20113
he di cronac
Il segreto del successo
è la sincerità. Se riesci a fingerla, ce l’hai fatta Jean Giraudoux
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 12 GENNAIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Prima della trilaterale del 20 con Sarkozy, il Professore vola a Londra per convincere la City e i mercati
Italia promossa, euro forse Nella nuova bozza di accordo quasi tutte le proposte di Monti Successo del summit a Berlino. La Merkel: «Roma ha fatto dei passi impressionanti». Il premier: «Ora giù i tassi». Il Trattato ci premia: un anno per il pareggio di bilancio e nuove regole per calcolarlo IL COMMENTO
Avanti così, ora dobbiamo dedicarci alla crescita
La Camera si esprime su Cosentino
Oggi il destino del “principe” di Casale
di Osvaldo Baldacci Italia sta riprendendo il ruolo che gli compete tra i grandi d’Europa. Paese fondatore, economia di primo piano, potenza culturale, l’Italia ha passato un periodo di discredito per varie vicende, ma soprattutto per l’incapacità di affrontare i problemi e la mancanza di volontà nel farsi sentire. Ora questo è cambiato, e anche chi finora ha potuto fare il maestro in Europa lo deve riconoscere. Come Germania e Francia. La Merkel è stata chiara nel dire che l’Italia sta facendo bene, che il nostro Paese ha preso severi provvedimenti che lo stanno mettendo sulla giusta strada. Allo stesso tempo però si vede come la situazione dell’euro e della sua area sia ancora pericolante. Se l’Italia è stata promossa, lo stesso non vale per l’economia europea. Ma le due cose non sono slegate, né nel bene né nel male. a pagina 2
L’
di Maurizio Stefanini
La Malfa e Lanzillotta
L’economista dell’Aei
«Abbiamo dato. «Soltanto la Bce Ora i partner (riformata) può devono agire» salvare la moneta» «La medicina amara imposta dal governo sta funzionando. L’Ue vada nella stessa direzione»
«I fondatori dell’Europa volevano la Bundesbank per gli italiani. Rischiamo Bankitalia per i tedeschi»
Riccardo Paradisi • pagina 4
Adam Lerrick • pagina 5
entunmila abitanti, Casal di Principe si trova in provincia di Caserta, tra il Volturno e l’agro aversano. Il nome, secondo la leggenda, risale a un figlio naturale del re di Ungheria Mattia Corvino che aveva complottato contro il padre, e che il padre per punizione mandò appunto al confino in un casale in mezzo alle paludi, ai confini del regno del suocero Ferdinando I d’Aragona. Insomma, un domicilio coatto del XV secolo. Corvino è tuttora il cognome locale più diffuso, ma prima di concludere razzisticamente per un trapianto di dna eversivo che abbia irreversibilmente predeterminato gli abitanti bisogna ricordare tre cose. a pagina 8
V
La decisione sull’ammissibilità del referendum sulla legge elettorale slittata a oggi
Assedio alla Corte costituzionale Fiaccolata dei referendari per i quesiti. Mentre Calderoli contesta i giudici di Marco Scotti
Il leghista e la nota per difendere la riforma
E l’ex ministro torna a difendere la sua “porcata”
e fosse un film, il titolo sarebbe “Il giorno del giudizio”; se fosse una partita di calcio, sarebbe un derby che decide l’esito del campionato. Comunque la si voglia guardare, la decisione della Consulta – attesa per oggi, dopo una lunga camera di consiglio iniziata ieri – che dovrà dichiarare ammissibili o meno i due quesiti referendari che riguardano la legge elettorale conosciuta come porcellum (la mirabile definizione è di Giovanni Sartori), rappresenta e rappresenterà uno spartiacque nella vita politica italiana. a pagina 6
S
EURO 1,00 (10,00
di Marco Palombi
ROMA. Uno è abituato a vederlo in molte vesti: odontoiatra, allevatore di lupi, pork sitter in passeggiata su terreni destinati a moschea, dichiaratore compulsivo sulle agenzie di stampa, anti-islamico vagamente psicotico, riformatore delle istituzioni in baita, patriota celtico, omofobo in servizio permanente effettivo, addirittura ministro. Ieri, però, Roberto Calderoli ci ha sorpreso di nuovo. a pagina 7 CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
