dove si manifesta, in chi si manifesta. L’80 per cento degli italiani è dunque propenso a credere in Dio ma solo il 46 per cento non ha dubbi, che invece nutre ben il 25 per cento, mentre quasi il 12 per cento ha convinzioni altalenanti che sono mutate e mutano nel tempo. Le donne credono più degli uomini. E questo non è un dato sorprendente, lo è invece il fatto che le aree a più basso tasso di religiosità siano il Centro e quello che un tempo veniva definito il cattolicissimo Nord Est. I giovani, infine, hanno meno fede degli anziani e della popolazione in età matura. Fra

tutti i credenti è in crescente diffusione la preghiera individuale, mentre calano coloro che partecipano ai riti collettivi e ai sacramenti. Fra questi quello più in crisi è la confessione. Quest’ultimo sembrerebbe un trend che avvicina i cattolici italiani al protestantesimo. A questo va aggiunto il grande dibattito che si va sviluppando all’interno del cattolicesimo sul celibato dei sacerdoti e sulla femminilizzazione del clero. La maggioranza (il 47 per cento) degli intervistati è d’accordo con l’abolizione del primo e il 43 per cento vorrebbe l’introduzione del secondo. Queste scelte vengono anche indicate come strade per uscire dalla crisi delle vocazioni. La ricerca di Garelli diventa particolarmente interessante quando si addentra nei temi di più scottante attualità quali il ruolo della Chiesa nel discorso pubblico, il concetto di laicità, nonché le questioni etiche di inizio e fine vita: dall’aborto, alla procreazione assistita, all’eutanasia. Una pietra tombale viene deposta sulla vexata quaestio della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici. Gli italiani vogliono che il più alto dei simboli cristiani resti attaccato alle pareti di scuole e tribunali. Quasi l’80 per cento difende questa scelta con motivazioni forti e convinte. La prima di queste motivazioni è rappresentata dalla convinzione che quell’immagine incarni valori universali in cui tutti gli uomini - non solo di


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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

In queste pagine: un’immagine di San Pietro; uno scatto della Sinagoga di Roma; un’illustrazione della Moschea Blu di Istanbul; la copertina del volume di Franco Garelli «Religione all’italiana» (Il Mulino, pp. 256, euro 17,00)

Interessante è la distinzione fra spiritualità e religiosità. Da noi il tasso di chi si dichiara impegnato in una ricerca religiosa e in una spirituale è identico (73%), mentre in altri paesi si distanzia di molto qualsiasi fede, ma anche i non credenti - possono riconoscersi.

La seconda motivazione è che il crocifisso costituisce l’emblema della storia e della cultura italiana, simbolo non solo della religione nazionale ma del sentimento nazionale. Insomma, gli italiani risolvono a stragrande maggioranza la querelle dai portata laicisti nei tribunali italiani ed europei. La presenza o no del crocifisso ha rappresentato per molti anni infatti una sorta di avamposto su cui si misurava l’orientamento collettivo sul ruolo che doveva e poteva avere la chiesa nella sfera pubblica. Su questo punto l’opinione è di gran lunga meno compatta che sul crocifisso. Solo una metà degli italiani pensa che la chiesa abbia il diritto-dovere di manifestare le proprie opinioni sulle grandi questioni etiche e sociale, mentre il 27 per cento si pronuncia contro questa attitudine delle gerarchie. Il dato segna comunque una netta

sconfitta di certo laicismo. Sulla vicenda concreta del referendum sulla procreazione assistita si equivalgono coloro che giudicano positivamente il comportamento dei vescovi italiani (circa il 39 per cento) e coloro che lo ritengono un’ingerenza su questioni politiche (il 35 per cento). In quell’occasione la chiesa non solo - come si ricorderà - manifestò il proprio orientamento a lasciare invariata la legge approvata dal parlamento, ma indicò anche il modo per ottenere quel risultato e cioè non partecipare al voto referendario. E fu proprio questa la scelta che fece una larga maggioranza di italiani: più dei due terzi. Ma su questa indicazione dei vescovi si scatenò la durissima politica dei difensori della laicità dello stato e della politica. Per quanto riguarda gli appelli sociali della chiesa: dalla solidarietà verso i più deboli e alla difesa della famiglia fondata sul matrimonio, raggiunge quasi l’80 per cento l’apprezza-

mento degli italiani. Nonostante siano molti ormai coloro che vivono non sposandosi o divorziandosi, una larghissima maggioranza incoraggia la coerenza della chiesa nel difendere questi valori che ritiene fondanti della nostra civiltà. Un’attenzione particolare la ricerca di Garelli la dedica all’atteggiamento verso i grandi temi dell’inizio e della fine della vita nonché a quelli della sua manipolazione. In questi casi le indicazioni del papa e dei vescovi non sempre incontrano le preferenze degli italiani. L’esempio classico a riguardo è rappresentato dalla condanna dell’aborto. Questa scelta - come è noto - è fortemente contrastata dalla chiesa, mentre gli italiani sulla questione si dividono in due grandi gruppi. Il primo, oltre il 57 per cento, è in linea di principio contrario all’interruzione volontaria della gravidanza, mentre il secondo (circa il 43 per cento) giudica inaccettabile la posizione delle gerarchie ecclesiastiche. Ma la questione è ancora più complicata: non è infatti questa la linea di demarcazione fra abortisti e antiabortisti. In realtà chi condanna l’aborto sempre e comunque non raggiunge il 25 per cento, mentre quasi il 54 per cento lo ammette in alcune situazioni particolari. E il 23 per cento sempre, se è il frutto di una libera scelta. È chiaro dunque come la porzione più ampia della popolazione sia per una regolamentazione. Altri sondaggi d’opinione attestano come ci sia un’adesione maggioritaria verso la legge in vigore, di cui si chiede da più parti la piena attuazione. L’altro grandissimo problema rispetto al quale le opinioni della chiesa non sono rappresentative della maggioranza è quello del fine vita. E in particolare dell’eutanasia. Su questa questione il 37 per cento

del campione si dichiara favorevole, controbilanciato da un terzo che dice un no senza se e senza ma. Circa il 30 per cento, però, si dichiara incerto. Milioni e milioni di persone preferiscono dunque non dare una risposta netta a questo interrogativo. Quanto alla riproduzione assistita, gli italiani sono d’accordo a larga maggioranza con quella omologa (77 per cento), ma in modo più risicato con quella eterologa (55 per cento) e con le manipolazioni dell’embrione a fini terapeutici (52 per cento), ma ritengono che tutte queste pratiche debbano essere sottoposte a limiti e controlli stabiliti per legge. Non si tratta dunque di un’acritica adesione. Quanto al rapporto fra italiani e politica, i cattolici sono di gran lunga più orientati verso il centro, mentre i non credenti privilegiano la sinistra. I cattolici però non sentono più come preponderante l’impegno a votare partiti che siano portatori di valori cristiani (solo il 24 per cento), mentre il 45 per cento ritiene di poter esprimere il proprio consenso verso qualsiasi forza politica, nessuna esclusa. Insomma, ormai c’è stato in questo campo un vero proprio rompete le righe, rispetto agli anni d’oro della Dc.

In generale in Italia si va verso un atteggiamento più «flessibile» e più «plurale» verso la religione senza però che ciò indichi l’abbandono del cattolicesimo. Casomai comporta una sorta di «cattolicesimo perQuanto alla sonalizzato». chiesa, il suo maggiore protagonismo degli ultimi anni non viene bocciato dagli italiani che, pur riservandosi la decisione finale e anche la possibilità di dissentire con le gerarchie, gradiscono che esista un soggetto forte, portatore di valori forti.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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