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he di cronac
Quasi sempre, in politica, il risultato è contrario a ogni previsione François-René De Chateaubriand
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 29 DICEMBRE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Exploit di vendite all’asta dei titoli pubblici: il redimento (e quindi il peso complessivo sul debito) si dimezza
Liberalizziamo l’Italia!
Tre ore di Consiglio: il governo lancia la nuova agenda della crescita Energia, poste, taxi, farmacie: l’esecutivo prepara un pacchetto di riforme per farci diventare una «società aperta». Una parte del Pdl continua a frenare: «Così vi accorciate la vita» IL RECORD DEI TITOLI
SIRENE ESTREMISTE
Troppi politici Le opposte non capiscono tentazioni il mercato sfasciste
Parla Giancarlo Elia Valori
di Rocco Buttiglione
di Riccardo Paradisi
ualche politico si è accorto del fatto che la manovra del governo Monti è recessiva. Non era necessario un Nobel dell’ economia per prevederlo. Darò a questi politici un’altra sconvolgente notizia: anche le manovre del governo Berlusconi erano recessive. Le manovre spostano risorse dai consumi al servizio e alla riduzione del debito. La gente, di conseguenza, ha meno soldi in tasca e spende meno, le imprese che lavorano per il mercato interno vendono di meno e quindi si produce di meno e si va in recessione. Che fare? Aiutare le imprese che esportano perché compensino all’estero il restringimento del mercato interno. segue a pagina 3
inistra radicale e destra populista tornano a parlare una lingua dagli antichi accenti comuni. Le uniscono le stesse denunce, le identiche parole d’ordine contro “mercatismo”e “macelleria sociale”, la stessa propensione alle teorie complottistiche fondate sull’esistenza di cupole decisionali invisibili, di doppi stati, di cospirazioni segrete. Sul club Bildenberg e sulla Goldman Sachs per dire è già fiorita una letteratura tra il fantasy e il gotico, considerevole solo per quantità, nella quale i complottasti di destra e sinistra trovano conferma ai loro pregiudizi. Il guaio è che anche dentro Pd e Pdl c’è chi li sta a sentire... a pagina 4
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Solo gli ”affari” salveranno la primavera araba
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Il boom dei Bot secondo Marco Fortis
«Si vedono i primi effetti della cura-Draghi per le banche europee» «Chi è senza memoria ha dimenticato che eravamo sull’orlo di un precipizio. Le risposte dell’esecutivo e la nuova liquidità hanno fatto la differenza» pagina 2
Il mondo del pallone sotto shock dopo la notizia degli incontri di serie A truccati
L’orgoglio Nazionale di Prandelli Difende l’Italia ma dice: «Queste vicende sono uno schifo» di Franco Insardà
Lo “spirito sportivo” è stato calpestato
ROMA. Tre campioni del mondo tirati in
Ma si può credere alle partite di oggi?
ballo nella vicenda calcioscommesse. Tre protagonisti di quell’impresa azzurra, in Germania nel 2006, che ha contribuito in maniera decisiva a far dimenticare a tutti i tifosi lo scandalo di Calciopoli. La seconda tranche dell’inchiesta “Last Bet”, che ha portato in carcere 17 persone, tra le quali Luigi Sartor, Cristiano Doni, Alessandro Zamperini, Filippo Carobbio e Carlo Gervasoni, sembra più pesante della prima che, a giugno, ha visto coinvolti Signori, Sommese, Micolucci e Paoloni. a pagina 6 gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
di Giancristiano Desiderio eri mattina, dopo aver letto i giornali, le dichiarazioni di Cristiano Doni, le nuove rivelazioni di Carlo Gervasoni anche sulla massima divisione e le intercettazioni sugli «azzurri malati di scommesse», ho mollato i quotidiani e con mio figlio (sette anni) sono alla sua scuola calcio. a pagina 7
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
251 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Vincenzo Faccioli Pintozzi econdo l’economista Giancarlo Elia Valori, «la collaborazione tra Usa e Ue nel Mediterraneo sarà l’asse delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Le questioni aperte sono molte: la stabilizzazione delle “primavere arabe”, la gestione della nuova politica autonoma regionale turca, la tensione nell’Egeo, il nesso, probabilmente nuovo, tra terrorismo jihadista e destabilizzazione dell’Africa subsahariana e dell’area del Sinai. E poi, naturalmente, la sicurezza energetica, che non deve e non può, per Washington, essere legata ad una crescita dell’egemonia di Mosca dall’Asia Centrale fino ai Balcani». Elia Valori conosce il mondo e conosce l’economia. E ha dedicato il suo nuovo libro al Nuovo Mediterraneo: perché è qui che si decidono i destini non soltanto europei, ma anche mediorientali. a pagina 12
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’intervista
prima pagina
Parla l’economista Marco Fortis
pagina 2 • 29 dicembre 2011
«Cura-Draghi: questi sono i primi effetti» di Franco Insardà
ROMA. «Purtroppo molti hanno la memoria corta in Italia e dimenticano che il nostro Paese era sull’orlo di un precipizio, con tanti titoli di Stato in scadenza, con uno spread a 575 e con il rischio concreto di non riuscire a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Sull’asta dei Bot concorrono anche fattori esterni, come l’enorme massa di liquidità che le banche hanno preso a prestito dalla Bce, ma sicuramente è una dimostrazione di fiducia verso l’Italia». Marco Fortis, professore di Economia industriale e Commercio estero alla Cattolica di Milano, fotografa così l’ultimo mese della nostra economia. Professore, che cosa è riuscito a fare il governo Monti? Tenendo conto anche del peggioramento repentino del quadro internazionale, ha sostanzialmente dato una risposta ai mercati e all’Europa sul pareggio di bilancio nel 2013. Un obiettivo più alla portata perché si è fatta questa manovra, focalizzata ad avere delle risorse che potessero assicurare il raggiungimento dell’obiettivo. Stiamo facendo un percorso virtuoso, per alcuni troppo, ma credo che sia giusto. Faccio notare che il pareggio di bilancio nel 2013 non è un dogma. In che senso? Se dovessimo fare un -0,5 non sarà la fine del mondo, considerando che, esclusi noi e la Germania, non c’è un altro Paese che riuscirà a darsi obiettivi così stringenti. La Francia nel 2013 sarà ancora sopra il 5 per cento di deficit, finché non decideranno di varare una manovra simile alla nostra. Ma a Parigi per molto meno assaltano la Bastiglia. Tutti, però, guardano alla crescita. È chiaro che in meno di un mese non si può fare tutto, qualcosa è stato già fatto. Bisogna anche tenere conto che siamo nel pieno di una recessione mondiale. La crescita non si fa per decreto. Un aspetto cruciale è quello del rilancio degli investimenti per le infrastrutture che producono subito Pil. Occorre, però, sbloccare i fondi, coinvolgendo anche i privati. Quali interventi bisognerebbe prevedere per le imprese? Sicuramente la defiscalizzazione degli oneri contributivi non pensionistici che, come ha indicato il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, dà allo Stato un gettito di 7 miliardi di euro. E questa misura renderebbe le imprese molto più competitive sull’export. L’export è un capitolo fondamentale. Infatti. Negli ultimi mesi le nostre imprese hanno avuto delle performance incredibili, facendo addirittura meglio della Germania. In volume negli ultimi otto anni, a dispetto di quello che si pensava, l’export è cresciuto del 17 per cento. Bisogna aiutare le nostre imprese a esportare di più, anche perché la domanda interna in Italia come in Germania non cresce, perché siamo gli unici due paesi virtuosi. Il governo ha annunciato una grande stagione di liberalizzazioni.Visti i precedenti, crede che ce la possa fare? Bisogna iniziare a farle, anche perché producono effetti a lunghissima distanza. Si tratta di iniziative cruciali per i giovani del futuro, ma bisogna essere consapevoli che non ci saranno vantaggi sul Pil del 2012 o del 2013. Al di là delle intenzioni non c’è il rischio che alla fine i partiti possano fermare le riforme che il governo ha in mente di fare? Penso di no.
il fatto Il governo vara un piano molto articolato per rimettere in moto la crescita
Italia, Società Aperta
Obiettivo liberalizzazioni, dall’energia ai trasporti: il Consiglio dei ministri lancia la sua sfida. Ma mezzo Pdl si tira indietro. Gasparri: «Esecutivo di pasticcioni» di Errico Novi
ROMA. Provvidenziale tempismo. La svolta arriva in mattinata e riguarda l’asta sui bot semestrali. Che va bene, molto bene: tutti piazzati, rendimenti che poco dopo l’apertura quasi si dimezzano, dal 6,50 di novembre a un rasserenante 3,25. Insomma, arriva la traduzione in moneta della credibilità faticosamente ricostruita da Mario Monti. Persino un commentatore nettamente schierato a destra, e di grande competenza, come Franco Bechis riconosce che «le due aste dei titoli sono la prima vera svolta di Monti». È un segnale, in parte contraddetto dal rendimento dei Btp decennali – e dal conseguente spread con i bund tedeschi che staziona intorno a quota 7 per cento – oltre che dal -0,85 registrato da Piazza Affari in chiusura. Resta comunque il sollievo per una vendita, quella dei buoni ordinari semestrali, indicata da molti come test verità per l’esecutivo. Ossigeno vitale perché reso disponibile proprio mentre si fa più spietato, ai limiti del soffocamento, il pressing del Pdl sul premier. Alle dichiarazioni del giorno prima infatti si aggiungono il bis di Gasparri – che parla di ministri pasticcioni e suggerisce al governo di astenersi dalle riforme – un ultimatum di Osvaldo Napoli, seguito a ruota da figure di non primissima fila ma molto vicine a Berlusconi come l’europarlamentare Licia Ronzulli.
Il cannoneggiamento dell’ex maggioranza sembra quasi calcolato a freddo per infliggere una clamorosa spallata al governo. Altre voci dal giro del Cavaliere negano invece qualunque ipotesi di corsa alle urne. Ma l’aria si fa ogni minuto più pesante. E il buon risultato dell’asta sui Bot è un sollievo davvero impagabile per il go-
verno. Esecutivo che fa dunque appena in tempo a premere il tasto start della fase due. Provvede con un lunghissimo Consiglio dei ministri – quasi tre ore, un inedito se confrontato alle istantanee di cui si vantava Giulio Tremonti – nel quale non ci si limita a fissare la mera cronologia dei prossimi interventi. Certo è che alcuni saranno calendarizzati già a gennaio, per altri bisognerà negoziare con partiti e parti sociali, e in qualche caso non si possono fissare date certe. Discorso relativo per esempio alla riforma del lavoro: articolo 18 «per ora» stralciato, il ministro Elsa Fornero porterà ai sindacati idee per alleviare il precariato dei giovani, poi si vedrà. Più rapido sarà invece l’iter delle semplificazioni mirate anche a rilanciare le opere pubbliche. Forme più snelle di coinvolgimento dei privati attraverso la modulazione delle tariffe si dovrebbero intrecciare con l’adeguamento dei pedaggi autostradali, in arrivo da subito. Entro gennaio potrebbe vedere la luce una misura, sulle quali è al lavoro il responsabile di Sviluppo economico e Infrastrutture Corrado Passera, con cui si introdurrà per la pubblica amministrazione la possibilità di pagare in titoli di Stato i debiti con soggetti privati.
Dialogo con i partiti ma tempistica veloce caratterizzerà il ritorno di fiamma sulle liberalizzazioni. Tornano sul tavolo quelle del trasporto pubblico e, con forme nuove, delle farmacie e dei taxi. Partite difficili, ma lo sarà persino di più l’allargamento della concorrenza per il settore energetico. D’altronde l’andamento dei mercati di queste ore obbliga il governo a sfidare molte resistenze: eventuali indecisioni verrebbero pagate a caro
il commento
Troppi politici non capiscono il mercato In un solo giorno, l’asta dei titoli ha smentito chi puntava sul fallimento di Monti di Rocco Buttiglione segue dalla prima Chi dice che la manovra di Monti è recessiva dice poi che la colpa è di Monti e che se la manovra l’avesse fatta lui, altro che recessione, saremmo in pieno boom economico. Chi racconta queste favole mostra disonestà intellettuale oppure totale mancanza di conoscenza della situazione reale. Monti ha dato al paese la medicina amara (amarissima) di cui il paese aveva bisogno. La colpa non è del medico che ha dato la medicina ma di chi ha governato prima e ha lasciato che la malattia si aggravasse fino a quel punto. Non si può vivere sul debito per sempre, arriva il momento in cui i debiti si devono pagare, se no nessuno più ti fa credito e sei costretto a fare fallimento. Quelli che hanno governato prima hanno fatto i debiti, Monti si è assunto l’ingrato compito di pagarli.