7•
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Non basta salvare le singole nazioni
Ora uno sforzo comunitario per la moneta
prima pagina
pagina 2 • 12 gennaio 2012
di Osvaldo Baldacci Italia sta riprendendo il ruolo che gli compete tra i grandi d’Europa. Paese fondatore, economia di primo piano, potenza culturale, l’Italia ha passato un periodo di discredito per varie vicende, ma soprattutto per l’incapacità di affrontare i problemi e la mancanza di volontà nel farsi sentire. Ora questo è cambiato, e anche chi finora ha potuto fare il maestro in Europa lo deve riconoscere. Come Germania e Francia. La Merkel è stata chiara nel dire che l’Italia sta facendo bene, che il nostro Paese ha preso severi provvedimenti che lo stanno mettendo sulla giusta strada. Allo stesso tempo però si vede come la situazione dell’euro e della sua area sia ancora pericolante. Se l’Italia è stata promossa, lo stesso non vale per l’economia europea. Ma le due cose non sono slegate, né nel bene né nel male. I progressi dell’Italia, il suo ritorno al tavolo dei grandi, servono all’Europa per salvare se stessa, servono per mantenere in piedi l’euro e la sua economia. E quindi l’Italia oltre ai propri meriti può e deve contare anche sul sostegno e l’incoraggiamento delle altre realtà europee. Allo stesso tempo l’Italia ha bisogno che tutta l’Europa si tiri fuori dai guai, altrimenti a poco servono i sacrifici fatti. Ma per salvare l’Europa l’Italia deve essere protagonista, fare i propri compiti, ma anche far sentire la propria voce e chiedere che gli altri facciano i propri. Ed essere molto lucida e onesta: deve sapere che serve il rigore, che servono i sacrifici, ma che soprattutto serve serietà.
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Quindi è inutile cedere alle promesse di grossi sforzi per compiacere la Germania o la Francia se poi non siamo in grado di mantenere gli impegni presi: dire e non fare è quanto di peggio possa succedere oggi, per l’Italia e anche per gli altri, seguito solo dall’altra ipotesi negativa, quella cioè di impiccarsi a impegni talmente pesanti da essere insostenibili. Non si può chiedere e promettere l’impossibile, ma ogni promessa è debito, e i debiti (passati e presenti) vanno pagati. L’unica strada è pretendere il massimo possibile e farlo. E questa sembra la via imboccata dall’Italia, tanto da meritare gli elogi di chi finora ci metteva alla berlina. Dobbiamo vigilare per mantenere questi risultati e per avere l’autorevolezza di chiederli anche agli altri. Dobbiamo ritrovare la nostra forza per non essere bersaglio della speculazione e terra di conquista dei capitali stranieri. Vogliamo attrarre i capitali per rilanciare lo sviluppo, ma dobbiamo farlo in virtù della nostra appetibilità, della nostra potenzialità, non per i nostri sottocosti da colonizzare. In questo senso Monti a fianco della Merkel ha centrato il problema più immediato: l’alto valore degli interessi sul debito. Il risvolto concreto del famigerato spread. Lo Stato ha bisogno di debito pubblico per eseguire i suoi pagamenti (anche gli stipendi). Su questo debito paga un interesse, e interessi troppo elevati come quelli attuali ingigantiscono il problema e creano il rischio affossamento. L’Italia deve fare la propria parte per avere una credibilità tale da far accettare agli investitori un interesse più basso. Ma in un mercato impazzito come quello attuale, e in preda a valutazioni non solo economiche e anche speculative, non basta che a farlo sia un solo Paese. Serve che si muova un intero sistema, per quanto siamo interconnessi, ma serve anche che a quel Paese che si rimette in carreggiata vadano riconosciuti i meriti: pubblicamente e a parole, come sta iniziando ad accadere, ma anche nei fatti,e quindi favorendo quelle misure economiche e di investimento che aiutino ad abbattere i tassi. Nell’interesse di tutti. Perché non serve a nessuno un’Italia promossa e un euro bocciato. Neanche all’Italia. Neanche alla Germania.
