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ISSN 1827-8817

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he di cronac

La morte è un destino migliore e più mite della tirannia

Eschilo

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 20 DICEMBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Minaccia populista della Lega: «Niente Imu ai padani». «La crisi non ammette scorciatoie», dice Napolitano

La battaglia delle tre donne Fornero, Marcegaglia, Camusso: è scontro sulla riforma del lavoro «Contratto per i precari e flessibilità in uscita», ha detto il ministro. Confindustria applaude ma la Cgil attacca: «Non toccate l’articolo 18». Parte tra le polemiche (al femminile) la seconda fase della manovra QUATTRO CONSIGLI AL GOVERNO

Ricordo dell’intellettuale scomparso

LUIGI BRUNI: TRA LE IMPRESE E I SINDACATI SERVE UNA TREGUA

Addio Havel, l’uomo (e l’eroe) che avrei voluto essere

«Questa dialettica frontale prolungata tra “padroni”e “dipendenti”è sterile, improduttiva e assurda; una sopravvivenza ideologica novecentesca che non tiene conto del fatto che è cambiato tutto nella società e nel mondo», dice Luigi Bruni.

CARLO DELL’ARINGA: SENZA CRESCITA NON SI PENSI A CONTRATTI UNICI Se la riforma dei contratti «è una componente del costo del lavoro va bene, ma in Italia la produttività è stagnante. Il Paese arranca perché i posti di lavoro buoni sono pochi e la precarietà ne è una conseguenza». Parla Carlo Dell’Aringa.

di Michael Novak

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FABRIZIO ONIDA: HO POCHI DUBBI, LA VIA GIUSTA È QUELLA DI ICHINO

Sospetti su 3 incontri di A dell’anno scorso

«Io credo che, di fatto, l’attuale situazione sia molto meno rassicurante di quanto si pensi anche per chi ha un contratto a tempo determinato. E vedo una sola soluzione: quella indicata da Pietro Ichino», dice l’economista Fabrizio Onida.

Torna il calcio-scommesse: 17 arresti. Donitenta la fuga

LUCIANO GALLINO: LA FLESSIBILITÀ NON PRODUCE SVILUPPO ECONOMICO

Alcuni giocatori si sarebbero “vendute” le partite Brescia-Bari, Brescia-Lecce e Napoli-Samp. Prima di finire in manette, l’ex mediano azzurro ha cercato di espatriare

«Ne ho viste tante ma confesso il mio stupore quando sento dire che di fronte a un milione di disoccupati la risposta sarebbe l’incremento del precariato e una maggiore facilità di licenziamento»: Luciano Gallino è molto critico col governo.

aclav Havel è stato l’eroe che da ragazzo avrei voluto essere: un artista di caratura mondiale, un dissidente che per il proprio coraggio ha patito quattro anni di reclusione, un presidente saggio ed eloquente di una nazione appena liberata, un uomo che «si rifiutò di vivere nella Menzogna». a pagina 9

Giancristiano Desiderio • ultima pagina da pagina 3 a pagina 5

Il dittatore è deceduto per un infarto mentre viaggiava in treno

Un testo per “liberal” del 1998

Pyongyang saluta l’ultimo Stalin

Può sopravvivere una società atea?

La morte di Kim Jong-il apre la lotta per la successione

di Vaclav Havel

la voglia di mostrare il potere militare e nucleare del suo Paese. Ma nella capitale tutto sembra pronto per una spietata lotta per il potere. Mentre Corea del Sud e Giappone hanno indetto riunioni del loro Consiglio di sicurezza per affrontare la situazione e l’esercito di Seoul dichiara l’allerta di emergenza. Kim è morto per “un infarto del miocardio complicato da gravi colpi al cuore”.

umanità oggi è ben consapevole della varietà di minacce che si profila sulla sua testa. Sappiamo che il numero di persone che vivono sul nostro pianeta sta crescendo a un ritmo vertiginoso. Sappiamo che sarà pressoché impossibile sfamare tante persone. Sappiamo che l’abisso già profondo che separa i poveri dai ricchi del pianeta potrebbe estendersi ancora, pericolosamente, a causa di questo rapido incremento demografico. Sappiamo quanto sarà difficile per le persone delle diverse nazionalità e culture convivere tutte accalcate insieme.

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di Vincenzo Faccioli Pintozzi hi comanda in Corea del Nord? Kim Jong-il, il leader di una delle più bizzarre e crudeli dittature comuniste del mondo, è morto per un attacco di cuore all’età di 69 anni. La televisione della Corea del Nord, che ha dato piangente l’annuncio della sua morte, ha già affermato che tutto il popolo coreano seguirà il nuovo leader Kim Jong-un, terzogenito del defunto, famoso per il suo carattere senza scrupoli e per

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

245 •

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• CHIUSO

L’

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 20 dicembre 2011

Un seminario a porte chiuse con Carra e Pezzotta per dire: «Non basta licenziare per far ripartire tutti insieme il Paese»

La sfida della flessibilità

Dopo il sì alla manovra, ora lo scontro è sulla riforma del lavoro. Duro botta e risposta tra Marcegaglia e Camusso sull’articolo 18 di Francesco Lo Dico

ROMA. La richiesta di «discussioni intellettualmente oneste e aperte» sull’articolo 18 che non va considerato alla stregua di un “totem”, ha scatenato ieri una ridda di contrapposizioni. Ma nelle dichiarazioni del ministro del Welfare, Elsa Fornero, non si colgono soltanto i segnali di un’imminente rinegoziazione dei vincoli tra datore di lavoro e dipendente, ma anche i prodromi di una nuova sfida. Come dare ossigeno al Paese, dopo le molte lacrime del decreto salva-Italia? Da una parte, il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha sposato la ridenifizione del mercato del lavoro come di «una di quelle riforme che va affrontata per tornare a crescere», precisando tuttavia che «non è l’unica riforma», in quanto a essa vanno abbinate «le liberalizzazioni, la ricerca e l’innovazione». Dall’altra il segretario della Cgil, Susanna

Camusso, si è fermamente opposta a qualunque discussione sul merito. «L’articolo 18 è una norma di civiltà», ha precisato la sindacalista, «ed è importante che rimanga anche se non riguarda tutti. «Nella manovra non c’è una risposta al lavoro, e per questo dobbiamo cominciare a cancellare le tante forme di precarietà che ci sono», ha rilanciato la Camusso. Che il Paese viri lontano dall’articolo 18, o decida di rimanere nell’alveo di questo “numero magico”, la sostanza non cambia. Perché la vera partita del governo Monti si gioca in realtà a partire da domani su un campo preciso: quello della crescita.

Tutti gli autorevoli economisti intervenuti ieri alla Camera nel corso di una tavola rotonda presieduta dal deputato centrista Enzo Carra, sono sembrati concordi nel lanciare un grido d’allarme. Nel corso del meeting, significativamente intitola-

to “Ricostruzione, Organizzazione e Innovazione”, i professori presenti hanno girato ai colleghi al governo una serie di utili spunti da tenere in debita considerazione. «Avevamo bisogno della manovra ed è stata fatta. Ora cerchiamo di capire di che cosa ha bisogno l’Italia», ha chiosato Gustavo Piga, docente di Economia politica all’università Tor Vergata di Roma, in apertura dei lavori. Ma Piga osserva da subito che «il mantra di ridurre la spesa e aumentare la tassazione come evento favorevole alla crescita si è rivelato fallimentare. È stato smentito persino dal Fmi, che di recente ha fatto ammenda. Le cure alla maniera greca stanno ammazzando il cavallo». Un warning che aleggia anche nelle parole di Bruno Charini, professore di Politica economica all’università Parthenope di Napoli. «Intervenire è necessario

ed urgente, perché dopo trent’anni abbiamo soltanto due risultati: in Italia non c’è alcuna visione di sviluppo e nessuna politica industriale», ha commentato Chiarini. Il motivo di tanta desolazione è presto detto. «Si insiste molto sulla spesa pubblica, ma il vero problema è che un Paese ha il dovere di scegliere i propri capisaldi. La scuola, l’università, l’educazione in generale? Benissimo, ma una volta stabilite delle li-


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LUIGI BRUNI Il tavolo della concertazione fra sindacati e governo Monti, che si è riunito in più riprese per trovare una strada percorribile in vista della riforma del mondo del lavoro. Le parti non hanno ancora trovato una posizione comune, anche se sono tutti d’accordo nel sostenere che una riforma del settore è necessaria per far ripartire la crescita economica dell’Italia. A destra il professor Luigi Bruni, docente di Economia politica presso l’Università di Milano Bicocca. Nella pagina a fianco il ministro del Welfare Elsa Fornero

nee guida non si vadano a toccare questi settori ogni volta, come è puntualmente accaduto», continua il professore.

«L’attuale stato di crisi e l’asprezza del decreto salva-Italia pongono inoltre temi scottanti.La diseguaglianza in questi anni è fortemente cresciuta», chiarisce l’economista, «e questo incide sulla crescita. Aumentare la tassazione e contrarre la spesa, come è accaduto finora, ha un unico risultato: incrementare l’economia informale e mortificare lo sviluppo. Al contrario, un aumento di spesa pubblica darebbe all’economia privata un forte incremento e un’enorme contrazione dell’economia sommersa». Sull’argomento, Stefano Manzocchi, docente di Economia politica alla Luiss, ha obiettato però che «il settore pubblico in Italia dà molto meno di quello che prende», e che il volano della crescita «passa dal rilancio del sistema industriale che l’ultimo governo spacciava, in modo menzognero, come solidissimo. I segnali del governo Monti, sono in questo senso positivi». E l’intervento di Maurizio Decastri, docente di Organizzazione aziendale a Tor Vergata, sembra quasi l’anello di congiunzione tra le due posizioni. «Una ricerca dimostra che il primo fattore di attrazione per gli investimenti esteri è una Pubblica amministrazione efficiente. Investire in una P.A. efficiente significa crescere, senza più puntare su ridicoli sistemi punitivi o premiali alla Brunet-

ta, che creano soltanto ostilità e antagonismi», spiega Decastri, che del ministro “Fantuttone” è stato compagno di banco. E il tema della spesa pubblica sollevato da Chiarini, torna potente nella disamina di Paolo Liberati, docente di Scienza delle Finanze a Roma 3. «Occorre rendersi conto che spendere più o meno di altri Paesi è un argomento ozioso, ciò che conta è spendere bene e in funzione di dati obiettivi. La politica non può limitarsi a tagli alla cieca perché ciò significa rinunciare a scegliere», precisa Liberati.

E un altro ammonimento a Monti sembra arrivare anche da Emilio Barucci, docente di Matematica finanziaria al Politecnico di Milano. «Dagli anni ’90 in poi abbiamo assistito a un equivoco. Si pensava che uno choc di liberalizzazioni e privatizzazioni facessero il bene del Paese e si è lasciato integro il potere dei diritti acquisiti e delle rendite. Volevamo un sistema meno centrato sulle banche e non l’abbiamo avuto, e non abbiamo realizzato nemmeno una minima regolamentazione del mercato finanziario. Oggi ci troviamo di fronte alla sempre più probabile ipotesi che le banche sosterrano sempre meno l’economia reale», osserva Barucci. Tutti temi sul tavolo del governo Monti. Che all’indomani della fase del rigore, si troverà ad affrontare il nodo dello sviluppo. Se la riforma dell’articolo 18 è il cavallo giusto, ce lo dirà la storia del Paese. E quella di chi lo abita.

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Imprese e sindacati, cercate insieme la terza via «Per rilanciare l’economia c’è bisogno di una tregua sociale (proprio come è successo per la politica)»

opo le pensioni è il cantiere lavoro – come lo chiama il ministro del welfare Elsa Fornero - il nodo che il governo dovrà sciogliere. Cercando una difficile sintesi tra le anime del mondo, l’impresa e soprattutto il sindacato che è già sul piede di guerra. «L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rappresenta una norma di civiltà – dice il segretario generale della Cgil Susanna Camuso – Un paese democratico non può rinunciarvi». Peraltro secondo la Cgil l’articolo 18 con la precarietà non c’entra nulla: «La maggiore precarietà è nelle aziende in cui non si applica l’articolo 18. La precarietà invece si combatte cancellando le tante forme di lavoro precario che oggi esistono, facendo costare di più il lavoro precario e dando lo stesso salario per lo stesso tipo di lavoro indipendentemente dal contratto di lavoro».

