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he di cronac
Il privilegio dei grandi è vedere le disgrazie da una terrazza
Jean Girardoux
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 30 NOVEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Ieri il giuramento dei nuovi tecnici dell’esecutivo: «Saremo trasparenti, non ci sono conflitti d’interessi»
Il complesso dell’armistizio Pdl e Pd hanno fatto una scelta storica. Ma quasi se ne vergognano La nomina dei sottosegretari ha reso più chiaro come l’appoggio a Monti, reale e leale, sia ancora frenato dall’imbarazzo di “collaborare con il nemico”. Ma che male c’è a unirsi per salvare il Paese? IL BICCHIERE MEZZO PIENO
IL BICCHIERE MEZZO VUOTO
Parla Massimo Cacciari
Ci vuole tempo. La guerra tra i Poli è finita da poco
Non capiscono. Nel 2013 nulla sarà più come prima
di Osvaldo Baldacci
di Giancristiano Desiderio
anno un po’ tenerezza questi del Pdl e del Pe che stanno insieme facendo finta di non starci. Come dei fidanzatini clandestini, ma non di quelli romantici che stanno insieme contro tutto e tutti. Piuttosto come due adolescenti che si nascondono da tutti perché per prima cosa si nascondono da loro stessi, non sanno ancora bene quali siano davvero i rapporti tra loro e come cambino le relazioni con gli altri e col mondo. E con un rapporto così incerto e fragile non se la sentono di affrontare i giudizi degli altri. Ecco, così sono Pd e Pdl che hanno insieme votato la fiducia a Monti, ne sono un sostegno essenziale e hanno contribuito a suggerire i tecnici giusti. a pagina 3
anno vergogna. Sì, proprio così: il Pdl e il Pd un po’ si vergognano del governo e glielo si legge in faccia. Provano vergogna per tre motivi: due opposti e uno in comune. Il Pdl ha vergogna della situazione in cui si è venuto a trovare perché il governo Monti è di per sé la sconfitta del governo Berlusconi. Se l’ultimo governo Berlusconi avesse fatto bene il suo lavoro, e non negli ultimi mesi ma da quando subentrò al governo Prodi, beh, è fin troppo facile capire che non ci sarebbe stato bisogno di passare la mano. Il Pd ha vergogna perché per la tradizione e la storia che ha alle spalle non riesce a identificarsi pienamente nel governo di Mario Monti e di Corrado Passera. a pagina 3
«Ecco cosa succederà dopo l’8 settembre bipolare»
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Il governo discute le misure anti-crisi
Manovra da 20 miliardi Nuovi criteri per l’anzianità Il premier presenta la sua «squadra forte e snella» e pensa alle riforme economiche *****
Marco Palombi • pagina 5
Il cancelliere illustra i piani per la ripresa, mentre Cameron punta il dito contro l’Ue
«Ci vorrà ancora tempo, ma questo governo può essere davvero il punto di partenza di una nuova stagione politica»
Antonio Picasso • pagina 6
Franco Insardà • pagina 4
Il piano d’emergenza di Osborne
E Londra si prepara a un’Unione senza Euro
La Gran Bretagna aveva appena proposto all’Onu nuove sanzioni all’Iran
Teheran, assalto all’ambasciata Guerriglia contro la rappresentanza inglese: liberi sei ostaggi di Luisa Arezzo
Dopo la morte di Svetlana
Premiata ditta Eredi Stalin
Lotta all’Occidente per cercare consenso
Questo regime va in cerca di guai
opo le urla e le minacce del regime contro la Gran Bretagna, ieri alle cinque del pomeriggio, ora di Teheran, un nutrito gruppo di manifestanti (studenti, secondo Mehr, l’agenzia di stampa del Paese) - soprattutto Basji, l’orgaizzazione paramilitare dei pasdaran secondo il foreign office inglese - è passato dagli slogan ai fatti, assaltando l’ambasciata e prendendo in ostaggio 6 dipendenti che poi sono stati liberati.
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di Mario Arpino ecisamente, Teheran sta andando in cerca di guai. L’occupazione dell’ambasciata britannica è un fatto grave, ma non ci meraviglia. a pagina 11
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a pagina 10 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
232 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
Maurizio Stefanini • pagina 8 19.30
prima pagina
pagina 2 • 30 novembre 2011
L’appoggio al governo, leale e reale, a volte è frenato dagli imbarazzi incrociati: un prodotto dei vecchi equilibri
Il disturbo bipolare
Ogni giorno che passa è sempre più evidente che Pdl e Pd si vergognano di ammettere che «governano insieme». Può nuocere a Monti? Vedremo... Ma quel che è certo è che sbagliano. Perché da ora in poi tutto dovrà cambiare di Riccardo Paradisi no strano sentimento s’aggira nei palazzi della politica italiana. È come se Pd e Pdl, provassero una sorta di pudore, di malcelata vergogna a collaborare con il governo Monti. Un esecutivo che, fino a prova contraria, hanno essi stessi votato con amplissima maggioranza in Parlamento. Una resistenza, una riserva mentale, un pudore si diceva, che si traduce in atteggiamenti che appaiono contraddittori, che animano contorsioni argomentative, ispirano goffe resispiscenze pubbliche.
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Un clima che s’è diffuso e depositato in queste settimane ma che s’impone già all’indomani dell’insediamento di Mario Monti a Palazzo Chigi con i veti incrociati sulla presenza di figure politiche nell’esecutivo. È il Pd ad alzare immediatamente gli scudi contro l’eventualità di una partecipazione di Gianni Letta nell’esecutivo mentre l’Idv di Di Pietro minaccia di restare all’opposizione di
fronte a una simile eventualità. Idv che continua a mantenere una posizione tattica e ondivaga, fissando il timone della sua navigazione sulla rotta a zig zag dell’appoggio esterno: «decideremo su ogni provvedimento», rassicura i suoi Di Pietro messo in croce dagli ultras della base per aver accettato di dare soccorso al ”governo di Goldman Sachs”. Dall’altra parte il Pdl insiste su un racconto dietrologico sull’avvento del governo Monti: descrivendolo come un colpo di mano tecnocratico per rovesciare Berlusconi. Bossi si spinge addirittura ad affermare che l’ex premier è stato ricattato tramite la minaccia alle sue aziende, affermazione che si attira l’immediata smentita del Cavaliere: «Mi sono dimesso per senso di responsabilità». Ma se Berlusconi si mostra disponibile alla collaborazione con Monti – «lasciatelo lavorare dice ai più impazienti del suo partito che rumoreggiano per il ritardo nella formazione della squadra di governo»
- alimenta contemporaneamente la narrazione del colpo di mano, rimarca il fatto che la crisi non solo non s’è risolta dopo le sue dimissioni ma s’è ulteriormente aggravata. E non chiude con la lega Berlusconi che tiene aperta la finestra degli incontri settimanali con Bossi e snobba le dichiarazioni di Maroni sulla fine dell’alleanza nel centrodestra tra Pdl e Lega. Ci sono insomma due piani nel cassetto di Berlusconi: la strategia del rassemblamento
al centro - su cui sta lavorando Alfano - e l’opzione della nuova alleanza con la Lega.
Un doppio binario che incanala in una dialettica interna controllata le due grandi correnti del centrodestra, quella moderata che cerca la ricomposizione al centro e quella più intransigente che ha chiesto fino a ieri elezioni e che continua a opporre obiezioni al governo. «La squadra di governo si completa con professionalità assolutamente rispettabili - dice l’ex ministro per l’attuazione del programma Rotondi, uno tra gli oltranzisti Pdl – Restano la mie riserve politiche». E va nella stessa direzione la polemica di Maurizio Gasparri sulla nomina di Giampaolo D’Andrea ai rapporti con il parlamento. È il capogruppo del Pdl Cicchitto a gettare acqua sul fuoco senza però rinunciare a qualche puntura. Cicchitto ammette lo stato d’agitazione interno
al centrodestra ma il centrosinistra, rilancia, non se la passa mica bene: «Noi cercheremo di mantenere buoni i rapporti con la Lega, ma non mi sembra che a sinistra vada meglio. La polemica interna al Pd proprio su ricette di natura economica, è emblematica, e mi sembra che anche la fotografia dell’alleanza di Vasto non sia più nitida come prima». E non ha torto Cicchitto. Perché a sinistra il riflesso condizionato della collaborazione discreta meglio se nascosta col governo Monti - agisce con grande forza. Il Pd non smette di subire il pressing di Di Pietro e persino della galassia grillina. Ma è con l’arrivo dei primi provvedimenti al pettine dell’esecutivo che nel Pd s’alzeranno le più dolenti note e segnatamente sul pacchetto lavoro. Anche in queste ore il responsabile economico del Pd Fassina ha incrociato i guantoni con il senatore Pd Ichino, autore della proposta sulla flexsecurity che non entusiasma la maggioranza del Pd ma che convince
Il bicchiere mezzo pieno
Il bicchiere mezzo vuoto
Ci vuole tempo. La guerra “civile” è finita da poco
Non capiscono. Nel 2013 nulla sarà più come prima
di Osvaldo Baldacci
di Giancristiano Desiderio
anno un po’ tenerezza questi del Pdl e del Pe che stanno insieme facendo finta di non starci. Come dei fidanzatini clandestini, ma non di quelli romantici che stanno insieme contro tutto e tutti. Piuttosto come due adolescenti che si nascondono da tutti perché per prima cosa si nascondono da loro stessi, non sanno ancora bene quali siano davvero i rapporti tra loro e come cambino le relazioni con gli altri e col mondo. E con un rapporto così incerto e fragile non se la sentono di affrontare i giudizi e le prese di posizioni degli altri, anche perché ancora temono di subire una mancata approvazione.
anno vergogna. Sì, proprio così: il Pdl e il Pd un po’ si vergognano del governo e glielo si legge in faccia. Provano vergogna per tre motivi: due opposti e uno in comune. Il Pdl ha vergogna della situazione in cui si è venuto a trovare perché il governo Monti è di per sé la sconfitta del governo Berlusconi. Se l’ultimo governo Berlusconi - non ce ne saranno altri dal momento che lunedì l’ex premier ha annunciato che non si ricandiderà - avesse fatto bene il suo lavoro, e non negli ultimi mesi ma da quando subentrò al governo Prodi, beh, è fin troppo facile capire che non ci sarebbe stato bisogno di passare la mano. Il Pd ha vergogna perché per la tradizione e la storia che ha alle spalle non riesce a identificarsi pienamente nel governo di Mario Monti e di Corrado Passera. Entrambi i partiti poi, tanto quello dell’ex maggioranza quanto quello dell’ex opposizione, tutto immaginavano eccetto che si sarebbero trovati nella stessa barca parlamentare a sostenere il medesimo governo, così tendono a non lasciarsi prendere troppo la mano e sono guardinghi come se avessero firmato solo una tregua che prima o poi finirà e allora si dovrà riprendere la solita vecchia storia del conflitto politico senza risparmio di colpi proibiti. Ma le cose stanno effettivamente così?
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Ecco, così sono i politici di Pd e Pdl che hanno insieme votato la fiducia al governo Monti, ne sono un sostegno parlamentare essenziale e hanno contribuito a suggerire come individuare i tecnici giusti. Epperò si affannano che no, che le loro posizioni non sono cambiate, che gli uni con gli altri non hanno niente a che fare. Una grande fatica per mascherare in modo che ritengono accettabile quello che di per sé sarebbe una cosa semplice. Questo è un governo di grande coalizione, ma non si può dire così. È un governo politico, nel senso migliore del termine, cioè un governo in cui la classe dirigente si assume la responsabilità di fare scelte politiche, anche se l’esecutivo è temporaneamente affidato a tecnici per superare una situazione di emergenza. Ma anche che è un governo politico non si può dire. E va bene, chi le idee ce le ha chiare e ha sempre detto che era necessario mettere da parte le faziosità per affrontare i veri problemi del Paese ora non ha timori né tentennamenti nei comportamenti. Gli altri invece sono più in difficoltà.Vanno anche compresi. I loro imbarazzi sono la conferma che siamo di fronte a un cambiamento sostanziale. Un miglioramento, speriamo, un accantonamento della lotta al coltello per la distruzione del nemico, costi quel che costi, anche a prezzo di far naufragare l’Italia. Ma occorreranno ancora tempo e pazienza. Non tutti riescono ad adattarsi ai cambiamenti veloci. È molto difficile per la classe dirigente, tanto più lo è per un elettorato fatto per vent’anni più di tifosi che di idealisti. E perciò i politici sono in difficoltà su tre piani. Prima di tutto con se stessi: fino al giorno prima schiumavano odio contro rivali con cui ora condividono un pezzo di cammino, è chiaro che si sentono a disagio, anzi, direi storditi. In secondo luogo con gli elettori: il terrore di perdere il consenso e di non conservare il proprio posto è giustificato dopo che per anni si è aizzato l’elettorato con l’odore del sangue, è normale che si tema che i militanti non capiscano come all’improvviso si sia diventati tutti mansueti e magari decidano di punire chi li ha mal guidati (anche se per la verità sembra che gli italiani siano più avanti di molti politici). Terzo, ma non ultimo per importanza, il passaggio deve essere digerito anche dentro i partiti stessi. Alfano e Bersani forse sono più avanti di Pdl e Pd. Hanno assunto una responsabilità importante. Ma hanno delle resistenze interne molto forti, sia ideologiche, sia pratiche, sia forse anche emotive. Hanno bisogno di tempo per far passare tra i loro concetti del tutto innovativi, come quelli così maltrattati nel recente passato di interesse nazionale e bene comune. Con pazienza e fiducia, speriamo, se il governo Monti farà il bene dell’Italia, anche chi si nasconde dietro un dito uscirà allo scoperto e rivendicherà i meriti di aver collaborato.