Angela Merkel promuove l’opera di Mario Monti: «Ha fatto sforzi straordinari»
Compromesso all’italiana
Accelerata sul Patto fiscale: la Germania è pronta a concedere migliori condizioni ai Paesi più deboli, ma in cambio vuole limitare la potenza del Fondo Salva Stati di Francesco Pacifico
ROMA. «Abbiamo parlato più del previsto, quasi tre a Bruxelles, i tedeschi hanno imposto un rinvio soltanore, e non perché io e il primo ministro italiano aves- to di un anno e non di tre come prevedevano gli accorsimo litigato». Mario Monti è ormai di casa a Berlino. di firmati dai Ventisette nel luglio scorso e poi vidimaIeri, poi nel vertice bilaterale tenutosi al Bundeskanz- ti dall’Europarlamento a dicembre. leramt, Angela Merkel lo ha anGli sviluppi della vicenda hanche accolto nella cabina di reno avuto non poche ripercussiogia, con la quale lei e Nicolas ni sui mercati. Nonostante i Sarkozy si apprestano a ridisenuovi – secondo alcuni rumor gnare l’architettura europea. Un anno di tempo a partire dall’entrata massicci – acquisti da parte delCooptazione da ostentare più in vigore del Trattato per mettere in atto la Bce, ieri gli operatori contidell’assicurazione del premier le norme sul pareggio di bilancio previste nuavano a stare alla larga dai titedesco che «l’Italia ha già fatto dal paragrafo 1 dell’art.3. La bozza pre- toli di Stato italiana. Gli spread cose straordinarie». vede che i bilanci statali dovranno essere tra il decennale tedesco e il di norma in pareggio, il deficit potrà arri- Bund infatti hanno oscillato in Al di là degli onori e dei plau- vare allo 0,5% e gli Stati dovranno mette- una forchetta compresa tra i si per una correzione dei conti re in atto “un meccanismo di correzione 506 e i 525 punti base, per poi vicina ai novanta miliardi nel che scatti automaticamente”, in caso di attestarsi a 517 punti base, in prossimo triennio, l’ex rettore deviazioni sugli obiettivi di medio termi- calo di 6 centesimi rispetto alla della Bocconi lascia Berlino ne. Inoltre, per i Paesi che hanno un debi- precedente chiusura. senza aver raggiunto gli obietti- to inferiore al 60% del Pil, sarà ammesso Se non bastasse, e a 24 ore dalvi fissati prima di partire. Intan- che il deficit annuale possa arrivare l’annuncio di un downgrading to un potenziamento delle risor- all’1%. Nel paragrafo 2 dell’art.3 è scritto alla solvibilità del Belpaese, Dase del Fondo Salva Stati – senza che “le regole entreranno in vigore nelle vid Riley, responsabile delle diil quale, ha ricordato Goldman leggi nazionali delle Parti contraenti en- visione Rating di Fitch, ha diSachs, il nostro debito rischia di tro un anno dall’entrata in vigore del chiarato che «la Bce deve fare diventare carta straccia. Quindi Trattato tramite disposizioni di forza vin- di più per impedire un collasso la garanzia di una riduzione del colante e carattere permanente, preferi- dell’euro e aumentare i suoi acdebito più graduale per i Paesi bilmente costituzionale, che ne garanti- quisti di bond per contrastare la con le finanze in rosso: ma al scano il rispetto nel processo di forma- crisi del debito in Eurolandia. Dobbiamo avere un acquirente momento, nella bozza di modi- zione del bilancio nazionale”. credibile, che al momento non fica all’Six Pack in discussione
I punti della bozza
