20105
he di cronac
Ognuno è come il cielo lo ha fatto. E qualche volta molto peggio Miguel De Cervantes
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 5 GENNAIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Si fa serrato il dibattito in vista del pronunciamento della Consulta sui referendum, atteso per mercoledì
Partiti, datevi una mossa Aiutate con più impegno Monti e fate un accordo per un nuovo sistema Troppi distinguo, solo il Terzo Polo appoggia con convinzione il governo. Le forze politiche sono vicine al fallimento: possono risollevarsi solo trovando un’intesa per le riforme istituzionali RIFORME POSSIBILI
Il presidente dell’Eurogruppo lancia un nuovo allarme
Uno scatto di reni: una nuova legge oltre il bipolarimo
Juncker: Unione in recessione. Nuovo vertice Monti-Merkel
di Enrico Cisnetto
A
Parla Piero Alberto Capotosti
«La soluzione resta il modello tedesco» «Servono il sistema proporzionale e un nuovo bicameralismo» Francesco Lo Dico • pagina 4
I numeri e le previsioni dei sondaggisti
«La fiducia è a terra: peggio di Tangentopoli»
L’anno comincia con una serie di incontri che puntano a superare i veti del Bundestag che rischiano di imporre troppi vincoli ai bilanci. Aspettando il summit di fine mese
«Neanche all’inizio degli anni ’90, in pieno scandalo, era così in basso» Riccardo Paradisi • pagina 2
Enrico Singer • pagina 6
*****
LE DOPPIE VERITÀ
Quanta demagogia sui veri costi dei parlamentari! di Francesco D’Onofrio a pubblicazione dei primi dati sulla retribuzione che un parlamentare percepisce nei più importanti Paesi europei ha finito con lo scatenare un durissimo dibattito, nel quale sono del tutto contemporanee violente pulsioni demagogiche ed inaccettabili difese dell’esistente. a pagina 3
L
Il reportage. In Sudamerica rifiorisce il mercato della droga
Parla il grande critico e scrittore francese
«L’Europa ha perso i sogni». Il futuro visto da Steiner
Le geopolitica della coca Partono dalla Birmania i nuovi traffici dei narcos
di Juliette Cerf
di Maurizio Stefanini
n crollo del Vecchio Continente allo stato attuale è possibile. Ma ne usciremo, in un modo o nell’altro: il grande critico francese George Steiner racconta la «sua» Europa. «Comunismo, fascismo e sionismo a proprio modo erano dei sogni. Oggi facciamo crescere un’intera generazioni senza sogni: questo è il nostro problema più grave. Il vero paradosso è che la Germania sia tornata al comando dopo tutto quello che è successo nel Novecento. L’assurso, invece, è che siamo diventati tutti schiavi delle macchine». a pagina 8
U
EURO 1,00 (10,00
nno nuovo, idee vecchie. Nonostante la novità del governo Monti, pare che la discussione pubblica sul nostro sistema politico sia rimasta ancorata alla vecchia questione del «bipolarismo sì, bipolarismo no», e che tutta l’attenzione sia destinata a concentrarsi sul referendum. a pagina 5
CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
a tempo si sa che il narcotraffico è come l’idra della mitologia greca: se ne possono tagliare tante teste, ma tendono a rispuntare da un’altra parte. In Afghanistan, ad esempio, grazie alla politica di sostituzione con lo zafferano, è dal 2008 che l’oppio appare in diminuzione. Ma in compenso in Birmania la produzione è in aumento per il quinto anno consecutivo. a pagina 10
D
NUMERO
3•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 5 gennaio 2012
In attesa della decisione della Consulta sul referendum (attesa per mercoledì prossimo), si intensifica il dibattito sulle regole
Un’intesa ricostituente
Le grandi forze politiche sono malate: o si muovono o c’è il default. Parlano Brunetta e Franceschini: «Ci sono le condizioni per le riforme» di Errico Novi
ROMA. Ci credono sul serio? Il rischio che sulle riforme istituzionali prevalga lo scetticismo esiste. Ci sono appena 15 mesi a disposizione. C’è una difficoltà collaudata nel passare dalle condivisioni teoriche alla revisione effettiva della Carta. C’è infine il referendum sul quale la Consulta deciderà l’11 gennaio.Tutto insomma è sospeso, rispetto a un impegno del Parlamento sull’architettura istituzionale. Nonostante l’appello rivolto da Giorgio Napolitano nel messaggio del 31 dicembre: «C’è un vasto campo per la ricerca di intese ormai mature sulle riforme». Memorandum utile, al quale il presidente ha fatto seguire RENATO BRUNETTA
«Serve una governance: i mercati ci chiedono interventi a lungo termine» un invito a darsi da fare: tali riforme «sono necessarie anche per creare condizioni migliori in vista di un più costruttivo svolgimento della democrazia dell’alternanza dopo il ritorno alle urne». Quindi: provvedete perché la prossima legislatura nasca su basi diverse. Compiacimenti da parte di tutti, apprezzamenti per il ruolo che il Colle restituisce alle Camere. Ma poi? Tutto sta a capire se risulteranno trascinanti le posizioni di chi ci crede, nella possibilità di riformare qualche aspetto della Carta, anche in tempi brevi. Ce ne sono tanti nel Pd. A cominciare dal presidente dei deputati Dario Franceschini che, interpellato da liberal, si dice «assolutamente ottimista» in virtù di un «clima di tregua che si avverte per la prima volta, dopo anni». Molti se ne trovano anche nel Pdl. Ad esempio Renato Brunetta, che a sua volta ribadisce ed espone a liberal quanto anticipato pochi giorni fa in un intervento scritto a quattro mani con Giovanni Guzzetta per il Corriere della Sera: «C’è una doppia debolezza dell’Italia e dell’Europa. In entrambi i casi si tratta di un problema di governance. L’Europa ha l’euro ma non una governance dell’euro, manca di una politica economica unitaria e ha bi-
Nemmeno negli anni ’90 la popolarità dei partiti era sotto il 12% come oggi
Crolla la fiducia: adesso è peggio di Tangentopoli di Riccardo Paradisi on era mai caduta così in basso la fiducia dei cittadini italiani nei partiti politici. Era al 14 per cento lo scorso dicembre 2011, è scesa ulteriormente in queste ultime settimane arrivando a toccare il 12 per cento. Una percentuale di molto inferiore anche rispetto a quella che si registrava nei giorni più infuocati di Tangentopoli, nei primi ani Novanta, mentre crollava la prima Repubblica. Nei prossimi giorni usciranno i dati dell’osservatorio mensile Swg anche in merito a questo tema, cifre da cui si ricava che i partiti sono al minimo storico di popolarità e di fiducia, addirittura sotto il 12 per cento. «Meno di due cittadini su dieci – spiega Maurizio Pessato della Swg a liberal – dicono di avere molta o abbastanza fiducia ai partiti politici. Un dato abbastanza impressionante su cui incidono diversi fattori. Dalla diffidenza storica verso la politica alla manifesta impotenza dei partiti passati dall’immobilismo d’un bipolarismo bloccato alla delega in bianco al governo Monti».
N
destra attraversato da diversi interessi e sentimenti su liberalizzazioni e pensioni. Sfiducia nei partiti generalizzata insomma anche se poi le persone vanno a votare e votano generalmente per i partiti tradizionali. «I partiti restano, come dire, un male necessario. E malgrado tutto resistono. Anche se non devono essere sottovalutati segnali importanti come quello dell’affermazione di outsider come il sindaco di Milano Pisapia o quello di Napoli De Magistris affermatisi alle ultime amministrative. Si sta verificando un salto dal partito al candidato e soprattutto si sta esaurendo al rendita di posizione della politica». Anche se il vero bypass nazionale nei confronti dei partiti è proprio il governo Monti, formalmente operato dagli stessi partiti che hanno fatto di necessità virtù, in realtà da loro più subito che voluto. Ora la partita è aperta. E se i partiti non torneranno ad essere strutture credibili, capaci di selezionare classi dirigenti si moltiplicheranno i Pisapia, i De Magistris e i Monti naturalmente. Il quale Monti, malgrado l’amara medicina somministrata agli italiani, gode ancora - rivela Pessato - anche dopo una manovra micidiale d’una fiducia maggiore di quella che ci si attenderebbe per i sacrifici imposti. E questo perché - spiega Pessato «gli elettori che sono molto più razionali di quanto si pensa sanno che i partiti non riuscirebbero a garantire il guado della crisi. Il bypass di Monti è stato dunque gradito: non se ne poteva più della dialettica dell’inconcludente teatrino Bersani-Berlusconi. La fiducia su Monti è elevata perché quella sugli altri è massima». C’è una politica ferma dunque, gruppi dirigenti fortemente squalificati su cui grava l’onere di dimostrare agli italiani di essere funzionali, un clima sospeso, dove il governo tecnico funge da autorevole supplente. Anche il sindacato non se la passa bene in termini di fiducia, ma siamo pur sempre al 30% e soprattutto, specifica Pessato, nella percezione degli italiani il sindacato ha ancora una funzione di rappresentanza di interessi concreti. A differenza dei partiti.
Il governo Monti rappresenta un grande bypass delle forze politiche tradizionali
Non si tratta però solo di un dato nazionale. «Quello della sfiducia nei partiti è un fenomeno diffuso anche in altri paesi europei omogenei al nostro per dimensione e popolazione: Francia, Germania, Polonia, Gran Bretagna, Spagna fanno registrare picchi negativi di credibilità delle forze politiche presso gli elettori. Si potrebbe dire che è un periodo storico che vede le organizzazioni della politica malmesse. I partiti insomma stanno male in tutti i Paesi. Compresi gli Stati Uniti. È un fenomeno di democrazia matura». Ci sono colpe soggettive che spiegano questo trend, ma anche condizioni oggettive. «Gruppi dirigenti autoreferenziali che non hanno capito il cambiamento, non hanno saputo vedere la qualità e l’entità della crisi, che hanno puntato e giocato su se stessi ma non sul bene pubblico. Ma ci sono anche problemi oggettivi: la difficoltà di rappresentare un opinione pubblica frammentata, impermeabile alle vecchie parole d’ordine e alle narrazioni ideologiche». Un esempio è quello del Pd che si divide al proprio interno sulle politiche del lavoro messe in campo dal governo, o del centro-
sogno di un riassetto costituzionale. Fragilità che si proietta perfettamente sul livello nazionale: l’Italia ha un problema di governance istituzionale. Si può dare una doppia risposta ai mercati, assicurare a entrambi i livelli una credibilità di lungo periodo».
Quanto dice Brunetta, dunque, è riarticolazione dello stesso messaggio di Napolitano: alla prossima legislatura serve un impianto più solido, una struttura che irrobustisca davvero la democrazia della decisione.Tesi chiara, fondata, condivisa dal Terzo polo. Il responsabile Riforme istituzionali dell’Udc, Pierluigi Mantini, ricorda che «parlare di un’agenda Napolitano per le riforme non è una bestemmia, nel rispetto dei diversi ruoli istituzionali. Anzi, questa agenda va accelerata». C’è un’incognita, ben nota: il referendum. Mercoledì della prossima settimana la Corte costituzionale decide. La sentenza potrebbe arrivare nel pomeriggio di quello steso giorno, in cui formalmente è calendarizzata la camera di consiglio. Se i quesiti che abolirebbero il porcellum “resuscitando” il mattarellum fossero ammessi, si aprirebbe una fase convulsa. Su tutto, peserebbe la tentazione di avventarsi sulla sola riscrittura della legge elettorale, prima o dopo la consultazione. Il resto passerebbe in secondo piano. Improbabile l’ipotesi di un precipitoso ritorno alle urne, con i fucili spianati dei downgrading. In ogni caso, finché non si scioglierà il nodo referendario resterà in stand by anche la riforma delle istituzioni. C’è soprattutto una questione di dignità del Parlamento, in gioco. Di credibilità, come dice Brunetta, con DARIO FRANCESCHINI
«Ora sono ottimista: per la prima volta dopo molto tempo c’è un clima di tregua» diversi riflessi: internazionali e sull’opinione pubblica italiana. «Vogliamo lasciare le Camere a svolgere mere funzioni notarili? Con il governo che approva decreti e il Parlamento che li ratifica, punto? Se si
Il grande tema della moralità è legato a quello delle riforme
Quanta demagogia sui costi della politica!