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Il governo Monti è ormai un dato di fatto e le forze politiche, senza le quali il governo non solo non esisterebbe ma non sarebbe neanche stato concepito, farebbero bene a “realizzare la cosa” senza fare finta che si tratti solo di una parentesi tecnica ininfluente ai fini della lotta politica. Per dirla con grande chiarezza: l’idea di arrivare alle elezioni del 2013 per proporre agli italiani la formula fallimentare del bipolarismo da guerra civile virtuale è non solo pessima ma anche irrealistica e antipolitica. Nel 2013 le cose, che già oggi sono diverse da ieri, saranno diverse da oggi. La prima diversità è l’uscita di scena di Silvio Berlusconi, vale a dire l’uomo politico che per quasi venti anni è stato il perno e il simbolo del berlusconismo e dell’antiberlusconisno. E’ bene che i due partiti ne prendano atto: l’assenza di Berlusconi modifica la natura della lotta politica e, forse, anche la composizione di schieramenti e singoli partiti. I due partiti sono trattenuti anche da altri calcoli. Il Pdl pensa all’alleanza con la Lega e il Pd non vuole che alla sua sinistra ci siano avversari. Ma che la Lega non sia più alleato del Pdl lo afferma già con chiarezza la Lega e che alla sinistra del Pd ci sia un mondo che è tanto fuori dalla maggioranza parlamentare quanto suo avversario politico e culturale è un dato di fatto. Il rischio che il Pdl e il Pd corrono seriamente se continuano a vergognarsi del governo Monti è quello di sviluppare un senso di colpa nei confronti dei loro ex alleati fino a diventarne subalterni politicamente e culturalmente. Del resto, è quanto già accaduto sia con i governi Berlusconi sia con i governi Prodi: per quanto partiti minori, erano proprio la Lega e la sinistra radicale a fare l’andatura e a dettare l’agenda. Questo - chiamiamolo così - cerchio magico è spezzato dal governo Monti che ha nella sua stessa esistenza la funzione di far fare alla democrazia italiana un passo avanti e non uno indietro. Le forze più mature che lo sostengono, che naturalmente dovranno ritornare a dividersi, ne prendano atto invece di fingere di non conoscere il governo Monti.
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pezzi importanti del partito e trova il sostegno anche di vasti settori della maggioranza. «Il due per cento del Pd che sostiene la mia proposta di cui parla Stefano Fassina sarà anche piccolo, ma è potentissimo - dice Pietro Ichino a proposito della polemica con il responsabile economico del Pd - ed è riuscito a prendersi la maggioranza dell’intero gruppo dei senatori democratici, tra i quali due vicepresidenti del Senato, poi i leader delle due grandi minoranze del partito, Walter Veltroni e Ignazio Marino, il vicepresidente del partito Ivan Scalfarotto e l’intera associazione Liberal Pd presieduta da Enzo Bianco».
Non solo: «questo 2% - continua Ichino - riesce persino a infiltrarsi tra le file della maggioranza contagiandone esponenti di primo piano come Enrico Letta, Massimo D’Alema e Giuliano Amato e negli ultimi tre anni ha organizzato 450 incontri pubblici in ogni parte d’Italia, si è tirato dietro l’intera Uil e persino il neo-presidente del Consiglio se ne è lasciato suggestionare». Ma è la sinistra Pd a stemperare questa polemica. Il senatore Vincenzo Vita distingue tra i disagi nel Pdle quelli nel Pd. «C’è un asimmetria tra noi e loro. Il Pdl ha visto il governo Monti come una sconfitta il Pd come una vittoria. Certo – ammette Vita – le contraddizioni nel Pd possono emergere sul serio se il governo Monti dovesse prendere decisioni forti in merito al lavoro. Ma Monti sa bene che il Pd rappresenta il grosso del sostegno al suo governo, perché dovrebbe provocare nel suo seno lacerazioni e problemi?» Ciò a parte restano resistenze, riserve mentali alla collaborazione reciproca e a quella con il governo. Certo non si può pensare che dopo 15 anni di guerra civile verbale tutto per incanto torni a uno stato di normalità. Un vizio di sistema per un bipolarismo che s’è tenuto in piedi grazie alo sforzo convertito di due opposte fazioni che si sono legittimate sulla delegittimazione altrui. Ma non c’è solo la spinta cinetica del recente passato. C’è anche l’interesse di settori vasti a destra e sinistra a non deporre le armi, nell’ipotesi che chiusa la parentesi Monti si debba tornare al conflitto, il quale in questi anni ha anche rappresentato una facile rendita di posizione senza l’onere per i grandi partiti di strutturare una propria identità culturale, politica e progettuale. L’Italia, sulla spinta della crisi economica, è però entrata in una nuova fase. E sono molti i segnali – dall’economia alla bioetica – che lasciano presagire che i fronti su cui si divideranno e riaggregheranno le culture politiche riguarderanno i temi di merito più che le appartenenze. Un orizzonte al di la della destra e della sinistra. O meglio al di la delle destre e sinistre che abbiamo finora conosciuto.
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l’approfondimento
Per il politologo il ruolo del Terzo Polo, convinto sostenitore del premier, sarà determinante per le prossime elezioni
Dopo l’8 settembre
Può cambiare la vocazione bellica di Pd e Pdl? E quanto tempo ci vorrà? «È ancora presto, ma Monti può davvero essere il punto di coesione di nuove alleanze. In vista di una stagione politica diversa». Parla Massimo Cacciari di Franco Insardà
ROMA. «È comprensibile che Pdl e Pd cerchino di buttare il sasso e nascondere la mano. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha imposto la presidenza di Mario Monti, proprio perché era chiaro a tutti che né il centrodestra, né il centrosinistra sarebbero mai riusciti ad assumersi da soli la responsabilità dell’emergenza. Il capo dello Stato con grande realismo lo ha capito e ha, in modo evidentissimo, imposto questo tentativo estremo. L’unico praticabile. Questo messaggio, mi sembra, che sia stato recepito da tutti, Berlusconi in testa».
Per Massimo Cacciari è questo in sintesi il quadro politico che emerge dalle ultime settimane, caratterizzate da acrobazie, incontri notturni di Pdl e Pd, quasi avessero vergogna di mostrarsi collaborativi con il governo di Mario Monti. «Si tratta di normali giochetti per coprire le loro debolezze. Dovendo mettere in campo il go-
verno Monti una serie di riforme non particolarmente soft per i cittadini e, sapendolo benissimo, i rappresentanti dei partiti cercano di non sbilanciarsi troppo. Anche se sono ben consapevoli di non avere alternative rispetto a quando il presidente Napolitano ha concordato con loro: in sostanza la blindatura parlamentare del governo Monti».
E i l p r o f e s s o r e a g g iu n g e : «Più che di pensiero debole parlerei di un tentativo di salvare la propria nicchia e per farlo dovranno per forza di cose collaborare con il governo. Il Partito democratico, così come il Terzo Polo, voterà qualsiasi cosa che il presidente del Consiglio porterà in Aula. Forse qualche malpancista è più probabile che ci sia nel Pdl. Questa situazione permette, d’altro canto, ai partiti di preparare la campagna elettorale per le elezioni del 2013, senza essere direttamente coinvolti nell’azione di governo».
Cacciari concorda con quello che Ilvo Diamanti ha scritto lunedì su Repubblicasui nostri governi che «a differenza delle Grandi Coalizioni degli altri Paesi, non sono governi di “collaborazione”. Ma di “costrizione”».
Il nodo politico fondamentale, però, per l’ex sindaco di Venezia è «quale coalizione si riuscirà a formare per il 2013 intorno alla figura di Monti: un centrodestra o un centrosi-
La Lega rischia molto: gli slogan sono superati e il partito è ministerializzato
nistra rinnovato. Sarà, infatti, lui il personaggio che continuerà a occupare la scena politica, a meno che non fallisca nel suo tentativo. La novità politica si costruirà attorno a questa figura, finché rimarrà Berlusconi sulla scena è altamente improbabile che Monti possa essere alla testa di una coalizione di centrodestra, anche se non sarà facile che lo passa essere per il centrosinistra. In questo scenario ci potrebbe essere una possibilità,
invece, per il Terzo Polo che potrebbe diventare il secondo o il primo».
Anche le divisioni e i mal di pancia all’interno degli schieramenti, secondo il politologo, sono «vecchie polemiche. Nel Pd ci sono alcuni che concordano con la posizione del Terzo Polo di appoggiare il governo Monti, al momento una minoranza, altri pensano di rifare l’Ulivo. Ad esempio la contrapposizione tra le tesi di Ichino e quelle della maggioranza del partito vanno lette alla luce del peso politico della Cgil. Ichino è stato sempre visto come il fumo negli occhi da parte del sindacato che, per tre quarti del Pd, è vitale. Il partito di Bersani non può, al momento, mollare quella sponda, così come non può abbandonare Vendola e Di Pietro. Ma, se in quest’anno, la figura di Monti leader dovesse crescere, appoggiata sine glossa dal Terzo Polo, quale futuro premier o presidente della Repubblica, il Pd e il Pdl si trove-
«Tempi lunghi per le nomine? Sono altre le emergenze del Paese», dice il capo del governo
Verso una manovra da 20 mld. Nuovi criteri per l’anzianità
Il premier presenta i sottosegretari. In arrivo le nuove misure anticrisi: sulla carta, anche l’innalzamento degli anni di contributi per le pensioni di Marco Palombi
ROMA. Il governo è finalmente nel pieno delle sue funzioni: col giuramento, ieri mattina, dei viceministri e sottosegretari a palazzo Chigi e del nuovo titolare della Funzione pubblica Patroni Griffi al Quirinale l’era di Mario Monti è davvero iniziata. Sempre ieri, per dire, ci sono stati anche i primi voti in Parlamento sull’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione, ddl che dovrebbe lasciare Montecitorio oggi (purtroppo in Senato, invece, dove si discuteva di alta formazione artistica e musicale, nonostante la nuova maggioranza bulgara, mancava ancora una volta il numero legale). Il premier, prima di volare a Bruxelles per l’Eurogruppo di ieri pomeriggio (oggi sarà presente anche ad una riunione dell’Ecofin), ha voluto comunque affrontare la stampa. Ci teneva, il professore, a sottolineare pubblicamente due cose: questo esecutivo ha dimensioni ridottissime («è snello e forte») e non ha «conflitto di interessi» indicibili, al contrario di quanto continua a scrivere parte della stampa. «Il numero complessivo delle persone che siederanno in consiglio dei ministri scenderà rispetto al precedente governo da 26 a 19. I viceministri e i sottosegretari scendono invece da 40 a 28», ha messo a verbale. In realtà in Cdm andranno in venti, perché il vice dello stesso Monti all’Economia,Vittorio Grilli, direttore generale in aspettativa del ministero, «è permanentemente invitato a seguire le riunioni del governo». A chi ha ironizzato sul troppo tempo sprecato per le nomine di sottogoverno, invece, il premier ha ricordato «le difficili condizioni che non mi hanno consentito di dedicare ogni momento alla composizione della squadra di governo. Ho dovuto dedicare parte del giorno e della notte all’elaborazione di misure economiche importanti e a intrecciare relazioni in Europa». E poi un po’ ha pesato pure «l’aver dovuto prestare opera di convincimento» nei confronti di alcuni membri dell’esecutivo: questo perché «nei governi politici la proposta di entrare in un governo è gradita ai destinatari e porta ad una immediata e lieta accetta-
rebbero in difficoltà e gli equilibri sono destinati a mutare. Mentre il Terzo Polo starebbe minimo al 20 per cento di consensi, diventando decisivo per chiunque voglia governare».