Geert Mak: «Riprendiamoci l’Europa» Per lo storico olandese la Ue deve scegliere la strada politica e uscire dalla logica economica di Laura Starink Europa non rientrava nei progetti immediati di Geert Mak, impegnato a scrivere un libro sugli Stati Uniti. Ma quando il settimanale tedesco Die Zeit si è chiesto perché gli intellettuali europei rimanevano in silenzio, Mak ha scritto De hond van Tisma. Wat als Europa klapt? (Il cane di Tisma. E se l’Europa esplodesse?, ndt.). Il cane di Tisma è un piccolo libro decisamente poco ottimista. Insieme a Norman Davies, storico specialista dell’Europa, Mak è arrivato alla conclusione che il vertice dei leader europei di dicembre ha esaurito le sue ultime speranze: «Temo che sia finita». È una storia di «troppo poco e troppo tardi». Troppo poco denaro per il fondo di salvataggio, troppe poche possibilità di sanzioni, troppo poca lungimiranza e in definitiva troppo poca direzione europea. «La Germania di Angela Merkel ha perso un’occasione storica per diventare il vero leader dell’Europa. Per paura del vecchio spettro dell’inflazione, la Germania sta spingendo l’Europa nella recessione». «Si tratta di un errore», afferma Mak. «È meglio stampare denaro che stringere l’Europa meridionale in una morsa fino a soffocarla». Lei dice che bisogna riconquistare l’Europa e smettere di obbedire a una logica puramente economica. Ma in che modo? Nel 1989 l’occidente libero ha avuto la meglio sul comunismo, ma questo ha portato ai terribili eccessi del capitalismo speculativo. Quando si fanno affari si corrono dei rischi. Si possono vedere i propri sforzi ricompensati, ma può anche andare male. Tutti i venditori ambulanti lo sanno bene. Tuttavia il libero scambio è ostacolato dalle banche, che hanno avviato una vera e propria rivoluzione antidemocratica:
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si sono impadronite del potere.Tutti escono da questa crisi con le ossa rotte, tranne i veri responsabili. Le banche non corrono alcun rischio ed è il settore pubblico a farne le spese. Di recente ho assistito a una riunione in cui un grande economista cinese e il responsabile di una banca centrale africana rimproveravano un gruppo di analisti finanziari europei. Una situazione storicamente interessante. L’africano diceva: «le vostre banche sono piene di persone molto competenti, ma hanno compiuto errori di ogni genere. Questo si può spiegare solo perché altri fattori sono intervenuti nelle loro decisioni. In Africa noi definiamo questi fattori con il termine “corruzione”». Nella sala è calato il silenzio, il banchiere faceva riferimento ai bonus e aveva perfettamente ragione. L’Europa era un tentativo di issare la democrazia al di sopra delle frontiere nazionali. Ma la democrazia è in grado di affrontare un mercato mondiale senza freni? Questa è la cosa che mi dispiace di più. Nonostante tutti i suoi difetti, l’Unione europea rappresenta un’esperienza fantastica in questo campo. Ed è per questo che dobbiamo difenderla con le unghie e con i denti. In questo periodo molto duro l’Ue dovrebbe servire da modello per i valori democratici. Se così non fosse, altri colmeranno il vuoto lasciato dall’Europa, gli americani, i cinesi, i brasiliani, i russi”. L’Ue è il prodotto della fede nella possilità di una vita comunitaria. Dobbiamo credere che hanno ragione i populisti, convinti nell’impossibilità di questa soluzione? No. I populisti hanno ragione solo su un punto: sull’Europa è calato un sentimento di disagio. Nei Paesi Bassi questo è molto evidente. Altri paesi mostrano ancora una certa soddisfazione
Per paura del vecchio spettro dell’inflazione, Berlino sta spingendo il Continente in una fase recessiva
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c’è, anche perché la crisi non passerà finché non ci sarà una ripresa economica ampia». Sugli operatori quindi non fa presa l’invito di Monti a non seguire l’isteria del momento: «Non saremo più fonte possibile di infezione per la zona euro. L’Italia non chiede ricompense, ma vuole che l’Europa risconosca gli sforzi fatti dal nostro Paese sulla strada del risanamento e crei un contesto favorevole alla crescita economica».
