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ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Domani, per la festività dell’Epifania, liberal non sarà in edicola. Appuntamento dunque a martedì

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 6 GENNAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Nota del Colle in mattinata: «Il nostro Paese è affidabile sul debito». Ma i mercati restano in affanno

Vai Mario, convinci l’Europa Oggi con Sarkozy inizia il tour per costruire una vera Unione Borse giù, spread oltre 500: ieri Monti a sorpresa a Bruxelles per il nuovo Trattato. Napolitano lo incoraggia. Parigi e Roma possono far cambiare idea alla Merkel che il premier vedrà mercoledì DEFAULT GRECIA

PUÒ ESSERE DECISIVA L’ITALIA?

Un accordo entro marzo, o l’Euro affonda

LA MALFA: «ORA MONTI METTA IL VETO AL PATTO DI BILANCIO» Se c’è un dato che accomuna tutti i leader europei, è la pregiudiziale che il quadro interno di ciascuno esercita rispetto al modo di porsi nell’Unione. Lo sottolinea Giorgio La Malfa, parlando dei vincoli che Sarkozy e Merkel hanno con l’opinione pubblica e di ciò che dovrebbe fare Monti.

di Enrico Singer desso tutti gli occhi sono puntati sugli incontri che Mario Monti avrà oggi pomeriggio a Parigi con Sarkozy, mercoledì prossimo a Berlino con la Merkel e una settimana dopo con Cameron a Londra in vista del vertice straordinario della Ue che, il 30 gennaio a Bruxelles, dovrebbe coniugare rigore e sviluppo. Salvare l’euro, ma salvare anche l’Europa dalla recessione che si annuncia inesorabile se l’unica risposta alla crisi sarà il rigore senza la crescita. Forse i ventisette riusciranno a fare il miracolo, a vincere le resistenze della Germania, a rimettere in moto l’economia dopo avere avviato il risanamento dei bilanci. segue a pagina 2

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BRUNI: «NOI E LA FRANCIA DOBBIAMO FAR CAMBIARE ROTTA A BERLINO»

I corrispondenti francesi

Le Monde e Libé: «L’alleanza tra noi ora è obbligatoria» Parlano Ridet e Jozseph: «Le debolezze comuni ci impongono di premere insieme sui tedeschi»

RUSCONI: «ATTENTI, L’EUROPA ANCORA NON SI FIDA DI NOI» Ci sono i cicli dell’economia. E i cicli della politica. Secondo Gian Enrico Rusconi, le difficoltà maggiori forse non vengono dalla crisi del debito in senso stretto. «C’è un problema di classe dirigente a sovrastare tutto. Ed è un problema avvertibile e decisivo innanzitutto per la Germania».

Francesco Lo Dico e Errico Novi • pagine 4 e 5

Riccardo Paradisi • pagina 3

La sicurezza muore di demagogia La violenza di Roma dimostra che non si governa con gli slogan di Giancristiano Desiderio

Le strategie sbagliate di Prodi e Berlusconi

a trappola mortale della paura è da evitare. Invece, Roma c’è dentro fino al collo. Gianni Alemanno, sindaco della capitale che fa paura, ha vinto le elezioni con una campagna elettorale il cui cavallo di battaglia era proprio la paura. Alemanno ha vinto. Roma ha perso. La bimba di nove mesi uccisa a pistolettate è solo l’ultimo di una troppo lunga serie di drammi. a pagina 6

Pesano anche i tagli alle forze dell’ordine

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di Achille Serra a scia di sangue che da mesi corre inarrestabile per le vie di Roma è drammatica da più punti di vista. Oggi è terribile perché piangiamo anche una neonata, la prima vittima del 2012, dopo un 2011 da record nero: 33 omicidi. a pagina 7

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

Lettera ai nuovi re Magi del Pil

«Non conviene a nessuno avere un’Europa sottomessa alla Germania, e l’incontro di Monti con Sarkozy ci fa ben sperare», dice Luigino Bruni. «In questo brutto frangente, vale per la Merkel la lezione di Kohl: l’Unione non nasce per germanizzare l’Europa, ma per europeizzare la Germania».

Gli esperti balistici: i banditi hanno sparato per uccidere la bambina di nove mesi

EURO 1,00 (10,00

La Befana della speranza

NUMERO

4•

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

di Paola Binetti e c’è un’emozione indimenticabile strettamente legata alla nostalgia della nostra infanzia è quella che accompagna la notte dell’Epifania, la vigilia della Befana. Ricordiamo la voglia struggente che qualche volta ha accompagnato un desiderio speciale, qualcosa su cui abbiamo concentrato la nostra fantasia e la nostra immaginazione durante tutto il tempo di Natale. Abbiamo chiesto quella cosa, che per noi aveva un sapore magico, con un’insistenza ai limiti della petulanza e siamo riusciti di volta ad intenerire i nostri genitori, strappando loro una promessa, o ad irritarli fino ad ottenere un no secco, che ci faceva sprofondare nella tristezza. Ma abbiamo sentito tutta l’energia interiore che si comunica a chi desidera davvero qualcosa e spera di poterla ottenere, per cui si dice disposto a qualsiasi sacrificio, perfino a quello di essere buono! L’Epifania è uno spartiacque che chiude il periodo delle vacanze di Natale. a pagina 8

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19.30


Default greco e vendita di titoli italiani e spagnoli

Un accordo entro marzo, o l’Euro affonda

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pagina 2 • 6 gennaio 2012

di Enrico Singer segue dalla prima Ma se non dovesse essere così, questa volta non ci sarà più spazio per un altro rinvio, per l’ennesimo compromesso, perché c’è un punto di non ritorno, una data di cui ancora poco si parla, ma che è dietro l’angolo: è il prossimo mese di marzo. È in marzo che la Grecia fallirà se non sarà varato il Meccanismo europeo di stabilità: lo strumento che dovrebbe prendere il posto del Fondo salva-Stati che deve ancora ad Atene gli otto miliardi di euro promessi e mai versati che sono indispensabili al nuovo governo di Lucas Papademos per tacitare i creditori privati (le banche e i fondi sovrani di mezzo mondo) e per pagare anche le pensioni e gli stipendi.

Non solo. In marzo scadranno anche gli otto miliardi di euro di Bot semestrali che il Tesoro italiano ha collocato in ottobre: non è il debito della Grecia, certo. Ma sono, comunque, soldi da rifinanziare e a tassi molto più alti del 3,071 per cento fissato in quell’asta di appena tre mesi fa. La scadenza dei Bot è il 30 marzo. A metà del mese – data che coincide con le fatali Idi di marzo quando, nel 44 avanti Cristo, fu assassinato Giulio Cesare – è già in programma il Consiglio europeo di primavera. E quella sarà davvero l’ultima spiaggia. Un accordo per stabilizzare l’euro da trovare nelle prossime settimane potrebbe essere messo nero su bianco in tempo per ridurre lo spread tra i nostri titoli e i Bund tedeschi che sono ormai diventati la pietra di paragone dei tassi debitori di tutti i Paesi di Eurolandia. E sarebbe anche il giusto premio per la politica di austerità varata dal governo Monti. A proposito di rimborso di Bot, alla fine di marzo anche la Spagna deve onorare 3,75 miliardi di Bonos semestrali. Ma la vera bomba innescata è la Grecia. Lucas Papademos, ha detto che, per Atene, la prospettiva è quella di un default disordinato se non si troverà un accordo con i creditori internazionali sul nuovo piano economico del governo che prevede nuovi tagli, ma che fa anche affidamento sugli otto miliardi di finanziamenti europei che Angela Merkel ha, finora, bloccato. La strategia della Cancelliera è nota: prima la revisione del libro delle regole dell’euro, poi la riapertura dei cordoni della borsa.

È una terapia che rischia di soccorrere il malato quando questo sarà già morto. Tra pochi giorni tornerà nella capitale greca la “troika” (Ue, Fmi, Bce) che deve valutare la situazione e Papademos punta le sue speranze sui tecnici che dovrebbero poi convincere il fronte dei politici duri – anche l’Austria, la Danimarca e la Finlandia sono sulla stessa linea della Germania – a considerare le conseguenze di quello che potrebbe succedere in caso di fallimento della Grecia. Una previsione molto cruda quanto realistica l’ha fatta l’attuale governatore della Banca di Grecia, Georges Provopoulos, in un’intervista pubblicata dal quotidiano liberale Kathimérini. Con il ritorno alla dracma, il Paese che dipende largamente dalle importazioni si ritroverebbe senza carburante, materie prime, prodotti agricoli. La gran parte dell’apparato dello Stato – le scuole, gli ospedali, la polizia, lo stesso esercito – funzionerebbe al rallentatore, le condizioni economiche e sociali diventerebbero insopportabili, la qualità della vita si abbasserebbe vertiginosamente perché la nuova moneta sarebbe svalutata del 60-70 per cento. In una parola, ha detto Provopoulos, sarebbe l’inferno.Vale la pena aspettare davvero le Idi di marzo?

Prima del vertice all’Eliseo, ieri «visita privata» a Bruxelles per il Trattato

Il Grand Tour di Mario Monti Il premier oggi da Sarkozy: serve subito una strategia comune per convincere Merkel che per salvare l’Euro il rigore non basta. Spread e Borsa in affanno (Milano a -3,65) di Marco Palombi

ROMA. Stavolta almeno avrà potuto invitare a cena chi voleva senza che Calderoli mettesse becco: Mario Monti, infatti, ieri è volato a sorpresa a Bruxelles - dove ha un appartamento suo proprio dai tempi in cui era commissario europeo - per una visita in forma privata. E da lì stamattina ripartirà alla volta di Parigi per incontrare Nicolas Sarkozy. È cominciata così la campagna d’Europa del presidente del Consiglio in vista dell’Eurogruppo del 23 gennaio e del vertice continentale di una settimana dopo.

Monti si è fatto precedere da una intervista uscita mercoledì su Le Figaro e da una sorta di lettera di raccomandazione di Giorgio Napolitano. «L’Europa non deve temere l’Italia», anche perché «abbiamo fatto il nostro dovere e ne sono convinti tutti gli analisti», ha messo le mani avanti il premier col giornale francese. Comunque, «il mio governo non è in carica per sopravvivere ma per fare un buon lavoro». Poi la questione della locomotiva franco-tedesca o dell’asse “Merkozy”, come lo chiamano a Strasburgo: «Due paesi su 27, per quanto siano i più grandi, non possono decidere per tutti gli altri», il loro accordo «non è sufficiente». La soluzione è resuscitare «l’approccio comunitario» alla soluzione dei problemi: «Non semplicemente per l’ideale, ma perché ciò evita le derive del metodo intergovernativo che abbiamo sperimentato nel 2003 ai tempi della discussione del patto di stabilità». Presa di posizione rafforzata ieri mattina dalle parole del presidente della Repubblica: «Monti ha tutti i titoli per poter porre all’Ue questioni che riguarda-

no il modo di garantire rigore e crescita in Europa. Inoltre il decreto approvato dal Parlamento è la prova concreta di come l’Italia sia, anche dal punto di vista del debito pubblico, affidabile. Mi pare che questo sia il senso delle dichiarazioni che il Presidente Monti ha fatto, poi vedremo quali sono esattamente le proposte del governo italiano al tavolo delle discussioni preparatorie del Consiglio europeo di fine gennaio». Poi, forse un po’ influenzato dal clima delle feste, Napolitano s’è spinto anche ad una previsione sulla politica italiana: «Rispetto alla fase precedente c’è meno rassegnazione all’impossibilità di concordare riforme, più apertura e contatti in corso che spero approdino a risultati in materia di riforme istituzionali ed anche qualcuna con implicazioni costituzionali», ha sostenuto il capo dello Stato.

Questo nuovo ruolo dell’Italia in Europa e la sua affidabilità economica e concordia politica non sembrano però aver convinto i mercati. Ieri, trascinata dai titoli bancari (Unicredit su tutti), la Borsa di Milano ha fatto l’ennesimo tonfo (ha chiuso a -3,65%) e il famoso spread - la differenza tra quanto paga la Germania per vendere debito a dieci anni e quanto paga l’Italia è tornato a volare attorno a quota 520. Significa che sui Btp ieri si pagava un interesse superiore al 7%, una soglia psicologica rilevantissima, oltre la quale le preoccupazioni degli investitori possono cominciare ad autoalimentarsi. Scenario terribile. Se le cose non dovessero tornare alla normalità a breve, il costo del debito per l’Italia potrebbe rivelarsi insostenibile: ba-


«Roma e Parigi? È un asse obbligato» I corrispondenti di Le Monde e Libération: «Uniti faranno più pressione sulla Germania» di Riccardo Paradisi n francese, un tedesco e un italiano. Non è l’incipit delle vecchie barzellette che sceneggiavano i caratteri nazionali dei popoli europei stretti da cuginanze storiche ma anche divisi da secoli di conflitti durissimi. È il quadro della nuova cabina di regia europea composta dalla cancelliera Merkel, dal presidente del consiglio Monti e dal presidente francese Sarkozy alle prese con la crisi economica e finanziaria .