Ruolo fino a ieri ricoperto dalla Lega, determinante per il governo Berlusconi, e che oggi, secondo Cacciari, rischia di rimanere fuori da tutti i giochi. «Non può sognare di ritornare alla secessione e agli anni ’90. Per il Carroccio è a rischio la sua esistenza, perché non è più assolutamente credibile nei suoi slogan, metà del partito è ministe-
zione, che fa parte della carriera di chi svolge il nobile mestiere della politica. Nel nostro caso ho dovuto esercitare opera di persuasione», visto che qualcuno «ha dovuto rinunciare a trattamenti economici migliori e a occasioni di carriera in nome dello spirito di servizio al paese». Anche per questo «attenti a parlare di conflitto di interessi», su cui saremo comunque «di un’assoluta trasparenza»: in ogni caso, è la conclusione, «chi nella società civile ha avuto delle competenze e ha fatto la scelta di entrare nel
Il commissario Ue Olli Rehn ha chiesto di incidere di più previdenza e mercato del lavoro governo, non lo ha fatto certo per trascinare le esperienze passate». Chiaro? Poco da dire, per Monti, anche sulle polemiche sollevate da Maurizio Gasparri per la presenza nell’esecutivo (ai Rapporti col Parlamento) di Giampaolo D’Andrea, già senatore della Margherita e sottosegretario col governo Prodi: «Ho offerto alle forze politiche per questa particolare posizione di scegliere tra persone con esperienza parlamentare o con altre valenze tecniche: una ha optato per la prima, un’altra per la seconda. Rispetto entrambe, sono sicuro che anche i due sottosegretari si rispetteranno». «Non faccio finta di essere un tecnico – ha spiegato l’interessato – ma ho sempre saputo svolgere le mie funzioni con distacco e responsabilità istituzionale e a maggior ragione lo farò in un contesto politico particolare come questo». Non resta, insomma, che passare alle cose serie, a
rializzato come gli altri e quando è fuori dai centri di comando è in apnea. Ripeto se il governo Monti dovesse riuscire a ottenere dei buoni risultati, quando si arriverà al redde rationem vincerà chi lo avrà sostenuto. La Lega si è imbarcata in questa posizione isolata di opposizione che la porterà alla morte».
quelle «linee di una complessa politica economico-sociale» che il premier ha citato ieri e che sono ufficialmente attese al Consiglio dei ministri di lunedì prossimo.
Alcune indiscrezioni, comunque, già circolano: si sa che la commissione europea ha chiesto all’Italia una correzione da almeno 11 miliardi per il 2012, che sarebbe la cifra che manca a raggiungere gli obiettivi fissati a causa della crescita zero (uno 0,7% di Pil in meno rispetto alle previsioni di Tremonti), a cui andrebbero aggiunti almeno i quattro miliardi di risparmi che il governo Berlusconi aveva affidato alla delega fiscale. Ma per molti la soglia reale sarà 20 miliardi. Il commissario agli Affari economici, Olli Rehn, l’uomo che monitora i conti italiani, ha anche avanzato le sue proposte: bisogna incidere su pensioni e mercato del lavoro. Sulla previdenza le linee sono due: il blocco dell’indicizzazione degli assegni all’inflazione «in caso di crescita negativa» – concede graziosamente Rehn – e una qualche riforma che elimini o ritardi i trattamenti di anzianità. Come realizzare quest’ultima intenzione, però, non è ancora chiaro: una delle ipotesi – sarebbe clamorosa – è innalzare il requisito per il pensionamento senza soglia minima d’età dai 40 anni di contributi attuali fino a 43 anni, ma nei giorni scorsi s’è parlato pure di un passaggio per tutti al sistema contributivo (vecchia fissa del neoministro Fornero). Il problema è che i “compiti a casa”, come li chiama il premier, si fanno sì in Italia, ma li assegnano a Bruxelles e proprio nelle riunioni a cui Monti sta partecipando: «Se faremo un buon lavoro aiuteremo l’Italia ad uscire da un momento difficile», s’affida al minimalismo il presidente del Consiglio.
chi è fuori è costretto a fare i Cobas e non sono una grande potenza. È duro fare i Cobas, quando sì è abituati a fare i ministri, come lo è stato Maroni. La Lega, in questa fase, andrà alla ricerca di alleati e l’unica sponda che potrà trovare è quella con il Pdl. manterranno tutti gli accordi a livello locale e cercheranno di ricucire»
L’accusa di Roberto Maroni che ha paragonato Pd, Pdl e Terzo Polo alla nuova triplice, dopo Cgil, Cisl e Uil, per Cacciari è una lettura disperata e realistica della situazione: «Questa triplice è molto forte,
Posizione diversa per l’Italia dei Valori e Sel: «Di Pietro e Vendola hanno capito che non potevano tirarsi fuori dall’accordo con il Pd, altrimenti Bersani era destinato a trovare im-
mediatamente un accordo con il Terzo Polo. Per questo motivo dal loro punto di vista politico hanno intelligentemente dato il loro appoggio al governo Monti. Mentre il Terzo Polo diventerà assolutamente decisivo, soprattutto se non cambia la legge elettorale».
Ma Cacciari lancia un allarme di tenuta socio- culturale riferito alle nuove generazioni e fa riferimento agli ultimi sondaggi sulla crisi. Dall’indagine dell’Osservatorio Confesercenti-Ispo che fotografa un paese “spaventato” e che “vede nero”
sulla crisi economica che il 96 per cento degli intervistati non pensa che stia finendo e i più preoccupati sono i giovani.
A l s o n d a g g io r e a l i z z a t o , qualche settimana fa, dall’Istituto Demòpolis per Famiglia Cristiana sul futuro dei giovani e dei figli, sulla situazione delle famiglie e sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni. «Dal momento che il 65 per cento dei giovani ritiene che a questo punto l’uso della violenza sia legittimo vuol dire che siamo messi davvero male anche da questo punto di vista».
economia
pagina 6 • 30 novembre 2011
Il Cancelliere dello scacchiere non fa sconti all’Europa, rea di sconvolgere i bilanci di tutti gli Stati membri dell’Unione
L’Euro nella Manica Londra vara un’altra manovra durissima. Ma molti puntano sul crollo della moneta di Antonio Picasso on devono essere stati tre quarti d’ora piacevoli quelli vissuti dal governo Cameron ieri mattina. Tanto è durato il suo “Discorso di autunno”, tenuto alla camera dei comuni a Londra. L’appuntamento con cui il cancelliere dello scacchiere, George Osborne, ha esposto al Parlamento la situazione economica del regno. «La crescita attesa per quest’anno – ha spiegato Osborne – passa dall’1,7% previsto allo 0,9%. Mentre l’incremento del Pil per il 2012 si arresterà allo 0,7%, a fronte di una precedente stima del 2,7%». Per il Tesoro britannico, solo nel 2013 si potrà avere un netto miglioramento degli indici, pari al 2,1 di crescita percentuale. Un buon dato, ma per il quale bisogna attendere praticamente due anni. Peraltro, nello stesso 2013, il fabbisogno di finanziamento pubblico in Gran Bretagna potrebbe essere superiore a quello delle economie dell’eurozona colpite dalla crisi del debito.
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I conti pubblici britannici vanno peggio del previsto, con un nuovo buco annuo da 30 miliardi di sterline, almeno per il prossimo biennio. Questo mette anche il Regno
Unito sotto osservazione. Sebbene nessuno si sia ancora azzardato ad ammetterlo. Anzi, ieri la polemica sulle sponde del Tamigi verteva sull’eventualità o meno di parlare di recessione. Termine bandito come una sorta di marchio della colpa per gli inglesi e che sul continente sta diventando un’etichetta comune. Osborne, solo perché incalzato dall’opposi-
Al Parlamento, Osborne ha presentato gli interventi immediati per la crescita: soldi per le infrastrutture e dopo una cascata di agevolazioni fiscali zione laburista e dai giornali, ha ammesso gli inceppi dell’economia nazionale. Nei 45 minuti di intervento, comunque, il responsabile dell’economia del governo di sua maestà non si è risparmiato dall’elencare gli immediati provvedimenti che l’esecutivo dovrebbe adottare. Investimenti in infrastrutture e soprattutto una cascata di agevolazioni. Prima di tutto viene posticipato il temuto aumento di 3 penny della benzina. Poi si
farà fronte alla disoccupazione giovanile, a un piano case per le famiglie meno abbienti e gli incentivi in appoggio alle piccole imprese.
Interessante anche l’intervento nel campo dell’istruzione. Londra punta sulla classe dirigente. Ma sul lunghissimo periodo. É la politica degli asili nido gratuiti per circa 250mila bambini al di sotto dei due anni. Il ministro delle Finanze è riuscito a destinare 650 milioni di sterline (755 milioni di euro) al piano di early education per garantire un’istruzione pre elemetare al 40% dei
bambini al di sotto dei due anni e per consentire alle madri di tornare al lavoro. Fino a ora solo i bambini di tre o quattro anni potevano usufruire di 15 ore a settimana nelle scuole materne. I fondi, che saranno stanziati dalle autorità locali, sono destinati principalmente alle famiglie meno abbienti. In questo modo si interviene su due settori della società britannica. Quello dell’infanzia e si crea così la base per un establishment da qui a 25 anni. Ma anche quello delle famiglie, vale a dire coppie di giovani genitori, con problemi di bilancio domestico e occupazione,
All’Eurogruppo, il Commissario Rehn ci analizza: «Negli ultimi dieci anni avete sprecato tempo invece di fare riforme»
L’Italia «è ancora troppo vulnerabile» ndici o venti poco importa. Non è chiaro quanti siano i miliardi presenti nella prima manovra dell’esecutivo Monti, ma quel che è certo è che non si può più attendere. I provvedimenti per risollevare l’Italia – definiti più volte e sempre in sede europea “impressionanti”– devono essere svelati anche alla popolazione. Che si appresta a conoscere il proprio futuro. Mentre Roma sottolinea come l’Italia non ha chiesto né all’Ue né all’Fmi di avere aiuti finanziari, si appresta a incassare l’incoraggiamento Ue ad andare avanti sulla strada tracciata. Ma resta in ogni caso sotto tutti i riflettori possibili, in attesa dei provvedimenti che il nuovo governo sta mettendo a punto per riportare sotto controllo i conti pub-
U
di Massimo Fazzi blici e rilanciare la crescita. Dopo gli incontri della scorsa settimana con i vertici delle istituzioni Ue, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, ieri il presi-
nistro delle Finanze, alla riunione dell’Eurogruppo e dell’Ecofin e rassicurare i partner illustrando le grandi linee del programma del suo governo. L’Eurogruppo è un centro di coordinamento
Monti incontra i leader dell’Ue e spiega la manovra: 11 (o forse 20) miliardi da produrre entro un anno. Sul tavolo anche la questione greca e il rafforzamento del Fondo salvastati, vero motivo di frattura fra i grandi del Vecchio Continente dente del Consiglio Mario Monti – con il suo vice fresco di nomina,Vittorio Grilli – è tornato nuovamente sulla scena europea per partecipare, nella veste di mi-
che riunisce i ministri dell’Economia e delle finanze degli Stati membri che hanno adottato l’Euro, ovvero dell’Eurozona. Si tratta di una riunione informa-
le che si svolge alla vigilia di un Consiglio dei ministri dell’Economia e delle finanze, detto “Ecofin”, e permettono di discutere di questioni legate all’Unione Economica e Monetaria. L’organismo si è reso necessario in quanto con l’allargamento a 27 stati i 17 paesi che adottano l’Euro si trovano ad essere minoritari all’interno dell’Ecofin: gli incontri informali dell’Eurogruppo permettono di intensificare il dialogo sulle questioni connesse alle competenze specifiche che sono comuni agli stati dell’Eurozona. Attuale presidente dell’Eurogruppo è il Primo Ministro Lussemburghese Jean-Claude Juncker, con cui Monti ha avuto un incontro prima di entrare nella porta principale. Monti si è poi visto anche con il ministro francese Francois
economia
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luce che per gli investitori cinesi la capitale britannica resta la meta preferita, sia in termini economici che per qualità di vita. Tre i motivi. La sterlina è debole, ma comunque costante. Il regime fiscale appare vantaggioso. I rampolli delle danarose famiglie di Pechino, Shanghai e Hong Kong hanno la possibilità di frequentare scuole di altissimo livello. Se Bruxelles, per ordine di Berlino, provasse a smontare questo sistema, l’economia di tutto il Regno Unito ne pagherebbe le conseguenze. Per quanto riguarda l’India, il discorso è ancora più legato alla tradizione.
