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Lo Stato moderno non ha più nient’altro che diritti: non riconosce più i doveri Georges Bernanos
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 21 DICEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Quirinale: «Grave leggerezza parlare di sospensione della democrazia». Oggi Monti incontra Berlusconi
Sindacati, un passo indietro I partiti lo hanno fatto: perché loro pretendono un diritto di veto? La Fornero replica:«Non ho mai parlato di articolo 18» e Barroso la incoraggia a «riformare il mondo del lavoro». Ma Cgil e Cisl insistono nella sfida al governo.Napolitano ammonisce:«Indispensabili anche decisioni impopolari» RESPONSABILITÀ/1
RESPONSABILITÀ/2
Proponete, protestate, però non fate come Lega e Idv
Ma il governo parli con i fatti e lasci stare le interviste
di Osvaldo Baldacci
di Giancristiano Desiderio
e associazioni devono tutelare i loro associati. Anche se gli interessi dei loro associati configgessero con quelli di altri. Ma cosa succede se questo conflitto alla lunga porta a danneggiare seriamente gli interessi dei propri associati? O se la difesa a breve di quegli interessi mette a rischio quegli interessi su un periodo più lungo? Questo è il dilemma cui si trovano davanti oggi i sindacati. Ben fanno a far sentire la loro voce a tutela dei loro iscritti, ma allo stesso tempo devono rendersi conto della situazione generale, che purtroppo è tale per cui se ci si mette di traverso salta tutto il sistema. Questa manovra e le riforme che vanno fatte sono dolorose, inutile negarlo. segue a pagina 3
è un altro totem che va toccato: l’intervista a tutta pagina in cui il ministro di turno annuncia la riforma prima di averla avviata. Se non si vuole fare nulla, questo è il metodo migliore per farlo. Siccome, però, il governo Monti non è stato ideato per fare ammuina, bensì per tirarci fuori dai guai e rimettere l’Italia in cammino, allora, non c’è altro da fare che lasciar perdere la peggiore eredità dei governi precedenti: il teatrino della politica. A Elsa Fornero lo consigliamo caldamente: parli con gli atti e non con le interviste. Non è solo una questione di metodo, ma di buon funzionamento delle istituzioni. Non come le precedenti. a pagina 3
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C’
Parla Marco Vitale
Parla Stefania Craxi
«Cgil, Cisl e Uil «Il Pdl è finito, ora si comportano uniamo i riformisti come corporazioni» e i moderati» «In Germania i lavoratori «Il ruolo di Casini va rafforzato, programmano con le aziende, anche per riuscire a cambiare da noi sono solo strumenti insieme la legge elettorale. corporativi. Per questo E per il futuro serve ora contrastano le riforme» un’alleanza tutta nuova» Errico Novi • pagina 6
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Mentre in Siria la repressione colpisce i disertori: si parla di cento morti
Ancora occupata Piazza Tahrir Nuove vittime negli scontri fra i militari e i manifestanti di Antonio Picasso
Edward Luttwak parla del rapporto tra Usa e mondo arabo
li scontri di piazza, ieri al Cairo, non avrebbero provocato vittime. A dirlo è al-Masry Al-Youm, il quotidiano egiziano che meglio rispecchia il desiderio di cambiamento del Paese. Il bilancio, però, non è completo. Da venerdì infatti, giorno del nuovo rigurgito di violenze in piazza Tahrir, ci sarebbero stati almeno dodici morti. La fonte è il ministero della Sanità. Sicché la stima andrebbe rivista al rialzo. Peraltro, secondo un medico legale attivo in loco, Ehsan Kamil Georgi – dal nome dovrebbe essere cristiano – nove dei morti sarebbero stati passati per le armi. Un indizio che rischia di suscitare ancora più livore nei confronti degli agenti. a pagina 10
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
246 •
«Islam democratico? Vi spiego perché è un’illusione» di Pierre Chiartano el Grande Medioriente è finita un’era a stelle e strisce. Oggi, secondo l’analisi di Edward Luttwak politologo americano e già consulente del Pentagono, quel progetto è stato abbandonato, almeno per ciò che riguarda quel pezzo di mondo, «il modello americano non funziona». E comunque, «L’islam non può essere democratico: questo è un dato di fatto». a pagina 10
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 21 dicembre 2011
Napolitano interviene in difesa della politica: «Il governo tecnico la esalta. Ma è il momento di scelte impopolari»
Flessibili (a parole)
Bonanni chiede più soldi per i precari e Fornero apre a nuove soluzioni. Insomma, mentre la Cgil continua a difendere l’articolo 18 («Ma io non ne ho mai parlato», dice il ministro), il dibattito sulla riforma del lavoro s’infiamma di Riccardo Paradisi a temperatura resta alta tra governo e sindacati. Dopo le frecciate anche personali del segretario Camusso contro il ministro Fornero – la più velenosa quella di lavorare al servizio delle assicurazioni private - La Cgil alza addirittura il tiro: «Che bisogno c’era per il governo Monti, e per il suo ministro del Lavoro, di recuperare il peggio dell’ideologia del governo precedente?». Temperatura alta, troppo. Tanto che il presidente Napolitano interviene auspicando che nel confronto sociale «prevalgano obiettività e senso della misura. Credo non giovino giudizi perentori, battute prezzanti, contrapposizioni sempliciste»
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D’altra parte il sindacato è convinto che questo dell’articolo 18 sia un obiettivo strategicamente sbagliato. «In Italia - ricorda la Cgil - si licenzia sia individualmente che collettivamente. La domanda allora è: non è che il totem della “necessaria cancellazione” sia solo un
pretesto antisindacale? L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sancisce l’obbligo di reintegro di un singolo se licenziato senza un giusto motivo. Senza questo obbligo magari un’impresa potrebbe liberarsi di attivisti sindacali senza vincoli. Potrebbe farlo per scegliersi i suoi e non quelli dei lavoratori». In Italia peraltro la stragrande maggioranza delle imprese è sotto i 15 dipendenti e quindi non è tenuta ad applicare l’articolo 18. Di “tabù” e “pregiudizi” avevano parlato sia il ministro del welfare che la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Anche il segretario della Cisl Bonanni non era stato proprio mite nella sua polemica con Elsa Fornero: «Fa la maestrina, scenda dalla cattedra». Ieri Bonanni ha rilanciato ma con una proposta di merito, quella di alzare i salari: «La sfido - dice il leader della Cisl - a discutere come alzare il salario ai flessibili e di come il governo
debba incentivare fiscalmente e con altri strumenti questa possibilità, questo significa andare incontro ai giovani». La replica della titolare del Welfare è arrivata quasi in tempo reale. «In linea di massima è vero che bisognerebbe riuscire ad aumentare i salari perché sono bassi, non è
una cosa che ci sfugge. Conosciamo questo divario nella distribuzione dei redditi che si è creato negli ultimi anni, ma direi negli ultimi 15-20 anni». Ma il punto non sono i salari – o almeno non è questo il problema principale ora – piuttosto il discusso articolo 18. Per il governo non possono esserci terreni inesplorati o appunto tabù anche se la Fornero nega di aver fatto esplicito riferimento alla norma in questione: «Nella mia intervista (al Corriere della Sera, ndr) non era proprio citato l’articolo 18: le mie parole erano un invito al dialogo, poi se uno ci legge quello che non era detto, questa non è responsabilità mia». Per i sindacati però quello dell’articolo 18 è un ter-
reno invalicabile, ne fanno una questione di principio ma anche di merito «Non capiamo che attinenza abbia rispetto ai problemi dei giovani o dell’occupazione - dice sempre Bonanni - è una norma che serve solo a non far commettere abusi alle aziende. Toccandolo si mette a rischio la coesione sociale». Senza la quale è difficile far sopportare i necessari sacrifici, come torna a chiamarli il presidente Napolitano, imposti dal governo Monti al Paese.
Muro contro muro insomma. E su un terreno così incendiabile è difficile anche solo aprire un confronto costruttivo. Tanto che a chi gli domanda se il governo riuscirà ad aprire il cantiere lavoro, il ministro Fornero risponde «Dipende se ce lo lasciano fare come tempi e disponibilità. Da parte mia c’è piena disponibilità, ma non ci devono essere preclusioni di nessun tipo». Il dato è che se i partiti hanno fatto un passo di lato per consentire lo svolgersi del lavo-
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Responsabilità e comunicazione/1. I sindacati
Responsabilità e comunicazione/2. L’esecutivo
Protestate pure, ma non fate come Lega e Idv
Ma il governo parli con i fatti, non con le interviste
di Osvaldo Baldacci
di Giancristiano Desiderio
segue dalla prima E ci deve essere un po’ di gioco delle parti per cui ciascuno tira verso i propri interessi. Dall’equilibrio complessivo delle forze in campo può uscire qualcosa di equilibrato, che forse non lo sarebbe altrettanto se si lasciasse troppo campo libero. Ma senza esagerare, se no la corda troppo tirata finisce per spezzarsi. Se è vero che la crisi cui ci troviamo di fronte è così drammatica, e sembra proprio che sia vero, allora tutti devono fare la propria parte non solo tutelando il proprio orticello, ma soprattutto contribuendo con qualche frutto al bene comunque. Chi pensa di salvarsi da solo affonderà col resto della nave, questo è fuori di dubbio. E allora se in molti hanno fatto passi indietro e sacrifici, devono essere responsabili anche i sindacati. La politica ha lasciato il passo ai tecnici, e checché se ne dica stringe almeno un po’ la cinghia. I cittadini poi sono davvero tartassati, siamo sempre noi a pagare anche per gli sbagli di altri, ma questo purtroppo è necessario. Allora anche i sindacati devono fare un passo indietro, far sentire la loro voce, essere presenti ai tavoli dove si costruisce lo sforzo nazionale per salvare l’Italia, ma anche sapere dove fermarsi, perché a forse di veti, polemiche e manifestazioni invece di spengere l’incendio lo si alimenta. E cosa fa pensare che se l’Italia va a gambe all’aria gli iscritti ai sindacati staranno meglio?
O forse invece posti di lavoro si perderanno, ammortizzatori sociali non funzioneranno, soldi per pagare le pensioni non ce ne saranno? Forse i sindacati devono persino ripensare un po’ il loro ruolo: devono farsi promotori di riforme del lavoro a vantaggio del lavoratore, vantaggio che può verificarsi solo all’interno di un sistema risanato e che torna alla crescita. Devono capire che devono concentrare i loro sforzi sulla tutela del lavoratore più che del posto di lavoro. Anzi, in quest’ottica più che essere la controparte contestatrice del governo dovrebbero stargli al fianco, indirizzandolo, certamente, come dicevamo, ma anche assumendosi la responsabilità di spiegare ai lavoratori giustamente spaventati la situazione e il cammino da intraprendere. È più difficile, ma è necessario, è quanto serve in questa grave contingenza. Altrimenti i sindacati già messi in seria discussione si troveranno ad essere solo un club che difende i propri stretti associati senza una visione più generale. Una casta che tutela fasce di privilegiati contro tutti gli altri, contro i precari, contro i disoccupati, contro gli intraprendenti. E i privilegiati dai contratti blindati e dalle pensioni certe (non tutti tanto privilegiati dal punto di vista economico, questo no, ma da quello delle garanzie forse sì) sono sempre meno, mentre cresce il popolo di chi non può vivere a carico del sistema. E allora bisogna riformare un sistema in cui nessuno sia né vittima né carnefice, ma contribuisca per la sua parte ricevendo in cambio la sua parte. E non sarebbe male se i sindacati oltre a giocare questo nuovo ruolo di responsabilità dessero anche loro un buon esempio, perché quando si parla di caste, di privilegi, di strutture burocratiche che succhiano più linfa e denaro di quanto serva, beh, forse non è solo la politica a dover fare un esame di coscienza e una cura dimagrante.
è un altro totem e un altro tabù che vanno toccati: l’intervista a tutta pagina in cui il ministro di turno annuncia la riforma prima di averla seriamente avviata. Se non si vuole fare nulla, questo è il metodo migliore per farlo. Siccome, però, il governo Monti non è stato ideato e formato per fare ammuina, bensì per tirarci fuori dai guai e rimettere l’Italia in cammino, allora, non c’è altro da fare che lasciar perdere la peggiore eredità dei governi precedenti: il teatrino della politica. A Elsa Fornero, ministro del Welfare, glielo consigliamo caldamente: parli con gli atti e non con le interviste. Non è solo una questione di metodo, ma di funzionamento delle istituzioni.