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Una triade nata nel recente vertice di Strasburgo che tenterà nelle prossime ore e nei prossimi giorni di immaginare una governance più adeguata dell’Unione con una serie di incontri trilaterali: oggi quello tra Monti e Sarkozy, lunedì 9 il summit franco-tedesco a Berlino, l’11 quello italo-tedesco. L’osso duro, naturalmente, è Angela Merkel e la linea di resistenza tedesca a una riforma della strategia adottata fin qui penalizzante per l’Europa. Su questa linea d’orizzonte, portare cioè la cancelliere a più miti consigli, sarà fondamentale la qualità del rapporto che s’instaurerà tra Monti e Sarkozy, la nascita insomma d’un informale asse franco-italiano capace di bilanciare e condizionare la linea tedesca. D’altra parte da quando i mercati sono tornati in fibrillazione nel mirino della speculazione non ci sono più solo Grecia e Italia ma anche Spagna e Francia e sulle piazze l’incubo di un declassamento per Parigi - oltre che di un altro downgrading per l’Italia – si fa sempre più concreto. Sarà anche per questo che il baldanzoso Sarkozy lo è sempre di meno. Come dice con una battuta

Philippe Ridet, corrispondente di Le Monde in Italia «Adesso che la Francia sta per perdere la tripla A il presidente è più incline a fare asse coi più deboli italiani che coi più forti tedeschi». È una battuta ma dà il senso del modificarsi del quadro politico europeo. Del resto, come si diceva, non è che l’asse franco tedesco abbia portato a dei risultati e anche i tedeschi avvertono l’esigenza d’una maggiore condivisione della responsabilità, anche per allentare la pressione che una leadership sempre più esclusiva sta attirando su di

Ora che la Francia sta per perdere la tripla A l’Eliseo è più incline a fare asse coi più deboli italiani che coi più forti tedeschi sé. Va però tenuto in conto che se Sarkozy e Monti hanno interessi comuni, riforma della Bce e eurobond, tra i due ci sono anche grandi differenze. «Sono politici che abitano due pianeti opposti per generazione, mentalità e metodo d’azione – dice ancora Ridet – possono trovare dei punti d’intesa su delle contingenze che li uniscono ma di più sarà difficile». Si conoscono le contingenze in cui lavora Monti in Italia ma non sono facili nemmeno quelle di Sarkozy che sul prossimo orizzonte ha la campagna elettorale per l’Eliseo. La maggioranza dei francesi pensa che l’Europa sia ancora una chance ma non questa Europa, con la Francia sotto schiaffo e la Germania pa-

sti dire che nel 2012 - come ha spiegato la direttrice del Dipartimento Debito pubblico del Mef, Maria Cannata - l’Italia dovrà piazzare sul mercato titoli per 440 miliardi, molti dei quali già tra gennaio e marzo.

Monti non è peraltro solo in questa emergenza: ieri la Francia ha venduto buoni per 9 miliardi registrando uno spread assai alto (150 punti sui Bund tedeschi) e pure i Bonos spagnoli hanno cominciato a viaggiare attorno al 4% in più rispetto ai titoli di Berlino, e questo nonostante la Bce abbia ripreso a comprare titoli italiani e spagnoli sul mercato secondario. Gli investitori sembrano, insomma, convinti che è il sistema dell’euro che non riuscirà a tenere e questo può essere considerato anche un voto di sfiducia per le politiche rigoriste e deflattive che Angela Merkel e i paesi del Nord Europa cercano di imporre (con qualche ragione) ai loro partner del Mediterraneo e non solo. Per questo ieri il presidente del Consiglio ha anticipato di un giorno il suo tour nelle capitali europee andandosene a Bruxelles: nessun incontro ufficiale in programma, ma c’è da scommettere che Monti non era nella città sede del governo comunitario per comprare cioccolata o rivedere i vecchi amici. Il fatto è che stamattina partono le trattative tecniche sul nuovo Trattato europeo, in cui gli sherpa dei governi e della commissione dovranno cominciare ad analizzare gli emendamenti presentati dai singoli paesi ad una bozza di testo a trazione tedesca: molti vincoli di bilancio, misure draconiane sul contenimento

drona. «La salvezza politica di Sarkozy potrà venire dai risultati ottenuti sul fronte europeo, anche perché i suoi avversari faranno una campagna su un’Europa diversa da quella che conosciamo». Non sarà facile però far cambiare idea ai tedeschi. Anche perché finora la linea Merkel ha garantito alla Germania buoni frutti. Per questo, come dice Eric Jozseph di Liberation l’apporto di Monti sarà essenziale «Non solo perché l’Italia sta rimettendo i conti a posto ma perché Monti è uno specialista dell’Europa e questo rinforza la credibilità della posizione alternativa alla linea tedesca. Per questo un eventuale asse franco-italiano sarebbe importante».

L’attivismo di Sarkozy è stato sempre molto forte ma in concreto fino ad oggi è sempre passata la linea tedesca. «Chi impone il ritmo resta la Germania e finora Sarkozy ha fatto buon viso a cattivo gioco ma con l’aggirarsi della crisi anche a Parigi e l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali il presidente sente l’esigenza di presentare un piano di rilancio dell’euro che salvaguardi la Francia, dimostrando così la migliore soluzione per l’Eliseo è ancora lui». La diffidenza verso l’Europa in Francia è antica. Il trattato costituzionale è stato rigettato nel 95 al 55%: «Abbiamo sinistra e destra radicali all’offensiva su questo fronte e un partito socialista critico nei confronti dell’egemonia tedesca verso la quale Sarkozy è accusato di essere subordinato».In realtà Sarkozy non ha intenzione di rompere con la Germania, anzi nei suoi discorsi fa sempre più

del debito, sorveglianza della Corte di Giustizia europea sul modo in cui i paesi aderenti introdurranno la golden rule del pareggio di bilancio nelle loro Costituzioni (non solo scriverlo, ma anche in un modo gradito a Berlino).

Come si sa, il governo Monti ha presentato i suoi emendamenti, contenuti in una decina di pagine che oggi l’ambasciatore a Bruxelles Nelli Feroci illustrerà ai colleghi. In sostanza l’Italia chiede di rispettare gli accordi già presi sul patto fiscale ad ottobre,

riferimento al modello tedesco per quanto riguarda il mercato del lavoro e la riforma previdenziale già avviata e malgrado la diffidenza la maggioranza dei francesi sa che l’uscita dall’euro è un’ipotesi lunare. Detto questo «Il tasso di popolarità di Sarkozy è basso e ci sono proiezioni che lo danno battuto da Holland al secondo turno. E Holland sta dicendo di voler rinegoziare l’accordo del nove dicembre. Del resto anche Jospen aveva detto di voler rivedere il patto di Maastricht ma ci fu solo una modificazione nominalistica: invece di patto di stabilità venne chiamato patto di stabilità e di crescita. Holland spingerà però sugli eurobond e Sarkozy non può restare indietro».

Monti sta dicendo ai suoi interlocutori che senza una strategia per la crescita fatta anche di spesa pubblica ogni vincolo di bilancio è inutile: al contrario, ogni politica di rigore porta nuovi effetti recessivi sull’economia, indebolendo il denominatore (il Pil su cui si basano tutti i vincoli) e costringendo i governi a nuove correzioni con nuovi effetti recessivi e via all’infinito.Tecnicamente li chiamano «effetti perversi delle politiche di consolidamento di bilancio». Poi, extrapatto, c’è pure la questione del finanziamento del cosiddetto fondo salva Stati: «Va aumentato», ha detto il premier in più occasioni. Presentati gli emendamenti, comunque, resta la parte più difficile: farli approvare.

Oggi a Bruxelles partono anche le trattative tecniche sul nuovo Trattato europeo, in cui gli sherpa dovranno cominciare ad analizzare gli emendamenti presentati dai singoli Paesi ad una bozza di testo a trazione tedesca quanto la trattativa per il governo Berlusconi venne portata avanti dall’attuale viceministro all’Economia Vittorio Grilli: bene i vincoli di bilancio su debito e deficit, ma corretti «secondo il ciclo economico». In sostanza, dice Roma a Berlino e agli altri virtuosi: se chiedete a paesi già in difficoltà tagli o tasse durante una fase di recessione finirete per uccidere quei paesi e la moneta unica. Anche normalmente poi, sostiene l’esecutivo italiano, si dovrebbe prevedere una certa tolleranza per sforamenti non ingenti nel rapporto tra deficit e Pil se questi sono dovuti alla spesa per investimenti. Tradotto in termini da giornale,

È questo, insomma, ciò che tenta di fare Monti in questi giorni presentandosi informalmente a Bruxelles ieri, parlando con Nicolas Sarkozy oggi e con Angela Merkel mercoledì prossimo. Alleati importanti, in questa vicenda, possono essere l’Europarlamento e la commissione europea, entrambi schierati sulla linea dell’Italia e anche un po’ più in là visto che gli europarlamentari propongono addirittura l’emissione di debito dell’Unione (i famosi eurobond). Se Berlino vorrà farsi guidare in questa direzione, però, è tutto da vedere: l’unica cosa certa è che nelle prossime quattro settimane si decide buona parte del destino dell’Italia e dell’euro. Too big to fail (troppo grande per fallire) è un’espressione che – come ha insegnato Lehman Brothers – non ha più alcun senso.


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pagina 4 • 6 gennaio 2012

GIORGIO LA MALFA

Monti ponga il veto al Patto di bilancio «Ora l’Italia ha l’autorevolezza per compiere atti di forza, se Berlino sarà irragionevole» ROMA. Se c’è un dato che accomuna tutti i leader europei in questa fase, è nella pregiudiziale che il quadro interno di ciascuno esercita rispetto al modo di porsi nell’Unione. Tiene a ricordare soprattutto questo, Giorgio La Malfa, quando enumera i molti vincoli che sia Sarkozy che Merkel hanno con la propria opinione pubblica. «La cancelliera in particolare fa della rigidità imposta ai partner nel Patto intergovernativo di bilancio una questione di vita o di morte», osserva il deputato del Terzo polo ed ex ministro alle Politiche comunitarie, «deve dimostrare alla propria opinione pubblica di saper imporre misure particolarmente severe a Paesi ritenuti irresponsabili». E Sarkozy a sua volta ha interesse a preservare davanti al proprio elettorato l’immagine di leader che tratta solo con l’interlocutore continentale più forte. Ecco, ciò considerato induce La Malfa a dire che «sarà molto difficile per Monti riuscire a insinuarsi nell’accordo raggiunto a dicembre proprio tra Merkel e Sarkozy. Possiamo auspicare che ci riesca, che induca gli altri governi a rimodulare i vincoli sul rientro dal debito, ora severissimi. Ma realisticamente è assai complicato immaginare tale successo». Salvo tener conto di una cosa. E cioè che, a proposito del rapporto con il quadro interno e dei condizionamenti che ne derivano per ciascun leader, Monti è quello messo meglio. «Ha fatto i compiti a casa. È riuscito a far sopportare agli italiani una manovra durissima. Il suo è un governo europeo, di altro profilo, e lui stesso ha una caratura da europeista autorevole. Ha dunque tutte le carte in regola per dire: io un patto di bilancio che non sia ragionevole non lo firmo. Ecco, tutto sta a capire se Monti avrà la forza di porre un veto. Di dire “io a una cosa simile non ci sto”. E chissà che la Merkel, di fronte a un premier italiano autorevole da cui si sentisse obiettare di voler imporre condizioni insostenibili, non si renda conto di essere andata un po’ oltre».

Che l’Italia possa dunque far valere il suo peso, «in condizioni assai più favorevoli rispetto al

governo Berlusconi», è assolutamente possibile, secondo La Malfa. Ma lo si potrà verificare a suo giudizio «con un atto di forza». Quasi certamente sarà così, nonostante le «credenziali» dell’attuale premier, incomparabili rispetto a quelle del predecessore, prefigurino rapporti negoziali più agevoli. «Con il governo Berlusconi, purtroppo, la Francia non si sarebbe potuta permettere un’alleanza con l’Italia neppure se quest’ultima avesse avuto chiaramente la ragione dalla propria parte». Ora però c’è un altro ostacolo: «Il tipo di accordo che Merkel e Sarkozy hanno siglato a inizio dicembre sul Patto intergovernativo di bilancio. Che è consistito nell’eliminazione di alcuni fattori attenuanti dal calcolo del rapporto tra debito e Pil: il limite del 60 per centro non può più essere derogato da aspetti quali la fase del ciclo economico o il risparmio privato. Va chiarito appunto se si tratta di un accordo chiuso». Se cioè la procedura di presentazione degli emendamenti, alcuni dei quali sono stati formalizzati a Bruxelles anche dall’Italia, sia da ridursi a mero atto procedurale, incapace di indurre modifiche. «Temo sia proprio così. La Merkel si gioca le elezioni, chiede ai suoi sostenitori di aiutarla a mantenere questa linea rigida con i partner».

Tre opinioni a confronto sulla crisi

«Si sa che sotto elezioni le persone sono meno propense a essere ragionevoli», dice La Malfa, «la cancelliera tedesca deve dimostrare di mettere in riga quei Paesi ritenuti colpevoli di aver determinato, con condotte irresponsabili, la crisi dell’euro. È una tesi che confligge radicalmente con l’altra secondo cui è proprio la debolezza delle politiche europee ad aver condizionato i Paesi più oppressi dal debito. Ma allo stato Sarkozy non sembra in grado di fare alleanze se non con la Germania. Anche sugli eurobond il solo margine di manovra potrebbe riguardare la loro esclusiva funzionalità agli investimenti per infrastrutture. Partita lunga, questa. A maggior ragione Monti deve tenere duro, come dice Napolitano. E dimostrare di essere sì europeista ma (e.n.) soprattutto italiano».