Insomma, Londra offre garanzie di benessere quotidiano alle due potenze in questo momento più in salute di tutto il mercato globale. Cameron si guarda bene da mettere in mano dei burocrati europei questo eldorado. La scelta non gli torna nemmeno difficile, visto che proprio Osborne è il più antieuropeista del suo esecutivo. Ieri il cancelliere dello scacchiere non si è risparmiato dall’inviare
nonché spesso di origine straniera. Fin qui gli interventi economici. Resta da capire come una politica tanto apprezzabile potrà essere sostenuta da un welfare così alla frutta com’è quello britannico. I laburisti infatti hanno subito contestato il piano, sostenendo che il governo conservatore «ruba nelle tasche di Peter per aiutare Paul». La traduzione è letterale, ma rende bene il concetto.«Il deficit strutturale della Gran Bretagna passerà dal 4,6% del Pil allo 0,5% nell’arco dei prossimi cinque anni». Ha replicato Osborne. Presso il suo ministero è in fase di ela-
borazione uno schema dettagliato per incentivare la produttività nazionale. A questo proposito, è probabile che 30 miliardi di sterline dei fondi prensione verranno indirizzati in investimenti infrastrutturali decennali. Un altro miliardo andrà ad aiutare l’occupazione giovanile. Mentre ben 40 miliardi di sterline serviranno per la creazione di un mercato di piccole imprese. A una prima analisi, la critica del Labour non è infondata. Emerge però una liquidità che nessuno si aspettava da parte di Londra. Liquidità che permette ai Tory di essere ottimisti. «Fare-
mo tutto il possibile per proteggere la Gran Bretagna dalla tempesta del debito», ha chiosato Osborne. In effetti quello che interessa a Londra è evitare l’alta marea finanziaria che bagna invece le coste del continente. Durante il meeting bilaterale di Berlino Merkel-Cameron, dieci giorni fa, il premier britannico si era detto disponibile a una politica comune per salvare l’euro, a patto però che fosse la Bce a dettare il passo e venissero coinvolti i big dell’economia finanziaria mondiale. Entrambe le condizioni, peraltro osteggiate dallo stesso Osborne, erano state re-
spinte dai tedeschi. Cameron era tornato a casa conservando la sua aristocratica aplomb. Evidentemente il muso duro berlinese non funziona a Londra. Così è sempre stato. La disponibilità degli inglesi ad accollarsi parte della crisi europea c’è. A patto però che le imposte sulle tassazioni finanziarie non restino esclusiva dell’Europa. Se così fosse, Cina e India, che investono tanto nella City, di fronte a nuove tasse non ci penserebbero due volte a tornare a casa. Londra ha invece bisogno di quell’ottimismo asiatico. Uno studio di Bain & Company ha messo in
Baroin. Il nostro premier ha raccolto un giudizio sostanzialmente positivo sulle misure delineate dal suo predecessore a ottobre e un invito a rispettare gli impegni presi. Ma i ministri delle Finanze di Eurolandia e dell’Ue non si sono limitati al caso italiano, e hanno scelto di confrontarsi anche con l’incalzare della crisi dei debiti sovrani dopo la giornata di tregua concessa dai mercati.
Sul tavolo del Consiglio sono arrivate le misure anticrisi, in primo luogo il potenziamento del fondo salva-Stati Efsf, la decisione sul via libera definitivo da dare alla sesta tranche di aiuti alla Grecia, le grigie prospettive economiche per il 2012, le proposte di Bruxelles per gli Eurobond e per compiere un ulteriore, incisivo passo in avanti sulla strada del rafforzamento dei controlli sui conti pubblici dei Paesi dell’Eurozona. Il tutto avendo sullo sfondo le grandi manovre in corso tra Berlino, Parigi e Roma per arrivare al vertice Ue dell’8 e 9 dicembre prossimo con nuove propo-
Con la Merkel, Cameron si era detto disponibile a una politica comune per salvare l’Euro, a patto però che fosse la Bce a dettare il passo: proposta respinta l’ennesima critica all’Europa. Siamo ben lontani dall’idea di un governo europeo coordinato per l’economia e lo sviluppo. Sempre ieri il presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi diceva: «È inutile blaterare dicendo che l’euro non va, mettendo in evidenza gli antichi dubbi di chi non voleva la moneta unica e ora sarebbe ben contento di vederne il fallimento». Si rivolgeva agli antieuropeisti nostrani, oppure agli inglesi?
gramma del suo governo, mentre il commissario Ue agli affari economici e monetari Olli Rehn ha illustrato il rapporto sull’Italia preparato alla luce delle informazioni raccolte nel corso della sua missione a Roma di venerdì scorso e da quella effettuata in precedenza dagli ispettori europei. Un documento in cui, a quanto si è appreso, si dà una valutazione sostanzialmente positiva dei provvedimenti presentati in ottobre da Berlusconi e dei chiarimenti ottenuti di Bruxelles dopo le 39 richieste di chiarimento avanzate dalla Commissione.
ste di modifica dei trattati che aprano la strada a una vera unione fiscale (ovvero delle politiche di bilancio) e, come spera l’Italia, anche alle euro-obbligazioni.
Per Monti gli incontri di ieri e di oggi sono comunque il primo vero banco di prova. Il premier ha infatti avuto il duro compito di presentare ai colleghi il pro-
L’Italia, ha scritto nel suo testo il Commissario “resta vulnerabile alla perdita di fiducia degli investitori principalmente perché non ha introdotto riforme di bilancio e strutturali più ambiziose negli ultimi dieci anni, quando le condizioni dell’economia erano più favorevoli”. Questa vulnerabilità dipende dall’alto debito pubblico e dal basso tasso di crescita. Gli argomento su cui Monti deve esercitarsi.
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acque il 28 febbraio del 1926, a Mosca, come Svetlana Iosifovna Stalina; nel 1953, dopo che il 5 marzo era morto il padre, si ribattezzò Svetlana Allilueva, col cognome della madre; ma come Lana Peters, dal cognome del suo terzo marito, è morta il 22 novembre 2011 a Richland Center, casa di riposo del Wisconsin, anche se il suo decesso è stato reso noto con sei giorni di ritardo. Aggiungiamo altre due storie d’amore che prima il padre e poi il regime di Breznev e Kossighin bloccarono, e un doppio avanti e indietro tra Urss e Usa intervallati da passaggi per India, Regno Unito, Svizzera, perfino Italia. Ed è fin troppo facile comprendere il dramma di una donna che nei suoi 85 anni di vita ha cercato di evadere in continuazione da sé stessa, e ancor di più dal terribile genitore che le era capitato. «Sono venuta qui per cercare la libertà di espressione che mi è stata negata per tanto tempo in Russia», disse nel 1967, al momento di atterrare a New York. «Non ho goduto di vera libertà né negli Stati Uniti né nel Regno Unito», si corresse nel 1984 al ritorno in Unione Sovietica. «Mosca non mi piace più», spiegò nel 1986 nel ripassare in Occidente. «Mio padre mi ha rovinato la vita», confessò infine in un’intervista del 2010 al Wisconsin State Journal. «Ovunque io vada, qui, in Svizzera, in India, non importa dove, in Australia, su un’isola, sarò per sempre la prigioniera politica del nome di mio padre». Non era l’unico figlio del dittatore, anche se si trattava della sola femmina; e neanche sua madre era stata l’unica donna a darle figli. Il primogenito, Jakov Dzugasvili, era nato infatti nel 1907, quando il
N
Tra i congiunti, è stata l’unica a ricevere da lui aperte manifestazioni di affetto. «Il mio passerottino», la chiamava. «La principessina del Cremlino», dicevano nel suo staff 29enne ex-seminarista era ancora un cospiratore anti-zarista specializzato in rapine. La madre era la prima moglie Ekaterina Svanidze: una sartina sorella di un suo compagno di cospirazione, che però poco dopo il parto morì di tifo, appena 22enne. Marito molto distratto dal suo impegno rivoluzionario ma al contempo innamoratissimo, Stalin al momento del funerale si gettò letteralmente nella fossa sulla bara, e bisognò tirarcelo fuori di peso. «Questa creatura aveva ammorbidito il mio cuore di pietra, adesso è morta e con lei sono morti per me gli ultimi sprazzi di calore umano», urlava nel dolore.
Morirono a tal punto che quasi tutta la famiglia di lei venne sterminata durante le grandi purghe: compreso il cognato Alexander, arrestato dalla Nkvd nel 1937 con l’accusa di essere una spia tedesca, e giustiziato con un colpo alla nuca nel 1941 dopo lo scoppio della guerra assieme alla moglie e a un’altra sorella, per evitare che un’avanzata della Wehrmacht potesse liberarli. Quanto a Jakov, il padre lo maltrattò a tal punto che lui cercò di suicidarsi, senza riuscirci. E il commento di Stalin fu: «Neanche è capace di sparare dritto!”. Tenente di artiglieria nel 1941, fu quasi subito cat-
il paginone turato dai tedeschi, che dopo la battaglia di Stalingrado proposero al padre, di scambiarlo col feldmaresciallo Paulus. «Non scambio un soldato con un generale» rispose il dittatore, che intanto aveva fatto internare alla Lubyanka la nuora e i nipoti. «Finalmente si è comportato da uomo», fu infine il suo commento quando seppe che il 14 aprile del 1943 Jakov si era ucciso gettandosi contro la recinzione elettrificata del campo di prigionia dove era recluso. Il secondogenito era stato poi Kostantin Kuzakov, concepito con Marija Kuzakova: una contadina madre di tre figli vedova di un caduto nella Guerra Russo-Giapponese, presso la cui casa Stalin aveva risieduto durante un periodo di confino. Nato quando già il padre era partito, non ebbe mai con Stalin un vero incontro, limitandosi a vederlo da lontano.
Ma, in cambio di un impegno sottoscritto con la Nkvd a non rivelare mai le sue origini, ne ebbe favorita la carriera: ammesso all’Università, impiegato al Comitato Centrale del partito, colonnello dell’Armata Rossa. Anche lui però nel 1947 incappò in una purga, e solo con la morte del padre fu riammesso nel partito, riuscendo anche a diventare direttore della tv sovietica prima di morire nel 1966. Terzogenito, Aleksandr Davydov, nato nel 1917. Il cognome è del contadino che sposò sua madre Lidija Pereprygina, a sua volta una tredicenne conosciuta da Stalin durante un periodo di confino in Siberia. Anche a lui la Nkvd fece firmare un impegno alla riservatezza, ma in cambio di una carriera molto meno importante: postino, istruttore del Komsomol, soldato
L’unica figlia femmina del dittatore sovietico, Svetlana, è morta il 22 novembre scorso negli Stati Uniti. Aveva 85 anni
Premiata ditta
di Maurizio semplice durante la Seconda Guerra Mondiale, poi maggiore, infine direttore di uno spaccio in una città mineraria, dove morì nel 1987. Solo nel 1919, a rivoluzione ormai avvenuta e con Stalin ormai tra i dirigenti del novo potere sovietico, il rivoluzionario di professione decise di risposarsi, quando già aveva 41 anni. Nadezda Sergeevna Allilueva lo aveva conosciuto da bambina di 7 anni, quando suo padre a sua volta attivista bolscevico lo aveva nascosto dopo un’evasione dal carcere nel 1908. E dopo l’Ottobre Rosso la ragazza era diventata impiegata di fiducia nell’ufficio di Lenin.