Prima di stabilire il giusto compenso dei deputati, occorre ridefinire quale sia la loro vera funzione di Francesco D’Onofrio a pubblicazione dei primi dati concernenti la retribuzione complessiva che un parlamentare percepisce nei più importanti Paesi europei ha finito con lo scatenare un durissimo dibattito, nel quale sono del tutto contemporanee violente pulsioni demagogiche ed inaccettabili difese dell’esistente.L’ormai lungo dibattito sui “costi” della politica finisce pertanto con il focalizzare il trattamento economico complessivo dei parlamentari italiani in un momento nel quale vengono loro richiesti durissimi sacrifici da un parlamento composto di “nominati”. Questa è infatti la questione specifica del dibattito in atto: i sacrifici richiesti si afferma che siano necessari per “salvare” l’Italia; ma questi sacrifici vengono alla fine deliberati da un Parlamento composto da deputati e senatori, alla cui individuale elezione gli italiani non hanno concorso. Occorre infatti prendere atto che non esiste una sorta di media europea per la retribuzione dei singoli parlamentari, per il semplice motivo che la storia nazionale di ciascun Paese ha comportato la nascita e il consolidarsi di una idea di parlamentare che non è identica.
L
Non occorre ripercorrere
vuole fare altro il tempo c’è. Intanto la materia costituzionale andrebbe affrontata in ogni caso: all’ordine del giorno c’è la riscrittura dell’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Altri testi sono già stati presentati dal governo Berlusconi. Se c’è la volontà politica di procedere, si riesce anche a fare in tempo per la doppia lettura delle Camere». I margini sarebbero stretti, molto. Ma non impraticabili. «Dipende dal ruolo che il Parlamento intende autoassegnarsi. Se vuole svuotarsi o se invece intende svolgere una funzione decisiva. Serve uno spirito costituente. Lo stesso di cui ha bisogno in questo momento l’Europa».
Sarebbe un segnale notevole insomma, quello che l’Italia darebbe, se non si soffermasse solo sull’emergenza economica ma risolvesse anche quella istituzionale. «Il governo tecnico dura 15 mesi. Lo spread si misura sui titoli a 10 anni», prosegue Brunetta, «ai mercati interessa capire se l’Italia avrà una governance più credibile non solo fino alla primavera 2013 ma appunto nei prossimi 10 anni. Non bastano le manovre e i tagli. Sono oltre sei mesi che tagliamo ma non mi pare che i mercati reagiscano più di tanto». Brunetta si spinge fino ad auspicare modifiche sulla prima parte della Costituzione: libertà, mercato, concorrenza. «Troppo impegnativo? E
perché, il pareggio di bilancio non è forse una materia hard? Almeno quanto l’eliminazione delle province, diminuzione del numero dei parlamentari o lo stesso presidenzialismo». Molto dipende dal grado di incisività degli interventi a cui si guarda. E anche dal metodo: nelTerzo polo, per esempio, Gianfranco Fini è fermamente persuaso che la legge elettorale vada rimodulata solo dopo altre questioni. Compresa la forma di governo.
C’è un dato. Già dal 2008 la bozza Violante giace nella sua splendida compiutezza e attende che qualcuno rimetta in moto il processo. Ha dunque fondamento anche la tesi di Dario Franceschini, che si concede spazi meno ambiziosi di quelli disegnati da Brunetta ma coincidenti appunto con la cornice definita in quella bozza: «La forma di governo è un obiettivo meno a portata di mano. Ma su regolamenti, superamento del bicameralismo, riduzione del numero dei parlamentari e legge elettorale si può assolutamente arrivare a risultato. Sono ottimista», dice a liberal, «senza esitazioni: i tempi ci sono, in 15-16 mesi si può fare tutto. Avverto per la prima volta dopo anni un clima di tregua. Spirito costituente? Non arrivo ad assimilarmi ai padri della Repubblica. Mi accontento di questo clima».
le tappe che nel corso degli ultimi tre secoli hanno condotto gli storici, i sociologi, gli economisti, gli psicologi, i costituzionalisti a definire per l’appunto lo status di parlamentare proprio alla luce della storia, della composizione sociale, della struttura economica, della psicologia individuale e di gruppo, dei diversi regimi costituzionali vigenti nei diversi Paesi considerati. Da questo punto di vista anche l’Italia: ha una sua storia, fa emergere una propria struttura sociale anche se in lenta evoluzione, si divide economicamente quanto meno in Nord e Sud, esprime una rigida idea di famiglia che si è scontrata soprattutto negli ultimi decenni con una poderosa ondata di secolarizzazione mitteleuropea, è passata dal vecchio Statuto Albertino – che è convissuto persino con il regime fascista – all’attuale Costituzione repubblicana, che è nata quando esisteva l’Unione Sovietica mentre non era neanche iniziato il processo di integrazione europea. Occorre pertanto guardare a tutte queste specifiche condizioni nazionali che hanno pertanto finito con il dar vita ad una propria e specifica idea di parlamentare nazionale. Politici possidenti – come fu nel lungo periodo iniziale della storia nazionale – o politici provenienti anche dal popolo – come fu a partire dalla immissione di socialisti e popolari nella politica nazionale italiana; politici di professione o politici occasionali – come ci
ha insegnato Schumpeter all’inizio del vecchio secolo; politici di territorio minuscolo o politici nazionali – come si può rilevare anche nel corso delle ultime legislature; politici comunque collegati ad un territorio e a un gruppo di elettori, o politici eletti sulla base di un rigido elenco stabilito dai presentatori delle liste elettorali – come nel caso delle ultime elezioni.
Ciascuna di queste specifiche distinzioni comporta una propria e distinta retribuzione dei parlamentari nazionali, per non parlare dell’esistenza o meno di una o di due camere nazionali; della notorietà conquistata con un lavoro intellettuale, per sua natura quanto meno nazionale o con un lavoro professionale, per sua natura legato al territorio nel quale la professione viene esercitata. Non vi è dubbio pertanto che la storia nazionale dei maggiori Paesi europei ha finito con il dar vita ad una propria specifica valutazione del trattamento economico dei parlamentari. Il criterio di fondo ha finito pertanto con il riguardare soprattutto il rapporto con il trattamento economico complessivo di chi vive esclusivamente di lavoro dipendente modesto; di lavoro dipendente dirigenziale; di lavoro professionale autonomo; di attività imprenditoriale capace di competere con un mondo sempre più globalizzato, o limitata al soddisfacimento di bisogni puramente locali. Da questo punto di vista, dunque, vanno valutate retribuzioni, diritti, doveri e privilegi dei parlamentari. Non vi è dubbio che le condizioni complessive delle retribuzioni attuali e differite, delle collaborazioni tecniche o generiche, delle spese necessarie o voluttuarie devono essere confrontate con l’insieme dei sistemi retributivi vigenti per ciascuna di queste attività lavorative: nessuna di esse definisce di per sé lo status di parlamentare nazionale; ma tutte sono capaci di definire l’esistenza o meno dei “privilegi” dei parlamentari. Si passa pertanto da un criterio sostanzialmente monetario ad un criterio sostanzialmente etico: l’esempio vale in questo caso persino più della sostanza della retribuzione.Ma occorre essere del pari consapevoli che l’esempio costituisce una rara eccezione nella vita individuale e di gruppo. La ventata attuale sembra far prevalere una sorta di spirito demagogico più che un desiderio autentico di comprensione della realtà. In questo groviglio di sentimenti è molto difficile rintracciare il bandolo della matassa: mai come in questo caso però l’intelligenza delle cose deve poter prevalere sullo scatenamento delle passioni.
Storia e tradizioni diverse in Europa rendono priva di senso una “classifica” (a esclusivo uso dei giornali) di chi costa di più e chi di meno
pagina 4 • 5 gennaio 2012
l’approfondimento
Il presidente emerito della Consulta traccia la rotta per una nuova, possibile architettura costituzionale del Paese
Destinazione Berlino
«Sistema proporzionale alla tedesca, nuovo bicameralismo e soprattutto un governo più forte. Ecco la ricetta per chiudere una stagione fallimentare e rilanciare la politica. Dopo Monti». La riforma di Piero Alberto Capotosti di Francesco Lo Dico
ROMA. «La grande parte delle forze politiche e parlamentari si dichiarano interessate e disponibili ad una iniziativa di riforma delle istituzioni e della politica. È evidente che un simile percorso significherebbe stabilità per il Governo e maggiore credibilità della politica e delle istituzioni nella prospettiva della nuova legislatura». Dalle pagine di Repubblica, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani ha rilanciato l’eterno tema delle grandi riforme. Ma per usare le stesse parole del leader democratico: si intende fare sul serio? Intendiamo davvero passare dalle parole ai fatti? È possibile immaginare cioè il tempo delle larghe intese come uno spazio costituente che dia ai partiti oggi sottotraccia un compito arduo in grado di riabilitarli agli occhi degli elettori? «Personalmente penso che non ci siano i tempi tecnici e le condizioni politiche per pervenire a riforme importanti», spiega a liberal il presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti. «A partire dal 2000 tutte le legislature si sono autoqualificate come costituen-
ti, ma salvo il tentativo del 2006, peraltro bocciato dagli italiani, le riforme dell’architettura costituzionale sono rimaste chiuse in un cassetto». Presidente, Bersani parla di riduzione del numero dei parlamentari, riforma del bicameralismo e nuova legge elettorale. È il tempo del governo tecnico, la grande occasione per le riforme? In circostanze così atipiche come quelle che hanno portato all’insediamento del governo tecnico presieduto da Mario Monti, è difficile che possano esserci la giusta spinta e il necessario coordinamento delle forze politiche per realizzare un disegno costituzionale coerente. Non solo un problema di tempi, quindi. Ci sono fin troppe proposte di riforma costituzionale che sono rimaste lettera morta per il fatto che non si sia mai riusciti a trovare un unico filo conduttore. Negli ultimi dieci anni, in Italia si è preferito ricorrere ad alcune scorciatoie nel tentativo di aggirare la via maestra rappresenta-
ta dall’articolo 138 della Costituzione. In taluni casi, si è ricorsi addirittura al referendum. Si direbbe che lo spirito riformista soffre di problemi congeniti. C’è un vizio di fondo ad accomunare questi tentativi. Ogni volta si è partiti dalla coda piuttosto che dalla testa. Invece di elaborare un nuovo assetto di governo sul quale innestare un sistema di voto pertinente, si è pensato piuttosto di dar vita a nuove leggi elettorali scisse dalla scelta di un nuovo ordinamento cui queste avrebbero do-
«L’avvento di tecnici ha sancito la fine di un’era rissosa e inconcludente»
vuto conformarsi. È sintomatico il fatto che negli ultimi vent’anni si siano contate cinque riforme del sistema di voto, mentre dal 1948 al 1992 non ne è stata realizzata nessuna. Quali sono le ragioni di questo fallimento così puntuale? Nell’ideare una riforma vera, bisogna partire dal centro del problema: stabilire innanzitutto che tipo di assetto di governo si voglia realizzare: il presidenziale o il modello tedesco con un cancelliere richiedono misure specifiche, a partire dalle quali co-
struire a cascata una nuova legge elettorale, una modifica dei regolamenti parlamentari e il riassetto del nostro bicameralismo perfetto. È necessario ipotizzare a monte una forma di governo, prima di sedersi a un tavolo e parlare di Mattarellum, porcellum o proporzionale. È plausibile immaginare un disegno comune che possa dipanarsi lungo questa legislatura? È un discorso molto ambizioso perché si possa dispiegare in un anno scarso. Occorre sottolineare come manchi al momento una forza politica in grado di affermare un disegno costituzionale organico alla luce dell’investitura elettorale. È plausibile che le forze attualmente in campo si intralcerebbero a vicenda in funzione delle prossime elezioni. Vedo troppi inciampi. E la strada di una riforma organica è lunga. Quale dovrebbe essere la stella polare della riforma? A mio avviso, constatato che l’avvento di Monti ha messo in luce i limiti dell’attuale assetto politico, le forze in campo po-
5 gennaio 2012 • pagina 5
Il governo tecnico non può risolvere un problema che ha bisogno del coinvolgimento dei partiti
Uno scatto di reni: subito una legge oltre il bipolarismo
Si illude chi pensa che Berlusconi sia uscito di scena davvero: le tossine della politica urlata e personalistica sono ancora in giro tra noi di Enrico Cisnetto nno nuovo, idee vecchie. Nonostante la novità del governo Monti, pare che la discussione pubblica sulle questioni relative al nostro sistema politico sia rimasta ancorata alla vecchia questione del «bipolarismo sì, bipolarismo no», e che tutta l’attenzione sia destinata a concentrarsi sulla decisione che la Corte Costituzionale dovrà prendere in merito al referendum sulla legge elettorale. La stessa denuncia che Giovanni Sartori ha fatto nei giorni scorsi sulle colonne del Corriere della Sera di una politica italiana maledettamente «a corto di idee», si è poi ridotta a una contraddittoria denuncia del carattere professionale del fare politica – presupposto della creazione della cosiddetta Casta – quasi che vi fosse un’alternativa (che infatti il professor Sartori non indica). La vera questione, invece, era e continua ad essere quella che si era aperta nel 1992 – fra poco, a febbraio, saranno due decenni esatti dall’inizio della cosiddetta operazione Mani Pulite – con la caduta della Prima Repubblica. Allora si disse che il problema italiano era la mancanza di alternanza e si pensò che adottando un meccanismo di voto di tipo maggioritario e un sistema politico bipolare, i nostri problemi si sarebbero risolti. Segni e il suo referendum s’incaricarono di raccontare questa teoria al Paese che, avendo voglia di cambiamento, la fece propria in modo massiccio e convinto. Fu un’illusione collettiva, un abbaglio.