Qualche tempo fa dei giornalisti un po’ birboni hanno fatto ai parlamentari che passavano per la piazza di Montecitorio l’esame sullo spread. Pare che non tutti i parlamentari se la siano cavata in modo brillante. A giudicare da quello che si legge su giornali anche autorevoli pare però che anche molti giornalisti non abbiano capito esattamente di che cosa si tratta. Vediamo adesso di chiarirci le idee. Lo spread è la differenza fra il rendimento di un titolo e quello di un altro titolo analogo. Lo spread di cui tutti parlano è quello fra i titoli di stato decennali italiani e quelli tedeschi. Lo spread misura la differenza fra la fiducia che il mercato ha nella fi-
nanza italiana ed in quella tedesca. Ogni giorno si scambiano in borsa titoli di stato e ogni giorno si rileva lo spread. Per chi si occupa di finanza pubblica la crescita dello spread è sempre un segnale di allarme. I titoli che si scambiano ogni giorno, però, sono titoli in possesso di privati. Se un giorno lo spread sale, diminuisce il valore dei titoli di stato e sale l’interesse reale che su di essi viene pagato. Male per chi detiene titoli di stato, bene per chi li compra in quel momento. Per lo stato, però, non cam-
È un successo del premier, ma anche della politica monetaria adottata da Mario Draghi da quando è alla Bce bia niente. Lo stato non vende i suoi titoli giorno per giorno sul mercato (questo mercato giornaliero viene chiamato mercato secondario e viene alimentato dai privati che vendono e comprano i titoli in loro possesso). I suoi titoli, i titoli di nuova emissione, lo stato li vende in grandi aste periodiche (e questo è il mercato primario). In queste aste intervengono grandi operatori che fanno valutazioni di lungo periodo, comprano per tenere i titoli a lungo. Per esempio li danno in garanzia per prestiti di lunga durata. Questi operatori non sono interessati alle oscillazioni quotidiane dei titoli ma semplicemente al fatto che essi paghino gli interessi pattuiti e restituiscano poi puntualmente il capita-
prezzo in termini di interessi sul debito, così come va capitalizzata la congiuntura favorevole emersa sul delicatissimo fronte dell’asta sui bot. Con mano svelta si procederà sull’annunciata riclassificazione degli immobili: sarà una epocale riforma del catasto, da cui non verrà escluso – come apparso in un primo momento – il criterio della localizzazione dei beni. Piuttosto sarà complicato evitare che tale riordino produca un innalzamento delle imposte supplementare rispetto a quanto già previsto dall’Imu e dalla revisione degli estimi: il combinato disposto rischia di alimentare la campagna anti-governativa su un tema sentito come quello dell’abitazione. Che sia necessaria una lenzuolata di interventi per la crescita è ancora più chiaro, a Monti e ai suoi ministri, dopo l’avvio dell’inattesa offensiva del Pdl. È proprio questo improvviso martellamento a portare incertezze nella maggioranza. Colpisce la folta rappresentanza di berlusconiani doc nella batteria che anche ieri ha impallinato l’esecutivo. Oltre a un Gasparri che ribadisce parte degli ultimatum lanciati martedì, c’è un fedelissimo come Osvaldo Napoli che definisce le politiche di Monti «antibiotici letali per il paziente Italia», alla giovane europarlamentare Licia Ronzulli fino ai Club della libertà, articolazione movimentista del Pdl. A parte il capogruppo al Senato, sono nomi che riportano con immediatezza al giro stretto dell’ex premier. Colpisce la richiesta netta di Gasparri, che di fatto traccia una linea di demarcazione tra «la fase di impegno nazionale necessaria per af-
le. Per lo stato quello che è decisivo è il collocamento delle aste. Da lì dipende il carico di interessi che lo stato effettivamente dovrà sopportare.
Come esiste uno spread sul mercato secondario così esiste anche uno spread sul mercato primario. In genere i due spread sono connessi fra loro ma non sempre è così. La speculazione può influenzare più facilmente il mercato secondario. Certo, l’andamento del mercato secondario è un segnale da non sottovalutare mai, quello che è realmente decisivo, però, è il mercato primario. Negli ultimi mesi del governo Berlusconi la speculazione aveva convinto anche i grandi investitori che i titoli italiani fossero a rischio. Le banche hanno cominciato a vendere i loro titoli considerandoli rischiosi e anche alcune aste sono andate male. Fu allora che io mi azzardai a dire che la poca credibilità politica del governo Berlusconi ci costava 300 punti di spread. Da allora abbiamo fatto il governo Monti. Lo spread prima è sceso di circa 200 punti (sul mercato secondario), poi è risalito di circa 130 punti. Monti intanto iniziava la sua politica di risanamento ed otteneva, nel vertice di Bruxelles, in cambio delle misure durissime di risanamento, un importante successo. La Bce decideva di accettare titoli di stato italiani come garanzia per prestiti alle banche al tasso assai favorevole dell’1 per cento. Questo avrebbe dovuto spingere le banche ad acquistare titoli di stato italiani. In realtà ciò non è accaduto. Le banche non sono intervenute sul
frontare la grave crisi» e i «provvedimenti ulteriori», per i quali invece «occorre un confronto preventivo». Nella sostanza non c’è nulla di diverso da quanto atteso dallo stesso premier. A lui la cabina di regia ipotizzata a metà dicembre proprio da Berlusconi non sarebbe affatto dispiciuta. Ma è il tono a contraddire lo spirito costruttivo del Cavaliere di una decina di giorni fa. «Vogliamo liberalizzazioni vere che riguardino i potentati dell’energia, dei trasporti, dei servizi pubblici locali, delle coop rosse: non aggressioni a singole
mercato secondario e lì lo spread è rimasto alto e con lo spread sono rimasti alti i tassi di interesse. Le banche sono invece intervenute alle aste tenute dal tesoro ieri. I risultati sono incoraggianti. L’asta riguardava buoni non a dieci anni ma solo a sei mesi. Il tasso di interesse (e lo spread sui titoli similari tedeschi) si è ridotto di oltre trecento punti. Anche l’asta dei ctz 2013 ha dato un risultato analogo. Ai tassi di queste aste siamo in grado di finanziare il nostro debito pubblico senza manovre aggiuntive. Prima di tirare un definitivo sospiro di sollievo, naturalmente, bisognerà attendere ancora. Altre difficili prove attendono la nostra finanza pubblica. La strategia messa a punto a Bruxelles, però, sembra funzionare. È un successo per Mario Monti ed anche per Mario Draghi. È anche un successo per tutti i risparmiatori che in occasione di queste aste hanno espresso la loro fiducia nel loro paese comprando titoli italiani. Hanno fatto una buona azione e (probabilmente) anche un buon affare. Escono invece umiliati tutti quelli che in questi giorni hanno speculato non tanto sul fallimento del governo Monti quanto sulla rovina dell’Italia.
«qualsiasi politica di crescita». Secondo il deputato piemontese «non ci sono liberalizzazioni capaci di riassorbire l’impoverimento generalizzato dei redditi». Quindi l’affondo sulle riclassificazione degli immobili: «Non so se la revisione degli estimi catatali è la conclusione micidiale della prima fase o le campane a morto che annunciano la seconda fase della politica economica». Non c’è male, come alternativa. Delle stesse contraddizioni tra «consumi» e «rilancio» parla anche un’eurodeputata come la Ronzulli, lanciata nel 2009 dallo stesso Berlusconi e finora piuttosto silenziosa su temi del genere. Non manca un attacco della Mussolini sull’uso che le banche dovranno fare del prestito Bce e un pronostico sfavorevole di Noi Sud sulla decorrenza dell’esecutivo, che il micro-movimento meridionalista ha già sfiduciato alla Camera. Una tempesta di dichiarazioni che sorprende e che potrebbe condizionare l’iniziativa del governo, al pari delle simmetriche attese espresse da Di Pietro, pure lui ansioso di votare a giugno. Monti giustamente risponde con una scrupolosa agenda di misure, e confida nella tenuta del Pdl nonostante Berlusconi. Come in quella di un Pd che Veltroni torna a pungolare, anche con un doveroso memorandum: «A Monti viene chiesto di tutto, salvare l’Italia e scrivere in pochi mesi riforme che attendono da anni. La politica è molto esigente con Monti dopo essere stata pochissimo esigente con se stessa».Vero anche se non sufficiente, per il Pdl, a esibire un contegno più realista.
Boom di vendite all’asta dei titoli pubblici: l’interesse si dimezza (ma la Borsa chiude ugualmente in negativo). Sul tavolo del governo anche l’ipotesi di usare i Bot per saldare i debiti dello Stato nei confronti delle aziende categorie che avrebbero tutto il dritto di ribellarsi»: E poi: «Vogliamo ulteriori misure economiche», prosegue Gasparri, ma «rivendichiamo alla politica la responsabilità delle riforme». Fino all’avvertimento, indirizzato un po’alla Fornero ma soprattutto ad Andrea Riccardi, colpevole di aver evocato il diritto di esistenza politica dei cattolici: «Ministri pasticcioni che si rivelino apprendisti stregoni accorcerebbero la vita del governo». Interrogativi retorici che suonano come aut aut arrivano da Osvaldo Napoli, che punta sulla inconciliabilità della «politica fiscale fin qui messa in campo» con
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l’approfondimento
Storace e Ferrero sembrano parlare la stessa lingua di Di Pietro e Bossi. Il guaio è che nei partiti maggiori c’è chi li ascolta
La tentazione sfascista
Gli slogan contro il governo Monti sono quelli di sempre dell’estremismo, di destra e di sinistra. Ma oggi il problema più grave è che alcune frange del Pd e del berlusconismo sono disposte a farsi condizionare da quella demagogia di Riccardo Paradisi inistra radicale e destra populista tornano a parlare una lingua dagli antichi accenti comuni. Le uniscono le stesse denunce, le identiche parole d’ordine contro “mercatismo” e “macelleria sociale”, la stessa propensione alle teorie complottistiche fondate sull’esistenza di cupole decisionali invisibili, di doppi stati, di cospirazioni segrete. Sul club Bildenberg e sulla Goldman Sachs per dire è già fiorita una letteratura tra il fantasy e il gotico, considerevole solo per quantità, nella quale i complottasti di destra e sinistra trovano conferma ai loro pregiudizi. Per costoro il governo Monti non è semplicemente un esecutivo discutibile e fallibile come ogni compagine governativa. È molto di più: rappresenta il disvelarsi del potere ultimo e autentico, quello che finora aveva agito dietro le quinte della politica e dell’economia, l’epifenomeno apocalittico a lungo atteso da coloro che sanno e che vedono, l’avvento dell’ultima
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ora della democrazia e della sovranità sostituita dalla finanza e dalle logge occulte che hanno sempre governato il mondo. Saremmo, insomma, alla demistificazione finale del volto autentico del liberalismo e della democrazia borghese: maschere con le quali elite predatrici avrebbero fino ad oggi sfruttato popoli e classi lavoratrici. Poco di nuovo, si dirà – e questo è già un segno negativo – e le urla in Parlemento dei dipietristi e dei leghisti stanno lì a dimostrare quanto ampio sia il problema. Ma il vero spettro è che giorno dopo giorno, parti consistenti di Pdl e Pd sembrano oltre che disposte, interessate a farsi condizionare da questo “sfascismo parallelo”.
Di tutto questo discorso alla destra populista sta a cuore la sovranità nazionale soprattutto, scippata e requisita dalle burocrazie di Strasburgo e dall’Europa delle banche, mentre alla sinistra radicale preme di più la sovranità sindacale, la
rappresentanza di classe, anch’essa indebolita dalla verticalizzazione e velocizzazione della decisione. Ma a ben vedere le due cose si tengono e cadute alcune reciproche pregiudiziali potrebbero benissimo trovare una sintesi in un’avventura di tipo social-nazionalista. Fantapolitica? Mica tanto. Il senso comune non è molto lontano da certe avversioni e idiosincrasie declinate ideologicamente dalle culture politiche radicali. Basta prendersi un caffè al bar o viag-
Il populismo contro banche e liberismo ha trovato nuovi adepti
giare in uno scompartimento ferroviario per ascoltare maledizioni e invettive contro le invadenze dell’Europa, l’arroganza di Sarkozy e della Merkel, i sacrifici indotti da una crisi finanziaria esplosa tra le mani di apprendisti stregoni di un capitalismo finanziario talmente astratto da essere diventato, per l’uomo della strada, una metafisica infera col suo linguaggio esoterico e cifrato fatto di spread, di rating, di bolle e di rimbalzi di borsa. E le parole dei leader delle destre e sinistre senza attenuazioni che s’aggirano nell’arena politica di questa confusa Italia dei primi anni dieci entrano nelle piaghe della crisi, offrono una lettura semplificata, additano il nemico, indicano la soluzione.