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Non è meno categorico il segretario della Csil Bonanni «Alla signora Fornero dico: se vuole fare qualcosa per i precari metta a disposizione gli incentivi, in modo che chi è flessibile non si trasformi in precario. La Fornero, che fa la maestrina - ha proseguito Bonanni - dovrebbe sapere che senza più salario non si possono avere più contributi per le pensioni». Altra musica da Confindustria ovviamente: «la riforma del mercato del lavoro – dice la presidente degli industriali Emma Marcegaglia – va affrontata senza totem o tabù. Noi abbiamo un mercato del lavoro che non ha eguali in Europa. Siamo d’accordo che bisogna aumentare su flessibilità in uscita e siamo disponibili a ragionare su alcune riduzioni di flessibilità in entrata. Ma non può esserci un disegno che attribuisce solo alle imprese il costo dell’indennità e del supporto, chiaramente ci può essere una parte che è il costo d’azienda ma una parte devono essere sussidi di disoccupazione pubblici». Insomma sarà difficile, a gennaio, quando il cantiere lavoro si aprirà, trovare il punto di sintesi auspicato con liberal da Luigino Bruni Professore di Economia Politica, presso la

di Riccardo Paradisi Facoltà di Economia dell’università di Milano-Bicocca. «È sterile, improduttiva e assurda questa dialettica frontale prolungata tra ”padroni” e dipendenti; una sopravvivenza ideologica novecentesca che non tiene conto, da ambo le parti, del fatto che è cambiato tutto nella società e nel mondo». C’è in questo dibattito sul lavoro la giusta questione dei diritti sociali, ragiona Bruni, ma è la declinazione di questi diritti a risultare vecchia, irrigidita. I«Noi ci portiamo dietro un’idea di lavoro che sembra dover essere garantito per de-

«I sindacati hanno combattuto battaglie di frontiera ora rischiano di diventare elementi conservatori» creto quando tutta la storia economica ci insegna che il benessere e il lavoro cresce in proporzione con la crescita della produzione e dello sviluppo». Per questo esiste tra lavoratori e imprese un reciproco interesse a un’intesa. «Siamo in un mercato veloce, globalizzato, dove il lavoro non può essere trattato come un entità astratta, garantita per legge.

A lato di certe garanzie si deve consentire alle imprese di muoversi in un contesto più elastico che consenta loro di respirare e di lavorare. Insomma, «non ha molto senso montare la guardia all’articolo 18 da parte dei sindacati né concepire il quadro del mercato come se i soggetti di impresa fossero tutti la fiat o lo stato.

«Non è così, il 98 per cento dell’impresa italiana è media e piccola, da li arrivano gli impulsi allo sviluppo, è li che viene generato lavoro ed è sempre l che la crisi morde con più ferocia». Già perché la crisi la pagano certamente i lavoratori ma anche le imprese. Per questo, dice Bruni, «Se i sindacati sono stati per anni profeti della società civile, combattendo battaglie di frontiera ora rischiano di trasformarsi in elementi di conservazione». I sindacati replicherebbero che loro compito è conservare il lavoro. «Ma il lavoro non si conserva se non si innova. Occorre un nuovo patto sociale unitario, cercando punti di sintesi e rinunciando tutti a qualcosa per avere, tutti, di più domani. Ossia ripresa dello sviluppo e benessere. È per il bene comune che l’impresa deve continuare a vivere».

Non che Bruni non veda anche i limiti dell’impresa italiana. Per dire, Confindustria ha costituito una delle più acuminate punte di lancia della battaglia per la riforma delle pensioni sostenendo la posizione dello slittamento dell’età pensionabile. Peccato che il principale strumento usato nelle ristrutturazioni aziendali siano proprio i prepensionamenti. A questo si deve registrare la scarsa propensione dell’industria italiana ad investimento, formazione e innovazione: «L’impresa italiana ha dei difetti annosi. E non mi sogno di dire che sono solo gli imprenditori la principale vittima della crisi. Vorrei però sottolineare che il primo malato del sistema italia è il sistema impresa. Ossia il polmone economico del paese su cui spesso viene stornato il malcontento sociale. I super ricchi in italia non sono imprenditori, sono i boiardi delle aziende di stato, i gran commis, la burocrazia». Dunque si deve trovare un accordo tra le parti immaginando un ipotesi terza che i contraenti devono mettere in campo. Più che battersi intorno ai totem e tabù dell’articolo 18 io inviterei tutti a un giubileo di perdono reciproco anche per liberarsi dalle tossine ideologiche che abbiamo accumulato nei decenni del secondo novecento e che ancora ci portiamo dietro.


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CARLO DELL’ARINGA

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Prima la crescita, poi i contratti «I giovani non vanno trattati come se fossero un settore a parte» di Angela Rossi

ROMA. Riforma del mercato del lavoro e articolo 18: quello che dovrebbe essere il prossimo obiettivo del governo appena passata la manovra economica. «Un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al cento per cento il solito segmento iperproteico» è la proposta del ministro del Welfare Elsa Fornero, che però si è trovata di fronte l’opposizione intransigente del segretario della Cgil Susanna Camusso. Sul progetto della Fornero convergerebbero invece Pdl e Terzo Polo mentre appare diviso in mille anime il Pd ed assolutamente contraria l’Italia dei Valori. Ma cosa ne pensa Carlo Dell’Aringa, docente di Economia Politica presso l’Unviersità Cattolica di Milano e strettissimo collaboratore di Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalla Brigate rosse? Professore qual è la sua opinione sulla proposta di riforma dell’articolo 18 presentata da Pietro Ichino? La questione è di sostanza e metodo. Il problema dei giovani non è certo solo l’articolo 18. L‘articolo 18 è solo una delle tante misure che in Italia dovremo prendere E il contratto di lavoro a protezioni crescenti? Se è una componente del costo del lavoro va bene, ma in Italia la produttività è stagnante. Il Paese arranca perché i posti di lavoro buoni sono pochi e la precarietà ne è una conseguenza. Il costo del lavoro quindi aumenta. In queste circostanze le imprese cercano di pagare il meno possibile ai lavoratori e di arrangiarsi. Come si vede il problema è nel sistema. Poi si parla del dualismo tra protetti e non protetti, quando si parla di precari, è sbagliato fare di ogni erba un fascio perché dobbiamo ricordarci che abbiamo contratti di apprendistato o di lavoro interinale che hanno garanzie di malattia, maternità, formazione. Sono contratti temporanei, ma vogliamo fare confronti con stages che durano un anno, false partite Iva e false collaborazioni? Andrebbe combattuta l’illegalità, vanno combattuti i

contratti falsi. Certo non si possono mandare i carabinieri dappertutto perché occorrerebbe un esercito, ma occorre inserire condizioni nuove per incentivare le imprese. Si può fare tanto ma attenzione: distinguiamo il lavoro temporaneo da quello non protetto. E sul contratto unico previsto dalla proposta di Ichino? Il contratto unico vuol dire riduzione dell’utilizzo del tempo determinato, ma questo a volte sfocia in contratti a tempo indeterminato. Va dato maggiore spazio alla contrattazione aziendale legata alla produttività. Poi bisogna parlare anche dei giovani. In Italia ci sono diversi primati negativi che li riguardano: scarso apprendimento scolastico, scarso orientamento post-universitario, tassi vertiginosi di drop out; inoltre è poco sviluppata l’offerta formativa tecnico-professionale che potrebbe interessare le piccole imprese per la transizione scuolalavoro. Inoltre il tasso più alto riguarda i senza lavoro e non coloro con lavori precari o temporanei. Il problema grosso è la disoccupazione. Poi va bene rivedere l’articolo 18 che potrebbe dar impulso alle imprese ma vanno messi sul tappeto tutti questi problemi. Oltre alla proposta di Ichino ce ne sono altre. Mettiamole tutte sul tavolo, così si evita di seguire le logiche perverse dei sindacati e le contrapposizioni. Ed evitiamo di trattare i giovani come categoria a parte. Si tratta di sentire cosa dicono le imprese, quali considerano come portatrici di maggiori alleggerimenti e quindi maggiori possibilità di assunzioni per i giovani. Ma per loro va incentivata la formazione, occorrono nuove politiche del lavoro che li aiutino. Un’ultima domanda: il reddito minimo. La sua opinione su questo? Abbiamo fatto diversi tentativi, potrebbe essere una scelta di civiltà ma si rischia di dare soldi in modo poco equo. Penso che occorra rafforzare il sostegno al reddito di chi perde il lavoro o anche ai giovani che finiscono di lavorare e sostenere con maggiori ammortizzatori sociali”.

FABRIZIO ONIDA

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La via giusta è quella di Ichino «Tutti siamo a rischio, anche chi ha un lavoro che pare sicuro» di Errico Novi

ROMA. Il campo della discussione non è dei più agevoli per l’inevitabile sovraccarico ideologico: chi cioè si occupa istitutivamente di mercato del lavoro – giuslavoristi, come Ichino, e sindacalisti, come la Camusso – è troppo immerso nel conflitto delle idee. Chi invece, come Fabrizio Onida, da economista non sconta la militanza permanente in uno dei due campi, perché specializzato in altro, può dare letture più distese. E appunto, dal professore di Economia internazionale della Bocconi viene fuori un’analisi

non scontata. Sulla potenziale impopolarità della riforma, innanzitutto. «Come sempre la comunicazione è importante. Non so se decisiva. Ma anche sui licenziamenti ha il suo rilievo. Ecco, credo che di fatto l’attuale situazione sia molto meno rassicurante di quanto si pensi anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Certo, oggi c’è una divaricazione di questo tipo: da una parte molti cassintegrati con certezze sul reddito, allineato con le retribuzioni recenti, dall’altra un numero grande di precari o

di disoccupati tout court, per non dire di chi nemmeno lo cerca più, il lavoro, cioè degli sfiduciati. Mi pare giusto uscire dallo stallo provocato da questo modello. E mi pare altrettanto chiaro che la via per uscirne sia comunque quella indicata da Ichino».

Bene, ma allora il punto, argomenta Onida, è un altro. Cioè, non necessariamente il muro ideologico, che ci sarà ma non è detto regga l’urto delle reali angustie psicologiche diffuse oggi anche in chi ha un contratto sicuro («perché la crisi espone tantissimi al rischio di perdere il lavoro semplicemente per il fallimento dell’azienda»). Non l’ostacolo da tutti immaginato, dunque. Piuttosto «l’effettiva funzionalità ed equità dell’eventuale nuova normativa. Bisogna capire se davvero risolva più problemi di quanti ne potrebbe creare. E questo soprattutto per una questione legata ai costi». Qui viene la parte più problematica del punto di vista di Onida, che tiene sempre a rilevare il fatto di non essere uno specialista


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LUCIANO GALLINO

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Ma non parlate di flessibilità «Subito il contratto unico. Senza liberalizzare i licenziamenti» di Riccardo Paradisi

e ho viste tante ma confesso il mio stupore quando sento dire che di fronte a un milione di disoccupati la risposta sarebbe l’incremento del precariato e una maggiore facilità di licenziamento».

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In basso l’economista Fabrizio Onida, che insegna economia presso la Bocconi di Milano. A destra Luciano Gallino, docente di Sociologia. Nella pagina a fianco il professor Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica presso l’Università Cattolica di Milano e collaboratore di Marco Biagi della materia. «Partiamo dal dato positivo. Dall’effettiva disfunzione del regime presente: se si guarda alla norma in sé e per sé, non è impossibile il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, cioè per difficoltà economiche dell’impresa. Questo alla lettera. Perché poi nella pratica è talmente complicato, sul piano giuridico e giudiziario, arrivare davvero a quel tipo di risoluzione del rapporto, che le imprese medio piccole sono comunque scoraggiate dall’assumere nuovi dipendenti. Soprattutto chi è al di sotto delle 15 unità».

Aspetto cruciale: il sistema in vigore scoraggia le aziende ad assumere con contratti a tempo indeterminato. Anche quando sono in fase espansiva, le imprese temono il sopraggiungere di nuove contrazioni nel senso che temono di non poter più ridimensionare il numero dei dipendenti se nel futuro ce ne

fosse la necessità. E allora preferiscono non crescere o assumere solo con contratti atipici. «Quindi tutte queste aziende troverebbero un effettivo vantaggio da una normativa come quella proposta da Ichino. La quale va però analizzata anche sul piano dei costi correlati. Se non sarebbe uno scandalo il fatto che ai vecchi assunti verrebbe lasciata la tutela dell’articolo 18, in molte medie e piccole imprese suscita perplessità il doversi caricare del sussidio da pagare ai licenziati nel secondo anno di mobilità». Nel primo, infatti, ricorda Onida, «secondo lo schema Ichino ci sarebbe una cassa integrazione classica, quindi a carico dei contribuenti. Nel secondo sarebbe a carico delle imprese. E per molte questo è un problema».