A
Prima di tutto perché sistemi politici e leggi elettorali non sono mai giusti o sbagliati in assoluto, ma in relazione al dna del paese cui si applicano e al momento storico in cui si calano. L’Italia individualista, corporativa e campanilista non era e non è tuttora né la Francia del semipresidenzialismo né l’Inghilterra del bipartitismo. Infatti ci siamo inventati un bipolarismo all’italiana, basato su una contrapposizione nello stesso tempo fittizia (non su valori, progetti e programmi, ma sul giudizio su una persona, Silvio Berlusconi) e da guerra di religione (berlusconismo e antiberlusconismo), e incarnato da partiti senza radici culturali che hanno formato alleanze spurie, di cui le componenti minoritarie ed estreme hanno avuto la golden share. Risultato: abbiamo dato vita ad una sorta di “alternanza obbligatoria” – dal 1994 in poi chi era al governo ha sempre perso le elezioni – che non ha per nulla aumentato, anzi, la capacità dei diversi esecutivi e del parlamento di governare il Paese.Tutto questo, che abbiamo chiamato Seconda Repubblica, è stato gestito con diverse e sempre peggiori leggi elettorali, che hanno tolto ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti (l’uso della preferenza, pur oggetto di distorsioni, è infinita-
mente meglio) e con cervellotici sistemi di computo dei voti (premio di maggioranza privo di qualsiasi soglia minima).
Ora, ditemi voi cosa ci sia da difendere e tutelare di un sistema politico siffatto. Nulla. Ma tant’è, in questi anni i cantori del bipolarismo a base maggioritaria da un lato lo hanno confuso, esso che è un mezzo, con il fine dell’alternanza, e dall’altro quando proprio non hanno più avuto argomenti per difenderlo,
I sistemi politici non sono mai giusti o sbagliati in assoluto: ma solo in base al dna di un Paese e alla fase storica si sono messi a decantare il bipolarismo in chiave teorica, dicendo che ciò che occorre fare in Italia è passare da quello malato a quello sano. Senza mai spiegare, però, come si faccia e perché in Italia abbiamo sperimentato la versione peggiore. Ora, siccome non è il caso di tirare in ballo la sfortuna, non resta che dirci una volta per tutte che una destra populista e una sinistra massimalista non possono essere la base di una proficua alternanza e che l’unico modo per ridurne l’impatto è quello di unire – inevitabilmente al centro dello schieramento politico – le forze moderate e liberali con quelle riformiste.
Francamente speravo che la caduta del governo Berlusconi e la necessità di ricorrere ai dei “tecnici” inducesse anche i paladini più strenui di un bipolarismo che non c’è a rivedere le proprie posizioni. Ma così non è, mi pare. La riprova l’ho avu-
ta il 2 gennaio da un mio dialogo sul palco di “Cortina InConTra” con Paolo Mieli, che stimo moltissimo per acutezza di analisi, capacità di retrospezione storica e visione anticonformista della politica. Eppure anche lui, dopo aver detto cose sagge sui professori prestati alla politica e pronunciato parole che molta sinistra considera eretiche sulle scelte da fare in economia, ha finito col pronunciare la solita orazione a beneficio del sistema bipolare a base maggioritaria, sostenendo che il positivo lascito della Seconda Repubblica è quello e dunque nascano pure partiti nuovi ed emergano leader diversi dagli attuali, ma l’importante è che gli italiani possano ancora ritrovarsi a scegliere tra una coalizione di centro-destra e una di centro-sinistra. Il non detto di questa, come di posizioni simili, è a mio avviso quello di pensare che Berlusconi sia ormai uscito di scena (al massimo fa il padre nobile) e che di conseguenza senza di lui il bipolarismo militarizzato trovi la capacità di imboccare la strada virtuosa del disarmo bilanciato fino a diventare un’alternanza tra poli che non solo hanno smesso di delegittimarsi a vicenda ma hanno individuato un terreno comune di condivisione, differenziandosi solo su alcune questioni di natura programmatica. Magari fosse così. Ma la realtà è un’altra: ammesso e non concesso che il Cavaliere sia out, sulla scena politica stanno ancora prevalendo quattro cose che non si cancellano solo con i buoni auspici. Primo: populisti e massimalisti prevalgono nei due poli, e si possono battere solo unendo i moderati e riformisti. Secondo: le tossine della contrapposizione «Berlusconi sì, Berlusconi no» sono ancora in circolo, e le buone intenzioni non bastano ad espellerle.Terzo: il ceto politico è da riselezionare e le capacità programmatiche scarseggiano (come si è visto nella fase uno di Monti). Quarto: ci vuole una nuova legge elettorale, e un’eventuale riesumazione della Mattarella per via referendaria. Per tutti questi motivi la Terza Repubblica, se vogliamo evitare che risulti peggiorativa così come lo è stata la Seconda rispetto alla Prima, deve nascere adottando il sistema politico-istituzionale e la legge elettorale che più hanno avuto successo in Europa, quelli tedeschi. Che, come ha giustamente ricordato Stefano Passigli sul Corriere della Sera, ha assicurato dal dopoguerra in poi governabilità, alternanza e un bipolarismo sostanziale che è stata capace, quando necessario, di lasciare spazio a grandi coalizioni. Possiamo approfittare del fatto che al presente bada Monti per chiarirci le idee sul futuro, discutendo e decidendo su questi punti così essenziali? (www.enricocisnetto.it)
trebbero cercare un minimo comune denominatore nel superamento di un bipolarismo coatto, asfittico e spesso inconcludente. Si potrebbe puntare a una soluzione alla tedesca, con un governo che presentasse al suo vertice un leader rafforzato per via istituzionale. E dovrebbe essere introdotto poi, al fine di una maggiore stabilità dell’esecutivo, un voto di sfiducia costruttivo, che opererebbe soltanto in presenza di una maggioranza alternativa pronta a subentrare al governo dimissionario. E naturalmente cambierebbe il sistema di voto. Se si dovesse optare per questa forma di governo alla tedesca, sarebbe logica conseguenza mettere a punto un sistema elettorale tendenzialmente proporzionale e non bipolare con una soglia di sbarramento attorno al cinque per cento. Il premio di maggioranza dovrebbe essere abolito in quanto altera il gioco. Gli ultimi governi di Prodi e Berlusconi ne hanno dato ampia dimostrazione. Come cambierebbero Camera e Senato, a oggi considerate due inutili doppioni? Per andare oltre il bicameralismo perfetto potrebbe essere configurata una doppia Camera ciascuna delle quali avrebbe attribuzioni distinte: una ad occuparsi della politica nazionale e ad assegnare la fiducia, l’altra preposta alle questioni regionali. La legge Calderoli ha destato grosse perplessità in quanto non consente agli elettori di scegliere i propri rappresentanti. Come intervenire per far fronte a questa esigenza? Quello delle preferenze è un nodo difficile da districare. Nei primi anni del 90 il sistema fu modificato per evitare che prendesse piede il voto di scambio attraverso illeciti favori. Ma da quando è stato introdotto il porcellum s è avvertita di nuovo l’esigenza di assegnare la preferenza a un candidato specifico che non sia già stato prescelto dai segretari di partito. Non si tratta però di un’anomalia italiana: tutti i seggi spagnoli e metà di quelli tedeschi sono assegnati con liste bloccate. Come venirne a capo, dunque? Il problema specifico del nostro Paese è semmai la scelta di dare spazio a eletti che spesso non sono di livello assoluto, ma recano buoni patrimoni di voti o relazioni privilegiate con i rispettivi leader di partito. Una tendenza che penalizza sovente uomini illustri, ricchi di saperi e competenze, che però non possiedono sufficienti elettori per arrivare in Parlamento. Per questa ragione, sarebbe opportuno pensare a un sistema proporzionale. Attraverso opportuni accorgimenti tecnici potrebbe essere riservata a ciascun partito la scelta di una rosa ristretta di nomi di spicco. Una sorta di listino a tutela della competenza e della qualità individuale.
pagina 6 • 5 gennaio 2012
l’Europa in crisi
Italia e Francia cercano di convincere la Germania a non insistere solo sul rigore ma di pensare anche agli stimoli per la ripresa
Recessione europea
Juncker lancia l’allarme economico. Merkel e Monti annunciano un vertice bilaterale per mercoledì: «C’è bisogno di più stabilità»
Il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker con la Cancelliera tedesca Angela Merkel
di Enrico Singer l segnale d’allarme, l’ennesimo, lo ha lanciato ieri Jean-Claude Juncker: l’Europa è sull’orlo della recessione. Il premier del Lussemburgo, che è anche presidente dell’Eurogruppo, ha detto che l’ampiezza della crisi che abbiamo di fronte «deve essere ancora determinata» e dipenderà dalla capacità di reazione dei leader dell’Unione. Che lo sanno molto bene: questo inizio di 2012 è veramente decisivo per le sorti dell’economia europea e dell’euro. Così, in vista del vertice straordinario che è già convocato per il 30 gennaio a Bruxelles, sta per partire una fitta rete d’incontri bilaterali nella quale l’Italia è tornata protagonista. Domani Mario Monti incontrerà all’Eliseo il presidente francese, Nicolas Sarkozy. Mercoledì prossimo sarà a Berlino da Angela Merkel, il 18 vedrà David Cameron a Londra e non è nemmeno escluso un incontro a tre Merkel-Sarkozy-Monti a Roma prima del summit della Ue – e prima delle riunioni dello stesso Eurogruppo e dell’Ecofin in programma per il 23 e 24 gennaio – se ci saranno, come è probabile, ancora delle questioni aperte per definire una strategia comune in risposta alle due grandi sfide che incombono: mettere al sicuro l’euro e far ripartire la crescita. Un altro incontro a due
I
– questa volta tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – ci sarà lunedì prossimo, a cavallo dei due bilaterali con Mario Monti. Ufficialmente questi colloqui vengono presentati come occasioni per «fare il punto su temi internazionali, sulla situazione nell’Eurozona e sugli sviluppi della situazione econo-
ché nemmeno la più severa disciplina di bilancio può bastare da sola a garantire la salute dell’euro se l’economia europea non tornerà a crescere allontanando il pericolo della recessione denunciato da Juncker. Nell’ultimo Consiglio della Ue, quello del 9 dicembre scorso, i Paesi di Eurolandia con
Il nuovo anno comincia con una girandola di vertici che mirano ad annullare i veti incrociati in vista del summit del 30 gennaio a Bruxelles: l’obiettivo è evitare vincoli troppo rigidi che penalizzino la crescita delle singole economie mica in Europa», come ha detto ieri mattina il portavoce del governo tedesco, George Streiter, annunciando la missione a Berlino del presidente del Consiglio italiano.
