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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 10 DICEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Borse, Milano trascina tutte le piazze continentali: +3,37%. Lo spread parte male, poi scivola sotto quota 450
Avanti con l’Europa a metà Varata l’Unione fiscale. Ma senza quella politica non reggerà Patto di bilancio a 26 membri perché Cameron non ci sta: «Non perderemo mai la nostra sovranità» Monti: «Apprezzata da tutti la manovra italiana». Ma alla Camera arrivano più di 1300 emendamenti LA VERA EMERGENZA
LA VERA SFIDA
Resta però incerto il destino dell’euro
Un buon inizio (in ritardo). Ma la meta è lontana
Parla Giorgio La Malfa
di Enrico Cisnetto
di Osvaldo Baldacci
enti anni dopo Maastricht facciamo un nuovo Trattato che eliminerà le debolezze del sistema e diventerà il Trattato per la stabilità dell’euro». Vorremmo tanto condividere il giudizio che il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dato del vertice Ue, atteso come salvifico per la moneta unica e l’eurosistema, ma francamente non se ne vedono proprio i presupposti. Anche le molto più temperate considerazioni di Mario Monti – «può darsi che tutto questo non basti, ma non mi sembra un vertice dei fallimenti» – appaiono condite di un eccesso di ottimismo. Inevitabilmente, l’oste non dirà mai che il vino è cattivo. a pagina 4
a risposta è più Europa”. Così recitava lo slogan del seminario di studio del Partito Popolare Europeo collaterale al congresso appena concluso a Marsiglia. Più Europa contro la crisi finanziaria, più Europa per la stabilità nel Mediterraneo, più Europa per garantire la democrazia. Più Europa, non meno, come invece predicano i populisti e sperano gli speculatori. E per fortuna in questo momento drammatico di crisi l’Europa è governata dai popolari di ispirazione cristiana-democratica, eredi dei padri fondatori come De Gasperi, Schumann e Adenauer e dei padri rifondatori come Kohl. a pagina 2
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«Ma Angela persevera negli stessi errori che faceva Trichet» «L’accordo stretto per salvare la valuta unica è peggiore del male. Gli sforzi per il pareggio di bilancio non bastano: serve anche la crescita»
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Franco Insardà • pagina 3
Paura alla sede romana di via Millevoi
Sfida all’Ok Corral per le tv
Equitalia, bomba ferisce un dirigente
Ora la Lega colpisce al cuore: «Cavaliere, niente frequenze»
ROMA. L’esplosione di un pacco bomba è costata la falange a Marco Cuccagna, direttore generale dell’agenzia Equitalia di via Andrea Millevoi 10, a Roma, in zona Cecchignola. Feritosi dopo aver aperto il plico imbottito, l’uomo è rimasto ferito ed è stato trasportato all’ospedale.
Francesco Lo Dico • pagina 7
Troppi emendamenti: probabile la fiducia. Pd e Pdl spaccati, la destra punta sulla casa mentre la sinistra sceglie le deindicizzazioni Francesco Pacifico • pagina 6
Reportage. Il nostro contingente in Afghanistan è impegnato nella transizione
L’Italia in guerra contro l’oppio Viaggio a Herat, dove si combatte soprattutto la droga di Pierre Chiartano
HERAT. Le strade in Afghanistan sono il centro della vita, centi continua, grazie a mille stratagemmi usati negli orari della morte e degli interessi. Lì si spara, si piazzano le Ied, i micidiali ordigni improvvisati e si decide il futuro del Paese. Sulle carrozzabili asfaltate, poche, sugli sterrati, molti, e sui sentieri appena accennati, tantissimi, passano le merci, i viveri, le armi e la droga. L’oppio per gli afghani è una tradizione e ragione di vita.Tanto che anche in un carcere come quello di Herat, il Jail West Zone, che potremmo tranquillamente definire “modello” – grazie ai finanziamenti della Cooperazione civile, militare italiana (Cimic) del Provincial recostruction team (Prt) – metà di detenuti è dentro per ragioni legate all’uso e lo spaccio di droga. E per i tossici internati, molti ex combattenti, il flusso degli stupefague a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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di visita. «Ogni settimana fermiamo una o due persone che tentano di introdurre droga nel carcere, con 100 grammi di roba», spiega a liberal il direttore della struttura, il generale della Polizia penitenziaria Abdulmajid Sadeqi, che da dieci anni ha le chiavi della prigione. Un cancello d’ingresso sorvegliato da una minacciosa Dushka sovietica, un mitragliatore pesante di quelli solitamente montati sulle torrette dei corazzati T-54 e T-62. L’arma ti dà il benvenuto quando smonti dai Lince della scorta italiana di Camp Arena, dopo un complicato viaggio avanzando nel traffico caotico in un breve tratto che collega aeroporto e centro. a pagina 18 • CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 10 dicembre 2011
la crisi europea
Serve governance politica, non solo fiscale
Abbiamo fatto l’Europa. Ma a metà di Osvaldo Baldacci a risposta è più Europa”. Così recitava lo slogan del seminario di studio del Partito Popolare Europeo collaterale al congresso appena concluso a Marsiglia. Più Europa contro la crisi finanziaria, più Europa per la stabilità nel Mediterraneo, più Europa per garantire la democrazia. Più Europa, non meno, come invece predicano i populisti e sperano gli speculatori. E per fortuna in questo momento drammatico di crisi l’Europa è governata dai popolari di ispirazione cristiana-democratica. Erano tantissimi i leader europei presenti prima a Marsiglia e poi a Bruxelles, da Merkel a Sarkozy, da Barroso a Van Rompuy. Non è più un popolare Cameron, e si è visto: i conservatori britannici sono usciti dal PPE e ora si tengono distanti anche dall’Europa. Nonostante, difficile dimenticarlo, buona parte della crisi finanziaria sia stata avviata dal mondo anglo-americano. Dunque gli altri 26 Stati dell’Unione hanno invece raggiunto infine un accordo per fronteggiare la crisi e ripensare le regole economiche e di bilancio. Regole più severe in cambio di una maggiore solidarietà per rilanciare l’euro (sono i 17 la forza trainante di questa operazione) ed essere più forti, contare di più.
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Era l’unica strada possibile nel mondo di oggi per non finire nell’irrilevanza, per non far uscire l’Europa dalla storia, come hanno ribadito più volte i leader popolari a Marsiglia. L’unica strada, ma forse non ancora abbastanza. L’euro, che si sta rivelando fondamentale per sopravvivere alle tempeste di questi anni (cosa sarebbe successo dell’Italia senza la moneta unica?), è però nato in modo un po’avventuroso, gettando il cuore oltre l’ostacolo in un momento di prosperità. Finita la prosperità i nodi arrivano al pettine. Quali sono i criteri per valutarne il vero valore? Quali livelli di produttività e di competitività e quindi di crescita indicano il peso dell’euro? La Germania o la Grecia? Questo norme differenziale crea le frizioni che espongono l’euro alle speculazioni, unitamente alle altre cause della crisi. Questo è potuto avvenire perché non c’era omogeneità tra i Paesi aderenti (un errore, ma forse ancora tollerabile e rimediabile), ma non c’è stato neanche uno sforzo in questa direzione. Insomma, una moneta comune ma senza un’economia comune, e senza politiche economiche comuni. Senza strutture adeguate, anche senza strutture politiche. Una Banca Centrale Europea dai poteri limitati e vincolati. Nessun governo europeo. L’accordo di Bruxelles, se e per quanto terrà, è un passo avanti in questa direzione, un passo necessario, l’accordo per politiche fiscali comuni, intendendo in realtà soprattutto politiche di bilancio, con vincoli da rispettare e qualche sanzione. Via libera dunque al pareggio di bilancio come regola comune e iscritta nelle costituzioni. In cambio, una serie di meccanismi per garantire i debiti degli Stati. Ma poi? Chi guida politiche economiche comuni? Chi lavora per una crescita armonizzata del continente? Le sanzioni automatiche di fronte a nuove tempeste basteranno a tenere tutti in riga o al contrario si riveleranno uno strumento rigido che aggrava il problema se manca un serio discernimento politico? E chi può farlo, se non un governo politico dell’Europa, un governo più forte, legittimato democraticamente e con reali poteri pur nel rispetto di alcune competenze nazionali? La risposta è più Europa, ma cosa aspettiamo a mettere qualche base in più per dare la risposta?
David Cameron: «La modifica del Trattato non era nel nostro interesse»
Merkel+Sarkozy fa ventisei Berlino e Parigi impongono un’intesa (positiva) che però non reggerà senza l’unione politica. Londra dice no. Apprezzata da tutti la manovra di Monti di Enrico Singer desso a Bruxelles dicono che la catastrofe è stata scongiurata, che l’euro ce la farà, che sono state concordate più severe regole di bilancio per i Paesi della moneta comune, che sarà anticipata anche la nascita del nuovo meccanismo di stabilità che prenderà il posto del Fondo salva-Stati, con il coinvolgimento della Bce nella sua gestione operativa, e che altri 200 miliardi saranno destinati al Fmi per gli interventi finanziari più urgenti.Tutto vero e positivo. Ma c’è un’altra faccia della medaglia. La Gran Bretagna, l’Ungheria, la Svezia e la Repubblica ceca non hanno accettato il pacchetto di riforme. Tantomeno hanno consentito che venisse solennemente ratificato con lo strumento che sarebbe stato più appropriato: una modifica del Trattato sul quale l’Unione europea si fonda. Così, nello stesso giorno in cui sono state aperte ufficialmente le porte al ventottesimo socio - la Croazia, che entrerà nella Ue a metà 2013 - l’ Europa a Ventisette si è divisa. Per la prima volta in modo lacerante. In pratica, non esiste più. C’è chi dice che ormai è a 17 - i Paesi di Eurolandia - più sei “volenterosi”. Chi è convinto che Stoccolma e Praga, alla fine, si aggiungeranno al gruppo dopo un passaggio parlamentare, come farà anche l’Ungheria di Victor Orban che sembra pronta a smussare quello che, all’inizio, era stato un“no”netto. Ma il gran rifiuto della Gran Bretagna è assoluto. È un vero strappo. David Cameron, in una notte di estenuanti trattative che si sono concluse soltanto alle 5,20, ha minacciato addirittura di organizzare un referendum pur di impedire ogni «cedimento di sovranità» e ha costretto anche Berlino e Parigi a ripiegare
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sulla strada dell’accordo intergovernativo per far passare le regole che dovrebbero restituire solidità all’euro. Questo significa che il tanto inseguito fiscal compact, la disciplina di bilancio rafforzata, sarà «aggiuntivo» rispetto al Trattato Ue e impegnerà soltanto gli Stati che lo sottoscriveranno. Mario Monti, al termine del Consiglio europeo, lo ha detto chiaramente. L’accordo a ventisette sarebbe stato la via maestra. L’Italia ha anche svolto un’opera di mediazione tra le posizioni di Cameron e quelle di Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy. Ma l’intransigenza del premier britannico è stata totale: ha definito il suo rifiuto «una decisione difficile ma giusta». La modifica del Trattato europeo «non era nell’interesse della Gran Bretagna, quindi non l’ho accettato e sono lieto di non essere nell’euro», ha detto Cameron. Parole pesanti come macigni. È vero che Londra non ha aderito alla moneta comune fin dalla sua nascita. Ma oggi è ancora più lontana dal treno europeo che, faticosamente, cerca di andare avanti sui binari dell’integrazione. È lontana dal «cuore dell’Europa», come ha notato Monti. L’aspetto più allarmante dell’intesa parziale raggiunta nel vertice di Bruxelles è proprio questo: l’euro, che doveva essere la principale leva economica per favorire l’unita politica, è diventato un elemento di divisione all’interno della Ue. E c’è, davvero, da augurarsi che i 17 di Eurolandia e i “volenterosi”saranno capaci di ridare slancio alla moneta e al suo ruolo di cemento politico della Ue. Di tutta la Ue, possibilmente. Il lavoro è in salita. Se ieri è nata un’Europa a due velocità è colpa di Londra, certo. Sarkozy, visibilmente provato dalle quasi dieci ore di riu-
la crisi europea
10 dicembre 2011 • pagina 3
«Angela persevera negli errori di Trichet» Giorgio La Malfa giudica negativamente l’accordo salva euro: rimedio peggiore del male di Franco Insardà
ROMA. «Non c’è alcun motivo di soddisfazione per un europeo, europeista, in quello che è successo l’altra notte a Bruxelles». Giorgio La Malfa non usa mezze misure per giudicare l’accordo. Onorevole La Malfa, che cosa manca? Non c’è garanzia che qualcuno si prenderà carico della crescita in Europa. Anzi accelerando il rientro dal disavanzo per alcuni paesi la deflazione si estende all’Europa e l’euro rimane ballerino. È stupido il tentativo di rendere draconiani gli errori che ci hanno portato a questa situazione. Perché? Bisogna prima di tutto intendersi sulle cause della crisi economica: è figlia di un disordine dei paesi deboli dell’euro, oppure la difficoltà di questi Stati dipende dalle politiche perseguite dalla Banca centrale europea per dieci anni. Se la crisi fosse figlia del disordine dei conti pubblici dei paesi deboli? Basterebbe mettere ordine nei bilanci di Grecia, Spagna, Irlanda e Italia, istituire un sistema di controllo stringente per far raggiungere loro il pareggio di bilancio e fare in modo che la Bce compri dei loro titoli, nel caso in cui avessero dei problemi. Fatte queste operazioni la situazione economica dell’Eurozona dovrebbe tornare alla tranquillità. Purtroppo non è così. La Bce con le sue politiche econo-
miche ha puntato soltanto a rafforzare l’euro e il suo prestigio, disinteressandosi se la moneta europea valesse molto o poco, lottando contro l’inflazione anche quando non c’era, tenendo i tassi d’interesse relativamente alti rispetto a quelli Usa. Tutto questo ha determinato la caduta del tasso di crescita dell’euro, accentuando la difficoltà di tutti i paesi, soprattutto di quelli che avevano, per colpa loro, bilanci più fragili. Il suo pensiero sulle cause della crisi è chiaro, ma la soluzio-
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1998 e aveva visto bene. La Gran Bretagna è un Paese serio, pensare, come fanno gli europeisti di oggi, che togliendola dall’Europa ci sia un vantaggio è una delle stupidaggini più grandi. Senza di loro l’Europa sarebbe meno democratica e meno aperta al resto del mondo. Meglio camminare più piano con l’Inghilterra che correre senza di loro. Cameron ha dichiarato: non rinunceremo alla nostra sovranità. Vuol dire che gli altri paesi la perdono? In cambio non di una politica comune, ma di un idolo: il pareggio di bilancio. Sarei disposto a mettere in comune la sovranità, se si andasse a votare per eleggere il Cancelliere dello Scacchiere dell’Europa. Oggi abbiamo sacrificato la sovranità alla stabilità di bilancio. Si tratta, però, di un’altare dove si fanno vittime e scorre sangue di innocenti. Si adotteranno sanzioni automatiche contro chi supera la soglia di deficit, ma solo in presenza della ”maggioranza qualificata”di Stati membri della zona euro Siamo all’assurdo. Si mettono in campo accordi draconiani e si trovano subito escamotage per aggirarli. Sono d’accordo a imporre il pareggio di bilancio, a patto che ci sia una autorità europea che si prenda cura della crescita. In sostanza è passata la linea franco-tedesca? Direi tedesca. Franco, nella misu-
Sono d’accordo con l’analisi di Visco. Gli sforzi verso l’equilibrio di bilancio, se non sono compensati da misure per la crescita, aggraveranno i problemi ne elaborata a Bruxelles può servire? Si tratta di una cura peggiore del male, perché aggrava le aspettative di tutti. Fa discutere e pensare il no della Gran Bretagna. Parliamo di un Paese di antica saggezza. Quando nacque l’euro il Cancelliere dello Scacchiere dell’epoca, Nigel Lawson, dichiarò in una conferenza che «il problema dell’unione monetaria è che alle spalle ci deve essere un’unione politica. Siccome l’unione politica non è nell’agenda dell’Europa oggi quella monetaria ha dei limiti». Queste cose Lawson le disse il 26 gennaio del
nione, ha spiegato che le «condizioni inaccettabili» poste da David Cameron - che voleva un protocollo allegato al Trattato per esonerare la Gran Bretagna dall’applicazione delle regole sui servizi finanziari - hanno impedito l’intesa a ventisette. Ma Angela Merkel è meno categorica: le nuove regole saranno approvate nel prossimo Consiglio europeo già convocato per il primo e il 2 marzo 2012 e questo è. Comunque, positivo. Un giudizio condiviso, in fondo, anche da Mario Monti: quello appena concluso «non è il vertice del fallimento».
Anche Mario Draghi, che ha partecipato alla maratona negoziale di Bruxelles, preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno e dice che le decisioni prese rappresentano «un risultato molto buono per l’Eurozona». Al presidente della Bce interessano gli effetti sulla moneta comune e quanto sono riusciti a concordare i 17 più i “volenterosi” è almeno la base «per un patto di bilancio con più disciplina nelle politiche economiche dei Paesi membri che certamente sarà utile». Ma quali sono le novità? I bilanci nazionali dei Paesi che aderiranno alle indicazioni del Consiglio europeo di ieri dovranno essere in parità o prevedere degli avanzi. Questo principio si concretizzerà nella riduzione del deficit strutturale annuale (che non considera gli effetti straordinari del ciclo economico e il rimborso del debito), allo 0,5 per
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cento. Sarà adottato anche un nuovo meccanismo di correzione che sarà attivato in caso dei violazione degli impegni e sarà definito da ogni Paese membro su indicazione della Commissione europea. È prevista la convergenza economica dei Paesi dell’euro verso uno specifico livello di riferimento e la realizzazione degli impegni sarà monitorata dal Consiglio europeo e dalla stessa Commissione. Le procedure d’infrazione per deficit eccessivo saranno attivate non appena sarà sforata la soglia del 3 per cento già fissata dal Patto di stabilità, mentre i criteri per la riduzione del debito superiore al 60 per cento del Pil saranno fissati in nuovi provvedimenti da definire entro il prossimo marzo. Il Consiglio
ra in cui l’accordo è ambiguo, tedesca nella sostanza. Con una Bce più forte. La funzione della banca centrale europea è quello di tenere i tassi d’interesse bassi per stimolare gli investimenti e la piena occupazione, aiutando l’euro a scivolare nei confronti dello yuan e del dollaro. Se non lo fa è costretta a salvare gli Stati, che ha portato al fallimento. Mario Draghi ha, però, invertito la tendenza sulla riduzione dei tassi. Certamente, bisognerà vedere se saranno misure sufficienti. Questo significa guardare la politica economica con un’ottica diversa, rispetto a quello che ha fatto la Bce finora e che ha portato l’euro al disastro. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha giudicato positivamente l’accordo raggiunto, aggiungendo: se non c’è cooperazione non c’è Europa. Avvertendo anche in Italia si va verso la recessione. Ho ascoltato Visco in commissione Bilancio e sono d’accordo con la sua analisi. Tutti gli sforzi di andare verso l’equilibrio di bilancio, se non sono compensati da qualcosa che aiuti la crescita, sono destinati ad aggravare i problemi.
per usare la formula di Angela Merkel, che finora sono mancate fragilizzando l’euro che - è bene sempre ricordarlo - è l’unica moneta al mondo che non ha uno Stato alle spalle, ma un’unione di Stati con squilibri e divergenze. Basterà per arginare la crisi? Mario Monti ha detto che adesso, almeno, la «potenza di fuoco degli strumenti per fronteggiare il contagio» è aumentata. Il presidente del Consiglio ha anche parlato della sorte degli eurobond. «Non lasciatevi trarre in inganno», ha detto. È vero che gli eurobond non figurano nel documento finale, ma questo non significa che le trattative non andranno avanti: «Alcuni Paesi avrebbero voluto sopprimere l’idea nella culla. Mi sono battuto ed è prevalsa l’idea che sarebbe stato incoerente non volere uno strumento utilissimo come l’emissione in comune dei titoli pubblici in una zona che dichiara di voler fare passi avanti verso un’unione fiscale». Gli elementi di speranza, insomma, ci sono. E tra le partite positive di questi due giorni di fuoco c’è anche il ritrovato posto dell’Italia al tavolo europeo. Ieri è stato confermato che Monti, Sarkozy e Merkel si vedranno a Roma a metà gennaio per un nuovo trilaterale dopo quello di Strasburgo. Ma lo strappo della Gran Bretagna resta ed è pesante. Anche la Merkel lo ha ammesso: «Londra si è tirata fuori, ma un euro stabile interessa anche alla Gran Bretagna perché siamo tutti sulla stessa barca su questo Continente».