Vanno fatte dunque «le necessarie simulazioni. Mi pare soprattutto questo il nodo: verifi-

care nelle sue possibili conseguenze la riforma. Certo, poi c’ è da fare le dovute verifiche con i sindacati. Non solo con la Cgil, da quanto emerge». Se i costi sono il nodo chiave, lo sarebbero a maggior ragione se si arrivasse a soluzioni ulteriori e ipotizzate da più parti come quella del reddito minimo di inserimento. «Di cui è comunque prematuro parlare, perché servirebbe almeno qualche dettaglio in più: a chi si applicherebbe questo reddito? E quale sarebbe la sua consistenza? Certo è che se si vuole andare verso uno stato del benessere molto esteso quale se ne trova in qualche altro Paese europeo, servirebbe una lotta all’evasione durissima. Costruita sull’incrocio dei dati statistici, su una deducibilità delle spese che incoraggi il consumatore a farsi dare sempre lo scontrino. E un piano di due o tre anni, su questo, un governo serio deve proporlo. Ma intanto c’è la proposta Ichino, che non arriva al reddito minimo, che altri hanno contribuito a elaborare, Tito Boeri per primo e che il ministro Fornero conosce benissimo».

Luciano Gallino, sociologo dell’università di Torino e studioso del mondo del lavoro è molto critico verso quelle che lui chiama ”le ricette neoliberali” che vanno dallo smantellamento dell’attuale diritto del lavoro all’estensione incontrollata della flessibilità senza tutele e sufficienti ammortizzatori sociali. Un passo in avanti sarebbe invece, secondo Gallino, il contratto unico: «Un contratto che prevedesse che qualunque nuova assunzione avviene a tempo indeterminato o a tempo determinato ma regolare potrebbe essere un passaggio interessante. E non si vede perché questo passo in avanti, che ridurrebbe la massa dei precari, debba essere accompagnato da una maggior flessibilità in uscita». La risposta degli ambienti confindustriali è nota: perché le aziende hanno bisogno di maggiore elasticità nella gestione del costo del lavoro. «Non ho mai incontrato nulla che confermi un rapporto tra una maggior facilità di licenziamento e incremento della produzione» replica Gallino. La prova? «Il paese in cui esiste la maggior facilità di licenziamento al mondo - spiega il sociologo torinese - sono gli Stati Uniti: ecco lì il sogno del licenziamento facile è incarnato da sempre. Possono metterti fuori dall’ufficio in mezz’ora, per dire. Ebbene, negli Stati Uniti c’è un livello di disoccupazione altissimo. Dall’inizio del 2009 ha raggiunto punte del del 9-10 per cento. Non solo. La popolazione attiva è scesa dal 65% al 58%: un altro serio segnale di quanto la facilità di licenziamento gravi sulle persone che vengono deprofessionalizzate e scoraggiate a cercare nuove assunzioni che non avvengono». Ma da cosa deriva questa spinta ad un ulteriore giro di vite? «Da una fisima ideologica - di-

ce Gallino – A imprenditori e imprese andava abbastanza bene infatti il coacervo di contratti atipici introdotti dal 1997 in poi che hanno trovato coronamento nel decreto attuativo del 2003. La facilità di licenziamento è insita del resto nei contratti di breve durata ed è sufficiente non rinnovare il contratto. Si tratta di uno dei dogmi dell’ideologia neoliberale, una teoria del tutto onnipervadente e cieca». Un’ideologia a cui hanno aderito anche gli Stati, che invece di investire su infrastrutture, ospedali o carceri hanno, in questi anni, aiutato le banche. «Negli Usa il salvataggio delle banche è costato 15 trilioni di dollari, il Pil del paese, praticamente. In Europa il finanziamento alle banche è costato 100miliardi di euro. Nel Regno Unito 1,4 trilioni di sterline. Che poi ci sia qualcuno che pensi di risparmiare coi licenziamenti farebbe anche ridere se non ci fosse da piangere».

E sull’articolo 18? I suoi nemici dicono che solo l’Italia ha questa ipertutela sul lavoro dipendente. «In Germania i sindacati pesano molto più che da noi, la legge fondamentale, la costituzione tedesca insomma, li impone nei consigli di sorveglianza. Disegnano insieme alla proprietà la politica industriale, una cosa che in Italia non esiste». Risultato? «Nelle maggiori fabbriche, a differenza di quanto è accaduto in Italia con Fiat, che ha licenziato a Pomigliano d’Arco migliaia di operai, s’è trovato un accordo con i contratti di solidarietà: meno ore di lavoro e rinuncia al 4% dello stipendio. Non è stato licenziato nessuno. Un accordo che Wolksvagen ha introdotto in tutti gli stabilimenti». Questo ha contratto la produttività? Al contrario. Dato che in Germania hanno una politica industriale, e noi non ce l’abbiamo, la Wolksvagen è diventato un gigante. Peraltro l’industria meccanica tedesca paga in generale i suoi dipendenti il doppio degli italiani». Insomma di totem, tabù, narrazioni viziate da ideologia e malafede ce ne sono molte in circolazione.


mondo

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”Die Zeit” stila i peccati del Vecchio Continente che rischiano di far crollare il progetto europeo. Ma non dà colpe all’Italia

I sette vizi dell’Europa Atene è accidiosa, Madrid golosa, Parigi superba, Berlino avara e Londra avida di Luisa Arezzo ietro la facciata della solidarietà e dell’impegno europeista, ogni paese ha i suoi vizi privati che rifiuta categoricamente di ammettere o affrontare. Non è una reticenza da poco, perché è proprio l’indulgenza verso queste mancanze che rischia di far sprofondare il progetto europeo. Almeno secondo il quotidiano tedesco Die Zeit (per altro in prima linea assieme a Faz nel denunciare i rischi di una Germania, quella voluta dalla Merkel, la cui forza eccessiva potrebbe presto ritorcersi sia contro Berlino che contro Bruxelles), che stila i sette peccati dell’Europa. Scegliendo evidentemente di parafrasare i sette vizi capitali di biblica memoria. l’Accidia tocca alla Grecia, l’occultamento alla Svizzera, l’avarizia alla Germania, la gola alla Spagna, l’egocentrismo all’Irlanda, l’arroganza alla Francia e la cupidigia al Regno Unito. As-

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sente da questa classifica sui generis (e non è detto che sia un merito, anzi) l’Italia.

Cominciamo con l’autocritica, dunque con la Germania, colpevole di avarizia. Può mai esistere un’Europa nella quale un paese esporta e ne trae vantaggi mentre gli altri consumano e si indebitano? si chiede Die Zeit, mettendo il dito in una piaga aperta che Angela Merkel sta tentando in tutti i modi di nascondere, ovvero che la Germania venda all’estero più di quanto non compri in patria. Non è una contraddizione da poco: quest’anno le esportazioni tedesche verso i paesi dell’Ue hanno prodotto un’eccedenza di 62 miliardi di

Ogni Paese ha i suoi vizi privati che rifiuta categoricamente di ammettere o affrontare. Non è una reticenza da poco, perché è proprio quest’indulgenza la vera malattia dei Ventotto euro. Il che significa che le merci prodotte in Germania non sono scambiate con merci prodotte all’estero, ma sono per così dire consegnate a credito. L’Europa del sud si indebita nei confronti dei tedeschi per comperare prodotti made in Germany. In altri termini, la ricchezza dei tedeschi

dipende interamente dall’indebitamento dei paesi vicini. E chi sono i primi a lamentarsi di tali debiti? Proprio i tedeschi. Qualcosa dunque non va, anche perché i tedeschi non comprano altrettanto da fuori e soprattutto cercano furiosamente di evitare che le esportazioni degli altri 27

(da ieri in realtà 28 con la Croazia) possano toccare picchi troppo importanti o quantomeno raggiungere un certo equilibrio all’interno della stessa Ue. Equilibrio che per un peccato punto diverso, quello dell’arroganza, la Francia non aiuta certo a conquistare. Un esempio per tutti: il caso Areva. Dieci giorni fa il gruppo nucleare francese ha ha espresso l’intenzione di sopprimere migliaia di posti di lavoro. Ma i dipendenti non devono preoccuparsi: «Non vi sarà alcun impatto sul paese. Questa è la li-

Il governatore della Bce al Parlamento europeo: «Continueremo a dare soldi alle banche per finanziare il credito al consumo»

L’affondo di Draghi: «L’euro è irreversibile» ROMA. «L’Eurozona è ancora soggetta ad alta instabilità». A dirlo non è un catastrofista dell’ultima ora, pronto ad accodarsi ai cori di pessimismo che ormai si sentono ad ogni angolo della strada, ma Mario Draghi, presidente della Bce, durante l’audizione presso la Commissione Parlamentare per gli Affari Economici dell’Europarlamento avvenuta ieri. Ed è quindi il caso di rizzare le antenne quando l’ex numero uno di Palazzo Koch si esprime. D’altronde, già il giorno prima, in un’intervista al Financial Times, Draghi aveva voluto sottolineare come la crescita economica mondiale stia decelerando e come l’incertezza, al contrario, stia aumentando. Per arginare l’emergenza, è necessario ripristinare la disciplina fiscale nell’area euro e accelerare l’attuazione del fondo

di Marco Scotti salva stati che allenterà le pressioni sui bond (i titoli di stato costantemente sotto attacco da parte della speculazione) e sulle banche. Oltretutto, non è compito

zione economica europea. Il ritratto è a tinte fosche, come testimoniato da un dato su tutti: l’inflazione, che si attesterà ben oltre la soglia critica del 2%. Come

Secondo il capo di Eurotower «il nuovo patto di bilancio dei 26 Paesi che lo hanno firmato è un segnale essenziale, che dimostra la traiettoria per la futura evoluzione dell’eurozona» della Bce finanziare gli Stati con conti problematici, poiché questo sarebbe contrario ai trattati.

Con queste premesse, c’era grande attesa per il discorso di Draghi che, dopo l’esordio non proprio incoraggiante, ha voluto dipingere un quadro della situa-

è noto, l’inflazione aumenta al diminuire del costo del denaro, procedimento già realizzato in due occasioni dall’insediamento di Draghi alla Bce. D’altronde, la riduzione del costo del danaro porta sì a un aumento dei prezzi ma, al contempo, permette una maggiore apertura di credito da parte delle banche,

con conseguente rilancio per l’economia. Finora, però, i risultati sperati non sono stati raggiunti. E ci si trova in una situazione di immobilismo perché, qualora Draghi decidesse di aumentare il costo del denaro per tamponare l’inflazione, si troverebbe di nuovo di fronte a un minore accesso al credito, con conseguente, ulteriore frenata dell’economia. Per questo motivo, «le misure straordinarie della Bce per le banche, come i prestiti a tre anni, servono per stabilizzare il funding e per dare la possibilità agli istituti di continuare a prestare a imprese e famiglie». Insomma, l’Eurotower ha ancora tutte le intenzioni di esercitare il proprio – importante – ruolo a tutela dei cittadini dell’Unione. E ancora a proposito delle banche, il numero uno della Bce ha voluto sottoli-


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Motivo per cui rientra nel girone della cupidigia. I britannici sembrano vivere in un’altra dimensione - scrive Die Zeit - e cercano di continuare a compensare le perdite della loro industria speculando con i capitali esteri. Sempre uguali a sé stessi, continuano a seguire la logica secondo cui i mercati sono invincibili e la politica e la società sono obbligati prima o poi a sottomettersi alla loro legge. Il punto è che spinto agli estremi, il liberismo di John Stuart Mill e di Adam Smith ha permesso l’affermazione nella City londinese di un sistema finanziario privo di una vera regolamentazione, dove sono stati messi a punto tutti i sofisticati prodotti finanziari – strumenti derivati e titoli sui crediti – responsabili del crollo del 2008. In questo modo miliardi di euro, provenienti da conti correnti e fondi pensione di privati cittadini, sono andati in fumo. Ma sono stati i banchieri della City a essere risarciti. La crisi del debito sovrano risale al momento in cui i governi sono stati costretti a fornire capitali alle banche. Ma a Londra la proposta di associare gli investitori al rischio scatena grida di terrore. La tassa sulle

di prendersela con i veri responsabili ellenici. «Preferiscono inveire contro uno spaventapasseri lontano piuttosto che far pulizia in casa propria» scrive Die Zeit. Insomma, per i greci il problema non sarebbe originato dal loro indebitamento, bensì dal fatto che gli stranieri li richiamino all’ordine, li incalzino ad agire, facciano loro la morale. Reagendo in questo modo, però, negano l’evidenza a loro stessi e mentono all’Europa.

Esattamente come fanno gli svizzeri, in questo caso accusati di occultamento. Le somme di denaro nascoste sono colossali, denuncia il quotidiano tedesco. Talmente colossali che dovrebbero far spalancare gli occhi ai responsabili politici europei. Soltanto in Svizzera i privati – in gran parte europei – tengono nascosti 1.560 miliardi di euro. Altri 1.400 li hanno occultati in Gran Bretagna, per lo più nelle isole della Manica; 440 in Lussemburgo, 78 nel Liechtenstein.Tutti questi paesi sono complici di evasione fiscale: prelevano le ricchezze delle altre nazioni e campano di interessi. Come reagisce l’Europa? Invece di indignarsi con una

La Svizzera occulta consapevolmente somme di denaro colossali. Ma le capitali Ue invece di indignarsi con una voce sola considerano questo scandalo una sorta di vecchia tradizione nea voluta dallo stato», ha fatto sapere il ministro dell’economia François Baroin dopo le prime fughe di notizie. Baroin ha subito convocato il responsabile di Areva Luc Oursel ribadendogli: «Indipendentemente dall’impatto della crisi, nessuna revisione considererà l’occupazione come una variabile utilizzabile a piacimento». Una priorità che, ahinoi, vale solo per l’occupazione francese. Non solo: i politici francesi diventano europeisti convinti non appena si rendono conto di non poter più andare avanti da

soli. Ciò ha portato alla creazione di Eads, leader europeo nel settore aeronautica e difesa, e all’interesse per una possibile alleanza nel settore della costruzione navale.