Può essere decisiva l’Italia in Europa?


prima pagina ROMA. Oggi Mario Monti vola a Parigi per incontrare Nicolas Sarkozy in vista dell’incontro di Berlino dell’11 gennaio. Un’occasione, la prima dopo mesi di avvilenti sfottò e altre pubbliche umiliazioni, per riportare l’Italia in quella cabina di regia europea che ormai è diventata dominio esclusivo di Angela Merkel. Ma anche un’opportunità per rinsaldare l’alleanza italo-francese e presentarsi alla corte tedesca nel tentativo di ammorbidire i diktat contabili della cancelliera. Può passare dal vis a vis tra Nicolas e il professore, la costruzione di un’Europa un po’ meno autolesionista e un po’ più solidale, visto che ormai l’intera area euro boccheggia in un clima di recessione? «Non conviene a nessuno avere un’Europa sottomessa alla Germania, e l’incontro del nostro premier con Sarkozy va dunque salutato con speranza», commenta Luigino Bruni, docente di Economia politica alla Bicocca di Milano. «In questo brutto frangente, vale per la Merkel la lezione di Kohl: l’Unione non nasce per germanizzare l’Europa, ma per europeizzare la Germania», aggiunge il professore. Professore, si può sperare nell’incontro di oggi perché la Merkel indulga a più miti consigli? L’esplosione della crisi ha riportato la Germania al centro dell’Europa, dopo una lunga rincorsa iniziata nel Dopoguerra che la stessa na-

ROMA. Ci sono i cicli dell’economia. E i cicli della politica. Secondo Gian Enrico Rusconi, politologo dell’università di Torino ed editorialista della Stampa, le difficoltà maggiori forse non vengono dalla crisi del debito in senso stretto. «C’è un problema di classe dirigente a sovrastare tutto. Ed è un problema avvertibile e decisivo innanzitutto per la Germania». Se è vero infatti che è a Berlino che s’inceppa il meccanismo di un nuovo slancio del progetto europeista, «questo deriva dal balbettio di una classe dirigente tedesca divisa, disorientata.Tra chi, anche nel mondo economico di quel Paese, spinge perché ci si affidi di più all’Italia, perché si scommetta su di noi visto che alla stessa Germania conviene, e chi invece oppone resistenze, magari perché più vicino al mondo delle banche». La cancelliera è schiacciata da queste diffidenze, «e lei stessa ne coltiva, di diffidenze, come meccanismo difensivo». Ma insomma, se la Germania preferisce imporre soluzioni rigide «dipende anche dall’immagine che abbiamo offerto noi italiani nel recente passato». Il berlusconismo non si dissolve in un battito d’ali, sostiene Rusconi: «Mi riferisco al berlusconismo come sintomo di un declino diffuso del Paese, inevitabilmente percepito fuori. Berlusconi non è la causa

LUIGINO BRUNI

Fate cambiare rotta ai falchi di Berlino «Lo spread è il cambio ombra tra marco e lira. Serve una vera moneta unica» di Francesco Lo Dico scita dell’Unione europea ha accelerato in maniera eccezionale. Ma questa crisi ha detto anche esistono molti euro, e non una moneta unica. Lo spread è il cambio ombra marco-lira: nient’altro che la prosecuzione con mezzi diversi delle vecchie differenze tra valute. E questo sottolinea come il progetto è destinato a peggiorare ancora con gli assurdi e ulteriori paletti sul bilancio decisi al vertice del 9 dicembre. Le politiche europee devono ricompattarsi per spezzare la condotta bancocentrica propria dell’asse franco-tedesco. Il ritorno dell’Italia al tavolo delle trattative non potrà che giovare perché proprio da noi è abbastanza evidente come inseguire ossessivamente la stabilità della moneta sia controproducente, se poi è il fluttuare dei titoli

di stato a determinare venture e sventure dei singoli Paesi membri. Come si fa a convincere la Merkel che in un’Europa in recessione serve un po’ di ossigeno invece che un lettino di contenzione? Sarà molto importante la politica e l’affermazione di un principio come quello del mutuo altruismo, peraltro del tutto compatibile con l’“egoismo” tedesco. L’Europa unita è stata ed è una grandissima risorsa per la Germania, e il disastro di alcuni produrrebbe grossi danni anche all’economia tedesca, peraltro gravata a sua volta da un debito non proprio irrisorio. Che cosa succede se Italia e

GIAN ENRICO RUSCONI

Attenti, pesa ancora l’eredità Berlusconi «La diffidenza nei nostri confronti resta molto forte, soprattutto in Germania» di Errico Novi di per sé, è l’epifenomeno di un carattere più generale acquisito dall’Italia negli anni.Vede, un esempio immediato arriva dal caso di Cortina. soprattutto da come si è reagito alle ispezioni. Un modo davvero paradossale, sconcertante». E lo sconcerto, su cosa rappresenta oggi l’Italia in generale, è diffuso anche in Europa.

Non è solo la credibilità italiana, a pesare. Il professore torinese iscrive questa in un «più generale deficit di vocazione europeista che attraversa le classi dirigenti di tutto il Continente». La cattiva stampa di cui gode il nostro Paese ha il suo rilievo, ma in un quadro di difficoltà più complessivo. E che appunto, un germanista di ap-

profondite conoscenze come Rusconi riconduce soprattutto a Berlino: «Adenauer fece l’Europa con il dissenso della Spd. Oggi c’è da chiedersi: dov’è la Spd? Acquisito che la Merkel è assai meno costruttiva di quanto si possa credere, che ha un timore profondo dell’opinione pubblica tedesca, e oscilla continuamente, ecco, vorrei però vedere una Spd che sappia criticarla. Non certo solo sulle chiusure agli Eurobond. servirebbe una Spd che sappia criticare le rigidità della cancelliera su un piano generale. E sappia spingere perché la Germania assuma una leadership europea in termini di capacità di sintesi, non di coercizione».

E qui interviene il nodo delle intese tra Sarkozy e Monti: perché se pure ci fosse una leadership tedesca, magari con un colore politico diverso come ipotizza Rusconi,

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Francia non riescono a scalfire l’oltranzismo tedesco? Si rischia di fare la fine delle città rinascimentali italiane. Quando fu scoperta l’America, in nome del blasone e dell’orgoglio, nessuna di esse volle federarsi in virtù di un florido passato da superstar. E così si condannarono a un ruolo da comparse. Quali sono i passi irrinunciabili per evitare lo stesso epilogo? La Bce deve porsi in un’ottica meno ragionieristica e cominciare a comportarsi come una vera banca centrale, piuttosto che come la Corte dei Conti. Un’inflazione controllata, portata anche sulla soglia del sei o del sette per cento, consentirebbe all’Europa di respirare, e in particolare all’Italia. È impensabile fare ogni anno una manovra lacrime e sangue da 20 miliardi soltanto per pagare gli interessi. Non è un po’ folle l’ossessione del debito, se poi per fronteggiarlo si mette un Paese in ginocchio e non si fa nulla per la crescita? Quello del debito non è mai stato un problema legato alla sua grandezza, ma alla fiducia dei mercati. E nei fatti, visto che ci sono tanti euro quanti sono i Paesi aderenti, l’Europa deve pensare a essere unita anche nella sostanza, oltreché sulla carta.

servirebbe pur sempre un polo europeo capace di produrre ipotesi alternative per esempio sul Patto di bilancio. Quel patto invece è stato più o meno imposto dalla Merkel a inizio dicembre in una forma severa (e potenzialmente ultrarecessiva) che difficilmente gli emendamenti italiani potranno scalfire. «Soprattutto perché», continua Rusconi, «trovo difficile che Parigi accetti di giocare in triangolazione con Roma. Non è in discussione la personalità di Mario Monti. Ma ripeto quanto detto ad amici tedeschi: voi vi compiacete per quanto siamo stati bravi a entrare nella Terza Repubblica, ma sottovalutate le radici profonde del berlusconismo, e dello steso antiberlusconismo come cifra del Paese; la Merkel però non sottovaluta affatto. E Sarkozy a sua volta le è legato da una sorta di patto di sopravvivenza. La Francia deve potersi illudere di essere così forte da controllare la Germania, la Germania ha il terrore di trovarsi a comandare da sola.Vediamo cosa verrà fuori dall’incontro Monti-Sarkozy di oggi, ma prevedo formule molto generiche. Anche nei vertici della prossima settimana e di fine gennaio temo che ascolteremo enunciazioni calibrate col bilancino negli aggettivi e nelle virgole. Vedremo se alcune delle proposte indubbiamente comuni a Monti e Sarkozy saranno accolte dalla Merkel. Ma credo sia proprio la cancelliera a non avere il coraggio per un cambio di passo».


politica

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La città è sconcertata dall’ennesimo omicidio efferato che è costato la vita anche a una bambina di pochi mesi

La trappola della paura Roma violenta dimostra che la sicurezza non può essere solo uno slogan elettorale di Giancristiano Desiderio a trappola mortale della paura è da evitare. Meglio: la trappola mortale della paura sarebbe stata da evitare. Invece, Roma c’è dentro fino al collo. Gianni Alemanno, sindaco della capitale che fa paura, ha vinto le elezioni con una campagna elettorale il cui cavallo di battaglia era proprio la paura. Alemanno ha vinto. Roma ha perso. E ora ha paura anche il sindaco della sicurezza per tutti. Perché si è reso conto, tardi, troppo tardi, che la sicurezza non è uno slogan e cavalcare la tigre della paura è pericoloso perché prima o poi dalla belva si cade. L’altra sera la belva ha fatto fuoco a Torpignattara e una bimba cinese di nove mesi è morto uccisa tra le braccia del papà morto mentre il terrore

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desideri - diventa possibile. La Lega si inserita nella filosofia comunicativa del berlusconismo e ne è nata la filosofia politica della paura. Niente di nuovo sotto il sole, naturalmente. La paura è l’elemento più antico del potere e della storia. Forse, è all’origine di tutto. Ma in uno Stato adulto e civile la politica serve proprio a tenere sotto controllo questa materia altamente infiammabile e non vi getta di certo il fuoco sopra. Dobbiamo prendere atto, purtroppo, che è stato fatto il contrario e come fu detto “meno tasse per tutti” così fu ripetuto “città più sicure”. Oggi ne raccogliamo i risultati luttuosi.

Roma, per ironia della storia più che della sorte, è cambiata negli ultimi anni. Dieci anni fa

Infuria la polemica sul sindaco Alemanno che aveva impostato la campagna per la sua elezione in Campidoglio promettendo di “ripulire” la città da immigrati e criminali pervadeva le ossa e la carne della moglie e le belve gridavano (con forte accento romanesco, secondo la donna) «se non mi dai lìincasso t’ammazzo come un cane». Ora questa scena e queste parole cavalcano la città eterna e santa e i romani increduli chiedono giustizia e una Roma sicura. Ma se il sindaco che ha denunciato l’insicurezza non è in grado di dare sicurezza a una bimba di nove mesi tra le braccia del papà come Roma potrà diventare sicura?

Ricordo un’intervista di qualche anno fa a Giulio Andreotti. Il senatore a vita sottolineava un aspetto per lui un po’ strano della vita politica italiana. Il concetto diceva più o meno così: i candidati promettono che faranno questo e questo e quest’altro, ma lo sanno che la politica non è l’elenco dei loro desideri. Naturalmente, le parole di Andreotti caddero nel vuoto per due motivi: primo perché era Andreotti a dirle, cioè quasi un mafioso, e poi perché Andreotti era il passato della Repubblica, non il presente e per ovvi motivi non poteva essere il futuro. Ma il presente da chi era segnato? Dalla politica fatta con la comunicazione e con gli slogan in cui l’impossibile - i

era ancora una capitale relativamente tranquilla. Oggi è rischioso passeggiare di notte persino nel cuore antico della città: da Piazza Navona alla Fontana di Trevi. Non perché domini un sentimento generico di paura, ma perché c’è un rischio reale di aggressione. La Capitale è diventata la città degli agguati, mentre nell’ultimo anno ci sono stati la bellezza di trentasei assassinii. Dunque, come se ne esce? I pericoli vanno denunciati sì o no? Se la paura è una trappola, le rassicurazioni facili possono esserlo ancor di più. E’proprio questo che va evitato: la doppia trappola della paura e della rassicurazione o sottovalutazione del problema. C’è un terzo elemento da recuperare: la serietà. Promettere l’impossibile è da irresponsabili, garantire la serietà di giudizio e l’impegno dell’azione è necessario. E’ questo stile politico che va recuperato, forse ricostruito. A Roma in queste ore è in corso la caccia ai due assassini di Zhou Zeng e della figlioletta di nove mesi. Verranno presi? Forse sì. Ma diciamolo subito: la soddisfazione per la cattura dei due barbari urbani non è la soluzione di alcun problema. Roma - capitale d’Italia, è bene sottolinearlo - è una

Tutti gli agguati

Lo sceriffo e un anno di sangue ROMA. Il 2011 rosso sangue della capitale dello sceriffo Alemanno comincia l’8 aprile, quando davanti al Teatro delle Vittorie Roberto Ceccarelli viene freddato da cinque colpi di pistola mentre era all’interno della sua auto. Il 5 luglio, sempre nel cuore del quartiere Prati, nove colpi calibro 9 uccidono Flavio Simmi. Poi tocca al Tiburtino: quindici colpi in strada, tra le urla della gente terrorizzata. La vittima designata, Giulio Saltalippi, 33 anni, se la cava con un proiettile nell’addome. Il 14 giugno tocca a Marco Calamanti, aggredito a San Basilio e ucciso con un unico colpo di crick per questioni di debiti. Stessa motivazione, pare, alla base dell’omicidio di Raphael Coen di 74 anni, trovato morto nell’androne del condominio in cui viveva a via Lanciani. Il 28 giugno, nel Rione Monti, un musicista viene picchiato a sangue all’uscita da un locale da cinque persone, tutte arrestate e tutte a metà strada tra estremismo e curve dello stadio. Il musicista, Alberto Bonanni, è ancora in coma. Un mese fa, drammatico duplice omicidio a Ostia, con sparatoria per strada. Lo sceriffo Alemanno, alla fine, si accorge che c’è un «rischio di infiltrazione mafiosa» a Roma. Ancora: il 16 dicembre la brutale esecuzione di un pregiudicato a Tor Vergata, è ucciso da due killer mentre è in auto con la fidanzata. Infine, fuoco a Tor Bella Monaca anche la vigilia di Natale: un pregiudicato 50enne viene gambizzato in strada.