Il premier inglese, in una notte di trattative, ha minacciato addirittura di organizzare un referendum pur di impedire ogni «cedimento della sovranità» ha inoltre deciso di accelerare l’attivazione dell’Esm, European Stability Mechanism che sostituirà il Fondo salva-Stati entro luglio 2012. L’Efsf rimarrà attivo (con 500 miliardi di dotazione) nei programmi di finanziamento fino alla metà del 2013 e la Bce avrà un ruolo attivo nella sua gestione. Questo insieme di misure dovrebbe rendere più credibile l’eurozona. Dovrebbe realizzare quell’unione delle politiche di bilancio e fiscali,
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la crisi europea
È stata sprecata un’occasione decisiva: la crisi della moneta continua. Le trepide attese della vigilia sono state disattese
Euro di padre ignoto
Il vertice ha cambiato alcune cose ma non ha affrontato il vero problema sul tavolo: la mancanza di copertura politica per una valuta sempre più sotto attacco speculativo. Ora Monti vada in Parlamento a dire le cose come stanno di Enrico Cisnetto enti anni dopo Maastricht facciamo un nuovo Trattato che eliminerà le debolezze del sistema e diventerà il Trattato per la stabilità dell’euro». Vorremmo tanto condividere il giudizio che il cancelliere tedesco Angela Merkel ha dato del vertice Ue, atteso come salvifico per la moneta unica e l’eurosistema, ma francamente non se ne vedono proprio i presupposti. Anche le molto più temperate considerazioni di Mario Monti – «può darsi che tutto questo non basti, ma non mi sembra un vertice dei fallimenti» – appaiono condite di un eccesso di ottimismo. Inevitabilmente, l’oste non dirà mai che il vino è cattivo. Tuttavia, qui siamo di fronte, nel migliore dei casi, ad un’occasione – decisiva – mancata.
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Ma se la crisi dell’euro non si dovesse fermare, come temiamo, la preoccupazione è che si trasformi in una dram-
matica tragedia, e che un giorno questo vertice di Bruxelles venga considerato dagli storici come la data convenzionale a cui si ascrive la fine dell’era plurisecolare che ha visto la supremazia del continente europeo sul resto del mondo. Perché se erano vere le trepide attese della vigilia – con la Merkel e il presidente francese Sarkozy che hanno più volte evocato la fine dell’euro e con esso della stessa Europa come soggetto continentale – allora è ben difficile credere che ad esse siano state date risposte adeguate.
Sia chiaro, il problema non è quello dell’auto-esclusione della Gran Bretagna, che nel mercato unico rimane e nell’euro non è mai entrata. Ieri non è nata l’Europa a due velocità, come ha cercato di farci credere il sempre più deludente Sarkozy, ma non è stata salvata la moneta unica e con essa l’Unione europea. Se Cameron avesse accettato il nuo-
vo Trattato, o se viceversa fossero rimasti allineati a Londra tutti e 10 Paesi extra i 17 dell’euro, non sarebbe cambiato niente. In entrambi i casi.
Perché il tema del vertice non era la distonia tra l’Europa dei 17 e quella dei 27 Paesi – esistente fin da quando fu commesso l’esiziale errore di procedere con l’allargamento – bensì la tenuta dell’eurosistema di fronte agli attacchi speculativi contro i debiti sovrani di gran parte dei paesi mem-
L’afflusso di fondi alla Bce non basta: doveva divenire una banca reale
bri. E su quel fronte, come succede fin dalle primissime avvisaglie di esplosione del problema greco, si è fatto poco.
Sì, certo, si è deciso che viene fatto partire, in anticipo sulla tabella di marcia, il fondo permanente salva-stati (Esm) con il coinvolgimento della Bce nella gestione operativa (ma per questo l’istituto guidato da Draghi non diventerà una banca), e che si rifinanzia per 200 miliardi di euro l’Fmi, che quindi potrà inter-
venire in caso necessiti un salvataggio. Inoltre la Bce aveva già deciso giovedì misure atte a favorire la liquidità delle banche. Bene, sarebbe sciocco sottovalutare queste scelte. Ma, come è stato fin qui, non sono per nulla sufficienti a fronteggiare la pressione speculativa contro l’euro.
Perché è ormai noto e chiaro a tutti che il problema sta tutto nella tara genetica con cui è nata la moneta europea. Invece di rappresentare il punto d’arrivo di un processo federativo che anteponesse all’integrazione monetaria la nascita di uno stato federale cui le nazioni aderenti devolvessero quote importanti e crescenti delle loro sovranità, l’euro è nato privo di padre, cioè di un governo che, d’intesa con una banca centrale dotata della potestà di stampare moneta, potesse utilizzare tutte le leve della politica economica in nome di un interesse continentale anteposto a quelli nazionali.
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Nella crisi finanziaria attuale, è come se un po’ tutti gli antichi stereotipi fossero riemersi
La guerra dei Cent’anni? Non è mai finita
Respinta dall’Europa con la sconfitta del 1453, la perfida Albione decise allora di impedire a chiunque di diventare egemone nel Continente. Oggi, la storia si ripete di Maurizio Stefanini l vescovo Bossuet: «L’Inghilterra, ah la perfida Inghilterra, che il bastione dei suoi mari rendeva inaccessibile ai Romani». Il marchese di Ximenez, 1793: «Attacchiamo nelle sue acque la perfida Albione». Napoleone: «Inghilterra, nazione di bottegai». Henri Somin, 1809: «Trema, trema perfida Albione». Gustave Flaubert, 1878: «E la guerra? E le furfanterie della perfida Albione che svaniscono nel nulla? Farsa! Farsa!». La Famille Fenouillard, dal 1889 il più antico fumetto francese: «La perfida Albione che ha bruciato Giovanna d’Arco sulla rocca di Sant’Elena». Ernst Lissauer nell’Inno dell’odio contro l’Inghilterra scritto per la propaganda di guerra tedesca nel 1914: «Di francesi e russi non ci importa/ colpo su colpo e piombo col piombo/ non li amiamo, non li odiamo/ ... Non abbiamo che un unico e solo odio/ non ne amiamo che uno, non ne odiamo che uno/ Non abbiamo che un nemico e uno solo/... l’Inghilterra!». Padre Canon Charles O’Neill in La nebbia del mattino, canzone del 1919 dedicata alla rivolta irlandese del 1916: «Oh la notte buia cala e lo scoppio dei fucili/ che fanno vacillare la Perfida Albione».
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Benito Mussolini, già a partire dal 1919: «Gli inglesi, popolo dai cinque pasti». Mario Appelius, 1940: «Dio stramaledica gli inglesi». Adesso viene il bello, canzone italiana del 1940: «Malvagia Inghilterra,/ tu perdi la guerra,/ la nostra vittoria sul tuo capo fiera sta!». Charles De Gaulle nel 1963, al momento di porre il veto sull’ingresso del Regno Unito nella Cee: «La natura e la struttura e il contesto economico dell’Inghilterra sono profondamente diversi da quelli degli altri Stati d’Europa». I giornali argentini sul goal di mano di Maradona ai Mondiali del 1986: «La mano di Dio contro i pirati inglesi». Dick Cheney nel novembre del 2008 dopo l’incontro tra il ministro degli Esteri britannico David Milliband e il presidente siriano Bashar al-Assad: «Perfida Albione!». Sarkozy dopo il fallimento del vertice di Bruxelles: «Avremmo preferito un accordo a 27 ma questo non è stato possibile tenendo conto della posizione dei nostri amici britannici. Se avessimo concesso una deroga al Regno Unito sarebbe stato per noi, e non dico che sia questa la volontà di Cameron, come rimettere in dubbio buona parte del lavoro finora per una migliore disciplina di bilancio, cosa che è assolutamente necessaria, visto che una parte dei problemi del mondo attualmente è proprio causata dalla carenza di regole nei servizi finanziari che i britannici vogliono tanto tutelare». Perfide Albion, si dice in francese.
Pérfida Albión, in spagnolo. Perfida Albione, in italiano. Perfides Albion, in tedesco. E Ghiraià Albiòna, in greco.
È vero poi che i francesi, dopo le secolari dispute dalla Guerra dei Cent’Anni a Napoleone sono stati salvati dagli inglesi nelle due guerre mondiali. E che la Prussia, antenata della Germania, fu la più fedele alleata dell’Inghilterra contro i francesi dalla Guerra dei Sette Anni a
Gli imperi di vecchio stampo non ci sono. Ma la finanza ha in qualche modo preso il suo posto
Waterloo. E che la Spagna cercò di invadere l’Inghilterra con l’Invincible Armada, ma ne fu poi soccorsa contro l’invasione napoleonica. E che l’Italia era stata potentemente aiutata dall’Inghilterra nel Risorgimento, come pure la Grecia nelle sue guerre di indipendenza. Però De Gaulle dopo essere stato esule a Londra per rimanere fedele all’alleanza con gli inglesi divenne poi quello che insistette per tenerli fuori dall’Europa. E la Germania dopo l’unità finì per prendere il posto della Francia come nemico ereditario degli inglesi. E dell’aiuto dato alla Spagna contro Napoleone l’Inghilterra si compensò soffiandole l’impero latino-americano, senza contare la piaga ancora aperta di Gibilterra. E l’Italia si sentì tradita per la «vittoria mutilata». E la Grecia fu spinta alla disastrosa guerra contro la Turchia kemalista per essere poi piantata in asso, per non parlare della querelle di Cipro.
Nella crisi un po’ tutti gli antichi stereotipi sono ricicciati fuori. Se italiani, greci, spagnoli, portoghesi, irlandesi sono stati tacciati di lazzaroni, se francesi e tedeschi hanno tornato a fare la figura dei prepotenti, è però significativo che gli inglesi siano, appunto, gli «infidi». Respinta dall’Europa con la sconfitta della Guerra dei Cent’Anni, l’Inghilterra si rivolse al mare, e decise da allora di impedire a chiunque di diventare egemone in Europa, e fosse così in grado di turbare il suo splendido isolamento. Per questo nei secoli giocò le potenze europee l’una contro l’altra, fomentando sempre le coalizioni dei più deboli contro quello che volta per volta apparisse il più potente: prima l’impero ispano-austriaco degli Asburgo, poi la Francia dei Borboni e di Napoleone, infine la Germania del Secondo e Terzo Reich. Con meriti storici, vista l’immagine di tirannidi che tutti questi aspiranti unificatori d’Europa avevano. Ma facendo combattere soprattutto gli alleati, e cambiandoli in continuazione. Mentre questi così si logoravano, loro di soppiatto oltre il mare costruivano un impero smisurato. Per giunta, poi, ipocritamente si mettevano a condannare gli imperialismi degli altri. Gli imperi di vecchio stampo non ci sono oggi più, e non c’è neanche il potere marittimo del Rule Britannia. Ma la finanza ha in qualche modo preso il suo posto, mentre nel Continente si affermava il nuovo impero dell’euro. Antichi riflessi condizionati sono tornati così a scattare.
Il risultato eccolo qui: non appena è finito il tempo delle vacche grasse e la crisi finanziaria mondiale ha portato la recessione, la tara genetica dell’euro ha fatto esplodere le sue contraddizioni e messo a nudo la fragilità dell’eurosistema. Fino al punto da portare il Vecchio Continente ad un passo dal disfacimento.
Ora, se questo è lo scenario in cui si è collocato il vertice di Bruxelles, è ben difficile sostenere che le più stringenti regole di bilancio in esso approvate, pomposamente chiamate “nuovo Trattato Ue”, siano la risposta giusta. E non lo sono né dal punto di vista politico, né da quello del merito. Perché non c’è nulla che vada nella direzione dell’integrazione politico-istituzionale. Un fronte in cui non ci sono scorciatoie: la politica fiscale integrata (“fiscal compact”, come ha suggerito di chiamarla Draghi), gli eurobond, una Bce con lo statuto della Fed, sono tutti strumenti che richiedono giocoforza l’esistenza di un governo centrale che abbia come obiettivo la tutela dell’interesse comunitario. Credere che esso possa essere surrogato da vincoli più stringenti alle politiche nazionali affidati a soggetti vecchi e nuovi dell’Europa delle nazioni, come la Commissione o anti-democratici patti di consultazione, è pura illusione. O si fanno gli Stati Uniti d’Europa, o si muore. E a Bruxelles dell’Europa federale non si è vista neppure l’ombra, mentre a prevalere è stato ancora una volta il metodo intergovernativo. Che Cameron, giustamente dal suo punto di vista, ha respinto al mittente. Se a questo ci aggiungiamo, poi, che in una fase recessiva come questa stringere ulteriormente i bulloni del controllo dei deficit correnti rischia non di rendere virtuosa la spesa pubblica dei paesi, ma di alimentare la depressione, c’è poco da essere anche solo moderatamente soddisfatti. L’obiettivo deve essere la ripresa dello sviluppo, senza la quale i debiti diventano “impagabili” nonostante l’austerità. Ma di questo i “17+9” non si sono minimamente occupati, tanto che per molti versi il documento finale del vertice sembra essere il ritratto della recessione vissuta come conquista. Sarà bene che il governo Monti, dopo la manovra che ci costa mezzo punto di pil di recessione (stima Bankitalia), apra con il parlamento, con le forze sociali e con gli italiani una discussione su quanto (non) è accaduto a Bruxelles, di quali siano le realistiche prospettive dell’Europa e di come l’Italia possa attrezzarsi. (www.enricocisnetto.it)
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la crisi europea Il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Monti, insieme al ministro per lo Sviluppo economico ed ex amministratore di Intesa Corrado Passera. In basso il leader della Lega Nord, Umberto Bossi. Nella pagina a fianco la sede di Equitalia colpita ieri da una bomba e il dirigente ferito, Marco Cuccagna
I lumbàrd attaccano le frequenze televisive: «Usiamole per fare cassa» ROMA. Seicento emendamenti alla manovra per marcare le distanze dagli alleati di un tempo. E soprattutto lanciare al Nord un’Opa elettorale su quello che rimane del berlusconismo. Al Carroccio non piace il clima di larghe intese che deve sistemare i conti del Paese, ma nelle modifiche alla piattaforma da 30 miliardi di euro si legge soprattutto un forte revanchismo nei confronti del Cavaliere. Il quale, a sua volta, rischia di essere travolto anche dall’ira dei suoi, che chiedono di intervenire in prima battuta sull’Ici e soltanto in seconda battuta sulle pensioni. A mo’ di provocazione, ecco gli uomini di Bossi chiedere di introdurre la patrimoniale sui beni di lusso, raddoppiare il bollo sui capitali rientrati con lo scudo fiscale e persino fare un’asta pubbliche sulle frequenze che invece l’ex governo concedeva gratuitamente a Rai, Mediaset e Telecom Italia Media. «Non si può rinunciare a 4 miliardi così a cuor leggero. Questa è una manovra recessiva, che non garantisce il raggiungimento del pareggio di bilancio e che rischia di essere negativa per i consumi del Paese, pregiudicando anche l’obiettivo di arrivare a una diminuzione del debito pubblico», hanno commentato gli esponenti dell’Alberto da Giussano nelle commissione
La Lega colpisce Silvio al cuore Manovra, difficile trovare le coperture. La destra preme sulla casa, la sinistra sulla deindicizzazioni di Francesco Pacifico Bilancio e Finanze delle Camere, Massimo Bitonci e Maurizio Fugatti, pronti così a recuperare risorse per allentare il peso della mancata indicizzazione delle pensioni, la stangata dell’Imu e i vincoli del patto di stabilità agli enti locali virtuosi. Qualcosa su questo versante si sta muovendo, se il neoministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha dichiarato davanti alla commissione Trasporti della Camera: «Stiamo affrontando ed approfondendo il tema del beauty contest scelto dal precedente governo per assegnare le frequenze televisive liberate dal passaggio al di-
gitale terrestre. Ma con cessioni molto vantaggiose di frequenze importanti ci sono lavori in corso ancora da fare sia in termini di riordino che di ottimizzazione». Non sembra, però, che il tema sia al centro delle preoccupazioni del centrodestra. A rompere il clima da unità nazionale ci ha pensato però la Corte dei Conti. I suoi funzionari hanno spiegato ai membri delle commissioni Bilancio e Finanze della Camera – alacremente impegnati a trovare la copertura per lo sconto sulle pensioni – che difficilmente l’erario incasserà gli oltre 2,5 miliardi previsti con il bollo sui capitali scudati e tornati in Italia. Rientrati con la garanzia di anonimato per gli evaso-
ri, quei soldi sono difficilmente reperibili o già impegnati in altri investimenti. E non sarebbe meno complesso spingere le banche che li hanno rimpatriati a fare da sostituti d’imposta e a rompere il vincolo di segretezza. Anche perché con il Tesoro che rischierebbe di dover fronteggiare un numero altissimo di ricorsi. Rivalutare le pensioni fino a quota 1.400 costa circa 2,5 miliardi in un biennio. Portare da 200 a 500 euro la soglia di detrazione Irpef dell’Imu sulla prima casa forse anche 3 miliardi. In via dell’Umilltà e al Nazareno erano di fatto d’accordo di partire dall’aumento dell’una tantum sui capitali scudati per recuperare i soldi necessari. Con la conseguenza adesso che – con i saldi della manovra blindati ieri dall’Europa – i due partiti hanno iniziato a litigare sulle priorità. Atteggiamenti che non piacciano a Mario Monti, soprattutto dopo che l’Europa ha annunciato sanzioni automatiche contro chi sfora sul Pil. «I partiti mai avrebbero potuto permettersi di varare misure così impopolari. Vorrei la comprensione dei cittadini», ha spiegato, «per uno scatto, una manovra che è una dose d’urto che funzionerà. Sarebbe sorprendente se non ci fossero grosse resistenze. Sono e siamo consapevoli del fatto che chiediamo un forte impegno agli italiani e non possiamo permetterci di chiederlo solo a una piccola categoria più agiata». L’ex rettore della Bocconi apre
la crisi europea
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Pacco bomba a Roma, Equitalia nel mirino Ferito il direttore generale Marco Cuccagna: ha perso la falange di un dito della mano di Francesco Lo Dico
ROMA. L’esplosione di un pacco bomba è costata la falange a Marco Cuccagna, direttore generale dell’agenzia Equitalia di via Andrea Millevoi 10, a Roma, in zona Cecchignola. Feritosi dopo aver aperto il plico imbottito, l’uomo è rimasto ferito ed è stato immediatamente trasportato all’ospedale Sant’Eugenio. Un pacco bomba è esploso all’Agenzia, mentre una parte dell’edificio che ospita le sedi dell’agenzia di riscossione tributi è stata evacuata. A seguito dell’incidentela procura di Roma ha aperto un fascicolo d’inchiesta sull’ipotesi che l’attentato abbia finalità di terrorismo. Le indagini coordinate dall’aggiunto Pietro Saviotti hanno virato presto verso una direzione precisa: le modalità dell’insano gesto riconducono ad ambienti di matrice anarco-insurrezionalista. Le stesse ravvisabili anche nell’invio del pacchetto esplosivo che era stato indirizzato l’altro ieri al presidente della Deutsche Bank, Josef Ackermann. La tempistica dei due episodi è inoltre perfettamente compatibile con la serie di pacchi bomba che l’anno scorso, proprio in dicembre, misero a soqquadro numerose ambasciate e sedi diplomatiche della capitale. Rispetto a dodici mesi fa, dunque, ci sarebbe stato un cambio di bersaglio: dagli ambienti e dalle figure che regolano la politica estera, a personaggi e istituti che sono parte attiva nella gestione della finanza e dell’economia. «C’è un allarme», ha fatto sapere il questore di Roma, Francesco Tagliente, a seguito dell’esplosione nella sede romana di Equitalia. E la politica si è subito mobilitata nel censurare l’accaduto ed esprimere solidarietà al direttore generale Cuccagna.