È stato l’allora ministro dell’economia e attuale presidente della repubblica, Nicolas Sarkozy, a impedire a Siemens di entrare in Alstom, il suo concorrente francese. Ma lo stesso Sarkozy aveva organizzato nel 2004 l’acquisto del gruppo farmaceutico franco-tedesco Aven-

tis da parte dei francesi di Sanofi, dando vita al terzo gruppo mondiale del settore. E sempre su sua richiesta la formula che raccomandava un mercato interno «in cui la concorrenza è libera e non falsata» è stato cancellato dal trattato di Lisbona. Per quanto ancora l’Unione europea tollererà tanta arroganza, si chiede il quotidiano tedesco? Restando fra i grandi dell’Europa, c’è il Regno Unito il cui destino Cameron cerca sempre di più di sganciare da quello della Ue. Almeno sotto il profilo finanziario.

transazioni finanziarie, sostenuta dal governo tedesco – che potrebbe mettere fine alle speculazioni a breve termine sul mercato delle valute – è stata definita dal ministro dell’economia George Osborne «un proiettile d’argento al cuore della City». Ecco perché secondo Die Zeit chi continua a voler nuotare controcorrente farebbe bene a cercare un altro fiume. È il peccato dell’accidia quello che invece tocca ai greci, colpevoli di accusare la Merkel per le difficoltà che stanno vivendo ed incapaci

neare come proprio gli istituti di credito saranno oggetto di una attenzione particolare da parte della Banca Centrale Europea, visto che anche il 2012 sarà un anno difficile per le banche. Si farà di tutto per evitare il famigerato “credit crunch”, cioè la contrazione del credito che porta a pericolosi rallentamenti dell’economia.

Durante l’audizione, alcuni membri dell’Europarlamento hanno domandato a Draghi che cosa intendesse quando, nell’intervista al Financial Times, affermava che un’eventuale uscita dall’area euro non sarebbe per nulla indolore per un paese che decidesse di affrontarla e, anzi, comporterebbe la necessità di affrontare riforme strutturali senza avere più il sostegno dell’Ue. Si avrebbe, di conseguenza, un breve sollievo seguito poi da momenti di estrema difficoltà. Il numero uno della Bce ha risposto agli europarlamentari che, a suo giudizio, l’euro è un sistema “irreversibile” e che, di conseguenza, non prende neanche in considerazione la possibilità di una fine

della moneta unica e di un ritorno al vecchio sistema valutario. Non solo, Draghi ha voluto ammonire tutti i presenti che eventuali elucubrazioni sulla fine dell’euro hanno un costo finanziario non indifferente, come testimoniato dai continui attacchi speculativi che

fanno riferimento sempre all’ipotesi di una fine della moneta unica e che si traducono in un aggravio di interessi per le casse degli stati membro.

Un costo che hanno anche le agenzie di rating che, attraverso il loro sistema

voce sola, le capitali europee considerano queste pratiche scandalose alla stregua di vecchie tradizioni, di affari diplomatici. Eppoi predicano la solidarietà europea. Predica bene e razzola male anche la Spagna, golosa dei sussidi Ue all’agricoltura più di qualsiasi altro Paese e infine l’Irlanda, la più egocentrica di tutte. Che continua ad attirare le imprese internazionali come una calamita in virtù del fatto che Dublino tassa le società solo al 12,5 per cento, cioé molto al di sotto della media europea (il 30 per cento).

di valutazioni, hanno determinato a più riprese momenti difficili nella finanza recente: sia valutando come “spazzatura” azioni od obbligazioni per niente alla frutta e decretandone il deprezzamento; sia, al contrario, considerando solidissime società come – un esempio su tutti – Lehmann Brothers che, pochi giorni prima di dichiarare fallimento, era ancora considerata una solida certezza nel mercato azionario mondiale. Proprio alle “tre sorelle”Draghi ha voluto rivolgere un avvertimento: “È necessario ridurre la pratica di ricorrere al rating nella legislazione e nei mercati”. Per questo serve un quadro “chiaro e robusto di norme per ridurre la volatilità, migliorare la qualità del rating e ripristinare la fiducia dei mercati”. Più chiaro di così… Infine, l’attenzione del numero uno della Bce si è focalizzata sul nuovo patto di bilancio che «rappresenta una svolta in termini di impegno per regole di bilancio più trasparenti e sane». Sperando che il 2012 non sia – come predetto dai Maya – l’anno della fine. Quantomeno del sistema euro.


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umanità oggi è ben consapevole della varietà di minacce che si profila sulla sua testa. Sappiamo che il numero di persone che vivono sul nostro pianeta sta crescendo a un ritmo vertiginoso. Sappiamo che sarà pressoché impossibile sfamare tante persone. Sappiamo che l’abisso già profondo che separa i poveri dai ricchi del pianeta potrebbe estendersi ancora, pericolosamente, a causa di questo rapido incremento demografico. Sappiamo quanto sarà difficile per le persone delle diverse nazionalità e culture convivere tutte accalcate insieme. È anche noto che l’umanità moderna stava e sta distruggendo l’ambiente da cui dipende la sua esistenza; che sta esaurendo a velocità sempre maggiore le fonti di energia non rinnovabili e le altre ricchezze di questo pianeta; che le sue attività stanno contribuendo al surriscaldamento del globo, all’incremento dell’effetto serra e all’allargamento dei buchi nello strato di ozono, e alternando l’equilibrio di tutti gli ecosistemi. Tutti conosciamo, anche, il pericolo verso cui si dirige l’umanità, realizzando, producendo e diffondendo armi di distruzione di massa. E, infine, sappiamo tutto dell’aumento attuale e di quello previsto nel futuro dei problemi sociali, della criminalità, del consumo di droga e delle varie forme di alienazione e frustrazione nel caso di un’ulteriore concentrazione di persone in grandi agglomerati che distruggono le comunità e i legami umani naturali.

L’

C’è un paradosso: nonostante l’umanità contemporanea sia consapevole di questi pericoli, non fa quasi nulla per

Solo lo spirito che anima le religioni può invertire il destino del nostro tempo affrontarli o evitarli. E trovo affascinante quanto le persone si preoccupino oggi di ogni genere di prognosi catastrofiche, ma quante poche persone tengono tutto ciò in considerazione nelle loro attività quotidiane.

Oggi, la cosa più importante che possiamo fare è studiare le ragioni per cui l’umanità non fa nulla per evitare queste minacce e per cui si lascia trasportare avanti da una sorta di moto perpetuo, non toccata né dalla consapevolezza di sé, né dalla percezione delle scelte future. Sarebbe ingiusto ignorare l’esistenza di numerosi progetti volti a evitare o limitare questo pericolo, oppure negare che è stato fatto molto per la realizzazione di tali progetti. Ciononostante, tutti i tentativi di questo tipo hanno una cosa in comune: essi non toccano affatto i trend di sviluppo di base da cui vengono fuori i pericoli di cui parlo, ma regolano semplicemente l’impatto di tali trend. Che cosa potrebbe veramente arrestare il moto perpetuo che finora non siamo stati capaci di controllare? Sono profondamente convinto che l’unica possibilità sia un cambiamento nella sfera dello spirito e dell’umana coscienza, nel reale atteggiamento dell’uomo nei con-

il paginone fronti del mondo. Non è sufficiente inventare nuove macchine, nuove regole o nuove istituzioni. Dobbiamo comprendere in modo diverso e più perfetto il vero scopo della nostra esistenza su questa terra. Solo tale comprensione consentirà lo sviluppo di nuovi modelli di comportamento, nuove scale di valori e nuovi obiettivi di vita.

Ogni volta che ho incontrato un qualsiasi tipo di profondo problema civile in ogni parte del mondo - sia esso il disboscamento delle foreste pluviali, l’intolleranza etnica o religiosa o la brutale distruzione di un panorama culturale che aveva impiegato secoli a svilupparsi - da qualche parte in fondo alla lunga catena degli eventi che avevano causato il problema in questione ho sempre trovato una medesima causa: una mancanza di responsabilità nei confronti del mondo. Ci sono innumerevoli tipi di responsabilità, che variano a seconda degli individui. Ci sentiamo responsabili verso noi stessi o per noi stessi, per la nostra salute, la nostra performance, il nostro benessere; ci sentiamo responsabili per le nostre famiglie, le nostre aziende, le nostre professioni, partiti politici, chiese, religioni, nazioni o Paesi; e da qualche parte sullo sfondo di tutti questi sentimenti di responsabilità c’è, in ognuno di noi, un piccolo sentimento di responsabilità per il mondo nel suo insieme e per il suo futuro. Sappiamo che il mondo non finisce nel momento della nostra morte e che è sbagliato comportarci come se l’arrivo del diluvio dopo che ce ne siamo andati non ci interessasse. Ma a me sembra che quest’ultima e più grande responsabilità, la responsabilità per il mondo, sia diventata una priorità molto bassa; pericolosamente bassa, considerando che oggi il mondo è un luogo molto più intercollegato di quanto non sia mai stato, e che di fatto stiamo vivendo un destino globale. Al tempo stesso, il nostro mondo è dominato da molti grandi sistemi religiosi, le cui differenze sembrano venire alla ribalta con evidenza crescente e che in verità costituiscono lo sfondo di vari conflitti, reali o potenziali, politici e armati, nel presente e nel futuro. A mio modo di vedere questo fatto nasconde in qualche modo una circostanza notevolmente più sostanziale: la civiltà globale contemporanea in cui sta avendo luogo la tensione religiosa è in sostanza profondamente atea. Invero, essa è la prima civiltà atea nella storia dell’umanità. Il fatto che l’umanità pensi soltanto nell’ambito di ciò che si trova nel suo campo visivo e che sia incapace di ricordare anche ciò che si trova oltre, sia nello spazio che nel tempo, non potrebbe essere il risultato di una perdita di certezza metafisica? L’intera natura dell’attuale civiltà, con la sua miopia, con la sua orgogliosa enfasi sull’uomo come coronamento di tutta la creazione - e il suo padrone - e con la sua limitata fiducia nell’abilità del consorzio umano di abbracciare l’universo attraverso la conoscenza razionale, non potrebbe essere tutto solamente la naturale manifestazione di un fenomeno che, in parole povere, consiste nella perdita di Dio? O più precisamente: la perdita del rispetto per l’ordine dell’esistenza di cui non siamo i creatori bensì i semplici componenti? La crisi

Può sopravviv una società a di Vaclav Havel

Ripubblichiamo un testo scritto per ”liberal” nel 1998 dal grande intellettuale scomparso. Una riflessione sul rapporto tra valori, libertà e religione

della responsabilità nei confronti del mondo nel suo insieme e del suo futuro non potrebbe essere soltanto la logica conseguenza di una concezione del mondo che non si interroga sul significato dell’esistenza e che abbandona qualsiasi metafisica o le sue stesse radici metafisiche?

Da molti anni rifletto sulle questioni e i paradossi fondamentali della civiltà contemporanea e mi sono sempre più convinto che la crisi dell’indispensabile responsabilità globale è dovuta sostanzialmente al fatto che abbiamo perso la sicurezza che l’Universo, la natura, l’esistenza e le nostre vite sono l’opera di una creazione guidata da una precisa intenzione, che ha un significato preciso e che persegue uno scopo preciso. Questa perdita è accompagnata dalla perdita del sentimento che qualunque cosa facciamo deve essere soggetta al riguardo per l’ordine superiore di cui siamo parte e al rispetto per la sua autorità nel cui campo visivo ciascuno di noi è permanentemente presente. A partire dalla caduta del sistema coloniale e dalla fine della divisione bipolare del mondo, anche a causa del boom demografico e della crescente fiducia in sé e influenza di

vari Paesi e continenti che si trovano al di fuori dei limiti della sfera di civiltà euro-americana finora dominante, l’umanità sta entrando in un mondo i cui tratti caratteristici sono il multipolarismo e la multiculturalità. E sino ad ora, sembrerebbe che più le varie civiltà e gruppi culturali e religiosi sono stretti dai legami di una singola civiltà globale, più essi enfatizzano la loro sovranità, la loro identità inalienabile, la loro specificità, o semplicemente ciò in cui differiscono dalla cerchia degli altri gruppi. È come se si vivesse in un’epoca di accentuata «alterità» spirituale, religiosa e culturale. Questo accento crescente è in verità un’altra grande minaccia per questo mondo.