«Ministri tecnici e politici pasticcioni rischiano di complicare la vita di chi lavora – urla Francesco Storace, leader de La Destra alla vigilia dell’approvazione della manovra del governo – I primi sono quelli come
madame Fornero, la piagnona, che un giorno impreca contro l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori e il giorno seguente nega di sapere di che stiamo parlando; i secondi sono quelli disposti a ingoiare tutto pur di evitare di dare la parola al popolo. Nel frattempo – continua Storace – il lavoro cala, aumentano i disoccupati, la tragedia sociale è sempre più palpabile. Noi, quando il 4 febbraio scenderemo in piazza nel corteo di Roma, intendiamo issare anche le bandiere del lavoro che manca. La manifestazione, contro il governo delle banche, dovrà rilanciare anche una piattaforma sociale cara a questa nostra destra, a partire dal modello partecipativo». Poi dopo la promessa di fare pressione sul sindacato Ugl, l’ex Cisnal, per imbastire una comune battaglia, Storace accusa «Le politiche di globalizzazione, che si accompagnano alle politiche finanziarie, che stanno devastando i rapporti sociali. Nel rispetto delle autonomie che si debbono
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riconoscere a formazioni politiche e organizzazioni sindacali, credo che si debba tentare di individuare obiettivi comuni». Iniquità sociale e svuotamento della sovranità nazionale ecco dunque la denuncia di Storace che fa eco a molte battaglie della Lega, se non fosse che il Carroccio ha in mente patrie ancora più particolari dell’Italia. Veniamo alla sinistra radicale.
li che costituiscono la nostra civiltà politica senza arrendersi al fatalismo della finanza scatenata da un lato e dall’altro senza cedere alla reazione social-nazionalista, che vorrebbe riportare le persone a rinserrarsi nei recinti delle comunità chiuse.
Il segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero è al lavoro da settimane per ricostruire l’unità della sinistra a sinistra del Pd. Un lavoro paziente che qualche frutto sembra cominciare a darlo dopo che i democratici hanno sostenuto con il loro voto di fiducia il governo. Tanto che lo stesso Nichi Vendola, leader di Sel, ha parlato della necessità di una sinistra in Italia. Ma sentiamo Paolo Ferrero: «Il Governo Monti è un Governo di destra tecnocratica. Spero che duri perché dopo il danno, sarebbe una beffa, visto tutto quello che stanno facendo e visto che stanno distruggendo lo stato sociale. Stanno demolendo diritti conquistati dai lavoratori in tanti anni. Un’operazione delle grandi multinazionali contro i diversi movimenti operai. L’unico modo di uscire dalla crisi è un maggior intervento pubblico. Se il Governo, di fronte a differenze nel mercato del lavoro, vuole costruire l’uguaglianza portando tutti al livello peggiore, faremo una battaglia durissima. La gente oggi è in uno stato intermedio, dopo le speranze date dal Governo Monti, c’è delusione e rabbia perché‚ ci si è resi conto che Monti è una prosecuzione del Governo Berlusconi. Ho avuto segnali di disponibilità da Idv, zero da parte di Sinistra e Libertà. Avere la sinistra così, divisa in questo modo, è da pazzi. Davanti a un Governo che fa queste politiche, bisogna che ci sia una sinistra che si oppone e che propone misure alternative. C’è bisogno di una sinistra». E ancora Ferrero, in escalation: «Con l’approvazione della manovra Monti ha fatto filotto: si tratta di una manovra iniqua sul piano sociale, recessiva sul piano economico e del tutto inutile contro la speculazione finanziaria. Un risultato peggiore era difficilmente realizzabile. Non sappiamo se Monti si comporti così perché a libro paga degli speculatori oppure perché imbevuto di ideologie neoliberiste. Il risultato non cambia: oggi abbiamo a capo del governo un vero nemico del popolo italiano». C’è da rilevare che di liberale o liberista la manovra di Monti ha ancora ben poco, considerando che si sostanzia in nuove tasse e, per ora, zero liberalizzazioni. Nell’ottica pregiudiziale i fatti non importano, si procede per interpretazione selettiva dei fenomeni. L’alzarsi dello spread ad esempio viene eletto a indizio
Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl al Senato, ha bacchettato «l’iperattivismo di alcuni ministri che potrebbe causare effetti catastrofici». Accanto, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista e, sotto a destra, Oliviero Diliberto, leader dei Comunisti italiani: si sono schierato contro la deriva liberista del governo. A sinistra, Francesco Storace che ha usato gli stessi argomenti contro l’esecutivo. A fronte, Berlusconi e Di Pietro
in grado di svelare l’attuarsi d’un piano disegnato a tavolino: «Come volevasi dimostrare la manovra antipopolare di Monti non serve a nulla contro la speculazione finanziaria. Così lo spread sale e gli speculatori, grazie a Monti, brindano alle spalle dei lavoratori che hanno pagato la manovra. È sempre più evidente che Monti&company stanno utilizzando la speculazione, che non combattono in alcun modo, per demolire le conquiste dei lavoratori italiani. La prossima tappa sarà data dalle liberalizzazioni e dalle privatizzazioni, così gli speculatori si compreranno a prezzi stracciati l’argenteria di famiglia». Del resto il presidente del Censis Giuseppe De Rita presentando il quarantacinquesi-
mo rapporto sullo stato del Paese aveva avvertito del rischio di un ritorno di fiamma in Europa e in Italia di schemi ideologici di metodo populista e di ideologia social-nazionalista.
Reazione irrazionale ma fisiologica all’oggettivo strapotere della finanza di condizionare vite ed economie. Uno strapotere fuori controllo, ovviamente, che non ha regie occulte o grandi vecchi a tirarne le fila, perché semplicemente e pericolosamente risponde a una teoria del caos. Ma questa è una lettura al tempo stesso troppo semplice e troppo complessa per i complottisti antiliberali. Persuasi che solo a loro tocca il privilegio e l’onere di saper leggere dietro le quinte del mondo
e portare la rivelazione alle masse rese inconsapevoli da una congiura oscurantista. Salvo che la storia che loro raccontano non è vera. Seguaci della vulgata keynesiana costoro non sanno o fingono di ignorare che proprio un keynesismo impazzito ha scatenato la crisi dei subprime nel 2008 e a ruota tutto ciò che è venuto. Che è stata la commistione tra politiche di sviluppo statale, implementazione della spesa pubblica e speculazione finanziaria a intossicare l’economia mondo, a creare, e non è la prima volta che accade, la grande bolla. Ma torniamo all’analisi di De Rita. In questa situazione di pericolo estremo, diceva il presidente del Censis, è importante tenere la barra dritta sui fondamenta-
«Ognuno per sé e Francoforte per tutti – dice de Rita - sembra il messaggio corrente. Ma una società complessa come la nostra – avverte il presidente del Censis - non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato e affidando la tenuta all’ordine minimale a vertici e circuiti finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Infatti è illusorio pensare che i vertici finanziari disegnino sviluppo, «perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà». Le masse lasciate nella dipendenza da un ideologico primato del mercato accentuano infatti i propri difetti e le loro paure. Così che il rischio, per l’Italia e per molte altre realtà europee, è una stretta a tenaglia di due errori fatali. Quella dell’individualismo economico, della soluzione micro, fai da te, quotidiana alla crisi, e quello un riflesso politico di chiusura al mondo esterno: «Un nazionalismo a sovranità sociale» lo definisce appunto De Rita. Occorre stare attenti anche all’eccessiva verticalizzazione del potere, mette in guardia De Rita: bene la velocità e l’efficacia delle decisioni ma insomma diventa complicato pensare di decidere eludendo rappresentanze sociali e corpi intermedi proprio in un momento di crescente crisi della politica e di frustrazione sociale indotta dalla lontananza della sfera della decisione. «È la domanda di rappresentanza che fa la politica e non l’emozione di piazza. Altrimenti – rileva ancora il presidente del Censis - si scivola, più o meno morbidamente, verso una deriva nazional-sociale. Per fortuna non c’è un potenziale Peron pronto a metterla a frutto, ha commentato De Rita. I Di Pietro, i Grillo gli Storace non mi preoccupano ma non si sa mai…». Per ora quello intuito da De Rita è solo un rischio, un’ipotesi pericolosa. Ma l’esasperarsi della crisi e le orecchie ben disposte di qualcuno dentro a Pdl e Pd potrebbero creare condizioni storiche particolari, favorevoli all’ascesa di leader ben più pericolosi degli agitatori oggi su piazza. Non è mai stato facile essere moderati. Nei prossimi anni sarà ancora più difficile. Ma la cultura politica moderata sarà anche l’unica cosa sensata da opporre all’estremismo di ogni ideologia.
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società
Secondo il gip di Cremona Salvini sarebbero stati alterati «molti risultati di serie B e alcuni di Serie A e Coppa Italia»
Il calcio fa catenaccio
Cesare Prandelli: «Le scommesse mi mettono addosso tristezza. È pazzesco non avere difese». Giancarlo Abete: «Le chiacchiere non sono notizie» In questa pagina, alcuni protagonisti dell’operazione “Last Bet” avviata dalla Procura di Cremona. Dall’alto in basso, Simone Farina, il giocatore del Gubbio che ha denunciato il tentativo di combine, e gli indagati Nicola Santoni, Cristiano Doni, Carlo Gervasoni, Luigi Sartor e Alessandro Zamperini. Nella pagina a fianco, Lazio-Genoa 4-2 dello scorso 14 maggio, una delle tre partite incriminate dal gip Guido Salvini su richiesta del procuratore Roberto Di Martino
di Franco Insardà
ROMA. Tre campioni del mondo tirati in ballo nella vicenda calcioscommesse.Tre protagonisti di quell’impresa azzurra, in Germania nel 2006, che ha contribuito in maniera decisiva a far dimenticare a tutti i tifosi lo scandalo di Calciopoli. La seconda tranche dell’inchiesta “Last Bet”, che ha portato in carcere 17 persone, tra le quali Luigi Sartor, Cristiano Doni, Alessandro Zamperini, Filippo Carobbio e Carlo Gervasoni, sembra più pesante della prima che, a giugno, ha visto coinvolti Giuseppe Signori, Vincenzo Sommese, Marco Micolucci e Marco Paoloni. Da Cremona ieri mattina è arrivata prima la smentita di Lorenzo Tomassini, legale di Nicola Santoni, l’ex preparatore dei portieri del Ravenna, di eventuali rapporti tra il suo assistito e gli azzurri Gigi Buffon, Rino Gattuso e Fabio Cannavaro. Secondo un’intercettazione ambientale diffusa da alcuni media, in una conversazione registrata lo scorso 30 settembre Santoni avrebbe fatto riferimento ai tre calciatori indicandoli come scommettitori. L’avvocato Tomassini in una nota ha spiegato: «Ho letto le agenzie di stampa che vorrebbero accreditare l’esistenza di un’intercettazione ambientale in cui Santoni coinvolgerebbe Buffon, Fabio Cannavaro e Gattuso.Tengo a precisare che Nicola Santoni non ha mai conosciuto i predetti calciatori né con gli stessi ha mai avuto alcun rappor-
to, nemmeno indirettamente». E poi la precisazione del pm Roberto Di Martino: «Non è emerso nulla che riconduca a questi tre calciatori. Alla Procura di Cremona non interessano le scommesse o chi le fa, ma interessano se alla base delle scommesse vi sono delle frodi sportive». Lo stesso Santoni, nel corso del suo interrogatorio, avrebbe confermato di non aver mai conosciuto i tre nazionali e che, in sostanza, aveva fatto dei nomi a caso in un contesto colloquiale.
Ma che il mondo del calcio italiano sia sotto choc lo si capisce dalle parole di Cesare Prandelli e da quelle di Giancarlo Abete. Il ct azzurro e il presidente della Figc fanno catenaccio per un ambiente che diventa sempre meno credibile. Prandelli, in un’intervista al settimanale
sto buio. Parte del marcio è affiorata grazie al comportamento ”normale” di un calciatore che ha detto no ai soldi per vendere una partita. Per questo ho chiamato il giocatore del Gubbio, Simone Farina, a Coverciano. Merita di respirare l’aria della Nazionale. Sono importanti la normalità e la serietà: è una buona storia per ricominciare».
Mentre il presidente della Figc ci ha tenuto subito a precisare che «le chiacchiere non sono notizie». Ai microfoni di Sky Sport24 Abete ha aggiunto: «Il primo pensiero è stato di forte rammarico per soggetti chiamati in causa da intercettazioni, non è giusto. Bisogna stare attenti a salvaguardare l’immagine e il prestigio che alcune persone si sono costruite nel corso degli anni. Sono grato al pm
Il legale smentisce: «Santoni non ha mai conosciuto Buffon, Cannavaro e Gattuso, né con gli stessi ha mai avuto alcun rapporto, nemmeno indirettamente». Il pm Di Martino aggiunge: «Non è emerso nulla che riconduca a questi tre calciatori» L’Espresso in edicola oggi, esprime tutta la sua amarezza: «Le scommesse mi mettono addosso tristezza. Una partita finisce condizionata da appetiti criminali che partono dall’altra parte del mondo e arrivano dentro gli spogliatoi. È pazzesco non avere difese, lasciar passare que-
Di Martino che immediatamente ha chiarito quanto emerso e ha dato connotati comprensibili a una notizia di particolare rilievo». Abete ha voluto precisare che si tratta di «un fenomeno che è internazionale e che non riguarda solo l’Italia e lo dimostra il fatto che la lotta alle
scommesse è una priorità per l’Uefa e non solo». E sull’inchiesta di Cremoma ha aggiunto: «Sapevamo che ci sarebbe stato un secondo tempo di una partita che non avremmo mai voluto giocare. Ricordo che Santoni, Doni e Gervasoni risultano già inibiti dalla giustizia sportiva. C’è uno stretto rapporto di rispetto dei ruoli tra la procura di Cremona e quella federale, adesso bisogna attendere l’arrivo di documenti che certificheranno fatti nuovi su eventuali responsabilità delle società. Ci sono già state penalizzazioni per alcune società e ci sono attualmente in corso dei reclami che fanno sì che l’iter non sia stato ancora completato. Senz’altro potranno esserci nuove penalizzazioni, ma le responsabilità eventuali delle società possono essere oggetto di provvedimenti della procura federale soltanto quando ci saranno documenti su fatti nuovi. Ma al momento parliamo di situazioni per sentito dire e per mia cultura non ritengo questo un elemento sufficiente per dare valutazioni e giudizi che comunque attengono alla giustizia sportiva».