In primis il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri. E poi anche Rosy Bindi: «Al direttore Marco Cuccagna, vittima di un vile attentato, la nostra sincera solidarietà e i migliori auguri di una pronta guarigione. È un episodio gravissimo che non deve essere sottovalutato nel particolare contesto, politico e sociale, che sta vivendo il nostro Paese». E l’inquietante nesso tra la difficile situazione italiana e il pacco bomba recapitato in via Millevoi, non è sfuggito neppure al presidente del Consiglio, Mario Monti. «Equitalia ha sempre svolto e continua a svolgere esclusivamente il proprio dovere», ha commentato il professore, «nel pieno rispetto delle leggi. Una funzione essenziale
qualche polemica. «È quanto meno singolare che lo Stato sia diventato cosi’ efficiente ed inflessibile quando deve recuperare le sue spettanze, visto che l’incremento di gettito rispetto al 2009 è cresciuto di quasi il 15%, mentre è il peggiore pagatore d’Europa quando deve liquidare i propri fornitori», ha commentato Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre che ha ricordato per di più che le aziende private italiane avanzano dalla Pubblica Amministrazione 70 miliardi di euro di mancati pagamenti.
Gli inquirenti seguono la pista anarchica, ma l’indignazione popolare verso i pignoramenti cova da tempo contro alti interessi e “ipoteche facili”
soltanto «sugli emendamenti dei partiti che hanno votato la fiducia. I ministri competenti stanno lavorando in queste ore, ma non è ancora il momento in cui possa dire che cosa sarà o meno accolto. A noi importa rendere un buon servizio, non è un problema nostro pensare alle elezioni». A dargli manforte Giorgio Napolitano: «Bisogna guardare avanti, la manovra è solo un primo passo di questo governo». Ma l’appello del Presidente non fa proseliti su tutta la classe politica. Il centrodestra punta tutto sulla casa, anche per far risaltare la differenza tra un governo politico che ha abolito l’Ici e un altro tutto tecnico che invece l’ha reintrodotta, senza neppure garantire il grosso del gettito agli enti loca-
per il funzionamento dello Stato, senza la quale non sarebbe possibile erogare servizi ai cittadini e alle loro famiglie». Il riferimento del premier è a un tesoretto di quasi 9 miliardi di euro, precisamente 8,8 mld, che Equitalia ha recuperato nel 2010 attraverso l’azione di riscossione coattiva esercitata sui contribuenti italiani. I numeri raccolti dalla Cgia di Mestre parlano di una media di cartelle esattoriali versate pari a circa 159,7 euro per ciascun cittadino.
Molto significativo, rispetto all’attentato subito dal dirigente romano, il dato secondo cui nella speciale classifica dei contribuenti più “torchiati”, svettano i cittadini del Lazio: ciascuno di loro ha forzosamente versato 217,6 euro. Ma l’indubbia efficienza di Equitalia ha destato nei mesi scorsi più di
Né sono mancate infiammate discussioni sui metodi ferrei dell’agenzia che ha generato forte indignazione popolare soprattutto per i preavvisi e l’iscrizione di fermo amministrativo. Nel primo caso, nel triennio 2007-2009, si è ricorsi mediamente a questo strumento 26,8 volte ogni 1.000 abitanti. Nel secondo caso, invece, 7,5 volte ogni 1.000 abitanti. Esacerbato dalla crisi, il rapporto sempre più conflittuale tra Equitalia e italiani cova da tempo, e ha coinvolto numerose associazioni dei consumatori, come l’Adi-
li. Anche se non manca chi, nel partito di Berlusconi, ricorda che la deindicizzazione è un provvedimento di maggiore impatto sociale.
stenibile dal punto di vista finanziario per il maxiemendamento del governo. Così, anche per trovare i soldi, si è finito per ritirare dal cassetto una
Di questo ne sono certi anche a sinistra, forti del fatto che il ministro Elsa Fornero avrebbe fatto sapere di essere stata costretta a fare cassa sugli assegni più bassi. Infatti rilanciano su clausole di salvaguardia per i lavori usuranti e sulle penalizzazioni per chi ha iniziato la sua attività a 18 anni e, con il vecchio sistema delle quote, poteva ritirarsi con 40 anni di contributi a 58 d’età. Entro lunedì mattina (giorno di voti sugli emendamenti in commissione) Pdl Pd e Terzo polo dovranno presentare a Mario Monti una soluzione so-
Monti ai partiti: «Rispettare i saldi». Per Bankitalia la manovra è recessiva: mezzo punto di Pil in meno nei prossimi due anni e fisco al 45% vecchia proposta di Tremonti, cioè le tassazioni sulle transazioni bancarie che tanto spaventarono il settore. In ogni non ci saranno stravolgimenti al testo presentato da
consum. «Non esiste più diritto alla difesa, devi versare che tu abbia torto o ragione», era stato un paio di mesi fa l’allarme dell’avvocato Alberto Goffi, consigliere regionale Udc del Piemonte- Mentre Pietro Giordano, segretario dell’Adiconsum. ha dato voce nei giorni scorsi al maggiore motivo di risentimento nei confronti dell’agenzia: «Si sta colpendo», ha spiegato, «chi ha fatto dichiarazioni fedeli e oggi, a causa della crisi, non è in grado di pagare le tasse. Non puoi impugnare quello che hai dichiarato, è la condanna a morte delle imprese oneste. Con questi tassi prossimi all’usura crescerà il debito dei contribuenti». La tenacia di Equitalia finì anche sul tavolo del precedente governo a inizio dell’estate scorsa, quando fu innalzato a 20mila euro il tetto per l’ipoteca sulla prima casa, si introdussero due avvisi prima di apporre le ganasce fiscali e vennero allungate a 72 mesi le rate per i debiti. Ma in ottobre arrivò dopo un percorso tortuoso, uno strumento che ha fatto infurirare di nuovo i contribuenti. Dopo 60 giorni dall’avviso al cittadino in ritardo sul pagamento di imposte sui redditi, Iva, Irap, Equitalia ha facoltà di iscrivere ipoteca sull’artigiano considerato infedele, di pignorare il suo conto corrente, avviare i pignoramenti presso terzi (i crediti dei clienti, su cui l’agenzia ha potestà) e di far scattare le ganasce su auto e furgoni.
Trattandosi spesso di cittadini onesti, alle prese con tassi d’interesse spaventosi, il governo Monti dovrebbe certo intervenire. Se non si usa il pugno di ferro con gli evasori, i cittadini in difficoltà vanno aiutati.
Monti. Al di là dei 1.300 emendamenti depositati ieri mattina alle commisioni Bilancio e Finanze, i relatore del Pd, Pier Paolo Baretta, fa notare che «il blocco dell’indicizzazione delle pensioni, l’Imu sulla prima casa, la mancanza di una fase transitoria per la riforma delle pensioni sono temi che, sia pure con diverse accentuazioni, fanno parte di un canovaccio comune delle commissioni per interloquire con il governo». E se queste sono le priorità, non è detto che nel maxiemendamento del governo non entrino altri piccoli cambiamenti. Si stanno valutando una proroga per siglare contratti di mobilità (il termine ultimo del 30 ottobre, per esempio, escluderebbe crisi aziendali come quella di Termini Imerese), un allunga-
mento dei tempi per ricapitalizzare le casse dei professionisti, uno sconto sui ricongiungimenti pensionistici tra enti privati e pubblici, l’obbligo di tracciabilità per gli assegni previdenziali di 500 euro. Ieri Bankitalia ha chiarito che tutti gli interventi di finanza pubblica realizzati nel 2011 pesaranno sul bilancio per 76 miliardi di euro. Una cifra monster che spinge in molti a chiedere anche una fase due del governo tutta incentrata sulla crescita. Una scelta doverosa soprattutto dopo che il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha calcolato che le misure dell’ultima manovra«hanno effetti restrittivi sul Pil, stimabili in mezzo punto percentuale nel prossimo biennio» e porteranno la pressione fiscale al 45%.
commenti
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i che d crona
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Transparency e le cronache giudiziarie pesano, ma non tengono conto della voglia di risollevarci
Non è un Paese per corrotti Se la politica non si dimostrerà all’altezza della sfida, rischiamo la fine della democrazia come la conosciamo di Achille Serra n tanti si sono affrettati nei giorni scorsi a puntualizzare che il giudizio di Trasparency sull’allarmante livello di corruzione nel nostro Paese non è affidabile. La graduatoria stilata annualmente dall’organizzazione internazionale che ci vede collocati al 69esimo posto nel mondo e al penultimo in Europa, non ricorre a criteri scientifici. Essa - come si è fatto da più parti notare - misura solo la percezione della corruzione e non la sua effettiva diffusione e questo spiegherebbe la presunta assurdità di posizionarci dietro Cuba, Lettonia, Turchia (molti gradini più in basso rispetto all’anno scorso, 33 in totale rispetto ai tempi di Tangentopoli).
I
Tutto vero, ma non consola, soprattutto in questo frangente. La classifica di Trasparency, infatti, sembra fotografare perfettamente quanto è accaduto in Italia nelle ultime settimane e, in particolare, negli ultimi giorni: una catena di scandali a sfondo corruzione che ha travolto molti vertici della politica, dalla Lombardia alla Calabria, dalla Campania alla Camera dei Deputati. Avvisi di garanzia, rinvii a giudizio, provvedimenti restrittivi o peggio ordini di cattura hanno colpito personaggi eletti a tutti i livelli e in
tutti i partiti. A breve il Parlamento sarà chiamato nuovamente a pronunciarsi sulla richiesta della magistratura a procedere nei confronti di Cosentino e la speranza è che non abbia la stessa sfrontatezza
reali e tangibili di corruzione, anche quando si debbano ancora accertare le effettive responsabilità. Sono il chiaro, drammatico sintomo di una corruzione forte e arrogante che oltre ad avere pesantissime ricadute sul
Accanto ai casi di malagestione del potere ci sono persone che non hanno mai preso una tangente o corrotto un funzionario, che hanno fatto della lotta all’illegalità una ragione di vita con cui la scorsa volta bloccò, sempre per la medesima persona, il corso della Legge.
Quella sfrontatezza con cui altri sostennero che una minorenne fermata dalla Polizia di Milano era la nipote dell’ex Presidente egiziano. Tutto ciò va ben oltre la percepurzione, troppo. Al contrario, sono fatti
piano economico, aggravando il nostro debito pubblico e scaricando sulle spalle di tutti i cittadini una tassa annua di circa 50 miliardi di euro, rappresenta una minaccia crescente per la salute della democrazia.
Le cronache politico-giudiziarie degli ultimi giorni, infatti, contribuiscono notevolmente ad innalzare il muro di diffidenza e rabbia che separa da tempo dirigenti politici e società civile. In molti si sono arricchiti su questo muro, tappezzandolo con i
ben noti slogan anti-casta, ma indubbiamente le sue fondamenta vanno individuate nella politica stessa, una politica in molti casi non più degna del ruolo civile e istituzionale che dovrebbe avere. In molti casi, ma non sempre: questo mi sta a cuore sottolineare oggi.
Se è vero che la corruzione cresce - in tutto il Paese e specularmente nei palazzi del potere - e che la politica in generale non si è dimostrata all’altezza di affrontare la grave crisi in corso, è altrettanto vero che tra i politici si annoverano tante persone trasparenti e motivate. Persone che non hanno mai preso una tangente o corrotto un pubblico funzionario, persone che hanno fatto del contrasto all’illegalità la loro ragione di vita. Contro la logica del ”fare di tutta l’erba un fascio”, da queste persone occorre oggi ripartire per dare un volto, anzi un cuore nuovo alla politica, un cuore che sappia smontare pezzo dopo pezzo il muro della divisione per riappropriarsi del suo ruolo naturale di rappresentante del sentire comune. Se ciò non avverrà a questo governo tecnico, ne seguiranno molti altri e a farne le spese sarà la democrazia, bene che anch’esso per troppo tempo abbiamo dato per scontato.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
LIBERALI MA NON TROPPO di Gabriella Mecucci
Specificità e fragilità del pensiero liberale nel primo volume del “Dizionario del liberalismo italiano”. Un viatico per aiutare l’integrazione dell’Italia alle grandi democrazie occidentali
onostante in anni più recenti, tutti, o quasi, abbiano iniziato a proclamarsi liberali, in Italia il liberalismo non ha avuto grande fortuna, se non altro nelle sue applicazioni pratiche: in economia così come in politica, dove non è mai nato un forte partito liberale. Questo non vuol dire che nelle sue fila non abbiano militato grandi personalità: da Cavour a Giolitti, da Croce a Einaudi, da Gobetti ai Rosselli. Il liberalismo italiano però brilla soprattutto per le sue diversità da altri. Anzi, a essere precisi, per le sue specificità. Finalmente, di recente, è uscita una prima grande ricognizione della storia di questo movimento di idee. Si tratta del Dizionario del liberalismo italiano (Rubbettino Editore, 1063 pagine, 45,00 euro), un tomo di oltre mille pagine (ed è solo il primo di tre) con il quale illustri studiosi cercano di proporre l’enorme mole di elaborazioni e di atteggiamenti, fra loro anche molto diversi, che hanno contraddistinto il liberalismo italiano. Fra gli estensori delle voci e i curatori figurano nomi molto illustri: da Antonio Martino a Dino Cofrancesco, da Luigi Compagna a Francesco Forte, da Fabio Grassi Orsini a Luciano Pellicani, da Gaetano Quagliarello a Giovanni Orsina, tanto per citarne solo qualcuno.
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liberali, ma non
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Ma cominciamo a guardare le voci di questa amplissima rassegna. Uno dei concetti che stanno alla base del liberalismo è quello di individualismo. Ebbene, nel contesto italiano questo termine ha avuto un’importanza assai marginale. «Almeno in parte scrive Luigi Marco Bassani - ciò è dovuto all’influenza del pensiero cattolico e segnatamente di Antonio Rosmini Serbati, che preferì sempre il termine - certo correlato - di persona a quello di individuo: nell’Enciclica Populorum progressio, poi, si parla addirittura dei principi disumani dell’individualismo». E il soggettivismo della Scuola austriaca (Mises, Hayek…), che pone al centro dell’universo sociale l’individuo, facendone il protagonista assoluto dell’indagine mirante alla comprensione dei problemi sociali, non ha certo riscosso un più forte successo. La sorte della parola individualismo ci mostra dunque «una delle maggiori lacune del liberalismo italiano: la mancata riflessione sullo statuto teorico di questo concetto e una ben parziale recezione del grande tema dell’individualismo metodologico».
Ancora più pesantemente critico l’approccio di Antonio Martino e Nicola Iannello che si occupano della voce liberismo, definita non senza ironia «il contributo più originale dell’Italia al liberalismo». Questo termine non esiste in altre lingue. Si tratta di «una peculiarità» nostrana: «La parola liberismo distinta dal liberalismo (per Einaudi non esisteva questa distanza: il liberismo non era altro che l’espressione del liberalismo in economia) suggerisce l’idea che ci sia un liberalismo economico separato da quello politico». Naturalmente i due estensori negano che sia possibile una simile distinzione, mai formulata in nessun altro paese, e in questa rinvengono una particolarità che «non ha certo giovato alla chiarezza del dibattito». Secondo loro non è distinguibile il liberalismo politico da quello economico e propongono di abrogare la parola liberismo. Se alcuni autori del Dizionario si soffermano sulle «fragilità» del liberalismo italiano, altri approfondiscono - come fa Giovanni Giorgini nella voce Libertà - l’importante contributo dato dalla Chiesa cattolica al pensiero liberale: da Alessandro Manzoni a Niccolò Tommaseo, da Antonio Rosmini a Vincenzo Gioberti. Quest’ultimo propone una «libertà santa e italiana» contro il giogo della «servitù straniera». Una libertà dello Stato sotto l’indirizzo spirituale della Chiesa che ritorna così alla funzione di guida delle anime nella separazione fra principato e sacerdozio. Nel Novecento scrive Giorgini - il «cristianesimo liberale ha trovato una delle sue punte teoriche nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, anno IV - numero 43 - pagina II
che ha voluto coniugare valori tipicamente liberali con l’enfatizzazione deldell’importanza l’uomo e della sua dignità… Che, pur nell’accettazione della proprietà privata e del libero mercato, ha sottolineato l’importanza della giustizia e del perseguimento del bene comune». Eredi e attuatori di questa tradizioni senza dimenticare però le grandi differenze che intercorrono fra di loro - sono stati nel secondo dopoguerra De Gasperi e Dossetti. Il cattolicesimo liberale non ha dunque solo una notevole importanza sul piano culturale, ma è la parte dell’elaborazione liberale che più ha inciso nella vita politica italiana del dopoguerra. Anche questa è un’anomalia rispetto ad alcuni altri grandi paesi europei, con l’eccezione della Germania. Una teoria e una pratica, dunque, made in Italy, con caratteristiche che non si scorgono altrove e che i «liberali puri» criticano perché si discosterebbe dall’ortodossia e si trasformerebbe in un insieme teorico molto contaminato. A questo punto vale la pena leggersi la voce Laicità del Dizionario. Anche qui c’è una profonda differenza fra il laicismo rigido di stampo illuminista (alla Rousseau e non alla Kant) e la laicità di Bendetto Croce che scriveva: «Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi che non meraviglia che sia apparsa o possa apparire un miracolo, una rivelazione dal-
senza il riferimento a Dio non si potesse nemmeno parlare dei diritti fondamentali e imprescrittibili dell’individuo, annota Giuseppe Bedeschi. Cosa diversa è ovviamente l’anticlericalismo che si contrappone a un potere diretto e invadente delle gerarchie religiose nella vita politica e nelle istituzioni pubbliche.
l’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane che da lui hanno ricevuto legge ed indirizzo affatto nuovo». Si va da un laicismo «furioso», chiuso e talora persino volgare, rappresentato oggi dallo scientismo di un Odifreddi, a una concezione aperta, disponibile a riconoscere i limiti della ragione e il ruolo della religione. Del resto, il fondatore del liberalismo, John Locke, era un pensatore profondamente cristiano e riteneva che
Il Dizionario è di grande utilità perché riesce a porre in termini molto chiari e a un alto livello di approfondimento alcune delle questioni teoriche che più hanno caratterizzato il dibattito degli anni più recenti. Ma è altresì straordinariamente importante per conoscere l’analisi liberale di alcuni importanti periodi storici. Primo fra tutti, il fascismo. Riprendiamo l’analisi di colui che rappresenta l’espressione più alta del liberalismo italiano: Benedetto Croce. Il filosofo mette la libertà al di sopra di tutto, lo considera un concetto meta politico o pre partitico. Per questo parla di «religione della libertà». In questa concezione c’è una straordinaria capacità di leggere la sua epoca e gli esiti tragici a cui approderà. Benedetto Croce coglie infatti in modo assai acuto il sorgere dell’irrazionalismo che è alla base dei sistemi totalitari del XX secolo e «all’avvento del fascismo - scrive Giovanni Giorgini nella voce del Dizionario afferma la libertà come dovere assoluto, come dovere morale e necessità pratica a un tempo, un’epoca cupa che non esita a definire “età dell’anti Cristo”». Nonostante questa indubitabile capacità di comprendere il grande pericolo del suo tempo da parte di Benedetto Croce, il liberalismo italiano scontò uno dei suoi limiti più gravi proprio nel giudizio sul fascismo. La condanna del regime avvenne infat-
troppo
ti con un grave e colpevole ritardo. Il turning point ci fu dopo il discorso di Mussolini alla Camera del gennaio 1925. Solo allora il liberalismo italiano colse il carattere totalitario. Non che numerosi e prestigiosi suoi esponenti non avessero già fatto la diagnosi. È il caso di Giovanni Amendola che già si era espresso in questa direzione nel 1923, di Francesco Saverio Nitti che non partecipò al voto del primo governo Mussolini. O di Piero Gobetti, allievo di Einaudi, che iniziò a essere perseguitato dal regime sin dal ’23.Tanto per fare alcuni dei nomi più illustri di liberali che per primi compresero la natura del fascismo. Nel 1925 con le prese di posizione di Casati e Sarrocchi che uscirono dal governo, di Giolitti, che passò a una netta opposizione e di Salandra e Croce, tutto il liberalismo italiano scelse infine la via dell’antifascismo. Benedetto Croce si fece promotore di quel celebre manifesto che costituì il primo nucleo dell’antifascismo intellettuale legale. Ne facevano parte Giovanni Amendola, Luigi Albertini, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini. Nonostante ciò all’interno del liberalismo italiano continuarono a permanere numerose divisioni: sia sul giudizio del comportamento della monarchia sia su gli strumenti di lotta. E anche questo fu un’importante elemento di fragilità.