Ma dietro il linguaggio freddo della diplomazia c’è un movimento – confermato anche dalla scaletta temporale degli incontri – che vede Italia e Francia alleate nel cercare di convincere la Germania a non insistere soltanto sulle regole del rigore per salvare la moneta comune lasciando indietro gli stimoli per la ripresa. Il vertice del 30 gennaio a Bruxelles è dedicato proprio a questo doppio tema intrecciato per-
l’accordo di nove “volenterosi” del gruppo che non fa parte della zona euro e con l’opposizione della Gran Bretagna, avevano concordato la stesura di norme più stringenti in materia di debito pubblico, di deficit e di disavanzo che dovrebbero prevedere anche sanzioni automatiche per chi non le rispetta affidandone il controllo alle corti di giustizia e non più agli organismi intergovernativi. In dicembre si decise anche di anticipare all’anno appena cominciato il varo del nuovo strumento permanente di sostegno alla stabilità dell’euro che, secondo i piani precedenti, avrebbe dovuto prendere il posto del fondo salva-Stati soltanto nel
2013. Tra le novità da inserire nell’armamentario per difendere l’euro era stato annunciato anche un ruolo più attivo della Banca centrale europea. Non si era, invece, parlato – sempre per l’opposizione tedesca – dell’introduzione degli eurobond che l’Italia e la stessa Francia, sia pure con tempi più lunghi, considerano un valido mezzo per contrastare gli squilibri dei quali si alimenta la guerra degli spread. Ma, soprattutto, un mese fa era stato preso l’impegno di armonizzare le politiche fiscali e di bilancio dei Paesi di Eurolandia attraverso sistemi di discussione preventiva e di approvazione comune dei piani nazionali. Tutto questo, però, era stato concordato in un documento politico che deve diventare, adesso, un preciso libro delle regole.
Non è difficile capire perché, nella delicata fase della trasformazione degli impegni in norme e meccanismi di funzionamento, Angela Merkel insista in particolare sul capitolo del rigore. Anche gli ultimi dati dell’andamento dell’economia dimostrano che la Germania rappresenta l’eccezione nel quadro europeo di generale depressione che lascia prevedere non solo a Juncker – anche gli esperti della Commissione europea ne parlano ormai apertamente
l’Europa in crisi Giulio Tremonti è toccato di colmare un vuoto. Nell’ultima fase del berlusconismo, quella in cui si sono smarriti obiettivi e visione, è stato il Professore ad assicurare un minimo di supporto teorico, di base ideologica, o almeno di coté politico-culturale. Il ciclo anticipato dal Fantasma della povertà e concluso con La paura e la speranza ha conferito almeno per qualche tempo una specifica capacità di analisi al cosiddetto centrodestra italiano, peraltro in buona parte smarrita nelle politiche messe in atto. Di quel Tremonti ora si sente la mancanza. Non è all’altezza delle originali e preziose intuizioni esposte nei suoi libri, il Tremonti che affiora dall’intervista al Corriere della Sera pubblicata ieri. C’è minimalismo nell’autodifesa. C’è un rimando agli errori del Pdl e alle ingiuste contestazioni del Cavaliere che non basta a spiegare il fallimento del precedente governo. Verrebbe da dire che c’è un’elusione dei veri nodi. O meglio, un’omissione. Giulio Tremonti non dice che il centrodestra berlusconiano ha mancato proprio la mission per la quale si era costituito: modernizzare il Paese. Non ha realizzato quegli obiettivi che Berlusconi ha proclamato per anni, con temeraria pervicacia, e che lo stesso Tremonti aveva sistematizzato nelle sue opere. Dalla riforma del welfare a quella del mercato del lavoro, dalla guerra ai corporativismi alle liberalizzazioni, compresa quella delle attività professionali. Non si ammette che su questo si è fallito. E quindi, nelle risposte che dà al Corriere, Tremonti non dice nemmeno che ora Monti è al governo proprio con questi obiettivi.
5 gennaio 2012 • pagina 7
Una riflessione ancora troppo viziata dallo scontro con Berlusconi
A
Troppe omissioni, caro Tremonti Delle analisi sofisticate ha fatto la sua forza. Tranne che nella sua ultima intervista... di Errico Novi A Tremonti pare irrilevante – a tener conto della sua analisi – che il centrodestra di cui lui ha fatto parte non abbia trovato la forza politica per realizzare quelle riforme. Ed è invece questa la vera risposta. Quando gli si chiede perché è caduto l’esecutivo Berlusconi, Tremonti non dice nulla sulla ritirata di quel governo dal fronte delle liberalizzazioni, delle riforme strutturali. Come se fosse ovvio averle archiviate. Come se la crisi fosse un manto pietoso da stendere sul passato e sulle antiche vocazioni. Ma non è così. Non può essere così. Ne è prova il fatto che ora Monti si sforza proprio di battere quella strada. Con l’handicap di doverla percorrere in salita, certo. Perché l’aggravarsi della crisi economica generale rende più avvertibile il ritardo italiano sull’apertura del sistema. E perché ci sarà da fare i conti con conservatorismi nel frattempo rafforzati, come si vede nel confronto con i sindacati sul mercato del lavoro. Tremonti si concentra sui limiti della manovra appena vara-
– il rischio di una recessione. Con un’occupazione record – i senza lavoro in Germania sono il 6,8 per cento contro i numeri a due cifre della Spagna e della Grecia e del Sud dell’Italia – e con una crescita della produzione manifatturiera ancora robusta, l’economia tedesca non sente il bisogno di misure per la crescita. E la Merkel interpreta politicamente questa situazione mettendo al primo posto l’austerità nella spesa pubblica e la severità delle sanzioni nell’elenco delle sue priorità. Nicolas Sarkozy, invece, come ha detto anche nel tradizionale discorso televisivo di Capodanno, ammette che la crisi è «senza precedenti, probabilmente la più grave dopo la seconda guerra mondiale» e che non è finita, ma dice che in questo momento «la priorità deve essere lavorare per la crescita, la competitività e la reindustrializzazione che permetteranno di creare posti di la-
Sull’esecutivo attuale ricade un peso enorme proprio perché il precedente è stato incapace di modernizzare
voro e di aumentare la capacità di spesa». In una parola, per la ripresa.
Non è certo un caso che Mario Monti vuole arrivare all’appuntamento di Bruxelles con le prime misure del suo piano per la crescita già approvate, con la “fase due” avviata dopo la stretta sui conti per riportare il bilancio verso il pareggio. La stessa strategia è stata scelta da Nicolas Sarkozy che ha anche una ragione in più per ridare slancio all’economia francese: tra quattro mesi dovrà affrontare la prova delle urne nelle elezioni presidenziali e in Francia il clima è già da sfida all’ultimo voto con il candidato socialista François Hollande ancora in vantaggio nei sondaggi. Domani a Parigi Mario Monti concluderà un convegno organizzato dal ministero dell’Industria francese che ha per tema “Quale posto per l’Europa nel nuovo equilibrio in-
ta, la giudica recessiva e potenzialmente pericolosa. In effetti ora a Monti si chiede da più parti una fase due rivolta alla crescita. E negli anni precedenti, su questo, Berlusconi e il suo governo cosa hanno fatto? Cosa hanno prodotto? Monti ci proverà. Loro si sono arresi probabilmente già prima che finisse il penultimo ciclo del Cavaliere, quello del 2001-2006.
Tutto è più difficile ora perché in passato non si è riusciti ad aprire la strada. Non se n’è avuta la forza politica. Una simile ammissione non dovrebbe pesare troppo, a Tremonti. Non è certo il solo responsabile.Tra i padri di quel fallimento va annoverato piuttosto Umberto Bossi, della cui amicizia giustamente il Professore non si pente. I rapporti personali non si rinnegano. Ciononostante il leader leghista è uno di quelli che ha impedito la modernizzazione, per esempio rispetto ai veri costi della politica e in particolare ai rapporti tra poteri locali e società di servizi. C’è da scommettere che i maggiori ostacoli, su que-
ternazionale” – al quale interverranno anche il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, e il vicepresidente italiano della Commissione europea, Antonio Tajani – prima d’incontrare, alle 17, all’Eliseo, Sarkozy con il quale terrà, poi, una conferenza stampa che è molto attesa proprio per valutare il grado di convergenza tra Italia e Francia sulla strategia per convincere Angela Merkel a varare un piano generale di rilancio dell’euro e dell’economia europea. Sul tappeto, tra l’altro, c’è anche il tema non secondario della futura composizione di Eurolandia.
Ne ha parlato ieri anche Jean-Claude Juncker nell’intervista alla radio tedesca Ndr. Secondo il presidente dell’Eurogruppo la Grecia non uscirà dall’euro. «Il ritorno di Atene alla dracma non è un’opzione», ha detto Juncker. Tuttavia a Bruxelles sono in molti a credere
sto, arriveranno dall’ex maggioranza, e non solo dalla Lega. E che il vecchio centrodestra abbia contraddetto sistematicamente lo spirito liberale delle proprie origini è confermato proprio dai paletti imposti dal Pdl a Monti sulle liberalizzazioni. Farmacisti e tassisti, ma anche avvocati e ordini vari, trovano ormai nel partitone berlusconiano un eroico paladino. È questo il centrodestra venuto meno alle riforme modernizzatrici. Continua a boicottarle. Tremonti non lo dice. Non dice perché quel centrodestra ha perso. E perché hanno provvedere altre dovuto espressioni del campo moderato a favorire la nascita di un esecutivo come l’attuale.
Monti è alla guida del Paese anche perché ampi settori della politica, e il Terzo polo in particolare, hanno ritenuto che a lui si dovesse chiedere di intervenire dove Berlusconi aveva rinunciato. Sarà stato il “braccino corto”, l’ossessione del consenso a cui pure Tremonti fa cenno, ma è andata così. Se il Professore si chiude nel minimalismo omissivo fa torto al suo prestigio di intellettuale. Sarà un caso, ma anche nella parte dell’intervista al Corriere orientata sull’analisi generale della crisi, Tremonti sembra rinunciare alle proprie originali intuizioni. Parla dei mercati come di un giudice impietoso e inappellabile ma non dice nulla neppure sui mali degenerativi di quei mercati, sui quali in passato aveva fatto diagnosi efficacissime. Il Tremonti che si limita alla polemica puntuale e garbata con Berlusconi non è all’altezza del precedente. E finisce per confermare la necessità di questa nuova fase. Su Monti ricadono oneri, il disboscamento degli intrecci corporativi innanzitutto, ora più impegnativi che in passato.
che, se le nuove regole per la permanenza nell’euro saranno di stretta osservanza tedesca, la Grecia si troverebbe in una posizione molto difficile da sostenere. E c’è già chi mette le mani avanti: il nuovo governo spagnolo, guidato dal popolare Mariano Rajoy, ha lanciato un’operazione-verità sui conti pubblici del Paese annunciando di avere ereditato dall’esecutivo socialista un deficit che, alla fine del 2011, ha superato l’8 per cento. Zapatero si era impegnato a chiudere l’anno con un deficit al 6 per cento dopo l’orribile -9,3 del 2010, ma secondo il nuovo ministro dell’Economia, Luis de Guindos, il dato reale è di oltre due punti peggiore e questo richiederà anche in Spagna un nuovo giro di misure restrittive – si parla di una manovra aggiuntiva da 15 miliardi – per coprire l’extra deficit adeguandosi in anticipo alle regole che la Ue dovrebbe varare alla fine del mese.