Qui accanto, il sindaco Alemanno: è oggetto di dure polemiche per la sua controversa gestione della Capitale. Sopra, il luogo del delitto di mercoledì sera, a Torpignattara. A destra, Prodi e Berlusconi


politica

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Siamo tornati ai livelli degli anni della banda della Magliana

È anche il risultato dei tagli alla sicurezza Prodi e Berlusconi hanno continuato a negare fondi alle forze dell’ordine: ora la situazione è fuori controllo di Achille Serra a scia di sangue che da mesi corre inarrestabile per le vie di Roma è drammatica da più punti di vista. È deprecabile perché oggi piangiamo anche una neonata tra le vittime dell’ultima sparatoria, la prima del 2012, dopo un 2011 da record nero: 33 omicidi. È drammatica, inoltre, perché è l’ennesimo segnale che la situazione sta rapidamente precipitando e nessuno sembra averne il controllo. Non assistevamo a una violenza simile dai tempi della banda della Magliana: omicidi, tentati omicidi, rapine, aggressioni sono all’ordine del giorno. E gli autori di tanta violenza, come da tempo denunciano gli esperti del settore, non sono certo cani sciolti. Sono esponenti di associazioni a delinquere di stampo mafioso, nella maggior parte dei casi di origine calabrese e campana.

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città scappata di mano perché è mal governata. Non ce la sentiamo di puntare il dito contro un uomo: contro Alemanno. Ma sappiamo - ed è bene che anche il sindaco si faccia un esame di coscienza politica - che il mal governo cittadino di Alemanno è il frutto di una politica malata di comunicazione estrema e di slogan demagogici. Per troppo tempo il centrodestra in Italia ha lasciato la guida della politica alle faciloneria antipolitiche della Lega e alla logica bonapartista di un Berlusconi che, del resto, ha rinunciato fin da subito a imporre autorevolezza e libertà responsabile accontentandosi di stare al governo e tirare a campare. Proprio mentre si indicava nella politica del passato, riassunta nel tira a campare di Andreotti, il peggio che non sarebbe più tornato, ecco rispuntare il “tiracampismo”che stava in piedi sulla strumentalizzazione dei desideri trasformati in diritti e programmi di governo.

Il risultato è davvero drammatico: anche il diritto per eccellenza, quello che giustifica da solo l’esistenza di uno Stato - la sicurezza fisica - è stato abbandonato alla sloganistica a tal punto che la realtà si vendicata delle bugie fino a diventare incontrollabile proprio come i desideri. Non sarà facile venirne fuori se non si recupera serietà e si parla il linguaggio netto della verità. Alemanno oggi ha due motivi in più per farlo. E non sto qui a dire

quali siano. E infine bisogna considerare un dato in più. Pare che i killer siano italiani, mentre le vittime sono cinesi. I carnefici pare siano nostri connazionali. Romani. La Capitale non violenta perché multirazziale. Spiegare la violenza con i molti colori della pelle che girano e vivono e sopravvivono a Roma e dintorni non spiega nulla. «T’ammazzo come un cane» non è un dialetto africano, né una voce orientale. La violenza parla italiano e romanesco. E non si uccide solo nella periferia di Torpignattara, ma anche nel centralissimo e perbene quartiere Prati. La violenza romana non è extracomunitaria ma comunitaria. La pelle nera, gialla o rossa si inserisce in una vita violenta pre-esistente. Anche qui la retorica antipolitica del leghismo ha fatto non pochi danni, sia nei concetti espressi sia nello stile comunicativo. Si è cercato di respingere mentre si deve lavorare sull’integrazione possibile, il risultato sono le periferie abbandonate e le zone ghetto delle grandi città. Tanto tempo perso per un Paese che nel giro di meno di cinquant’anni conterà quasi quindici milioni di extracomunitari. Un’altra Italia. Pensare di governare con la paura una nazione così diversa da quella nella quale si è nati fa venire i brividi alla schiena. La bimba neonata e il suo papà uccisi da barbari urbani nella nostra Capitale sono morti civili, che lo si riconosca o no. Che siano gli ultimi.

‘Ndrangheta, Camorra e malavita straniera da anni ormai infestano la capitale - lo dimostrano i sempre più numerosi sequestri di esercizi pubblici usati per riciclare denaro sporco – e naturalmente combattono tra loro per il controllo del territorio. Si contendono le partite di stupefacenti, le zone commerciali più fertili per le estorsioni e tutti i più redditizi traffici illegali. Dapprima, come noto, l’onda lunga della Camorra ha invaso il litorale tirreno del Lazio, ma oggi quei confini sono stati ampiamente superati. Il sindaco Alemanno, dal canto suo non sa dove mettere le mani. Stando a capo dell’opposizione capitolina, per anni ha gridato al buonismo della giunta Veltroni e ha imbastito la propria campagna elettorale su promesse sulla sicurezza che non poteva in nessun modo mantenere. Criminalizzando senza distinguo l’immigrazione, ha assicurato che avrebbe esplulso tutti i clandestini e cancellato da Roma tutti i campi nomadi abusivi. Due propositi contro natura, data la mole (in continua crescita) dei due fenomeni e le forze a disposizione. Ha annunciato, inoltre, senza avere il potere di farlo, che avrebbe conivolto la polizia municipale nell’attività delle Forze dell’Ordine. Oggi dunque i nodi vengono al pettine. Mentre il tempo stringe. È urgente affrontare subito questa situazione a Roma, che non è una città qualunque. Il terzo motivo per cui tanta violenza è particolarmente drammatica è, infatti, l’eco che ad ogni sua esplosione si diffonde in tutta Europa e oltre. Che piaccia o meno, la capitale è il nostro biglietto da visita all’estero. La sua immagine nel mondo è l’immagine dell’Italia stessa. Roma insanguinata non solo terrorizza i suoi cittadini, ma inibisce turisti e affari. Ossia infligge un grave colpo

all’economia nazionale. Da dove partire, dunque? Dalle Forze dell’Ordine. Per Roma, come per il resto del Paese, le cause della crescente insicurezza dei cittadini, sono da ricercarsi anche nei pesantissimi tagli di finanziamenti e risorse umane che prima il governo Prodi e poi ancor di più quello Berlusconi, hanno inflitto al comparto. Vent’anni fa gli organici di Polizia e Carabinieri contavano rispettivamente settemila unità in più. E avevano a che fare con una criminalità ben meno raffinata di quella odierna. Oggi gli uomini in tanti casi sono gli stessi di vent’anni fa, in un organico peraltro non più adeguato alle esigenze attuali. Ce la mettono tutta, come sappiamo per assicurarci una vita tranquilla, ma non possiamo chiedere loro miracoli. Stanziare più fondi alle Forze di Polizia, costrette ad adoperare macchine vecchie, rotte e sempre a secco di benzina, è il primo passo da compiere. A dispetto della crisi economica, in nome della quale non si possono chiedere sacrifici indiscriminatamente a tutti i settori, senza considerare quanto alcuni di essi siano vitali per il

A dispetto della crisi, bisogna investire di più per contrastare la criminalità. E dar corso, finalmente, a una legge di riforma del settore Paese. Subito dopo, procedere a quelle riforme organiche che il comparto da tempo chiede e auspica. La costituzione di una centrale operativa unica anzitutto che permetta di intervenire sul territorio in tempi più brevi e in modo più efficiente. E ancora: il recupero di uomini e donne addestrati per contrastare la criminalità e impiegati in lavori d’ufficio più correttamente esplecabili da civili e la forte riduzione di scorte il più delle volte ingiustificate che sottraggono migliaia di agenti al controllo del territorio.

In questo strano Paese che apre gli occhi sui problemi solo quando viene colpito da una tragedia, speriamo che l’ultima sciagura romana abbia almeno il potere di richiamare l’attenzione del neonato Governo sull’allarme sicurezza, un allarme che suona inascoltato da troppo tempo.


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e c’è un’emozione indimenticabile strettamente legata alla nostalgia della nostra infanzia è quella che accompagna la notte dell’Epifania, la vigilia della Befana. Ricordiamo la voglia struggente che qualche volta ha accompagnato un desiderio speciale, qualcosa su cui abbiamo concentrato la nostra fantasia e la nostra immaginazione durante tutto il tempo di Natale. Abbiamo chiesto quella cosa, che per noi aveva un sapore magico, con un’insistenza ai limiti della petulanza e siamo riusciti di volta ad intenerire i nostri genitori, strappando loro una promessa, o ad irritarli fino ad ottenere un no secco, che ci faceva sprofondare nella tristezza. Ma abbiamo sentito tutta l’energia interiore che si comunica a chi desidera davvero qualcosa e spera di poterla ottenere, per cui si dice disposto a qualsiasi sacrificio, perfino a quello di essere buono!

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L’Epifania è la festa che chiude le vacanze di Natale, segna uno spartiacque fortemente percepito a livello soggettivo, tra un tempo che si conclude ed un altro che inizia. In fondo l’anno nuovo per noi cominciava con il ritorno a scuola, un anno nuovo che trascinava con sé abitudini vecchie, le buone abitudini di sempre con la loro disciplina a volte noiosa, ma che forse cominciavano perfino a mancarci un po’. Finite le vacanze si tornava scuola, dove avremmo ritrovato tutti i nostri amici, nonostante il tributo di compiti che dovevamo pagare e che dovevamo assolutamente finire per poterli consegnare tempestivamente. La scadenza era inderogabile se non cominciare volevamo l’anno con una reprimenda fatta di minacce e di sanzioni. Ma il bello dell’Epifania era proprio questo intenso mix di emozioni, di deside-

il paginone ri e di speranze, di paure e di nostalgia. Tutto insieme e tutto in un giorno, che segnava la sottile linea rossa che separa la fantasia di un gioco senza limiti, che potevamo inventare ogni giorno e la realtà del lavoro di studenti, fatto di scuola e di compiti a casa, ma fortunatamente anche di tanti amici. La festa dell’Epifania trae ancora oggi il suo fascino proprio da questo insieme di attesa intensa e gioiosa, dal gusto, più raramente dalla delusione, del possesso dell’oggetto intensamente sperato e infine la proiezione concreta sul giorno dopo, con tutte le sue responsabilità. Tutto in un giorno solo e che proprio per questo vive in modo indelebile ancora oggi nella nostra esperienza di adulti. Le abitudini, le tradizioni e gli stessi riti propiziatori dell’attesa possono cambiare da famiglia a famiglia, ma tutti conservano il sapore di qualcosa che avverrà, di un futuro pieno di sorprese all’insegna della gioia: cosa mi porteranno i Re Magi, o in maniera semplificata e ampiamente laicizzata cosa mi porterà la Befana. È vero sullo sfondo c’è sempre quel margine di rischio, una ipotesi su cui i genitori investono in modo quasi ricattatorio: se sei buono, allora forse i Re Magi o per l’appunto la Befana ti porteranno qualcosa, altrimenti per te ci sarà solo carbone. Quel carbone appiccicoso, dal sapore dolciastro, che comunque è sempre presente nella calza appesa fuori dalla stanza e che serve ad equilibrare l’immagine che ognuno di noi ha di sé... Buoni o cattivi, la Befana non ci dà mai una risposta radicale, perché alla fin fine siamo stati sufficientemente buoni da avere diritto ad un dono,

È proprio oggi, nel giorno dell’Epifania, che occorre riflettere sui divari sociali E all’Est dei diritti umani negati chiediamo: oro e solidarietà, incenso e sobrietà, mirra e speranza In queste pagine: il dipinto di Andrea Mantegna “Adorazione dei magi” ; una simpatica befana “armata” di scopa; un’illustrazione della tradizionale calza ricca di doni , da regalare nel giorno dell’Epifania

Letterina ai Magi

di Paola ma mai così buoni da non aver meritato anche un pezzo di carbone. E la festa diventa anche occasione per un piccolo bilancio, per una riflessione su di sé, sui propri difetti, soprattutto su quelli che innervosiscono gli altri e contribuiscono a metterli di mal umore. Non a caso alla vigilia della festa ci siamo sentiti rimproverare soprattutto quei difetti che hanno il potere di destabilizzare l’aria di famiglia, turbandone la pace e la serenità. Un invito ad essere più buoni significa in questi casi un invito a contribuire un po’ di più o un po’ meglio a rendere più felici gli altri. Ogni anno ripensare quella Festa ci aiuta a riscoprirne la forza morale che si esprime attraverso l’etica del dono, la potenza educativa che si traduce nella consapevolezza che si può essere migliori, e la sicurezza che scaturisce dalla convinzione che comunque gli altri ci vogliono bene. Potremmo dire in altri termini che l’Epifania ci fa toccare

con mano che Lassù Qualcuno ci ama, proprio attraverso la concretezza di chi quaggiù ci ama, prendendosi cura di noi e dei nostri sogni. Mi sono chiesta tante volte in questi giorni di difficoltà così profondamente diffusa nel Paese, che Epifania sarà mai quella del 2012 per tante persone. La gente fa esperienza di un senso di instabilità così acuto da ag-

mente. La paura sembra prosciugare perfino la capacità di desiderare e le difficoltà si sommano e si incrociano, perché sentiamo su di noi il peso di quelle di tante persone che ci sono care e che fanno fatica a venire a capo delle loro. Sembra che il circuito della solidarietà si stia inceppando perché ognuno si sente soffocato da situazioni che teme

È facile arricchirsi quando non si tengono in conto i diritti di chi lavora, la sua dignità, la sua responsabilità verso la famiglia e si impongono standard umilianti, come la politica del figlio unico gredire i nostri pensieri durante la giornata e qualche volta perfino durante la notte. All’orizzonte sembrano concentrarsi più le nubi scure che non la luminosità del giorno che nasce e sentiamo drammaticamente che non è finito solo un anno, ma che si è chiusa una fase della nostra vita. Sappiamo che i nostri stili di vita dovranno cambiare, siamo vissuti troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Ce lo hanno detto, ce lo continuano a ripetere, ma in questo giorno ne stiamo facendo esperienza concreta-

di non poter controllare, in un futuro dai contorni così incerti come sono quelli della povertà crescente, della disoccupazione, dell’inflazione che sta tornando velocemente a crescere.