Quanto al Risorgimento è figlio del liberalismo in tutte le sue forme: da quello di Mazzini a quello di Cavour. Ma ben presto e in modo assai virulento si svilupperà in Italia l’antiparlamentarismo di cui si data la nascita nel 1976: la sconfitta cioè della Destra storica, come scrive Fabio Grassi Orsini. Un vento potente che causerà all’Italia non pochi drammi. Un vento che purtroppo non è stato battuto dal liberalismo nemmeno oggi, quando ancora e pericolosamente riaffiora. Il Dizionario di cui abbiamo sintetizzato alcune delle voci spazia da argomenti culturali (liberalismo, individualismo), all’analisi di periodi della storia nazionale, dalle dottrine e dal costume politico ai partiti. Si definiscono concetti quali il moderatismo, il neoguelfismo, il mazzinianesimo, il radicalismo, il liberalnazionalismo. E poi: il salandrismo, il nittismo, il giolittismo, il qualunquismo, l’azionismo. Una parte importante è rappresentata dalle categorie economiche: capitalismo, profitto, diritto di proprietà. Il Dizionario ricostruisce la ricchezza e la complessità della cultura liberale del nostro paese, delle sue specificità, nonché fragilità. Ma è anche il tentativo di stabilire rapporti fra queste e le elaborazioni dell’Occidente per aiutare l’integrazione dell’Italia, un paese il cui tasso di liberalismo è oggi molto basso. Tanto da far ritenere la nostra democrazia un’anomalia rispetto alle altre grandi democrazie liberali.
MobyDICK
mostre
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La passione di Wright per i Surimono di Marzia Marandola ettantacinque xilografie colorate giapponesi, dette Surimono, che significa proprio «oggetto dipinto», fioriscono nelle austere teche nere che cadenzano lo spazio prosciugato della piccola e sofisticata galleria milanese Casabella Laboratorio, allestita dallo Studio Tassinari/Vetta, diretta da Carlotta Tonon, appendice espositiva della celebre rivista d’architettura. L’importanza di queste stampe, al di là della loro indiscutibile bellezza grafica e cromatica, è impreziosita dalla loro provenienza collezionistica. Esse infatti provengono dalla strabiliante collezione di Frank Loyd Wright, tanto cospicua (oltre 700 esemplari), quanto sconosciuta fino alla sua quasi accidentale scoperta, risalente a circa vent’anni orsono, decenni dopo la morte del grande architetto (1959). Capolavori riconosciuti dell’architettura,
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Folgorato dall’eleganza grafica di Hiroshige e Hokusai, esortava gli occidentali ad abbandonarsi a quel puro piacere estetico, che coltivò fin dal 1905. Settantacinque xilografie giapponesi dalla prestigiosa collezione del celebre architetto esposte a Milano come la Casa sulla cascata e l’innovativo Museo Guggenheim sulla Fifth avenue a New York, hanno diffuso anche tra i non addetti ai lavori, la fama e l’opera di Wright, che, nato nel 1867, ha una formazione di stampo ottocentesco, arricchita dall’esperienza nello studio di Adler e Sullivan, a Chicago, la città più d’avanguardia degli Usa all’epoca.
Dagli anni Novanta, a capo di uno studio professionale autonomo, Wright diviene famoso per le innovative residenze unifamiliari per la ricca borghesia imprenditoriale che, edificate nei sobborghi di Chicago, sono note come Prairie Houses.Tuttavia se l’opera architettonica del Maestro americano è celeberrima, molto meno noto è un altro aspetto della sua passione intellettuale e collezionista rivolta all’arte giapponese. Fin dal suo primo soggiorno trimestrale (1905) in Giappone, cui ne seguiranno altri sei fino al 1922, l’architetto è folgorato dall’eleganza e dalla grafica asciutta e sintetica delle stampe giapponesi, di cui diventa raffinato conoscitore e vorace collezionista. In particolare colleziona Surimono: l’espressione più distillata e raffinata delle stampe policrome giapponesi, spesso commissionate agli artisti da poeti e dall’élite intellettuale giapponese, in occasione di grandi eventi e come doni per l’inizio del nuovo anno. L’interesse di Wright si focalizza in special modo sull’opera del paesaggista Utagawa Hiroshige (1797-1858), le cui figura-
zioni, lievi e visionarie, accendono i luoghi rappresentati con tinte vivaci e seducenti, in una dimensione onirica quanto poetica, contrassegnata da linee vigorose che si imprimono sulla carta delicata, predisponendo le campiture di colore. Si deve proprio a Wright l’organizzazione nel 1906 a Chicago della prima mostra antologica personale dedicata al grande pittore giapponese. L’architetto americano dà conto della sua passione collezionistica in uno scritto del 1912, Le stampe giapponesi. Una interpretazione, per la prima volta tradotto in italiano nel 2008 e pubblicato in fac-simile in una elegante edizione Electa, corredata dagli illuminanti saggi di Francesco Dal Co e Margo Stipe. Nel volume Wright esorta gli occidentali ad abbandonarsi al puro piacere estetico delle stampe nipponiche, per coglierne a pieno la carica artistica e l’eccezionalità formale. Il Maestro americano intrattenne serrati rapporti con il Giappone, dove costruì, tra gli altri, anche un’opera divenuta leggendaria, l’Imperial Hotel (1923) di Tokio, primo albergo moderno del Giappone, e la villa estiva per il fondatore dell’industria cosmetica Shiseido, andata distrutta dal terremoto. L’arte giapponese lasciò segni profondi anche nelle opere di architettura americane del Maestro, che divenne rapidamente un punto di riferimento e di diffusione del collezionismo americano di stampe giapponesi. La sua capacità di riconoscere e valorizzare tali manufatti gli valse ben presto un ruolo intermedio tra il conoscito-
re e il mercante: colui al quale si faceva riferimento per arricchire una collezione o per valutare l’autenticità e la qualità di un’opera a stampa giapponese.
La sua sontuosa collezione di stampe giapponesi lo soccorrerà nei momenti di difficoltà finanziaria, legati alla sua turbinosa azione professionale: alcuni esemplari vengono dati in garanzia o venduti nei momenti di massima emergenza. Contestualmente Wright si afferma anche come colto mercante e, in alcuni casi, sofisticato procacciatore di xilografie e opera grafiche nipponiche per un pubblico sempre più ampio e selezionato di collezionisti, incoraggiati e contagiati dalla sua passione. Non è certo casuale che non pochi tra i collezionisti fossero in precedenza suoi committenti di architettura. Wright promuove e divulga la cultura giapponese su più fronti e con diverse finalità: da un lato organizza i Japanese Print Party, serate riservate alla ricca borghesia, nelle quali illustra agli ospiti le stampe giapponesi della sua collezione, appositamente allestite alle pareti di eleganti dimore; dall’altro adottata le stampe giapponesi come sfavillanti strumenti didattici delle print evenings, appassionate lezioni rivolte agli allievi e ai collaboratori di Taliesin, la sua mitica residenza-studio del Wisconsin. L’allestimento e la grafica dell’originale esposizione milanese, a cura dello studio Tassinari/Vetta, vincitore del premio Compasso d’oro 2011 per il migliore design italiano, esaltano la preziosità fragile delle stampe, facilitandone il godimento visivo. Alle pareti le immagini dei capolavori del maestro contestualizzano le stampe. Hokusai, Gakutei Shinsai… Le stampe giapponesi di Frank Lloyd Wright Casabella Laboratorio via Marco Polo 13, Milano fino al 20 dicembre 2011
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el 1958 con I soliti ignoti di Mario Monicelli - e gli indimenticabili Cosimo, Peppe, Mario, Tiberio, Capannelle, Dante, Ferribbotte - nasce la commedia all’italiana. Se l’inadeguatezza è la caratteristica dei protagonisti, è anche vero che la costante sproporzione tra mezzo e fine, ambizione e vissuto, progetto e risultato sembra guadagnare lo spazio inedito di un sovrappiù di realtà che coincide paradossalmente con un sovrappiù di comicità. Aggirando la distinzione tradizionale tra comico e drammatico, nel tessuto beffardo del racconto esplode il sottofondo amaro, la crudezza brutale della sconfitta incombente. La ricerca della «pecora», disposta ad andare in prigione al posto del vecchio boss, coincide con il viaggio dentro la marginalità proletaria dei quartieri periferici, negli spazi sterrati tra i casermoni popolari in cui i ragazzini che giocano a pallone sanno tutto della vita e della malavita.
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Nei ritmi incalzanti di una ballata popolare di disincantata modernità, i preparativi del colpo si vengono allargando ben oltre i toni parodici di un genere cinematografico di successo. Nella stessa scombinata, erratica, affanosa irresponsabilità con cui lo scalcinato gruppo di poveracci s’imbarca in un’impresa superiore alle proprie forze, il film scopre, «un’intera, anti-
il paginone
MobyDICK
Non esitò a sacrificare al successo le sue origini sarde, vestendo per sempre i panni del siciliano. Nella storia emblematica di Tiberio Murgia, raccontata in un bel libro da Nicola Fano, si leggono in filigrana pregi e difetti degli italiani, versati al camaleontismo ma in perenne crisi d’identità gnità professionali, dove è quasi un punto d’onore dedicarsi a un mestiere cui non si è portati, sicché infine anche i lestofanti si rassegnano al modesto tran tran degli espedienti quotidiani, consolando di sogni megalomani il gramo bilancio di un’esistenza fallimentare» (Vittorio Spinazzola).Se nel nostro cinema I soliti ignoti chiude con il passato e apre al futuro, è l’inizio di tutto anche per Tiberio Murgia, il sardo ventottenne che dalla trattoria Il Re degli Amici in Via della Croce dove fa il lavapiatti viene catapultato nello studio di Cinecittà in cui supera il provino per il personaggio di Ferribbotte. «Altero, Murgia, altero», gli dice Monicelli prevalendo su Cristaldi che tifa per il candidato sici-
Sciupafemmine, militante comunista, minatore a Marcinelle. Ma fu il mestiere di lavapiatti che gli procurò il ruolo fatale nei “Soliti ignoti” ca, attualissima zona della realtà nazionale. La vicenda eroicomica allarga il suo ambito, arricchisce le sue risonanze fino ad assumere come vero protagonista il paese: la nostra Italia, l’Italia del tirare a campare, il regno dell’approssimativo e del non scientifico, la patria delle false di-
anno IV - numero 43 - pagina IV
liano. Il gelosissimo fratello di Claudia Cardinale è infatti siciliano che di più non si può e le sue battute - da «Cammèla, componiti», a «Donna piccante pigghiala per amante, donna cuciniera pigghiala per mugliera», da «Peccato di pantalone, pronta assoluzione» a «Sono sempre i più me-
glio che se ne vanno» - le deve dire con forte e riconoscibile accento insulare. Quisquiglie per il doppiaggio che con la bacchetta magica risolve i problemi di un cinema senza presa diretta come quello italiano di allora.Tiberio diventa siciliano grazie a Renato Cominetti, Capannelle parla con l’accento emiliano di Nico Pepe, il povero-ma-bello Renato Salvatori ha la voce di Andrea Costa, Claudia Cardinale quella di Lucia Guzzardi, Rossana Rory di Monica Vitti.
Sempre doppiato dalle straordinarie voci in prestito della nostra anomalia nazionale (su cui a suo tempo ghignava Jean-Luc Godard prima di scoprire sul set di Il disprezzo di quale altre ignominie fossero capaci i produttori italiani), Murgia avvia l’inattesa carriera d’attore apparendo in più di un centinaio di film, uno dietro l’altro senza tregua dagli anni Sessanta ai Novanta e oltre. Naturalmente continua a fare il siciliano, si chiama Turiddu, Rosario, Calogero, Carmelo, Rocco, Salvatore, Africa, oscilla tra il caratterista e la comparsa, animando una sorta di personale serie comica in cui è volta volta usciere, brigadiere, appuntato, sergente, barone, poliziotto, marinaio, carabiniere, zingaro, imbianchino, sacrestano, autista, pastore, maresciallo, commendatore. Può essere anziano in paese, ma anche anziano in balera.
FERRIBBO
il piccolo F di Orio Caldiron
O addirittura capo delle brigate pecorine. Ma sempre e comunque siciliano. Siciliano stanziale o siciliano all’estero, dentro e fuori il continente. Il sardo-siculo del cinema italiano - nato a Oristano nel 1929 e morto nella casa di riposo di Tolfa nel 2010 - è al centro del bel libro di Nicola Fano Ferribbotte e Mefistofale. Storia esemplare di Tiberio Murgia (Edizioni Exòrma, 140 pagine, 14,00 euro). Se non trascura le varie tappe della vita del singolare personaggio - militante comunista nella Oristano del dopoguerra, giovane quadro nella scuola delle Fratocchie a Roma, minatore a Marcinelle, lavapiatti negli anni della Hol-
OTTE
Faust
lywood sul Tevere, sciupafemmine impenitente con moglie e figli a carico -, non è assolutamente una biografia e anzi prende le distanze dalle stesse memorie affabulate e talvolta inattendibili apparse qualche anno fa. Scrittore di teatro, grande specialista del varietà, autore di spettacoli teatrali e di programmi televisivi, l’autore ha messo in scena un processo appassionato e coinvolgente, uno di quei processi morali in cui la dialettica tagliente non esclude il divertimento intellettuale, la digressione arguta, l’allusione provocatoria. Un processo che verrebbe molto bene sulle tavole del palcoscenico, ma funziona magnifica-
mente anche sulla pagina in cui si avverte a tratti l’odore di zolfo. Capo d’accusa principale è il tradimento di se stesso e della propria irrinunciabile sarditudine che sigla il patto con il diavolo attraverso cui il piccolissimo Faust in miniatura ottiene onori, gloria e soldi, diventando la maschera muta in una rappresentazione avvilente. Nell’abile gioco tra figura e sfondo, testo e contesto, l’autore sposta continuamente l’attenzione dal privato alla società, dalle vicissitudini del personaggio agli inquietanti segnali di un paese in crisi d’identità. Il fascino sottile della requisitoria si affida alla passerella delle numerose testimonianze, altrettante chiamate di correità, che in modo imprevedibile sembrano interrompere lo svolgimento ma solo per rilanciarlo a livelli più alti. Monicelli celebra i tempi del muto prima dell’avvento del sonoro che secondo lui è la definitiva corruzione del cinema. Furio Scarpelli rievoca la fame di pane e di lavoro del dopoguerra. Alberto Crespi dell’Unità ricorda un anonimo western con il cowboy siculo che a pistole spianate esclama: «Fetusi!». Sergio Naitza dell’Unione Sarda ripercorre vita e filmografia, fatti e misfatti dell’illustre conterraneo. Marco Leandrìs come il mago imbranato di un suo numero riapre l’archivio vivente dell’avanspettacolo per tirare fuori dal cappello i penosi tentativi teatrali del Solito Ignoto. Nicola Arigliano racconta l’improvvisata jazz session di strada in cui Murgia non sapeva che dire. Rubens Tedeschi detta a caldo la tragedia di Marcinelle, quella vera. Alberto Boschi, appassionato di location, suggerisce la mappa degli andirivieni della banda tra l’Albergo Rosso alla Garbatella, Via delle Tre Cannelle, Piazza Portese, il Mandrione, il Piazzale Tiburtino, il Cinema Rialto.
Se l’autore mi avesse chiesto di essere della partita, avrei scelto il ruolo dell’avvocato difensore. Sarà vocazione alle cause perse, ma l’indifendibile personaggio mi chiama in causa come testimone critico del cinema italiano di ieri, professionalmente interessato, lo ammetto, più alle ombre fantasmatiche della riproducibilità tecnica che all’anagrafe in carne e ossa di ciascuno. Se è giusto rivendicare l’importanza della memoria in una società della smemoratezza, forse lo è anche chiedersi che cos’è il cinema di Ferribbotte. Sembra uno specchio deformante che ci obbliga a vedere sfilare dal buco della serratura le vicende del cinema italiano. Di quello peggiore? Se si esclude
qualche rara impennata autoriale - un paio di Monicelli, un De Sica, un Loy e poco altro siamo al grado zero della scrittura cinematografica e qualche volta sottozero. Il cinema capovolto della parodia, del remake, dell’imitazione, dello sciacallaggio. Qualche volta pretenzioso, qualche volta medio basso o soltanto medio, ma di solito inesorabilmente basso se non bassissimo. Quante storie inesistenti, spesso girate male, tirate via con l’improntitudine della serialità coatta. Qualche volta sgradevole, e magari vivacemente sgradevole, come il cinema popolare sa essere con il suo tanfo di piatti sporchi e di letti sfatti.
Non c’è dubbio. La maschera muta ha le sue responsabilità, è iperrecidivo, è il non-attore per eccellenza, invalutabile per definizione, sempre in qualche modo fuori posto. Ma siamo sicuri che Tiberio Murgia in arte Ferribbotte, attore non-attore senza arte né parte, sia colpevole di qualcosa di cui il cinema italiano è innocente? Sarebbe fin troppo facile giocare con i titoli dei musicarelli, dei balneari, dei decamerontici, dei sexy tra bikini d’argento e ragazze sotto il lenzuolo, follie d’estate e magnifici cornuti, ma non basterebbe lo spazio per mettere insieme l’elenco degli attori che hanno frequentato gli stessi set del Solito Ignoto, chi guardandolo con commiserazione, chi facendo finta di non vederlo, chi simpatizzando goliardicamente con lui. Sarebbe un elenco impressionante in cui c’è quasi tutto il cinema italiano, quello peggiore e quello migliore, senza distinzioni di livello, senza gerarchie di merito, dai protagonisti della commedia all’esercito dei caratteristi, dai grandi nomi alla folla degli anonimi che appaiono solo per un momento. Siamo proprio sicuri che il viaggio nel sottosuolo del cinema nazionale non rimandi anche ai piani alti, che la discesa agli inferi non ci riguardi da vicino come avviene nella commedia grottesca in cui i mostri siamo noi? Sarà un caso, ma nelle bellissime pagine del finale, approfittando del viaggio in aereo con cui Murgia torna da Oristano dove gli è stato organizzato un trionfale omaggio, anche l’autore sembra riconciliarsi con il protagonista quando scorge dall’alto un pezzo di terra lungo l’Aurelia che assomiglia all’aspro paesaggio della sua Sardegna e decide che lì finirà i suoi giorni, mentre si avvertono i cupi rintocchi dell’ombra. Certo, Tiberio non era un eroe e forse oggi bisognerebbe essere eroi per vivere da galantuomini appena passabili. O no?
Il Bibliofilo
10 dicembre 2011 • pagina 13
Mussolini?