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Per rendersene conto basta considerare quanto è accaduto in questi due giorni. Domenica il Corriere della Sera pubblica l’intervista alla ministro Fornero. Bella, non c’è che dire. Persino elegante. Ma da quel momento le idee messe in campo dal ministro passano in secondo e terzo piano. Hai voglia a citare la bella frase di Lama: «Non voglio vincere contro i miei figli». Non serve a niente perché i sindacati sono già partiti tutti con la parola d’ordine: «È una questione di civiltà: nessuno tocchi l’articolo 18». Come se garantire il lavoro a tempo indeterminato a chi ce l’ha e dare la possibilità a chi non ce l’ha di avere un contratto a tempo indeterminato rivedendo senza abolire l’articolo 18 fosse una questione di inciviltà. Eppure, è proprio questo che si ottiene quando si annuncia una riforma del mercato del lavoro senza averla ancora fatta: la manipolazione delle parole, delle idee, delle intenzioni. In pratica si ha l’effetto contrario a quello desiderato. Perché - è evidente il ministro con la sua intervista avrebbe voluto avviare una discussione e un confronto proprio con le “parti sociali” perché un confronto su idee, interessi e valori è proprio una “questione di civiltà”. Però, siamo il Paese che siamo e allora tanto vale prenderne atto e regolarsi di conseguenza. La regola di conseguenza non è il fatto compiuto, ma il più normale lavoro nelle istituzioni, facendo lavorare le commissioni e facendo parlare le carte, i numeri, le cifre. Dopotutto, se questo è un Paese fermo, che non cresce, immobile, non possiamo pensare che in tutti questi anni che crediamo di avere alle spalle la colpa sia stata esclusivamente di quel tale che non c’è più. Una riforma seria del mercato del lavoro non si è mai potuta fare perché i sindacati, difendendo prima i loro interessi e poi quelli dei lavoratori disoccupati, non lo hanno mai permesso. In fondo, oggi i sindacati stanno facendo quanto hanno fatto ieri e ieri l’altro e, tutto sommato, si stanno dimostrando molto meno responsabili dei partiti. Il governo, dunque, deve adottare uno stile istituzionale, mettendo da parte il dibattito pubblicistico e ogni strategia comunicativa che sono tutte cose che lo conducono, al di là delle intenzioni dei ministri, nello scontro del muro contro muro che era e resta per i sindacati l’opzione migliore per difendere l’indifendibile. La Fornero, come si è visto, non ha nulla da guadagnare a prendere posto nel teatrino della politica sindacale che subito le cambia il profilo professionale e persino quello umano.
ro di un governo d’emergenza i sindacati non sembrano voler fare lo stesso, anzi il tentativo sembra proprio quello di prendere il posto delle forze politiche e giocare in proprio questa partita.
Una situazione che per ora mette in difficoltà soprattutto il Pd già diviso al suo interno tra sostenitori della proposta Ichino (flexsecurity) e fassiniani di stretta obbedienza. E così dopo che il segretario Bersani ieri chiedeva di rimandare a gennaio ogni discussione sul lavoro anche la vice presidente dell’assemblea nazionale del Pd, Marina Sereni cerca di gettare acqua su un fuoco che rischia di divampare: «La riforma del welfare e del mercato del lavoro è possibile mettendo da parte lo scontro tra opposte fazioni». Il consiglio del vicepresidente Pd al ministro del Welfare e alla segretaria della Cgil è un invito a sotterrare l’ascia di guerra: «La querelle sull’articolo sta mandando all’opinione pubblica un messaggio fuorviante e devastante. Ho molta simpatia per Elsa Fornero e per Susanna Camusso. Però, con altrettanta sincerità, devo dire che le loro interviste non mi sono piaciute». Non è solo la Sereni a pensarla così, sono in molti nel centrosinistra ma anche nel centrodestra che pur condannando gli eccessi verbali di Susanna Camusso ritengono che la Fornero quell’intervista poteva anche risparmiarsela. Delle eredità della seconda repubblica infatti quella della politica governativa fatta a mezzo stampa e per via d’esternazione di singoli ministri sarebbe la peggiore. Non è solo il Pd però a chiedere al governo la stessa duttilità richiesta ai sindacati. Dopo una manovra così impegnativa – dicono al Nazareno - il governo dovrebbe riconoscere che ora serve il confronto col le parti sociali. Il segretario del Pd Bersani chiede una tregua fino a gennaio, «facciamoci il natale con un po’ di tranquillità». Lo stesso leader dell’Udc Casini definisce l’articolo 18 «un argomento da affrontare seriamente sapendo che è importante discuterlo con i sindacati». Il leader dell’Api Francesco Rutelli va oltre ed è meno velata la sua critica alla politica dell’annuncio in cui è incorsa la Fornero: «Il governo deve fare meno interviste e più provvedimenti. Avrei preferito più interventi per la crescita e sulla riduzione della spesa e meno annunci su questioni che poi suscitano polemiche e non è detto vengano realizzate». Ieri il presidente della Bce Mario Draghi, in un intervento davanti alla Commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo indicava come freno all’economia la precarietà :«Il mercato del lavoro è anche troppo flessibile e la flessibilità crea incertezza».
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l’approfondimento
Dall’economista milanese un duro giudizio sulle polemiche sollevate contro il ministro Fornero: «Nascondono una sconfitta epocale»
Corporazioni sindacali «In Germania le rappresentanze partecipano attivamente alla programmazione, da noi hanno finito per essere solo uno strumento corporativo. Per questo adesso sanno soltanto contrastare le riforme», dice Marco Vitale di Errico Novi
ROMA. Di fronte alla brutalità con cui Susanna Camusso, e non solo lei, ha rintuzzato il fugace accenno del ministro Elsa Foriero alla revisione dell’articolo 18, verrebbe da credere in un sostanziale spiazzamento del sindacato italiano. Disorientato rispetto alla nuova fase che si è aperta e anche al profilo di questo esecutivo così distante dai predecessori. Eppure un economista non tacciabile di arroganze padronali come Marco Vitale, tra l’altro vicepresidente del Centro studi Sturzo, propone un giudizio molto, ma molto aggravato: «I sindacati registrano in realtà la disfatta a cui hanno condotto i lavoratori italiani». E quindi le reazioni scomposte alla Fornero, dice il fondatore dell’università Carlo Cattaneo, sono l’epitome di una storica sconfitta, di un fallimento strategico a cui Camuso e gli altri non sono in grado di rassegnarsi.
È chiaro che l’ordinamento del lavoro è uno di quei campi, dice Vitale, da «sottoporre a un
profondo ripensamento, nell’interesse sia delle imprese che dei lavoratori». Ma anziché riflettere su tale realtà, la leader della Cgil «si pone a un livello di incredibile inciviltà: sembra l’intervento di una talebana leghista». Ciò detto, «il ministro Fornero ha commesso un nuovo errore di comunicazione che, facendo seguito a quello delle lacrime televisive, legittima il suggerimento che si doti di un buon consulente di comunicazione», conclude l’economista milanese. Tanto per chiarire che in questa fase la delicatezza delle questioni è tale da non consentire alcun tipo di errore. «Ma appunto il nocciolo della questione è nello stato in cui versa oggi il lavoro in Italia. Si aprano gli occhi su questo. Basta fare un paragone con la Germania: lavoratori tedeschi sono ben pagati, quelli italiani sono pagati male; i primi hanno un cuneo fiscale sostenibile, i secondi ne scontano uno soffocante; i lavoratori tedeschi, nelle aziende di dimensioni medio grandi, partecipano alle stra-
tegie e alla conduzione aziendale con la partecipazione paritetica, ai consigli di sorveglianza, gli italiani contano come il due di picche e possono solo fare barricate. Vogliamo continuare?». Continuiamo. «I sindacati tedeschi cogestiscono la ristrutturazione industriale e le riduzioni di posti di lavoro per esubero o per crisi e chiusure aziendali. I nostri abbozzano e basta, oppure, per farsi sentire, devono scalare le gru. I tedeschi godono di un buon tasso di occupazione,
«Servirebbe un Di Vittorio o un Lama, non l’inciviltà della Camusso»
gli italiani ne soffrono il continuo decremento».
Ecco, spiega il professore, «questo è il bilancio, nudo e crudo, della politica retriva e ottusa del sindacato italiano. Una sconfitta su tutta la linea. Pochi giorni fa, in un consiglio di amministrazione di un gruppo che gestisce una fabbrica in Lombardia e una fabbrica, sostanzialmente uguale, in Baviera, ho dovuto votare a malincuore, ma sulla base di dati oggettivi e ine-
quivocabili, a favore dell’installazione di una nuova linea di produzione e connessi posti di lavoro in Baviera anziché in Lombardia. Ciò perché il costo del lavoro risultava più basso in Baviera che non in Lombardia». E allora, appunto, «i sindacati italiani devono prendere atto che la loro è una sconfitta epocale e totale a danno dei lavoratori italiani e del Paese. Io credo alla indispensabilità di un sindacato autorevole e rispettato. Ho sperimentato l’utilità di ciò proprio partecipando a consigli di imprese tedesche. Perciò resto sgomento nel vedere un sindacato così pervicacemente immobilista in un mondo in cui tutto evolve e chiama a innovazioni organizzative sociali e culturali su tutta la linea». Insomma, la questione non si ferma alle tutele sul lavoro in uscita, è assai più ampia e, per l’Italia, critica. «Questo tragico immobilismo suscita paura e preoccupazione. Non c’è dubbio che i lavoratori debbano essere tutelati e tanto più in una fase stori-
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A 48 ore dall’avvertimento di Mario Draghi, l’attacco al firewall benedetto anche da Usa e Fmi
Le agenzie di rating affondano anche il (futuro) Fondo Salva Stati Fitch: «Se ci sarà un declassamento di Francia e Germania, anche l’Efsf non avrà la Tripla A». A rischio l’ultimo baluardo europeo contro la crisi di Francesco Pacifico
ROMA. Tra le imprese tedesche – quelle che con le loro esportazioni reggono il Pil dell’Eurozona – scoppia un inaspettato ottimismo. Ancora maggiore se si pensa che il boom segnato dall’indice Ifo (107,2 punti a dicembre) è collegato alle domanda interna, storicamente asfittica oltre il Reno. Ma più il mondo sembra correre verso una nuova recessione e più la finanza e l’economia reale sembrano prendere le distanze. Ce ne si è accorti chiaramente ieri quando Fitch ha messo in dubbio anche il rating del futuro Fondo Salva Stati. La più piccola delle agenzie di rating ha annunciato che «la tripla A del Efsf è legata soprattutto al mantenimento della tripla A da parte di Francia e Germania». Di conseguenza «la revisione dell’outlook in senso negativo della Francia indica che il rischio di declassamento dell’Efsf è in crescita». Di conseguenza, rischia di ritrovarsi con le polveri bagnate l’ultimo baluardo dell’Europa contro la crisi. Il quale difficilmente potrà riassicurare le emissioni sul mercato primario con un livello di solvibilità zoppicante. Ancora una volta finiscono nel mirino le agenzie di rating. Ma a difendere la categoria ci ha pensato il direttore generale di Moody’s Italia, Alex Cataldo, in un’audizione alla Camera: «Noi valutiamo esclusivamente il rischio del debito sovrano di un Paese e non commentiamo mai aspetti politici. Valutiamo solo gli aspetti che possono impattare sulla capacità di pagare il debito». Il primo a lanciare l’allarme era stato Mario Draghi davanti all’Europarlamento, 24 ore prima dell’annuncio di Fitch. «Non dovremmo preoccuparci troppo da un eventuale downgrade della Francia, ma nel caso avvenisse sarebbe importante valutare l’impatto che avrebbe sul fondo salva-stati Efsf», aveva dichiarato il presidente della Bce Mario Draghi, facendo intendere che una bocciatura potrebbe avere ripercussioni di natura finanziaria e non sulla già bassa crescita. Quasi a lanciare un monito agli Stati che non hanno ancora chiuso il dossier sul Fondo Salva, l’inquilino dell’Eurotower aveva anche ricordato che «sarebbe stato meglio avere un Efsf rafforzato e poi procedere alle ricapitalizzazioni del-
le banche. Ma la sequenza giusta è andata fuori ordine, non c’è alternativa alle ricapitalizzazioni». Infatti oggi la Bce darà il via a un’operazione di rifinanziamento per fornire liquidità illimitata alle banche per un triennio . Per Draghi non resta che applicare «la li-
Cataldo (Moody’s): «Noi valutiamo soltanto il rischio del debito sovrano di un Paese e non gli aspetti politici» nea di fondo adottata dall’ultimo vertice Ue e anticipare già a metà 2012 l’entrata in vigore del Fondo Salva Stato permanente Esm. La speranza è quella di accelerare la ricapitalizzazione del meccanismo che permetterebbe di reagire al me-
glio a eventuali declassamenti di rating». Questi avvertimenti rischiano di cadere nel vuoto. Dopo gli sforzi delle scorse settimane José Barroso sembra aver cambiato cavallo di battaglia e lancia un’iniziativa – “Opportunità per i giovani” – contro l’alta disoccupazione tra gli under 34, salita a quota 21 per cento nella Ue dopo il triennio della crisi. La ricetta di Bruxelles è semplice: usare i 30 miliardi del Fondo sociale europeo non ancora assegnati per politiche di orientamento scolastico e formativo per avvicinare i giovani al mercato del lavoro. Difficilmente neppure i Paesi dell’Eurozona seguiranno il consiglio di Draghi. La Germania sembra più interessata a ricucire lo strappo con i britannici per farli entrare sotto l’alveo del nuovo patto fiscale. L’ha ben chiarito il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwalle dopo aver incontrato l’omologo inglese (ed euroscettico) William Hague. «Non esiste da parte della Ue alcuna agenda nascosta contro la City, dobbiamo costruire ponti tra di noi dopo l’ultimo summit», ha spiegato il vice della Merkel. Che come merce di scambio ha messo sul piatto il «comune interesse che nella città di Londra ci sia un forte segmento di servizi finanziari». E sembra finito nel dimenticatoio anche a Parigi il Fondo Salva Stati, che Sarkozy voleva rendere a tutti gli effetti una banca, capace di trasformarsi in prestatore di ultima istanza.