Mi sono chiesta cosa chiedere quest’anno ai Magi, ai tre Saggi venuti dell’Oriente per adorare il Bambino Gesù e portargli i loro doni, e alla Befana, cara agli amici che si sentono più rassicurati da una speranza più terrena... E ho immaginato di scrivere loro una sorta di


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prendervene almeno in parte cura, senza schiacciarci con l’ondata dei vostri prodotti a basso prezzo e così terribilmente simili ai nostri, pur non avendone lo stile e l’accuratezza. Siamo un po’ più poveri di ieri, ma sempre convinti della nostra identità di uomini in cerca di ideali. Non a caso siete venuti da lontano a vedere cosa accadeva qui da noi e noi vi offriamo ciò che siamo e ciò che sappiamo, con qualcosa in più. La Speranza soprannaturale che viene dalla Fede... Anche noi avevamo perso di vista la Stella che ci guidava e ci sentivamo smarriti. Confusi e disorientati siamo arrivati fino ad Erode per chiedergli suggerimenti. Ci siamo imbattuti in un mare di complicazioni, che hanno coinvolte tante persone innocenti, ma nonostante tutto alla fine credo proprio che stiamo ritrovando la Stella per restituire senso soprannaturale alla nostra vita.

i (del Pil) d’Oriente

a Binetti letterina, come facevo da piccola, con l’ingenuità dei bambini, ma con l’affanno degli adulti in difficoltà.

Cari Magi, voi venite da un Oriente che sta diventando sempre più ricco e sempre più capace di condizionare le nostre politiche economiche; il vostro Pil cresce a velocità notevole, mentre il nostro sembra proprio al lumicino. Oggi come ieri voi siete ricchi e noi siamo poveri. Oggi come ieri potete portarci i vostri doni: lo splendore dell’oro, il profumo dell’incenso e la forza della mirra. Inutile dirvi che ne abbiamo bisogno, un gran bisogno di tutti e tre, oggi come allora. Ma proprio come duemila anni fa noi non siamo abituati a ricevere senza dare nulla in cambio e vi proponiamo uno scambio che speriamo sia vantaggioso per entrambi. Al vostro oro vorremmo far corrispondere la nostra cultura del rispetto dei diritti umani. È facile arricchirsi quando non si tengono sufficientemente in conto i diritti di chi lavora, la sua dignità, la sua responsabilità nei confronti della sua famiglia e gli si impongono standard umilianti, come la politica del figlio unico. Al vostro in-

censo, così intensamente profumato, noi vorremmo far corrispondere il senso della semplicità, l’umiltà della grotta, che ci parla di sobrietà. Una sobrietà che avevamo perso di vista, tanto eravamo assorti in un consumismo che ci avvolgeva obbligandoci a spendere sempre di più e quindi a pretendere sempre di più, in un rincorsa affannosa ad un benessere che si sta rivelando fittizio. Ma dall’oriente vorremmo ricevere anche un messaggio chiaro che ci mostri come state lavorando per ridurre il gap tra le vostre élite e i milioni di persone che versano in una povertà, che ha livelli sconosciuti da noi. E alla vostra Mirra vorremmo far corrispondere un ritrovato senso della nostra dirittura morale,

do prepotentemente nella nostra vita quotidiana. Per questo ci sembra necessario che torniate a riflettere sulla forte determinazione con cui lavorate perfino 20 ore su 24: nella vita il lavoro è fondamentale e noi ci addoloriamo perché ci manca, ma non è tutto e non può assumere un carattere totalizzante. Sono i doni che vi facciamo, mentre vi ringraziamo dei vostri; sono il frutto della nostra saggezza a cui non è estranea la consapevolezza degli errori commessi in questi anni e la

Come dono vorremmo ricevere un messaggio chiaro, che ci mostri come l’Oriente voglia ridurre il gap tra le élite e i milioni di persone che versano in una povertà che da noi ha livelli sconosciuti accompagnato da un indispensabile spirito di sacrificio, per far fronte a quelle riforme, che forse da soli non avremmo mai fatto, ma che ormai stanno entran-

voglia di rettificare e di ricominciare. Ci sembra necessario scambiare con voi la nostra scienza, mettere la nostra umanità dolente su di un piatto, chiedervi di

È un dono che noi, come voi, chiediamo a Dio, a questo Dio straordinario che ha voluto farsi Bambino per essere davvero uno di noi, con le nostre stesse difficoltà di povertà materiale, ma anche di ostilità e in un certo senso di persecuzione istituzionale. È Lui la nostra Speranza, ma senza questa speranza la solidarietà si fa più difficile e la sobrietà acquista un sapore amaro. Ma se insieme arriviamo alla Grotta e ci scambiamo i doni che ognuno di noi ha preparato per gli altri, allora forse ritroveremo la forza di andare avanti insieme. Mescoliamo insieme oro e solidarietà, incenso e sobrietà, mirra e speranza e cerchiamo di guardare al futuro con l’ottimismo che scaturisce dalla prudenza di chi ha fatto esperienza dei propri limiti e dei propri sbagli. Forse sarà necessario che voi Magi scendiate dal Cammello e magari a noi toccherà lasciare la macchina in garage, perché la benzina costa troppo. Ma tutti e due potremo trovare la forza di sognare un mondo nuovo, più giusto e più bello. È un sogno che si chiama Speranza, dobbiamo ricominciare a sperare anche contro ogni speranza in questo nostro 2012, che è pure bisestile e quindi si trascina dietro i suoi antichi pregiudizi. Ma per noi avere un giorno in più deve essere un’opportunità in più per accorgerci di chi ha bisogno di noi, di chi sta aspettando un gesto, un dono per ricominciare a sorridere. Forse possiamo provarci davvero, in un incontro del tutto speciale tra Oriente e Occidente ai piedi della grotta. Magari il Bambino Gesù ci prenderà per mano in un gesto simbolico di pace e di collaborazione che si ricostruisce tra due culture che non possono continuare a contrapporsi, ma debbono assolutamente cercare il loro punto di incontro e di mediazione. E intanto la Befana, che duemila anni fa proprio non c’era, farà la sua parte di strega buona, ci regalerà la leggerezza del sorriso, il garbo dell’ironia di chi sa ridere di se stesso e dei suoi difetti, la sua saggezza antica di chi ha visto cambiare tante cose, per poterle riscoprire ancora una volta con un aspetto diverso. Sempre uguale e sempre diverso, perché alla fine dei conti le cose che contano sono sempre le stesse: sapere che Qualcuno ci vuole bene, Lassù e Quaggiù.


mondo

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Il partito, fondato l’8 gennaio 1912, si autocelebra. Ma gli scandali ormai sono tanti e Jacob Zuma ha molte colpe

Sudafrica, 100 anni di Anc Quando l’African National Congress significava Mandela e lotta all’apartheid di Antonio Picasso ento anni e sentirli tutti. a Dopodomani, Bloemfontein (Sudafrica), verrà celebrato il centesimo anniversario della fondazione dell’African National Congress (Anc), oggi il partito di maggioranza del Paese, un tempo il vessillo politico nella lotta anti-apartheid. In questo secolo di vita, l’Anc ha percorso la propria naturale evoluzione. Nulla da obiettare. Jacob Zuma, presidente della repubblica sudafricana nonché leader del movimento, rievocherà le tappe di questa lunga storia. Rievocazione, però, non è sinonimo di revisione. Molti i successi infatti, ma altrettanti

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i sacrifici e gli errori. Notevole è il secolo di vita che l’Anc è riuscito a raggiungere. Pochi sono gli esempi di soggetti politici africani così longevi.

C’è da chiedersi se il partito di Mandela di altri eroi contro la segregazione razziale oggi possa scommettere su stesso per altri cento anni di vita. Difficile fare pronostici. Soprattutto in questa fase così critica per la politica sudafricana e per il partito di maggioranza. Alle elezioni del 2009, l’Anc ha

in seno alla sua leadership e i rischi di autoritarismo. È giusto ricordare la storia dell’African National Congress. Fondato l’8 gennaio 1912 da John Dube e Sol Plaatjee, rispettivamente alfiere dell’uguaglianza razziale e poeta di colore, uno dei primi letterati dell’Africa contemporanea. Erano gli anni in cui il Sudafrica godeva di una attenzione mondiale che poi sarebbe andata perduta. Prima la guerra anglo-boera, poi gli appetiti colonialisti del Kaiser Guglielmo II, avevano fatto di quella

L’ultima caduta di stile è stata l’approvazione di una legge bavaglio che prevede fino a 25 anni di galera per i giornalisti. Avallata dal Presidente, ma contestata dai Nobel Tutu e Gordimer ottenuto oltre il 60% di preferenze. Si è trattato dell’ennesima vittoria dopo la caduta del regime bianco. Vent’anni precisi di potere nelle mani della nuova classe dirigente sudafricana. Ed è proprio dopo un periodo così lungo che emergono le smagliature

terra lontana un eldorado, forse una nuova America dove rifugiarsi per coltivare idee sociali e politiche rivoluzionarie. Non è un caso che il Mahatma Gandhi cominciò a muovere i primi passi da avvocato e attivista disobbediente tra Johannesburg e Città del Capo.

A sinistra, Nelson Mandela. In alto, simpatizzanti dell’Anc e a destra il presidente Zuma

La non violenza fece da spina dorsale anche per la creatura politica di Dube. Tuttavia, questa linea venne abbandonata dalla seconda generazione di membri dell’Anc. Subito dopo la fine della seconda guerra

mondiale, di fronte a una decolonizzazione dell’Africa che non risolse il problema del continente, la minoranza bianca di Sudafrica e Rodesia si strinse a coorte intorno alle proprie idee di razzismo e preservazione dei diritti sulla maggioranza della popolazione, natia e di colore. All’integralismo bianco fece eco il terrorismo dell’Umkhonto we Sizwe (letteralmente “Lancia della nazione), il braccio armato dell’Anc. Una lotta che si protrasse a suon di scontri aperti nella savana, attentati e traffici di armi e diamanti. Il gioco degli avvoltoi, un film del 1979 con Richard Harris, racconta bene quel che accadde allora. Fu una guerra alla quale Mandela diede il suo assenso e per cui scontò 27 anni di carcere. Il ri-

sultato finale si ebbe nel 1989 con la fine dell’apartheid. Una vittoria morale, come politica e all’insegna del bene. L’evento venne accolto come il primo step di una nuova pagine di storia per tutta l’Africa. In realtà non fu proprio così.

Il Sud Africa effettivamente intraprese un’evoluzione significativa nel campo delle pari opportunità razziali e sociali. Ciononostante, i benefici valicarono i confini nazionali in maniera molto limitata. Inoltre, si commise lo stesso errore in cui le giovani nazioni del continente erano incappate già negli anni Cinquanta e Sessanta. Vale a dire fare piazza pulita dell’establishment passato e con esso del sistema che era stato costruito. Fu la classica situa-

Scappato dalla sua città quando il re dei Thembu gli scelse la moglie, non si è più fermato

Nato “porta guai”, diventato Madiba ra decisamente diverso il Sudafrica dei primi anni del secolo, quando a Mvezo, un piccolo villaggio sulle rive del fiume Mbashe nacque Rolihlahla, “porta guai” nel linguaggio Xhosa, Nelson Mandela per l’anagrafe bianca. Era il 18 luglio 1018. Si erano appena spenti gli echi della prima guerra mondiale e a Varesilles, alla conferenza di pace, era stata invitata anche una delegazione dell’African National Congress, per dare voce alla popolazione nera sudafricana. Ma allora, quel mondo era ancora molto distante dal futuro leader della lotta contro l’apartheid, anche se l’attivismo politico, seppur modesto, era forte in famiglia. Henry Mandela, suo padre, era il capo tribù del villaggio, un

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di Luisa Arezzo titolo che al figlio sarebbe spettato per eredità e che invece non conquistò mai visto che il padre, dopo essersi rifiutato di riconoscere superiore sulle questioni locali il diritto inglese su quello tribale, perse in breve tempo il suo “scettro”. E con tutta la sua famiglia si trasferì a Qunu, dove il piccolo Mandela crebbe.