Ha sempre ragione di Pasquale Di Palmo on tutti sanno che uno degli slogan più fortunati del fascismo, «Mussolini ha sempre ragione», fu coniato da Leo Longanesi, singolare figura di scrittore, illustratore ed editore, celebre per le sue battute al fulmicotone da cui non era immune neppure lui stesso che si definiva, a causa della sua bassa statura, «un carciofino sott’odio». Lo slogan apparve nel n. 3 del 16 febbraio 1926 della rivista L’Italiano, ideata e diretta dallo stesso Longanesi, e venne infine accolto, in forma leggermente ampliata («Benito Mussolini ha sempre ragione») nel suo libro d’esordio, Vade-mecum del perfetto fascista seguito da Dieci assiomi per il milite ovvero Avvisi ideali. Il volumetto, che presentava in copertina un disegno dello stesso Longanesi riproducente un coltellaccio da ardito contrapposto a un bicchiere di vino, fu pubblicato dall’editore fiorentino Attilio Vallecchi nel 1926 ed è l’unico titolo, nonostante l’indubbia ascendenza di stile longanesiano, in cui l’autore di Bagnacavallo non sia anche editore di sé stesso. Per molti anni si dubitò dell’esistenza del volume, come ricorda Giampiero Mughini: «Nel catalogo Vallecchi del 1935 era indicato a pagina 182, nel catalogo del 1952, alla lista“autori”, non c’era proprio. Era divenuto un libro fantasma. E siccome in certe bibliografie quel libro compariva e in altre no, c’è stato un periodo in cui persino gli studiosi e gli appassionati di Longanesi dubitavano che quel libro esistesse veramente [...]. È un libro spassosissimo, un Longanesi a cento carati [...]. È come se Longanesi sfottesse sé stesso nella sua veste di aedo del mussolinismo. Le spara talmente grosse che lui stesso ha l’aria di non crederci fino in fondo, o comunque di essere pronto a farci una risata sopra». Il libro divenne difficile da reperire in seguito all’iniziativa di Vallecchi che, dopo la fine del regime, distrusse la tiratura quasi integrale (soltanto pochi esemplari erano andati venduti), a causa dello smaccato panegirico del fascismo operato in quella sede da Longanesi. D’altro canto le poche copie circo-
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lanti sul versante antiquario del Vade-mecum del perfetto fascista contengono quasi sempre una dedica dell’autore, spesso accompagnata da una caricatura nell’ultima pagina bianca, segno che i rari esemplari a tutt’oggi superstiti erano stati originariamente inviati in omaggio da Longanesi a una ristretta cerchia di amici e addetti ai lavori. Il volumetto, dedicato a un lungo elenco di «perfetti fascisti» tra cui Italo Balbo, Gherardo Casini, Mino Maccari, Curzio Suckert (vero nome di Curzio Malaparte), contiene una serie di precetti sul comportamento da seguire, una sorta di decalogo del perfetto fascista dallo stile lapidario e aforistico, venati dall’immancabile miscela di veleno e ironia: «Quando un filosofo ti dice: “Io ho scoperto la verità”, rispondi-
Lo slogan di Leo Longanesi e il suo spassosissimo libro d’esordio, “Vade-mecum del perfetto fascista” gli: “Io non ne ho colpa!”». Nella loro avvincente biografia, Montanelli e Staglieno ricordano che quella di Longanesi «era una battaglia rivolta soprattutto al “costume”, nella convinzione che si doveva prima cambiare quello per modificare davvero, nel profondo, l’Italia». Il rapporto di Longanesi con il fascismo fu d’altronde sempre controverso, cadenzato su una sorta di reciproca attrazione e repulsione che lo spinse infine, dopo l’8 settembre, a passare sulla sponda opposta, come ricorda Felice Chilanti: «Lo sconosciuto che [...] seguitava, metodico, a porgere bombe a cento mani protese, era [...] lo stesso che aveva coniato il motto trascritto sui muri di tutti i quartieri e villaggi italiani: “Mussolini ha sempre ragione”».
Saggi
MobyDICK
pagina 14 • 10 dicembre 2011
Hermann Broch HOFMANNSTHAL E IL SUO TEMPO Adelphi, 330 pagine, 18,00 euro
ino a qualche tempo fa sarebbe stato difficile crederci, ma da qualche anno a questa parte c’è in Italia un fiorire e rifiorire di pubblicazioni di opere di Hermann Broch.Tra queste non può sfuggire la nuova edizione del saggio dedicato dall’austriaco al poeta Hugo von Hofmannsthal (Adelphi, trad. di Ada Vigliani). Scritto negli anni 1947-‘48, questo studio possiede forti tratti autobiografici e rappresenta un compendio di tutti i temi affrontati da Broch fin dai primi saggi: lo stile, il Kitsch, il mito, il romanzo, la critica alle correnti culturali, l’opera lirica, ecc. Fin dalla giovane età Broch, da austriaco contemporaneo di grandi personalità vissute a cavallo di secolo, ha avuto la piena consapevolezza di vivere la fase finale della cultura occidentale. Stretta nella morsa costituita dalla critica ai valori tradizionali (Nietzsche), dalla relatività delle convenzioni smascherate (Freud), dalla messa in discussione delle percezioni dell’io (Mach) e dalla profezia sul crollo della società borghese e di classe (Marx) essa stava subendo a cavallo tra XIX e XX secolo una disgregazione che ai più sembrava essere irreversibile. «Che questa civiltà corra incontro alla propria fine - scriveva lo stesso Broch nel 1909 - è provato dal suo senile perdersi in ciance. Il lezzo che emana nel suo morire si chiama cultura. La nostra cultura consiste nella capacità di parlare d’arte… L’arte è diventata un delicato purè, e quando dicono arte intendono scucchiaiarsi ben bene quel purè». Nei suoi scritti d’inizio secolo non mancarono certo i toni apocalittici (vedi l’immagine della metropoli-manicomio per rappresentare la fase terminale della civiltà), e quei toni ritornano nel saggio su Hofmannsthal e vengono, se possibile, accentuati: «L’atmosfera apocalittica incombeva su tutto il mondo, con più frenesia in Germania, mentre quasi impalpabile era nell’epicentro del tramonto, ovvero in Austria, giacché a regnare nell’occhio del ciclone è sempre il vuoto, e il silenzio che l’accompagna».Tuttavia, altrettanto importante quanto l’analisi dei tempi ultimi era il lavoro per un loro superamento. Per Broch la morte è «colei che ci ridesta», dunque rappresenta un motivo d’incitamento alla creazione di una nuova cultura. Come ben sottolineato da Michael Lützeler nella Postfazione ai saggi
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libri
Uscita
contro la morte. All’assoluto della morte l’uomo si oppone con l’assoluto della cultura». Il perché Broch abbia preso l’opera di Hofmannsthal come punto di riferimento per la sua critica alla cultura decadente è presto detto: il poeta e drammaturgo era il «simbolo di un’Austria in via d’estinzione», incapace come fu di sfuggire alle correnti dominanti del suo tempo. Altri ci provarono, e una particolare stima Broch la coltivò in questo senso verso artisti come Van Gogh, Baudelaire, Cézanne, Schiele, ma soprattutto verso Karl Kraus. Non a caso nel grande commediografo, giornalista e autore satirico (memorabili i suoi attacchi dalla rivista Die Fackel contro l’ipocrisia morale e intellettuale, la psicoanalisi, la corruzione dell’impero degli Asburgo e contro il nazionalismo del movimento pangermanico) vide l’antipode di Hofmannsthal. La sua aggressività, la forte tensione morale della sua scrittura, la sua «arte etica» hanno fatto sì che Broch paragonasse la sua impresa addirittura a quella dei «profeti dell’Antico Testamento». L’ex imprenditore tessile, mosso da speranza e teso ancora una volta a cercare un superamento della decadenza, era convinto che Kraus, con la sua volontà di far piazza pulita di idoli e dogmi, avesse contribuito ad «aprire la via verso un nuovo atteggiamento religioso dell’umanità». L’anziano Broch esule negli Usa ripensava dunque ai suoi anni di gioventù con la certezza più che mai viva che «lo sviluppo dell’arte serve sempre anche il progresso etico e contribuisce alla speranza mistica che tale progresso esiste realmente». Viene in mente il «lamento funebre», in realtà tutt’altro che disperato, affidato a un coro di donne, con cui si conclude un suo poco noto testo teatrale, L’espiazione (1934): «Noi, voci del futuro, portiamo le stelle,/ invochiamo la lontananza più infinita,/ invochiamo l’unità che ci è stata donata…/ oh, vi si riveli del divino l’amorevole via…».
di sicurezza dall’Apocalisse
Reportage
La cultura è la ribellione della vita contro la morte. Negli scritti di Broch su Hofmannsthal, la ricerca di un progresso etico contro la decadenza di Vito Punzi dedicati a Hofmannsthal, «la cultura in Broch non attiene, a differenza che in Freud, alla sublimazione delle pulsioni, ma a qualcosa di più fondamentale, di più intimamente legato all’esistenza: è la ribellione della vita
San Pietroburgo degli scheletri e delle meraviglie ue lauree, in lingue e letterature straniere a Bari e in sociologia a Urbino, Gaetano Fierro è stato per quindici anni sindaco di Potenza.Viene dunque da una terra antica, dove Pitagora fondò una delle sue Scuole e dove nacque Orazio. San Pietroburgo è invece la metropoli più recente del Continente: appena nel 2003 ha celebrato i tre secoli da quando lo zar Pietro il Grande annunciò di aver finalmente «aperto una finestra sull’Europa», in una zona particolarmente «inquietante». «Era maggio del 1703: una immensa e fetida palude alla foce della Neva, di fronte al golfo di Finlandia». Proprio in occasione di quell’anniversario Fierro venne in visita, in un viaggioconfronto che ha dato l’occasione per questo reportage: Sankt Petersburg. Dalla grandeur di Pietro I allo zarismo dei tempi moderni. Un resoconto non lungo, ma particolarmente intenso. «In un clima ostile, gettando ponti, piantando fondamenta nel fango, il giovane zar Pietro I arrivò lì, coi suoi cavalli e visse, spartanamente, per sei anni in una dacia, fatta con tronchi di abete stagionato». «È risaputo che per costruire San Pietroburgo non abbia lesinato alcunché: un enorme quantitativo di danaro sottratto alle casse dello
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di Maurizio Stefanini Stato come pure un lungo dispendio di energie fisiche: migliaia di donne costrette a lavorare e soccombere per le condizioni climatiche proibitive. Neanche gli adolescenti venivano salvati. Il suo sogno contava di più di migliaia di vite perse». Né la particolare concentrazione di dolore umano di questa città, che in soli tre secoli ha cambiato nome quattro volte prima di ritornare al punto di partenza, si esaurì al titanico sogno del suo fondatore. Il Giardino d’Estate in cui passeggiò il padre della letteratura russa Puskin prima di essere ucciso in un duello; la piazza intitolata a quei cospiratori Dekabristi che tentarono invano di dare la libertà alla Russia e quando andarono alla forca e la corda si spezzò sbottarono che nella Russia zarista non sapevano «neppure impiccare»; ilVecchio Mulino lager dell’età staliniana; il Palazzo Jussupov dove fu ucciso Rasputin; la Via Gorochovaja con le celle foderate in sughero dove agli oppositori venivano inflitte torture inaudite già ai tempi di Lenin; i luoghi dei 900 giorni di quell’assedio della seconda guerra mondiale che ammazzò quasi un milione di abitanti tal-
Da Pietro I a Putin, i tre secoli della città raccontati da Gaetano Fierro
volta ridotti dalla fame ad atti di cannibalismo: sono fin troppe le tappe del turismo in una metropoli che lo storico Robert K. Massie ha definito senz’altro «città degli scheletri». Eppure, Fierro registra anche come «mai una città così giovane è riuscita, in così poco tempo, a trasformarsi in un luogo pieno di fascino». Già a sei anni dall’inizio dei lavori lo zar Pietro poteva entrare «trionfalmente nella nuova capitale, dedicata a San Pietro», per insediarsi «in quel meraviglioso Palazzo d’inverno, cuore della città, attorniato da palazzi, teatri, musei, chiese, circondati da mille canali e incantevoli giardini francesi. Il barocco e il neo-classicismo, gli stili maggiormente seguiti». Malgrado tante memorie tristi, il viaggiatore vede i pietroburghesi festeggiare i tre secoli della città mascherati con i costumi del tempo della fondazione. In qualche modo, le molte contraddizioni del pietroburghese Putin confermano ulteriormente la difficoltà e la grandezza di una città che continua una difficile mediazione tra la modernità occidentalizzante e le radici di quel passato profondo che Karl Marx definiva tranquillamente come «tartaro». Gaetano Fierro, Sankt Petersburg. Dalla grandeur di Pietro I allo zarismo dei tempi moderni, Editrice Ermes, 81 pagine, 10,00 euro
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Opera
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Don Giovanni
secondo Barenboim
di Jacopo Pellegrini e, come c’insegna la saggezza popolare, il meglio è nemico del bene, con questo Don Giovanni inaugurale il Teatro alla Scala ha corso seri rischi, non tutti attentamente calcolati. Al podio, Daniel Barenboim, neo direttore musicale del teatro milanese e, fin dai primordi della sua carriera, interprete molto personale di Mozart. Oltretutto, Don Giovanni è la prima opera ch’egli abbia mai eseguito dal vivo (al Festival di Edimburgo) e in disco (Emi, 1973: chi fosse curioso di conoscerlo può rivolgersi al numero attualmente in edicola della rivista Classic voice opera). Regista Robert Carsen, al suo secondo spettacolo destinato all’Italia, dopo il Fidelio di Beethoven al Maggio musicale fiorentino; si trattò, in quel caso, d’un esito interlocutorio, compensato a iosa dagli altri suoi allestimenti importati da fuori e non di rado geniali (Dialoghi delle Carmelitane di Poulenc, Sogno d’una notte di mezz’estate di Britten, Rusalka di Dvorák, Katá Kabanová di Janácek ecc.). Infine, una compagnia se non tutta in buona parte composta di stelle, e con un’altissima percentuale di stranieri. Scelta curiosa per un teatro che ha sede a Milano e per un direttore (non «conduttore», come ama scrivere un giornalista dell’Espresso, evidentemente ignaro d’italiano, d’inglese - conductor = direttore d’orchestra - e soprattutto di musica, e forse proprio per questo delegato dalla sua testata a occuparsene) che asserisce di aver appreso l’italiano sui libretti di Da Ponte per Mozart, Don Giovanni dunque incluso. Fatto sta che se l’Elvira inizialmente prevista, Elina Garança, non avesse rinunciato per sopraggiunta maternità, nel primo cast l’unico indigeno sarebbe stato Giuseppe Filianoti (Don Ottavio), per inciso l’elemento (più) debole della locandina. Per fortuna, il pubblico meneghino ha trovato in Barbara Frittoli una sostituta più idonea della titolare. Esauriti i
spettacoli
© Brescia/Amisano - Teatro alla Scala
S
madrelingua, restano i nomi celebri e più o meno valenti: Peter Mattei (Don Giovanni), Anna Netrebko (Donna Anna, molto brava nelle sue due arie), Bryn Terfel (Leporello di imponente presenza scenica), Anna Prohaska (Zerlina). Ma che in tutto lo Stivale non sia dato trovare un Masetto e un Commendatore tali da uguagliare Stefan Kocán e Kwanchoul Youn, chi vorrà sostenerlo? L’impostazione data da Carsen al Don Giovanni (scene Michael Levine, costumi non memorabili Brigitte Reiffenstuel) ha fatto pensare a una celebrazione della Scala: il protagonista, sulle note dell’ouverture, attraversa la platea e strappa con le mani un falso sipario (che però sembra vero), facendolo precipitare a terra; nella scena del cimitero il Commendatore dialoga col suo assassino e con Leporello dal Palco reale; all’inizio dell’Atto I un grande specchio alla Svoboda (il fu scenografo boemo) riman-
da l’immagine della sala, abbondano gli elementi scenici che alludono al teatro (particolari architettonici e decorativi, arredi). Si tratta, in realtà, d’un omaggio al burlador sivigliano, al «vortice contagioso» della sua «energia, di cui tutti hanno bisogno e che crea dipendenza». Don Giovanni come incarnazione suprema dello hypocrites, dell’attore-mattatore-regista (vedi gli omaggi a Visconti e a Strehler), che, nel mondo fittizio e fantasmatico (le luci radenti dello stesso Carsen e di Peter van Praett) del teatro, tira le fila della vicenda, e infine le taglia: nel finale tutti i personaggi sprofondano - all’inferno? -, mentre lui, da solo e in abiti civili, fuma
Jazz
una sigaretta in proscenio: la commedia è finita! Quest’apoteosi della «teatralità» si pone in contrappunto libero rispetto alla lettura di Barenboim. Il quale, dopo i tempi serrati del ’73, dopo quelli spaziati e l’impasto denso degli anni Novanta (Salisburgo, Berlino, disco Erato), approda adesso a un fraseggio strumentale estremamente minuzioso, col corollario di dinamiche attutite (di rado si supera il mezzoforte), stacchi in genere lenti ma internamente variati, sonorità estatiche (supremi gl’intrecci dei legni) e di un pathos grandeggiante. Una proposta ancora una volta personalissima, estrema, talora discutibile se si vuole, ma ben meritevole di essere ponderata a lungo e in profondità. E non liquidata a suon di fischi.
Quelle origini (inedite) raccontate da Alyn Shipton l jazz è stato di gran lunga la forma musicale più significativa emersa nel corso del XX secolo. Nei primi anni del Novecento si è diffuso negli Stati Uniti e velocemente, grazie soprattutto al disco, alla radio e alle prime tournées di musicisti di colore nel resto del mondo, toccando con una miscela di intonazioni inusuali, timbri strumentali vocalizzanti e ruvida energia, i cuori di persone appartenenti all’intero spettro sociale e razziale. Il suo messaggio era universale e rappresentava qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, di audace, capace di sconvolgere l’ordine precostituito tanto nella musica colta quanto in quella popolare. Fin dai primi anni Venti molti furono coloro che scrissero sulle origini di questa musica, il cui nome apparve per la prima volta sul Bullettin, un quotidiano di San Francisco nel marzo 1913, per descrivere una musica piena di vigore e vivacità.Tuttavia, malgrado le origini relativamente recenti, nello stesso secolo che ha dato al mondo al-
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di Adriano Mazzoletti cune delle invenzioni più stupefacenti, «l’arte» di trasmettere il suono attraverso l’etere o «imbrigliarlo», «conservarlo» e riascoltarlo attraverso una piccola scatola, la documentazione della storia del jazz è stata un processo discontinuo. Molte domande sono rimaste a lungo senza risposte. Per molti decenni coloro che hanno tentato di «raccontare» come sia nato il jazz, non hanno mai interpellato chi effettivamente aveva creato quella musica e su cosa fosse in realtà successo. Quando i primi studiosi iniziarono a pubblicare le loro opere, molti fra i primi musicisti erano ancora in attività. Ciononostante, sebbene ci sia stata la possibilità di interrogarli, le ori-
gini del jazz sono rimaste e sono ancor oggi stranamente oscure. Nessuna storia del jazz fino a oggi, dalla prima So This is Jazz di Henry Osgood, Boston 1926, alle altre, Aux frontières du Jazz di Robert Goffin del 1932, Le Jazz Hot di Panassié del 1934 alle ultime, una delle quali ancora in libreria, Storia del Jazz di Arrigo Polillo, non si sono mai soffermate, anzi hanno incomprensibil-
mente ignorato un periodo di grande importanza per comprendere quali sono stati gli inizi del jazz. Quel periodo che precede quello che le storie del jazz hanno ampiamente analizzato - i «pionieri» di New Orleans, dal misterioso Buddy Bolden a King Oliver alla Original Dixieland Jazz Band -, caratterizzato da musicisti i cui nomi misconosciuti, ma di grande significato e importanza, sono quelli di Will Marion Cook, J. Rosamund Johnson, Joe Jordan e altri la cui opera viene ampiamente descritta e, posta per la prima volta in evidenza, nella recente Nuova storia del jazz scritta dallo storico inglese Alyn Shipton. Un tomo di oltre 1100 pagine pubblicato da Einaudi. Opera di grande importanza che copre l’intero arco del jazz, dai precursori al jazz post-moderno. La più completa e rigorosa storia del jazz fra quelle fino a oggi pubblicate. Alyn Shipton, Nuova storia del jazz, Einaudi, 1100 pagine, 50,00 euro
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cinema
di Anselma Dell’Olio on c’è dubbio che siamo nella stagione della nostalgia al cinema. Da Midnight in Paris di Woody Allen, a Hugo di Martin Scorsese (esce a febbraio), lo sguardo d’autore è rivolto al passato. Nella speranza che non respinga nessuno, diciamo che The Artist è uno sfavillante omaggio high concept al cinema muto e classico, e così gustoso per spettatori d’ogni sorta che rasenta l’incredibile. È raro che un film regali cento minuti ininterrotti di puro godimento, facendo vibrare la gamma delle emozioni, come Artur Rubenstein i tasti del pianoforte. Il film di Michel Hazanavicious non solo è muto; è anche in bianco e nero, e per sopramercato francese, ma ambientato nella mecca del cinema e con didascalie inglesi. Roba da far fuggire il pubblico delle multisale; sarebbe un errore gravissimo. Non è un esercizio d’essai duro e puro, pedissequo nel costringersi dentro convenzioni e possibilità tecniche di un’epoca lontana. È fedele allo spirito di quel cinema degli esordi, non alla lettera.A parte la colonna sonora, le sole deroghe al muto sono alcune parole pronunciate verso la fine, e qualche effetto sonoro durante un sogno. La musica segue l’ottovolante del racconto, sia originale (di Ludovic Bource) sia con canzoni d’epoca e un tema di Bernard Herrman da un film di Hitchcock. Non vi è nulla di moderno come un tema musicale proprio. Conserva il formato degli schermi del tempo, ma s’ispira anche a classici parlati; le inquadrature ispirate ad altri autori, da Fritz Lang a Orson Welles, sono straordinariamente efficaci nel veicolare i sentimenti in questione, non vanitose citazioni dotte per épater topi da cineforum. Il film è entrato in concorso all’ultimo Festival di Cannes. La proiezione stampa era semideserta; il film di un regista «commerciale» non sembrava imperdibile.