Ma come fare per riportare nella mente degli uomini un’attitudine comunque nei confronti di ciò che è in alto, se ovunque nel mondo gente ha immagini differenti di ciò che è nei cieli e ovunque sente il bisogno di sottolineare questa «alterità»? Iniziando dal punto di partenza - cioè, che questo mondo e la nostra esistenza non sono una bizzarra chance che ha scarso significato, ma sono parte di un atto misterioso, nondimeno totale, le cui fonti, direzione e scopo sono per noi ardue


ivere atea?

il paginone da percepire nella loro interezza - sino al vasto complesso di imperativi morali che l’atto implica, tutto questo sembra unire in modo sorprendente i vari sistemi religiosi, mentre gli aspetti specifici delle loro tradizioni, accenti, liturgie e interpretazioni, rimangono, secondo me, un fattore immensamente importante ma non dominante. Ciò che domina realmente è la somiglianza di ciò che le varie religioni ci chiedono in quanto esseri umani, oppure come esse ci percepiscono.

Forse la via di uscita dalla cupa situazione attuale si potrebbe trovare nella ricerca di ciò che unisce le varie religioni e culture, nella ricerca di sorgenti, principi, certezze, aspirazioni e imperativi, una ricerca rivolta allo scopo; e quindi, applicando mezzi idonei ai bisogni del nostro tempo, potremmo favorire tutte le questioni dell’umana coesistenza e rinvigorire, al tempo stesso, il pianeta su cui siamo destinati a vivere, inondandolo con tutto lo spirito di ciò che vorrei definire il minimo comune spirituale e morale. Credete che questo potrebbe essere un modo per arrestare quel cieco moto perpetuo che ci sta trascinando all’inferno? O ritenete che un simile recupero universale dello spirito umano potrebbe essere provocato solo da qualche disastro senza precedenti? Pensate che le persuasive parole delle persone sagge siano sufficienti per realizzare ciò che va fatto, o che avremo bisogno, come in passato, di profeti carismatici o di moderni messia o anche di qualche sorta di miracolo storico?

20 dicembre 2011 • pagina 9

Il teologo americano ricorda gli incontri con il protagonista della dissidenza anti-sovietica

Omaggio a Vaclav Havel, l’uomo (e l’eroe della verità) che avrei voluto essere di Michael Novak aclav Havel è stato l’eroe che da ragazzo avrei voluto essere: un artista di caratura mondiale, un dissente che per il proprio coraggio ha patito quattro anni di reclusione, un presidente saggio ed eloquente di una nazione appena liberata, un uomo sfacciatamente onesto che per la stessa onestà si può collocare tra coloro che «si rifiutarono di vivere nella Menzogna». Una volta, quando finalmente il Congresso mondiale cecoslovacco fu libero di potersi riunire nel proprio Paese, nel 1990, andai con loro nel famoso pellegrinaggio che veniva fatto ogni anno in una zona montuosa del Paese. Un’escursione a piedi, anche sotto la pioggia, che in passato vedeva migliaia di contadini, per due o tre notti all’addiaccio, pregare nel tentativo di sfidare il regime di allora, ateo e aggressivo. Quella volta invece il neoeletto presidente Havel arrivò dall’allora Cecoslovacchia per rendere omaggio a questo appuntamento. I leader del Congresso mi avevano inserito nella delegazione che avrebbe dovuto parlare con Havel. Mi disse che lui e i suoi amici avevano studiato The Spirit of Democratic Capitalism (libro di Novak pubblicato nel 1982, ndt) un capitolo alla volta, nella sua villetta appena fuori Praga. E mi aveva invitato a fargli visita. L’ho preso in parola più di una volta. In quelle occasioni era lui a parlare, con quel misto di passione e distacco, grande visione e forte impegno, io rimanevo praticamente senza parole.

V

Ci sono poche persone a questo mondo alla cui presenza uno si possa sentire così tranquillo e al contempo essere testimone di tanta grandezza. È come un fuoco pieno di verità che brucia. Ma Havel il presidente, il drammaturgo, il politico è stato anche generoso con coloro che considerava degli amici. Aveva invitato una cinquantina di artisti e intellettuali ai suoi incontri, tra il pubblico e il privato, di «Forum 2000», appuntamenti che si sono svolti fino allo scorso anno. La maggior parte veniva dall’Europa, un gruppetto dall’America e un’altra manciata dall’Asia. Sono stati prodotti documenti. Un succinto manifesto politico è stato discusso con un dibattito democratico e appassionato, firmato e reso noto durante un incontro pubblico. Ogni anno, abusi sui diritti umani che venivano ignorati dalla maggior parte della stampa mondiale, diventavano oggetto delle lettere di Havel, stilate a Praga con i suoi collaboratori più stretti e poi fatte girare per la raccolta delle firme. Un anno mi invitò nella capitale ceca per alcuni brevi colloqui e per consegnarmi la più alta onoreficenza che il governo ceco può attribuire a un

cittadino straniero: il premio Thomas Garigue Masaryk (dal nome di un eroe di Havel) le cui analisi sul comunismo scritte nel 1920, mi furono presentate ad Harvard come le migliori mai fatte sul marxismo. Insomma, alla presenza di Havel e di tanti eroi che avevano sofferto, mi sentivo un ipocrita.

Nel 1978 ero stato invitato a Praga per tenere un discorso in favore di «Charta 77». I coraggiosi firmatari di quella protesta contro il regime languivano in prigione. Ma proprio quando mi stavo accingendo a prendere il treno per Praga dalla Polonia, l’ambasciata americana mi fece sapere che il mio visto era stato improvvisamente revocato, ed io non osai salire su quel treno. Era il 1978 e la loro sofferenza durò fino alla grande protesta che mise fine al regime, più di un decennio più tardi. Un altro esempio di ciò che erano le persone che circondavano Havel durante quei lunghi anni: un giovane e coraggioso praghese, Pavel Bratinka, fu tra quelli che alla fine vennero arrestati. Era un fisico nucleare molto promettente e suo suocero era un alto funzionario del Partito comunista cecoslovacco. Il che non lo salvò dall’essere privato di ogni possibilità di studio e di lavoro. E condannato ad anni di lavori forzati, come fuochista a spalare carbone in un grande edificio residenziale. Invece di piangere sulla propria sorte, Bratinka scoprì che lavorando alacremente avrebbe potuto finire presto i compiti da fuochista e dedicarsi alla lettura di libri. Letture di libertà. Tenuti costantemente d’occhio dagli informatori che li circondavano, a volte tra gli stessi amici e tra i vicini di casa più degni di fiducia, questi eroi sapevano bene di essere impotenti e che nessuno avrebbe mai saputo del loro destino, nessuno avrebbe potuto modificarlo oppure occuparsene. Non passava giorno in cui ognuno di loro potesse sfuggire alla grande Menzogna. Bratinka e anche altri mi hanno confessato che la cosa peggiore era la certezza apparente che non ci fosse giustizia in questo mondo. I delinquenti governavano e avrebbero continuato a governare. I dissidenti venivano schiacciati, con l’amara certezza che non ci sarebbe stato alcun sollievo a ciò che stavano passando per un altro mezzo secolo, ben oltre il tempo della loro fine. Questa era la cosa più difficile di tutte. In America nessuno di noi doveva affrontare niente di simile, rispetto a questi uomini e donne straordinari. Questi erano esseri umani che si erano rifiutati di vivere nella Menzogna. Anche quando la Menzogna è esplosa tutta intorno, il loro coraggio è rimasto costante, come lo stesso Havel ha dimostrato e ispirato in molti altri. Havel è il campione di coloro che «liberarono i prigionieri» che minarono la persistente Menzogna pubblica, con semplice onestà, che hanno sofferto terribilmente per la loro generosa, buona, coraggiosa e perseverante azione («Nessuna buona azione resterà impunita»). E poi nell’ultimo atto hanno portato l’inferno a crollare, senza violenza, senza spargimento di sangue, ma con un guanto di velluto. Il «guanto» della costante affermazione della verità. Potremmo dover aspettare a lungo prima di rivedere un altro Vaclav Havel.


mondo

pagina 10 • 20 dicembre 2011

Solo Hillary Clinton ha ammonito gli egiziani di astenersi da ogni violenza

Le battaglie tradite In Egitto l’esercito costruisce un muro di cemento all’ingresso di piazza Tharir e in Siria la Lega Araba cerca di salvare Assad. Alla faccia della svolta di Antonio Picasso a Lega araba trasforma la crisi siriana in una farsa. Dopo settimane di tira e molla, Damasco ha dato il suo ok all’ingresso, entro i confini nazionali, di un gruppo di inviati della Lega a controllo della repressione in corso. E già dopodomani sono attesi i primi operatori. Il regime di Bashr elAssad apre la porta ai suoi vicini di casa, dopo oltre nove mesi di manifestazioni e scontri in cui sembra che abbiano perso la vita almeno cinquemila persone. La fonte delle cifre è l’Onu, ma la Lega araba vuole toccare con mano. Il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Mollaem, si sarebbe fatto garantire il rispetto della sovranità territoriale del suo governo. Per Damasco è una vittoria, perché risponde alle richieste che aveva avanzato di internazionalizzare la crisi interna. «Chi vuole il bene della Siria e del suo popolo non ci impone sanzioni economiche e cerca di portare la nostra crisi al tavolo della diplomazia mondiale.

L’ultimo rapporto di Geopolicy indica che le perdite per i Paesi interessati dalle rivolte hanno già superato i 55 miliardi di dollari

L

Non è colpa nostra, però, se è stato perso tempo in questi giorni». L’obiettivo siriano era appunto di uscire dal cordone sanitario delle sanzioni. Usa e Ue hanno già ridotto sensibilmente i rispettivi rapporti con il regime. Ma lo stesso non si può dire di Cina e Russia. Il che esclude un embargo in sede Nazioni Unite. A questo punto, il modo in cui viene coinvolta la Lega permette ad Assad di rientrare sfacciatamente a testa alta nella comunità internazionale. In caso di un’inchiesta successiva ai report che gli osservatori redigeranno, il presidente siriano non sarà passibile né di denunce né di accuse per crimini contro l’umanità. Almeno così è per il momento. Per quel che ri-

Il prezzo della Primavera è salato e i benefici li godono i paesi del Golfo di Mario Arpino l costo della democrazia è salato, come sanno bene quei Paesi che con tanto entusiasmo – ma con risultati tuttora incerti – stanno confusamente cercando di conquistarla. Secondo un rapporto del gruppo Geopolicy riferito allo scorso ottobre, che utilizza dati ricavati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), il prezzo più alto – da proiettarsi in prospettiva – sinora lo hanno pagato e lo stanno ancora pagando Egitto, Siria, Libia e Yemen. Per chi non aveva niente, come la Tunisia, il bilancio è in pareggio: continua a non avere niente. Al contrario, ne hanno tratto consistente vantaggio i paesi del Golfo produttori di petrolio. Secondo la stessa fonte, già ad ottobre le perdite globalmente assommavano a oltre 55 miliardi di dollari, con impatto diretto negativo sul Prodotto Interno Lordo (Pil), tanto da far ritenere che senza l’applicazione di un programma regionale o esterno per un robusto sostegno finanziario le sorti di questi Paesi potrebbero rimanere recessive per diversi anni, con le immaginabili conseguenze anche sull’evoluzione politica di queste rivolte.

I

Il supporto promesso dal G8 di Deauville del maggio 2011 non si sarebbe mai materializzato – solamente Qatar (motu proprio) e Stati Uniti avrebbero sinora messo mano al portafoglio – come pure i 100 miliardi di dollari stanziati dal G20 sono ancora di là da venire, e potrebbero rimanere solo una promessa. Non sarebbe la prima volta. A tutto ciò ci sarebbe da aggiungere il costo in vite umane, purtroppo ancora in tragica evoluzione, e il danno subito dalle infrastrutture produttive, abitative e dei servizi. Chi è sceso nelle strade, insomma, nel breve e medio

termine è destinato a non vedere alcun beneficio, con rischi che – sommati alla strisciante avanzata delle forze islamiche più estreme – in una visione pessimistica sembrerebbero largamente prevedibili. Siria, Libia eYemen sono ancora in piena bagarre, una stabilizzazione sembra lontana ed è ancora molto difficile fare i conti in modo anche solo lontanamente

nomia egiziana risulta devastata. Gli investimenti esteri sarebbero scesi del 26 per cento e il Pil del 4,2, con una crescita del debito pubblico del 30 per cento. Le riserve di valuta straniera sarebbero calate del 40 per cento, mentre la fuga degli investitori è costata finora 7 miliardi di dollari, con una vistosa impennata negativa del saldo della bilancia dei pagamenti. L’industria turistica, con gli integralisti islamici che cercano di imporre la separazione tra uomini e donne a Sharm el-Sheik e ad Hurghada, nel 2011 sinora ha già subito una contrazione del 33 per cento delle presenze e del 35 per cento degli introiti. Anche la lunga campagna elettorale, che non finirà prima di giugno prossimo, sta paralizzando i ceti produttivi e le attività imprenditoriali.