Perché in quest’ottica non aiuta la poca chiarezza sfoggiata anche ieri dalla Merkel sulla futura governance dell’eurozona. Come il suo ministro delle Finanze Schaüble ripete da un mese, la Cancelliera ha sostenuto che «la Germania è disposta a versare fin dall’inizio piu’ capitale nell’Esm, perché se ci sono dei versamenti subito potrebbe essere un messaggio positivo per i mercati». Peccato che non dica quanto e che dimentichi che è stato proprio il suo governo a frenare i tentativi del presidente dell’Ecofin Junker per ampliare la dotazione del Salvastati e a imporre a tutti partner una dilazione delle quote parte per arrivare a una capitalizzazione di 500 miliardi di euro. Per la gioia di Nicolas Sarkozy e per quella di David Cameron, aggiunge di essere favorevole all’introduzione della Tobin tax, ma soltanto tra i Paesi dell’euro. E non risponde alle tempistiche sul rientro del debito. Durante la conferenza congiunta con Monti, un giornalista italiano le ricorda i debiti della Germania ver-
nei confronti dell’Ue. I populisti sono il segno di questo disagio. Capisco le critiche nei confronti dell’Europa. Ma chiudersi in se stessi significa credere nella magia. Un mito nazionale rimane sempre molto seducente. A volte la sera nel mio letto mi capita di dire: quanto sarebbe bello se fossi di destra, anche solo per un quarto d’ora! Questo disagio è evidente nel suo libro. Nelle sue pagine si avverte il suo attaccamento all’Europa e la sua analisi storica. Ma in conclusione lei finisce per ammettere che il sistema attuale non funziona. È triste, ma non sono sorpreso. Già nell’ultimo capitolo del mio libro In Europa (Fazi, 2006) scrivevo che la nave, con 27 capitani sul ponte, era molto squilibrata. Avevo detto che questo avrebbe posto grossi problemi in caso di tempesta. E adesso la tempesta è arrivata. Il suo libro termina con un nota pessimista. Quali sono le sue speranze per il 2012? Nel 2012 il problema è sapere a che cosa assomiglierà l’Europa. Rimarrà un sistema comunitario sotto la direzione di una potente Commissione europea o diventerà un sistema intergovernativo decentralizzato, come vorrebbero i tedeschi? A questo proposito i Paesi Bassi potrebbero avere un ruolo di mediazione, visto che non siamo così dogmatici come i tedeschi. © Nrc Handelsblad - www.presseurop.eu
so gli europartner per la riunificazione tedesca e quanto la moneta unica abbia contributo al successo dell’export teutonica. Ma la cancelliera concede soltanto un «senza l’unità tedesca e il lavoro di Kohl oggi non sarei qui», per poi subito ribattere: «L’Europa doveva essere la più grande economia al mondo, ma non lo è. Noi vogliamo essere i più competitivi nel mondo, ma certo per farlo non intendiamo torturare i partner». Quindi mette nel calderone delle trattative sul patto fiscale anche il piano per la crescita che José Barroso si appresta a lanciare per frenare la recessione nella
Tutta merce di scambio per un accordo che allontani un reale potenziamento dell’Esm o la trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza. Così per capire i fini e le mosse della Germania bisogna leggere l’ultima bozza del Fiscal Packt, sulla quale stanno lavorando la Commissione e le delegazioni degli europartner a Bruxelles. Nell’articolo 2 si prevede che «se il rapporto debito/pil eccede il 60 per cento, i Paesi dovranno ridurlo a una media di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento come previsto nell’articolo 2 del regolamento 1467/97 emendato dal regolamento 1177/2011». E la norma sarà già applicata dal 2013. Ma due articoli dopo, al numero 4, ecco ribaltata la situazione: «I Paesi potranno temporaneamente deviare dal rispetto degli obiettivi di medio termine di riequilibrio dei conti pubblici, così come fissati dal nuovo patto di bilancio Ue, solo in caso di un evento eccezionale al di fuori del controllo della parte contraente o in periodi di grave recessione economica». Una clausola che fa inorridire l’Europarlamento, mina le normali procedure di riforme all’interno dell’Unione oggi basate sull’unanimità, allontana che quel meccanismo Salva Stati chiesto dai mercati, ma potrebbe mantenere la coesione in un’Europa ancora azzoppata dalla crisi. Per l’Italia una mezza vittoria, senza la quale però le liberalizzazioni che Monti si appresta a fare (distributori di benzina e fornitori di energia) difficilmente vedrebbero la luce.