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È una rarità assoluta la dichiarazione d’amore dell’autore per il disarmante candore del cinema americano anni Venti e oltre. Questo film è il perfetto antidoto al superciglioso sdegno francese per «l’ingenua e rozza America», giudizio spiccio di tanta intellettualità europea. Saranno pure naive gli yankees, ma è ingenuità carica dello spirito puro e ardente dell’infanzia. Hazanavicius scrive con la macchina da presa un billet doux all’esprit americaine composto con tutta la finezza gallica. Come dire: «Noi saremo più colti, più raffinati, ma il loro slancio vitale esalta il mondo». The Artist racconta la parabola di George Valentin, divo del muto la cui carriera s’infrange sugli scogli del sonoro alla fine degli an-
ni Venti. Già nel nome echeggia l’eroe del muto d’origine pugliese, con capelli di vernice e sguardo assassino. Valentin è Jean Dujardin,
Lettera d’amore senza parole
il busillis del film.Valentin rifiuta ancora di «parlare» quando il capo degli studi (John Goodman, ideale) gli fa vedere dei provini parlati, dicendo «È il futuro».Valentin rifiuta d’adeguarsi e se ne va sbattendo la porta, deciso a fare da solo un film fieramente muto. Intanto ha conosciuto e lanciato un’aspirante ballerinastarlette, Peppy Miller (Bérénice Bejo, francese d’origine argentina e moglie del regista). L’allegra vitalità demotica della ragazza lo incanta (fischia alla pecorara e strizza l’occhio); anche lei è star, e lovestruck quasi all’istante. Uno dei tanti siparietti perfetti è la scena in cui Peppy s’intrufola nel camerino di lui, e amoreggia con il suo frac appeso a un manichino. Fa il verso ai comici di varietà, metà uomo e metà donna avvinghiati, oltre a citare un altro film d’epoca. Qualche critico opina che il film è solo un trucco, uno stunt geniale e vuoto. Non è vero. Si segue la trasformazione di una star in stella cadente, non solo per il rifiuto di «parlare» (solo alla fine scopriamo perché, e fate attenzione, è un attimo).Valentin, pur amabile e generoso, pecca di orgoglio, di cocciutaggine e di hybris. La moglie (Penelope Ann Miller) che legge le riviste di cinema ed è molto aggiornata, esasperata dal suo «silenzio» lo caccia di casa, la prima di una catena di sconfitte. L’attore investe gran parte del suo patrimonio nel film destinato a fallire, già vecchio prima di uscire. La crisi economica devastante del ‘29 colpisce allo stesso momento; lui è rovinato.
Il fedele autista (il formidabile James Cromwell) e il suo Jack Russell sono i soli a restargli accanto (vale il viaggio anche solo la magnifica prestazione di Uggy, cane-attore che merita una Palma tutta sua).Tocca il fondo, la disperazione dell’anima, si rifugia nell’alcol, il suicidio lo tenta, e infine soffre l’umiliazione
Il film muto e in bianco e nero di Michel Hazanavicious, incentrato sulla caduta di un attore la cui carriera si infrange sugli scogli del sonoro, regala cento minuti di ininterrotto godimento strameritata Palma per miglior attore a Cannes; proprio come nel film, è nata una stella. La fisicità dell’attore ricorda Douglas Fairbanks e Errol Flynn, ma con un superbo talento mimetico. Da beffardo allo sdegno al calor bianco, da seducente a virilmente preoccupato, da mondano a malfattore, la sua espressione cambia in un batter d’occhio. Noto in patria come comico e star dei film di spionaggio parodistici OSS 117, sempre diretti da Hazanavicius, all’estero era sconosciuto.Valentin è l’idolo della folla, adorato per la moltitudine di rocambolesche avventure e travestimenti in film che sbancano il botteghino. Nella prima scena è una spia torturata con elettrodi alle tempie. «Non parlerò!», urla in silenzio (con didascalia), lanciando
d’essere soccorso dalla sua ex pupilla, nuova stella del sonoro in continua ascesa. Diversamente dagli attori di tutti i tempi però, da trionfante Valentin non cede alla forte attrazione per Peppy. È leale con la moglie; quando la offende per sbaglio cerca di farsi perdonare. Peppy rappresenta la più romantica delle figure: la giovane che non dimentica, e soccorre per amore e gratitudine il benefattore acciaccato. Il film di Michel Hazanavicious racconta l’evoluzione di un’anima, tra errore, pentimento e trascendenza, con tocco leggero. Fa capolino quel Dio nascosto di cui laici e atei non s’accorgono. L’onda gioiosa che trasporta lo spettatore non è attribuibile solo all’intrattenimento comico e passionale, raffinato e demotico, pur regalato a piene mani. Si vola perché è l’arte del cinema al suo meglio: in superficie gaudente, e con lo spirito che balugina tra gli strass. Da non perdere.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Abolizione delle Province: un passo avanti e uno indietro
INSIEME PER IL TIBET Care amiche e cari amici dei Circoli Liberal, vi ricordo l’importante evento di martedì prossimo alle ore 14 a Roma alla Camera dei Deputati, “Insieme per il Tibet”, organizzato dalla Fondazione/Circoli Liberal, e soprattutto vorrei soffermarmi sul perché di questo nostro straordinario impegno. Dopo l’auto-immolazione di dodici monaci buddisti tibetani, morti per protestare contro la repressione operata da Pechino nel Tibet e nelle province limitrofe, l’Italia vuole dare un segnale al governo cinese. Questa iniziativa vuole infatti risvegliare la coscienza occidentale sullo sfruttamento che la Cina opera nella provincia himalayana, invasa con la forza dall’esercito maoista, e da allora teatro di enormi repressioni sociali e religiose. La manifestazione vede la partecipazione e gli interventi dei maggiori esponenti di tutti gli schieramenti parlamentari e quella di alcune personalità tibetane, sia religiose che istituzionali. Dopo la proiezione di alcuni video e di alcune fotografie, testimonianze vive di questo massacro silenzioso, interverranno infatti gli onorevoli Pier Ferdinando Casini, Ferdinando Adornato, Dario Franceschini e Fabrizio Cicchitto. Parleranno inoltre l’onorevole Penpa Tsering, presidente del Parlamento tibetano in esilio, e il lama geshe Gedun Tharchin, uno dei maggiori studiosi delle pratiche religiose del buddismo tibetano. Infine, una piccola nota tecnica, ricordo che – essendo uno spazio della Camera dei Deputati – è d’obbligo per gli uomini indossare la giacca e la cravatta. Vi aspetto come sempre numerosi e ancora una volta dalla parte del giusto e della tutela della libertà, contro ogni forma di violenza nel mondo. A presto, Vincenzo Inverso C O O R D I N A T O R E NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L
Abolire le Province? “Sì”, “no”, “ni”. La bozza della manovra economica del governo Monti prevedeva, di fatto, l’abolizione delle Province, visto che non poteva farlo con legge ordinaria, essendo previste nella Costituzione. Sostanzialmente si limitavano a 10 i consiglieri provinciali, presidente compreso, con norma statale o regionale, fissandone i tempi, cioè entro il 30 aprile 2012. Il provvedimento approvato invece fa marcia indietro e affida ad una legge dello Stato il compito di fissare la data a partire dalla quale si effettua la “cura dimagrante”delle Province. Insomma la lobby delle Province, o meglio dei partiti, è riuscita nel colpaccio.Vedremo in seguito cosa succederà. Servono le Province? Non ci sembra proprio perché negli ultimi anni hanno diminuito le spese in opere pubbliche di circa il 30 per cento, mentre sono aumentate quelle correnti. Questo significa che le Province sono improduttive e vivono per mantenere il proprio apparato, quello politico con i consiglieri, la giunta e soprattutto la propria burocrazia che complica la vita ai cittadini. Costo complessivo: 16 miliardi di euro.
Primo Mastrantoni, Aduc
A PROPOSITO DELLA MANOVRA SALVA-ITALIA La si potrà criticare, così come tutte le manovre economiche che l’Italia ha avuto in tutti questi anni, ma una manovra come quella attuata dal governo Monti era necessaria. Era necessaria e ci appare anche, tutto sommato, condivisibile ed equa. Ci sono delle ombre e non sono poche, è vero. Almeno due ed evidenti: l’aumento dell’Iva, a decorrere da ottobre 2012 di ben due punti percentuali, il che porterà a comprimere i consumi in un momento nel quale andrebbero incentivati; la seconda è il ritorno dell’Ici sulla prima casa, un po’ un salasso visto che la casa dovrebbe essere un diritto senza dover pagare per questo una tassa allo Stato. Ma tant’è. Ci sono però anche delle luci, anche queste, non poche: finalmente si aumenta l’età pensionabile, raggiungendo una media europea, e ciò per poter garantire un futuro alle giovani generazioni che altrimenti una pensione non potrebbero certo godersela; finalmente si aboliscono le giunte provinciali e, dunque, di fatto si aboliscono le Province quali enti politici, per restituire loro il vero scopo per il quale sono nate: ovvero enti tecnico-amministrativi; si introducono poi incentivi alle aziende che assumeranno
giovani di età inferiore ai 35 anni e donne nel Mezzogiorno ed inoltre non ci saranno nuove tasse sulle imprese; inoltre saranno introdotte nuove tassazioni su automobili, imbarcazioni ed aereomobili di lusso. È vero, si poteva fare di più, come ad esempio privatizzare il carrozzone Rai-Tv; decurtare drasticamente gli stipendi dei politici nazionali e locali; innalzare la no tax area per le categorie meno abbienti. Si poteva fare di più, certo, ma si poteva fare anche di meno.Ovvero così come hanno fatto i governi di destra e sinistra in questi ultimi diciassette anni. Il governo Monti, in soli diciassette giorni ha fatto molto per il Paese ed ora toccherà vedere se le forze politiche lo sosterranno oppure faranno, come al solito, il bello ed il cattivo tempo. Già gli estremisti di Lega Nord ed Italia dei Valori sono sul piede di guerra e ciò ci fa piacere, perché dimostrano una volta di più che le misure attuate da Mario Monti sono misure liberali. Sono misure liberali che, guarda caso, hanno sostenuto – in tutti questi anni – le piccole forze laiche, liberaldemocratiche e liberalsocialiste presenti in Parlamento, o comunque gli esponenti che ad esse facevano riferimento: nell’uno o nell’altro scheramento. Il Terzo Polo sostiene il governo incondizionatamente,
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
La tv fa male! Parola di latitante La polizia di Chicago ha arrestato centodue latitanti con l’offerta di un televisore. I ricercati, tutti per crimini relativamente minori (come multe o assegni familiari non pagati) avevano ricevuto un invito a partecipare ad un test di un nuovo modello di televisore. Il “test” prevedeva per i selezionati un pagamento di settantacinque dollari per il disturbo, e la possibilità di avere in regalo il televisore provato. La lettera di invito è stata spedita all’ultimo indirizzo noto di circa diecimila ricercati. Di questi, più di cento si sono presentati presso la sede indicata, dove hanno trovato una finta festa per il lancio di un nuovo modello di televisore, con festoni, palloncini e finti commessi (poliziotti sotto copertura) che portavano in giro scatoloni vuoti. Dalla sala d’attesa, uno alla volta i “vincitori” venivano portati in una finta sala di prova, anche questa con palloncini e gadget, dove il ricercato si faceva allegramente fotografare. Successivamente venivano accompagnati in un’ulteriore sala per un’intervista: ma qui trovavano i poliziotti veri, che li arrestavano uno per uno, mentre gli altri aspettavano tranquillamente in fila nella sala d’attesa…
gli altri, invece, vedremo. Fatto sta che: o lo faranno, oppure la crisi non si arresterà mai. Occorre pensare alle nuove generazioni e non a fare demagogia, sosteneva De Gasperi. Con Monti ed i suoi ministri tecnici, che non hanno alcuna velleità elettorale, ciò sembra possibile. Hanno il sostegno dell’Europa, degli Stati Uniti d’America, dei media intellettualmente onesti e dei cittadini intellettualmente onesti. Li si lasci, finalmente, lavorare.
Luca Bagatin
L’EVASIONE FISCALE È UN REATO Finalmente arriva un segnale chiaro: l’evasione fiscale diventa un reato. Inoltre, viene rafforzata la tracciabilità del contante ponendo un tetto di mille euro superando il quale sarà necessario pagare con carta di credito o bancomat. A questo punto mi auguro che si trovi una migliore regolamentazione dei pagamenti tramite card, in modo da incentivare le transazioni elettroniche.
Antonio
BENZINA PIÙ CARA... A NAPOLI
APPUNTAMENTI MARTEDÌ 13 DICEMBRE - ROMA - ORE 14 CAMERA DEI DEPUTATI AULA DEI GRUPPI PARLAMENTARI VIA CAMPO MARZIO, 78 La Fondazione liberal organizza l’incontro “Insieme per il Tibet” con Ferdinando Adornato e il Presidente Pier Ferdinando Casini
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Goccia dopo goccia Stretti stretti e di rosso vestiti, 1500 volontari si sono uniti per disegnare con i loro corpi la sagoma di una goccia di sangue durante Tecnopolis, un’esposizione dedicata a scienza e tecnologia che si è recentemente tenuta a Buenos Aires. La loro coreografia è entrata nel Guinness dei Primati, anche se il vero obiettivo del raduno era promuovere la donazione del sangue presso i visitatori
La benzina più cara ce l’abbiamo noi napoletani. È la somma dell’aliquota regionale ai tempi di Bassolino, più quella successiva dovuta ai rincari della Finanziaria, più quella dovuta alla guerra del Golfo, più quella dovuta alla guerra in LIbia, più le aliquote che molti benzinai riescono ad ottenere tarando opportunamente l’erogatore, più l’ultima del governo Monti. Sono sciocchezzuole, non ce la prendiamo, perché dobbiamo assolutamente piegare la testa e collaborare altrimenti non avremo stipendi, pensioni e andremo tutti sotto i ponti. Credo che la situazione parli da sé, visto che al dispiacere di toccare le pensioni, non corrisponde la forza di toccare l’intoccabile.
Bruno Russo
mondo
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Gli italiani in prima linea nel team di ricostruzione, strumento chiave per il passaggio di potere agli afghani
Guerra all’oppio La transizione, la droga e l’Iran: ecco la miscela incendiaria di Herat di Pierre Chiartano
HERAT. Le strade in Afghanistan sono il centro della vita, della morte e degli interessi. Lì si spara, si piazzano le Ied, i micidiali ordigni improvvisati e si decide il futuro del Paese. Sulle carrozzabili asfaltate, poche, sugli sterrati, molti, e sui sentieri appena accennati, tantissimi, passano le merci, i viveri, le armi e la droga. L’oppio per gli afghani è una tradizione e ragione di vita. Tanto che anche in un carcere come quello di Herat, il Jail West Zone, che potremmo tranquillamente definire “modello” – grazie ai finanziamenti della Cooperazione civile, militare italiana (Cimic) del Provincial recostruction team (Prt) – metà di detenuti è dentro per ragioni legate all’uso e lo spaccio di droga. E per i tossici internati, molti ex combattenti, il flusso degli stupefacenti continua, grazie a mille stratagemmi usati negli orari di visita. «Ogni settimana fermiamo una o due persone che tentano di introdurre droga nel carcere, con 100 grammi di roba», spiega a liberal il direttore della struttura, il generale della Polizia penitenziaria Abdulmajid Sadeqi, che da dieci anni ha le chiavi della prigione. Un cancello d’ingresso sorvegliato da una minacciosa Dushka sovietica, un mitragliatore pesante di quelli solitamente montati sulle torrette dei corazzati T-54 e T-62. L’arma ti da il benvenuto quando smonti dai Lince della scorta italiana di Camp Arena, dopo un complicato viaggio avanzando nel traffico caotico in un breve tratto della Ring road che collega aeroporto e centro urbano. Il generale afghano ci mostra alcune foto e i corpi del reato: patate e mele al cui interno sono state celate dosi di coca, oppio e hashish. Suole di scarpe col doppio fondo. Niente manca all’elenco degli espedienti usati per garantire il flusso di “sballo” all’interno del carcere. Qualche volta la ”roba”è stata lan-
provincia di Herat, dovrà passare in carcere 20 anni: ha ammazzato il marito. Gli chiediamo perché lo ha fatto. «Era un drogato, non lavorava. La vita era molto difficile con lui. Avevo tre bambini, due erano finiti in un istituto. Mi picchiava, non c’erano soldi per vivere», racconta la donna che, pure dietro le sbarre con una condanna che ha il sapore dell’ergastolo, sembra sollevata. Forse ha attraversato l’Inferno. La prigione dunque è solo il Purgatorio e che sarà anche riscaldato, grazie al gasolio donato dal Prt guidato dal colonnello Giacinto Parrotta del Terzo Bersaglieri della Brigata Sassari. Il Prt ha la regia della ricostruzione, che non significa solo infrastrutture, ma anche fiducia nelle nuove istituzioni. Fheride, con lo sguardo fisso sulle pareti bianche del carcere, ci racconta che studia inglese e impara a utilizzare un pc già da due anni e mezzo: è stata spinta dalla disperazione ad ammazzare il marito. La droga è una vera piaga in Afghanistan, sia che si guardi il Paese dal punto dei vista della gente più umile e povera, sia che si pensi a come realizzare uno State bulding, cioé provare a costruire i meccanismi rudimentali di una democrazia, là dove l’industria dell’oppio domina su tutto. E lo capisci anche dalle infrastrutture, compresa la grande Ring road, che attraversa come un cerchio tutto il Paese. Le strade che vanno a nord, sud e a oriente nella provincia di Herat sono asfaltate per pochi chilometri, come la Highway 8 che va verso nord direzione Turkmenistan. Ma sulla direttrice che porta a Ghorian e poi in Iran la strada, la Highway 3 è comoda scorrevole e asfaltata.Vedremo perché.