Anche se a livello ufficiale in pochi lo dicono, la Francia dà per scontato il declassamento. E in questa logica va vista la scelta del ministro delle Finanze François Baroin di limitare a 177 miliardi di euro (79 per colmare il deficit e 98 per pagare i titoli di stato in scadenza) il rifinanziamento nel 2012. Jean-Pierre Jouyet, il direttore dell’Amf (l’autorità di vigilanza sulla finanza francese) ha spiegato che «sarebbe quasi un miracolo se la Francia mantenesse il rating a tripla A, il più elevato sull’affidabilità creditizia». Quindi si è scagliato contro «un certo fatalismo» che giustifica la bocciatura della seconda economia del Vecchio Continente. Senza dimenticare, ha aggiunto, che un downgrading «non sarebbe banale perché avrebbe ricadute sui costi di rifinanziamento e non sarebbe senza conseguenze sull’Efsf». I mercati però vanno avanti sulla loro strada e sfidano i governi sul terreno delle riforme. Nell’ultimo rapporto Global Sovereign Credit Outlook, Fitch si scaglia contro «l’approccio gradualistico con cui i politici stanno affrontando la crisi del debito sovrano, che lascia l’eurozona priva di una soluzione comprensiva. Ecco perché l’area continuerà a subire ulteriori episodi di grave volatilità dei mercati finanziari».
camente così difficile come l’attuale. Ma anche le forme di tutela devono evolvere, venire adattate, rese compatibili con la situazione generale, essere efficaci. I lavoratori tedeschi sono ben più tutelati di quelli italiani».
Non mancherebbero sussulti di coscienza, che però non producono mai un cambio di rotta. «Pochi giorni fa, a Roma, in un incontro indetto per ricordare Sylos Labini, il leader della Uil Angeletti in uno slancio di sincerità ha affermato che la divisione sindacale esprime la mancanza di idee e di strumenti per collaborare a un nuovo disegno di sviluppo. E che l’unità sindacale rinasce solo quando si tratta di sviluppare azioni difensive. E ancora, che non esiste unità a Pomigliano, ma esiste a Termini Imerese. Ecco, Angeletti descrive una situazione del tutto diversa da quella auspicabile: segnata cioè da un sindacato che ritorni a partecipare a progetti di crescita e di sviluppo. Purtroppo i segnali sono molto cattivi. Bisognerebbe far rinascere Di Vittorio o anche solo Luciano Lama». Qui ora siamo lontani, siamo alla «grossolanità e alla inciviltà della signora Camusso. Sottoscrivo totalmente quello che ha scritto Battista sul Corriere». Ma Vitale si sofferma su un altro elemento emerso a suo giudizio in queste ore: «Il ministro Fornero è un disastro comunicazionale. La sua affermazione sul fatto che l’articolo 18 non è un tabù è profondamente corretta. Ma non è stato intelligente né utile sollevare il tema in una intervista e fuori da una visione organica dell’intera materia del lavoro. Non ha senso politico sollevare la questione dell’articolo 18 di per sé, reiterando l’errore già fatto da altri governi sprovveduti. Ha senso inserire il tema in un progetto meditato, approfondito, frutto di una visione di lungo termine, condivisa dall’intero governo che nell’insieme possiamo chiamare modernizzazione del mercato del lavoro». Vitale ancora non vede un simile disegno. «Serve con urgenza. Serve una visione che proponga soluzioni innovative e vantaggiose sia per le imprese che per i lavoratori, quindi per il Paese. Ciò di cui abbiamo bisogno sono soluzioni migliorative per tutti, delle proposte win-win. L’interesse generale non è sconfiggere il sindacato, il che oltretutto in questo momento sarebbe come sparare sulla Croce rossa, ma aiutarlo a crescere e convincerlo a fare qualcosa che sia utile per i lavoratori. Ma per fare ciò è necessario evitare le risse, e confrontarsi su progetti organici, documentatiseri». Detto questo, chiarisce Vitale, «sul piano semplicemente umano, solidarizzo con il ministro Fornero che ha reagito con vigore contro l’incivile attacco della Camusso. E confido che Monti saprà ricondurre queste inutili risse nel binario della politica utile».
politica
pagina 6 • 21 dicembre 2011
Intervista con Stefania Craxi: «Il partito del Cavaliere è senza politica»
«Ora un patto tra riformisti e moderati» «Casini va rafforzato, anche per cambiare la legge elettorale. Serve un’alleanza nuova» di Errico Novi
ROMA. Va detto che la canea della denigrazione sistematica, almeno con lei, non è entrata in azione. «Forse perché nel Pdl ci sono più persone di quanto si creda capaci di ragionare di politica. O magari perché metto soggezione». Stefania Craxi coglie la diversità, rispetto ad altri casi, del trattamento riservatole dal partitone berlusconiano dopo l’addio, annunciato venerdì in un’intervista al Corriere. A spiegare il fenomeno potrebbe però contribuire anche la correttezza della diagnosi fornita dall’onorevole Craxi: «Il centrodestra è finito». Che ribadita a liberal è così riformulata: «Chiusa l’alleanza con la Lega, il Pdl non ha più una linea politica». Peggio, insomma. Continua la parlamentare: «Visto che voglio portare avanti un progetto politico molto chiaro, ho ritenuto che, per poterlo realizzare, il distacco dal Pdl fosse necessario, innanzitutto per ragioni di chiarezza». L’affermazione però equivale a dire che dalle parti del Cavaliere è particolarmente arduo coltivare progetti politici. «Ci sono anche i riformisti, nel Pdl. Ma io voglio lavorare a uno spazio aperto di discussione per promuovere una grande alleanza tra moderati e riformisti. Intendo farlo attraverso lo strumento appena messo in piedi, Riformisti italiani, che non è un soggetto politico ma potrebbe diventarlo. Bisogna uscire dall’attuale meccanismo maggioritario, anche con una nuova legge elettorale, e scongiurare l’imporsi della foto di Vasto a nuovo paradigma del Paese».
Ecco, il fatto che tutto questo, questa idea di «rimettere insieme riformisti e moderati» necessiti come presupposto il distacco dal Pdl, è innanzitutto grave, per il Pdl stesso. E forse
anche abbastanza condiviso, seppur nel silenzio della rassegnazione, tra i berlusconiani. Si spiega evidentemente così il contegno osservato dalla pancia del centrodestra nei confronti della deputata. La quale appunto non ha difficoltà ad appesantire il carico: «Se la necessità di aprire una strada nuova è la ragione principale, l’altro presupposto della mia
Finito il Pdl e finita un’epoca. Inutile pensare al contrario
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sconcerto si traduca nell’astensionismo. E per farlo serve una forte iniziativa politica».
Qui affiora la parte più ambiziosa della nuova fase che Stefania Craxi intende darsi: ricostruire un campo riformista e moderato che non chiuda né al Pdl nelle sue componenti più aperte e anzi tenda a recuperarne aree di consenso. «Una foprte identità riformista è essenziale per coltivare un simile obiettivo».Va detto che un partito in cui i riformisti vorrebbero sentirsi a casa proprio c’è anche nel campo della sinistra: la parte liberaldemocratica del Pd non ha lo stesso orizzonte. «Vedo numerose personalità, non un’area politica riformista, nel Pdl. Spero che queste personalità riconoscano quanto sia impraticabile coltivare la loro prospettiva all’interno di
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decisione è in effetti il dato seguente: un ciclo politico è finito, e non ci sarà alcuna fata cancellina a riportare tutto com’era. Illusione forse coltivata da qualcuno, su cui però fa premio il problema di un Pdl irriducibilmente ridotto a partito personale, senza occasioni di dibattito politico al proprio interno, né di selezione della classe dirigente». Tutto questo produce conseguenze negative o buone occasioni a seconda del punto di vista: «C’è una forte delusione nell’elettorato di centrodestra. Alimentata dall’aver imbarcato i cosiddetti responsabili, ma anche dagli scandali. Va evitato che tale
quel partito». Stoccata numero due. Adesso dunque la Craxi lavora alla «grande conferenza, identitaria prima ancora che programmatica, che Riformisti italiani terrà nella prossima primavera». Ricostruire il campo dei moderati che il Pdl lascia tra le macerie non vuol dire forse ripartire dal Terzo polo? «Chiariamo: non intendo iscrivermi all’Udc né mi pongo il problema dell’alleanza con il Terzo polo. Casomai guardo a un’alleanza sulla base di una proposta politica con tutte le firze moderate e riformiste, quindi anche con Casini».
Chiaro. Com’è chiara l’ulteriore dichiarazione di sostegno che la deputata pronuncia proprio nei confronti del leader Udc: «Davvero credo gli si debba dare solidarietà. anche perché credo sia importante rafforzarlo in modo che Casini veda con chiarezza l’imbroglio in corso d’allestimento a sinistra. Vorrebbero che lui se ne lasci coin-
La foto di Vasto non deve essere paradigma per l’Italia
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volgere, eppure non credo sia quella la sua intenzione. Dargli forza vuol dire anche condividere alcune precise iniziative, a cominciare da quella sulla legge elettorale». In proposito la figlia del leader socialista ha un’idea che «metterebbe d’accordo tutti: maggioritari, proporzionalisti e presidenzialisti». Ovvero: «Una legge che preveda un primo turno con il sistema proporzionale in modo da salvaguardare il diritto alla rappresentanza delle culture politiche, e un secondo turno che assegni il premio di maggioranza alla coalizione vincitrice. Non avremo più a che fare con i paradossi prodotti dal maggioritario attuale, con cui la confusione è addirittura aumentata. Visto però che a mio
politica
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Berlusconi non manda segnali precisi: prima “apre” a Monti, poi lo attacca
L’ex maggioranza allo sfascio in (disperata) cerca d’autore Formigoni punta al ruolo di federatore con Lega e Udc, Alfano brancola nel buio, gli ex An vanno allo sbaraglio di Marco Palombi emplicemente, nessuno sa cosa sta succedendo. L’assunto vale per l’intero quadro politico italiano, in vertiginosa scomposizione, ma soprattutto per gli uomini del predellino: dirigenti, eletti e leaderini del Popolo della Libertà. In primo luogo c’è il problema di Silvio Berlusconi. Quanto conta ancora? E cosa pensa? Nessuno lo sa, probabilmente neanche lui. Il Cavaliere passa da endorsement impegnativi per Mario Monti a cadute di stile (“è disperato”) fino a profezie interessate (“secondo me non dura”): eppure il suo plenipotenziario per i rapporti con il governo, Gianni Letta, è tra i più quadrati sostenitori dell’uomo della Bocconi. Oggi, per dire, il Berlusconi di lotta e di governo arriva in edicola con un intervista al settimanale “Chi”, l’house organ della real casa di Arcore: «Mario Monti ha dimostrato di essere una persona concreta e di buon senso: a lui ho fatto una promessa di leale collaborazione, anche se comunque dovrà avere il consenso del Parlamento, nel quale la mia parte politica ha sempre la maggioranza». A poche ore di distanza dalla diffusione di queste parole, stavolta a voce, ha derubricato il “sospensione della democrazia”con cui definì il nuovo governo ad “espressione colorita per indicare un’anomalia”. E ancora: in privato l’ex premier tenta di rabbonire i più riottosi tra i suoi accoliti con la promessa che si andrà alle urne a giugno, ma lunedì sera parlando ad una riunione di militanti altoatesini ha scandito “si vota nel 2013”e ovviamente vincerà il PdL “candidando Angelino Alfano”. Quanto a lui, sostiene, «non mi ricandido ma non abbandonerò la politica finché l’Italia non sarà un Paese liberale». E poi c’è il problema del rapporto con la Lega. Anche su questo il nuovo Silvio è un po’ ambiguo: un po’ la bastona (“Protestano per l’Imu? Ma se l’hanno voluta loro”), un po’ si spinge fino a farsi maltrattare pur di conservare un rapporto con Umberto Bossi (pare che i due si siano sentiti all’inizio della settimana).