Intanto l’avvocato Ettore Traini, delegato della Procura federale della Federcalcio, ha acquisito in Procura a Cremona copia dei nuovi atti dell’inchiesta sul calcioscommesse che possono riguardare anche la giustizia sportiva. Lo stesso avvocato Trani a giugno scorso
società eri mattina, dopo aver letto i giornali, le dichiarazioni di Cristiano Doni - «Ho agito solo per amor di patria, a me interessava solo che l’Atalanta andasse in serie A» -, le nuove rivelazioni del difensore (nel senso calcistico) Carlo Gervasoni anche sulla massima divisione e le intercettazioni sugli «azzurri malati di scommesse», ho mollato i quotidiani e con mio figlio (sette anni) sono andato al campo e alla scuola calcio “Cesare Ventura” a Benevento per un torneo di fine anno in cui genitori, allenatori e ragazzini si sono incontrati per una mattinata di sano sport. Mentre i ragazzini giocavano inseguendo il pallone che li rendeva più agili e leggeri ripensavo ai giocatori veri, quelli che si vedono in televisione, in campo e negli spot pubblicitari, e mi chiedevo: «Il campionato è vero o falso?». Davanti ai miei occhi i ragazzini continuavano a giocare sotto la guida degli allenatori e ogni loro sforzo aveva il senso della sfida e dell’impegno in cerca della bella azione, del gol e dell’amicizia, ma nella mia testa ritornava la domanda sollecitata dalle dichiarazioni di Gervasoni al pubblico ministero Roberto Di Martino: «Il campionato è vero o falso?».
I
Fino ad ora l’inchiesta sul calcio scommesse aveva solo sfiorato le partite del campionato di serie A. Ora, dopo che l’inchiesta ha prodotto oltre venti faldoni sulla serie B e le divisioni minori, ecco che irrompe sulla scena il campionato maggiore, quello a cui tutti pensano quando pensano al calcio. Le cose che ha detto Gervasoni sono da verificare, naturalmente, ma non sono inverosimili. In particolare, il difensore del Piacenza fino allo scorso agosto, prima della squalifica per ben cinque anni, ha tirato in ballo tre incontri di serie A del campionato 2010 – 2011: Palermo-Bari (2-1), Lazio-Genoa (4-2) e Lecce-Lazio (4-2). Gervasoni ha detto (testuale): «So per certo che in
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Il nuovo scandalo scopre la pentola di uno ”spirito” che non c’è più
E le partite di oggi sono credibili? Dietro dichiarazioni e insinuazioni si è smarrito il senso di uno sport di Giancristiano Desiderio due dei match di serie A la combine è andata a buon fine». E che la combine sia «andata a buon fine» significa che il senso dello sport è andato a farsi fottere. Al momento ancora non ci sono nuovi iscritti nel registro degli indagati «ma potrebbero esserlo in tempi brevi» ha volutamente precisato il pubblico ministero della procura di Cremona. Del resto, le cose dette da Gervasoni non sembra che siano le uniche cose utili ai fini dell’inchiesta sull’ennesimo scandalo calcistico. Ci sono altri allegati, altre rivelazioni, altre intercettazioni. Come quella in cui Nicola Santoni, ex portiere del Palermo e amico di Cristiano Doni, parlando il 30 settembre 2011 con un non meglio identificato Maurinho dice così: «Il calcio è tutto truccato, tutto marcio. C’è Buffon che gioca anche lui, 100-200 mila euro al mese. Lui, Gattuso, Cannavaro sono proprio malati». È del tutto inutile rilevare che «lui, Gattuso, Cannavaro» sono i principali artefici della vittoria al Mondiale del 2006. Gli inquirenti, però, hanno precisato che non esistono riscontri a questa intercettazione. E mentre guardo mio figlio giocare con i suoi amici spero, perché non posso fare altrimenti, che il procuratore di Cremona non trovi alcun riscontro: anzi, che non ci siano riscontri.Tuttavia, nel suo interrogatorio, Gerva-
aveva ricevuto parte del fascicolo della prima parte dell’inchiesta “Last Bet”. Ieri Santoni dopo essere stato interrogato dal pm Roberto Di Martino, su richiesta del quale era stato arrestato il 19 dicembre, ha ottenuto i domiciliari. La stessa misura è stata adottata anche per Carlo Gervasoni.
Il calciatore del Piacenza, interrogato dal pm Di Martino, ha parlato di almeno un’altra decina di incontri truccati che saranno analizzati dagli inquirenti. Nell’interrogatorio il giocatore ha anche accennato a presunte combine su 3 partite di serie A facendo i nomi di una ventina di colleghi coinvolti. Ha raccontato di essersi accordato con l’allora capitano dell’Atalanta Cristiano Doni, in occasione
La pretesa di Doni di «aver fatto tutto per salvare l’Atalanta» suona come autodifesa ma è la negazione palese del significato di “gioco” soni ha detto tante altre cose e fatto i nomi di almeno venti giocatori che «giocano e scommettono» e la metà di questi giocatori-scommettitori sarebbero di serie A. Allora, ritorna ancora la domanda: «Il campionato è vero o falso?». E la domanda non è mossa solo dai casi di Doni e Gervasoni. Il processo a Calciopoli e a Luciano Moggi è solo di ieri, non di decenni fa. E decenni fa ci sono stati altri scandali e altre scommesse. La domanda - il campionato è vero o falso? - è obbligatoria visto che il campionato italiano di serie A è da un po’ di tempo di difficile pa-
di Atalanta-Piacenza del 19 marzo scorso. Nell’ordinanza con cui il gip di Cremona Guido Salvini ha concesso i domiciliari al calciatore si legge di “accordi di-
ternità. Sul campo vince una squadra, ma i giudici revocano lo scudetto e lo attribuiscono ad un’altra. Alcune squadre sono penalizzate (in passato ci sono state retrocessioni in serie B e in serie C) e fior di ex giocatori e di dirigenti sono condannati.
La lealtà del senso del gioco non sembra proprio essere il vero e unico giudice delle partite di calcio. Ma se un campionato non risponde alla regola della lealtà e della verità del gioco, allora, che campionato è? Carlo Gervasoni ha parlato di tre partite dello scorso cam-
suo arresto ha fatto «una scelta di piena collaborazione, confermando la sussistenza degli episodi di frode sportiva di maggior rilievo facendo venire alla luce
Concessi i domiciliari a Nicola Santoni e Carlo Gervasoni. Il calciatore del Piacenza ha raccontato di un accordo con Cristiano Doni su un rigore in Atalanta-Piacenza. La procura federale della Figc ha acquisito tutti gli atti retti” tra Gervasoni e Doni «con particolare riguardo alle modalità con cui Doni potesse tirare (in modo centrale) un eventuale rigore che il portiere del Piacenza avrebbe fatto in modo, come effettivamente è avvenuto, di non parare». Gervasoni, scrive ancora Salvini, dopo il
altri episodi significativi per le indagini e altri soggetti coinvolti sinora sconosciuti agli investigatori. Tale comportamento appare segno di una riflessione e di resipiscenza in relazione all’attività di frode avvenuta e Gervasoni si è impegnato a completare la sua ricostruzione, fornen-
pionato. E il campionato in corso? Chi può garantire la correttezza sportiva dei campionati di serie A e serie B che si stanno disputando? Nessuno, praticamente nessuno. Perché, purtroppo, i protagonisti dei campi di calcio - i giocatori - «sono malati di scommesse». Per sapere la verità dei campionati che si stanno disputando si dovrà attendere il risultato dell’inchiesta. La partita vera non è quella che si svolge sotto i nostri occhi o sui nostri schermi televisivi, bensì quella che si svolgerà nelle aule dei tribunali. Ci deve essere qualcosa di vero nel cosiddetto calcio parlato, nel calcio commentato, nel calcio praticato dai giornalisti, dagli opinionisti, dagli ex calciatori diventati commentatori. Solo che anche nel calcio parlato non si parla mai in anticipo degli scandali (anti) sportivi che sempre più spesso arrivano a sfiorare la Nazionale (ma - e lo abbiamo già scritto nell’altro pezzo dedicato al pallone malato - la vittoria del 1982 in Spagna porta la firma di Paolo Rossi che dal calcioscommesse era reduce).
Solo due ultime note. La giustificazione di Cristiano Doni - «l’ho fatto per amor di patria, a me interessava solo che l’Atalanta andasse in serie A» - è fatta quasi passare per una buona motivazione. Che cosa significa? Significa che si è smarrito il senso dello sport e del gioco che per sua natura non può essere truccato, altrimenti non è più giocabile. D’altra parte, la grande organizzazione “asiatica”che “combinava” le partite corrompendo i giocatori ci mostra un campionato parallelo preparato nei minimi particolari e per un giro d’affari capace di risollevare le sorti del debito pubblico degli Stati europei. È come se davanti ai nostri occhi apparisse il vero campionato delle partite false. È così, a meno che non vi troviate, come me, a vedere una partita di calcio di bambini. L’unico campionato che è come appare.
do i chiarimenti che risultassero necessari. In particolare l’alterazione di molti risultati di serie B e di alcuni di Serie A e Coppa Italia».
Il gip di Cremona nel’ordinanza mette in evidenza che «Gervasoni ha narrato come nel 2009 il gruppo degli Zingari di cui era portavoce Gegic, dopo aver manipolato molte partite di calcio in Svizzera, abbia intrapreso in modo sistematico contatti con giocatori italiani, grazie anche all’aiuto di Bressan molto legato a Gegic, come da tale rapporto, che ha coinvolto decine di giocatori, sia conseguita l’alterazione di molti risultati di serie B e di alcuni di Serie A e Coppa Italia (con il coinvolgimento per la Cremonese anche di Paoloni)».
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uale donna potrebbe contrapporsi a Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele?», scriveva nel 1893 Giulia Cavallari Cantalamessa in un volume su La donna nel Risorgimento nazionale. «Le donne non fanno il soldato ma fanno i soldati», disse nel 1912 Anna Kuliscioff per intervenire sul dibattito in corso al Parlamento a proposito della concessione del suffragio universale a tutti coloro che avessero prestato il servizio di leva. In realtà, qualche donna in prima linea c’è sempre stata. «Era bionda, era bella, era piccina/ Ma avea cor da leone e da soldato!/ e se non fosse ch’era nata donna/ porteria le spalline e non la gonna/ pugnò con Garibaldi e questo basta», fu la poesia poi musicata da Carlo Castoldi che Francesco Dall’Ongaro dedicò alla combattente garibaldina Tonina Marinello. «Belle di sdegno e di patriottismo sublime, disprezzando, nel furore della pugna, le inumane mercenarie soldatesche ed animando i coraggiosi figli di tutte le terre italiane», è il ricordo di Garibaldi sulle combattenti delle barricate palermitane. Sempre con Garibaldi aveva combattuto sua moglie Anita, a soccorrere sotto le pallottole i feriti di Calatafimi c’era stata la prima moglie di Crispi Rosalia Montmasson, «garibaldina senza fucile» era stata soprannominata per la sua instancabilità nel raccogliere fondi e assistere feriti Laura Mantegazza, e un po’ tutte le cronache del Risorgimento sono zeppe di anonime donne che sugli spalti ricaricavano i fucili o disinnescavano le bombe inesplose, si esponevano nelle manifestazioni di piazza, depistavano le polizie, custodivano e consegnavano carte segrete. Ma anche sul fronte dell’anti-Risorgimento, loro pure parte di una più grande Storia del Paese, c’erano state le brigantesse come Michelina Di Cesare o Maria Pelosi. E Maria Sofia, ultima regina delle Due Sicilie, a sfidare le cannonate sulle mura di Gaeta assediata. Più tardi anche durante la Resistenza si sarebbero contrapposte partigiane e ausiliarie di Salò, dopo che nella Grande Guerra erano andate in trincea le crocerossine e le portatrici carniche. E nel 1992 la sarda Emanuela Loi, membro della scorta di Paolo Borsellino, sarebbe stata la prima donna poliziotto a morire in un agguato di mafia.