l’Europa in crisi
pagina 8 • 5 gennaio 2012
li eroi del suo ultimo libro, Poesia del pensiero, sono Nietzsche, Eraclito e Dante. Ma almeno all’inizio devono attendere. George Steiner ci accoglie nella sua casa di Cambridge con una allegra affabilità, tra una fetta di panettone e un caffè. In occasione dell’inaugurazione dell’Eurostar aveva proposto di regalare uno scellino al primo bambino che avesse visto un pesce nel tunnel della Manica. «I genitori erano sbalorditi», ricorda il professore di letteratura comparata. Questo miscuglio di allegria ed erudizione, di intelligenza e gentilezza, è tipico di George Steiner. Nato nel 1929 a Parigi, da madre viennese e padre cecoslovacco, il “maestro di letture” poliglotta ha decifrato Omero e Cicerone quando era ancora un ragazzo, sotto l’occhio benevolo del padre, un grande intellettuale ebreo appassionato di arte e musica che voleva che diventasse professore (il significato più proprio della parola “rabbino”). Nel 1940 la famiglia Steiner si è imbarcata per New York a bordo dell’ultimo battello in partenza da Genova. Dopo aver studiato a Chicago e a Oxford, Steiner è entrato a far parte della redazione londinese dell’Economist. Poco tempo dopo ha attraversato nuovamente l’Atlantico per intervistare Oppenheimer, il padre della bomba atomica, che lo ha aiutato a entrare a Princeton. L’ingresso nella prestigiosa università del New Jersey è stata la “svolta” della sua vita. In seguito Steiner ha scritto opere come Tolstoj o Dostoevskij (Garzanti 1995) e Linguaggio e Silenzio (Garzanti 2001), ha fondato il Churchill College di Cambridge, è diventato un critico letterario del New Yorker e ha cominciato a lavorare all’università di Ginevra. Incontriamo un grande umanista europeo, il cui pensiero ha fatto il giro del mondo. L’Europa attraversa una crisi profonda. Secondo lei è possibile un crollo del Vecchio continente? Allo stato attuale è possibile. Ma ne usciremo, in un modo o nell’altro. L’ironia è che la Germania potrebbe tornare al comando. Facciamo un passo indietro. Tra l’agosto del 1941 e il maggio del 1945 l’Europa – da Madrid a Mosca, da Copenaghen a Palermo – ha perso 80 milioni di vite umane a causa della
G
“
La letteratura ha scelto la strada delle piccole relazioni personali. Non affronta più i grandi temi. Nessuno ha preso il posto di Zola
”
guerra, delle deportazioni, dei campi di concentramento, della fame e dei bombardamenti. Il fatto che sia sopravvissuta è un miracolo. Ma la sua resurrezione è stata soltanto parziale. Oggi l’Europa attraversa una crisi drammatica: sta perdendo un’intera generazione, quella dei più giovani, che ormai non credono più nel futuro. Quando ero giovane avevamo grandi sogni. Il comunismo, certo, ma anche il fascismo, che era anch’esso un sogno. Per gli ebrei c’era il sionismo. Era un’epoca di speranze, mentre oggi non è più così. Se i nostri giovani non hanno sogni, cosa ci resta? Niente. La promessa
A destra, il campione mondiale di scacchi Garri Kasparov sfida nel 1996 Deep Blue, un potentissimo computer. E perde. Per George Steiner (subito sotto), grande filosofo e intellettuale francese, è il segno della crisi incipiente. Sotto, un ragazzo con l’I-phone, gli scontri della scorsa estate a Londra e un rave. Tutti simboli della mancanza di silenzio e della poca cura spirituale che le persone dedicano a se stesse
messianica del socialismo si è infranta davanti al gulag e a François Hollande – utilizzo il suo nome come un simbolo, non è mia intenzione criticare la persona. Il fascismo è sprofondato nell’orrore. Lo stato di Israele è costretto a lottare per sopravvivere, ma il suo nazionalismo è una tragedia profondamente contraria allo spirito ebraico, che è invece cosmopolita. Personalmente preferisco essere un vagabondo. Vivo secondo la massima di Baal Shem Tov, grande rabbino del XVIII secolo: «La verità è sempre in esilio». La globalizzazione non favorisce questo tipo di approccio? In realtà ai giorni nostri c’è una chiusura geografica senza precedenti. Un tempo chi lasciava l’Inghilterra poteva trasferirsi in Australia, in India, in Canada. Oggi non ci sono più permessi di lavoro. Il pianeta è chiuso. Ogni notte centinaia di persone cercano di raggiungere l’Europa dal Maghreb. Il pianeta è in movimento, ma dove sta andando? Il destino attuale dei rifugiati è terribile. Ho avuto l’onore di tenere un discorso davanti al governo tedesco. Ho concluso il mio intervento in questo modo: «Signore e signori, oggi tutte le stelle diventano gialle». Malgrado tutto lei si sente ancora europeo? L’Europa è ancora il luogo del massacro, dell’incomprensibile, ma anche delle culture che più amo. All’Europa devo tutto, e voglio vivere dove riposano i miei morti. Voglio restare vicino alla Shoah, e in un luogo dove posso esprimermi nelle quattro lingue che conosco. È il mio conforto, la mia gioia, il mio piacere. Dopo l’inglese, il
«Vi spiego la caduta del mito europeo» Il declino del nostro Continente secondo George Steiner. Che dice: «Siamo in crisi, ma possiamo uscirne. Il problema? La perdita di un’intera generazione di giovani privati del futuro. L’assurdo? Sono tutti schiavi delle macchine» di Juliette Cerf
l’Europa in crisi
francese e il tedesco – le mie tre lingue d’infanzia – ho imparato l’italiano. Mia madre iniziava una frase in una lingua e la finiva in un’altra. Non ho mai avuto una lingua madre, ma il mio non è un caso così particolare. In Svezia si parlano il finlandese e lo svedese; in Malesia si usano correntemente tre lingue. L’idea di una lingua madre è nazionalistica e troppo romantica. Il mio multilinguismo mi ha permesso di insegnare, di scrivere Dopo Babele (Garzanti 2004) e soprattutto di sentirmi a casa ovunque. Tutti i terrificanti discorsi di Barrès sulle radici non hanno senso. Gli alberi hanno radici, io ho le gambe. Ed è molto meglio, credetemi. La letteratura e la filosofia sono ancora complici al giorno d’oggi? A dire il vero mi sembrano entrambe in pericolo. La letteratura ha scelto la strada delle piccole relazioni personali. Non sa più affrontare i grandi temi metafisici. Nessuno ha preso il posto di Balzac e Zola, due geni della commedia umana che riuscivano ad affrontare argomenti vastissimi. L’Ulisse di Joyce è quanto di più vicino a Omero. È la cerniera tra due grandi mondi, quello classico e quello dominato dal caos. Un tempo anche la filosofia poteva definirsi universale. Il mondo intero era aperto al pensiero di grandi uomini come Spinoza. Oggi
gran parte dell’universo ci è preclusa. Il nostro mondo si è ristretto. Le scienze sono diventate inaccessibili. Chi è in grado di comprendere le ultime avventure della genetica, dell’astrofisica, della biologia? Chi può spiegare le ultime scoperte scientifiche a un profano? I campi del sapere non comunicano più tra loro. Gli scrittori e i filosofi non sono più in grado di farci capire la scienza. La scienza brilla per il suo immaginario. Ma come si può pretendere di parlare della coscienza umana lasciando da parte ciò che è più audace e fantasioso? Mi preoccupa il senso che ha oggi l’espressione “essere colto”, in inglese “to be literate”, ancora più forte. Si può davvero essere colti senza comprendere un’equazione non lineare? La cultura sta lentamente diventando provinciale, e forse a questo punto è necessario rivedere l’idea che abbiamo del concetto di cultura. Voglio raccontarvi un’esperienza che mi ha profondamente commosso: una sera ero a cena con uno dei miei colleghi di Cambridge – premio Nobel, uomo affascinante – e lui mi ha chiesto di aiutarlo con un testo di Lacan che non riusciva a comprendere. La modestia di un grande scienziato è infinitamente superiore all’orgoglio e alla superbia dei nostri maestri dell’oscurità. Crede che le nuove tecnologie minaccino il silenzio e l’intimità necessarie a comprendere le grandi opere? Sì. La qualità del silenzio è legata intrinsecamente a quella del linguaggio. Io e lei ci troviamo qui, in questa casa circondata da un giardino, dove l’unico suono è quello della nostra conversazione. Qui posso lavorare, sognare, pensare. Il silenzio è diventato un lusso. La gente vive nel fracasso. Nelle città non
5 gennaio 2012 • pagina 9
esiste più la notte. I giovani hanno paura del silenzio. Come si fa ad affrontare letture difficili? Si può leggere una pagina di Platone mentre si ascolta la musica con un walkman? Tutto questo mi spaventa. Le nuove tecnologie trasformano il dialogo con un libro. Abbreviano, semplificano, collegano. Lo spirito è “cablato”. Non leggiamo più nello stesso modo di prima. Il fenomeno Harry Potter mi sembra solo un’eccezione.Tutti i bambini della terra, dagli eschimesi agli zulù, leggono e rileggono una saga ultra-inglese caratterizzata da un vocabolario ricco e da una sintassi sofisticata. È qualcosa di formidabile. Il libro è un grande difensore della vita privata. L’Inghilterra è ancora un paese di privacy, ma tutto questo ha anche i suoi lati paradossali: qui puoi avere un vicino per cinquant’anni senza scambiarci una sola parola. Il culto della private life ha un’enorme valore politico. È una capacità di resistenza. Lei non si considera un creatore? No, non bisogna confondere le funzioni. Anche il critico, il commentatore, l’esegeta più dotato è lontano anni luce dal creatore. Noi non comprendiamo a fondo le fonti intime della creazione. Le faccio un esempio. Siamo a Berna, tanti anni fa, e alcuni bambini vanno a fare un picnic con la maestra, che li porta davanti a un viadotto. Mangiano tutti insieme. Poi ad un tratto la maestra guarda dall’alto in basso un bambino, che ha messo gli stivaletti davanti ai piloni. Da quel giorno tutti i viadotti sono in cammino. Quel bambino si chiamava Paul Klee. La creazione modifica ciò che contempla. A un creatore basta un attimo per farci vedere qualcosa che ci sfuggiva. Qual è il mistero che si nasconde dietro la creazione? Sull’argomento ho scritto Grammatiche della
“
Tutti i terrificanti discorsi di Barrès sulle radici non hanno senso. Gli alberi hanno radici, io ho le gambe. Ed è molto meglio
”
creazione (Garzanti 2003), ma devo ammettere che dopo tutti questi anni non l’ho ancora svelato del tutto. Forse il mistero non va svelato... In un certo senso sono felice di non esserci riuscito. Immaginatevi un mondo dove la neurochimica è in grado di spiegare Mozart. Oggi una cosa simile è concepibile, e questo mi fa paura. Le macchine riescono già a interagire con il cervello: il computer e il genere umano proseguono a braccetto. Un giorno gli storici potrebbero rendersi conto che l’evento più importante del XX secolo non è stata una guerra né un crack finanziario, ma la sera in cui Kasparov ha perso una partita a scacchi contro una scatola di metallo. E notate bene, in quel caso “la macchina non ha calcolato, ha pensato”. Quando ho appreso la notizia ho chiesto il parere di alcuni colleghi di Cambridge, grandi scienziati. Mi hanno detto che non potevano escludere che il pensiero fosse una forma di calcolo. È una risposta spaventosa. Un giorno una scatola di metallo sarà in grado di comporre una sinfonia? © Télérama – www.presseurop.eu
mondo
pagina 10 • 5 gennaio 2012
L’oppio diminuisce in Afghanistan e aumenta in Birmania. Finendo sempre in Sudamerica, grazie a snodi come Lima e Bogotà
Le nuove vie della coca Altro che sconfitti: narcos e colombiani sono sempre più forti. E la Dea annaspa di Maurizio Stefanini a tempo si sa che il narcotraffico è come l’idra della mitologia greca: se ne possono tagliare tante teste, ma tendono a rispuntare da un’altra parte. In Afghanistan, ad esempio, grazie alla politica di sostituzione con lo zafferano, è dal 2008 che l’oppio appare in diminuzione. Ma in compenso in Birmania la produzione è in aumento per il quinto anno consecutivo, e col 5% in più rispetto al 2010 secondo le statistiche dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della doga e la Prevenzione del Crimine sarebbe ormai arrivata alle 670 tonnellate. E un altro allarme è appena arrivato dalla Dea, l’agenzia antidroga Usa: i cartelli messicani della coca starebbero arrivando alla Regione Andina di Perù e Bolivia. Ma cerchiamo di ricordare un po’di storia geopolitica del traffico di cocaina. All’origine c’è, negli anni ’60, la cosiddetta “bonanza marimbera”: un traffico di marijuana verso gli stati Uniti, propiziato dai volontari del Peace Corps che in Colombia dicono di aver trovato “un’erba” di qualità sopraffina, e attorno al quale si struttura un primo embrione di criminalità organizzata. Ma le coltivazioni a un certo punto sono distrutte con bombardamenti di erbicidi.