Il 21 marzo 1921 nacque dunque il quartogenito e secondogenito legittimo Vasilij, e appunto nel 1926 Svetlana. Ma a un’amica Nadezda rivelò che quell’unione era stata imposta a forza, e che i
litigi erano continui. Infine, il 9 novembre del 1932 fu trovata morta, con un revolver vicino. Il regime cercò di farlo passare come un decesso per peritonite, alcune teorie ipotizzano un omicidio, ma la tesi predominante è per un suicidio: anche se non è del tutto chiaro se si sia trattata di semplice insofferenza per le infedeltà e l’autoritarismo del marito uniti allo stress del dover allevare due figli mentre nel contempo studiava per un diploma, o se davvero sia stato anche un gesto di protesta contro le grandi purghe e la guerra ai contadini. Gran parte dei russi crede però in quest’ultima interpretazione, e per questo la sua tomba è tuttora costantemente coperta di fiori. La morte della seconda moglie portò comunque a un abbandono dei figli da parte del padre, che li lasciò a bambinaie e precettori. Già pessimo scolaro prima ancora della tragedia e
il paginone
In queste pagine: immagini di Svetlana Stalin, unica figlia femmina del dittatore sovietico, già anziana da sola e più giovane insieme con il padre; il nipote di Stalin, Yevgeny Dzhugashvili
a Eredi Stalin
o Stefanini attratto dal bere per una probabile predisposizione ereditaria da parte del nonno paterno, quando Vasilij volle fare la carriera militare si trovò preso in una strana tenaglia tra il capo dell’Nkvd Lavrentij Berija che cercava di favorirlo e procurargli privilegi, e il padre che non appena se ne accorgeva lo rimetteva nei ranghi. Ufficiale dell’aeronautica comunque capace anche di distinguersi in servizio, alcune gesta eroica durante la guerra gli permisero di divenire generale e comandante dell’aviazione sovietica nell’area di Mosca, ma poi perse il grado per un incidente aereo durante una parata militare forse dovuto a un suo stato di ebbrezza alcolica, e un mese e mezzo dopo la morte del padre fu addirittura arrestato con l’accusa di aver rivelato segreti di Stato durante una cena con diplomatici stranieri. Dopo sette anni di carcere nel 1960 tornò
in libertà ed ebbe anche una pensione e una casa, ma non una riabilitazione ufficiale. Per annegare il dolore si mise a bere ancora di più, e di troppo alcol morì, il 19 marzo 1962. A parte la prima moglie e la madre, dunque, Svetlana è stata l’unica tra i congiunti del dittatore a ricevere da lui aperte manifestazioni di affetto.
«Il mio passerottino», la chiamava lui. «La principessina del Cremlino», dicevano nel suo entourage. «Tutto l’amore di mio padre era per me e la ragione era che assomigliavo a sua madre», avrebbe raccontato lei. Ma con personaggi del genere, può capitare che l’affetto sia più devastante dell’indifferenza. «Era un uomo semplice», è il ricordo di lei. «Grossolano, molto crudele. Niente in lui era sfumato. Era molto semplice con noi. Mi amava e voleva che io di-
venissi una marxista ben formata». «Non puoi rammaricarti per il tuo destino; ma io mi rammarico del fatto che mia madre non abbia sposato un falegname». Orfana di madre a sei anni, Svetlana si innamorò però a 16 di Alexei Kapler: un regista ebreo quarantenne già sposato, e noto dongiovanni. Il dittatore prese lei a schiaffi, e fece spedire lui nel lager siberiano di Vorkuta, giusto l’anno dopo che aveva ricevuto un Premio Stalin. Comunque sopravvisse: nell’Artico organizzò un teatro di forzati, tornò in libertà, e morì nel 1979. Per consolarsi lei si mise allora a 17 anni con il compagno di università Grigori Morozov: anch’egli ebreo, ma suo coetaneo. Stavolta il dittatore non si oppose al matrimonio, ma giurò che non avrebbe mai incontrato lo sposo. Nel 1945 nacque Iosif, che divenne un celebre cardiochirurgo, ed è morto il 2 novembre del 2008. Ma già nel 1947 i suoi genitori divorziarono, e nel 1949 Svetlana sposò Jurij Zdanov: che era poi il figlio di quell’Andrei Zdanov cervello della politica culturale staliniana e inflessibile propugnatore del realismo socialista. Nel 1950 nacque Ekaterina, ma anche questo matrimonio si dissolse in breve tempo. Sempre più insoddisfatta, come si è già ricordato, Svetlana approfittò della morte del padre per mimetizzarsi sotto il cognome della madre, e con quello si mise a fare l’insegnante e traduttrice a Mosca. In quella veste fece conoscenza nel 1963 con Brajesh Singh: un comunista indiano in visita. Nacque così un grande amore, lui nel 1965 tornò a Mosca a fare il traduttore per starle vicino, ma il regime post-staliniano e post-krusceviano non permise ai due di sposarsi. Lui addirittura ne morì, nel
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1966. A lei fu solo concesso di andare in India, a riportare le ceneri di lui alla famiglia perché le potesse gettare nel Gange. «Fu quello il mio viaggio di nozze», raccontava. Per un paio di mesi, lei cercò di imparare i costumi locali. Ma il 6 marzo del 1967 si presentò all’ambasciata americana di New Delhi, e chiese un asilo politico che le fu concesso. Grave imbarazzo del governo indiano: democratico e pluralista sul piano interno, ma strettamente alleato con l’Unione Sovietica in campo internazionale per controbilanciare la pressione cinese sull’Himalaya e l’alleanza del Pakistan con gli Stati Uniti. Via Roma, venne dunque fatta andare subito in Svizzera, dove restò sei settimane, e di dove partì per il suo primo soggiorno americano. Enorme fu la sensazione, e grande l’interesse per l’autobiografia Twenty Letters To A Friend, pubblicata proprio nei cinquant’anni dalla Rivoluzione di Ottobre. Ma secondo il classico stile dei media occidentali quel clamore era già scemato, quando nel 1970 Svetlana ricevette un incredibile invito di Olgivanna Wright. A sua volta di origine russa vedova del grande architetto Frank Lloyd Wright, Olgivanna aveva avuto da lui una figlia che si era chiamata anche lei Svetlana, che aveva sposato il capo apprendista del padre William Wesley Peters, e che era però morta un anno prima per un incidente stradale.
Sconvolta dal dolore, Olgivanna si era rifugiata in una strana forma di misticismo, fino a convincersi che l’altra Svetlana per il suo nome fosse una sorta di sostituta spirituale della defunta. Avrebbe accettato allora di recarsi a
Il primogenito, Jakov, fu talmente tanto maltrattato dal padre che cercò, invano, di suicidarsi. Il commento di Stalin fu terribile: «Neanche è capace di sparare dritto» prenderne il posto? Svetlana disse di sì, andò in Arizona da Olgivanna, conobbe il vedovo Peters, in capo a qualche settimana si convinse a sposarlo, e da lui ebbe Olga. Per quanto nata nel modo più improbabile, la coppia si sarebbe rivelata ben assortita, non fosse stato per l’invadenza sempre più soffocante di Olgivanna. In capo a tre anni Svetlana non ne poté più e se ne andò, pur dicendo di amare ancora Peters. Per questo, da allora continuò comunque a portare il suo cognome. Nel 1982 lei e Olga andarono a Cambridge, e nel 1984 come già ricordato tornò in Unione Sovietica, che a suo tempo l’aveva definita «una squilibrata», e che la accolse come una figliola prodiga. Le restituirono la cittadinanza, e lei andò a vivere proprio a Tbilisi, nella Georgia di suo padre. Ma ormai l’Urss era alla frutta, a Olga comunque piaceva pochissimo, in capo a due anni la figlia tornò a Londra, lei disse allora a Gorbaciov che ci aveva ripensato, e Gorbaciov nel nuovo clima della Glasnost le consentì di ripartire. Di nuovo negli Stati Uniti, poi negli anni Novanta l’inglese Bristol, infine, in miseria ma serena, il Wisconsin. Dove è morta di un cancro al colon, dopo una vita che Le Monde ha definito «degna di un romanzo russo».
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Presi (e subito liberati) sei ostaggi. Il regime deplora il gesto, ma la tensione fra i due Paesi è altissima
Attacco all’ambasciata Teheran: una folla inferocita devasta la sede diplomatica inglese di Luisa Arezzo giunta l’ora di mettere i lucchetti all’ambasciata inglese!» ha tuonato solo tre giorni fa un deputato del Parlamento iraniano. «Bisogna assaltare la rappresentanza diplomatica e chiudere quel covo di spie» gli aveva fatto eco un altro collega. Parole prese dall’Occidente come una delle tante iperboli dialettiche a cui ci ha abituato il regime iraniano, e che invece oggi suonano come un tragico piano deciso a tavolino e a cui qualcuno stava lavorando. Pronunciate durante il voto parlamentare che al grido di «Fuori l’ambasciatore britannico da Teheran» ha sancito il declassamento dei rapporti diplomatici fra i due Paesi (stabilendo che entro due settimane l’ambassador faccia i bagagli) quelle frasi ieri sono diventate realtà. Alle cinque del pomeriggio, ora di Teheran, un nutrito gruppo di manifestanti (studenti, secondo Mehr, l’agenzia di stampa del Paese) - so-
«È
Le sanzioni unilaterali della Gran Bretagna contro l’Iran a causa del suo programma nucelare hanno dato il via a un’escalation senza precedenti
li della Gran Bretagna. E ancora: fughe rocambolesche del resto del corpo diplomatico dal retro dell’edificio e poi, dopo almeno un paio d’ore, l’arrivo della polizia locale in assetto anti sommossa che avrebbe liberato (o convinto a liberare) gli ostaggi. «Un attacco inaccettabile» sono state le prime parole del ministro degli Esteri britannico William Hague, mentre arrivavano le prime immagini dei manifestanti intenti a bruciare la Union Jack e a staccare e fare a pezzi i ritratti di Sua Maestà.
L’escalation è figlia delle nuove sanzioni economiche e unilaterali che Londra ha imposto all’Iran dopo la recente pubblicazione del rapporto Aiea sull’avanzamento del nucleare - evidentemente non a scopi civili - iraniano. (E infatti la data scelta ieri dai Basji non è stata casuale: tutt’altro. Perché ha coinciso con il primo anniversario della morte di Majid Shahrivari, uno scienziato nucleare ucciso in un attentato organizzato, secondo l’Iran, da Israele). Londra, di concerto con Usa e Canada e in anticipo rispetto agli altri Paesi europei che si riuniranno domani a Bruxelles, ha appena adottato provvedimenti che vietano agli istituti finanziari britannici di fare affari con le loro controparti iraniane, inclusa - in
prattutto Basji, l’orgaizzazione paramilitare dei pasdaran secondo il foreign office inglese - è passato dagli slogan ai fatti, assaltando l’ambasciata e prendendo in ostaggio 6 dipendenti.
La notizia ha fatto subito il giro del mondo, riportando l’Occidente intero alla crisi che 32 anni fa (era il 4 novembre 1979) contrappose gli Usa alla neonata Repubblica islamica, quando 66 cittadini americani vennero fatti prigionieri dopo la presa della sede diplomatica Usa e rilasciati 444 giorni dopo. E qui - in vero stile iraniano - è cominciato il giallo. Poco dopo aver battuto la notizia dei 6 ostaggi, l’agenzia Mehr cancellava la notizia senza offrire nessuna informazione al riguardo. Mentre al Jazeera riportava di scontri, confisca di documenti secretati, lucchetti e catene simbolicamente messi all’ingresso del compound per indicare la volontà che la sede diplomatica venga definitivamente chiusa, presidi di folle pronte a non mollare la postazione fintanto che l’ambasciatore non fosse espulso dal Paese e non venisse posta fine alle politiche osti-
Questa escalation è utile agli ayatollah
Perché il regime va in cerca di guai La lotta contro i “satana occidentali” può ricompattare i vertici della nazione di Mario Arpino ecisamente, Teheran sta andando in cerca di guai. L’occupazione dell’ambasciata britannica, la sostituzione della bandiera, l’incendio di locali annessi ed il sequestro di alcune persone sono atti gravissimi, dei quali tuttavia, visti i lontani precedenti, non ci meravigliamo affatto. Va anche riconosciuto, però, che l’inasprimento delle sanzioni altro non ha fatto che gettare altra benzina sul fuoco, e questo era del tutto prevedibile. Con la complicazione di aver squilibrato ulteriormente una situazione già di per sé complessa. All’interno, infatti, il braccio di ferro tra Guida Suprema, popolo della “primavera”2009 e il presidente Ahmadinejad, a meno di accadimenti straordinari, si stava facendo sempre più duro, e questo faceva bene sperare. All’esterno, il rapporto an-
D
un provvedimento senza precedenti - la Banca Centrale. «Riteniamo - ha dichiarato il 21 novembre scorso a Londra il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne annunciando le misure - che le azioni del regime iraniano rappresentino una minaccia significativa alla sicurezza nazionale britannica e alla comunità internazionale», spiegando poi come le banche iraniane giochino «un ruolo cruciale» nel facilitare il programma nucleare e che negar loro accesso alla piazza di Londra può rappresentare un duro colpo alle ambizioni del regime». Regime che ieri ha infine deplorato l’attacco perpetrato all’ambasciata inglese, ma le cui scuse risultano affatto credibili
nuale dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’Enegia Atomica), depurato dalle molte ambiguità, è stato interpretato e dato in pasto alle opinioni pubbliche occidentali senza alcuna analisi rigorosa dei nuovi indizi. Perché tali erano e tali sono rimasti. Come i precedenti, anche questi dati andavano quindi presi con molta cautela. Questa fretta ha messo in forte imbarazzo la presidenza Obama, che in clima elettorale sta decisamente orientando la propria politica sempre più a est.