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La Kuliscioff non riuscì a convincere i deputati. Eppure, Giuseppe Garibaldi aveva avvertito che «l’influenza della donna nella civiltà umana è incontestabile». D’altra parte, Miriam Mafai così racconta il suo ricordo su quella prima volta che «sessantacinque anni fa, il 2 giugno del 1946, le donne italiane votarono, per eleggere, dopo il disastro della guerra e del fascismo, l’assemblea che avrebbe dato all’Italia la nuova Costituzione. Votarono con preoccupazione, con orgoglio, con speranza, con emozione. Non avendo ancora ventun anni (età alla quale allora si diventava maggiorenni) non avevo potuto votare, ma poche settimane dopo andai, con un gruppo di amiche, in piazza Montecitorio, per vedere e riconoscere, con una punta d’orgoglio, le prime donne che entravano, da deputate, nello storico palazzo.Vivemmo insieme quel giorno come un nostro grande successo, non solo delle donne che nell’Italia liberata avevano potuto partecipare agli incontri, alle petizioni, alle manifestazioni per il diritto di voto
il paginone
Il filo rosa del Al Vittoriano di Roma, nell’ambito delle celebrazioni per il 150esimo dell’Unità, la grande esposizione «Le donne che hanno fatto l’Italia» di Maurizio Stefanini
Da Anita Garibaldi alla donna di Mazzini Giuditta Sidoli, dalla “Bella Rosina”di Vittorio Emanuele II,fino all’amante del conte di Cavour Bianca Ronzani ma anche di quelle che nell’Italia occupata da fascisti e tedeschi, per anni si erano battute anche per il riconoscimento di questo diritto». E tuttavia Miriam Mafai aggiunge anche questa considerazione: «Il nostro movimento, il movimento femminile del dopoguerra, per l’irrisione che dal fascismo era stata distribuita a piene mani sul vecchio movimento delle “suffragette” e per le riserve espresse nei loro confronti anche da gran parte del movimento operaio, nacque in qualche misura orfano. Solo più tardi scoprimmo dunque un pezzo importante, delle nostre radici e della nostra storia. Solo più tardi scoprimmo i nomi e ricordammo l’azione di coloro, donne e uomini che si erano battuti invano nei Parlamenti dell’Italia liberale, perché alle donne venisse riconosciuto il diritto di voto: il nome di Anna Maria Mozzoni, di Anna Kuliscioff, di Linda Malnati, di Maria Montessori, per non citarne che alcune. O il nome del socialista Salvatore Morelli e del repubbli-
cano Mirabelli che invano avevano chiesto nei parlamenti liberali il suffragio universale e la completa parificazione tra uomini e donne di fronte alla legge». È appunto anche per riannodare il filo di questa memoria troppo spesso misconosciuta che nel corso delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia Presidenza del Consiglio, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Regione Lazio e Comitato dei Garanti per le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia hanno promosso la mostra Le donne che hanno fatto l’Italia. Al Vittoriano dal 7 dicembre 2011 al 20 gennaio 2012. Foto simbolo della mostra, una vecchia immagine in bianco e nero di contadine col fazzoletto in capo impegnate in un taglio delle canne a mano che rappresentano anche visivamente da un lato questa sensazione di lento e faticoso ma continuo avanzamento; dall’altro però anche un contribuito che non è fatto solo da eccellenze, ma anche da una massa di umili lavoratori e casalinghe che hanno fatto letteralmente la Patria anche con il semplice loro lavoro di tutti i giorni.
«Abbiamo celebrato i grandi personaggi che furono protagonisti dell’unificazione», ha ricordato il Presidente del Comitato dei Garanti Giuliano Amato. «Abbiamo celebrato con loro i martiri che l’unificazione non riusciro-
no a vederla, gli eroi locali riportati alla luce dalle tante ricerche sollecitate dall’anniversario, i soldati morti nelle guerre dell’unità. Avremmo commesso un crimine contro la storia se, seguendo una lettura maschilista di cui la stessa storia è stata vittima per decenni, non avessimo celebrato le donne e ciò che esse hanno fatto per l’unità e nei centocinquant’anni che le sono seguiti». Ovviamente, si inizia con Donne del Risorgimento. Dalla già citata Anita alla donna di Mazzini Giuditta Sidoli, alla “Bella Rosina” favorita di Vottorio Emanuele II, fino all’amante di Cavour Bianca Ronzani, che influirono direttamente sui quattro Padri della Patria. Ma anche le organizzatrici come Cristina Trivulzio di Belgiojoso o Sara Nathan, o le madri di eroi come Adelaide Bono Cairoli, o quella singolare “madre della patria” che fu, pur con i suoi mezzi non troppo ortodossi, la Contessa di Castiglione. La sezione Donne Insieme ricorda poi i “gruppi” che fossero in qualche modo esemplificativi o esemplari delle donne che in vari momenti della Storia dell’Italia Unita sono appunto venute alla ribalta non come individualità, ma come identità collettive. Le donne operaie nelle industrie belliche della Grande Guerra, quelle in camicia nera, quelle della Resistenza, le tabacchine, le mondine, le
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Risorgimento
In mostra anche le operaie, le donne in camicia nera e quelle della Resistenza. Poi mondine, balie, infermiere, suffragette e femministe...
gano protagonista di Riso amaro, a quel repertorio di canti che attraverso la ex-mondina Giovanna Daffini sarebbe poi divenuto la base del moderno repertorio di folk revival dell’Italia del Nord. Delle insegnanti aveva già creato il mito Edmondo De Amicis, con la sua maestrina dalla penna rossa.
maestre, le balie, le infermiere volontarie, le religiose, le suffragette, le casalinghe, le femministe. Un opuscolo in mostra insegna alla donne a casa il modo migliore per fare “passamontagne” e guanti destinati ai loro uomini sui fronti della Grande Guerra. Le foto delle partigiane ce le mostrano in bicicletta o con il fucile a tracolla. Delle tabacchine si ricorda di come, “corpo lavorativo e combattivo, in grado di organizzarsi sul piano sindacale rivendicando con orgoglio l’appartenenza professionale qualificata”, erano in gradi di imporsi “nell’immaginario collettivo con il proprio atteggiamento fiero, gli scialli e le calze di seta: donne emancipate che vivevano del proprio lavoro”. Anche le mondine erano una categoria combattiva, anche se meno in grado di imporsi. Anche loro sarebbero però imprevedibilmente entrati nell’immaginario collettivo quando già non c’erano più, attraverso il mondo dello spettacolo: dalla famosa locandina sexy di Silvana Man-
Meno esplorata è l’immagine della balia, che però aveva a sua volta una specie di divisa di cui erano una componente irrinunciabile le collane e i pendenti di corallo: nella tradizione popolare, simbolo del sangue e quindi anche della buona salute, garanzia di buon latte. Un gruppo di donne insieme è anche quello delle 21 elette alla Costituente. Nove comuniste, tra cui la futura presidente della Camera Nilde Jotti. Nove democristiane tra cui Maria Jervolino, madre di Rosa Russo Jervolino. Due socialiste, tra cui Lina Merlin, poi promotrice della legge sull’abolizione delle case chiuse. E la qualunquista Ottavia Penna, che per volontà di Guglielmo Giannini fu la prima donna candidata alla presidenza della repubblica: contrapposta a Enrico de Nicola, ebbe 32 voti. Possiamo dunque considerarle una ideale transizione col terzo gruppo, delle Prime. Matilde Serao: la prima donna che nel 1891 fondò e diresse in Italia un quotidiano. Ondina Valla: la
In queste pagine, alcune immagini delle figure femminili celebrate a Roma, al Vittoriano fino al 20 gennaio 2012, nell’ambito della mostra per il 150esimo dell’Unificazione del Paese “Le donne che hanno fatto l’Italia”
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prima italiana che, nel 1936, vinse una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Igina Massarini: la prima italiana laureata in matematica, nel 1876. Ma anche Franca Viola: la prima siciliana ad avere il coraggio di rifiutare un matrimonio riparatore e far condannare per stupro colui che l’aveva rapita. Fu più facile per le italiane ottenere un Nobel che entrare all’Accademia d’Italia, più facile entrare all’Accademia d’Italia che diventare vigili urbani, e più facile diventare vigili che ministri: Grazia Deledda fu premiata a Stoccolma per la Letteratura nel 1926 (e dopo di lei l’unico altro Nobel andato a un’italiana è stato quello a Rita Levi Montalcini); Ada Negri fu ammessa all’Accademia d’Italia nel 1940; Angela Gasperini entrò nei Vigili Urbani di Roma nel 1972; l’ex-staffetta partigiana Tina Anselmi fu nominata ministro della Sanità nel 1976. Nel 1907 Rina Monti era stata la prima a ottenere una cattedra universitaria e Enrestina Prola la prima a ottenere la patente di guida; nel 1908 Emma strada fu la prima laureata in Ingegneria; nel 1924 Alfonsina Strada fu la prima e finora unica donna ciclista a partecipare al Giro d’Italia accanto agli uomini. Curiosa è la foto che ritrae anche le prime due religiose che negli anni ’50 ottennero il brevetto di pilota. Erano missionarie in India, e l’aereo serviva loro a raggiungere villaggi sperduti.
La sezione delle protagoniste, ovviamente, ospita i nomi più noti. Come ricorda Miriam Mafai, una delle curatrici, “per anni in tutto il mondo il nostro cinema si è presentato con il volto intenso di Anna Magnani, il nostro giornalismo con il volto intenso di Oriana Fallaci, la nostra industria con il volto severo di Marisa Bellisario, la nostra ricerca scientifica con il volto severo di Rita Levi Montalcini”. Ma ci sono anche le campionesse sportive come Novella Calligaris, Sarah Simeoni, Manuela Di Centa o Deborah Compagnoni. Le medaglie d’oro della Resistenza come Irma Bandiera. Margherita Sarfatti, prima amica e consigliera di Mussolini, poi costretta a emigrare dalle leggi razziali. Palma Bucarelli, chiamata a trent’anni a dirigere la Galleria Nazionale di Arte Moderna. Madre Francesca Cabrini, la santa degli emigranti. Maria Montessori, l’apostolo dell’educazione tollerante. Infine, la sezione “Le Donne e l’Arte” presenta una rapida carrellata di realizzazioni di artiste italiane. Il percorso non è concluso. Come ricorda ancora la Mafai,“quel lontano 2 giugno 1946, erano 21 le donne che varcarono il portone di Montecitorio. Oggi sono 111, pari al 17% dell’assemblea. La percentuale più alta finora raggiunta (erano il 14% nel 1994 e l’11% nel 1996) ma ancora distante da quella percentuale del 30% che l’Europa ha indicato come obiettivo da raggiungere per una equilibrata rappresentanza di genere”. Ma alla molta strada comunque percorsa può riferirsi la profezia di Cristina Trivulzio di Belgiojoso riportata dal Presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento Italiano Romano Ugolini: “vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità”.