La pianta del papavero cresce senza bisogno di grande attenzione. Non serve irrigarla, non serve concimarla, non servono macchine particolari per il raccolto. Bastano le mani per mietere il lattice bianco che sgorga lento come un muco appiccicoso dal bulbo del fiore non ancora sbocciato, tagliato sapientemente con una lametta. Con una piccola spatola i raccoglitori lo accumulano fino ad avere una palla biancastra che vira sul marrone. Tante di queste palle d’oppio poi vengono compresse in pani. Quelli che poi vengono caricati sugli Antonov in sette campi di volo semipreparati oltre il confine iraniano. Da queste piste secche e polverose, percorse solimente da scorpioni, grandi come lucertole, la droga arriva negli hub di Teheran e Mashad. Poi prende la via di Bratislava e del mercato europeo. La presenza iraniana si sente a Herat e provincia. Ci sono banche, aziende, scuole e agenti e ”antenne” di Teheran in ogni angolo del territorio. Han-
Oltre i confini iraniani ci sono sette piste, utilizzate per il traffico gestito da una branca delle Guardie della rivoluzione. Gli Antonov decollano e atterrano dopo il raccolto diretti a Teheran e Mashad ciata dall’esterno, un metodo che sembra rudimentale, ma in Afghanistan dove puoi vedere il XXI secolo, il Medioevo e l’età della pietra nel breve giro di pochi chilometri è semplicemente normale. E la banalità si mischia spesso con la ferocia. Jail West è una struttura per altri versi moderna, specie nel braccio femminile, costruito grazie al Prt italiano di Herat. Celle spaziose da fare invidia a quelle scatole di sardine che sono certe carceri italiane, con i detenuti stipati uno sull’altro. E tanti laboratori per tenere impegnati detenuti, uomini e donne. Ma la droga è fonte di reddito e di disperazione. Fheride, 28 anni una ragazza della
Anche il nuovo governo del Marocco abbandona Damasco
Come scricchiola lo scudo di Assad E Davutoglu ammonisce la Siria: «Non fate leva sull’indipendentismo curdo» di Antonio Picasso ella giornata mondiale dei diritti umani, si prevedeva un nuovo bagno di sangue in Siria. Ieri, peraltro, era venerdì: giorno di preghiera, di assembramento di gente fuori dalle moschee e quindi facile preda dei fedelissimi di Assad. Così non è stato. Per fortuna. Homs, la città cuore della dissidenza, è stata graziata dall’ennesimo massacro. Nel Paese, quindi, si sono contati “solo”quindici morti. Per l’Onu, la repressione ha fatto ormai quattromila morti, da marzo, in questi nove mesi di quasi guerra civile. Gli osservatori si ostinano a dire che siamo a un passo da questa. Noi pretendiamo essere più franchi: il conflitto è fratricida ed è sempre stato tale. La calma relativamente piatta della piazza non fa sfumare le polemiche successive dall’ultima intervista di Assad. Quella sostanzialmente tragicomica, in cui ha detto che le vittime sarebbero tutte da annoverare tra i suoi sostenitori e che comunque le violenze sono volute dalle Forze armate. «Ma io non sono il loro proprietario. L’eserci-
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to siriano è libero di fare come vuole», ha detto il rais. Assad è più pusillanime del padre e perfino di Saddam Hussein. Ed entrambi avevano fatto della crudeltà il loro marchio presidenziale.
Quattro anni fa di quest’epoca, si concludeva la conferenza di Annapolis (Virginia, Usa). Al meeting – il primo grande evento collegiale per la pace in Medioriente da dopo l’11 settembre – aveva partecipato un rappresentante del regime siriano. Improvvisamente Damasco era tornata ad apparire disponibile e aperta al dialogo. Parola di Bush: un uomo sulla cui inflessibilità contro i dittatori mediorientali non si può discutere. Neanche sei mesi dopo, fu Sarkozy a commettere lo stesso errore. La Siria venne invitata a far parte di Euromediterraneo, iniziativa transalpina naufragata per tanti motivi ma che, sulla carta, aveva una ragion d’essere. A suo tempo, si era pensato che Bashar el-Assad fosse parte di quella nuova generazione di leader arabi,
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A fianco, il presidente siriano Bashar al Assad. In alto, dalle coltivazioni di papavero da oppio a quelle di zafferano. Siamo in Afghanistan
esteri turco, Ehmet Davutoglu, ha detto espressamente che il suo Paese è pronto a muovere in territorio siriano per soffocare la repressione. Sappiamo che però il suo governo vuole fare altrettanto con i kurdi. «Damasco non aizzi contro di noi il Pkk», ha aggiunto infatti Davutoglu. C’è il rischio di una guerra Siria-Turchia? Se sì, sarebbe paradossale. Ankara, membro della Nato sarebbe sostenuta dalla Lega Araba, di cui Damasco è partner. Mentre l’Alleanza atlantica ne resterebbe fuori. Almeno a parole. Visto che, ancora ieri, un ex consulente dell’Fbi ha raccontato al quotidiano turco Milliyet della presenza di consulenti militari Usa nelle zone di confine tra la Penisola anatolica e la Siria, per addestrare i disertori di Assad e rimandarli poi nel Paese a compiere azioni di guerriglia. Un’indiscrezione per nulla rassicurante. Nel frattempo, anche il mondo islamico sta prendendo posizione. «I Paesi arabi devono riconoscere il Consiglio nazionale siriano come ha fatto il Cnt libico», ha detto da Bengasi lo sceicco Yusuf Qaradawi, teologo e punto di riferimento dei Fratelli Musulmani. Silenzio invece ancora dal frammentato mosaico cristiano; il 17% della popolazione del Paese. Tante, troppe chiese, ma tutte vicine al regime. Come lo è Hamas, il movimento islamista dei palestinesi, che ha sede a Damasco e che da lì non vuole fuggire. La guerra civile continua quindi, con i tanti alleati che continuano a fare da scudo ad Assad.
Le forze armate stanno preparando l’assalto finale a Homs, con l’obiettivo di compiere un massacro che valga d’esempio per le altre città, ha detto il Cns capaci di alleggerirsi del passato grottesco e proiettati verso il riformismo. Assad come Abdallah, il re di Giordania. Entrambi laureati presso atenei anglosassoni e sposati con donne fascinose, esempio di una sofisticata eleganza araba. Poi il crollo. Oggi anche la monarchia ashemita ha i suoi problemi e Rania – proprio perché troppo glamour – è uno di questi. «La costituzione siriana prevede prerogative così vaste per il presidente della Repubblica da poterlo definire il proprietario del Paese». Ha commentato l’avvocato Anwar alBunni, ex detenuto politico e presidente del Centro di studi giuridici a Damasco, in risposta alle affermazioni di Assad. Provocazioni su provocazioni, alimentate anche da minacce esterne. Sempre ieri il ministro degli
no tutto l’interesse a mantenere questa provincia stabile, per gestire gli affari e controllare un’area di confine importante. Certo non è tutto funzionale alla droga, ma molto lo è. Herat è la provincia afghana che più ricorda l’Iran, ha molte facoltà universitarie, da ingegneria a medicina. Ha uno standard di vita superiore a molte altre zone del Paese.
L’Afghanistan produce l’ 80 per cento di oppio grezzo del mondo. «Ma stanno cominciando a organizzarsi con le lavorazioni intermedie», ci spiega il rappresentante civile della Nato della Regione Ovest dell’Afghanistan, Andrea Romussi. I signori
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seppe Trovato. E infatti i bulbi solitamente acquistati sul mercato che vengono – guardacaso – dall’Iran sono di pessima qualità, rispetto a quelli che, una volta piantati, producono le piante afghane. Ma non vuol dire nulla, sarà un caso anche quello. La zona migliore per questa coltivazione e la zona di Ghorian verso l’Iran. Iran, oppio e zafferano sembrano incrociarsi di continuo. Nel 2010 sono stati acquistati dal Prt di Herat 400 tonnellate di bulbi. A dimostrazione che si voleva fare sul serio. Però in Afghanistan non c’è un’economia pianificata, almeno non c’è più da quando i sovietici hanno fatto le valigie. «La domanda deve venire dagli afghani», conferma l’ufficiale Cimic. E quest’anno purtroppo richieste non ne sono ancora arrivate. Forse tutti aspettano la campagna d’inverno. Stagione che insurgent e signori dell’oppio non passeranno, come tradizione, a lucidare gli Rpg per la primavera, il tempo del raccolto. I nemici del nuovo Afghanistan vorrebbero dimostrare che la transizione – l’annunciata fase due – non funzionerà. Ma dovranno vedersela con le truppe Isaf e, nel Regional Command West, anche e soprattutto con gli italiani, tra i migliori interpreti del “manuale”Petraeus.
Le strade che vanno a nord, sud e a oriente di Herat sono asfaltate per pochi chilometri, come la Highway 8 che va in Turkmenistan. Ma sulla via di Ghorian e dell’Iran, la Highway 3 è una superstrada della droga locali si sono accorti di quanto possono incrementare i guadagni con la raffinazione. «Herat è un modello per tutto l’Afghanistan. C’è una grande tradizione nel commercio e negli affari. A Herat trovi ciò che non trovi nel resto della regione», conferma Romussi. Tempo fa l’Occidente aveva cercato di esiccare alla radice il business del papavero, tentando di promuovere la coltivazione dello zafferano. Una spezia pregiata che può essere venduta anche a 12mila dollari al quintale all’ingrosso. Un prezzo competitivo rispetto a ciò che pagano i signori della droga ai contadini afghani per garantirsi il raccolto. «La pianta non produce subito, si deve aspettare per tre anni per il primo raccolto», spiega il maggiore Luca Di Fazio del Cimic del Prt di Herat e che ha seguito le iniziative per promuovere la coltivazione della spezia antidroga. «Dover aspettare tutto questo tempo non è un incentivo per chi deve produrre», continua il maggiore del Cimic. Fino ad oggi sono più di 500 gli ettari che sono stati dedicati alla coltivazione dello zafferano nell’area del Prt di Herat. «Novembre è proprio il periodo per la raccolta dello zafferano. Certo c’è il problema del tempo, ma produce sementi, i cosiddetti bulbi, in abbondanza che a loro volta hanno mercato», puntualizza l’agronomo del Cimic, il capitano Giu-
Comunque per lo zafferano serve l’acqua, per l’oppio no. E la spezia se non viene essiccata a una determinata temperatura perde di qualità e finisce come taglio sul mercato indiano a un decimo del suo valore. Un domani sarà la polvere di zafferano a decidere il futuro di questa regione, oggi conta ancora la polvere sollevata dai mezzi militari che devono difendere una “democrazia” ancora fragile, a cui Obama non vuol fare fare più da balia. Le casse di Washington sono paurosamente vuote. E i campi d’oppio li puoi vedere anche a Bakwa. Ma non è detto che il Paese, lasciato prematuramente da solo, non sappia trovare la strada verso istituzioni forti e una società determinata a difendere l’uscita degli afghani dal Medioevo. Uno di questi afghani votati al futuro del Paese si chiama Maria Bashir, procuratore capo a Herat, paladina della lotta alla corruzione. Ma questa è un’altra storia.
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Non riconosciuto da tutti i Paesi europei, lavora per entrare il prima possibile nell’Unione e per adottare la moneta unica
Do you remember Kosovo? Viaggio politico e culturale in uno Stato dal passato ricco e dal futuro ancora incerto di Rossella Fabiani a strada è ancora lunga, ma il cammino è iniziato. Con il chiaro proposito di entrare nell’Ue, primo passo fondamentale perché in un futuro il Kosovo possa poi entrare nell’euro. Se e quando anche la crisi della moneta comune sarà superata. Sul tavolo ci sono tanti problemi e altrettante incertezze, ma due cose non sono in discussione per il governo del Pristina: l’appartenenza all’Europa e il diritto all’indipendenza negato sin dai tempi di Tito che tradì le promosse fatte nel ’43 a Jajce, a proposito dell’uguaglianza di tutti i popoli all’interno della federazione jugoslava che non si applicò alle minoranze albanesi. Soprattutto dopo la rottura dell’Albania con l’Urss e con la Jugoslavia, venne inaugurata una politica di “serbificazione” per mano del capo della polizia segreta comunista, Aleksandar Rankovic. Ma ripetuti tentavi di “serbificare” la popolazione albanese erano stati fatti già dopo la prima guerra mondiale, quando il Kosovo diventò parte del regno di Serbia, Croazia e Slovenia, all’interno del quale la condizione di minoranza degli albanesi venne ignorata.
L
Ma prima dei serbi, gli albanesi del Kosovo se la dovettero vedere con gli ottomani. Nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo, la grande maggioranza degli albanesi è costretta a convertirsi all’islam, principalmente per evitare le tasse imposte dai turchi ai cristiani, a volte anche con conversioni forzate. Durante l’ondata d’islamizzazione che seguì l’occupazione turca, il Concilio provinciale della Chiesa cattolica romana, convocato nel 1703 a Lezhe, nell’Albania meridionale, fu costretto ad affrontare il problema dei laramana: i cripto-cristiani, numerosi anche se non limitati al Kosovo, che apparentemente si erano convertiti all’islamismo, mentre in segreto continuavano a praticare il cristianesimo. Alcuni adottavano due nomi, uno musulmano di uso pubblico e uno cristiano in privato. Ci sono prove che cripto-cristiani si trovassero in Kosovo ancora nel 1911. Alcuni musulmani albanesi del Kosovo conservano un vago ricordo di un passato cristiano nelle loro famiglie.Altri
ancora celebrano la festa di qualche santo oppure partecipano alle preghiere cristiane. Non va dimenticata l’esistenza, fra i musulmani albanesi (80% sunniti), dei sufi della corrente dei Bektashi (20%), un movimento sincretistico derviscio che ha avuto origine tra le popolazioni dell’Anatolia orientale non ancora islamizzate, seguaci dei culti animisti e che più tardi ha assorbito molte influenze cristiane. Inoltre in passato la comunità cattolica romana - oggi la meno consistente - ha giocato un ruolo determinante nella formazione del linguaggio scritto albanese e della letteratura. L’esempio più antico di un testo scritto in albanese è infatti la formula battesi-
per il suo ruolo storico nella cultura albanese, sia in quanto canale diretto con la cultura occidentale. E ciò vale anche per alcuni appartenenti a famiglie di tradizione musulmana. E proprio i giovani sono la scommessa del nuovo Stato del Kosovo, a quattro anni dalla proclamazione d’indipendenza dalla Serbia e che nel suo governo ha ministri e deputati che vanno dai 25 ai 35 anni. Hanno tutti studiato all’estero, parlano almeno tre lingue e sono cresciuti mangiando politica. Come il trentaduenne Petrit Selimi, una passione per i fumetti - tanto da aprire anche un locale lo “Strip Depot Cafè” molto in voga tra la gioventù kosovara alla moda dove si beve vino, birra
Per il governo di Pristina sono due le cose non negoziabili: l’appartenenza all’Europa e il diritto all’indipendenza negato sin dai tempi di Tito, che tradì le promosse fatte nel ’43 a Jajce male cattolica romana che risale al 1462. I primi autori albanesi del XVI e XVII secolo, Gjon Buzuku, Pjeter Budi, Frang Bardhi e Pjeter Bogdani, erano tutti sacerdoti cattolici; Bogdani, in particolare, era stato arcivescovo di Skopje. I primi libri stampati in albanese erano traduzioni di libri liturgici cattolici, probabilmente per aiutare il clero locale che non era istruito e non conosceva il latino.
Secondo alcuni osservatori oggi i giovani albanesi sarebbero attratti dalla Chiesa cattolica sia
e superalcolici e che nel giugno di quest’anno è stato nominato viceministro per gli Affari esteri. Del suo Paese dice che è stato schiacciato da una propaganda serba vecchia di oltre cento anni che dipinge il Kosovo come intollerante e nemico del patrimonio religioso ortodosso rappresentato dai celebri monasteri di Graganica, Decani e Pec. Ma non è vero anzi, Selimi ci tiene a dire che ha fatto parte della delegazione del governo guidata dal primo ministro, Hashim Thaci, presente alla beatificazione di Giovanni Paolo II a San Pietro.
Pristina, la capitale, ha la sua strada principale dedicata a Madre Teresa di Calcutta che sulla stessa via ha anche una statua in bronzo a rappresentarla, lo stesso ministero della Cultura ha all’ingresso una gigantografia della beata albanese, sempre in centro si trova anche il monumento dedicato all’eroe nazionale Skanderbeg che per 25 anni respinse i tentativi di conquista dell’Impero turco a difesa della sua Albania, dell’Europa e della fede cristiana dall’invasione ottomana; per tale motivo ottenne da Papa Callisto III gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della Fede. Presto, poi, insieme alla grande moschea, Pristina avrà anche la sua cattedrale dedicata a Madre Teresa, ancora in costruzione. E in un elegante, seppure sobrio, palazzo dietro alla cattedrale vive don Lush Gjergji vicario generale della Chiesa cattolica del Kosovo e biografo ufficiale di Madre Teresa della quale è stato in gran parte il postulatore. Per don Lush il problema più grande del Paese è la disoccupazione e la mancanza di una seria politica fiscale. Mentre è molto fiducioso per i rapporti con le altre comunità religiose. Il 17 novembre scorso il vescovo cattolico si è incontrato per una conferenza sull’unità del
Paese con il Gran Mufti, Naim Ternava, e con il vescovo ortodosso di Raska e Prizren,Teodosije Sibali. In precedenza con il vescovo Artemjie c’era al contrario una chiusura totale. «Segno che i tempi stanno cambiando, in meglio», si augura padre Lush. Come pure sta cambiando la considerazione del patrimonio culturale oggi nelle mani di un ministro con un passato da cantante rap.
Classe 1980 e una figlia di tre anni, Memli Krasniqi è il ministro della Cultura, della gioventù e dello sport, che annuncia un aumento del budget: dai 13 milioni di euro quest’anno ai 18 previsti per il 2012, con tre milioni dedicati all’eredità culturale. «Quest’anno la priorità assoluta è stata data al patrimonio culturale: abbiamo siglato un accordo con l’Icr per catalogare tutti i beni e per la prima volta abbiamo stilato una lista degli oggetti da conservare, restaurare e valorizzare con ben 930 monumenti da proteggere. Da tre mesi a Prizren è stato aperto il primo centro balcanico per l’eredità culturale con seminari e corsi per il restauro e la conservazione dei materiali, dalla pietra al legno». La professoressa Edi Shukriu presidente del “Kosova Council
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In apertura, l’interno del convento dei Sufi a Prizren. Sopra, alcuni particolari delle moschee di Giacova, Pristina e di Sinan Pasha a Prizren. Sotto, i monasteri di Pec, Decani e Graganica. Nell’altra pagina, la Cattedrale di Madre Teresa a Pristina
for the Cultural Heritage” e con un talento particolare per la poesia, è cresciuta con l’amore per l’archeologia a cui ha dedicato tutta la sua vita, suo padre ha diretto a lungo il Consiglio per la protezione di Beni culturali, «in un Paese che ne è ricchissimo». Il sogno della Shukriu è quello di vedere finalmente anche Prizren nella lista Unesco, unica tra le quattro città principali della ex Juguslavia ancora non inclusa nel prestigioso elenco. Ma soprattutto quello che non dividano più i Beni culturali in base alle etnie sottolineando anche che «i monumenti religiosi e culturali appartengono al Paese in cui si trovano». Monumenti che caratterizzano la pluralità del territorio kosovaro ricco di chiese, monasteri e moschee. Un patrimonio unico al mondo per quanto riguarda le decorazioni di quest’ultime. Stanno li da 500 anni, semi dimenticate nell’indifferenza di tutti, tranne che per la visita di qualche anziano che vi si reca più per tradizione che per altro, ma che sono un pugno al cuore. Tanto si rimane storditi dalla loro bellezza, dai loro colori, dalla loro eleganza che credi di essere finito in un palazzo fiorentino piuttosto che nella moschea di Sinan Pasha a Prizren. Colori delicati e forme leggiadre
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rakìa - un tipo di grappa locale a mangiare la carne di maiale e a bere alcolici, birra e vino prodotto sia dai musulmani sunniti che dagli stessi sufi soprattutto nelle città di Suhareke e di Rahovec entrambe nel distretto di Prizren.Tutti convinti che la religione sia un fatto privato, intimo, che non deve coinvolgere la società e che non è un impedimento nei rapporti con chi ha un’altra religione. Posizione condivisa anche da Resul Rexhepi - segretario generale della comunità islamica del Kosovo che fa riferimento alla scuola giuridica Hanafita - che prende le distanze dai wahabiti e chiosa che la religione è cosa diversa dallo Stato. Delle guardie e dei fili spinati intorno ai monasteri, il segretario pensa che si tratti di una questione puramente politica, di una propaganda che vuole creare la percezione che questi luoghi di culto siano in pericolo. Il suo desiderio, invece, è che la chiesa ortodossa non sia più influenzata dalla politica, ma che lavori soltanto per le questioni religiose. In Kosovo è stato istituito un albo professionale per gli imam che lo diventano dopo aver vinto
tahsi a Giacova che non vivono in clandestinità - come accade in Turchia o in Egitto dove sono proibite - ma al contrario partecipano alla vita della comunità e hanno buoni rapporti con le altre religioni. Abedin Shehu, 29 anni, è il giovane capo della comunità sufi di Prizren che insegna ai membri che vogliono diventare dervisci e che, della corrente che oggi rappresenta l’islam nel mondo, dice che «è fondata da persone che non fanno parte del vero Islam». Per Kasam Muhameti, imam della più grande moschea della cittadina di Opoje, ogni Paese ha la propria tradizione: «Noi non siamo come i musulmani arabi o d’Egitto. Qui non abbiamo bisogno del velo, mentre loro si devono coprire per il caldo. Come musulmano albanese non riuscirei a vivere secondo le loro tradizioni».