L’Iran del 2012, quindi, ancora non lo conosciamo, ma potremmo dedurlo da alcune linee di tendenza. La differenza la fa il presidente Mahmud Ahmadinejad, la cui rielezione era stata duramente contestata nel 2009, con moti di piazza e duro braccio di ferro. Da questo mo-
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rie». In quell’occasione nessuno - eccezion fatta per gli States - aveva avuto nulla da ridire. Ieri, evidentemente, il coro di condanna è stato un fronte comune: dalla Russia agli Stati Uniti, dall’Italia alla Germania e alla Francia. Un coro che senza dubbio farà presto sentire nuovamente la sua voce per una nuova partita di sanzioni a discapito della Repubblica islamica.
Alcuni momenti del violento attacco degli “studenti” iraniani all’ambasciata britannica di Teheran. Prima che la polizia intervenisse si è svolta una vera e propria guerriglia. In basso: alcuni Pasdaran, a sinistra: la presa dell’ambasciata Usa nel 1979
Un giro di vite che rischia di arrivare tempisticamente parlando - nel momento sbagliato, benché sia più che legittimo.Visto che rischia di vanificare lo scontro in atto fra Ahmadinejad e Khamenei e ricompattare un regime (si legga il commento di Mario Arpino al riguardo) che viceversa potrebbe implodere dall’interno. Sulla questione nucleare iraniana si sono persi anni, la stessa Aiea, negli anni a guida del Nobel per la Pace e candidato alle elezioni presidenziali in Egitto El Baradei, ha regalato tempo prezioso alla Repubblica Islamica. E adesso la situazione è lacerata e molto pericolosa, ancor più alla luce delle rivolte arabe. Mentre il mondo sembra continuare a non vedere nella sua gravità lo scontro in atto fra l’islam radicale e l’Occidente. Esattamente come nel 1978 quando nessuno, né la destra americana né la sinistra europea con i suoi maître-à-penser, si accorse che un nuovo soggetto rivoluzionario stava cambiando la storia: la Guerra Fredda e il confronto tra conservatori e sinistra occultava la vista di
Le forze di sicurezza in tenuta antisommossa che proteggevano il compound non sono intervenute subito. Anzi. William Hague: «Inaccettabile» mento, l’evoluzione del presidente è stata sempre più repressiva all’interno, e loquacemente aggressiva verso l’esterno. Ora il Paese è più isolato, e ciò preoccupa gli stessi Ayatollah, tanto che da tempo è in atto un feroce contenzioso tra il presidente e la Guida Suprema, che sembra al momento in vantaggio. Attorno ad Ahmadinejad si era cercato di fare terra bruciata, senza esclusione di colpi.
Come l’arresto, all’inizio di maggio, del capo di gabinetto e genero del presidente, Esfandiar Mashaie, incarcerato con l’accusa di stregone-
Il protagonismo anglo-francese rischia di scatenare un’altra volta una guerra che nessuno vuole e di interrompere un processo interno di dissoluzione del regime ria, in risposta alla destituzione, in aprile, del ministro dell’Intelligence Heidar Moslehi, ritenuto troppo vicino a Khamenei. Persino il Parlamento gli aveva votato contro, quando si era velleitariamente proposto di assumere anche la carica di ministro del petrolio. Ora le nuove sanzioni cambiano il quadro, ottenendo un effetto opposto. A fine novembre il Parlamento aveva votato una legge –
gradita al presidente - che limitava i rapporti diplomatici con la Gran Bretagna, che assieme ai francesi – con la questione Libia hanno imparato che il “contropiede” paga – avevano premuto il piede sull’acceleratore delle sanzioni. È evidente che così facendo hanno “alzato la palla” ad Ahmadinejad, che l’ha colta al balzo, con l’evidente connivenza del regime. È mai possibile che la saggezza debba ormai riposare in mani russe e cinesi? Il protagonismo dei soliti noti rischia di scatenare un’altra volta una guerra che nessuno vuole e di interrompere un processo interno di frammentazione che ora, patriotticamente, potrebbe ricomporsi. Le minacce altra conseguenza non hanno che un effetto a doppio taglio.
Tuttavia, va riconosciuto che sanzioni come l’embargo sul greggio, visto che l’economia non è mai stata diversificata, potrebbero provocare il collasso. Al momento, tuttavia, i segnali sono di rafforzamento del regime e di maggior coesione interna. Questo è l’effetto non solo delle sanzioni, ma anche quello delle voci – chi le ha fatte circolare? – sul possibile attacco ai siti nucleari. Operazione che al momento, considerata la tenaglia elettorale nella quale si dibatte Obama, non sembra ancora matura, sebbene Israele dichiari di averne la capacità. Ora si tratta di mantenere il sangue freddo, ristabilire la calma e… stare attenti alle fughe in avanti della celebre coppia franco-britannica.
visto che la manifestazione era prevista e che nessuno ha mosso un dito per evitarla e visto che solo il 4 novembre scorso a Teheran si era celebrata in pompa magna una manifestazione per celebrare l’anniversario dell’occupazione dell’ambasciata statunitense in Iran. Una giornata ribattez-
zata ufficialmente come “Giornata nazionale dello studente e della lotta all’imperialismo mondiale” e a cui hanno partecipato numerose autorità, compreso il Segretario del Consiglio per la Sicurezza Nazionale dell’Iran, Saeed Jalilì, che ha detto di avere in mano prove «inconfutabili» del fatto che gli Stati Uniti «sostengono e addestrano terroristi» per colpire Teheran. Agitando un pacco di carta che ha presentato come un insieme di documenti a supporto delle sue dichiarazioni, Jalili ha precisato che l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite trasmetterà tutto il dossier al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon, affinché «vengano prese tutte le misure necessa-
quell’altro confronto tra Occidente e islam che, dal 1099, in fondo non era mai cessato. Un esempio su tutti: in una nota dell’agosto 1978 la Cia definiva l’Iran «non in una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria».
Pochi mesi dopo lo scià cadeva e l’ayatollah Khomeini rientrava a Teheran mettendo fine al suo esilio parigino e teorizzando quella radicalità dell’Islam che presto avrebbe portato allo scontro di civiltà. E la cui prima tappa fu l’assalto all’ambasciata Usa il 4 novembre 1979 quando 66 americani vennero prelevati dalla sede diplomatica Usa di Teheran dagli studenti musulmani fedeli a Khomeini e tenuti come ostaggi 444 giorni (furono rilasciati il 20 gennaio 1981 con una trattativa segreta e controversa che prevedeva, fra le altre cose, la fornitura di armi all’Iran in guerra con l’ Iraq). Allora gli americani non erano abituati ad essere chiamati il Grande satana, ma improvvisamente questo episodio li fece diventare tali accendendo l’attuale fase di scontro di civiltà. Nella vicenda furono coinvolti a vario titolo alcuni attuali leader, come Ali Khamenei, Ali Rafsanjani e il presidente Mahmoud Ahmadinejad, sulla cui mai chiarita partecipazione (lui disse di aver approvato l’occupazione ma non di non aver interrogato gli ostaggi, mentre uno di questi giurò di averlo riconosciuto) si sono spesi fiumi di parole. Capaci, purtroppo, solo di alzare ancor di più il livello dello scontro.
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Emendata continuamente, elimina i posti obbligatori a donne e lavoratori e lascia tutto in mano ai Partiti e alle liste bloccate. Indeboliti anche i copti
Il Porcellum d’Egitto La legge elettorale ideata per il dopo-Mubarak promette seggi a islamici e vecchi tecnocrati di Valentina Palumbo ei governatorati del Cairo, Fayoum, Port Said, Damietta, Alessandria, Kafr ElSheikh, Assiut, Luxor e Mar Rosso, si è concluso il primo dei tre appuntamenti per eleggere i deputati dell’Assemblea del Popolo (Camera Bassa del Parlamento Egiziano). Il secondo round delle consultazioni elettorali avrà luogo il 14 dicembre a Giza, Beni Suef, Menoufiya, Sharqiya, Ismailiya, Suez, Beheira, Sohag e Aswan. La terza ed ultima fase dovrebbe tenersi il 3 gennaio 2012 a Minya, Qalioubiya, Gharbiya, Daqahliya, nel Sinai del Nord, nel Sinai del Sud, a Marsa Matrouh, Qena e New Valley. I ballottaggi si terranno rispettivamente il 5 dicembre, il 21 dicembre e il 10 gennaio. I tre round di voto per la scelta dei rappresentanti della Shura (Camera Alta) avranno luogo invece, probabilmente nello stesso ordine e per gli stessi governatorati, il 29 gennaio, il 14 febbraio e il 4 marzo con ballottaggi rispettivamente per il 5 febbraio, il 21 febbraio e l’11 marzo. Saranno dunque necessari non meno di tre mesi e mezzo perché il Parlamento possa considerarsi completo (e quindi possa iniziare a funzionare).
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Nell’Assemblea del Popolo siederanno a quel punto 498 deputati mentre la Shura sarà costituita da 270 membri. Si tenga presente che dei membri della Camera Alta,
solo 180 saranno eletti dal popolo, mentre i restanti 90 saranno nominati. Di questi, almeno dieci saranno scelti dallo Scaf, esattamente come accadeva ai tempi di Mubarak. Il nuovo Parlamento così eletto dovrà scegliere tra i suoi membri cento personalità che andranno a far parte della Costituente, l’organo incaricato di redigere nei sei mesi successivi la nuova Costituzione. L’Egitto ha fatto quindi una scelta diversa rispetto alla Tunisia, dove, il 23 ottobre scorso, i cittadini sono
Il nuovo Parlamento dovrà scegliere tra i suoi membri cento personalità che andranno a far parte della Costituente, l’organo incaricato di redigere la nuova Costituzione stati chiamati alle urne per scegliere i loro rappresentanti all’Assemblea Costituente, demandando ad un momento successivo alla stesura della nuova Costituzione l’elezione del Parlamento vero e proprio. Il Parlamento egiziano sarà depositario del potere legislativo, sebbene lo Scaf manterrà le sue prerogative “presidenziali”
fino al raggiungimento di un testo costituzionale condiviso e fino all’elezione di un nuovo presidente. Con l’imposizione di principi “sopracostituzionali” inoltre, lo Scaf ha inteso mantenere delle prerogative, in primis quella generica di garante della Costituzione, ma anche il potere di veto su leggi aventi ricadute sull’organizzazione militare dello Stato e il principio della segretezza delle previsioni di bilancio in materia di sicurezza e difesa. Questi forti privilegi sono stati oggetto di forte contestazione, e dapprima i Fratelli Musulmani e poi i manifestanti in Piazza Tahrir ne hanno richiesto l’abolizione.
Lo Scaf aveva dichiarato inoltre di voler indire le elezioni presidenziali dopo il referendum popolare sul nuovo testo costituzionale. Ciò avrebbe significato per l’Egitto non poter disporre di un nuovo Presidente prima della fine del 2012 o dell’inizio 2013. Ma sulla scorta delle rivendicazioni in Mohammed Mahmoud Street e in Piazza Tahrir il generale Tantawi ha promesso lo svolgimento delle presidenziali nell’estate 2012, troppo tardi tuttavia per essere considerato credibile dalla folla dei manifestanti che chiedono oggi la totale abolizione del governo militare. La legge elettorale ha subito numerose modifiche ed emen-
Nelle immagini, cittadini egiziani al voto. Secondo i Frateli Musulmani al Cairo avrebbe votato circa il 27% della popolazione. Alta invece l’affluenza nel governatorato di Port Said, stimata al 46% damenti nel periodo post-rivoluzionario. Un primo disegno di legge elettorale è stato presentato dallo Scaf nel maggio 2011: e prevedeva il mantenimento del sistema elettorale utilizzato durante il regime di Mubarak consistente nell’attribuzione di due terzi dei seggi attraverso un sistema maggioritario con scrutinio binominale a livello distrettuale, e del restante terzo dei seggi attraverso un sistema proporzionale a liste bloccate. Un’ulteriore modifica alla fine di settembre, ha ridisegnato
completamente il sistema di traduzione dei voti in seggi; dopo aver modificato ancora una volta le dimensioni del Parlamento riducendo il numero dei deputati all’Assemblea del Popolo a 498, le quote dei seggi da eleggersi con sistema maggioritario e proporzionale sono state ridistribuite questa volta a netto vantaggio del sistema proporzionale (due terzi del totale contro un terzo eletto con sistema
mondo Anche altri partiti come quello degli Egiziani Liberi vedono un certo numero di membri copti. Resta poco chiaro fino a quale punto essi riusciranno a guadagnare seggi; ciò dipenderà, proprio come per le donne, dalla posizione attribuita loro nelle liste dai partiti. Per quanto riguarda i seggi attribuiti con sistema maggioritario, a parte un certo numero di posizioni che i Copti potrebbero guadagnare al Cairo ed Alessandria, non avendo questi una vasta distribuzione geografica è molto probabile che essi emergano dalle elezioni ancora una volta piuttosto sottorappresentati.