Diverso è il discorso se, dai casi dei singoli Paesi, si valuta l’impatto economico-finanziario sull’intera regione che, nel complesso, dagli eventi della “primavera” sembrerebbe aver tratto profitto. Mentre Siria, Egitto, Libia e Yemen sarebbero, come si è visto, i paesi più penalizzati, Kuwait, Emirati, ed Arabia Saudita risultano quelli maggiormente beneficati. Dell’Egitto abbiamo già parlato, ma la Libia avrebbe avuto un calo dell’84 per cento dei propri introiti, e lo Yemen del 77 per cento. Al contrario, l’Arabia Saudita avrebbe visto i propri incassi salire del 25 per cento, e gli Uae del 31. Come sempre, piove sul bagnato!

Il conto lo hanno pagato Egitto, Siria, Libia e Yemen. Chi non aveva niente, come la Tunisia, continua a non avere niente attendibile. L’Egitto, che è sempre stato un preciso riferimento per tutto il mondo arabo, non ha subito in modo eccessivo lutti e devastazioni, ma ciò nonostante sta pagando un prezzo che, sebbene in termini riduttivi, possiamo considerare emblematico. Giovanni Porzio, inviato di Panorama, ci fornisce dati più recenti di quelli divulgati nello scorso ottobre da Geopolicy. Con un tasso di crescita sceso rapidamente dal 7 all’1 per cento, l’eco-


mondo

20 dicembre 2011 • pagina 11

nuncia di scontri a Homs, città epicentro della rivoluzione. Secondo gli oppositori, tra domenica e lunedì ci sarebbero stati più di trenta morti. Gli uomini di Assad ricorrono all’artiglieria per sedare le manifestazioni. Ma per questo non serve che gli osservatori arabi vadano a controllare. Le immagini che ci arrivano via web dovrebbero essere eloquenti. Invece no, la Lega vuole toccare con mano.

Passiamo all’Egitto. In nove mesi, in piazza Tahrir non è cambiato nulla. Vi si rischiò un bagno di sangue a marzo, quando Mubarak ipotizzò di circondarla con i carrarmati. Il pericolo si è palesato nuovamente il mese scorso in vista delle ele-

me non stia facendo nulla di male. C’è anche da dire, infine, che già in passato era stato sventolato lo spauracchio di un incendio doloso, organizzato per ragioni politiche e la cui responsabilità venne attribuita ad altri. Correva l’anno 1933. La vittima del rogo fu il Reichtag della debole repubblica di Weimar. La firma dell’incendio era nazista, ma i futuroi aguzzini d’Europa si dimostrarono tanto astuti da accusare i comunisti e far cadere nella trappola l’intera Germania. L’evento segnò la definitiva ascesa di Hitler al potere. Se gli accostamenti storici hanno ancora una ragion d’essere, il teorema può essere che la Giunta militare voglia far passare gli islamisti – o i loro ac-

La giunta militare egiziana, spaventata dall’esito elettorale, sta cercando di far passare gli islamisti come i mandanti di un attentato alle istituzioni. Così il potere resta in mano loro In alto, i moti di piazza Tharir, dove ieri si sono contate nuove vittime. In basso, il presidente siriano Assad, che continua il suo gioco a rimpiattino con la Lega araba

guarda il futuro sul lungo periodo, la Siria ha sempre navigato a vista e così spera che un domani la brutalità di oggi venga dimenticata. Del resto i presupposti di una misitificazione ci sono già tutti. La Lega araba ha tergiversato in maniera sorprendente. Ha gestito la questione dalla propria sede istituzionale, al Cairo, vale a dire da una città a rischio guerra civile. Difficile che l’organizzazione sia riuscita a seguire i fatti accaduti a Damasco e dintorni con le lenti dell’obiettività. C’è poi la questione di chi verrà a mandato in Siria. Una prima squadra sarà capeggiata dal vicesegretario della Lega Araba, il generale Samir Seif al-Yazal, e composta da osservatori giuridici, amministrativi e della sicurezza, nonché esperti di diritti umani. Tutti esponenti di governi modello, per quanto riguarda democrazia, libertà individuali e Stato di diritto.

Da queste colonne si è detto più volte che alla Lega araba ormai convenga sacrificare Assad e il regime Baath, onde evitare che il germe della primavera araba torni nuovamente a fiorire il prossimo anno in altri Paesi. A ben guardare l’atteggiamento dell’organizzazione, in queste ultime settimane, forse sarebbe il caso di ricredersi. Si sta perdendo tempo. Lo ha detto anche Muallem. E se non è colpa della Siria, certo molta responsabilità ce l’hanno i suoi partner locali. In tal caso, saremmo di

Il modo in cui viene coinvolta la Lega permette ad Assad di rientrare sfacciatamente a testa alta nella comunità internazionale e di evitare una denuncia per crimini contro l’umanità fronte a uno stratagemma – termine utilizzato dagli oppositori siriani in esilio – per cui gli arabi farebbero testuggine intorno ad Assad, lo salverebbero e poi eventualmente gli presenterebbero un conto. È plausibile. Alla fine, stiamo parlando del Medioriente. «Siamo sorpresi dall’atteggiamento della Lega», ha detto il leader del Consiglio nazionale siriano (Cns), Burhan Ghalioun, ricordando che l’organizzazione panaraba ha concesso più di un mese al regime siriano. Non tanto per nascondere i misfatti, ma per continuare nella operazioni di pulizia politica e rappresaglia umana. L’avvocato franco-siriano ha chiesto inoltre di adottare una posizione più dura. «Quello che ha detto oggi il ministro Muallem indica senza alcun dubbio che il regime non intende applicare in alcun modo i punti dell’iniziativa araba». Dal Cns inoltre è partita l’ennesima de-

zioni, perché non si voleva che la massa protestasse contro un governo fotocopia del regime caduto. C’era poi il timore che dalle urne uscisse un risultato troppo favorevole ai partiti islamisti. E così puntualmente è stato. Oggi, gli stessi generali che hanno tradito il faraone per salvare le proprie uniformi e che poi non hanno gestito la transizione del Paese, parlano di un complotto che potrebbe portare alla distruzione del Parlamento. Proprio ieri, il generale Adel Emara ha sostenuto di aver ricevuto una telefonata che gli segnalava l’esistenza di un piano e la presenza di una folla a piazza Tahrir «pronta ad attuarlo». In realtà, pare che l’assembramento di folla fosse dovuto a un funerale. Ciò detto, la polizia non si è fatta lo scrupolo di controllare e quindi ha ripreso a bastonare. Questo per far capire chi gli arabi stanno mandando in Siria a controllare che il regi-

coliti – come i mandanti di un attentato alle istituzioni. Di conseguenza, l’Egitto si autoproclamerebbe non in grado di compiere il fausto passo verso la democrazia. Ed ecco che il potere resterebbe in mano a chi lo detiene in questo momento.

La trama è banale, ma funziona. In ogni caso, il nesso logico tra Siria ed Egitto è che i veri detentori del potere non sono Mubarak, o Assad. O meglio, lo erano fino a esattamente un anno fa. Vale a dire fino a quando Mohamed Bouazizi non si diede fuoco, innescando la miccia per far saltare le cariatidi dittatoriali del Nord Africa. I tessitori di oggi sono le retrovie dei regimi di ieri. Vecchi generali, spietati e abili anche nel far passare la propria immagine immacolata. Esponenti di un sistema che rischia di sbriciolarsi di fronte alla rivoluzione, la quale non ha ancora saputo attecchire. Del resto, Assad – che non è caduto e tanto meno lo si può dire vecchio – non sta forse accusando il Cns di violenza contro il suo esercito? Debolezza, questa, di un’opposizione che non ha polso.


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il personaggio Dichiarati 12 giorni di lutto nazionale, finiti i quali si apriranno le danze per il trono comunista

Ora Kim comanda? Kim Jong-il, 69 anni, è morto di infarto: l’erede dovrebbe essere il terzo figlio, ma a Pyongyang tutto sembra pronto per una spietata lotta per il potere di Vincenzo Faccioli Pintozzi hi comanda in Corea del Nord? Kim Jong-il, il leader di una delle più bizzarre e crudeli dittature comuniste del mondo, è morto per un attacco di cuore all’età di 69 anni. La televisione della Corea del Nord, che ha dato piangente l’annuncio della sua morte, ha già affermato che tutto il popolo coreano seguirà il nuovo leader Kim Jongun, terzogenito del defunto, famoso per il suo carattere senza scrupoli e per la voglia di mostrare il potere militare e nucleare del suo Paese. Ma nella capitale tutto sembra pronto per una spietata lotta per il potere. Mentre Corea del Sud e Giappone hanno indetto riunioni del loro Consiglio di sicurezza per affrontare la situazione e l’esercito di Seoul dichiara l’allerta di emergenza. Secondo l’agenzia statale coreana, la Kcna, Kim Jong-il è morto due giorni fa durante un viaggio in treno, verso le 8.30 del mattino, per “un infarto del miocardio complicato da gravi colpi al cuore”. Anche suo padre, Kim Ilsung era morto di infarto nel 1994. La salute del “Caro Leader” era peggiorata dopo che nel 2008 aveva subito un ictus. La sua salma sarà posta nel Memoriale Kumsusan, dove giace anche il corpo imbalsamato di suo padre. Secondo le informazioni ufficiali i funerali si terranno il 28 dicembre e non si accetterà la presenza di delegazioni straniere. Fino ad allora è stato dichiarato un periodo di lutto nazionale, che durerà dunque 12 giorni filati. Kim Jongun, già oggi definito ufficialmente “il grande successore”, è stato nominato primo nella lista della Commissione statale responsabile del funerale. La morte di Kim Jong-il avviene in un momento di tensione fra le due Coree. In passato, nel 2000 e nel 2007 vi sono stati incontri con i presidenti del Sud, nel tenta-

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tivo di bloccare lo sviluppo nucleare e gli esperimenti missilistici del Nord, in cambio di aiuti per il Paese impoverito da alluvioni, siccità e una disastrosa economia agricola. Nel 2008 l’attuale presidente del Sud, Lee Myung-bak, ha bloccato gli aiuti esigendo uno stop reale ai programmi nucleari del Nord. Nel marzo 2010, pochi mesi dopo la promozione di Kim Jong-un al comando militare, la corvetta militare della Corea del Sud, la Cheonan, è stata affondata provocando la morte di 46 marinai. Nel novembre 2010 il Nord ha bombardato un’isola sul confine fra le due Coree, ferendo decine di civili e causando la morte di un militare. Considerata un tempo il fiore all’occhiello della costellazione sovietica, la Corea del Nord è divenuta un Paese che affonda nella po-

Kim Jong-un assume le redini del Paese. Ma lo zio lo guarda da vicino e, forte della guida del Partito, potrebbe divenire un serio ostacolo vertà. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la Russia non ha più aiutato la sua economia; anche la Cina ha cercato di staccarsi da amici troppo volubili, pur mantenendo i rapporti. Mentre il Paese mostra i suoi muscoli con enormi parate militari ed esperimenti nucleari, la popolazione soffre per mancanza di cibo e del necessario per vivere. Si calcola che quasi due milioni di nordcoreani siano morti per fame. Ancora oggi la situazione è di vera carestia. Sul lato dei diritti umani, la Corea del Nord si è sempre distinta per una repressione a tutto campo di ogni dissenso o critica ai leader. Nessuna religione è permessa se non l’adorazione del “padre della nazione”, Kim Il-sung, e del suo figlio Kim Jong-il. Nonostante ciò, nei mesi scorsi, per la prima volta, vi sono state manifestazioni di critica, spinte proprio dalla

miseria e dalla paura che salisse al trono Kim Jong-un, da tutti conosciuto come un sanguinario senza scrupoli.