D
In seguito è decollata la produzione di cannabis negli Usa e in Canada, sia da parte di farmer in crisi per il calo del prezzo dei cereali che di consumatori che se la coltivavano in casa magari in vasetto o con colture idroponiche: per questo molti colombiani assicurano che i gringos in realtà non erano preoccupati per il vizio, ma per la fuoriuscita di valuta. Ma forse fu semplicemente il venir meno dell’offerta a indurre molti “fumatori” Usa ad arrangiarsi, ed a scoprire che si potevano rifornire da soli senza troppi problemi. Negli anni ’70, allora, i resti della mafia della marijuana si riconvertono alla coca: che però, a differenza della canapa indiana, in Colombia non è coltivata, salvo in alcune zone dell’estremo sud. Vanno dunque a rifornirsi in Perù e Bolivia. Li c’è una coltura tradi-
zionale tollerata, per il consumo di foglie di coca che aiuta ad affrontare i problemi di respirazione alle alte quote. Ma c’è anche una coltivazione industriale destinata sia alle multinazionali farmaceutiche che alla Coca Cola, nella cui ricetta finiscono foglie di coca depotenziate. E ben presto si aggiungono coltivazioni illegali, fatte apposta per rifornire i colombiani. In Perù, la produzione di coca diventa uno strumento di autofinanziamento dei gruppi armati, da Sendero Luminoso all’Mrta. In Bolivia, trovano nella foglia di coca una fonte di reddito molti minatori
principali, ma rispetto a quelli di Bogotá e del Golfo assurgono a fama internazionale soprattutto il Cartello di Cali dei fratelli Miguel e Gilberto Rodríguez Orejuela e il Cartello di Medellín di Pablo Escobar, dalla seconda metà della decade affrontati tra di loro in una guerra sanguinosa.
L’immagine era che il Cartello di Cali usasse i metodi più soft della corruzione e quello di Medellín quelli più hard degli attentati, ma la verità e che entrambi erano piuttosto versati sia nell’una che negli altri. Piuttosto, il problema fu nel diverso
Il presidente Evo Morales, arrivato al potere grazie ai cocaleros del Chapare, ha favorito l’uso della droga in alimenti di tipo quotidiano, come il panettone alla farina di foglie di coca che sono stati licenziati per l’esaurimento dei giacimenti soprattutto di stagno, e che si sono reinventati come coltivatori andando a colonizzare la regione del Chapare. Negli anni ’80 questo traffico arriva all’attenzione dell’Amministrazione Reagan, che allo stile del presidente sceriffo decide di dichiarare una vera e propria Guerra alle Droghe. A quell’epoca, i narcos colombiani sono organizzati in quattro cartelli
approccio alla politica. I fratelli Rodríguez Orejuela, infatti, secondo uno stile più simile alla mafia siciliana, preferivano restare nell’ombra, limitandosi a finanziare le campagne elettorali. Escobar invece si mise in testa di farsi accogliere nell’élite dirigente del Paese, e nel 1982 si fece eleggere membro supplente della Camera, in attesa di candidarsi per il Senato. In quella veste fu pure invitato all’insediamento di Felipe González come primo ministro spagnolo, prima che lo scandalo esplodesse e diventasse famoso
come lo “zar della cocaina”. Di nuovo, c’è chi sospetta che a scatenare la tradizionale oligarchia colombiana contro di lui non fossero stati tanto i suoi affari loschi ma il non essere riuscito a restare al proprio posto: e che il governo Usa avesse trovato comodo consegnare all’esecrazione dell’opinione pubblica un singolo cattivo facilmente identificabile; e che il Cartello di Cali fosse entrato a sua volta nell’empia alleanza, pur dio togliere di mezzo il rivale. Se così davvero fu, certe cose poi camminano comunque con una logica propria, e se Escobar nel 1993 fu ucciso anche i fratelli Rodríguz Orejuela nel 1995 finirono in galera. Tra
l’altro, proprio sotto la presidenza di quell’Ernesto Samper che avevano abbuffato di soldi in campagna elettorale: secondo il beneficato, a sua insaputa. Il posto dei cartelli smantellati fu preso per un po’ dal nuovo Cartello del Norte del Valle, ma anch’esso fu presto eliminato. E nella seconda metà degli anni ’90 la Guerra della Droga in Colombia poteva considerarsi così teoricamente vinta.
Il risultato, però, ricorda la storiella del padre di Bertoldo che aveva seminato di spini nel mezzo di un sentiero per chiuderlo, ed ottenne invece di raddoppiarlo. In Colombia, infatti, i resti dei Cartelli passarono dallo smercio alla produzione diretta, in un business su cui si
mondo
Poliziotti della Dea durante operazioni antidroga ai danni dei cartelli messicani, negli ultimi mesi sempre più forti anche in Perù e Bolivia
buttarono poi sia la guerriglia delle Farc che i suoi avversari paramilitari delle Auc. E il ruolo di mediatori fu invece assunto dai cartelli messicani. Ma la coca in Perù e Bolivia continuo a essere coltivata: solo iniziò a partire per una nuova rotta, che attraverso trafficanti brasiliani e nigeriani sfociò in Europa. A fine anni ’90, col Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) ancora al potere, l’approccio dei cartelli messicani fu abbastanza simile a quello del Cartello di Cali: corruzione del potere a tutti i livelli, e basso profilo. Ma nel 2000 una storica alternanza di potere fu realizzata dal Partito di Azione Nazionale (Pan) di
Messicani e colombiani avrebbero imposto in Bolivia il sistema del laboratorio chimico, al posto delle “cucine” tradizionali aumentando così tutta la loro produzione Vicente Fox, che a parte l’essere più vicino alla sensibilità Usa interruppe comunque molti circuiti di contiguità tra narcos e politica: senza in realtà far diminuire il traffico, ma rendendo i mafiosi più nervosi. E nel 2006 il suo successore Felipe Calderón sempre del Pan, non fidandosi più della polizia proprio per certe storiche connivenze oltre che per il suo spezzettamento organico deci-
se di mandare contro i narcos le Forze Armate. E iniziò così quella Guerra alle Droghe messicana che secondo le stime ufficiali avrebbe fatto oltre 30.000 morti: ma è recente una stima non ufficiale che parla addirittura di 60.000.
Una risposta dei cartelli messicani, a parte la violenza estrema, è stata appunto quella di spargere sempre di più la pro-
5 gennaio 2012 • pagina 11
pria area di attività colonizzando i Paesi vicini. E di allargamento in allargamento, afferma ora la Dea, sarebbero arrivati addirittura a riannodare la rotta spezzata negli anni ’90: anche perché nel frattempo anche i paramilitari e le Farc in Colombia hanno subito colpi durissimi, e dunque anche quella fonte di approvvigionamento è a rischio.
In Perù, invece, secondo i dati che la Dea ha presentato al Senato di Washington, nel 2010 sarebbero state prodotte 325 tonnellate di cocaina: il livello più alto dal 1995, il 44% in più rispetto al 2009, e un deciso sorpasso rispetto alle 270 tonnellate colombiane. E anche in Bolivia il territorio coltivato a coca è aumentato tra 2006 e 2010 del 35%, fino ad arrivare a 35.000 ettari. Lì, va detto, il quadro è reso complesso dal fatto che il presidente Evo Morales è arrivato in politica come leader dei cocaleros del Chapare, ed ha favorito un aumento della produzione sull’assunto di una distinzione tra coca e cocaina. La sua tesi è che i consumatori di coca secondo l’uso tradizionale non sono più tossicodipendenti di quanto non sia alcolista un consumatore di uva, e il governo sta promuovendo sempre nuovi usi non narcotici della coca. L’ultimissimo: un panettone alla farina di foglia di coca lanciato proprio per questo Natale. A riprova della sua buona volontà di combattere la cocaina il governo di Evo Morales ha annunciato risultati eccezionali della lotta anti-droga nel 2011, con il sequestro di 33,3 tonnellate di cocaina e di 382 tonnellate di marijuana, lo sradicamento di 10.509 ettari di coltivazioni illegali di coca e l’arresto di 3370 persone. «Un record storico», ha detto il
comandante della Fuerza Especial de la Lucha Contra el Narcotráfico (Felcn) Gonzalo Quezada. Ma si tratta di un record che può essere letto in due modi diversi e opposti. Primo: la rottura diplomatica con gli Usa, che ha portato tra l’altro Morales anche a espellere la dea dal Paese, non ha compromesso l’efficienza della lotta anti-narcos. Secondo: al contrario, proprio questo aumento dei sequestri implica un aumento della produzione. Quezada ha comunque segnalato che il 42% della droga sequestrata proveniva dal Perù, e ciò concorda pienamente con l’indicazione della Dea della Bolivia come punto di passaggio del narcotraffico di provenienza peruviana.
A parte le rotte verso gli Usa e l’Europa, anche in Cile, Argentina e Brasile, oltre che negli stessi Paesi produttori, sono sorti mercati di tossicodipendenti che vengono costantemente riforniti. Quezada ha pure riferito sulla distruzione di laboratori per la trasformazione della coca in cocaina che erano stati realizzati con “tecnologia colombiana”: il che indicherebbe che pure narcos colombiani sono tornati a affacciarsi nella regione. E anche qui c’è armonia con quanto detto dalla Dea, sul fatto che messicani e colombiani avrebbero imposto in Bolivia il sistema del laboratorio chimico, al posto delle “cucine”tradizionali in cui la coca veniva fatta macerare. In più, si può ricordare come lo stesso predecessore di Quezada come massimo responsabile della lotta anti-narcos in Bolivia, René Sanabria Oropeza, sia stato arrestato a febbraio a Panama mentre si portava appresso oltre un quintale di cocaina.
pagina 12 • 5 gennaio 2012
grandangolo Un saggio di Tevi Troy sul declino di un simbolo Usa
Televisioni h24 social network e pochi fondi uccidono i think tank C’erano un volta delle fucine di pensiero capaci di rinnovare il dibattito politico e influire sulle scelte della Casa Bianca e del Congresso, come l’American Enterprise Institute e la Brookings. E c’è oggi un variopinto panorama di simil fondazioni che punta più all’onnipresenza tv che alla qualità. Mettendo in crisi un intero sistema di Luisa Arezzo Washington, si sa, non se ne può fare a meno. Parliamo dei think tank, vere scuole e fucine di pensiero politico che da oltre cinquant’anni influenzano le scelte della Casa Bianca e del Congresso. Fregiarsi del titolo di scholar è ormai imprescindibile per chiunque voglia contare davvero, così come trovarvisi “parcheggiati” è un eccellente camera di compensazione dopo la fine di un mandato parlamentare, diplomatico e financo presidenziale. Con l’arrivo dei social network, dei Tg e degli approfondimenti h24, poi, ricercatori e professori di ogni ordine e grado sono diventati indispensabili per decifrare e commentare ogni situazione in divenire, dalla crisi economica, alle guerre in corso, dalla corsa elettorale che di fatto in questi quattro anni di presidenza Obama non si è mai fermata, al ruolo delle donne nella società. Il punto è che i think tank non erano nati per questo: erano scuole di pensiero in cui venivano dosate con giudizio nuove teorie politiche e strategie di battaglia sul campo. Per questo erano diventati degli insostituibili strumenti per lavorare al meglio nell’arena. D’altronde, il nome think tank (letteralmente serbatoio di pensiero) era nato durante la seconda guerra mondiale per definire le sezioni speciali del Dipartimento della Difesa che isolavano scienziati, ufficiali ed esperti allo scopo di ragionare sull’andamento del conflitto e sulle prospettive di lungo periodo, in modo da non rimanere schiacciati dalle in-
A
combenze quotidiane (anche se i primi centri di questo tipo risalgono all’inizio del Novecento). E questo dovrebbero continuare ad essere: centri di ricerca, dibattito e riflessione che rimangono un passo indietro rispetto allo scontro politico quotidiano, allo scopo di guardare lontano in termini di strategie, scenari e produzione di ricerca e idee. Ecco, questo non è più, complice anche una crisi economica che da anni restringe i cordoni della borsa di filantropi e finanziatori,
Molte fondazioni oggi assumono neolaureati senza Ph.D. Nel giro di pochi anni la percentuale è scesa dal 53% al 13% portandoli a spendere solo per ricerche sempre più mirate e di corto respiro piuttosto che per grandi affreschi futuristici. Non solo, si è accorciata enormemente la distanza fra gli intellettuali puri e i politici, a danno di quell’aurea di indipendenza di pensiero che garantiva la vera attendibilità del “prodotto”. E questo piano piano sta erodendo il prestigio di queste
fucine finendo per mettere in dubbio la loro imparzialità. Tant’è che sull’ultimo numero di National Affairs,Tevi Troy, senior fellow allo Hudson Institute ed ex vice segretario alla Salute, firma un saggio al veleno sulla svalutazione dei think tank Usa, colpevoli di adeguarsi al detto: “troppo fumo e niente arrosto”.