Una delle maggiori problematiche è quella della formula matematica adottata per la traduzione dei voti in seggi. L’art 15 della legge 38 del 1972 (così come emendata recentemente) stabilisce che, con riguardo all’applicazione del sistema proporzionale, i voti ottenuti dalle
maggioritario). Ed è stato a partire dall’ultima revisione che le critiche dei partiti si sono fatte più forti. La formazione dei Fratelli Musulmani, il Partito Libertà e Giustizia, ha denunciato lo Scaf di aver violato gli accordi presi con i Partiti.
Il sistema attualmente vigente è quindi quello che deriva dall’ultima modifica dell’autunno 2011; esso prevede l’elezione di un terzo dei seggi con sistema maggioritario binominale e due terzi con un sistema proporzionale a liste bloccate. Nonostante l’abrogazione dell’articolo 5, i seggi da eleggersi con sistema maggioritario sono comunque aperti alle candidature indipendenti; è questa la ragione per la quale i partiti sono incentivati a presentare candidati individuali a livello locale piuttosto che ricorrere a coalizioni. Ciò tuttavia ha fatto riapparire i timori di un possibile ricorso a dinamiche di corruzione e clientelismo, almeno a livello di distretto; nulla impedisce che personaggi del vecchio Ndp possano utilizzare queste candidature per garantirsi cariche ed influenza a livello locale. Per essere eletto con sistema maggioritario ogni candidato deve ottenere almeno il 50% dei voti; nel caso in cui questa percentuale non venga raggiunta da nessuno, si passerà al ballottaggio tra i due candidati con più voti. Almeno la metà degli eletti deve appartenere alla categoria “lavorato-
re”o “agricoltore”, titolo che deve risultare da apposita certificazione. L’Egitto è tuttavia un paese con alti picchi di disoccupazione e con molta manodopera in nero, quindi molte persone non sono state in grado di dimostrare di ricadere in queste categorie. Nelle campagne l’appartenenza alla categoria di agricoltore spetta per lo più ai proprietari terrieri, registrati in apposite associazioni di coltivatori, ma non ai braccianti a giornata. I partiti sono vincolati all’inserimento di almeno una donna per ogni lista (quindi soltanto per la quota di seggi eletti con sistema proporzionale). È chiaro tuttavia che, in un sistema basato su liste bloccate, in cui l’ordine dei candidati è stabilito dai partiti, le chance per una donna di essere eletta sono nulle se il suo nome è collocato in fondo alle liste. In Tunisia è avvenuto proprio questo, nonostante un articolo della legge elettorale prevedesse il principio dell’alternanza e della parità uomo-donna nella presentazione delle candidature. Riguardo ai Copti, sebbene essi siano circa il 9% della popolazione egiziana, la loro rappresentanza in Parlamento è declinata progressivamente negli anni tanto a livello di istituzioni, quanto in termini di partecipazione all’interno dei singoli partiti. Allo stato attuale il Partito Libertà e Giustizia ad esempio, ha un vicepresidente copto e più di 100 cristiani tra i suoi 10mila membri.
Per essere eletto con il sistema maggioritario ogni candidato deve ottenere almeno il 50% dei voti; nel caso in cui questa percentuale non venga raggiunta da nessuno, si passerà al ballottaggio singole liste debbano essere ripartiti tra i candidati nell’ordine di presentazione degli stessi da parte del partito, e che il numero di seggi conseguiti dalla lista sia pari al numero di volte in cui viene raggiunta la “quota elettorale”. Per quota si intende il numero minimo di voti per ottenere un seggio, ricavato dal rapporto tra il numero totale di voti per circoscrizione e il numero di seggi da coprire in
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quello stesso distretto. Ciò che crea difficoltà è l’interpretazione delle disposizioni relative alla distribuzione dei resti. Secondo una delle due interpretazioni dominanti, tutti i partiti aventi superato la soglia dello 0,5% dei voti (che è quella che garantisce l’accesso alla rappresentanza nel nuovo sistema elettorale egiziano) possono partecipare alla ripartizione dei voti residui; secondo una seconda interpretazione, che si desumerebbe dalla lettura della vigente legge elettorale in combinazione con la legge 188 del 1986, avrebbero invece il diritto di partecipare alla ripartizione dei resti solo quei partiti aventi conseguito almeno una quota piena. È chiaro che queste incertezze interpretative creano zone d’ombra tali da influire anche in modo decisivo sul numero dei seggi attribuiti ai singoli partiti o coalizioni, e sono suscettibili di creare tensioni dopo l’annuncio dei risultati elettorali. Dal quadro analizzato emerge un sistema elettorale molto complesso. Gli elettori saranno chiamati alle urne in sei round (se si considerano anche i ballottaggi). Il loro voto sarà diviso tra i candidati eletti con il proporzionale e quelli eletti con sistema maggioritario. Alcuni elettori potrebbero essere disincentivati ad andare a votare proprio dalla consapevolezza della difficoltà di eleggere certi gruppi, in primis le minoranze religiose e le donne. Potrebbe verificarsi una confusione sui tempi e luoghi del voto, e la pubblicazione dei risultati di alcuni governatorati prima che le elezioni si siano concluse sull’intero territorio nazionale, potrebbe condizionare le scelte degli elettori che voteranno per ultimi (i primi a votare saranno peraltro soprattutto gli abitanti delle aree urbane rispetto a quelli delle campagne). Affinché i cittadini possano essere considerati capaci di un
voto realmente consapevole sarebbe necessaria un’educazione alle procedure elettorali molto impegnativa, e sicuramente non tale da poter essere svolta nei tempi del calendario elettorale. D’altronde il popolo egiziano non può non guardare alla relativa semplicità della transizione democratica tunisina senza fare confronti con la lunghezza e vischiosità della propria. Il metodo proporzionale adottato, poi, è particolarmente complesso perché pone ambiguità sulle modalità con cui i resti potrebbero venire distribuiti tra i partiti lasciando spazio a possibili discrezionalità nell’attribuzione dei seggi. Il metodo maggioritario favorirà le candidature singole, aprendo la strada a possibili personalità del passato regime.
Le criticità del sistema elettorale sono tanto più decisive nel contesto in cui avverranno le prime consultazioni legislative del post Mubarak. La situazione interna mostra oggi tratti di rinnovato autoritarismo. La polizia militare in questi mesi ha mostrato di essere capace di brutalità e repressione degne dei peggiori momenti del regime di Mubarak. Circa dodicimila sono stati i civili sottoposti a processo militare, molti dei quali accusati di un generico crimine di teppismo che ha consentito di mettere fuori gioco molti dei manifestanti di Piazza Tahrir; la legge sullo stato di emergenza, tristemente nota durante il più che ventennale regime ha continuato ad essere applicata nonostante la sua eliminazione fosse una delle rivendicazioni dei manifestanti. La stampa egiziana, dopo un primo momento in cui era sembrata divenire più libera grazie all’epurazione dei vertici delle testate, fortemente legati al regime di Mubarak, vede oggi moltiplicarsi il numero di editorialisti che protestano contro la rinnovata censura lasciando colonne vuote sui giornali. Il lungo calendario per il rinnovo delle istituzioni, la permanenza al potere di figure ancora legate all’ancièn regime, hanno suscitato nella popolazione un senso di frustrazione e di sfiducia nei confronti dello Scaf. L’esercito, che è stato molto solerte nel presentarsi come il custode e garante della rivoluzione che nel febbraio 2011 ha portato alla caduta del più che ventennale regime di Mubarak, è ora accusato di mettere nuovamente a rischio la democrazia e di essersi servito della rivoluzione per cambiare semplicemente l’aspetto esteriore del regime. La marcia verso la democrazia è lenta per l’Egitto, e non saranno certamente le elezioni a garantire al popolo quel governo robusto, eletto e responsabile nei confronti degli elettori di cui l’Egitto avrebbe bisogno perché la Primavera Araba torni ad essere tale.
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Di nuovo nelle librerie italiane, con una prefazione di Gorlier, un saggio di Fielder che ridisegna la figura degli «squaw»
Bentornati, pellerossa! Il mondo riscopre le gesta, il mito e la cultura degli indiani d’America. Tra cinema e letteratura di Massimo Tosti isogna fare un passo indietro di quarant’anni. Nel 1970 il regista Ralph Nelson girò un film nel quale raccontò un episodio della guerra spietata fra gli yankees e i pellerossa, passato alla storia come“massacro di Sand Creek”. Il film - uno dei primi a schierarsi apertamente dalla parte degli indiani d’America - si intitolava Soldato blu e scosse la coscienza di molti spettatori, in tutto il mondo, con le immagini feroci dell’attacco (consumato nel 1864 in Colorado) a un villaggio di Cheyenne e Arapaho, nel quale furono sterminati donne e bambini, nonostante la resa del capo indiano, Lupo Pezzato.
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Prima di Soldato blu, da Ombre rosse in poi i film western avevano sempre trattato i pellerossa come violenti primitivi, giustamente condannati dalla storia.
gna la figura dell’“indiano”, anomalia antropologica che mai si è lasciata tradurre nei termini dell’Occidente europeo e poi americano, e per questo additata con orrore e poi sterminata, anche se la letteratura ci offre opzioni più sfaccettate e ambivalenti. La letteratura e il cinema western hanno tentato - invano, come dimostra Fiedler - di trasfigurare i miti fondatori dell’America e di cancellarne le premesse innominabili. Come incubi che riemergono dall’inconscio collettivo di un popolo, parole e immagini non possono reprimere la tragedia del genocidio, la distruzione di quei “selvaggi” che non intendevano piegarsi all’ordine imposto dal’uomo bianco. Fiedler anticipa la revisione storica al decennio precedente all’uscita di Soldato blu. «Negli anni che vanno dal ’60 in poi», ricorda, «John Barth, Thomas Berger,
Uno dei primi film a schierarsi con loro fu nel ’70 «Soldato blu». Raccontava lo scontro contro gli yankees, famoso come “massacro di Sand Creek”. La pellicola scosse la coscienza di molti spettatori Oggi il clima è totalmente cambiato: gli indiani sono una minoranza etnica rispettata. Nelle loro riserve la vita ha ritrovato condizioni accettabili di serenità. E in tutto il mondo vengono pubblicati libri che rievocano le loro gesta, la loro cultura, i loro miti, le loro qualità umane. Un saggio di Leslie A. Fielder (già pubblicato in Italia all’inizio degli anni Settanta) torna oggi in libreria, arricchito da una prefazione Claudio Gorlier, uno dei massimi esperti della letteratura di lingua inglese. Il saggio si intitola Il ritorno del pellerossa Mito e letteratura in America (Guanda, 288 pagine, 22 euro). Gorlier sottolinea come Fielder indaghi a fondo «quella peculiare forma di follia che consiste nel sognare e raggiungere il West»: gli archetipi della frontiera, della corsa all’Ovest, della contrapposizione violenta fra “pellerossa” e “visopallido”, ma anche dell’incontro con “l’altro” come conoscenza e iniziazione. Risalendo all’antichità, passando per Dante e Shakespeare, fino a Fenimore Cooper, Twain, Hemingway e Frost, Fiedler ridise-
Ken Kesey, David Markson, Peter Matthiessen, James Leo Herlihy e Leonard Cohen, così come gli ispirati autori di Cat Ballou e il sottoscritto, sono stati coinvolti, forse senza esserne consapevoli, in una comune avventura: la creazione del neowestern,
Alcune immagini dei pellerossa d’America, di Little Big Horn, la copertina del libro di Leslie A. Fielder «Il ritorno del pellerossa - Mito e letteratura in America» (Guanda), la locandina del film «Soldato blu» di Ralph Nelson una forma letteraria che tende non tanto a redimere il western a basso livello, quanto a irriderlo e a giocarci sopra, in spregio del “lettore serio” e di ciò che questi si aspetta dallo scrittore». «L’intero movimento ha fatto sorgere due tipi di domande importanti: alcune molto generali riguardo ai rapporti tra letteratura “elevata”e “inferiore”; e due, specifiche, riguardo al genere in questione. La prima è: cos’è il western nella sua forma classica o tradizionale?, e la seconda: co-
sa vi è precisamente di nuovo nel neowestern?”. Per cominciare a rispondere alla prima domanda basti notare il fatto che la geografia negli Stati Uniti ha un carattere mitologico. Fin dalle origini gli scrittori americani hanno avuto la tendenza a definire il proprio Paese in termini topologici, e cioè in termini di punti cardinali: un Nord, un Sud, un Est, un Ovest mitizzati. Vi sono quindi sempre stati quattro tipi di libri americani: northern, southern, eastern e
western, per quanto ci si sia abituati, per ragioni di non immediata comprensione, a chiamare solo l’ultimo col suo nome». L’oggetto fondamentale del western è nell’incontro con l’indiano, «quell’essere - scrive Fiedler - che non discende né da Sem né da Jafet, né, come il negro condotto in America per domare una terra selvaggia, da Cam L’indiano, che non è come gli altri un rampollo di Noè, sfugge completamente alle mitologie che ci siamo portati dall’Europa, e ne esige una nuova, fatta apposta per lui. Forse era solo un animale dei boschi, un essere niente affatto umano: così pensarono i primi scopritori dell’America tentando di rassicurare se stessi; e alla fine del ’400 i vescovi della Chiesa discussero gravemente la questione se, non essendo discendente di Adamo, l’indiano avesse un’anima come la nostra.