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giudizio la disciplina del voto è il coronamento di un sistema istituzionale, raccoglierò innanzitutto le firme per una legge d’iniziativa popolare che istituisca un’assemblea costituente. Questo Paese ha bisogno di un grande rinnovamento politico, sociale e morale. Non moralistico, sia chiaro».
Casini nuovo catalizzatore nel campo moderato? «Ripeto, se parlo di alleanza tra riformisti e moderati penso evidentemente a Casini. E al fatto che tale soluzione politica è quella storicamente in grado di far compier grandi passi avanti a questo Paese: Giolitti e Turati, De Gasperi e Saragat, Craxi e Forlani. Si chiarirà anche che la vera linea divisoria lascia da una parte il riformismo, compreso quello cattolico sociale, e dall’altra quei conche servatorismi trovano sugello nella cultura cattocomunista da Dossetti a Berlinguer. Nel Paese è quello il vero confine, lo si vedrà anche con la necessaria liberalizzazione del mercato del lavoro. E poi con la legge elettorale».
Silvio Berlusconi circondato dai suoi deputati nell’Aula di Montecitorio. A destra dall’alto Angelino Alfano e Fabrizio Cicchitto. Nella pagina a fianco Stefania Craxi
I nostri elettori? Delusi da Scilipoti e dagli scandali
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sa unica del Ppe italiano, lui si gioca la carta del nuovo federatore (il ritorno all’alleanza del 2001, dall’Udc alla Lega). Il disegno egemonico sul partito di maggioranza relativa del governatore lombardo e del suo ricco entourage politico-imprenditoriale s’è potuto avvalere persino dell’aiuto – forse consapevole, forse no – di Ignazio La Russa, uno che, come tutti gli ex An rimasti con Berlusconi, oggi si dibatte tra la rabbia e l’impotenza. Per mantenere il rapporto con la Lega e quello con forze come quella di Gianfranco Miccichè e simili bisogna avere due PdL - uno del Nord e uno del Sud – e due segretari, magari Alfano e Formigoni. All’orizzonte, a non voler contare il Parlamento romano, ci sono le elezioni amministrative di primavera: non ricucire col Carroccio significherebbe un bagno di sangue per l’ex maggioranza, come pure perdersi per strada i sudisti di Miccichè (si vota anche per il sindaco di Palermo).
È su questa linea di faglia che si gioca tutta la partita. Quanti credono che occorra puntare tutto su un vero partito dei moderati italiani, come timidamente fa anche Alfano, non vuole far passare sotto silenzio le chiassate della Lega su Imu, secessione o altro e mette già i paletti per il futuro: «Non vedo rapporti possibili con la Lega – ha messo a verbale ieri Gianni Alemanno – Anche perché il Carroccio si trova in una fase delicata, visto che s’è aperta la guerra di successione a Umberto Bossi. Solitamente, in stagioni come queste, i partiti carismatici tendono a rinchiudersi. Sino a quando questa transizione non sarà conclusa, dalla Lega dovremo aspettarci il peggio». Per questa area, diciamo modernista, del PdL parla anche Fabrizio Cicchitto, quando spiega che mandare a casa il governo Monti come chiedono gli ex An o le Santanchè sarebbe “un’ipotesi distruttiva”, visto che “l’emergenza per la quale abbiamo rinunciato a palazzo Chigi non è affatto alle nostre spalle”. A questo punto, ragiona chi vuole evitare le urne subito, l’unico modo per stabilizzare la legislatura è dare un compito al Parlamento e alle forze politiche: riforme costituzionali, dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale. «Se n’è parlato spesso a sproposito – dice persino Maurizio Gasparri – ma questo può essere il momento giusto». Il menù è il solito: alla rinfusa si parlerebbe di fine del bicameralismo, sfiducia costruttiva, riduzione del numero dei parlamentari, corsia preferenziale per i ddl del governo, addio al Porcellum (verso che direzione è un altro paio di maniche). Non si sa, però, se il PdL si spingerà fino ad accettare la Bicamerale di cui si parla nell’Udc e in pezzi del Partito democratico: d’altronde se non era chiaro finora, nessuno sa cosa sta succedendo dentro al partitone del predellino, né cosa ne resterà alla fine della legislatura.
All’orizzonte, a non voler contare il Parlamento romano, ci sono le elezioni amministrative di primavera
Se non si sa cosa deciderà di fare il Cavaliere, ne consegue che il segretario del PdL - scelto da lui dopo una consultazione con sé stesso - non riesce ad esprimere una linea chiara sul governo dei professori: è timido e aggressivo, un po’ contesta, un po’ la butta in caciara dando la colpa all’Europa (anzi a “Nicolas e Angela”, come li chiama in tv), un po’ tenta di collaborare con Casini e Bersani ma senza dare l’idea che lo stia facendo. Nel frattempo il suo ruolo nel partito – contestato da una buona metà dei maggiorenti fin dal primo minuto – perde consistenza ogni settimana che passa. Attorno ad Alfano, sotto e sopra ad Alfano, s’affacciano le ambizioni, i disegni, le speranze di altri capi e capetti. Il più attivo, come si sa, è Roberto Formigoni: sono mesi che il Celeste fa sondaggi sulla sua popolarità in caso di primarie e visto che il suo avversario punta mediaticamente sulla ca-
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rovate solo ad accennare a Eraclito, Platone, Epicuro, Seneca, e ad altri pensatori di oltre duemila anni fa, con la generazione cosiddetta digitale, quella dei computer, degli sms e del “tutto in web”. Non per fare il pessimista o il disilluso, ma credo che la reazione sia pari a quella di chi ascolta racconti e precetti di esseri ossificati, di cadaveri eccellenti ma pur sempre cadaveri. A poco a poco, tuttavia, emergono segnali che vanno verso la rivalutazione di quei “vecchioni”, che poi non sono altro che i fondatori del pensiero filosofico occidentale, in grado di appannare, od oscurare, le suggestioni della new age, dei movimenti che si ispirano al buddhismo e in genere a quell’orientalismo che si ostina a raccomandare una teorica quanto guasta distanza dal mondo in cui viviamo, col quale però quotidianamente dobbiamo confrontarci. Gli Antichi, sia Greci che Romani, hanno delineato le linee guida del pensiero tenendosi sempre a contatto con la vita che ci circonda. Ma soprattutto hanno trasmesso, a noi un po’ inebriati dall’onniscienza della tecnica, un concetto essenziale: ogni sapere aumenta ciò che non sappiamo. La frase è contenuta nella lucidissima analisi che fa Roger-Pol Droit (in “Vivere oggi con Socrate, Epicuro, Seneca e tutti gli altri”, Angelo Colla editore, 186 pagine, 16,50) delle esplorazioni filosofiche che hanno coinciso con il paganesimo dell’Occidente. L’autore fa un giusto tributo al connazionale Pierre Hadot, già direttore dell’”Ecole pratique des hautes études”. Con Hadot, scrive l’autore, c’è stata una grande svolta perché «ha dimostrato come il compito primo del filosofo, nell’Antichità, fosse cambiare la propria vita, e non scrivere libri, o anche elaborare concetti». Se immaginiamo il “Timeo”di Platone o la “Fisica” o i “Meteorologica” di Aristotele, non dobbiamo incappare nell’errore di credere d’essere lontani dal cammino verso la pace dell’anima. È questa la vera meta: «Per accedere alla saggezza, è utile sapere come si sia disposta la materia e in che modo si organizzi il cosmo. Tutto, in fin dei conti, è orientato, se non subordinato, a questo obiettivo: conseguire la saggezza». Scienza, alta tecnologia, psicoanalisi e altre pratiche del pensiero moderno sono complici di una subdola rottura col passato greco-romano.
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La dimenticanza s’è fatta vistosa da due o tre generazioni: «Tutto quello che, a prescindere dal valore effettivo, era stato trasmesso nel corso di duemilacinquecento anni si trova lasciato incolto, abbandonato dalla scuola». Grandissimo errore visto che Greci e Romani hanno costantemente alimentato l’immaginario della cultura europea. Questi Antichi che a molti paiono polverosi o superati si incontrano in ogni campo, dalla pittura al cinema, da Shakespeare a Racine, da Robespierre a Marx, e perfino nei deliri di Hitler. Questa considerazione ci porta direttamente a Nietzsche. In un suo testo ci avverte che «solo la tragedia può salvarci dal buddhismo». La pratica orientale, secondo il filosofo tedesco (oggi spesso citato, ma non così ben conosciuto nella sua interezza di pensiero), simboleggia le terre del Sol Levante, il rifiuto di soffrire, la negazione della volontà di vivere, l’accesso sognato a un mondo senza conflitti, pacificato, privo di dolore così come di passioni. Un universo nel quale non abitiamo, ovviamente. «La tragedia
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Affrontando la cr Gli antichi hanno delineato le linee guida del pensiero tenendosi sempre a contatto con la vita che ci circonda. Per affrontare anche le tempeste di Pier Mario Fasanotti - spiega Roger-Pol Droit - diventa invece sinonimo di Occidente, di disagio accettato, di vita conquistatrice, di conflitti patiti, di guerre e di forze antagonistiche che accettano sia di soffrire sia di gioire. Vi sono solo queste due vie. Nessun’altra». Certo, Nietzsche per alcuni aspetti è discutibilissimo, ma la sua scelta radicalmente occidentale - e noi diremmo quella più realistica e a noi più prossima - è senza appello. E ancora: «Le emozioni pesanti della tragedia greca sono effettivamente agli antipodi degli esercizi di meditazione buddhisti. Questo perché esse ci fanno comprendere non solo che il conflitto guida il mondo, ma che esso è posto anche in noi stessi». La tragedia rimanda al teatro. Ossia al movimento, al dialogo (che etimologicamente non è da intendersi solo come il parlare tra due soggetti, anzi), al “tutto scorre”di Eraclito, all’esistenza come
to che costituisce il nucleo stesso della filosofia: «Liberare il prigioniero, scioglierne i vincoli, costringerlo ad alzarsi, a camminare, a lasciare la sua posizione primitiva, a salire faticosamente verso la luce, il cielo delle idee, la visione delle cose reali». Quel che conta è mettersi in cammino, anche se più tardi si dovrà tornare nel buio della caverna. Il movimento continua, dunque. Per Platone, ma non solo per lui, la contemplazione è
«La tragedia - spiega Roger-Pol Droit - diventa sinonimo di Occidente: disagio accettato e vita conquistatrice. Vi sono solo queste due vie» continuo adattarsi alle mutazioni emozionali e storiche e come ricerca di un equilibrio interiore che non prescinda dal mondo. Può apparire bizzarro per qualcuno l’accostamento delle parole di Platone al teatro. Invece è sensato. Più o meno tutti sanno, o hanno orecchiato, dell’”allegoria della caverna”. Questa caverna, sostiene Roger-Pol Droit,“è una messinscena”. Definizione propriamente teatrale, quindi: «La curiosa storia di prigionieri incatenati fin dall’infanzia, che scambiano per oggetti reali le ombre proiettate, e che poi vengono liberati e portati all’aria aperta, abitandosi così alla luce e al mondo vero». Platone insegnava forse che il mondo reale è fatto solo di ombre e di riflessi, mentre il mondo vero è quello delle idee, che forniscono il modello a tutto ciò che percepiamo?No, non ci si deve fermare a questa specie di “fissismo”, che proprio non appartiene al pensiero di Platone. Secondo il grande ateniese l’attenzione deve essere spostata verso quel movimen-
solo una sosta, non uno status eterno o desiderabile in quanto tale.