un concorso pubblico e avere frequentato la facoltà di studi islamici. La lingua usata è quella della comunità e non l’arabo che viene usato soltanto per recitare il rituale. Altro segno insolito di questo islam nel Paese balcanico è la presenza di molte comunità sufi, soprattutto della corrente degli Helveti a Prizren e dei Bek-
che abitano in quella terra, vuol dire che tutti in qualche modo sono lo stesso popolo o possono diventarlo. Ciò che è stato simbolo della distruzione dell’identità collettiva può diventare la pietra su cui costruire rapporti duraturi che riescano a cambiare la storia futura. E a favorire il sogno europeo.
che disegnano tulipani, cipressi, frutta, fiori, paesaggi e - soprattutto - tralci foltissimi di grappoli d’uva. I soffitti e la cupola sono un rincorrersi di fili colorati sottilissimi e preziosi che danno vita a un paradiso - o meglio a un giardino che potrebbe benissimo essere la dimora delle celebri Uri persiane. Lo scultore Skender Boshtrakaj, vice direttore museo del Kosovo, conferma la tipicità di questi disegni: «Tutte le mo-
Anche la gente incontrata nelle città come nei villaggi ha lo stesso atteggiamento: una grande voglia di voltare pagina e di vivere in pace. Insieme musulmani, ortodossi e cattolici. Magari grazie anche alla diversità del patrimonio culturale. Perché sia che si tratti del monastero di Decani o di una storica kulla (casa) albanese, o del patriarcato ortodosso di Pec, degli affreschi della Chiesa Bogorodica Ljeviska a Prizren o della moschea Defterdar di Decani, quello che conta è la conservazione di questo patrimonio inteso come terreno per favorire il dialogo interculturale. La scommessa è che gli stessi luoghi che hanno diviso possano unire. Se i beni culturali appartengono a tutti coloro
Il dittatore negò alle minoranze albanesi il principio di uguaglianza di tutti i popoli all’interno della federazione jugoslava. E dopo la rottura dell’Albania con l’Urss, ci fu la serbificazione dell’area schee del Paese hanno decorazioni che trattano il mondo vegetale, in alcune abbiamo anche paesaggi stilizzati, ma soprattutto il motivo dell’uva è molto presente e questo non è tipico delle altre moschee del mondo». Entrando nella più grande moschea del Kosovo - che porta il nome del suo fondatore, Sinan Pasha - manca il fiato ammirando questo edificio oggi dichiarato un museo, sebbene ancora usato come una moschea. Raffinatezza ed eleganza di un periodo - quello ottomano - che qui in Kosovo ha lasciato tracce visibi-
lissime: non soltanto a Prizren con la moschea di Sinan Pasha costruita nel 1615, ma anche a Pristina, la capitale, con la moschea di Fatih nella parte vecchia della città e con il mausoleo di Sultan Murad I come pure a Giacova con la cinquecentesca moschea di Hadum. Ma non solo le decorazioni delle moschee raccontano un islam molto più europeo che saudita.
Gli stessi kosovari albanesi sono sui generis abituati a festeggiare il bairam, la festa musulmana dopo il Ramadan, con una
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CAIRO
Se lanciano la fatwa contro il Mare Nostrum Con Atene e Roma, l’Egitto è uno dei poli del dialogo tra le civiltà del Mediterraneo. Un tratto che fra tante contraddizioni si era fin qui preservato. Ma i primi esiti delle recenti elezioni ci dicono che le speranze accarezzate a piazza Tahrir sono destinate a infrangersi…
di Gennaro Malgieri l Cairo mi si presentò come una città di sabbia senza tempo, la prima che vidi dall’alto. La sabbia del deserto che la circondava faceva tutt’uno con le abitazioni che sembravano tante tane, alcune molto alte, ospitanti un’umanità irrequieta. Da vicino ebbi l’impressione che le case degli egiziani non fossero altro che dormitori utilizzati solo per ripararsi di notte, la loro vita era altrove, nelle strade, nelle piazze, nel bazar, nelle moschee. Donne e uomini liberi, insomma, che vivevano anche intensamente la loro religione, ma si mostravano piuttosto alieni dal farne un mito intollerante.
I
Musulmani sì, fanatici no. Questa caratteristica mi è parsa sempre più evidente con il passare del tempo, fino a quando ho frequentato Il Cairo riconoscendovi uno dei poli del dialogo tra le civiltà mediterranee insieme con Atene e Roma. L’ultima volta che ci sono stato, tre anni fa circa, ho avuto la fortuna di incontrare il Grande
Imam Mohamed Sayyied Tantawi, rettore della più antica università coranica, Al Azhar, fondata nel 970. Con la dolcezza che gli era abituale mi spiegò come nel Corano non si trovi neppure una riga che imponga alla donna di sottomettersi al velo: l’usanza, diventata negli ultimi tempi segno di discriminazione e di umiliazione, è piuttosto il frutto di un’invenzione teologica islamica, forse per giustificare il potere del maschio e renderlo visibile. Il saggio egiziano, conservatore illuminato e ultimo autorevole esponente di una grande tradizione culturale, mi introdusse, con poche e levigate parole, pronunciate con naturale eleganza, in un mondo che si voleva e si vuole «separato» onde evitare «contaminazioni» che potrebbero renderlo permeabile all’occidentalizzazione che Tantawi non temeva finché il confronto si fosse articolato tra le ragioni culturali di ognuno senza pregiudizi o ipocrisie. Accolsi quindi il suo dolore per le recenti manifestazioni di
ostilità di alcuni gruppi islamisti ai danni della comunità coopta cairota. E mi commosse il suo richiamo alle nostre comuni ascendenze mediterranee. Lo piansi nel marzo dell’anno scorso apprendendo della sua morte improvvisa a Ryad. Con lui spariva un uomo del confronto; il dialogo tra le civiltà non sarebbe stato più lo stesso. Ho ricordato Tantawi negli ultimi giorni, dopo gli esiti elettorali parziali egiziani.
I Fratelli musulmani hanno trionfato dal Cairo ad Alessandria. E insieme con loro si sono imposti i salafiti di obbedienza wahhabita. Uno di questi, Mustafa al-Adawi, oscuro agitatore venuto in evidenza dopo la «primavera egiziana» presto mutatasi in autunno con la promessa di gelare le speranze degli ingenui manifestanti di piazza Tahrir, ha lanciato una specie di fatwa contro il più grande scrittore egiziano contemporaneo, Nagib Mahfuz, premio Nobel per la letteratura, morto nel 2006. È stato accusa-
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per saperne di più
hanno detto Nagib Mahfuz
Samuel Huntington Scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale Garzanti
Nagib Mahfuz Canto di nozze Feltrinelli
Gli antichi papiri riferiscono che il faraone era venuto a conoscenza di una relazione colpevole tra alcune donne dell’harem e uomini della sua corte. Ci si aspettava che li facesse giustiziare, secondo lo spirito del suo tempo. Invece, egli convocò alla sua presenza degli scelti uomini di legge ai quali chiese di investigare su quanto egli aveva scoperto. Egli disse loro che voleva la Verità per potere eseguire la condanna con Giustizia. In una battaglia vittoriosa contro Bisanzio i prigionieri di guerra furono restituiti in cambio di una quantità di libri del retaggio filosofico, medico e matematico dell’antica Grecia. Questa è una testimonianza del valore dello spirito umano nella sua richiesta di conoscenza, anche se chi chiede è un credente in Dio e chi offre è un frutto di una civiltà pagana. Fu il mio destino, signore e signori, essere nato in seno a queste due civiltà, di assorbire il loro latte e di nutrirmi della loro letteratura e della loro arte.
Nagib Mahfuz Il ladro e i cani Feltrinelli
(Dal discorso inviato in occasione della consegna del Premio Nobel per la letteratura nel 1988)
AA.VV. Il dialogo interreligioso come fondamento delle civiltà Marietti A cura di F. Perfetti e G. Ravasi Geopolitica e globalizzazione Edizioni Nagard Francis Fukuyama La fine della Storia Mondadori Nagib Mahfuz La trilogia del Cairo Pironti Nagib Mahfuz Il rione dei ragazzi Pironti
to di ogni nefandezza: oscenità, ateismo, corruttore dei costumi, incitamento alla promiscuità e alla prostituzione. Sembra strano che nell’Egitto in cui a tutte le ore del giorno e della notte ho sempre incontrato, soprattutto quando mi perdevo incoscientemente e allegramente nei vicoli del Kanal al-Kalili, splendide donne che non avevano bisogno di essere protette, attaccate a un narghilè in piccoli bar o in ristorantini profumati di spezie, sole e col capo ondeggiante al suono di un oud accompagnato dall’ossessivo ritmo di un darbuka... sembra quasi incredibile che i romanzi di un narratore osannato universalmente possano essere deturpati dalle parole di un ignorante che probabilmente neppure in una madrassa troverebbe ricetto.
Se questo è oggi il Paese che si avvia a snaturasi, il Paese che Nasser, Sadat e Mubarak, per quante responsabilità si possano loro addebitare, hanno comunque cercato di preservare dalla turpitudine fondamentalista, c’è di che essere preoccupati. Probabilmente non attenderemo neppure il terzo turno elettorale, quello che precede il voto per la formazione della shura (consiglio consultivo o camera alta) e poi l’elezione del presidente della Repubblica, sempre che la giunta militare lo permetta, per vedere messo all’indice Palazzo Yacubian della nuova stella letteraria egiziana, Alaa Al Aswany, i cui protagonisti sono gay, drogati e putta-
L’anatema di Mustafa al-Adawi sull’opera di Nagib Mahfuz fa temere che la terra dei Faraoni sarà lo scenario delle nefandezze compiute dai talebani a Bamyan ai danni delle antiche statue di Buddha ne oltre che arrivisti senza scrupoli, spaccato impietoso di una società complessa come tutte le altre e ricca di contraddizioni. Dove finirà l’umanità egiziana descritta da Mahfuz se i barbuti s’impossesseranno delle leve del potere? E che ne sarà dei cristiani che già temono per la loro incolumità e per la libertà di cui pure in frangenti torbidi hanno goduto? Uno dei miei piaceri al Cairo era sedermi nelle mattinate di sole a un tavolino del Karnak Café frequentato quotidianamente da Mahfuz. Mi piaceva ascoltare le grida dei ragazzi che affollavano le stradine che conducono alla grande moschea di Al Azhar (dove una volta, all’ingresso, mi rubarono le scarpe: chi le prese, mi disse un vecchio, ne aveva certamente bisogno e così, con il sorriso sulle labbra, corsi lì vicino ad acquistare un paio di ciabatte di cuoio), inebriarmi del profumo della pita appena sfornata, bere limonate ghiacciate mentre il muezzin cantileneva le solite
preghiere. Sapevo che nel cuore di quella umanità sconnessa all’apparenza s’intrecciavano culture diverse che trovavano il punto d’incontro nel Mediterraneo. E, per quanto curioso possa apparirmi ancora oggi, mi sembrava di scorgere, negli anfratti del bazar di Alessandria, la sagoma di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Ungaretti, e in quello del Cairo di René Guénon che, in un giardino segreto della città vecchia, decise di riposare per l’eternità sotto il cielo africano gonfio di spiritualità, proteggendosi così dai miserabili d’Oriente e d’Occidente che non compresero e non comprendono l’estetico splendore del credente, quale che sia la sua fede. Mi hanno fatto sapere dal Cairo che su Twitter circola una terribile
In apertura, la Sfinge e la piramide di Giza al Cairo. A destra, la statua di Mahfuz. Sopra, piazza Tahrir
profezia: «Finiremo come a Kandahar». È più probabile che accada prima ciò che accadde a Bamyan, dove le gigantesche statue di Buddha vennero demolite dai cannoneggiamenti dei talebani.
Lo stesso individuo che ha lanciato l’anatema contro Mahfuz, infatti, ha promesso di coprire tutte le statue dell’antico Egitto perché simboli di corruzione e di infedeltà ai precetti dell’Islam. Povero Maometto. Non c’entra niente con questi ignoranti criminali eppure su di lui si addensano tutte le colpe che non ha commesso. La più grave sarebbe comunque quella di attribuirgli lo sprofondamento dell’Egitto nel caos islamista che Tantawi avrebbe stigmatizzato da par suo e a Mahfuz avrebbe forse ispirato un irriverente racconto sull’umana imbecillità. Ho l’impressione che gli avvenimenti egiziani, ma anche l’evoluzione delle rivolte arabe nella stessa area, faranno arretrare di molto il dialogo tra le civiltà che si presentava, fino a qualche tempo fa, come l’estremo tentativo di limitare i conflitti tra popoli e culture fomentato dal fondamentalismo islamico da un lato e dall’intransigenza occidentalista dall’altra. Perciò le improprie accuse formulate contro Mahfuz sono i segnali più inquietanti di un clima che sta diventando incandescente. A esso contribuiscono gli avvenimenti siriani e le minacce iraniane all’Occidente e a Israele. Gli islamisti che stanno cercan-
do di incendiare l’Egitto lo sanno bene e si nascondono dietro l’alibi di un ritorno alle tradizioni edulcorate se non tradite, a loro avviso, dai laicisti che hanno governato fino a poco tempo fa. Una volta affacciandomi dalla finestra dello Sheraton del Cairo, la prospettiva che avevo davanti era la maestosità del Nilo affollato di imbarcazioni che procedeva lentamente verso il suo grande estuario per tuffarsi nel Mediterraneo. Immaginavo che attraverso di esso l’Africa profonda, dove sono le sue sorgenti, si gettasse per questa via nel nostro Mare come a voler ricongiungere le sue civiltà antiche e lontane con altre civiltà.
Una suggestione che ho coltivato fino a quando non ho visto scorrere sangue cristiano nelle vie del Cairo e ascoltato le farneticazioni degli islamisti nel segno di un tribalismo che non ha nulla di religioso, ma è soltanto peccaminoso. Contro la stessa fede alla quale dicono di ispirarsi e contro il loro popolo che tanto più ha prosperato e si è affermato quanto più le contaminazioni culturali sono state feconde nel corso della lunga storia che il Grande Fiume continua a narrare. Ma cosa ne sanno i lugubri istigatori d’odio, per esempio, delle influenze del diritto faraonico nell’evoluzione degli istituti giuridici romani... Va così sull’altra sponda del Mediterraneo e probabilmente noi non potremo fare nulla per invertire il brutto corso della nuova storia.
Liberal’iPad 11208
di cronache
ARRIVEDERCI A SABATO Domani, per la festiv dell’Immacolata Conc ità ezion liberal non sarà in edico e, la. Appuntamento dunq ue a sabato
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QUOTIDIANO • GIOV EDÌ 8 DICEMBRE 2011
Le sigle sindacali (Cgil, Cisl e
di Ferdinando Ador nato
Uil) ritrovano l’unità e indico no
DIRETTORE DA WAS HINGTON: MICHAEL NOVAK
per lunedì prossimo tre ore di
Pensioni, si può cambiare Alzare
sciopero generale
la soglia a 1400. Il governo
apre: «Ma niente stravolgimen Si lavora anche a detrazioni sulla ti» pri ma cas a. Casini: «Se i saldi restano invaria correggere». Pdl e Pd garantiscon ti, è do veroso o senso di responsabilità, ma Di Uno “storico” discorso del Pietro fa il solito demagogo presidente Usa sulla crisi dell’economia occidentale POLITICA DELLE CORREZION I
Il capitalismo della finanza ci ha rovinato. Ripartiamo dal lavoro reale
Senso della misura, e la manovra può migliorare di Giancristiano Desi
derio
C’
è poco tempo e poch i soldi ma qualcosa si può fare. La via indicata dalla stessa Fornero l’altr a sera a Ballarò è percorribile ma a patto che si faccia un mini emendamento che non snaturi o stravolga la manovra ma vi intervenga in modo chirurgico.
di Barack Obama
I
miei nonni hanno servito questo Paes e durante la Seconda guer ra mondiale. Lui era un soldato nell’Armat a di Patton; lei lavor ava su una linea di assemblaggio per bombardieri. Insieme hann o condiviso l’ottimism o di una nazione che ha trionfato sopra la Gran de Depressione e sul fascismo. Credevan o in un’America dove il lavoro duro pagava, dove la responsabilità era ricompensata e dove ognuno poteva raggiung ere il proprio obiet tivo: non importa da dove vieni , chi sei o da dove sei partito. Sono stati ques ti valori a far cresc ere in maniera più massiccia la classe media e la più forte economica che il mondo abbia mai conosciuto. È stato qui in America che i lavor atori più produttivi, le compagnie più inno vative hanno realizzato i migliori prodotti sulla Terra.
da pagina 6 a pagina 9
Al momento dell’arresto, il boss
Ancora scontri fra Ichino e Fassi na.
a pagina 3
Mentre il segretario non inter viene
E in casa Bersani riesplode la guerra “sul riformismo”
I democratici si spaccano riforma della flex-security eancora sull’annunciata Secondo Treu è “inutile” pardel settore del lavoro. lare ora di articolo 18, mentre Morando spera in una sintesi in extremis Riccardo Paradisi • pagin
a4
dei Casalesi ha detto: «Ha vinto
lo Stato»
Preso il capo di Gomorra Michele Zagaria stava nascosto in
D
dovuto scavare a lungo per raggiung erlo in quello stanzone supe rblindato, individuat o già da qualche giorno e attentamente mon itorato. Al momento della cattura, Zagaria si è rivolto ai poliziotti dicendo ironicamente: «Ave te vinto voi. È finita, ha vinto lo Stato». Subito dopo è stato colto da malo re al punto da richi edere l’intervento urgente di un’ambulanza. a pagina 16
EUROse1,00 gue a (10,0 pagin0 a9
CON I QUADERNI )
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un bunker
di Gabriella Mecucci
urissimo colpo, ieri, al clan camorrista dei Casalesi: dopo 16 anni di latitanza è finito in manette il superboss Mich ele Zagaria. Proprio come aveva scritto Savia no nel suo Gomorra, è stato scovato all’in terno di un bunker sotto un anonimo appartam ento di vico Mascagni, a Casapesenna (nel Casertano). Le forze dell’o rdine, coordinate da un pool di magistrati della direzione antimafia, hanno
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• ANNO XVI •
NUMERO
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238 •
Il congresso di Marsiglia
Anche il futuro del Ppe appeso a quello dell’Italia di Antonio Picasso
P
iù Europa! Questo potrebbe essere lo sloga n che il ventesimo congresso del Partito popolare europeo (Ppe) potre bbe lanciare a Bruxelles da Marsiglia, sede della conv ention. Quest’anno, l’incontro è stato organizzato dall’ Ump di Sarkozy e si tiene alla vigilia dei vertici Ue cruci ali per la crisi dell’Eurozona. Tuttavia, scritta in piccolo al messaggio chiave, si può legge re anche una postilla: “Men o Francia e meno Germania! ” I conservatori europei, infatti, auspicano in una magg iore concertazione tra tutte le nazioni. E lo dicono da ospit i nella casa del diavolo. Il meeting è il primo incontro polit ico che ha luogo dopo la vitto ria dei popolari spagnoli. E la stabilità della Spagna (fidu cia dei mercati nel suo pross imo governo, nonché prosp ettive per l’occupazione, i tagli, gli aumenti di tasse) si riper cuotono sull’intera Europa. Lo scriveva ieri El Pais, rileva ndo come il fronte comu nitario è quello decisivo.
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