La questione non fu certo risolta una volta per tutte quando la Chiesa rispose “sì”, in quanto all’inizio del nostro secolo Lawrence modificò la risposta in un “sì, ma”: sì, un’anima, ma non precisamente un’anima come la nostra, salvo per il fatto che la nostra ha la possibilità di diventare come la sua. Nei cinque secoli successivi quante volte l’indiano, nella sua fondamen-
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i che d crona
Adesso sapeva che s’era sbagliato. Che adesso era di nuovo a posto». La scena cambia. «A nord della gelata cittadina nordica una coppia cammina lungo le rotaie. È Yogi Johnson con la squaw. Camminando, Yogi Johnson tacitamente si strappa le vesti di dosso. Una a una si strappa le vesti e le getta a lato dei binari. Alla fine rimane vestito soltanto d’un logoro paio di scarpe da costruttore di pompe.Yogi Johnson nudo al chiaro di luna. La squaw gli cammina accanto». Il finale regala una sorpresa carica di ironia (della quale siamo vittime noi, e non i “primitivi”). Dietro di loro vengono due figure. Nettamente stagliate nel chiaro di luna. Sono due indiani. I due indiani dei boschi.
Si chinano e raccolgono le vesti man mano che Yogi Johnson le getta via... I due indiani si drizzano. Esaminano le vesti.“Capo bianco un vero elegantone”, osserva l’indiano alto mostrando una camicia con monogramma. “Capo bianco piglierà un po! Freddo”, osserva quello piccolo». Certi pregiudizi erano anche giustificati dalle paure. Fiedler ricorda che «l’impulso ad andare a Ovest» era «considerato sacrilego» nella vecchia Europa, poi divenne «folle», e «ciò spiega la derisione di cui è fatto oggetto Colombo con il suo sogno di un passaggio per l’India e la condanna, una volta ancora come di cosa folle, di ogni ulteriore spedizione in un Ovest più remoto dopo che l’esistenza dell’America fu confermata». Persitale diversità, ha ingannato e beffato l’immaginazione di viaggiatori e coloni europei, generazione dopo generazione! Quanti sforzi costoro hanno fatto per assimilarlo a tipi umani più familiari, al proprio bagaglio mitologico! Lo stesso termine “indiano” ricorda il tentativo fuorviante da parte di Colombo di convincersi di essere nelle altre Indie, le Indie orientali, e di trovarsi di fronte a tipi umani noti fin dall’epoca di Marco Polo come gli abitanti di Cipango o del Catay». La difficoltà di classificazione della specie, protrattasi per secoli, è la causa principale di tutte le incomprensioni che hanno accompagnato la convivenza tra i “visi pallidi”(cioè noi tutti) e i “pellerossa”. E che, in qualche modo, ha legittimato eccidi come quello di Sand Creek, e tutta una letteratura (ma anche una cinematografia) rimasta molto a lungo insensibile ai diritti dell’“altro”. Il neowestern esce da questi antichi equivoci. Ne esce (almeno inizialmente) in modo contraddittorio. Fiedler cita un caso esemplare in un racconto del 1926 di Hemingway (che non si era mai mostrato incline a riconoscere un ruolo positivo ai pellerossa). Vale la pena di citare il passag-
Da «Ombre rosse» in poi, tutti i film western avevano trattato i pellerossa come violenti primitivi, giustamente condannati dalla storia. Oggi il clima è molto cambiato: gli indiani sono un’etnia rispettata gio fondamentale di Torrenti di primavera (questo è il titolo dell’operetta di Hemingway). In una fagioleria si trovano molte persone. «Alcuni non vedono gli altri. Ciascuno è assorto in se stesso. I rossi sono assorti nei rossi. I bianchi sono assorti nei bianchi o nelle bianche. Non ci sono rosse. Non ci sono più squaw? Dove sono andate a finire le squaw? Abbiamo perduto le nostre squaw, in America? Silenziosamente, per la porta da lei stessa aperta, entrò nel locale una squaw. Era vestita soltanto di un paio di logori mocassini. Aveva un bambino aggrappato al dorso. Accanto le camminava un cagnone. “Non guardate!”, gridò il viaggiatore di commercio alle donne al banco... Yogi Johnson non stava ascoltando. Qualcosa s’era spezzato dentro di lui. Qualcosa era scattato, quando la squaw era entrata nel locale. Egli provava un sentimento nuovo. Un sentimento che aveva creduto perduto per sempre. Perduto per sempre. Perduto. Completamente scomparso.
no i neowestern compiono spesso questo errore, in quanto rivalutano la civiltà pellerossa per sdoganare gli abusi e i vizi degli occidentali (la diffusione della droga è un elemento-ponte che riabilita gli indiani). «Se in futuro è destinato a esistere un mito dell’America» - questa è la conclusione alla quale giunse Leslie A. Fielder (scomparso nove anni fa) - «i nostri scrittori, indipendentemente dai sentimenti che possano provare al riguardo, si trovano nella necessità di tenere con il folle lo stesso tipo di dialogo che i loro predecessori impararono molto tempo fa a tenere con gli aborigeni che abitavano il West selvaggio. Benché sia facile dimenticarlo, è essenziale ricordare che quelle creature che conducevano vite a stento immaginabili nelle foreste della Virginia un tempo sembravano una minaccia così grande per ciò in cui quei buoni europei credevano, quanto quella che i tossicodipendenti o gli schizofrenici del Lower East Side sembrano rappresentare per tutto ciò in cui i buoni americani sono giunti a credere ora».
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
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ULTIMAPAGINA A 10 anni dalla scomparsa, un film ricorda George Harrison: «Non importa chi sei, importa ciò che hai dentro»
L’uomo che non volle farsi di Vincenzo Faccioli Pintozzi entre la sua chitarra piangeva gentilmente, lui moriva. Ma forse, se le teorie che ha sposato e seguito con vera fede negli ultimi tre decenni della sua vita terrena sono vere, ora George Harrison è da qualche parte in mezzo a noi. E non potrà apprezzare più di tanto l’orgia di commemorazioni (incluso questo articolo) che hanno invaso il globo in occasione dei primi dieci anni dalla sua morte. Una morte, anche questa, gentile: nonostante il cancro, Harrison non ha fatto ultimi show, dichiarazioni solenni, apparizioni strappalacrime. Se ne è andato come è vissuto, con gentilezza e profondità di pensiero. D’altra parte, il Beatle più riservato era anche quello più dotato di spessore spirituale: niente a che vedere con l’edonismo di Ringo, l’intellettualismo spinto di Lennon, il pragmatismo di McCartney. Il baronetto Paul ne ha onorato la memoria pronunciando dal palco di Bologna «To my friend George» e poi con le note di “Something”, forse la canzone più bella mai scritta dal chitarrista: «Qualcosa nel modo in cui si muove, mi attrae come nessun altra riesce a fare». Ma al di là delle parole, era la musica in sé che attirava “come nessun altra” l’idea che Harrison aveva dei Beatles. E la sua “Within You Without You”, composta per tambura e harmonium, dimostra oltre ogni dubbio come l’influenza indiana che aveva colpito il gruppo intero avesse attecchito le proprie radici più profonde soltanto in lui: un pezzo da 30 minuti, poi ridotto per poter trovare un posto dentro quel capolavoro che è “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, scritto in partitura hindi per poter essere compreso ed eseguito da Amrit Gajjar, virtuosista del dilruba.
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Viveva la sua natura di “terzo” dei Beatles con una comprensione del genere umano propria di chi ha studiato le religioni e la spiritualità non materialistica, quella che gli avevano insegnato i baba indiani e che avrebbe continuato ad analizzare per tutta la vita. Nonostante la presenza ingombrante di Lennon e McCartney, infatti, diceva: « La morale della storia è che, se accetti gli alti, dovrai passare anche attraverso i bassi. Nelle nostre vite abbiamo imparato a conoscere l’amore e l’odio, gli alti e i bassi, il bene e il male, le sconfitte e le vittorie. Era come una versione amplificata di quello che vive chiunque altro. Quindi, essenzialmente, va bene. Qualsiasi cosa sia accaduta è positiva se ci ha insegnato qualcosa, ed è negativa solo se non abbiamo imparato: “Chi sono? Dove sto andando? Da dove vengo?”». D’altra parte, anche lo scioglimento e la separazione dal gruppo inglese vennero presi con estrema filosofia: « Per tutti quegli anni c’è stato fra noi un legame molto stretto. I Beatles non potranno mai dividersi davvero perché, come abbiamo detto al momento della separazione, non c’è davvero nessuna differenza. La musica c’è, i film sono ancora lì. Qualsiasi cosa che abbiamo fatto c’è ancora e ci sarà per sempre. Quel che c’è c’è, non era poi così importante. E un po’ come Enrico VIII, o Hitler, o uno di quei personaggi storici sui quali si fanno sempre vedere dei documentari: il loro nome resterà scritto per sempre e senza dubbio lo sarà anche quello dei Beatles. Ma la mia vi-
BEATLES Autore di pezzi memorabili, schiacciato dalle personalità di Lennon e McCartnery, il chitarrista scelse l’introspezione e la ricerca di sonorità sempre nuove
ta non è cominciata con i Beatles e non è finita con loro». È dallo scioglimento del quartetto che la vita anche musicale di Harrison inizia ad assumere una connotazione propria e coraggiosa che l’appartenenza ai Fab Four aveva in qualche modo limitato. Le sue sperimentazioni musicali, l’influenza della musica tradizionale indiana, la perenne ricerca di nuove sonorità anche attraverso strumenti minori lo
hanno portato a scrivere brani importanti che saranno compresi soltanto quando la si smetterà di ritenerlo il chitarrista dei ragazzi di Liverpool. Ora il mondo lo piange, Scorsese presenta un documentario su di lui che ha l’aria di essere molto riuscito: “Living The Material World” (dal titolo del disco del 1973), il documentario monumentale conta tre ore e mezza di filmato dove, anche qui, scorre fotogramma su fotogramma la straordinaria avventura di George. Fino all’ultima, triste stagione: quella in cui, dopo il ferimento con un coltello da cucina a opera di uno squlibrato (nel 1999) si rinchiuse in casa per prepararsi a morire.
«Nell’insieme – disse poco prima della fine - non avrebbe proprio importanza se non avessimo mai fatto dischi o cantato una canzone. Non è importante quello. Quando muori avrai bisogno di una guida spirituale e di una conoscenza interiore che vada oltre i confini del mondo fisico. Con queste premesse direi che non ha molta importanza se sei il re di un paese, il sultano del Brunei o uno dei favolosi Beatles; conta quello che hai dentro. Alcune delle migliori canzoni che conosco sono quelle che non ho scritto ancora, e non ha neppure importanza se non le scriverò mai perché sono un niente se paragonate al grande quadro». Un tumore lo ha portato via (nella villa di Ringo Starr) e una scatola di cartone ne ha portato le ceneri nel fiue sacro del Gange, come vuole la tradizione induista di cui era seguace. Dieci anni dopo, quello che aveva dentro non ha ancora finito di uscire.