L’appello del premier ai mercati: «Non saremo più fonte possibile di infezione per la zona euro. Non chiediamo ricompense ma riconoscimenti ai nostri sforzi fatti». Gli operatori continuano a speculare sui Btp e cresce lo spread quale sta cadendo il Vecchio Continente. «Strumenti che hanno un costo, ma che portano sviluppo». A dirla tutta l’obiettivo della Commissione è soprattutto quello di aprire i mercati interni dei Paesi più ricchi e più chiusi – Germania in testa – per la gioia delle imprese del terziario e nella speranza di accelerare la domanda interna, ormai inesistente in Eurolandia. La Merkel, abilissima a traccheggiare, invece rilancia con i 250 miliardi in pancia al Fondo salva stati o ai miliardi non spesi tra fondi strutturali e fondi di coesione del bilancio europeo 2007-2013.
pagina 4 • 12 gennaio 2012
l’approfondimento
L’Italia ha fatto tagli, riforme e una manovra durissima. Adesso sta ai partner europei dimostrare che vogliono l’Unione
«Riformare la Bce»
Per La Malfa e Lanzillotta «occorre una politica di sviluppo economico. Con l’amara medicina imposta da Monti l’Italia è diventata credibile, è venuto il momento che lo siano anche Germania e Francia. Approvando la riforma di Eurotower» di Riccardo Paradisi ario Monti arriva a Berlino per il vertice con la cancelliera Merkel con la coscienza tranquilla di chi ha svolto i compiti a casa. Era questa la formula che il premier italiano aveva usato al termine dell’incontro di Bruxelles dello scorso novembre precedente alla dura manovra imposta agli italiani. Ora però dopo che l’Italia ha fatto la sua parte Monti si aspetta che l’Europa e in particolare la Germania facciano altrettanto. «L’Italia ha dato il suo contributo - diceva Monti lo scorso 7 gennaio - ora il momento di fare i compiti a casa è giunto per tutti. l’Europa supererà la crisi solo attraverso un’azione di tutti i suoi componenti». È lo stesso concetto che il premier italiano ribadisce in un’intervista al quotidiano tedesco Die Welt: «Quello che chiediamo ed esigiamo dagli italiani sono grandi sacrifici, sono necessari, per realizzare le riforme, che porteranno a una
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nuova, più forte crescita. Il problema è che in cambio di questi sacrifici l’Italia non ha una concessione dalla Ue, per esempio sotto forma di un calo dei tassi d’interesse». Il presidente del Consiglio italiano non si limita alla polemica, manda anche un avvertimento a Berlino e all’Europa: «I sacrifici che gli italiani sopportano porteranno benefici tra tre o cinque anni, per i nostri figli. E purtroppo devo constatare che questa politica non riceve nella Ue l’apprezzamento e la valutazione che obiettivamente merita.