All’incipiente declino, contribuiscono anche le forze in carica. Se fino alla prima metà degli anni Ottanta nessuno poteva fregiarsi del titolo di research fellow senza avere alle spalle una laurea e un Ph.D, oggi non è più così. Secondo un recente studio in merito condotto da Peter Grabowski, soltanto le fondazioni più blasonate (come i cosiddetti DC-5, le cinque organizzazioni di maggiore dimensione, alias: la Brookings Institution, l’American Enterprise Institute, il Center for Strategic and International Studies, l’Heritage Fundation e il Cato Institute) stanno ancora attente alla vera qualità dei loro studiosi. La maggior delle altre e soprattutte quelle nate dalla fine degli anni Ottanta in poi, imbarcano una serie di brillanti neolaureati con poca o nessuna esperienza alle spalle. I dati sono eloquenti: solo il 13% degli scholars hanno un Ph.D, a fronte del 53% del gruppo dei DC.5. Per carità, possedere un titolo universitario non sempre è sinonimo di serietà e preparazione, ma certamente è un buono strumento di selezione e valutazione. L’altro punto debole di tutta la faccenda, è la confusione sulla vera mission
Woodrow Wilson, il vero pioniere Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, negli Stati Uniti emerge l’esigenza di porre fine al legame troppo corrotto tra potere politico e interessi economici, oltre alla necessità di dare risposta al malcontento sociale (proteste degli agricoltori, conflitti industriali, disagio delle classi medie). È così che tra il 1900 e il 1920 prendono forma i primi centri di ricerca finanziati dal generoso contributo dei pionieri della filantropia americana, allo scopo di sostenere i cambiamenti sociali e politici. Nascono in questi anni alcuni di quelli che diverranno i più prestigiosi think tank americani, tra i quali: la Russell Sage Foundation, sorta nel 1907 e nove anni più tardi la Brookings Institution, con l’obiettivo di razionalizzare la spesa pubblica e diffondere una cultura manageriale nell’amministrazione pubblica; nel 1921 il Council on Foreign Relations, che sostenne il presidente Woodrow W. Wilson nella creazione della Società delle Nazioni, e che nel tempo è diventato una sede quasi istituzionale di confronto politico.
e di cronach
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
di molti di questi centri di ricerca. Facciamo chiarezza: secondo Robert Kent Weaver della Brookings Institution esistano tre tipologie di think tank: le università senza studenti; i contract research think tank (chi lavora soprattutto per committenza pubblica); e i partisan think tank ideologicamente orientati. Ognuna di queste tipologie è frutto di una diversa frattura storica avvenuta nel sistema politico americano: per esempio, i contract research think tank – come la Rand Corporation di Washington - sono figli dell’impegno del governo americano nel periodo della guerra fredda. La guerra ideologica degli anni ’70, che ha prodotto la rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan, ha generato istituti come la Heritage Foundation e il Cato Insti-
Negli ultimi tre decenni c’è stata una vera esplosione di istituti e da circa 50 si è passati almeno a 350. Difficile orientarsi
Contro il prezzo fisso nasce l’Aei Alla fine degli anni Trenta, alcuni critici cominciarono a far notare che benché sulla carta le prime fondazioni fossero formalmente bipartisan, di fatto contribuivano soprattutto ad incrementare studi favorevoli alla sinistra. E così, nel 1938, un gruppo di businessman di New York e di economisti orientati al liberalismo, decisero di “scendere in campo” e fondare l’American Enterprise Association. Ma quando, a metà della Seconda guerra mondiale, alcuni funzionari di Washington cominciarono (sulla spinta degli scholar della Brookings) a discutere della possibilità di mantenere anche dopo la fine del conflitto i prezzi fissati in tempo di guerra e il controllo sulle produzioni al fine di scongiurare una nuova grande depressione economica, i leader dell’Aea decisero di aprire un ufficio a Washington per incidere maggiormente sulle scelte del Congresso. Cambiando nome, nel 1943 nacque l’American Enterprise Institute.
tute; la voglia di riscatto dei liberal ha fatto sì che in questo decennio nascessero centri come il Center for American Progress o il National Security Network. Secondo Tevi Troy, il mondo dei think tank americani è cambiato, come ho già scritto sopra, soprattutto a partire dagli anni Ottanta (basti pensare che negli ultimi tre decenni i think tank con base a Washington sono passati da circa 50 a circa 350), per via di due fattori fondamentali: la moltiplicazione dei settori di intervento pubblico – che ha prodotto una miriade di centri “single-issue” - e la creazione di molti centri di orientamento conservatore più aggressivi nello stile e nelle tecniche di marketing delle idee.
Non solo: l’esplosione delle tv via cavo e di internet, poi, ha moltiplicato in modo esponenziale la richiesta di instant expertise, trasformando sempre di più i think tank in macchine della comunicazione, tant’è che per i finanziatori la possibilità di osservare con costanza la presenza mediatica di questi ultimi è divenuto un criterio guida per l’allocazione delle risorse, ponendo fine a quel modello di filantropia che veniva definito patient money. Come risolvere allora la questione e tornare a puntare sulla qualità e imparazialità piuttosto che sulla qualità e il credo politico (peraltro la querelle attanaglia già da adesso la campagna elettrale in corso)? Forse avendo ben chiara la propria mission e rispondendo ad alcune domande base: quale aspetto si intende favorire? Quello del centro di ricerca, del forum informale di discussione, dello strumento di informazione, della consulenza, dello strumento di pressione (il cosiddetto issue lobbying), del “watchdog” che passa ai raggi x l’azione di governo. E ancora, con quali strumenti e per quale audience? Un club di élite, una vasta comunità di spettatori informati, le istituzioni e i governi, il grande pubblico? Domande disattese negli ultimi anni, presi come si era ad ottenere il maggior numero possibile di clienti e di risorse (non dimentichiamo che il bilancio di un think tank non è roba da poco: nel caso dei DC5 siamo nell’ordine di decine di milioni di euro e uno staff di almeno 150 persone). Ma domande sulle quali bisogna incominciare a riflettere sul serio, perché il rischio, viceversa, può essere fatale.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
cultura
pagina 14 • 5 gennaio 2012
Viaggio storico e culturale in un secolo dominato dall’editore piemontese di cui sono stati ripubblicati i ”Frammenti”
Memorie di uno “Struzzo” La cultura italiana ha celebrato cent’anni dalla nascita di Giulio Einaudi: ecco come di Gabriella Mecucci In alto, da sinistra a destra, i genitori Luigi Einaudi e Ida Pellegrini; Giulio Einaudi con Barral e Gallimard; l’editore con Calvino e Huzlev; gli scrittori Fernanda Pivano, Cesare Pavese, Leone Ginzburg con Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli
anto incensato per quanto vituperato: Giulio Einaudi - di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita - ha diviso in due l’Italia. Per una parte è stato il fondatore della più importante casa editrice nazionale, uno scrigno che ha custodito e promosso la cultura, che l’ha arricchita e sprovincializzata traducendo le opere dell’ingegno europeo e americano. Per l’altra parte ha invece subito e seguito le indicazioni del Pci, proposto e cassato autori, a seconda delle inclinazioni togliattiane. E non è solo la sua impresa editoriale a dividere, ma anche il suo carattere, la sua personalità. C’è chi dice che sia stato un uomo di grande ingegno, un trascinatore capace di ascoltare gli altri, di farli partecipare alle decisioni. Non un editore padrone, ma un principe illuminato che ama il lavoro di gruppo, che sa attizzare contrasti per provocare benefici scatti dell’intelligenza. E c’è chi lo descrive come un uomo gentile, signorile, coraggioso.
T
Ma c’è chi, al contrario, lo dipinge come un personaggio pieno di sé, antipatico, divenuto grande grazie ai consigli dei suoi due primi amici e collaboratori: nientemeno che Leone Ginzburg e Cesare Pavese. E poi c’è chi lo vede come un imprenditore fallito che ha condotto l’Einaudi, ormai piena di debiti, in bocca a
Berlusconi. E chi sostiene l’esatto contrario e ne coglie la genialità anche nella conduzione degli affari più recenti. Insomma, il divino Giulio è stato un pomo della discordia. E lui se ne addolorava e insieme se ne compiaceva. Guardava tutto questo con i suoi splendidi occhi cerulei e con un sorriso iro-
nizio il mio interesse per il libro più che dalla lettura era determinato dal piacere del contatto fisico. Da qui forse è derivata la cura eccezionale che ho sempre dedicato nel mio lavoro alla scelta dei caratteri e della stampa, alla legatura, all’impaginazione, alla grafica». E infatti, quando ti mostrava la sua bi-
Ha diviso in due l’Italia. Per una parte è stato il fondatore della più importante casa editrice del Paese. Per l’altra ha seguito le indicazioni del Pci, proposto e cassato autori in base ai gusti di Togliatti nico che aggiungevano fascino al fascino: era uno degli uomini più belli e attraenti mai visti. E lo sapeva bene. Amava la vita, le donne, il piacere, il Barolo. Ma soprattutto amava i libri. Infinitamente. Con un trasporto che in alcuni momenti toccava punte di erotismo. Del resto lui stesso ha raccontato nel suo Frammenti di memoria, che “nottetempo” ha ripubblicato proprio in questi giorni: «All’i-
blioteca o qualche “prima edizione” di quelle storiche - dalla Crisi della Civiltà di Huizinga alle poesie di Montale e di Saba - ne accarezzava le copertine (disegnate da Francesco Menzio) con una sorta di voluttà. Lo sguardo s’illuminava e vibrava come un amante al primo incontro. Era un piacere della mente ma anche del tatto. Generoso o antipatico che fosse, era capace di una grande, au-
smo si accorge immediatamente della qualità e quindi della “pericolosità” del progetto. In una nota della polizia alla segreteria particolare di Mussolini si trova scritto che la casa editrice «avrà il compito di diffondere pubblicazioni antifasciste abilmente compilate». L’Ovra, dopo aver segnalato che si sono svolte riunioni a Torino, Milano, Firenze per «aggruppare gli azionisti e i sovventori», ricorda che fra questi ci sono «Nello Rosselli, fratello del fuoriuscito; il senatore Ruffini, Luigi Einaudi, il senatore Della Torre» e altri non meglio identificati «professionisti torinesi e milanesi». Il documento è del ’34 e quello stesso anno uscì per la casa editrice il primo volume: Che cosa vuole l’America?, di Henry Agard Wallace, allora vicepresidente degli Stati Uniti, con una coraggiosa prefazione di Luigi Einaudi.
tentica, contagiosa passione. Nato a Dogliani in provincia di Cuneo da una famiglia alto borghese, figlio di Luigi Einaudi, grande economista liberale e bibliofilo appassionato (ci fu lui dietro la scelta di pubblicare Huizinga) che diventerà Presidente della Repubblica, Giulio frequenta il Massimo D’Azeglio, leggendario liceo torinese dove - maestro Augusto Monti si forma una parte importante dell’intellighenzia e della classe dirigente nazionale: da Pajetta a Vittorio Foa, da Susanna Agnelli a Cesare Pavese (soprannominato Ces o Paves), da Bobbio (Bindi) a Geymonat, da Mila ad Argan. Si forma così la famosa “confraternita” degli ex allievi del D’Azeglio a cui si è aggiunto “il barbuto lion degli Urali” e cioè Leone Ginzburg.