Sempre a proposito di teatro, Platone nelle sue opere non indica mai con esattezza chi ha ragione e chi ha torto, a parte visibili simpatie per questo piuttosto che quel protagonista dei dialoghi. Ecco allora il teatro delle idee, sintesi del movimento del pensiero:«Sempre punti di vista molteplici, molteplici dimensioni che si rispondono. Dialogo dell’anima con se stessa, teatro riflessivo nel palcoscenico della mente. Pensiero mai come blocco omogeneo, compatto, massiccio, immobile». Magari è azzardato quel che aggiungo, ma può starci come si suole dire: Platone insegna che il pensare è qualcosa di fluido, elemento che, in una visione sociologica, siede accanto a “società liquida”, teorizzata in questo periodo da Zygmunt Bauman, il quale ci indi-
ca appunto il movimento, la “fusion”, il “melting pot” non solo delle razze ma anche degli orientamenti comportamentali. Parrà più chiaro a questo punto quanto sia attuale la segnaletica degli Antichi, bussola che ci aiuta, oggi dopo 2500 anni, a riconsiderare «l’esperienza del pensare come mutamento dell’essere». Greci e Romani non avevano la testa tra le nuvole, non si baloccavano con costruzioni mentali astratte. Tutt’altro. La filosofia era e doveva sempre essere “terapia dell’anima”. E non è un dramma - a meno che si abbracci totalmente una religione - trovarsi di fronte a grandi dilemmi. Questi fanno parte della nostra vita. Esiste anche “la dolcezza dell’incerto”. Il dubbio può rendere felici, sosteneva l’ateniese Pirrone, filosofo alquanto misconosciuto (scuola dello scetticismo). Il quale sosteneva che noi non sappiamo per davvero che cosa sia
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risi con Filosofia
Il dubbio può rendere felici, sosteneva l’ateniese Pirrone: «Noi non sappiamo davvero cosa sia il mondo, e neanche cosa sia bene o male» il mondo, e nemmeno che cosa sia il bene o il male. La sospensione del giudizio, a suo avviso, potrebbe condurre alla serenità.
Roger-Pol Droit tuttavia avverte: «Scettico non designa una pura volontà intellettuale di dubitare di tutto, in maniera continuativa, sistematica ed estrema. I discepoli di questa scuola non mettono in questione, per esempio, la realtà dei loro affetti…la loro posizione non consiste nel mettere in dubbio l’esistenza delle sensazioni o nel rifiutare l’idea che esista una realtà, giacchè a loro sembra stravagante mettersi a fare supposizioni del genere». No, per Pirrone e compagni la realtà non è affatto un abbaglio, un miraggio, un’illusione, anche se, dicono, non esiste alcuna via di accesso a una conoscenza sicura della sua essenza o del suo funzionamento. Tutto questo è riassunto nel termine greco “aporia”, situazione priva di sblocchi, una via senza uscita. Altro avvertimento dello studioso francese: «Facile pensare a un atteggiaIn apertura la celebre “Scuola ateniese” di Raffaello, affresco che si trova nelle Stanze vaticane. Nella pagina a fianco, da sinistra, Platone e Parmenide. Sopra da sinistra Aristotele ed Eraclito: i maggiori pensatori della filosofia antica
mento psicologico esitante, quasi paralizzato, esposto in ogni caso al rischio di fissarsi e di restare immobilizzato». Semmai il “vicolo cieco”per gli scettici è sinonimo di tranquillità dello spirito, è garanzia di serenità. Roger-Pol Droit prosegue nella sua analisi: «Ciò che risulta privo di una soluzione non genera necessariamente tormenti e angosce. Gli scettici constatano che a ogni argomentazione corrisponde un’argomentazione contraria di eguale forza…la conclusione che se ne deve trarre non è, come spesso si è creduto, che la verità non esiste, o che essa è inaccessibile alla nostra intelligenza…affermare che non si possa affermare nulla sarebbe evidentemente un’affermazione». Prudenza filosofica, non rinuncia tout-court alla ricerca, tenendosi distante da dichiarazioni che sono immediatamente tese a trasformarsi in dogmi. Neutro significa “ne-uter”, ossia né l’uno
né l’altro. Un modo per distanziarsi anche da se stessi usando la “coperta mentale”del dubbio. Così, dicevano nella Atene ove si confrontavano i pensieri, ci si tiene il più possibile lontani dalle “tempeste dell’anima”. Il termine “tempesta”è tipicamente greco visto che quei nostri antenati erano navigatori e ben conoscevano le insidie, anche mortali, del mare. A questo punto ci viene in mente Ulisse, che del mare sapeva fin troppo.
Omero canta sia il conflitto sia il passare del tempo. Gli eroi che si muovono attorno alle mura di Troia o nel mare aperto sono dentro il travaglio esistenziale ed ambientale. E i saggi? Fanno tutto il contrario, nel senso che cercano di sfuggire ai conflitti, fuori e dentro se stessi. Sanno che sarebbe stupido aspirare a un universo privo di turbolenze, quindi puntano a una forza che li ripari dalle
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tempeste. L’uomo armato e l’uomo in tunica appartengono in ogni caso alla medesima sfera mentale greca: gli uni amano il sangue, le armi, la vittoria e la gloria, gli altri tendono alla parola, alla ragione, alla serenità e alla pace del cosmo. Opposti? Solo in apparenza dato che i filosofi al posto delle lance usano le argomentazioni. «Filosofia come prosecuzione della guerra con altri mezzi; il terreno è diverso, gli scontri pure. Ma il dispositivo d’insieme rimane identico» sostiene Roger-Pol Droit, che ancora una volta insegue la costante del comportamento e della mitologia dell’antica Grecia. Ed è questo: il pensiero deve trasformare l’esistenza. O ancora: pensare diversamente significa vivere diversamente. L’Iliade e l’Odissea non sono film d’avventura o cartoons giapponesi-anche se le suggestioni per così dire filmistiche sono fortissime- ma la rappresentazione di un duplice movimento che ha come tracciato quello che dovrebbe condurre alla saggezza, alla pace con se stessi, all’armonia delle cose e delle persone.
Sorge a questo punto un dilemma: il tipo di felicità tratteggiato dai Greci è di tipo egoistico? La preoccupazione per il proprio sé, il tenersi distante dalle “tempeste” e altre direttive cui abbiamo accennato parrebbero confortare questa tesi, come hanno ribadito storici e studiosi di grande valenza. Pierre Hadot, nel libro appena uscito per le edizioni di Raffaello Cortina (“La felicità degli antichi”, 15° pagine, 16 euro) è in disaccordo. Il modello vero della filosofia ellenica, dice, è Socrate, l’uomo che «è stato messo ai fianchi degli ateniesi dalla volontà degli dei…al fine di pungerli come un tafano» (vedi “Apologia di Socrate”). Lui stesso afferma, per la penna di Platone: «Io sono egualmente a disposizione di tutti, poveri e ricchi». Esiste, e si fa sentire sempre, la spinta al ruolo di “missionario”, il chè significa non rivolgersi alle elite agiate e culturalmente più attrezzate. Lo stesso discorso vale per altre scuole. La teoria degli epicurei era molto conosciuta e gli adepti del capofila avevano come compito quello di “rivolgersi”come scrive Hadot «a tutti gli uomini, anche a quelli incolti, anche a quelli privi di una particolare formazione intellettuale, nonché nell’accogliere schiavi o donne, persino cortigiane, come quella Leonzia, discepola di Epicuro, raffigurata“in meditazione” da un pittore». Gli stoici addirittura esortavano a denunciare certe convenzioni sociali e incitavano al “ritorno alla semplicità di una vita secondo natura”. Per Epitteto «il filosofo è il testimone (“martys”) di Dio». E Platone e Aristotele? Nessun egoismo nel loro pensiero, tanto è vero che cercavano formule politiche per il bene dell’intera polis. Altro che ripiegamento su se stessi. «I cristiani non li dimenticheranno» annota Hadot «il modello stoico sarà ripreso dalla tradizione monastica e ascetica». Non è un caso che nel 1605 Matteo Ricci, quel religioso cattolico che andò in estremo oriente, volendo preparare i cinesi al Cristianesimo, abbia composto un“Libro dei 25 paragrafi”che era in gran parte la traduzione parafrasata del “Manuale” di Epitteto. Esiste dunque un continuum tra pensiero greco e il modo di pensare e operare che è venuto dopo. Se solo si pensa all’influenza di Platone e di Plotino nell’esperienza mistica cristiana, qualsiasi ipotesi di cesura netta tra l’avanti e il dopo Cristo in Occidente cade in frantumi.
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L’appello di el Baradei: «Basta violenza». E il leader liberale Ayman al-Nour si dice pronto a denunciare la Giunta militare
Guerra alla rivoluzione A piazza Tahrir i militari sparano sulla folla , 4 vittime. E forse cento in Siria di Antonio Picasso li scontri di piazza, ieri al Cairo, non avrebbero provocato vittime. A dirlo è al-Masry Al-Youm, il quotidiano egiziano che meglio rispecchia il desiderio di cambiamento del Paese. Il bilancio, però, non è completo. Da venerdì infatti, giorno del nuovo rigurgito di violenze in piazza Tahrir, ci sarebbero stati almeno dodici morti. La fonte è il ministero della Sanità. Sicché la stima andrebbe rivista al rialzo. Peraltro, secondo un medico legale attivo in loco, Ehsan Kamil Georgi – dal nome dovrebbe essere cristiano – nove dei morti sarebbero stati passati per le armi. Un indizio che rischia di suscitare ancora più livore nei confronti degli agenti. È un Egitto senza pace quello che si avvicina al Natale. I copti lo celebreranno il prossimo 6 gennaio. La situazione è medesima per la Siria, come per tutti gli altri Paesi dell’area. Fatto sta che questi sono due importanti centri del cristianesimo mediorientale. La capitale egiziana appare sempre più abbandonata al caos politico. Ieri el-Baradei ha chiesto alla Giunta militare di intervenire per sedare le violenze. Ma non erano proprio i generali i responsabili di tanto sangue versato? Tanto più che
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altri uomini in uniforme avrebbero indicato in Ayman alNour, il leader del gracile movimento liberale, come l’aizzatore dei recenti disordini. «Denuncerò alla magistratura chi mi accusa di essere dietro gli scontri», ha replicato Nour. «Si tratta di fantasia, di un vecchio film già visto. Io non ho alcun rapporto con quanto sta avvenendo». L’avvocato e leader del el-Ghad è considerato il possibile nome che i moderati potrebbero spendere alle presidenziali dell’anno prossimo. Facile pensare a un boicottaggio nei confronti di un personaggio scomodo sia al governo attuale sia all’opposizione.
Nour, infatti, a differenza dei suoi concorrenti, sfoggia un curriculum politico di alto livello. Ha inoltre varcato il carcere per volere di Mubarak. Questo lo avvicina ai blogger e ai rivoluzionari on line. «Si stanno vendicando contro di me per l’iniziativa che ho portato avanti nelle scorse settimane, con cui chiedevo la fine della giunta militare e il passaggio dei poteri a un organismo civile. Intendo querelare la giunta perché le parole usate contro di me sono pericolose e sono peggiori di quelle pronunciate ai tempi di Mu-
barak». Nel frattempo, il capo della giustizia militare, il generale al-Morsi, ha reso noto l’avvio di un’inchiesta per far luce sulla variegata tipologia di violenze perpetrate da soldati e poliziotti nel periodo post-Mubarak. In particolare, sembra che nei mesi scorsi, alcuni agenti abbiano costretto alcune manifestanti a sottoporsi al test della verginità. La vicenda è ancora da chiarire. Se confermata, si tratterebbe di un sintomo dell’aumento del radicalismo religioso. Inoltre andrebbe a fare il paio con i casi di alcune reporter straniere che hanno denunciato di essere state stuprate proprio a piazza Tahrir. Avremmo dovuto prevedere tutto questo. Dopo la rivoluzione, la transitorietà del governo militare non poteva che rigettare il Paese in questo stato di cose. Il problema è come uscirne. Le elezioni di novembre hanno confermato una previsione temuta da tanti. Vale a dire la vittoria dei partiti islamisti. La paura non è per la Fratellanza musulmana. Se questa fosse in grado di seguire il modello turco, potremmo stare tranquilli. È la salafyya quella che preoccupa osservatori locali e analisti dell’Occidente. È il radicalismo di questa frangia a spaventare i più.