Nel 1937, all’età di 19 anni, si iscrisse al Wesleyan College di Fort Beaufort, dove terminò i suoi studi. Ma quando il re Thembu scelse, come voleva la tradizione, la futura moglie per lui e per suo cugino Justice, “porta guai” ritenne la cosa inaccettabile e

decise di fuggire con il suo amico. Assieme andarono a Johannesburg, la città della luce, dell’elettricità, dei grattaceli e delle grandi occasioni, e vi arrivarono in modo rocambolesco, visto che non avevano i pass necessari per superare i posti di blocco disseminati per il paese, cominciando a lavorare negli uffici minerari di Crown Mines. Il suo fu un osservatorio “priviliegiato”che gli permise di toccare con mano lo stato di semi-schiavitù vissuto dai neri sudafricani. La scelta di fare politica arrivò quasi per caso, quando conobbe Walter Sisilu, esponente di spicco dell’Anc, che poi finì per ospitarlo a lungo nella sua casa. Nel 1944 assieme ad altri simpatizzanti, quasi tutti provenienti dall’Università di Fort Hare, de-


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

classe dirigente nazionale, quindi l’apparato dell’Anc, è stata accusata di sperpero di denaro pubblico. Il Paese resta però nella schiera delle economie emergenti, in cui le infrastrutture tecniche (trasporti) e sociali (istruzione e sanità) appaiono ancora arretrate. Il partito vittorioso sull’apartheid si è accomodato sugli allori e non ha saputo ingranare la marcia dello sviluppo. L’ultimo scandalo è un dossier ancora aperto. Il 22 novembre scorso, l’Aszione in cui si gettò via acqua sporca più bambino. Il Paese passò nelle mani inesperte degli attivisti: brave persone sì, ma prive di una capacità amministrativa. Mandela, con il suo carisma, dovette giocare di recupero fin dall’inizio. E anche quello fu un match ben riuscito. Il che diede nuovo ossigeno a tutto l’Anc. Il potere però logora chi ce l’ha da troppo tempo. Dopo vent’anni di leadership, infatti, le accuse di corruzione nei confronti della bassa manovalanza del partito, come pure delle sue alte sfere non si contano più. E se fino al 1999, Mandela, o meglio la sua immagine di puro riusciva ad attrarre gli obiettivi dei media, distogliendoli dalle zone d’ombra dell’Anc, in questi ultimi anni una simile operazione non è più

Dopo vent’anni di leadership le accuse di corruzione nei confronti della bassa manovalanza del partito, come pure delle sue alte sfere, non si contano più possibile. Madiba, con i suoi quasi 94 anni, non riesce più a soccorrere il suo movimento.

Nel 2009, Mosiuoa Lekota e altri membri del governo Mbeki hanno rassegnato le dimissioni dall’esecutivo, per protesta contro l’ascesa al potere di Zuma e hanno fondato il Congresso of the people, provocando uno scisma interno all’Anc. Peggiori sono però i risvolti legati ai casi di corruzione, inefficienza e mal governo. Il mondiali di calcio del 2010 hanno fatto da culmine. La

cise di fondare la lega giovanile dell’Anc. Dopo la vittoria elettorale del 1948 da parte del Partito Nazionale, autore di una politica pro-apartheid di segregazione razziale, Mandela si distinse nella campagna di resistenza del 1952 organizzata dall’Anc, ed ebbe un ruolo importante nell’assemblea popolare del 1955, la cui adozione della Carta della Libertà stabilì il fondamentale programma della causa anti-apartheid.

semblea nazionale ha approvato la nuova legge per il segreto di Stato e la riservatezza delle informazioni pubbliche. A giudizio degli osservatori locali, si tratta di un provvedimento che compromette la libertà di espressione costituzionalmente garantita. Esattamente una settimana fa, la Bbc ha dedicato un’intera puntata del programma radiofonico Today alla questione. Tra gli ospiti il Nobel per la letteratura Nadine Gordimer. Dal dibattito è scaturita la pesante accusa di totalitarismo nel quale starebbe

ne). Nell’agosto del 1962 fu arrestato e condannato a 5 anni con l’accusa di viaggi illegali all’estero e incitamento allo sciopero. Ma nel 1963, dopo l’arresto di altri leader dell’Anc, venne condannato anche per sabotaggio e tradimento beccandosi l’ergastolo. Per tutti i successivi 26 anni, Mandela fu sempre maggiormente coinvolto

nell’opposizione all’apartheid, e lo slogan ”Nelson Mandela Libero” divenne l’urlo di tutte le campagne anti-apartheid del mondo. Mentre era in prigione, Madiba riuscì a spedire un manifesto all’Anc, pubblicato il 10 giugno 1980. Il testo recitava: «Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa ed il martello della lotta

A questo proposito, merita una segnalazione il commento del Guardian. A suo giudizio la norma è voluta per evitare una fuga di notizie e quindi il ripetersi di situazioni in cui i media – nazionali e stranieri – abbiano compromesso la leadership dell’Anc. Di fronte a una magistratura sudafricana inoperosa, infatti, è stata l’opinione pubblica a fare pressione sulle proprie guide politiche. L’Anc, censurando i media, vorrebbe evitare nuovi episodi di questo genere. L’atteggiamento porta a due conclusioni. Da una parte costituisce un’ammissione implicita della corruzione che ormai ha investito tutti i livelli del movimento. Dall’altra fa pensare che, anche ai tempi di Mandela, le cose non andassero così bene come si voleva far credere. È logico che di tutto questo, dopodomani, Zuma non farà menzione. In attesa che il testimone passi a una nuova generazione di sudafricani, l’Anc autocelebrerà i propri fasti, senza dare tanta importanza alle cadute di stile.

armata dobbiamo annientare l’apartheid!». Rifiutando un’offerta di libertà condizionata in cambio di una rinuncia alla lotta armata (febbraio 1985), Mandela rimase in prigione fino al febbraio del 1990. Le crescenti proteste dell’Anc e le pressioni della comunità internazionale portarono al suo rilascio l’11 febbraio del 1990, su ordine del presidente sudafricano de Klerk, e alla fine dell’illegalità per l’Anc.

La scelta di fare politica arrivò quasi per caso, quando conobbe Walter Sisilu, esponente di spicco del movimento. E dopo un periodo di “rodaggio” nel 1944 fondò la lega giovanile

Durante questo periodo Mandela ed il suo compagno avvocato Oliver Tambo fondarono l’ufficio legale Mandela e Tambo fornendo assistenza gratuita o a basso costo a molti neri che sarebbero rimasti altrimenti senza rappresentanza legale. Nel 1960, dopo il massacro dei manifestanti disarmati a Sharpeville e l’interdizione dell’Anc, appoggiò la lotta armata, divenendo comandante dell’ala armata Umkhonto we Sizwe (Lancia della nazio-

sprofondando il Sudafrica. Nelle settimane passate, anche il vescovo Tutu ha fatto appello alla classe dirigente nazionale affinché la legge in questione venga rivista.

Mandela e de Klerk ottennero il Premio Nobel per la pace nel 1993. Mandela era già stato in precedenza premiato con il Premio Lenin per la pace nel 1962 ed il Premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 1988. Divenuto libero cittadino e presidente dell’Anc (dal 1991 al 1999) Mandela corse contro De Klerk per la nuova carica di presidente del Sudafrica e vinse, diventando il primo capo di stato di colore. De Klerk fu nominato vice presidente.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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grandangolo Ma la vera posta in gioco sono le elezioni di marzo nel Paese

Resa dei conti in Iran, che all’embargo petrolifero fa spallucce Per Nicola Pedde, direttore dell’Igs, mentre i turchi temono una guerra fredda tra sciiti e sunniti, il vero pericolo resta lo scontro finale tra Khamenei e Ahmadinejad, combattuto senza esclusione di colpi. E nello Stretto di Hormuz la situazione potrebbe sfuggire di mano a Teheran, soprattutto se una scheggia autonoma dei Basij decidesse d’agire di Pierre Chiartano e minacce di chiudere lo Stretto di Hormuz sono figlie «dello scontro di potere interno all’Iran», le elezioni politiche per il rinnovo del parlamento iraniano che si terranno il prossimo mese di marzo «sono la posta in gioco» per i due contendenti: la Guida suprema, Alì Khamenei e il presidente Mahmoud Ahmadinejad. «Da sempre nel regime sciita il tavolo internazionale è terreno di confronto per battaglie di potere», spiega a liberal Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies, think tank indipendente con base a Roma. Il direttore dell’Igs è da poco rientrato da Teheran, dove ha trovato un clima da “resa dei conti” generazionale, tra i figli della Rivoluzione khomeinista, viziati da decenni di gestione del potere, e ormai invisi alla maggioranza della popolazione, e spezzoni di «conservatori, fondamentalisti e radicali» che pur di mandare a casa i mullah sarebbero disposti a votare Ahmadinejad, le cui quotazioni elettorali stanno risalendo. Mentre l’Europa pensa d’inasprire l’embargo economico, allargandolo al settore petrolifero e Washington ha messo in movimento il dispositivo militare della V Flotta di base nel Barhein, lo scontro per decidere chi comanderà in Iran è in atto. Il rischio per le tensioni nello Stretto è legato alle frange dei Basiji, i livelli inferiori dei paramilitari, che potrebbero decidere autonomamente azioni dimostrative – come i barchini kamikaze – e innescare un

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casus belli. «La crisi tra Guida e presidenza è conclamata, è emersa sulla stampa iraniana e nel dibattito politico», spiega Pedde. Se ne parla quotidianamente. «È un fenomeno che farà vedere i propri effetti man mano che ci avvicineremo all’appuntamento elettorale di marzo per il rinnovo del Majlis (parlamento). Quello che non è chiaro ancora a nessuno è la reale forza dei due schieramenti. Altrimenti una delle due parti avrebbe già sferrato un’offensiva

La crisi tra Guida suprema e presidenza è conclamata, ed è di pubblico dominio in tutto il Paese politica nei confronti dell’altra. Non sanno misurare la forza dell’avversario e probabilmente neanche la propria. Ci sono state manifestazioni di sostegno alla Guida da parte di tutti i vertici del sistema, specie quello militare e delle Guardie della rivoluzione, ma anche nei ministeri. Solo che se si va a fondo, si capisce che l’appoggio è superficiale. È

un problema generazionale. I vertici appoggiano Khamenei, ma tutto ciò che si trova sotto i vertici è critico. L’accusa è di tradimento dei valori della rivoluzione khomeinista: onestà, buon governo, le basi ideologiche della Rivoluzione». Le accuse contro la casta al potere sono quelle classiche: «eccessiva corruzione, nepotismo». In pratica c’è una fronda conservatrice «non allineata con la Guida suprema». Decisamente un puzzle complicato da comprendere. È in quest’area di scontenti nei confronti della casta dei mullah al potere che può pescare consensi Ahmadinejad. Detta alla Montanelli molti sarebbero disposti a “turarsi il naso” e votare l’attuale presidente pur di scardinare il potere di Khamenei.

Negli ultimi due o tre anni il consenso per il presidente è cresciuto sia per la sua politica di stampo populista, sia per l’appoggio dato a un ritorno in auge della cultura iranica da contrapporre all’invadenza di quella islamica. «Un consenso che ha anche ragioni ideologiche, perché Ahmadinejad viene visto come colui che tenta di scardinare il vecchio sistema di potere che molti vedono come il tradimento del khomeinismo. In termini numerici le nuove generazioni sono la stragrande maggioranza del Paese. Al suo interno c’è una componente riformista, ma anche una improntata al neoconservatorismo. Noi abbiamo spesso bollato il supporto ad Ahma-

dinejad come radicale. Non è esattamente così. I conservatori si sono spaccati in due grandi correnti. Da una parte ci sono i fondamentalisti che in Iran non ha un’accezione negativa, dall’altra ci sono quelli che in Occidente abbiamo definito radicali, ma che sono i cosiddetti “principalisti”. Cioè coloro che nell’ambito dei conservatori cercano il cambiamento e sono la parte più giovane». Quindi la complessità del quadro politico determina l’incertezza da parte dei protagonisti di conoscere la forza reale del proprio elettorato. Una battaglia nelle urne che rischia di degenerare? «Saranno elezioni fondamentalmente corrette – secondo Pedde – chi gestisce la macchina elettorale è un uomo del presidente, quindi difficilmente ci saranno brogli». Nello scontro politico ogni arma è buona. Tra queste come succede spesso in Iran «c’è il ricorso a una politica aggressiva sulla scena internazionale. Anche ai tempi dell’occupazione dell’ambasciata americana si seguì la stessa logica. Creare un problema internazionale per colpire allora il governo di Mehdi Bazargan che cercava la normalizzazione del Paese». Quindi non è improbabile che assisteremo ad altre “sceneggiate” di Teheran.

«La natura del problema di Hormuz nasce essenzialmente per motivi di politica interna». Pedde è convinto che nessuno voglia arrivare a uno scontro. «Non sarebbe una scaramuccia, ma ri-


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Il regime è sempre più inviso anche al Consiglio di cooperazione

Con i Paesi del Golfo è in atto un rischioso braccio di ferro Nima Khorrami Assl egli ultimi vent’anni, l’imposizione di sanzioni contro l’Iran si è evoluta in una complessa partita tra Teheran e la comunità internazionale, provocando ad ogni nuovo round una serie di contromisure iraniane. Una delle armi di Teheran in questo braccio di ferro è stata quella di utilizzare la sua politica commerciale come mezzo per scoraggiare alcuni paesi dal collaborare all’imposizione delle sanzioni o dallo schierarsi troppo con il fronte antiiraniano. Un esempio è rappresentato dalle relazioni commerciali iraniane con i sei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) – Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. L’Iran ha deliberatamente rafforzato i suoi legami nel settore del commercio e degli investimenti con questi paesi in modo da aumentare i costi economici che essi avrebbero pagato se avessero aderito alle sanzioni patrocinate dall’Occidente. A partire dal 2000, ad esempio, le esportazioni del Gcc verso l’Iran sono aumentate notevolmente, raggiungendo i 13,4 miliardi di dollari nel 2008-09, e di conseguenza gli Stati del Gcc – ed in particolare gli Emirati Arabi Uniti – hanno goduto di un notevole avanzo commerciale nei confronti dell’Iran. Allo stesso tempo, Teheran ha utilizzato il commercio per scoraggiare gli Stati del Gcc dal formare un fronte anti-iraniano unito guidato dall’Arabia Saudita.