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Con massicci investimenti, il governo di Hu Jintao ha iniziato a colonizzare non solo il Medioriente, ma anche l’Africa
A Kabul ha vinto Pechino Dopo dieci anni di guerra è la Cina, non l’Occidente, a prendersi il petrolio di Antonio Picasso chi andrà il controllo dell’Afghanistan? Alla Cina forse. Se fosse così, questi dieci anni di scontri rappresenterebbero in tutto e per tutto la prima débâcle dell’Alleanza atlantica da dopo la guerra fredda. D’altra parte, la Casa Bianca è di parola, il 2012 potrebbe essere l’inizio della fine della guerra nel Paese centro-asiatico. Ovviamente sulla carta. E in vista della completa smobilitazione della Nato, fissata per il 2014. Non è un caso che, proprio in questi giorni, si stia assistendo ad alcune manovre di carattere politico ed economico che farebbero presagire scenari postbellici. L’ok di Karzai, ieri, alla proposta del Qatar, di permettere ai talebani l’apertura di una loro rappresentanza a Doha è certamente un passo nell’ottica del dialogo tra le parti. Il tutto sotto l’ombrello protettivo degli sceicchi del Golfo e senza che i governi occidentali riescano a mettere becco. Decisamente uno smacco per Washington, dopo tutto quello che ha fatto per Kabul e soprattutto per Karzai. Altrettanto significativo risulta il nullaosta che il governo cinese ha concesso alla Chinese National
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La Chinese National Petroleum Corp ha vinto lo sfruttamento di uno dei giacimenti più importanti dell’Afghanistan: il bacino fluviale di Amu Darya, che rende circa 87 milioni di barili di petrolio Petroleum Corp. (Cnpc) per lo sfruttamento di uno dei giacimenti più importanti dell’Afghanistan. In partnership con la Watan Group, il colosso di Pechino effettuerà le operazioni di ricerca e sfruttamento del bacino fluviale di Amu Darya, il principale fiume dell’Asia
centrale, che sgorga nel Pamir afgano, regione al confine con la Cina. Sono 87 milioni di barili le risorse estrattive stimate al giacimento. Pur non essendo un giant, Amu Darya costituisce un’occasione importante per la Cnpc. La Try-Zen, società di analisi del settore con base a
Singapore, sostiene che i proventi dell’affare potrebbero arrivare tra cinque, al massimo dieci anni. Un periodo mediolungo al quale Pechino è avvezza, abituata com’è a ragionare secondo misure temporali tanto lontane da quelle dell’Occidente. Soprattutto perché, nel corso di questi anni, i cinesi potranno occuparsi di tutto l’indotto che la realizzazione di un giacimento petrolifero richiede. Due i motivi strutturali per la Cina di introdursi in Afghanistan. Prima di tutto sfruttare,
in termini di investimenti, lo status di “anno zero” del Paese. Nel deserto economico, politico e sociale come appare quello di Kabul e dintorni, tutto è possibile. In seconda istanza, l’operazione va vista come un intervento a discapito di Nato, India e Russia in una regione strategica dell’Asia, peraltro lì dove si è vicini all’Iran. Il via libera dell’altro giorno non è una semplice perlustrazione compiuta dalla Cina in favore di Karzai. A giugno scorso, in occasione del meeting di Astana
Tensione fra il “Grande successore” e l’ambasciata dell’Impero di Mezzo, respinta alle esequie ufficiali del dittatore
Pyongyang scatena l’ira del Dragone on c’è pace per il defunto “Caro leader”: le esequie ufficiali di Kim Jong-il, infatti, rischiano di provocare una forte (e potenzialmente devastante) crisi diplomatica fra la Cina e la Corea del Nord. Nonostante sia una linea ufficiale, infatti, la decisione di Pyongyang di non ammettere alcuna delegazione straniera alla prima giornata di funerali di Stato ha irritato profondamente Pechino. In effetti, il regime nordcoreano ha caricato tutte le feluche a mezzogiorno e le ha portate in visita al Memoriale Kumusan, dove si trovano le salme di Jong-il e Il-sung: una scortesia non da poco, considerando che la Cina pensava invece di avere un posto d’onore nel palco delle autorità al passaggio del feretro. D’altra parte, Pechino è il massimo (oramai quasi l’u-
N
di Massimo Fazzi nico) sponsor delle follie di Pyongyang: abbandonata dalla comunità internazionale per le sue sortite nucleari, infatti, la Corea del Nord dipende in toto dagli aiuti inviati dal confine settentrionale. Probabilmente, la decisione di non
Jong-il per le strade di Pyongyang durante il primo dei due giorni di funerali di Stato è molto importante. Le riprese della cerimonia sono state infatti inviate alle televisioni straniere dal network nazionale nordcoreano, e sono state
Le immagini di Kim Jong-un che, con il volto rigato di lacrime, accompagna il feretro del padre hanno fatto il giro del mondo. Ma nel Paese è iniziata la guerra per la successione onorare in questo modo i “padrini” economici è da attribuire alla giovane età di Kim Jong-un, terzogenito ed erede del dittatore. L’immagine di Kim Jong-un che, con il volto rigato di lacrime, accompagna il feretro del padre Kim
controllate dal Dipartimento per la propaganda: il fatto che in tutte le inquadrature insieme al “grande successore” ci siano lo zio Jang Son-taek e il capo dell’esercito Ri Yong-ho non è un caso. Una fonte di AsiaNews, interna al go-
verno sudcoreano, spiega: «Da quello che la Corea del Nord vuole farci vedere, Jong-un ha scelto di puntare sull’esercito prima di prendere il controllo del Partito. Quest’ultimo è nelle mani dello zio, nominato a suo tempo tutore del giovane; lui vuole invece le armi, e soprattutto l’atomica». Il governo di Seoul sta monitorando da vicino la successione proprio per capire chi avrà il controllo dell’arsenale atomico. Secondo diverse fonti, al momento il regime ha a disposizione più di 50 chili di plutonio attivo e circa 10 bombe atomiche: il vuoto di potere che ha seguito la morte del “caro leader” preoccupa molto non soltanto la Corea del Sud, ma anche la Cina e il Giappone. I Paesi dell’area temono infatti sia un leader forte, che possa decidere da solo un’azione dimostra-
mondo
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I pozzi di petrolio afgani che, dal prossimo mese, finiranno sotto il controllo e la gestione della China Petroleum. Pechino ha fame di energia, che compra da chiunque. In basso, la salma di Kim Jong-il per le vie di Pyongyang nel giorno dei suoi funerali. Nella pagina a fianco, Hu Jintao e Hamid Karzai il giorno della firma dell’accordo energetico un’imponente rete ferroviaria e la costruzione di una centrale di energia elettrica.
(Kazakhstan) della Shanghai Cooperation Organization (Sco), si è detto tanto dell’urgenza di intervenire in Afghanistan con un progetto di ampio respiro e che porti la firma di tutti i grandi soggetti asiatici. Cina e Russia sono in prima linea. L’India, che della Sco è un semplice osservatore, avrebbe altrettanta voce in capitolo. Questo sempre nel quadro di emarginare i governi occidentali dalle politiche continentali. In termini bilaterali, nel 2012 saranno ormai dieci anni dalla
prima visita del presidente afgano a Pechino. Da allora la Cina ha offerto milioni di dollari in aiuti per la ricostruzione del Paese. Un supporto passato spesso inosservato. Tra i due Paesi si è consolidata ormai una collaborazione concentrata nei settori dello sfruttamento delle risorse naturali dell’Afghanistan. La miniera di rame di Logar, con i suoi 3,5 miliardi di dollari di risorse, è la vera punta di diamante di questa joint venture. Fanno seguito gli accordi per la realizzazione di
Vanno aggiunti, infine, i crescenti scambi culturali. Sono sempre di più i giovani afgani che frequentano le università cinesi. Il tutto senza che i media occidentali se ne siano occupati mai in modo approfondito. Del resto, è l’oro nero a fare notizia. Così, mentre nel 2002 la Cina investiva in Afghanistan circa 30 milioni di dollari, oggi lo stesso versamento appare decuplicato. In realtà, i 350 milioni di biglietti verdi spesi da Pechino per la ricostruzione del Paese degli aquiloni non sono nulla rispetto ai 2 miliardi della stessa valuta provenienti dall’India. Tuttavia, l’ambizione cinese è proprio di bloccare questo flusso. La gara tra Pechino e Delhi per il dominio dell’Asia – e pure dell’Africa – è sempre aperta. L’Afghanistan è un diamante che nessuno dei due ha intenzione di condividere con l’altro. Peraltro ben incastonato sull’antica via della seta, che collega la Cina all’Iran. Paese che, anch’esso, fa gola a entrambe
nomia assente. Pechino può fare questo e altro. Nel senso che è noto il suo disinteresse per le rivalità religiose, tribali ed etniche che gravano su un contesto specifico. Quello africano è un precedente che non si può dimenticare. Alla Cnpc, in particolare, non importano le guerre tra pashtun, hazara, tajiki e così via. Il suo fine è portare a casa il greggio e gli utili dalla raffinazione di questo. La locomotiva cinese, carica delle sue sgargianti bandiere rosse, non esporta ideologia. Bensì si limita ad attraversare le nuove frontiere dei Paesi in via di sviluppo, facendo man bassa delle risorse locali, sia minerarie sia di forza lavoro.
le potenze, le quali sanno farsi agevolmente beffa delle sanzioni Onu. Da notare come dalla tenzone complessiva vengano esclusi a priori gli occidentali e russi, i quali la carta di pacificare l’Afghanistan l’hanno già avuta e l’hanno pure giocata male. Per quanto l’India in Afghanistan sia più che consolidata, e abbia dalla sua il soste-
L’operazione va vista come un intervento a discapito di Nato, India e Russia in una regione strategica dell’Asia, peraltro lì dove si è vicini all’Iran. Delhi teme moltissimo questa avanzata gno esterno della Nato, le strade per la Cina appaiono ben spianate. La sua amicizia con l’Iran e con il Pakistan è un elemento di cui Delhi può disporre solo parzialmente. I rapporti indo-pakistani, infatti, sono una frizione continua. Più positivo è invece il legame con Teheran. Tuttavia, gli ayatollah non si fidano dei legami tra l’India e la Nato. Il che gioca a vantaggio dei cinesi. A Karzai, dal canto suo, serve un soggetto che possa portare soldi, infrastrutture e lavoro in un’eco-
tiva, sia un leader debole che scelga di usare l’atomica per affermare il proprio potere all’interno del Paese. Sempre secondo la fonte di AsiaNews «la giovane età di Jong-un (che il padre ha nominato erede soltanto un anno fa) implica una mancanza di capacità militare che pesa molto per un Paese con 1,2 milioni di soldati. Al momento lui è vice presidente della Commissione militare centrale del Partito, ma chi comanda veramente è Ri Yong-ho; così come lo zio tiene la stretta sulla parte politica della nazione. Insomma, ora come ora Jong-un non ha il controllo del suo Paese».
Anche per questo, conclude la fonte, «i funerali sono fondamentali per lui. Ha scelto lo stile di comando, che sembra quello del nonno Il-sung, e ha messo in prima fila i soldati semplici e non i generali. In un momento di dolore una nazione come la Corea del Nord, dilaniata da fame e povertà, tende a unirsi: il giovanotto non ha ancora tutto il potere ma capisce la propaganda. Userà uno stile sotto tono per tessere la sua rete e
Nel caso dell’Afghanistan, i cinesi sono stati ben chiari con Karzai. Alla minima esplosione, attentato o attacco – talebano e non – che abbia come target i propri compound, si smobilita. Nella fattispecie, si è sottolineato l’appoggio che Kabul ha sempre offerto alla minoranza musulmana degli uighuri, cittadini cinesi, ma ghettizzati da Pechino. La repubblica isla-
mica dell’Afghanistan non si può esimere dall’affiancare i propri fratelli nella fede, perseguitata da regimi che inneggiano all’ateismo, vedi la Cina. Ma è anche facile infrangere l’intransigenza di Kabul con una ventiquattrore colma di dollari. D’altra parte, è avvenuto lo stesso con l’India, dove il governo Singh – di identità induista, sikh e buddhista – non ha mai nascosto di essere poco incline alle istanze del Corano e delle minoranze che, sotto la sua giurisdizione, lo hanno come faro.
soffre per mancanza di cibo e del necessario per vivere. Si calcola che quasi due milioni di nordcoreani siano morti per fame. Ancora oggi la situazione è di vera emergenza, e la morte del dittatore ha peggiorato la situazione: data l’incertezza politica, infatti, «i quadri locali stanno rastrellando le ultime derrate alimentari dalla popolazione e le accumulano nelle caserme».
poi farà la sua mossa». Quale che sia questa mossa, è quasi impossibile da prevedere. Nel senso che potrebbe fare qualunque cosa. Considerata un tempo il fiore all’occhiello della costellazione sovietica, la Corea del Nord è divenuta un Paese che affonda nella povertà. Do-
po la caduta del Muro di Berlino, la Russia non ha più aiutato la sua economia; anche la Cina ha cercato di staccarsi da amici troppo volubili, pur mantenendo i rapporti. Mentre il Paese mostra i suoi muscoli con enormi parate militari ed esperimenti nucleari, la popolazione
Lo ha denunciato nei giorni dopo la morte una fonte di AsiaNews, secondo cui «si tratta di un gesto previsto.Vogliono assicurarsi la sopravvivenza a qualunque costo, e qui si vive soltanto se hai del cibo e un fucile. Al mercato nero il prezzo del riso è schizzato, la gente non può proprio permetterselo». Queste ingiustizie «avvengono in tutte le province, anche in quelle al confine con la Cina dove di solito i soldati sono meno prepotenti degli altri. La morte di Kim ha fatto piangere queste persone per tanti motivi differenti fra loro, e i morsi della fame sono al primo posto. Ora tutti attendono di capire cosa succederà».
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grandangolo Cosa succederà delle rivolte che hanno cambiato il mondo
Salvare la primavera araba? Facciamo affari con loro Stati Uniti e Unione Europea devono ridisegnare il proprio impegno commerciale e geostrategico nel Grande Medioriente: «Solamente in questo modo si potranno sostenere sia lo sviluppo dei mercati dell’area che dei governi moderati. Ma Cina e Russia non staranno fermi». L’analisi di Giancarlo Elia Valori di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. Giancarlo Elia Valori conosce il mondo e conosce l’economia. Non è un caso che abbia dedicato il suo ultimo sforzo letterario al “Nuovo Mediterraneo”, il titolo del libro: perché è dal concetto di Mare Nostrum che passano i destini non soltanto europei, ma anche americani e soprattutto mediorientali. In questa intervista spiega le linee guida del futuro dell’area. Professore, come vede il rapporto fra Usa e politica mediterranea nel XX e XXI secolo? La collaborazione tra Usa e Ue nel Mediterraneo sarà l’asse delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Le questioni aperte sono molte: la stabilizzazione delle “primavere arabe”, la gestione della nuova politica autonoma regionale turca, la tensione nell’Egeo, il nesso, probabilmente nuovo, tra terrorismo jihadista e destabilizzazione dell’Africa subsahariana e dell’area del Sinai. E poi, naturalmente, la sicurezza energetica, che non deve e non può, per Washington, essere legata ad una crescita dell’egemonia di Mosca dall’Asia Centrale fino ai Balcani. La Ue ha un interesse primario nel gestire una rapida chiusura delle tensioni in Libia e Egitto, vuole energia a basso costo, ha interesse ad una crescita economica rapida delle“primavere arabe”. Gli Stati Uniti vogliono una sicurezza delle rotte marittime e non si sono affatto dimenticati della lotta al “jihad della spada”. Due linee che possono intersecarsi, quella Ue e la direzione mediterranea degli Usa.