Damasco stringe la morsa intorno a disertori e ribelli. Il presidente Assad firma un decreto che impone la pena di morte per chiunque sia in possesso di armi da usare contro lo Stato Previsioni che, tuttavia, fanno a botte con quanto detto dal portavoce proprio dei salafiti, Yousri Hamad. «Non c’è nulla che impedisca di intraprendere un dialogo con Israele». Gli altri leader del partito hanno precisato che si tratterebbe di una dichiarazione personale e che non rispecchierebbe quella dell’intero movimento. Fatto sta che, parlando a un giornale
kuwaitiano, Hamad ha detto che qualsiasi confronto con il vicino (ex nemico?) dovrebbe tenersi «sotto la supervisione del ministero degli Esteri e alla luce del sole. Non permetteremo alcun negoziato segreto». Hamad ha comunque sottolineato che «ci sono diverse clausole nel trattato di Camp David che meriterebbero un’implementazione». Chiaro
Per Edward Luttwak il modello americano non funziona nel Grande Medioriente e giustifica il passo indietro degli Usa
«L’Islam non può essere democratico» el Grande Medioriente è finita un’era a stelle e strisce: la rinuncia al progetto di exporting democracy che ha sempre caratterizzato la politica estera americana, ben prima dell’avvento di Bush junior o dei neocon alla Casa Bianca. Possiamo affermare che sia stato un dato distintivo dell’America dalla sua fondazione. Oggi, secondo l’analisi di Edward Luttwak politologo americano e già consulente del Pentagono, quel progetto è stato abbandonato, almeno per ciò che riguarda il Grande Medioriente: «il modello americano non funziona».
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«L’islam non può essere demosubito cratico», sentenzia Luttwak, raggiunto telefonicamente da liberal a Washington. «Un sistema che non permette la formazione di un libero governo che a sua volta potrebbe permettere l’emersione di una
sono avvenute in questo periodo», il politologo di origine rumena fa riferimento a quei Paesi investiti dalla cosiddetta Primavera araba. «Il risultato è sempre lo stesso. Ciò vuol dire che il modello americano non funziona. Non si può fare come
«Andare in territorio ostile, sconfiggere il nemico e convertirlo in amico per sempre, non funziona più. La Libia è stato un primo segnale» libera economia. L’islam blocca la democrazia o la deforma in maniera molto accentuata. È inutile farsi prendere dall’entusiasmo per le varie elezioni che
in Germania e in Giappone», continua l’esperto Usa, non citando l’Italia, forse un esperimento fallito. «Andare in territorio nemico, sconfiggere il ne-
mico e convertirlo in amico per sempre. Il modello non funziona per cui gli Stati Uniti non si impegneranno più. Il rifiuto di entrare in Libia è stato un primo segnale in questo senso. Ma Washington resta pronta ad appoggiare i governi europei che decidessero di intervenire nella regione. La Libia può essere presa a modello della nuova politica Usa». Certo se il passo indietro degli Usa ha significato un passo avanti della Francia, il cui approccio ateo nella politica è considerato quanto meno “irritante”da tutto il mondo musulmano, qualche perplessità rimane. «La buona
mondo
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Parla Farida Allaghi, consulente libica dell’Onu sui diritti civili
Le donne musulmane da sempre in prima linea Ha fatto il giro del mondo l’immagine della ragazza picchiata al Cairo dai soldati inferociti. Ma la paura non le fermerà di Pierre Chiartano a violenza sulle donne in Egitto nel corso delle proteste degli ultimi giorni, «sono scioccanti». Lo ha affermato il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton riferendosi alle immagini di una donna trascinata e svestita dalle forze dell’ordine nel corso delle manifestazioni. «Nello Yemen donne col velo sono morte per la rivoluzione», ha affermato a liberal Farida Allaghi donna libica e difensore dei diritti civili. Una musulmana senza se e senza ma, che conosce quanto sia importante il ruolo delle donne nella società islamica e araba. È senior adviser dell’Arab Gulf program for the United Nation development organization e in precedenza è stata responsabile per la stessa struttura della Woman and child division. «Ho speso anni a difendere le donne nel mondo arabo, quando l’Occidente poco se ne occupava. Il problema non va inquadrato in termini di uomini o donne, ma nella categoria delle nuove generazioni. Come donne abbiamo le capacità di costruire una nuova politica, di combattere la corruzione, di far rispettare i diritti civili. E non è più il tempo di lasciare ai soliti gruppi politici dominati dagli uomini le redini del potere. Sono comunque contraria a scrivere agende politiche al femminile, preferisco pensare che ogni cittadino abbia diritto di governare il proprio Paese se ne ha le capacità. Pensiamo allo Yemen, dove donne coperte da capo a piedi, hanno guidato la rivolta contro il regime, venendo incarcerate e uccise. Come è successo anche in Libia, in Tunisia e in Egitto. È di qualche giorno fa l’annuncio di un’associazione internazionale con base in Giordania di dichiarare il 2012 come l’anno della Primavera araba delle donne». E l’etica musulmana, più forte di quanto s’immagini l’Occidente, giocherà un ruolo non secondario nella fase
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è stato il riferimento alla questione palestinese. Tuttavia, ha concluso che gli interessi dell’Egitto e del mondo arabo sono vincolati dalle relazioni diplomatiche con Israele.
Altrettanto confusa è la situazione siriana. Domani i primi dodici osservatori della Lega araba dovrebbero arrivare a Damasco. Intanto un’organizzazione per i diritti umani sostiene che negli scontri a Idleb, al confine con la Turchia, le forze filo governative avrebbero ucciso un centinaio di disertori. La notizia è passata quasi sotto silenzio. Un errore! Primo perchè è la conferma – anidea è quella di non impegnarsi più, in maniera anche assai dispendiosa, di porre in atto politiche strategiche in Paesi che sono presidiati dall’Islam e che di conseguenza rifiuteranno democrazia e libero mercato». Per Luttwak non esiste un Islam moderato e neanche un modello turco. «Se ci sono Paesi europei che sentono maggiormente il problema e sentono la necessità d’intervenire, gli americani saranno sempre disposti ad appoggiarli lealmente, anche dando un sostegno in campo bellico, tecnologico e logistico. Ma niente truppe a terra e niente assunzione di responsabilità». Insomma, sembrerebbe proprio che sia arrivata la grande svolta che catapulterà l’Europa, già sballottata dalla crisi economica e finanziaria, fuori dal comodo letto di una sicurezza, anche in
cora un’altra, se non ne fossimo sazi – che nel Paese la guerra civile c’è. Cento disertori morti fanno pensare ad almeno un migliaio vivi e ben armati. Ricordiamo che due settimane fa si era parlato di consulenti militari Usa e turchi già operativi nell’Anatolia del sud. In secondo luogo, la portata delle perdite lascia pensare che si stiano combattendo vere e proprie battaglie, con il rischio di un coinvolgimento (in ordine sparso) dell’Iraq, del Libano, oppure dei peshmerga kurdi. O ancora peggio dell’esercito regolare turco. Gli osservatori della Lega araba se ne renderanno conto?
proiezione sulle regioni limitrofe, garantita per oltre mezzo secolo dai cugini americani.
«Se l’Italia dovesse mai decidere di intervenire o agire in Tunisia, gli Usa appoggeranno
il governo di Roma, con mezzi e supporto di ogni genere. Ma senza entrare nella prima linea delle responsabilità dirette della gestione». Gli Usa diventerebbero quindi secondo Luttwak dei broker militari e dei consulenti strategici, ma il lavoro sul campo dovrà essere fatto da altri. Una vera svolta politica con dei risvolti sicuramente positivi. L’Europa dovrà imparare cosa significa governare e difendere i propri interessi al di fuori delle pene per l’Euro e la politica fiscale. «La soluzione sin qui adottata per l’Iran consiste nelle sanzioni economiche sempre più pesanti. Politica che ha un effetto sull’economia, non so se li spingerà anche a cambiare atteggiamento politico. Non c’è traccia di un cambiamento. Comunque l’uso della forza contro Teheran non avrebbe
di ricostruzione sociale e politica dei Paesi della Primavera. «Naturalmente giocherà un ruolo importante. Ci sono molti studiosi islamici che sono donne, così come tra gli accademici cristiani ed ebrei. Ed esiste un network di donne che dialoga su questi argomenti». Un aspetto della realtà araba che è vero e che vede le donne in prima linea nel dialogo tra religioni per una corretta interpretazione del Corano.
«Non avremo dunque solo uomini come interpreti della teologia. Inoltre serve cambiare mentalità, perché ci sono troppe persone corrotte in posti di potere che usano la religione per i propri loschi fini. Tutti fronti dove le donne possono combattere una battaglia di libertà». Sul ruolo della donna nell’Islam, la Allaghi diventa come una mina innescata. «Siamo stanchi di dover perdere tempo cercando di spiegare all’Occidente la vera natura della nostra religione (musulmana). Ora saremo troppo impegnati a ricostruire il nostro Paese e ad essere orgogliosi della nostra fede. Diventa quindi stucchevole dover ancora parlare di donne e Islam. Se l’Occidente non sa, si informi, non è più un nostro problema». Se apri il Corano e cominci a leggerlo ti ricorda un album di famiglia, dove storie, profeti, testimoni, messaggeri, leggi e regole sono le stesse della tradizione cristiana ed ebraica a cominciare dalle Tavole di Mosè. Dove in una Sura (Al Ma-Ida, 46) si ricorda ai credenti come il Corano sia stato mandato per confermare ciò che aveva anticipato il Vangelo, che a sua volta era un completamento delle leggi della Torah. «È così, la stessa vita del profeta Mohammad rappresenta un esempio di modernità» conclude la Allaghi.
nulla a che vedere con il modello Iraq o Afghanistan. Non ci sarebbe alcuna assunzione di responsabilità politica o economica e niente truppe a terra. Si andrebbe lì per bombardare e poi via. L’impegno finirebbe con qualche ora di bombardamento». In pratica gli Usa sono stanchi di accollarsi i problemi altrui per poi sentirsi accusare di neocolonialismo, di politica di potenza, d’interessi inconfessabili. Le ristrutturazioni politiche ed economiche sono troppo impegnative e costose ormai per le casse di Washington.
Presto l’Europa si accorgerà di cosa voglia significare. Possiamo affermare che il nuovo modello sia quello del “fast bellum” dove la gestione politica delle conseguenze dell’intervento militare sarà gestito da
altri. Anche dall’Afghanistan «gli americani se ne vanno. Quello che succederà dopo sarà conseguenza di un equilibrio naturale tra il puzzle etnico afgano, oppure una nuova alleanza del Nord contro un ritorno dei talebani. Un’altra possibilità è che il governo di Kabul riesca a contenere la pressione dei talebani. In questa cornice poi contano gli interessi di Paesi come il Pakistan, l’Iran e l’India che giocheranno le loro carte. Specie il Pakistan prigioniero delle proprie forze armate che aspirano ad estendere il loro potere anche sulla maggior parte del territorio afgano. Si potrebbe formare una coalizione tra governo di Kabul, Alleanza del Nord sostenuta da Iran e India, contro i talebani. E dall’altra talebani e forze armate del Pakistan». (p. c.)
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Negli States esce “Back to work”, l’ultimo libro dell’ex presidente Usa, che tenta di offrire una soluzione alla crisi
La ricetta di Clinton Ovvero 46 consigli per rilanciare l’economia americana e 2 critiche feroci ad Obama di Anna Camaiti Hostert d un anno dalle elezioni presidenziali del 2012 e di fronte alla critica nei confronti del Partito Democratico sia da parte dei sostenitori che degli avversari di non avere non solo una strategia politica decisa e chiara, ma neanche la fermezza necessaria a sostenere il proprio presidente, l’ultimo libro di Bill Clinton dà una sferzata di vitalità al partito e riaccende la speranza. Almeno secondo il Los Angeles Times, che nel pamphlet di Clinton individua «un’audacia di cui i democratici hanno bisogno e che hanno perduto da tempo». Con un titolo molto pragmatico Back to Work e con un sottotitolo carico di intenti ben precisi Why
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pubblicani alle prossime presidenziali. E proprio l’ossessione antigovernativa è invece il nemico numero uno del saggio di Clinton, il quale in questo pamphlet di 192 pagine in maniera provocatoria invoca più interventi governativi in quanto afferma, saranno gli unici in grado di risollevare l’economia, di produrre lavoro, di ridurre il deficit e di riportare il dollaro in auge, frenando l’inflazione. L’importante, sottolinea Clinton, è capire che «non è posssibile sopravvivere nel 21esimo secolo con una strategia antigovernativa, basata su una filosofia che poggia sul principio “da soli è meglio che insieme”. «Il conflitto - continua Clinton tra il governo e il settore priva-
verso orientamento e di diversa estrazione.