Un gruppo formidabile. Molti di loro resteranno amici per tutta la vita. E altri ne arriveranno: prima fra tutte Natalia Levi Ginzburg che racconterà le loro storie, le loro discussioni
nel suo libro più bello, Lessico famigliare. È dell’epoca del D’Azeglio l’incontro di Giulio con Piero Gobetti, allievo del padre, che letteralmente lo conquistò ma che non rivide più. Ed è ancora antecedente il suo primo innamoramento, a 16 anni, per una coetanea, ricordando la quale più avanti scriverà la citazione è di Elsa Morante: «L’amore si fa con gli occhi». È ancora poco più di un ragazzo (ventuno anni) quando - il 15 novembre del 1933 fonda la “Giulio Einaudi editore” che s’installa in via dell’Arcivescovado 7, nello stesso palazzo dove lavora un altro gruppo di intellettuali-politici: si tratta di Antonio Gramsci che fissa al piano di sopra la sede dell’Ordine Nuovo. Sin dall’inizio, dunque, il divo Giulio, di provenienze famigliari liberali, è persino fisicamente contiguo ai comunisti. La nuova impresa però ha un imprinting culturale che gli deriva dai due grandi “santi protettori”: Cesare Pavese e Leone Ginzburg. Il fasci-
L’attività a via dell’Arcivescovado ferve quando scatta la repressione del regime: il primo ad essere arrestato nel 1934 è Ginzburg. L’anno dopo ci sarà la grande retata dell’intero gruppo di “Giustizia e Libertà”, tradito dallo scrittore-spia Pitigrilli, e finirà in carcere anche Giulio, ma riuscirà a cavarsela abbastanza rapidamente. Alcuni dei fermati - i più impegnati nella lotta clandestina come Massimo Mila e Vittorio Foa vi resteranno per quasi nove anni. Altri come Ginzburg e, per un tempo più breve, Cesare Pavese verranno spediti al confino. I due non smetteranno mai - anche in quegli anni durissimi - di dare buoni consigli all’amico imprenditore. Sta di fatto che tra il ’34 e il ’44, l’Ei-
chiederà come pagamento «n.1 pipa, onde fumarmela e preparare in serenità altri e più seducenti racconti». L’Einaudi diventa un faro di cultura e di sprovincializzazione: si aggiungono come collaboratori Giaime Pintor, Antonio Giolitti, una giovanissima Fernanda Pivano che farà conoscere agli italiani l’Antologia di Spoon River. E poi: Elsa Morante e Natalia Ginzburg che, nell’immediato dopoguerra, tradurrà la Recherche. Più avanti arriveranno Calvino e Vittorini. Dopo il ’45 nacque il rapporto fra Giulio Einaudi e Palmiro Togliatti: tra i due ci fu un lungo carteggio in preparazione della pubblicazione dei Quaderni di Antonio Gramsci. Nel 1944 però la casa editrice aveva perso - torturato e ucciso dai tedeschi - il suo primo “dioscuro”: Leone Ginzburg. Di lui è stato scritto che se Giulio fu il principe-imprenditore dell’Einaudi, al “lion degli Urali” spettava di diritto il ruolo di direttore editoriale, di ispiratore profondo. Per tutti fu un colpo durissimo. Nonostante ciò il regno del divo Giulio cresceva e si ampliava: il mercoledì il meglio della cultura italiana s’incontrava a Torino e quelle riunioni diventeranno leggendarie.
Del resto la casa editrice usciva dalla guerra e dal fascismo non solo con un catalogo straordinario, ma col titolo ben meritato di grande oppositrice del regime. Dopo Ginzburg, però, Giulio Einaudi perse l’altro grande socio fondatore: Cesare Pavese che si suicidò in un albergo di Torino. E, col tempo, arrivarono anche le prime decisioni oggetto di polemiche. La
«All’inizio - disse - il mio interesse per il libro era determinato dal piacere del contatto fisico». Da qui derivò la sua cura eccezionale per «la scelta di caratteri, legatura, impaginazione, grafica...» naudi pubblicherà, su loro indicazione, libri fondamentali. Dalla traduzione dei grandi classici europei, a partire da Goethe, alla letteratura anglosassone, da Dickens a Melville, tradotti da Pavese. Con un racconto di quest’ultimo, Paesi Tuoi, verrà inaugurata la collana “gli Struzzi”, libri difficili, “indigeribili” solo allo stomaco di quell’animale. Ces - come lo chiamavano - al suo esordio,
casa editrice, dopo lo scontro fra Togliatti e Vittorini sulla linea culturale del Politecnico, decise la chiusura della rivista. Giulio Einaudi ha sempre sostenuto che accadde perché la pubblicazione non aveva più mercato, ma più d’uno vide in quella scelta un gesto di ossequio al leader del Pci. E poi ci fu la bocciatura del Dottor Zivago e del Gattopardo, entrambi pubblicati da un giovane e
rampante Giangiacomo Feltrinelli. Perché l’Einaudi disse di no? Anche su questo punto le interpretazioni sono state diametralmente opposte: fu per ossequio ai comunisti o fu semplicemente per errore? C’è chi racconta che in una delle famose riunioni del mercoledì, del romanzo di Tomasi di Lampedusa si disse che non avrebbe venduto più di tremila copie. Quanto a Pasternak la decisione è ancora più incomprensibile visto che a segnalarlo erano stati due slavisti d’eccezione: Vittorio Strada e Renato Poggioli, quest’ultimo da tempo insegnava negli States. Quello che è sicuro - altra scelta incredibile - è che Giulio Einaudi si impuntò e non volle pubblicare l’opera integrale di Nietzche. Di questo e di altro venne accusato da Ernesto Galli della Loggia che aprì il fuoco della polemica contro la casa editrice torinese a partire dagli anni Settanta, accusandola appunto di essere dipendente nelle sue scelte dal Pci. Il divo Giulio ne fu molto addolorato. E toccò ad un altro einaudiano, nonché grande amico, difenderlo: fu Norberto Bobbio infatti a scendere in campo ricordando i meriti della casa editrice che aveva pubblicato un autore come Renzo De Felice. Un anticomunista e un grande storico del fascismo che ne aveva dato una lettura molto distante dalla vulgata della sinistra più o meno ortodossa. Ma se l’Einaudi prese qualche decisione sbagliata, e se non fece tutto il possibile per divulgare i grandi autori del dissenso dell’Est, continuò però a portare in Italia il meglio della cultura europea: valga per tutti l’esempio di Thomas Mann che quando venne nel nostro Paese osservò come questo «fosse davvero liberale» visto che gli intellettuali più importanti si dichiaravano comunisti senza subire nessuna forma di emarginazione. Anzi.
Oggi la casa editrice è ancora un luogo importante di produzione e organizzazione culturale: fa parte dell’arcipelago Mondadori, in mano a Silvio Berlusconi che la salvò dal fallimento. Una dura replica della storia. Giulio Einaudi è morto nel 1999: il suo lascito, al netto delle polemiche, è comunque straordinario. Il suo amore per i libri è durato sino all’ultimo respiro.
ULTIMAPAGINA Ricerca di “Divorce online” su 5mila richieste di separazioni nel Regno Unito: nel 33% dei casi è colpa del social network
Finché «Facebook» non ci di Angela Rossi eggio del vaso di Pandora. Azzardarsi ad aprire Facebook pare equivalga a far uscire fuori tutti i mali. Basta iscriversi gratuitamente e connettersi e si scopre che, stando almeno a studi recenti di prestigiose università americane e britanniche, il sito inventato dal giovane Mark Zuckeberg è causa di divorzi, coppie scoppiate, fine di amicizie decennali, canale telematico preferito da stalker e molestatori vari e chi più ne ha più ne metta… Certo non lo immaginava il giovane Mark quando ci si è dedicato con l’intenzione, almeno quella dichiarata, di facilitare la vita, aiutando a ritrovarlo, a chi aveva perso di vista un compagno di scuola o un lontano parente. Stando invece ai risultati dell’Università dell’Ohio è colpevole anche di scarso rendimento scolastico, tanto da allarmare addirittura più di un pediatra e numerosi esperti, e soprattutto è il principale responsabile di litigi e divorzi. Ricerche supportate anche dal sito inglese Divorce online, secondo il quale sono in aumento esponenziale le coppie che chiedono di mettere fine al matrimonio a causa di commenti e foto pubblicati sul celebre social network.
P
Addirittura un terzo delle richieste di divorzio, nel Regno Unito, sarebbero imputabili proprio a Facebook. Una statistica elaborata su cinquemila richieste arrivate al sito. Dati che corrispondono sia alle ricerche statunitensi sia a quelle inglesi. Numeri e cifre comuni. Il trentatré per cento di colpa rispetto ad appena lo 0,4 di Twitter, presunto innocente. Le cause principali? Messaggi inappropriati a persone dell’altro sesso specie in casi di coppie già separate e indiscrezioni sui comportamenti del partner da parte di amici di Facebook. Ma non è finita qui. Uno dei rischi maggiori è quello di ritrovare vecchi amori. «Facebook è diventato il mezzo primario di comunicazione – spiegano gli autori della ricerca, eseguita come detto su un campione di cinquemila richieste – ed è il posto più facile dove avere un’avventura extraconiugale. Le persone devono stare più attente a quello che scrivono, anche perché le corti dei tribunali stanno iniziando a usare i post come fonte di prova. E infatti, primo caso nel settore è stata proprio una Corte del Connecticut, che ha obbligato marito e moglie che stavano divorziando a fornire alla controparte le rispettive password. Un caso eclatante che è andato a pieno titolo nelle percentuali statistiche. Ancora, appena tre anni fa, nel 2009, sempre in Gran Bretagna, un uomo ha sparato alla moglie dopo che questa aveva cambiato su Facebook il suo stato civile da “coniugata” a “libera” a seguito di una discussione accesa. E secondo gli autori della ricerca, le cifre dei divorzi sono destinate ad aumentare nel prossimo futuro. Se due anni fa erano solo il 20 per cento, entro il 2015 diven-
SEPARI teranno invece la maggioranza. Un fenomeno che ha trovato una cassa di risonanza anche da noi in Italia e che ha spinto l’“Associazione avvocati matrimonialisti”a intervenire tramite il suo presidente nazionale. «Il tradimento prende le mosse dalla Rete e nasce sempre più spesso sotto forma di bit - ha sottolineato alle agenzie di stampa Gian Ettore Gassani, autore anche del saggio I Perplessi Sposi - Sul banco degli imputati finiscono i social network, che anche in Italia i sono diventati una delle cause più frequenti di infedeltà coniugale e di separazione e divorzi». E le statistiche confortano il suo intervento. Nel Belpaese infatti almeno il venti per cento delle crisi matrimoniali che arrivano in Tribunale - secondo il presidente dell’Ami - sono causate da Facebook (l’ottanta per cento del totale) e da Twitter (che però si limita al solo venti per cento). Denunciato già dall’associazione matrimonialisti statunitensi e confermato dall’Ami.
I tradimenti riguardano coppie di ogni età, anche quelle sposate da oltre trent’anni. Il contatto sul social network di virtuale e po-
co reale ha solo il primo approccio. Subito dopo si trasforma in incontro vero e proprio e, stando al Centro Studi dell’Ami, il settanta per cento addirittura si trasforma in scappatelle e il trenta per cento si evolve in storie durature e parallele.
Ormai gli scambi di messaggi su Facebook equivalgono a vere e proprie prove che vengono portate in tribunale e sottoposte ai giudici.
I «comportamenti probatori» sono: messaggi inappropriati a vecchie fiamme, malignità sul proprio partner e soffiate sugli atteggiamenti del marito o della moglie fatte da amici «Ed è fiorente - assicura Gassani - il commercio di software per risalire alla password del coniuge iscritto su Facebook o Twitter. Anche il tradimento virtuale può essere causa di divorzio e di addebito». Un merito però il social network che conta il maggior numero di iscritti al mondo ce l’ha: ha messo d’accordo il Sud e il Nord, almeno in Italia. Alla faccia delle spinte leghiste di secessione. «Nel Sud si tradisce su Facebook come nel Nord - conclude il presidente Gassani - E questa è un’altra novità interessante».