Come in ogni altro Stato comunista che si rispetti, infatti, anche la Corea del Nord ha la propria dinastia di dittatori: in questo caso i Kim, capitanati dal “presidente eterno”Kim Il-sung. La designazione ufficiale dell’erede di Kim Jong-il si è verificata la notte del 16 aprile del 2010. Il grandioso spettacolo di fuochi d’artificio che ha chiuso come da tradizione la “Festa del Sole”, il compleanno del defunto padre della nazione Kim Ilsung, è stato infatti affidato a Kim Jongun, terzogenito del “Caro Leader” e oggi dittatore della Corea del Nord. Quello di organizzare gli spettacoli pirotecnici era uno dei compiti assunti dal padre prima di diventare presidente. Lo rivelano fonti locali, che spiegano: «L’erede - chiamato dalla propaganda ‘Intelligente Leader’- è stato indicato dai media nazionali come ‘il giovane capitano che ha reso possibile la grande festa’. Nella tradizione coreana, è il padrone di casa che organizza la festa: quindi, l’investitura c’è stata». La scelta è stata enfatizzata anche da Kim Ki-nam, segretario del Partito dei lavoratori, che ha detto: «Siamo fortunati ad avere una dinastia di grandi leader, che servono il Paese e lo guidano verso la grande rivoluzione». È anche emerso un documento ufficiale inviato dal governo di Pyongyang ai media, intitolato “Materiale istruttorio per spiegare la grandezza di Kim Jong-un”. Si tratta di una serie di indicazioni con cui si spiegano i soprannomi ufficiali del giovane erede e si sottolineano le sue aree di competenza. Fra queste risalta appunto “l’organizzazione delle festività, dei fuochi d’artificio e dei cori ufficiali a favore del regime”. Una fonte (anonima per motivi di sicurezza) spiega dalla provincia di Hamgyeongbuk: «Il testo riporta una frase ufficiale di Kom Jong-il, destinata ai suoi dirigenti, in cui si loda il ‘giovane capitano’ per il bellissimo lavoro dei fuochi d’artificio e la capacità organizzativa con cui ha messo in piedi la Festa del Sole. Secondo il ‘Caro Leader’, il ragazzo ha lavorato giorni interi per raggiungere l’obiettivo e questa è ‘la prova della sua enorme dedizione al Paese’. Lo hanno detto anche a noi». In quell’occasione, altro segno di enorme benevolenza, il padre ha promosso circa 100 militari coetanei del proprio figlio: un gesto che dimostra come la famiglia Kim sia destinata a dipendere ancora dalla fedeltà incondizionata dell’esercito, a cui destina il 50% del budget nazio-


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nale. Kim Jong-un, dunque, continua ad accrescere il proprio potere personale. Dopo essere stato nominato direttore del Dipartimento per la sicurezza statale, l’organo più importante e pericoloso del Paese, verrà pubblicamente festeggiato in occasione del suo compleanno, che cade l’8 gennaio. Secondo fonti di AsiaNews in Corea, la figura del giovane Kim continua a terrorizzare la popolazione. Il giovane, tenuto nascosto dal padre per oltre due decenni, è considerato “crudele e perverso”; molti citano la sua difficile infanzia come motivazione per quello che è considerato “un vero e proprio piacere personale nel fare male”. Secondo figlio nato dal terzo matrimonio del dittatore, infatti, Jong-un ha frequentato la corte del padre ed ha dovuto affrontare i fratelli maggiori, nati

terno della struttura di Partito per dimostrargli il proprio favore.

È sicuro che, negli ultimi sei mesi, sia stato Kim Jong-un ad accompagnare il padre durante le visite alle centrali nucleari e alle caserme dell’esercito. Il ragazzo avrebbe persino ricevuto il proprio titolo personale – il “Leader intelligente” – che porta avanti la dinastia di famiglia: il padre infatti è “caro”, mentre il nonno è “eterno”. In effetti, il titolo del primo Kim è al momento l’unico corretto: secondo la Costituzione nordcoreana, infatti, è ancora Kim Il-sung il presidente della nazione nonostante sia morto nel 1994. Ora, la morte del figlio «apre la porta a scenari inquietanti. Non era soltanto il ‘Caro leader’ del Paese, il secondo al potere dopo la morte del fonda-

farli rispettare nel mondo». Ora gli scenari «sono molteplici. Certo, per adesso sembra essere confermato al potere Kim Jong-un, terzogenito ed erede designato. Ma vicino a lui ci sono lo zio Jang Songtaek, da tempo numero 2 del regime e detentore del potere nel Partito, e sua moglie Kim Kyong-hui, sorella più giovane del defunto: questi sono stati nominati due anni fa ‘tutori’ di Jong-un, ma potrebbero cercare di eliminarlo dalla linea del potere. Quello che è certo è che ora si apre la possibilità di rovesciare il regime». Questa possibilità «deve venire dal popolo. Gli interventi esterni non farebbero altro che esacerbare la rabbia che quella gente prova nei confronti del mondo: noi dobbiamo e possiamo sostenere un movimento interno, ma non si può pensare a un’opzione di tipo milita-

La vera crisi riguarda la fame: oltre 3 milioni di persone rischiano di non superare l’inverno dal primo e dal secondo matrimonio del “Caro Leader”, che ne hanno ostacolato in tutti i modi la scalata al potere.

Secondo diverse indiscrezioni, sarebbe riuscito “con l’astuzia e la crudeltà” a mettere fuori gioco dalla corsa al trono gli altri pretendenti, che per il momento sembrano accettare di buon grado la sua investitura ufficiale. Anche l’attuale “first lady” Kim Ok avrebbe espresso il suo gradimento per la scelta del ragazzo, nonostante questi non sia figlio suo.Le voci su una possibile successione a Kim Jong-il sono iniziate nell’agosto del 2008 quando, secondo fonti sudcoreane, il “Caro Leader” avrebbe avuto un infarto. Non avendo ancora designato un erede, il dittatore avrebbe fatto salire nella scala gerarchica il terzogenito dandogli onori militari e all’in-

tore Kim Il-sung: era molto di più. Per gli esterni è difficile capire, ma i nordcoreani hanno davanti a loro un bivio, forse l’unico nella storia del Paese. In ogni caso, la Corea del Sud è pronta per qualunque eventualità». A parlare è una fonte del ministero degli Interni di Seoul, che commenta la morte del dittatore di Pyongyang. Secondo la fonte «non si può guardare le immagini che vengono dalla Corea del Nord [quelle di gente in lacrime per le strade e negli uffici di Pyongyang ndr] e classificarle con leggerezza come propaganda. Il dolore di quella gente è in un certo senso reale: Kim Il-sung ha creato il regime, ma il figlio lo ha rafforzato e gli ha dato l’arma atomica. Si tratta di un dato essenziale per capire la fierezza dei nordcoreani, che non hanno visto nel defunto un pazzo guerrafondaio, ma l’unico in grado di

re. Ora l’economia interna avrà un contraccolpo durissimo, già si vede l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari: se non saranno loro a fare qualcosa, sarà duro intervenire».

Attesa anche per la posizione di Pechino, che per ora ha espresso le proprie condiglianze al popolo nordcoreano. Ma Zhaoxu, portavoce del ministero cinese degli Esteri, ha dichiarato questa mattina: «Esprimiamo il nostro dolore e le nostre condoglianze per la popolazione nordcoreana». Gli Stati Uniti – che insieme a Seoul e Tokyo rappresentano l’altra potenza armata nella regione – hanno invece dichiarato di “monitorare da vicino” la situazione, intenzionati a “mantenere la stabilità” nella penisola coreana. Sempre che le cose non peggiorino rapidamente.

Paura per alcuni ordigni

E dal Nord partono i missili SEOUL. Nel giorno dell’annuncio della morte del “Caro Leader”, la Corea del Nord ha proceduto al test di un missile a corta gittata al largo delle sue coste orientali: lo ha riportato l’agenzia di stampa sud-coreana Yonhap. «La Corea del Nord questa mattina ha proceduto al test di un missile a corta gittata che è stato seguito dalle nostre autorità militari», ha riferito all’organo di stampa una fonte governativa non identificata. Il test di questo missile balistico - che ha una gittata di 120 chilometri – non è legato al decesso di Kim, secondo la stessa fonte. Il ministero della Difesa di Seoul, da parte sua, si è rifiutato di confermare la notizia. Ma dopo l’annuncio della morte del “Caro Leader”, la Corea del Sud ha messo il suo esercito in stato di allerta e ha rafforzato la sorveglianza al confine con il Nord. Seoul ha anche chiesto all’alleato americano, che mantiene sul suo territorio un contingente di 28.500 soldati, di accrescere la sorveglianza satellitare e aerea. Le due Coree restano tecnicamente in stato di guerra dall’armistizio firmato al termine della guerra di Corea nel 1953. Le relazioni già difficili fra Nord e Sud si sono deteriorate ulteriormente nel marzo 2010 quando Seoul ha accusato Pyongyang di aver affondato una nave militare, provocando la morte di 46 marinai. Il Nord ha sempre smentito di essere all’origine dell’incidente. Ma qualche mese dopo, a novembre, l’artiglieria nord-coreana bombardava una isola sudcoreana vicina alla comune frontiera, provocando quattro morti, fra cui due civili. Una gran parte delle truppe nord-coreane - forti di 1,1 milioni di uomini – è di stanza lungo la Zona demilitarizzata nel mezzo della quale corre la linea di demarcazione militare che, lunga 240 chilometri, di fatto segna il confine fra Nord e Sud. L’esercito sud-coreano conta 650.000 uomini.


cultura

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L’esposizione ripropone le foto di Lorenzo Cappellini che da molti anni gira l’Italia per immortalare le pose monumentali dell’eroe dei Due Mondi

Il convitato di pietra Le immagini di tutte le statue dedicate a Garibaldi in una suggestiva mostra a Palazzo Madama, a Roma di Gabriella Mecucci essuno ha avuto più strade e piazze a suo nome. A nessuno sono stati eretti più monumenti. Giuseppe Garibaldi ci fa compagnia ogni volta che passeggiamo in una città o in un paese d’Italia. Nel centocinquantesimo dell’unità è rientrato più volte anche nei palazzi istituzionali, dove passò un pezzo della sua vita come deputato del regno. Capita anche in questi giorni, grazie ad una bella mostra fotografica di Lorenzo Cappellini, ospitata nelle sale del Senato della Repubblica. Un lungo percorso che racconta il rapporto fra l’Italia e il mito del suo eroe più amato e più limpido. Cappellini ha infatti immortalato, scorazzando in largo e in lungo per tutta la penisola, i monumenti e le lapidi dedicati a Giuseppe Garibaldi. Ne viene fuori un racconto delle vita e delle imprese del più mitico fra i padri della patria, ma anche dei sentimenti che i figli della patria hanno nutrito verso di lui. E forse anche molto di più. In realtà le foto di Cappellini rappresentano l’Italia stessa, la sua essenza più forte e più intima: è questa almeno la tesi di un vecchio articolo di Goffredo Parise che è stato ristampato nel catalogo della mostra: «Garibaldi per l’Italia. L’Italia per Garibaldi», di Lorenzo Cappellini e Giovanna Portoghesi, edito Minerva Edizioni.

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Lo scrittore spiega che «in fotografia non è mai stata ammessa la metafora, ma Cappellini quasi per miracolo, ce l’ha fatta. Ha trasformato l’immagine di Garibaldi in quel qualcosa d’altro, di sotteso, sottinteso e a volte (spesso) appena appena visibile, che è l’Italia». Straordinariamente bella è l’immagine del busto a Caprera che ci restituisce un volto se-

gnato dal vento e dal mare sardo, e che ci rimanda anche l’asprezza di un paesaggio, il senso della sobria essenzialità e dell’infinito. Tutte sensazioni che parlano dell’eroe dei Due

Mondi, e insieme di quel bellissimo pezzo d’Italia che è la Sardegna. Cappellini – come nota Parise – riprende ciascuno

dei monumenti fotografati non a se stanti, ma inseriti – grazie ad un particolare, ad uno sfondo, a un piedistallo – nel tessuto urbano. E così ci racconta le gesta di Garibaldi ma ci parla di un pezzo dell’anima della città che lo ospita, della sua storia, del suo ruolo nel grande pantheon garibaldino: il mare di Quarto, le architetture di Firenze e di Milano, le palme d’Imperia e di Marsala, la collina di Calatafimi. E via così, scavando con la macchina fotografica, in 600 centri grandi e piccoli della penisola.

L’articolo di Goffredo Parise era apparso in un libro di Cappellini e Portoghesi uscito già nel 1982, che costituiva la prima grande rassegna dei monumenti a Garibaldi sparsi lungo lo stivale. Quel volume venne realizzato su stringente richiesta di Bettino Craxi nel centenario della morte dell’eroe dei Due Mondi. Il recentissimo catalogo della mostra di Palazzo Madama ospita la prefazione che l’uomo politico scomparso scrisse allora. È toccante rileggere quelle parole ora che il leader socialista non c’è più e che la sua passione per Giuseppe Garibaldi, per il suo essere straordinario protagonista di un passato che merita di essere ricordato, sta diventando un lontano ricordo e rischia di finire nell’oblio: «I monumenti - scriveva Craxi nel 1982 – costituiscono di regola una forma d’arte figurativa che si propone di far rammentare in maniera durevole, con adeguata grandiosità e solennità eventi o personaggi; per darne testimonianza ai posteri e che si prolunghi nel tempo la loro capacità di fascinazione». Busti, statue e lapidi diventano così «atti di consacrazione di un passato degno di essere assunto come

Giueppe Garibaldi è sicuramente il personaggio storico che vanta il maggior numero di monumenti in Italia. In queste pagine, alcune delle statue più famose. In particolare, qui a destra quella equestre al Gianicolo, a Roma e, più a destra, l’incontro con Vittorio Emanuele II a Fiesole. Qui sotto, il generale scruta il futuro da Sanpierdarena, a Genova guida dell’avvenire». L’omaggio è profondo, sino a individuare nello spirito delle gesta garibaldine un faro a cui guardare anche oggi, un’ispirazione per progettare presente e futuro. Nel catalogo e nella mostra di Palazzo Madama dentro al ricordo di Giuseppe Garibaldi,

c’è anche quello di chi volle che venisse raccontato l’intenso rapporto che legava gli italiani al loro eroe. C’è insomma anche la passione politica di Bettino Craxi.