«È vero la nostra Costituzione è stata pensata per salvaguardare la libertà e proteggerci dagli abusi del potere governativo. Tuttavia contrariamente all’attuale pretesa del movimento antigovernativo di rappresentare gli intenti dei loro creatori, i nostri padri fondatori chiaramente hanno voluto darci un governo che fosse allo stesso tempo limitato e responsabile in modo da proteggere le nostre libertà, ma anche forte e flessibile abbastanza da permetterci l’adattamento alle sfide di diversi periodi storici… In altre parole la nostra Costituzione è stata pensata da gente
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Ci sono vari modi per anticipare la ripresa, ad esempio abbassando sul serio i tassi per il rifinanziamento dei mutui. Questa è una crisi di fiducia, e servono iniziative per farla tornare we need smart government for a strong economy (Perché abbiamo bisogno di un governo in gamba per una forte economia) che riempie di contenuti, quantomeno inusuali un vuoto e banale slogan forse più appropriato ad una reazione all’inattività dei tempi di crisi che ad una piattaforma politica, Clinton esordisce in questa fine anno con un saggio controcorrente rispetto all’ossessione antigovernativa odierna. Sviluppatasi negli ultimi trenta anni tale tendenza è infatti giunta al suo culmine ed è divenuta la bandiera degli ultraconservatori dei Tea Party, i quali individuano nell’eccessiva ingerenza istituzionale la causa principale dei grossi guai nei quali si trova l’economia americana e nel presidente Obama il maggiore responsabile di tale situazione.
Da qui nasce il loro obiettivo prioritario, che non individua come elemento essenziale il risanamento dell’economia, quanto invece quello di non far rieleggere Obama una seconda volta, sostenuti in questo a spada tratta da una grossa fetta del Partito Repubblicano. E certamente da tutti i candidati re-
La crisi del Gop vista dal direttore del Weekly Standard (che spera in un nuovo Lincoln)
E se i repubblicani, stavolta, non trovassero un candidato?
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to è stato terreno di politica decisionale, ma ha prodotto cattive decisioni politiche, regalandoci un’economia povera di lavoro, una grande ineguaglianza sociale e una grande povertà, oltre ad un declino della nostra competitività. Nel mondo reale la cooperazione funziona molto meglio del conflitto e gli americani adesso più che mai hanno bisogno di vittorie nella vita reale». Il Wall Street Journal sottolinea che, invece di «offrire ai democratici una mappa teorica per ritornare verso il centro, Back to Work è un ode all’espansione dell’azione governativa, oltre che un saggio contro gli ideologues antigovernativi repubblicani». Rivendicando un’azione politica che superi finalmente le barriere ideologiche e si metta a lavorare davvero sui problemi del paese, Clinton ritiene infatti che proprio in questo consista l’unica possibilità di salvezza e di uscita dalla crisi. Così nel secondo capitolo del libro dedicato alle elezioni del 2010 e al loro ruolo fondamentale nel rivendicare una politica antigovernativa si scaglia contro le opposizioni ideologiche che frenano la collaborazione tra forze politiche di di-
di William Kristol l più famoso detto di Murray Kempton sostiene che «una convention politica non è un posto dal quale si può andare via conservando la minima fede nella natura umana». Divertente, ma sbagliato. Perché la storia americana suggerisce qualche eccezione. Nel 1787, la convention costituzionale indetta a Philadelphia salvò l’Unione e produsse la Costituzione degli Stati Uniti, descritta da William Gladstone come «il lavoro più bello mai concepito dalla mente dell’uomo». Nel 1860, la seconda convention dei repubblicani si tenne a Chicago e nominò, solo al terzo ballottaggio e dopo smisurati e accesi dibattititi, il presidente più grande che gli States abbiano mai avuto: Abramo Lincoln. Nel 1932, i democratici convenuti a Chicago nominarono al quarto ballottaggio, e dopo che i lavori vennero sospesi per vari giorni visto il disaccordo generale, Franklin Delano Roosvelt. Facendo un rapido calcolo, una volta ogni tre quarti di secolo i delegati a una convention politica Usa deliberano e la loro scelta produce un’impressionante colpo di scena. Potrebbe accadere di nuovo nel 2012. I delegati republlicani che si riuniranno a Tampa potrebbero fallire il loro obiettivo visto che faticano a trovare un candidato credibile su cui possa convergere una maggioranza significativa dei voti, e dunque spingersi verso una convention deliberativa. Il che potrebbe condurli ad usare il proprio giudizio per
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selezionare i nomi migliori per il loro partito e dunque il miglior presidente per il loro paese. Sarebbe un evento eccitante, con i nervi a fior di pelle. E sarebbe imprevedibile.
Lo so, non accade da molto tempo, ma potrebbe succedere. E potrebbe rivelarsi una buona cosa per il vecchio Gop. Potrebbe succedere perché ci sono buone probabilità che dalle primarie di gennaio nessuna figura sia in grado di emergere ed essere votata dai delegati o rappresentare un candidato capace di attirare il voto popolare. A quel punto, quattro o più candidati continuerebbero a dividersi manciate di voti fra febbraio e marzo. Ed è è plausibile che davanti a ciò qualcuno decida di farsi avanti e tentare la sorte, un volto nuovo magari, capace di prendere un sacco di voti fra aprile, maggio e giugno. Ma ciò non esclude affatto l’ipotesi che nessuno abbia in tasca la candidatura quando i delegati repubblicani a Tampa varcheranno la soglia del St. Pete Times Forum a fine agosto. A quel punto una convention a porte chiuse, di fatto deliberativa, potrebbe essere la soluzione migliore.Viviamo una nuova era politica. E forse questa nuova epoca ci regalerà una nuova convention deliberativa, dove i delegati, con alle spalle il fantasma di Lincoln o Roosvelt sceglieranno, dopo tre o quattro ballottaggi, un nome forte e importante e di conseguenza un vero presidente.
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i che d crona
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La chiave di tutto è smettere il balletto condotto a Washington dal Tea Party, sul fatto che il governo è la causa del problema e va eliminato. Il governo può e deve essere parte della soluzione
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che era idealista non ideologica (il corsivo è mio!). E tra le due cose c’è una bella differenza. Si può sposare una flosofia liberal o conservatrice, ma deve sempre rimanere aperta all’evidenza, all’esperienza e al dibattito. Che permetta, mantenendo le dovute differenze, di trovare compromessi pratici pur restando fedele ai propri principi. D’altro canto una fervente insistenza sull’ideologia rende l’evidenza, l’esperienza e il dibattito irrilevanti: se si pensa di avere in mano la verità assoluta coloro che non sono d’accordo sbagliano per definizione e l’evidenza di successo o di fallimento è assolutamente irrilevante». Certo, come fa notare In apertura, Barack Obama e Bill Clinton. In alto, la copertina dell’ultimo libro dell’ex presidente Usa. A sinistra, Condoleeza Rice, che potrebbe decidere di rientrare presto in politica e a destra Occupy Wal Street
Jeff Madrick sul New York Times, la posizione di Clinton è indebolita dal fatto di essere teorizzata da un ex presidente che «ha contribuito a quella stessa narrativa antigovernativa proprio negli anni ’90. Nel suo discorso dopo la rielezione del 1996 Clinton infatti affermò con fierezza: «l’era del governo è finita». Fu proprio assorbendo il nuovo senso di avversione degli americani nei confronti dell’onnipresenza del governo dopo la vittoria repubblicana del 1994 al Congresso che Clinton si riassicurò la vittoria alla presidenza due anni dopo.
E - continua il giornale newyorchese - durante il suo secondo mandato Clinton si preoccupò più di frenare la spesa governativa e di pagare il debito pubblico che di praticare una politica degli investimenti in America». E allora cosa ha determinato questa inversione di rotta? Clinton ritiene che l’ortodossia antigovernativa si sia spinta troppo in là e che questo elemento negativo abbia originato molti dei problem odierni. In più la rigida impostazione contemporanea, secondo Clinton, non appartiene neanche alla tradizione republicana: diversi
presidenti da Lincoln a Theodore Roosevelt ed Eisenhower, da Nixon, a Reagan hanno infatti investito il denaro dei contribuenti per sostenere interventi governativi quando questi si sono resi necessari. «Invece dal 1981 al 2009 - scrive Clinton - il risultato più importante della politica antigovernativa dei Repubblicani non è stato quello di ridurre la dimensione del governo federale, ma quella di smettere di pagare per esso». La ricetta di Clinton per risolvere i problemi del paese poggia, nella seconda parte del libro, su 46 proposte in grado di risanare il debito pubblico, risollevare l’economia e ritornare a credere nel futuro. Alcune di esse hanno a che vedere con un sistema di immigrazione più funzionale che permetta l’ingresso di lavoratori più qualificati, con la crescita dell’età pensionabile per il Social Security, con un sistema di tassazione agevolato per quelle imprese che se ne sono andate portando i capitali all’estero e incoraggiandole a tornare a produrre sul territorio nazionale. A livello individuale Clinton chiede, sostenendo la proposta Obama, un aumento delle tasse sulle rendite finanziare dei più abbienti dal 15% al 23.8%. Ma i punti cruciali del suo intervento poggiano su una a piattaforma che è già quella di Obama anche se Clinton sottolinea il fatto che il presidente ha fatto troppo poco per enfatizzare i suoi risultati.
La piattaforma, diretta soprattutto verso le famiglie, è basata principalmente su procedure di risoluzione della bolla del subprime attraverso meccanismi di cancellazione di parte del debito dei mutui con conseguente rifinanziamento, di credito agevolato e di facilitazioni dei prestiti bancari. Inoltre sull’incoraggiamento di investimenti in una tecnologia ecologica che mutino il modo di produrre e consumare energia. Questo è infatti un modo per rimpinguare l’economia a livello nazionale e internazionale potenziando la sicurezza nazionale oltre a settori come quelli dell’assistenza per i meno abbienti, del controllo dei mercati, degli investimenti e dei procedimenti di tassazione che richiedono certamente un ampio intervento governativo .«Adesso siamo in un periodo di grande confusione. All’alba del nuovo secolo, dopo anni di forte crescita dell’occupazione, di crescita del reddito e di declino del debito pubblico abbiamo abbandonato questa strada ormai sperimentata di prosperità condivisa in favore di un ritorno ad un’ideologia antigovernativa. E adesso ne paghiamo le conseguenze. L’unica cosa intelligente che ci rimane da fare è quella di prenderci la responsabilità di cambiare le cose. - conclude Clinton alla fine del suo libro Let’s get the show on the road».
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grandangolo Miglior pellicola “Snowtown”, storia vera del killer John Bunting
E l’Africa conquista tutti con il suo Nuovo Cinema Marocchino Ennesimo grande successo per il Festival di Marrakech 2011, la più importante kermesse cinematografica del Continente. Voluto dieci anni fa da re Mohammed VI, ha offerto una selezione di film internazionali e locali e si è chiusa con la proiezione di «Sette opere di Misericordia» dei registi italiani Gianluca e Massimiliarno De Serio di Andrea D’Addio a piazza principale di Marrakech la Jemaa El Fnaa, è piena di turisti, venditori ed artisti di strada. Sembrerebbe un normale venerdì pomeriggio in città quando su di un palco costruito poco sotto il grande schermo che hanno montato solo qualche giorno prima, appare Shah Ruk Kahn. In Marocco il cinema di Bollywood va benissimo al box office e la star indiana qui è uno dei divi più amati. In un attimo tutta la gente si dirige verso il palco. C’è chi grida, chi applaude, chi espone grandi fotografie dell’attore indiano cercando di attirare la sua attenzione. Lui ringrazia per l’affetto e poi passa a presentare il film. Si tratta di My name is Khan, pellicola già passata alla Berlinale, ma non ancora distribuita in Marocco. Il sole è appena tramontato, le luci che illuminano il palco si abbassano e inizia il film.