Esiste una compatibilità tra rivolta araba e Ue? La rivolta araba non è una sola: si va dal post-nazionalismo laicista e paternalista di Tunisia e Egitto, a regimi del tutto autoritari in crisi, come il Bahrein e lo Yemen, ad una “rivoluzione passiva” come quella che stanno realizzando il Marocco e la Giordania, alla crisi strutturale delle petromonarchie, come l’Arabia Saudita, e quindi una democratizzazio-
L’Ue vuole chiudere le tensioni in Libia e Egitto, vuole energia a basso costo, ha interesse ad una crescita economica rapida ne generica e talvolta semplicista come quella proposta dalla Ue e, in parte, dagli Usa può creare più problemi, all’inizio, di quanti non ne risolva. Quindi, se la Ue riuscirà a intentare un “contenitore” del suo rapporto con il mondo arabo post-2011 che non può più essere il “Processo di Barcellona” come lo abbiamo immaginato nel 1995, che è ben più di un secolo fa, allora la Ue potrà integrare,
anche con il concorso degli Usa, il nuovo sistema arabo e maghrebino post2011. Se invece si rimarrà ad una logica degli aiuti e dei trasferimenti di aziende mature o decotte, faremo pochissima strada, e sarà una strada pericolosa. Lo sviluppo economico dell’area araba post-2011 potrà favorire l’islam moderato? L’impatto della rivolta araba ha differenziato le prospettive dei Paesi che hanno operato le rivolte di primavera. Iraq e Qatar hanno pressoché raddoppiato il loro output di gas e petrolio, ma occorre, per coprire i danni delle rivolte, sviluppare una crescita interna delle economie delle “primavere arabe” che non può essere generata dall’export verso le economie Ue in recessione, che non è rilevante per la formula produttiva Usa, ma che può essere innescato dalla crescita dei mercati interni saudita, qatarino, turco. I sauditi hanno sempre finanziato un islam purista e radicaleggiante, il Qatar ha perfino aperto una missione commerciale israeliana sul suo territorio, la Turchia giocherà la carta di un suo islam autonomo e nazionale, che però sarà collegato all’interesse di Ankara di espandersi nella direttrice panturanica ed etnicista che va dall’Anatolia all’Asia Centrale e ai confini della Cina. Ovvero, chi è interessato ad un islam dialogante è forte, ma ha interessi divergenti con gli altri Paesi leader del mondo islamico nell’area, e quindi potrebbe non essere capace di gestire
un “jihad della spada” che partisse, per esempio, dalla Mauritania di “Al Qaeda nel Maghreb Islamico” e che utilizzasse le aree periferiche libiche, algerine, maliane e del Fronte Polisario, che infatti ha appoggiato Gheddafi, per arrivare a minacciare le coste, da Bengazi fino ad Alessandria. È un problema essenziale per il Fianco Sud della Nato e per la stessa “Union pour la Méditerranée. Al grande gioco del Mediterraneo parteciperanno Russia e Cina. Come? Pechino continuerà a preferire le relazioni bilaterali con i nuovi Paesi sorti dalle “primavere arabe”, utilizzerà la Siria, dopo che si sarà stabilizzata in un modo o nell’altro, come porta del Mediterraneo per la sua“Via della Seta”, anche in collaborazione strategica con la Federazione Russa, intersecherà la sua penetrazione nell’Africa Nera, strettamente geoeconomica e mirata a costruire il monopolio delle materie prime che definiranno il prossimo paradigma dell’economia globale, e arriverà dai porti maghrebini a coprire il mercato Ue, che subirà una penetrazione cinese molto simile a quella che gli Usa hanno accettato bon grè-mal grè nella loro economia negli anni 2000. Dopo, Pechino offrirà i suoi buoni uffici finanziari per la crisi dell’Euro e dei debiti sovrani della Ue, non prima. Mosca vede la crisi delle “primavere arabe” come un’occasione per coprire, anche temporaneamente, con il suo gas e il suo petrolio le carenze del mercato Opec, con il
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e di cronach
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
quale vuole cooperare strettamente, investirà nelle infrastrutture, e soprattutto opererà per mantenere, di contro alla strategia Ue e Usa, un “frazionismo regionale e nazionale”dei vari Stati emersi dalle primavere arabe. Due grandi contendenti sono Iran e Israele. Chi guadagnerà e chi perderà dalla nuova politica Usa nel Mediterraneo? La Turchia ha il problema del Kurdistan irakeno, che è un rilevante produttore di petrolio, e finanzia il PKK, mentre l’Iran ha già alcune longae manes nell’area curda di Suleymaniyya. Questo potrebbe portare Ankara nella direzione di Washington, che legge il Mediterraneo come parte della sua strategia globale verso il Golfo Persico e l’Asia Centrale, verso i confini cinesi e l’Oceano Indiano fino al Pacifico. Quindi, gli Usa cercano alleati per circondare e poi depotenziare le zone instabili del sistema tra Mediterraneo e Asia, l’Iran, la Siria, le insorgenze yemenite e nel Bahrein, fino a mantenere, dopo la chiusura delle missioni in Afghanistan, il “grip” sull’Asia Centrale. Israele ha letto la rivolta delle primavere arabe come un processo di destabilizzazione del Maghreb e, in particolare del territorio Anp e della Striscia di Gaza, che renderà “viable” per un jihad di massa le linee che prima Israele aveva securizzato con gli accordi di pace o comunque con buone relazioni in Egitto, Marocco, Giordania. Se Israele diventa, come oggi qualcuno a Gerusalemme
Chi è interessato ad un islam dialogante è forte, ma ha interessi divergenti con gli altri Paesi leader del mondo islamico nell’area percepisce, troppo piccolo per essere un’alternativa di peso ad una espansione degli Usa nel nuovo islam “democratico”, allora non vi è scelta se non la riedizione della “guerra fredda” e del containment duale tra Gerusalemme e Teheran. L’Iran potrebbe legarsi, come già sta facendo, all’Egitto dei militari e alla Libia di alcuni gruppi del Cnt, e la sua opzione nucleare potrebbe essere utilizzata per coprire l’espansione della sua sfera d’influenza nel mondo sunnita. Ma occorre vedere come e quanto la tensione, che è strutturale, tra Arabia Saudita e Iran non consumerà Teheran e priverà i “turbanti” sciiti di quella capacità di pressione nel Mediterraneo che è essenziale per rendere credibile la minaccia nucleare del regime fondato da Khomeini. Ma questo, naturalmente, non sarà un risultato gratuito per lo Stato Ebraico. Che potrà contare su Wa-
shington solo in casi estremi, e comunque in una gestione multilaterale della eventuale crisi futura. Esiste una via di uscita da una transizione lunga e complessa come quella generata dalle “primavere arabe”? Tutto può esistere. Ma le variabili sono molte: Tunisia, Egitto e anche la Libia hanno bisogno di quello che chiamerei “keynesismo islamico”, ovvero una espansione, che avverrà con l’aumento dei prezzi petroliferi (che va bene anche al resto dell’Opec) del proprio welfare di massa, che in parte sarà coperto dalle donazioni degli altri “fratelli” arabi. Se questo avverrà, i sistemi politici locali diverranno stabili e potranno interagire tra di loro e con l’Ue secondo modelli che ripercorreranno, in modo aggiornato, il “Processo di Barcellona”. Poi, i costi per la sicurezza regionale non potranno non crescere, e questo porterà ad un ridisegno necessario della collaborazione che le agenzie di intelligence e i governi Ue e Usa hanno avuto con i ribelli libici, i militari egiziani, i gruppi politici tunisini. Infine, la tempistica della transizione sarà connessa alla recovery dalla crisi economica della Ue, principale partner geoeconomico dell’area nel campo non-oil, e questo permetterà sia l’accelerazione dei tempi che la stabilizzazione di tutto il Mediterraneo meridionale. I tempi dipenderanno, quindi, dalla rapidità della recovery europea, dalla capacità di proiezione non alternativa di Turchia e Arabia Saudita nel sistema maghrebino, dalla capacità politica di investimenti russi e soprattutto cinesi nel nesso tra Sahara e Africa Nera, e dalla capacità da parte delle élites della “primavera araba” di trovare una alternativa dottrinale tra il liberismo che ha “venduto”gran parte dei business più ricchi della zona alla alleanza tra capitali esteri e “famiglie”al potere, e il protezionismo mascherato da socialismo arabo che ha caratterizzato una fase del mito gheddafiano del “Libro Verde” o la giustizia sociale nella astratta versione dei partiti egiziani che si richiamano alla Fratellanza Musulmana. Come disse Zhou Enlai a Kissinger che gli chiedeva cosa pensasse il PCC della Rivoluzione Francese del 1789,“è troppo presto per dirlo”.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Rotopress s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo
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cultura
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Yves Roman parte dal presupposto che la tesi sulla adozione da parte di Traiano sia falsa. Nodo che gli storici ancora oggi non riescono a sciogliere
Nuove memorie di Adriano Una recente biografia ci restituisce un profilo dell’imperatore molto diverso rispetto a quello tratteggiato dalla Yourcenar di Massimo Tosti ffrontando la lettura di questa biografia viene spontaneo (come peraltro fa lo stesso autore) ripensare al capolavoro di Marguerite Yourcenar. Yves Roman ci offre un profilo molto diverso di Adriano (Salerno editore, 466 pagine, 26 euro) rispetto alle Memorie della scrittrice belga. Et pour cause, direbbero i due nella loro madrelingua: lei fu la prima donna eletta “immortale” dall’Academie Française per i suoi romanzi. Lui è professore di Storia Antica nell’Università di Lione: nella prefazione del suo libro definisce «quasi assillante» la presenza «di una donna di una certa età, avvolta in una cappa sormontata da una cocolla secondo l’uso di un tempo, il profilo contornato dal bianco di una sciarpa immacolata, attorniata di uomini vestiti con abiti verdi bordati d’oro», cioè (appunto) di Marguerite Yourcenar. Gli storici del suo tempo (Adriano nacque nell’anno 76 sotto l’impero di Vespasiano, salì sul trono nell’anno 117, e morì nel 138) non furono affatto generosi con lui. Il soprannome di Graeculus (di cui andava fiero, in ragione della passione che nutriva per la cultura ellenica) non giovava alla sua popolarità presso i romani, gelosi della propria. Come se non bastasse, gli storici (anche allora) non disdegnavano i pettegolezzi.
A
Dione Cassio, studioso autorevole, racconta che Publio Elio Adriano fu designato come successore di Traiano potendo contare sul-
l’appoggio di Plotina, vedova di Traiano, che era da tempo la sua amante. Con gli occhi di oggi (agevolati dalle teorie prevalenti degli storici attuali) si può osservare che mai una tresca fu così provvida per i governati.
Adriano, imparentato anche con il suo predecessore, che era stato il suo tutore, fu tra i più grandi imperatori romani. Regnò per un ventennio, e consolidò le frontiere. Viaggiò attraverso le province dell’impero come nessun altro aveva fatto: visitò la Gallia e il Reno, la Bri-
Imparentato con il suo predecessore, che era stato anche il suo tutore, fu tra i più grandi imperatori romani. Regnò per un ventennio, e consolidò le frontiere tannia, la Spagna, l’Asia, la Grecia, l’Africa, la Caria, la Cilicia, la Cappadocia, la Siria e l’Egitto. E non è che a quei tempi i viaggi fossero agevoli come al giorno d’oggi. Completò e rafforzò i valli di frontiera che erano stati progettati dai precedenti imperatori. I resti del Vallo Adriano, in Britannia, sono ancora visibili. Riorganizzò l’esercito, migliorò la burocrazia statale. Fece costruire il Pantheon, il Tempio di Venere e il suo Mausoleo (Castel Sant’Angelo) destinato alla sua sepoltura e a quella dei suoi discendenti, e una maestosa dimora a Tivoli (la Villa Adriana) che susci-
ta ancor oggi l’ammirazione incondizionata dei turisti, e che convinse qualche decennio fa il miliardario Paul Getty a imitarne lo stile per la sua residenza museo a Malibu, in California. Yves Roman (alla luce delle ricerche che lo hanno impegnato per quasi dieci anni) esclude che Adriano sia stato adottato da Traiano. La sua tesi merita assoluto rispetto, anche se sulla storia - e su quella antica in particolare - è molto arduo raggiungere la verità assoluta, soprattutto quando si affrontano temi molto personali. Non è che nel II secolo dopo Cristo esistessero le intercettazioni (ma questo, probabilmente, è il fascino che il passato remoto esercita sugli specialisti e sui lettori più avidi). Lo stesso discorso riguarda la gerarchia dei meriti dei singoli imperatori: scontato che alcuni siano ormai bollati come nefasti (Nerone, Caligola, Commodo) e altri come eccellenti, è sostanzialmente arbitrario stabilire se Traiano fu migliore di Adriano, o viceversa.