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schierebbe di penetrare in profondità nel territorio iraniano. Chi ha parlato di blocco dello Stretto, lo ha fatto in termini generici ed è gente vicina alla Guida». Guida suprema che qualche giorno fa ha ufficialmente smentito l’intenzione di attuare un blocco del traffico marittimo.

«Se il livello della minaccia contro l’Iran dovesse crescere “noi potremmo chiudere Hormuz”. Questo è ciò che stato affermato. Cioè una risposta ad un’eventuale azione o attacco». Poi c’è stato il capolavoro mediatico, con la proposta di grandi manovre in cui «simulare» lo sbarramento dello Stretto. «È una chia-

Il casus belli potrebbe essere provocato dalle stesse unità irregolari che hanno devastato l’ambasciata inglese ra provocazione. Gli iraniani sanno bene che chiudere Hormuz anche per pochi minuti è una dichiarazione di guerra». Però all’interno di queste liturgie ben rodate, qualcosa potrebbe sfuggire di mano. «Qui sta il problema. La spaccatura politica, la lotta per il potere in atto, riguarda tutta la struttura istituzionale, anche il corpo delle Guardie della rivoluzione. I vertici delle Gdr sono molto cauti perché sanno bene che in caso di problemi sarebbero i primi a pagarne le conseguenze. Anche a livello politico hanno sempre cercato di non esporsi troppo con appoggi espliciti a questo o quel candidato». Un corpo paramilitare che è anche un impero economico con troppi interessi. «Chi potrebbe muoversi sono i Basij e il loro comandante Sardar Naghdi. Soprattutto le unità irregolari degli Hezbollah iraniani che di fatto sono quelle che hanno fatto l’irruzione all’ambasciata inglese. Alcune di queste cellule, che sono naturalmente più vici-

ne alla Guida che al presidente, potrebbero, per iniziativa autonoma o guidati, creare il casus belli». È ciò che tutti, anche in Iran, stanno cercando di evitare. La grande paura per il vecchio regime dei mullah è che gran parte dei sostenitori dell’Onda Verde possa decidere, a marzo, di votare per Ahmadinejad come azione di protesta contro Khamenei. «Potrebbe vincere il partito del presidente, con uno sconvolgimento dei vecchi equilibri di potere». Intanto da Ankara è giunto un segnale inquietante. La Turchia ha infatti lanciato l’allarme sul pericolo di una «guerra fredda» confessionale in Medioriente. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha affermato che le crescenti tensioni tra sunniti e sciiti costituirebbero un «suicidio» per l’intera regione. «Lasciatemi dire apertamente che ci sono alcuni disposti a cominciare una guerra fredda regionale», ha affermato il ministro turco all’agenzia di stampa statale Anatolian, prima di recarsi nello sciita Iran. «La Turchia è contraria a tutte le estremizzazioni, nel senso politico di una tensione arabo-iraniana. Questo sarà uno dei messaggi fondamentali che porterò a Teheran». E dal regime sciita è arrivata la risposta alle nuove sanzioni economiche minacciate da Bruxelles.

L’Iran «non è preoccupato» dalla prospettiva dell’embargo petrolifero che l’Ue si appresta ad approvare. Ad affermarlo è stato il ministro degli Esteri iraniano, Ali Akbar Salehi. «L’Iran è sempre stato pronto a rispondere ad azioni ostili di questo tipo, le sanzioni non ci preoccupano in alcun modo», ha sottolineato Salehi durante una conferenza stampa congiunta con il collega turco, Ahmet Davutoglu, a Teheran. «Abbiamo già preso le nostre misure», ha spiegato, «negli ultimi 32 anni abbiamo resistito a molte tempesta, sopravviveremo anche a questo». Insomma la guerra delle dichiarazioni continua in perfetto stile orientale. L’intervento turco costituisce però una novità visto il duplice rapporto di scontro e alleanza che Teheran e Ankara devono svolgere. tenendo conto che è proprio l’ascesadella Turchia come protagonsita regionale ad aver determinato l’accelerazione della crisi politica del regime sciita.

Questo è il motivo per cui Teheran ha proposto uno sviluppo congiunto dei giacimenti di gas in comune con il Kuwait e il Qatar, ma non con i sauditi; ha scelto di effettuare scambi commerciali utilizzando il dirham degli Emirati Arabi Uniti, ma non altre valute del Gcc; ha insistito sull’adozione di misure di sicurezza a livello regionale; ha sostenuto la causa dei musulmani sciiti in Bahrein e nell’Arabia Saudita e ha mantenuto relazioni amichevoli con l’Oman dove la stragrande maggioranza della popolazione è infastidita dalla versione saudita/wahhabita dell’Islam. Eppure, la recente notizia secondo cui l’Iran ha bloccato le importazioni dagli Emirati, come “misura punitiva” in risposta al loro sostegno alle sanzioni Usa, indica che la strategia iraniana di cooptazione economica è fallita. Ciò mette in evidenza anche il drammatico fallimento degli sforzi di Teheran volti a

mantenere divisi gli Stati del Gcc, visto che gli Emirati Arabi Uniti sono ora pienamente allineati con la politica saudita nei confronti dell’Iran.

In passato, gli Emirati si erano mostrati spesso tiepidi nei confronti delle sanzioni internazionali e questo era dovuto principalmente ai benefici economici che derivavano all’emirato di Dubai dai suoi vasti commerci ed investimenti con l’Iran. Tuttavia, sotto l’immensa pressione degli Stati Uniti, e preoccupati delle capacità offensive dell’Iran, della sua minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, della percepita ingerenza iraniana negli affari del Gcc e dell’apparente progresso del programma nucleare iraniano, gli Emirati hanno mostrato una maggiore disponibilità ad accettare la leadership saudita e a sostenere le sanzioni americane a partire dal 2010. Questo cambiamento è anche il risultato della diminuzione del potere economico e finanziario di Dubai all’interno della struttura federale degli Eau. Il collasso economico di Dubai nel 2009 ha ridotto il suo potere politico e aumentato quello della famiglia regnante di Abu Dhabi, che è meno amichevole nei confronti dell’Iran. Dunque, qual è l’obiettivo che Teheran vuole raggiungere bloccando il commercio con gli Emirati? Siccome i suoi incentivi economici non sono riusciti a mantenere divisi e neutrali i paesi del Gcc, Teheran potrebbe essere ora intenzionata ad ottenere lo stesso obiettivo con le minacce e le intimidazioni. Anche il blocco delle importazioni dagli Emirati dovrebbe essere considerato in questo contesto. Nonostante gli enormi progressi dal 2009, Dubai deve ancora affrontare scadenze del debito di oltre 10 miliardi di dollari l’anno prossimo, e potrebbe aver bisogno di chiedere ulteriori prestiti ad Abu Dhabi. Consapevole di ciò, Teheran potrebbe nutrire la speranza che la sua mossa, privando Dubai di un’importante fonte di reddito, causerà tensioni interne tra Abu Dhabi e Dubai, costringendo il governo degli Emirati a rinunciare a parte delle misure anti-iraniane appena adottate. Se questa mossa iraniana darà i suoi frutti è difficile dirlo. Ciò che è chiaro, però, è che le sanzioni stanno danneggiando il regime, e che di conseguenza il suo comportamento potrebbe diventare meno prevedibile nel prossimo futuro.


cultura

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L’attrice, che da pochi giorni ha spento novanta candeline, divenne famosa nel 1940 grazie al film «Dopo divorzieremo»

Il sorriso del Dopoguerra Viaggio nell’Italia dei telefoni bianchi attraverso l’indimenticabile Lilia Silvi di Orio Caldiron uando alla fine del 1938 il regime fascista inaugura le misure protezionistiche per limitare l’ingresso nel Paese della produzione straniera, le grandi case americane si ritirano dal mercato italiano lasciando un vuoto che viene colmato dal progressivo aumento dei film nazionali. È in questo periodo che decolla il divismo autarchico, deciso a sostituire nel cuore degli spettatori i divi di Hollywood, fino a ieri i beniamini del pubblico, con i divi di Cinecittà. Nel tentativo di rinnovare i quadri, il cinema italiano favorisce il debutto di una nuova generazione di attrici da Carla Del Poggio a Irasema Dilian, da Paola Veneroni a Adriana Benetti, da Valentina Cortese a Chiaretta Gelli. Tutte giovanissime, piene di vita e di entusiasmo. Ma nessuna ha la grinta di Lilia Silvi, che nel giro di pochi anni si afferma come una attrice brillante dalla faccia espressiva e dalla verve scatenata. Bambina prodigio, studia musica e danza, ma la sua passione è il cinema: «Io volevo sfondare, io dovevo fare il cinematografo per cui mi infilavo sempre dappertutto, litigando con Pappalardo, l’allora portiere di Cinecittà. Come vedevo la possibilità m’infilavo. Non m’importava neanche la paga, mi ci buttavo a corpo morto». Si nota appena in Il Signor Max (1937) di Mario Camerini, dov’è la fioraia che consiglia le orchidee al galante Vittorio De Sica in crociera, ma appare anche in Partire (1938) di Amleto Palermi e Il segreto di Villa Paradiso (1939) di Domenico M. Gambino nei ruoli marginali di battagliera dattilografa e di benzinaia in tuta. Il suo tipico personaggio di ragazza terremoto si delinea soltanto con Assenza ingiustificata (1939) di Max Neufeld, divertente commedia dei telefoni bianchi in cui è la pestifera compagna di classe di Alida Valli.

Q

Il primo, grande successo arriva con la trasferta similamericana di Dopo divorzieremo (1940) di Nunzio Malasomma. Sullo sfondo del pensionato

dove il Grande Emporio Everybody di New York ospita le proprie commesse, il ménage à trois di Lilia Silvi, Amedeo Nazzari e Vivi Gioi funziona a meraviglia tra bacchettate all’ipocrisia puritana, schermaglie sentimentali, litigate all’ultimo insulto.

Sceneggiato da Sergio Amidei – il futuro padre del neorealismo che per primo intuisce le potenzialità della coppia Silvi-Nazzari – si rivede oggi con piacere grazie alla stralunata scorrevolezza con cui mescola ingenuità e malizia, testo e sottotesto, prelievi americani e allusioni italiane. La messinscena da musical è tipica della cadenze iperboliche delle commedie anni quaranta, dove il vestito fa il monaco. Se quando Amedeo sostituisce gli abiti da vagabondo con il frac diventa il grande musicista che dirige con curiosi gesti isterici la sua orchestra sincopata, Lilia Silvi che si veste da gran dama è subito bellissima, animando una delle sequenze

più estrose e irresistibili del film. Il cinema dei telefoni bianchi ha un debole per l’evasione, ma evade nell’altrove del sogno. L’american dream? Solo in parte, perché l’America autarchica è un’America caramellosa e manierata, che sconfina nella parodia. Il cinema della mistificazione racconta strabicamente l’“altro mondo” prendendosi libertà del tutto impensabili in questo, come il divorzio. Su La Stampa del 1° novembre 1940 Mario Gromo scrive: «Il film è la rivelazione di Lilia Silvi. Era apparsa in qualche particina di scorcio, ora produttore e regista hanno creduto in lei, ne hanno fatto una protagonista, e hanno avuto ragione. La Silvi è infatti uno schiettissimo, autentico temperamento. Ancora in formazione, un po’ acerbo, e al tempo stesso fin troppo sicuro di sé, ma d’un talento comico indiscutibile. Tra passi rapidissimi, talvolta fulminei, sono da lei affrontati con agilità da virtuoso, e soprattutto le giova, di-

In quegli anni sono in molte a sognare il cinema, ma nessuna ha la sua grinta. E nel giro di pochi anni si afferma come un’interprete brillante, dal viso espressivo e dalla verve scatenata nanzi all’obiettivo, quel suo imperturbabile poter pensare a sé, soltanto a se stessa, e al suo lavoro. È nata, insomma, per fare l’attrice. A lei, ai suoi produttori e ai suoi registi il confermarcelo».