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In un attimo gli sguardi di centinaia di persone, molte delle quali non vanno mai in sala, vengono rapite dalla magia delle immagini, ridendo e commuovendosi come solo il cinema riesce a fare.
ERRATA CORRIGE Per uno spiacevole errore tecnico, in un articolo di ieri è raddoppiata la “p” di Lorenzo Capellini, autore delle immagini dei monumenti dedicati a Garibaldi riunite in una mostra ospitata nella Biblioteca della Camera.
Sembra Nuovo Cinema Paradiso in salsa nordafricana, in realtà è il Festival di Marrakech 2011, ormai il più importante Festival del cinema continentale, non fosse altro per il budget a disposizione. Nacque tutto nel 2000, ma la prima vera edizione con film e star internazionali fu quella del settembre del 2001, poco dopo gli attentati delle Torri Gemelle. A volerlo fu il re Mohammed VI, uno dei sovrani più amati della storia del Paese.
due fratelli Gianluca e Massimiliarno De Serio, si sono infatti aggiudicati il Premio della Giuria composta da Emir Kusturica (presidente) Jessica Chastain (la rossa interprete di L’albero della vita), l’attrice iraniana Leilai Hatemai (l’attrice iraniana di Una Separazione), Maya Sansa e dau i registi Nicole Garcia (Francia), Brillante Mendoza (Filippine), Abdelkader Lagtaa (Marocco), Radu Mihaileanu (Romania) e Aparna
Nonostante le assenze di tanti ospiti che inizialmente avevano dato la propria disponibilità a partecipare alla prima edizione, salvo poi rimangiarsi la parola perché spaventati dal clima internazionale e dai rapporti con il mondo arabo, si impegnò testardamente a investire tempo e denaro (molto) per la riuscita delle successive edizioni della kermesse. «Nessuno credeva in questa manifestazione nel 2001, sembrava destinata al fallimento. Ed invece eccoci in un ambiente fantastico, giovanile e pieno di cinema di qualità a celebrare l’undicesima edizione di questo Festival. E per questo dobbiamo ringraziare il re Mohammaed VI», ha dichiarato il popolare attore francese, figlio di immigrati marocchini, Roschdy Zem, durante la serata organizzata in suo onore dalla direttrice del Festival Mélita Toscan Du Plantier. Questa edizione è andata avanti dal 2 al 10 dicembre e si è chiusa con un po’di gloria anche per l’Italia. Con Sette opere di Misericordia, i
Diversi i titoli fuori concorso, ottima “scusa” per attirare molte star hollywoodiane e coinvolgere il pubblico locale Sen (India). Migliore film è stato invece reputato l’australiano Snowtown, storia vera del serial killer John Bunting, undici vittime durante gli anni Novanta, ormai condannato all’ergastolo.
La selezione dei film in competizione ha visto un riuscito mix tra cinema internazionale e marocchino, a cui si sono afficanti una decina di pellicole fuo-
ri concorso, ottima “scusa”per attirare a Marrakech star del cinema Hollywoodiano e coinvolgere ancora di più il pubblico locale, tra file interminabili davanti alle biglietterie (gli ingressi sono gratuiti, ma ne hanno diritto solo chi, ogni giorno, arriva prima) e folle festanti la sera davanti al red carpet del Palazzo dei congressi. E così ecco Shah Ruk Kahn, divo del cinema indiano (qui Bollywood va fortissimo e il rapporto tra film indiani e americani distribuiti è di uno a uno), il premio Oscar Forest Whitaker, il grande Terry Gilliam, Jean Jacques Annaud, Roland Joffe, Sigoruney Weaver (presidente della giuria del concorso per i cortometraggi), Paz Vega, Brendan Fraser e anche il nostro Marco Bellocchio che, oltre ad una splendida serata di gala in suo onore, ha anche tenuto una interessante masterclass con giovani cinefili e studenti di cinema marocchini.
Vederlo spiegare il significato storico di Mussolini nell’Italia fascista e post guerra, mentre con le immagini di Vincere provava a descrivere la persona che si nascondeva dietro il dittatore, è stato uno dei momenti più interessanti del festival (come lo era stato del resto nel 2010 a Cannes quando il regista piacentino aveva tenuto un analogo appuntamento) e le decine di domande provenienti dagli astanti ne sono state la conferma. È proprio la partecipazione del pubblico il punto di forza di questo festi-
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Emir Kusturica, presidente di giuria a Marrakech, ci racconta il suo ambizioso progetto
«Così sto costruendo “Andricgrad”, la nuova cittadella della cultura» on sono molti i personaggi del mondo del cinema da cui ti aspetti sempre qualcosa ad ogni intervista, persone capaci di sviare l’ovvio non solo delle risposte, ma anche delle scelte di vita. Emir Kusturica è uno di questi. La sua carriera da regista è stata costellata di premi e soddisfazioni: dal debutto a ventisette anni con Ti ricordi di Dolly Bell? vincitore del Leone d’Oro 1981, seguito a breve distanza dalla Palma d’oro di Cannes per Papà è in viaggio d’affari nel 1985 all’appassionato documentario-omaggio su Maradona di due anni fa, non c’è stato film che il pubblico internazionale non abbia atteso con trepidazione, sicuro di andare incontro ad un’opera profonda ed anticonvenzionale. Kusturica però è molto altro: è il musicista della No Smoking Orchestra, è lo scrittore di Dove sono in questa storia (Feltrinelli 2011), è l’attivista politico che nel 1993 sfidò a duello il leader del partito radicale serbo Vojiislav Seselj, ma, soprattutto dal 2004, è il fondatore di una piccola cittadina cultuale tra le montagne serbe, quella Kuenstendorf nella quale ha già fatto partire un festival del cinema e della musica. Il suo impegno da “impresario edile” non si è fermato però lì ed notizia dello scorso febbraio la volontà di ricostruire un’altra città interamente dedicata all’arte vicino a Visegrad, sul fiume Drina, al confine tra Bosnia e Serbia. Arrivato a Marrakech per presiedere la giuria dell’undicesima edizione del locale Festival, Kusturica ha quasi parole esclusivamente per questo suo nuovo progetto: «I lavori finiranno nel 2014. Sarà una città interamente dedicata all’arte con cinema, teatri, palchi per concerti, scuole d’arte, hotel, laboratori artigianali, un mercato ed un porto». Come è avvenuta la scelta del luogo? Si tratta di una zona in cui passavo ogni estate per andare in vacanza, mi aveva sempre affascinato, ma soprattutto è un luogo con una storia grandiosa alle spalle e ho pensato che farne un polo d’attrazione culturale potesse essere un modo per attirare l’attenzione della gente a scoprirne il
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val la cui esistenza sembra sempre più orientata a spingere in due direzioni. Da una parte c’è una ragione turistica: il festival è un’ottima occasione per invitare a Marrakech star riconoscibili nel mondo e farne, di fatto dei testimonial della città: vedere Forest Whitaker o Shah Ruk Kahn con un premio in mano mentre dietro di loro appare la scritta Marrakech è un’immagine che ha le potenzionalità di fare il giro del mondo mentre in sala giornalisti prendono appunti e raccolgono materiale per dare contenuto all’eventuale foto. Dall’altra parte questa visibilità acquisita si riflette nel festival stesso e lavora nel lungo periodo per fare sì che la manifestazione diventi sempre più conosciuta in Africa e nel mondo in generale. Un biglietto da visita che non può che invogliare cineasti e case di produzioni a cercare in Marrakech un’importante vetrina per dare visibilità al proprio prodotto.
«Nel 2001 nessuno credeva nella manifestazione. E invece eccoci qui» ha dichiarato il popolare attore Roschdy Zem I vicini studios di Ourzazate (circa 4 ore di viaggio in auto lungo il deserto), lì dove furono girati Lawrence d’Arabia, L’ultima tentazione di Cristo, Il Gladiatore, Prince of Persia e tanti altri, rendono oltretutto Marrakech come il polo principale della produzione cinematografica marocchina, tra accademie (ben tre) e una serie di maestranze ormai utilizzate dagli stessi americani quando vengono a realizzare qui le proprie pellicole. C’è, insomma, un humus culturale dietro il Festival: studios, scuole, un’interesse condiviso e generale per la settima arte che va al di là del glamour e dei grandi nomi, rendendo salde le fondamenta della manife-
Nella foto sopra la giuria del Festival di Marrakech, a destra Kusturica. In apertura il vincitore stazione. La sua crescita può essere messa in parallelo con quella di un Paese che soffre sempre meno l’emorragia di emigranti verso l’Europa e che negli ultimi anni ha saputo aprirsi alle riforme indotte dal suo re, non a caso rinominato “il modernizzatore”. Il costo della vita è aumentato sensibilmente e finalmente si sta formando un ceto medio che viaggia su stipendi mensili da 700 euro circa.
È vero che alle elezioni di due settimane fa ha vinto per la prima vola il partito filosilamico capitanato da Abelillah Benkirane (nominato primo ministro), ma quello portato avanti dal Partito per la Giustizia e lo sviluppo è un islamismo moderato che non si oppone al re e, almeno secondo il programma, cercherà di mettre in atto una politica economica che renda più equa la distribuzione del reddito (la forbice tra poveri e ricchi è ancora enorme, basti pensare che si può mangiare un pasto completo all’aperto sulla piazza Jamaa El Fna con un euro mentre in un ristorante di medio livello si arriva tranquillamente ai 35 euro a persona). La società civile ha dato sempre più spazio e considerazione all’affermazione delle donne e non è un caso se a Marrakech il sindaco sia Fatima Al Mansouri, trentacinque anni, eletta due anni fa nelle fila del partito dell’Autenticità e Modernità. Moltissimi giovani parlano fluentemente almeno tre lingue, francese, arabo e inglese e per chi ha un buon titolo di studio il lavoro è assicurato. «Ho pensato di trasferirmi in Francia e fare un’esperienza di vita, ma sento che il Marocco sta crescendo e io voglio rimanere qui per vivere questa fase» è il pensiero della giornalista Lamiae Boumahrou, ventidue anni, assunta dal Finances News quando ancora doveva terminare la laurea. Nonostante l’attentato kamikaze dello scorso aprile (16 vittime al caffè Argana) e la crisi economica internazionale che ha abbassato il tasso di crescita del Pil dal 4,9% del 2010 al 4,2% del 2011, la “primavera araba” qui non è riuscita ad attecchire. Non può essere solo un caso.
passato. È proprio qui che Ivo Andric ambientò il suo splendido romanzo d’esordio, Il ponte sulla Drina, ed è qui che la storia della Bosnia, in questo caso la parte serba, ha vissuto, in piccolo, ciò che succedeva nel resto del Paese, dalla dominazione ottomana alle guerre di separazione degli anni ’90. La città sarà chiamata Andricgrad e sarà anche il set delle riprese del film che voglio realizzare basandomi sul libro del Premio Nobel. Come sarà realizzata? Abbiamo preso una superficie di quasi due ettari e costruiremo tutto in pietra. L’idea è quella di ricreare un luogo che potrebbe essere sorto quattrocento anni fa, mescoleremo stili, da quello turco imperiale a quello austroungarico. Utilizzeremo solo materiali riciclabili che si integrino con l’ambiente circostante, non vogliamo creare shock visivi, ma accompagnare lo splendido panorama che ne sarà intorno. Dopo l’esperienza di Kuestendorf ho capito che c’è spazio per iniziative del genere, in Bosnia tanta cultura è stata distrutta dalla guerra, questo è un modo per aiutare il percorso di rinascita del mio Paese. Sei stato Presidente di giuria a Cannes nel 2005 e più volte ti sei trovato a giudicare i lavori di altri cineasti in altri festival europei. Che impressione ti hanno fatto i film marocchini visti quest’anno al Festival di Marrakech? È un cinema che ho trovato molto interessante. Vengo da una nazione in parte islamica, io stesso sono nato musulmano prima di convertirmi alla chiesa greco ortodossa e conosco bene le difficoltà di allontanarsi da certe tematiche narrative quando di mezzo c’è la religione. Ho visto finora grande coraggio nei cineasti di qui e il fatto che molti lavori mettano al centro delle proprie storie donne che cercano di emanciparsi ne sono una dimostrazione. Nelle proiezioni aperte al pubblico ho notato partecipazione e apprezzamento: dietro al successo di un film c’è un pubblico pronto a recepirlo. Il cinema in tal senso è un ottimo termometro per capire lo stato sociale e politico dell’intero Paese. (a.d’a.)
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