Traiano, dopo Augusto, fu l’architetto dell’impero romano: ne estese i confini, rimettendone in sesto l’erario, con le conquiste militari; Adriano ne continuò
In queste pagine: il Mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo), Villa Adriana, Marguerite Yourcenar, la copertina della biografia “Adriano” di Yves Roman, un’immagine della residenza di Paul Getty a Malubu (California), ispirata a Villa Adriana, il ritratto dell’imperatore del pittore Perin Del Vaga l’opera, consolidandola, riducendone in parte l’estensione per rendere più agevole il mantenimento dello statu quo.
Edward Gibbon (nella sua monumentale Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano) ritiene che Traiano esitasse ad affidare il potere ad Adriano («incerto e volubile») è dà credito all’intrigo della moglie Plotina che «vinse con le sue arti l’indecisione di Traiano, o escogitò audacemente un’adozione, della cui autenticità sarebbe stato pericoloso dubitare». Allo stesso tempo, ricorda che sotto Adriano «l’impero fiorì in pace e prosperità. Egli incoraggiò le
arti, riformò le leggi, assicurò la disciplina militare e visitò tutte le province in persona. Il suo spirito aperto e attivo era ugualmente portato alle piu larghe vedute, come ai più minuti particolari del governo; ma le sue passioni dominanti erano il desiderio di sapere e la vanità.
cultura
A seconda che l’una o l’altra prevaleva e dei diversi oggetti che le attiravano, Adriano si mostrò a volta a volta principe eccellente, sofista ridicolo e geloso tiranno. In generale la sua condotta meritava lode per la giustizia e la moderazione». Yves Roman sostiene che Adriano «una volta salito al potere, non senza fatica, prese il mondo qual era; non cercò dunque di abolire la schiavitù, di imporre una rigida eguaglianza tra uomini e donne, né volle metter mano a quello che costituiva il nocciolo del mondo romano: il sistema municipale. La grande opera di quel pragmatico che fu Adriano opera che aveva dietro di sé un passato sfolgorante - si fonda sulla semplice idea secondo cui la riforma passava attraverso l’amministrazione, e in primo luogo l’amministrazione centrale. Con lui tale strumento - in larga misura nelle mani dei cavalieri romani - divenne efficiente. Il che significa che egli fu un grande centralizzatore, che resse le “redini del mondo”». Un risultato non certo di poco conto.
Ci furono, nella prima metà del II secolo, polemiche (fra i senatori, molto critici nei confronti dell’imperatore, e lo stesso Adriano) su argomenti che somigliano parecchio ai temi caldi che hanno infuocato la politica nostrana negli ultimi vent’anni. Un dissidio sorse sulla questione (allora ben più complessa a causa dei confini vastissimi dell’impero) del de-
centramento. Adriano riuniva il circolo ristretto di consulenti fidati e ne codificava le decisioni, attribuendole direttamente alla volontà imperiale. Quando abbozzò un piano di decentralizzazione per l’Italia, con i consoli autorizzati, i se-
natori protestatorono in modo molto vivace. «La macchina esisteva già», ricorda Roman, ma «fu portata al più alto livello di efficacia da Adriano, proprio per gestire l’immensità del mondo romano. Lo confermano le innumerevoli sentenze conosciute attraverso i codici giuridici, lo conferma l’economia. Infatti, con l’intermediazione dei suoi procuratori - sempre cavalieri romani - si fece avanzare l’apparato, senza modificarne le strutture. La terra d’Africa o altre terre, le miniere di Spagna o in altri Paesi furono messe in condizione di produrre sempre di più».
Quanto alla polemica sulla cultura ellenistica di Adriano, Romain ricorda che non la impose mai in Italia. «Non si trattava affatto di mescolare le due culture e di sperare di vedere Roma e i romani diventare greci, giacché sebbene Adriano si sia comportato in Oriente, spesso con eleganza dignità e fortuna, alla stregua di un re ellenistico, egli non cercò mai di ellenizzare Roma, almeno non in larga misura». Ad Atene, viceversa, in caso di controversia fra due cittadini, era possibile applicare le leggi greche. In caso di disaccordo, si imponeva il diritto romano. Un altro risultato importante conseguito dall’imperatore fu la riorganizzazione dell’esercito che, tuttavia, non raccolse il consenso dei soldati che si sentivano umiliati nel loro ruolo dall’assenza di guerre.
29 dicembre 2011 • pagina 15
Era un pacifista, Adriano. Oggi, proprio per questo, sarebbe salutato in tutto il mondo come un grand’uomo. Allora il politicamente corretto era orientato in un’altra direzione. Roma era stata costruita attraverso le guerre. Il titolo di imperatore veniva conferito dai soldati al loro comandante vittorioso. «Come era possibile», si domanda Roman, «accettare che egli fosse Imperator Caesar Traianus Hadrianus Augustus, pontifex maximus, procunsul, e allo stesso tempo murasse il mondo per portare gli uomini al massimo grado di felicità?». Verrebbe la voglia di aggiungere: chi credeva di essere, Thomas Jefferson, con sedici secoli di anticipo? E una seconda osservazione viene alla mente leggendo la biografia di
Viaggiò sempre attraverso le province dell’impero come nessun altro: visitò la Gallia e il Reno, la Britannia, la Spagna, l’Asia, la Grecia, l’Africa, la Caria, l’Egitto... Roman: forse il difetto principale di Adriano, che gli procurò l’ostilità diffusa non solo dei senatori, ma anche del popolo romano, fu la scarsa capacità di comunicazione, aggravata dal fatto che - per realizzare la propria politica e per soddisfare la propria curiosità - era sempre in giro per il mondo, e quindi lontano dai sudditi di serie A, i quali si consideravano i cittadini dell’Urbe.
Adriano era mosso (come la maggior parter dei predecessori e dei successori) dalla “passione per la gloria”. Era un vanitoso, animato da uno sconfinato orgoglio. Sant’Agostino, un secolo e mezzo più tardi scrisse che la libido dominandi era «di tutte le passioni umane la più sfrenata nell’animo romano»; per i romani «il regno della loro città terrena» era l’unico «obiettivo di tutti i doveri». L’assenza di una prospettiva spirituale li
portava a puntare alla gloria. Soltanto alla gloria. Ma quella di Adriano non coincideva con la loro, come si è detto.
Marguerite Yourcenar affida al protagonista del suo romanzo questa riflessione: «Humanitas, Felicitas, Libertas: queste belle parole incise sulle monete del mio regno, non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo io. Ho sentito Traiano, messo di fronte a una legge ingiusta perché troppo rigorosa, protestare che la sua applicazione non rispondeva piu allo spirito dei tempi. Ma, a questo spirito dei tempi, forse sarò stato io il primo a subordinare coscientemente tutte le mie azioni, a farne qualcosa di diverso dai sogni nebulosi del filosofo, dalle aspirazioni vaghe del buon principe». Adriano (l’Adriano della Yourcenar, che ci lavorò trent’anni, documentandosi come gli storici) scrive: «A ogni sforzo per migliorare la condizione umana si oppone una obiezione: forse, gli uomini non ne sono degni. Non c’è mai stata una spiegazione chiara che non mi abbia convinto, un’amabilità che non mi abbia conquistato, una gioia che non m’abbia quasi sempre reso migliore. E ascoltavo a metà i bene intenzionati i quali affermano che la felicità snerva, che la libertà infiacchisce, che la dolcezza vizia coloro sui quali si esercita. Può darsi: ma, se consideriamo come va il mondo, seguire costoro è come rifiutarsi di nutrire a sufficienza un uomo emaciato, per paura che tra qualche anno gli capiti di diventare pletorico. Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose». Un miracolo di saggezza.
ULTIMAPAGINA Ana Botella, la moglie di Aznar: per la prima volta una donna sindaco della capitale spagnola
Ana, la nuova Infanta di di Martha Nunziata emmeno il tempo dell’insediamento (l’altro ieri, ndr) e il nuovo sindaco di Madrid deve già fronteggiare le critiche. Alle quali, peraltro, è abituata da tempo. Ana Botella - 57 anni, una laurea in Diritto, una famiglia ultracattolica d’origine e già quattro nipotini, il più piccolo dei quali, Alonso, ha compiuto un anno proprio nel giorno del suo insediamento sarà la prima donna a ricoprire l’incarico di sindaco della capitale spagnola. La sua rivincita politica è completa: adesso non sarà più solo la moglie di José Maria Aznar, primo ministro spagnolo dal 1996 al 2004. La neo alcaldesa raccoglie però un’eredità difficile: il marito l’ha definita “la mia Hillary”, ma questo rischia di diventare un paragone improponibile per i suoi avversari che, al contrario, la considerano una gaffeur, una privilegiata nel mondo politico e una donna fin troppo abituata a frequentare le stanze del potere. Le prime polemiche, non a caso, si sono scatenate appena la sua nomina è divenuta ufficiale. La Botella, infatti, è diventata sindaco senza aver vinto le elezioni, ma in seguito all’insediamento di Mariano Rajoy come Primo Ministro spagnolo e la cooptazione del sindaco in carica di Madrid, Alberto Ruiz- Gallardon, per il ruolo di Ministro della Giustizia.
N
L’elezione della signora Aznar, perciò, non è stata affatto una sorpresa, così come le sue prime dichiarazioni ufficiali: «Taglieremo il debito di ulteriori 3,1 miliardi entro il 2016», ha detto la Botella subito dopo il giuramento trasmesso in televisione, aggiungendo che la candidatura della città a ospitare i Giochi Olimpici del 2020 (per i quali sono in corsa anche Roma, Tokyo, Baku, Doha e Istanbul) è ancora possibile, visto che la gran parte degli investimenti necessari sono stati fatti. Come a voler subito cercare un esteso consenso popolare attraverso lo sport, elemento fondamentale della società spagnola e anche di casa Aznar, visto che l’ex premier non ha mai nascosto le simpatie per il Real Madrid, candidandosi anche, senza fortuna, per il ruolo di presidente della Casa Blanca. Ana Botella è entrata in politica nel 2003, sempre all’interno del Partido Popular, e ha sviluppato tutta la sua carriera al Comune di Madrid, a cominciare dall’impegno come Assessore all’Ambiente e ai Servizi Sociali creando quello che venne definito un «asse privilegiato» con i tassisti della capitale iberica. Non a caso sono stati proprio loro i primi a compli-
MADRID mentarsi con la nuova alcaldesa. La promozione della Botella a primo cittadino di Madrid arriva nel momento più difficile del dopoguerra. Con un tasso di disoccupazione che sfiora il 40%, la Spagna tutta è drammaticamente in ginocchio e, proprio nella capitale, il disagio sociale si avverte in modo più mordente. Il compito che attende il nuovo sindaco madrileno si prospetta, perciò, più che difficile: la Bo-
Entrata in politica nel 2003 con il Partido Popular, ha già lavorato per il municipio madrileno: tutti le invidiano un «asse privilegiato» coi tassisti tella ha già annunciato che non si discosterà molto dalla linea del partito di Rajoy e che seguirà la strada dell’austerità e del rigore dei conti. Il suo impegno, ha detto, sarà soprattutto impiegato per sanare il maxi-buco di 6 miliardi di euro nelle casse della capitale iberica, che la Botella punta a dimezzare entro il 2016. Non tutti, a Madrid, sono stati però poi così felici dell’elezione della prima donna sindaco della capitale. I suoi detrattori sono parecchi, a partire dagli ambientalisti, che le hanno sempre contestato gli atteggiamenti troppo morbidi nei confronti del problema traffico che, oltre a strangolare la viabilità della capitale spagnola, l’ha resa la città più inquinata di Spagna. Sen-
za dimenticare, poi, le sferzate continue da parte della comunità omosessuale di Madrid, con la quale, negli anni, la Botella ha rischiato. E in qualche caso raggiunto, lo scontro. Come quando si rifiutò di chiudere il centro di Madrid alle auto in occasione della giornata dell’orgoglio omosessuale.
Ecco perché, nonostante i convenevoli diplomatici, la numerosa comunità gay della Castiglia non riesce a dimenticare, a distanza di anni, la più infelice delle uscite della signora Aznar, che, nel 2003, si dichiarò contraria ai matrimoni omosessuali, in quanto, come dichiarò: “mele e pere sono frutti diversi e non posso mischiarsi”. Così, il collettivo Ana Botella Crew, nato due anni fa in risposta alla politica anti-graffiti del nuovo sindaco di Madrid, le ha dato il benvenuto con un’azione originale: fotografie di pere e mele di fronte al Palacio de Cibeles (il Campidoglio madrileno). Sulla buccia dei frutti lucidi e colorati si legge la seguente scritta: “L’Apocalisse è ora“. “La profezia dei Maya è certa - assicurano le pere e le mele dei contestatori - Ana Botella sarà la nuova alcaldesa. La fine del mondo è oggi”. Ma lei, nonostante l’ormai imminente arrivo del 2012, per ora non mostra segni di cedimento e regala ai fotografi che la immortalano solo grandi sorrisi: vedremo quanto a lungo resisteranno. Per ora lei si gode il trionfo: eletta alcaldesa senza elezioni. Un po’ come vincere senza nemmeno giocare. A tavolino.