Alla fine dell’Ottocento e per tutti i primi anni Dieci del Novecento, si sviluppò una sorta di mania del monumento risorgimentale - e Garibaldi fu il primo mito da rappresentare per gli scultori d’epoca: nel periodo storico che va dalla sua morte alla prima guerra mondiale è


cultura

infatti concentrato il grosso delle sculture alla sua memoria. Era un modo per celebrare un’unità nazionale arrivata in

Sicuramente, l’omaggio più celebre è la figura equestre che domina Roma dal Gianicolo ricordando le battaglie del 1849 modo tardivo e – se è lecito ricordarlo nel centocinquantesimo - anche con metodi discutibili. La Belle époque, poi, non fu precisamente il periodo migliore per l’arte italiana, che ebbe ben altri splendori. E più volte le opere realizzate allora sono state definite retoriche, poco originali, scontate. E talora addirittura kitsch o decisamente brutte. Ma – come sostiene Giovanna Portoghesi nel saggio iniziale del catalogo da quell’enfasi sui valori nazionali si è passati “alla loro eclissi”. Ed è bastato poi che l’urbanistica rinunciasse “a costruire piazze e spazi racchiusi dotati di carattere e di riconoscibilità, riducendo le parti nuove al ‘grado zero’ della periferia fatta di dormitori e di appartamenti moltiplicati all’infinito, perché risorgesse una nostalgia della città ottocentesca con le sue gerar-

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tre concorsi. E alla fine venne privilegiato il progetto meno innovativo. Particolarmente importante è il monumento romano di Gallori, almeno per tre ragioni. La prima riguarda la qualità della scultura, la seconda è che è posta vicino a quella di Anita, realizzata da Rutelli, la terza – quella simbolicamente decisiva – è la straordinaria scelta urbanistica del luogo dove piazzare la statua equestre: il Gianicolo. Scrive Giovanna Portoghesi: «La grande altezza del basamento... inserisce l’immagine di Garibaldi simbolicamente nel panorama di Roma e l’interruzione della cortina alberata in prossimità del piazzale, fa sì che, nelle vedute panoramiche dal Campidoglio, dal Pincio, dall’altura di Trinità dei Monti, la figura del generale si stagli come una silhoutte sull’altura». Dai punti più importanti di Roma si può vedere dunque il nostro eroe a cavallo ed in alto: una scelta che rappresenta un particolare omaggio a chi dette un contributo decisivo affinchè la città eterna diventasse la capitale d’ Italia.

in tutto ben quarantadue. Fra queste sculture ci sono quelle che vestono il generale con la camicia rossa e il celebre fazzoletto al collo (sette in tutto), mentre la grande maggioranza lo ritrae vestito col poncho drappeggiato: un’immagine che restituisce a Garibaldi il suo spessore internazionale. La seconda tipologia è quella della statua equestre (ce ne sono ben 12), una rappresentazione spesso retorica che impressionava la fantasia popolare, mentre altri autori preferirono scegliere la posa dimessa e famigliare dell’eroe seduto o appoggiato, mentre riposa e riflette. Ci sono poi i busti e le lapidi. Il primo monumento garibaldino venne eretto a Luino, quindici anni prima della sua morte. Poi, dal 1882, la lunga teoria di

Nel catalogo della mostra viene infine riprodotto anche un bel testo di Carlo Ripa di Meana che fa il ritratto del ritrattista: Lorenzo Cappellini. Un fotografo sensibile e molto bravo che ha viaggiato per il mondo in

opere. Fra queste, da segnalare il bel busto di Ercole Rosa, conservato dalla Galleria nazionale d’arte moderna, che ci restituisce il volto già anziano, accigliato e scapigliato dell’eroe che torna a Roma come parlamentare e che, nella sua espressione, fa balenare tutta la preoccupazione per il cammino difficile che dovrà intraprendere quel giovane paese da lui voluto e costruito. Molto interessante e significativa per quando riguarda il gusto artistico dei tempi è la vicenda della statua milanese: per sceglierne l’autore vennero indetti ben

largo e in lungo e ha fotografato da par suo dalla Maremma all’Africa, dal Veneto a ciò che c’era aldilà del Muro. Ma con l’eroe dei Due Mondi Cappellini ha un rapporto speciale. E non solo perché i suoi avi e i discendenti del generale ebbero stretti legami, «ma soprattutto e prima di tutto – scrive Ripa di Meana – perché Lorenzo Cappellini è il ritratto fisico perfetto, identico di Giuseppe Garibaldi». E chi meglio poteva fare una mostra fotografica sui monumenti che rappresentano l’eroe più amato, un suo sosia in epoca contemporanea?

chie, le sue regole, i suoi segnali ben evidenziati, e si rivalutassero, sulla scia di questa nostalgia, anche i monumenti posti al centro di spazi pubblici proprio come puntini sulle i”. Della necessità, poi, di recuperare il sentimento nazionale sono stati tenaci sostenitori e testimoni due presidenti della Repubblica: Ciampi e Napolitano.

Le tipologie di monumenti garibaldini sono in tutto tre, a dimostrazione del fatto che la fantasia degli autori non

era fra le più prolifiche. Ciò non vuol dire che non ce ne siano di belli, di interessanti e di molto ben coniugati con i contesti urbani e paesaggistici. La

prima modalità di rappresentazione dell’eroe – la più diffusa – lo vuole in piedi, appoggiato ad una spada, al di sopra di un basamento di stile classico: sono


ULTIMAPAGINA Clamorosa operazione contro i giocatori che vendevano le partite: 17 arresti, tra cui Doni che tenta la fuga

Se il calcio va in gol per di Giancristiano Desiderio he l’Italia sia un Paese profondamente corrotto è noto - scriveva testualmente ieri Giovanni Sartori nel“fondo”del Corriere della Sera - ma che la parte calcistica della corruzione italiana fosse manovrata e incentivata da Singapore non lo si immaginava. Ma accade che all’alba i poliziotti bussino alla porta di casa di Cristiano Doni e il giocatore, già provato dalla stessa inchiesta e dagli anni di allenamento, provi a fare uno scatto dei suoi, ma i poliziotti si mostrano più freschi e preparati e lo bloccano prima della fuga sulla fascia giù in garage. Un segno del tempo. Con il mediano dell’Atalanta e della Nazionale finiscono in carcere altri sedici giocatori - tra i quali Luigi Sartor, juventino, interista, romanista - che invece di rispondere agli schemi studiati durante la settimana e agli ordini del Mister sembra che ubbidissero a «un’organizzazione planetaria» con base a Singapore, in Asia, e faccendieri e galoppini e scommettitori un po’ovunque nel mondo. Giro d’affari: 90 miliardi di dollari solo in Asia. Roba che a metterci le mani sopra risolleviamo le sorti della crisi in Europa.

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Forse, niente più del calcio è un fenomeno globale - e i Mondiali, ancor più delle Olimpiadi, hanno anticipato la globalizzazione economica e finanziaria - e se il pallone è un globo per forma e definizione allora a furia di rotolare e di essere palleggiato ha finito con il globalizzare anche il calcio-scommesse. Tuttavia, se a Singapore si scommetteva sul campionato italiano e non su quello svizzero ci dovrà pur essere un motivo, anche se va detto che nel campionato parallelo dei corrotti ci sono anche la Germania, la Croazia e la Grecia e qualche altro Paese. Ma è meglio che ognuno guardi in casa propria senza farsi scudo delle disgrazie e corruttele altrui. Dunque, l’Italia del pallone è marcia dentro e non sembra venirne fuori in alcun modo, nonostante gli scandali si susseguano, i processi su Calciopoli si celebrino e Lucianone Moggi non sia più né campo né negli spogliatoi dell’arbitro. Sarà - ripeto come diceva proprio ieri Sartori: «Che l’Italia sia un Paese profondamente corrotto è noto». Indro Montanelli era ancora più diretto: «Noi italiani la corruzione ce l’abbiano nel sangue». E, aggiungiamo noi, la corruzione è proprio l’esatto contrario dello spirito sportivo e del gioco. Ma evidentemente quest’ultima è una favola in cui crediamo in pochi o, forse, in molti per continuare ad aver fiducia in quei 90 minuti di gioco che ci sono rimasti più o meno a settimana. La trama criminale disegnata dalla procura di Cremona svela risvolti paradossali: dall’altro capo del mondo seguivano passo passo, anzi, passaggio dopo passaggio la vita sportiva e agonistica di squadre come Grosseto, Mantova e Brescia. Le combine riguardano i campionati 2009-2010 e 2010-2011 della serie B. Soprattutto in ballo ci sarebbero anche tre partite dello scorso campionato di seria A: Brescia-Bari, BresciaLecce, Napoli-Sampdoria. Ma non si escludono anche puntate e combinazioni sui campionati in corso. Sarebbe questo il motivo dell’arresto di Doni: la possibilità dell’inquinamento delle prove. Nella rete della scommesse è finita anche la neopromossa Gubbio. Quest’ultima, però - sarà stato anche per il suo spirito francescano - è sta-

SCOMMESSA laborando con la giustizia di più Paesi, tra cui anche quella italiana.

Le combine riguardano i campionati 2009-2010 e 2010-2011 della serie B. Ma in ballo ci sono anche tre partite di A: Brescia-Bari, Brescia-Lecce, Napoli-Sampdoria ta elogiata dagli inquirenti perché i suoi dirigenti non hanno esitato a denunciare i tentativi di combine. La cosa funzionava più o meno così: gli emissari dei capi di Singapore si insediavano negli hotel dove le squadre andavano in ritiro, avvicinavano i giocatori e a suon di migliaia di euro concordavano il risultato. Poi partivano le scommesse che, essendo basate su una piazza asiatica off shore, sfuggivano a tutti i controlli finanziari. Il meccanismo è stato svelato da un membro della banda (anch’egli cittadino di Singapore) attualmente detenuto a Helsinki, che sta colSopra, Cristiano Doni: il giocatore dell’Atalanta è tra i principali indagati. In alto, Napoli-Sampdoria del 30 gennaio 2011: una delle partite incriminate dalla Procura

La vita da mediano di Cristiano Doni colpisce non poco. Lo scorso giugno, quando il suo nome venne fuori nel primo filone di questa stessa inchiesta, a Bergamo ci fu una sollevazione di popolo nerazzurro. Nessuno voleva credere alle proprio orecchie e ai propri occhi per quanto sentivano e leggevano. Il giocatore, però, sta già ora scontando una prima pena e vederlo adesso non in campo ma agli arresti fa veramente una certa pena. La sofferenza è inflitta un po’ a tutto il calcio italiano che non sembra guarire dai suoi errori. L’ex capitano dell’Atalanta è finito in carcere per un tentativo di inquinamento delle prove definito dagli inquirenti “molto grave”: avrebbe pagato parte della parcella dell’avvocato di un altro indagato, Nicola Santoni, per il timore che il legale parlasse agli inquirenti e dunque per corromperlo. Dalle indagini è emerso inoltre che Doni avrebbe ipotizzato di alterare i dati dell’Iphone di Santoni, sequestrato nell’estate scorsa nell’ambito dell’inchiesta, cambiando la password con un computer. Non vengono comunque contestati al giocatore fatti nuovi rispetto a quelli emersi nel giugno scorso. «Speriamo di arginare ulteriormente il fenomeno» ha detto il procuratore Roberto Di Martino. Speriamo? Speriamo. Certo, però, che è dura. È da quando eravamo ragazzini e giocavamo a pallone sotto casa o all’oratorio sognando una carriera da vero giocatore che lo scandalo della corruzione nel calcio ci insegue proprio come il pallone. C’è anche un canzoncina di Celentano Mondo in mi settima - che dice più o meno così: «C’è persino corruzione dove c’è lo sport». Nel 1982 il capocannoniere dei Mondiali in Spagna, vinti proprio dell’Italia, fu Paolo Rossi che era reduce proprio dallo scandalo del calcio scommesse. Sotto il sole non c’è proprio nulla di nuovo, né fuori né in campo. A te Ameri.


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