Naturalmente ci sono anche i film senza Amedeo in cui la ragazza terremoto tiene testa a Sergio Tofano (Giù il sipario), Nino Besozzi (Barbablù), Carlo Ninchi (La vispa Teresa), altrettante prove di quella spensierata duttilità e di quella contagiosa allegria che segnano fin dall’inizio l’insolito personaggio che qualcuno avvicina alle fidanzatine americane adorabili e irritanti come Deanna Durbin. Il telefono bianco si tinge di rosa in Violette nei capelli (1942) di Carlo Ludovico Bragaglia, uno dei maggiori successi di pubblico degli anni

Quaranta, struggente “Piccole donne crescono” in cui le gioie e le delusioni di Lilia Silvi, Carla Del Poggio, Irasema Dilian, le tre ragazze gaie e sognanti nonostante le crisi, sono viste dalla parte di lei. Inutile dire che quando le tre amiche restano sole ad affrontare le difficoltà, la più intraprendente è lei, la piccola Carina pronta a far da sorella maggiore, a dar consigli d’amore, a risolvere problemi. Il rischio di cadere nella maniera, ripetitiva e leziosa, c’era fin dall’inizio, come aveva intuito Adolfo Franci sull’Illustrazione Italiana del 30 novembre 1941: «Se ne avessi l’autorità vorrei dare a Lilia Silvi un consiglio. Di non lasciarsi incantare da chi è disposto a passargliele tutte lisce, in virtù della sua giovinezza e della sua indubbia bravura. Con lei, nel nostro cinema, tornò a rivivere la monella, una


cultura

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monella che, se Dio vuole, aveva l’età giusta delle monellerie. E parve un miracolo e fu certo una festa per tutti vedere un giorno muoversi sullo schermo con tanta naturalezza e spigliata eleganza questa attrice non bella ma graziosa e simpatica, che aveva l’età dei suoi personaggi. Purtroppo da quel momento Lilia Silvi fu la monella in titolo del cinema italiano. Non si può non aver avvertito il pericolo che corre. Di cadere nel manierato, nel falso, di passare la misura. Restituendoci, alquanto sciupata e sotto forma di caricatura la primitiva immagine che aveva se non altro il dono della freschezza».

La buffa coppia Silvi-Nazzari – lei piccolina, magra, lui alto e imponente – ritorna in quattro film che sono tra i più significativi dell’attrice. Se Scarpe grosse (1940) di Dino Falconi pende tutto dalla parte

dell’italo-americano che ritorna in patria ma non riconosce la città tanto cambiata, cogliendo con singolare vivacità gli umori della Roma del tempo di guerra con la gente nei rifugi antiaerei e il clima di inattesa solidarietà che vi nasce fino alla filodrammatica che recita Addio giovinezza! tra un allarme e l’altro. Non siamo in Ungheria, ma nella campagna romana con Giorni felici (1943), di Gianni Franciolini in cui il pilota atterra per un guasto al motore, mandando in tilt la vita amorosa dei giovani in vacanza nella villa. L’impianto teatrale rischierebbe di soffocare la vivacità della trovata centrale se non ci fosse Amedeo, perfettamente a suo agio nel ruolo di aviatore che, con la tuta bianca e il fazzoletto rosso al collo, sembra materializzare alla lettera i sogni di Lilia Silvi, Valentina Cortese, Vera Carmi. Seducen-

Scrisse Mario Gromo sulla «Stampa» del 1° novembre 1940: «Il film è la sua rivelazione. Produttore e regista hanno creduto in lei, ne hanno fatto una protagonista, e hanno avuto ragione»

Lunedì al Teatro Eliseo di Roma, il film documentario sulla sua carriera

Il ritorno della diva unedì 9 gennaio alle ore 21 al Teatro Eliseo si presenta In arte Lilia Silvi, il documentario di Mimmo Verdesca prodotto da Leo Gullotta e Fabio Grossi per Fuxia-Contesti d’Immagine con la collaborazione di Cinecittà Luce. Silvana Musitelli, in arte Lilia Silvi che ha compiuto novant’anni il 23 dicembre scorso, nel cortometraggio racconta con incontenibile vivacità il suo cinema e la sua vita.

L

Nel dopoguerra si è cimentata nel teatro di prosa e nella rivista, accanto a Annibale Betrone, Enzo Bigliotti, Filippo Scelzo, Carlo Campanini, prima di dedicarsi alla famiglia accanto a Luigi Scarabello, il calciatore del

Genoa e poi della Nazionale che aveva sposato nel 1940. Sin da bambina era stata allieva della scuola di ballo del Teatro dell’Opera di Roma e del Conservatorio di Santa Cecilia, per affermarsi poi nel cinema come protagonista di decine di film di successo, fino a diventare una delle beniamine del pubblico nella stagione dei telefoni bianchi e delle commedie sentimentali.

Dopo decenni di assenza dal set partecipa al film Gianni e le donne (2010) di Gianni Di Gregorio. Nel 2011 ha ricevuto il Premio Chioma di Berenice alla Carriera, assegnato ogni anno agli artigiani e artisti attivi nel mondo del cinema.

In queste pagine, alcune immagini dell’attrice italiana Lilia Silvi. In particolare, a sinistra, un fotogramma della pellicola del 1940 che le ha regalato consensi e celebrità: «Dopo divorzieremo» di Nunzio Malasomma

dell’attore che vi ripropone il suo tipico personaggio di uomo rude e spicciativo da gran cuore ma consente all’attrice di sfoderare l’invidiabile sicurezza della partner affiatata e congeniale decisa a insegnargli le buone maniere, Scampolo di Malasomma (1941) sembra invertire i ruoli offrendo a Lilia Silvi l’occasione di dar vita alla piccola stiratrice della commedia di Niccodemi con lo slancio estroso e appassionato di chi si riconosce nel personaggio e sa dosare ingredienti patetici con le sottolineature brillanti. Segna la definitiva consacrazione della monella che conquista l’irraggiungibile Amedeo, il numero uno del divismo di allora, realizzando il sogno di gran parte del pubblico femminile. Senza le smorfie e le boccacce che assieme alla sua travolgente simpatia hanno conquistato gli spettatori più diffidenti. Il clima è ormai cambiato. Si continua a sognare a occhi aperti ma con la serietà che gli anni di guerra richiedono. Il personaggio di Scampolo, vecchio cavallo di battaglia del repertorio teatrale, ne esce rinnovato, ci guadagna in umanità e freschezza. Non bisogna dirlo a Shakespeare – nei titoli di testa il suo nome del resto non appare perché l’Italia è in guerra con la Gran Bretagna – ma la grande commedia di Petruccio e Caterina ripresa in abiti moderni in La bisbetica domata (1942) di Ferdinando M. Poggioli, sembra fatta apposta per Lilia Silvi, segna il traumatico passaggio dall’adolescenza alla maturità. Il film mette a frutto lo sguardo straniero

te, sornione, ammiccante, il pilota si comporta come un personaggio di un altro film finito per caso tra gli equivoci sentimentali e gli stereotipi farseschi della commedia, ma pronto a andarsene perché tutto torni come prima. Negli anni di guerra, il film con i suoi aereoplani, i suoi baci, i suoi litigi, rischia di evocare tempi meno inquietanti se non più tranquilli. L’ultima occasione per la turbolenta monella di mettere la testa a posto e sorprendere ancora una volta il pubblico con l’immagine sorridente e romantica della ragazza innamorata, in una delle sue più felici prove d’interprete ormai matura.

Quando nel dopoguerra escono gli ultimi film dell’attrice, da Il diavolo in collegio (1944) di Jean Boyer a Biraghin (1946) di Carmine Gallone, si capisce subito che sono fuori tempo massimo. Il cinema ha voltato pagina e la sua breve parabola è ormai finita. Il grande successo di una decina di film le hanno assicurato un’enorme popolarità, fino a farne un’immagine insolita e irripetibile del divismo anni Quaranta, in cui si ritrovano il costume dell’epoca e i suoi modelli di comportamento, i rapporti conflittuali tra uomo e donna in una società maschilista, la mitologia sentimentale e la rimozione del sesso. Altrettante chiavi di lettura per rivisitare un capitolo del cinema all’antica italiana, il cinema degli operosi artigiani, tutto da scoprire. Oggi, Lilia Silvi è una bella signora che ha appena compiuto novant’anni e giura di non essere mai stata diva.


ULTIMAPAGINA Una mostra rende omaggio a Corradino D’Ascanio, l’Ingegnere che ha messo il mondo su due ruote

La rivoluzione viaggia in di Marco Ferrari considerato l’uomo del nuovo miracolo italiano, quello del boom industriale, ma pochi conoscono la sua creatività. Corradino D’Ascanio, da Popoli, nel pescarese, ha inventato l’elicottero, la Vespa, le eliche a passo variabile e mille altri progetti. Le sue tracce principali sono a Pontedera dove ora il Museo Piaggio gli ha dedicato la mostra D’Ascanio, uomo, genio, mago, mito aperta sino al 31 gennaio. Un’occasione unica e rara per conoscere da vicino una delle principali teste pensante del periodo in cui la penisola, lasciandosi alle spalle le angustie della guerra, si diede il passo della grande potenza industriale bloccando anche quel fenomeno erosivo che fu l’emigrazione. Un omaggio all’ingegnere aeronautico che 65 anni fa inventò la Vespa perché «la motocicletta era troppo scomoda».

È

Curata dall’architetto Enrico Agonici per conto della Fondazione Piaggio, l’esposizione ripercorre la vita del geniale abruzzese trapiantato in Toscana per diventare uno dei protagonisti della rinascita italiana a 120 anni dalla nascita e a 30 dalla morte. I visitatori possono vedere i primi progetti, i disegni originali e le Vespe più rare, a partire dalla 98 cc brevettata da D’Ascanio il 23 aprile 1946. Un successo decretato dai 17 milioni di esemplari venduti in tutto il mondo, dal primo prodotto a oggi. E il successo del primo e più famoso scooter non si ferma: le vendite di Vespa nel 2011 si avviano a raggiungere lo straordinario traguardo dei 150.000 esemplari venduti in un solo anno. Nel 2003 se ne vendevano cinquantamila, dal 2006 le vendite sono stabilmente sopra le 100.000 unità e in costante crescita, nonostante la crisi economica. Nella mostra è stato ricreato il sistema lavorativo dell’epoca esponendo insieme tanti cimeli e fotografie messi a disposizione dalla famiglia D’Ascanio. Nella sezione del percorso espositivo dedicata all’Uomo - presentata nel catalogo da Maria D’Ascanio - è fisicamente ricreato l’ambiente di lavoro di Corradino D’Ascanio grazie al recupero e all’utilizzo di arredi originali. Qui è possibile ammirare una vasta raccolta di foto private e documenti sulla vita dell’ingegnere che vanno dall’infanzia a Popoli in Abruzzo, agli anni passati negli Stati Uniti, il rientro in Italia fino all’arrivo in Piaggio. Prima di approdare alla grande industria, l’ingegnere si cimentò in diversi campi come l’edilizia civile, le linee elettriche, l’invenzione di brevetti quali il forno elettrico a media capacità termica per cottura di pane e per pasticceria o la “macchina elettropneumatica per la catalogazione e ricerca rapida di documenti”che utilizza schede perforate per l’azionamento di circuiti elettrici. Ma il suo cruccio, l’enigma dell’esistenza, il tarlo dei pensieri era rivolto all’idea di perfezionare le tecniche di volo. Appena rientrato dagli Stati Uniti, il novello Leonardo mantenne rapporti stretti con il mondo dell’aviazione arrivando a progettare un ortottero. Con il barone Pietro Troiani da Pescosansonesco, che mise a disposizione il suo intero patrimonio economico, avviò un grande progetto abruzzese per l’aviazione arrivando a comporre svariati progetti esecutivi. Si elaborarono quindi ben tre prototipi di elicottero,

VESPA chiamati D’AT3, commissionati dal Ministero dell’Aeronautica, ma poi i fatti bellici e la fine dei finanziamenti pubblici e privati portarono all’abbandono a Ciampino di quei primi esemplari d’elicottero che forse avrebbero introdotto una sostanziale novità nella vicenda bellica. Quella di Corradino D’Ascanio, infatti, è stata una creatività che non si è limitata all’opera ingegneristica e che viene raccontata nella sezione dedicata al Mago, commentata nel catalogo da Costantino Frontalini. All’ingegnere si devono infatti, tra mille altre intuizioni, i più originali e bizzarri allestimenti, effetti di grande impatto che ora possono essere visualizzati alla mostra grazie alla tecnologia di realtà virtuale realizzata dal laboratorio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

brevetti e disegni tecnici che ripercorrono il percorso formativo di Corradino D’Ascanio. Spazio anche alle trovate meno conosciute dal grande pubblico: al progettista abruzzese si devono, infatti, bizzarri allestimenti che hanno contribuito al successo della Vespa. Quando c’era un salone o una fiera l’ingegnere di Popoli architettava stratagemmi per attirare pubbli-

A completare il percorso espositivo dedicato al padre della Vespa il racconto del Mito: accanto ai modelli storici più significativi realizzati dal funambolico inventore, sono fruibili una serie di testimonianze filmate di amici, collaboratori, parenti e colleghi dell’ingegnere di Popoli, a tramandare la unicità e la forza della sua personalità, sempre ben presenti nei ricordi di chi lo conobbe. Nella sezione intitolata al “Genio”, introdotta da una prefazione al catalogo del designer Giorgetto Giugiaro, è protagonista un’ampia collezione di veicoli,

co, come “Vespa sul ramo di peso” o “Vespa sul getto d’acqua”. Grazie a numerosissimi progetti, disegni originali, documenti e pubblicazioni dell’epoca e ai modelli più antichi e rappresentativi di Vespa della collezione del Museo Piaggio, la mostra celebra sia Corradino D’Ascanio sia la nascita di una vera e propria icona dello stile e dell’industria italiana, conosciuta in tutto il mondo e celebrata soprattutto dal cinema, da Vacanze romane di William Wyler con Gregory Peck e Audrey Hepburn sino a Caro Diario di Nanni Moretti.

È stato anche l’inventore dell’elicottero e delle eliche a passo variabile. Ma è con lo scooter che ha venduto oltre 17 milioni di esemplari nel mondo, che ha lasciato il segno


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