E se per gli italiani non ci sarà la percezione di successi tangibili della loro disponibilità a risparmi e riforme, ci saranno in Italia proteste contro l’Europa, anche contro la Germania vista come il leader dell’intolleranza targata Ue, e contro la Banca centrale europea. Chiedo agli italiani duri sacrifici, posso esigerli soltanto se si vedono all’orizzonte vantaggi concreti». Il Sole 24 ore di ieri pubblicava un
intervento di Giorgio La Malfa in cui invitava Monti a chiedere reciprocità e a non sottoscrivere accordi troppo duri per noi. «Se la Germania, la Francia e i loro alleati più stretti del Nord Europa – dice La Malfa - chiederanno, nel prossimo vertice europeo, di sottoscrivere, nel nuovo trattato su cui si sta lavorando, un impegno vincolante e senza attenuazioni a ridurre annualmente i rapporto tra il debito pubblico e il Pil di un ventesimo della consistenza at-
«La riduzione del rapporto debito e Pil di 5 punti è insostenibile»
tuale, l’Italia non dovrebbe firmare questo trattato». L’impegno che ci viene richiesto da Sarkozy e dalla Merkel, garantire una riduzione del rapporto fra debito e Pil di 5 punti percentuali l’anno per i prossimi 20 anni è, in altri termini, semplicemente insostenibile. «Era a stento sostenibile nella versione Tremonti – dice a liberal La Malfa, che doveva cominciare dal 2014-2016 e che era calibrata su fattori vincolanti figuriamoci questa. Del resto l’Europa che
chiede crescita non garantisce sulla sua di crescita. E poi come si dovrebbe sviluppare la crescita, con le liberalizzazioni? Ma davvero si pensa che possano bastare le liberalizzazioni affiancate a una politica di estremo rigore e di lesinamento in un’economia che cresce del 2,3% l’anno?».
Insomma la questione non sono né la Tobin tax, che la Merkel dice di condividere anche se è necessaria l’approvazione degli altri partner europei, né gli eurobond, pure importanti. No, la questione centrale è una politica di sviluppo economico europeo che abbia l’obiettivo di far crescere l’economia del continente a ritmi sostenuti. «La crescita economica – dice La Malfa - può essere stimolata con la politica monetaria e i tassi di cambio. Invece l’Europa si è strangolata da sola tenendo alto il tasso di cambio. La Germania non ha subito le conseguenze della banca centrale perché la politica della Bce ha tenuto un
12 gennaio 2012 • pagina 5
L’analista economico dell’American Enterprise Institute bacchetta il malcostume finanziario
«Diciamo la verità: la palla ora è in mano a Draghi» «Soltanto con una modifica di Francoforte in senso liberale potremo vedere la rinascita dei mercati europei. Altrimenti l’euro è finito» di Adam Lerrick uando i partner dell’Eurozona si riuniranno la prossima settimana per l’ennesimo incontro, la Cancelliera tedesca Angela Merkel chiederà ai membri dell’Unione di firmare un patto di unità fiscale, gettando di fatto al vento la loro propria sovranità di bilancio. Ma i reticenti investitori globali sembrano aver perso l’appetito, e questa ennesima grande soluzione appare loro troppo distante per contarci veramente. È da troppo tempo che applicano molti sconti in nome delle promesse dei governi, che giurano di voler emendare il proprio modo di fare. Ora quello che serve veramente è il forte braccio della Banca centrale europea, che deve eliminare un rischio catastrofico dal mercato senza mettere a rischio la missione centrale delle banche, che è quello di combattere l’inflazione. La maggior parte dell’Europa anela una soluzione rapida che fissi le perdite. I ministri delle Finanze vogliono che la Bce faccia ricorso alle macchine da stampa e tiri fuori duemila miliardi di euro freschi per comprare ogni debole bond governativo in vista, fino ad abbassare i tassi da un realistico 7 per cento a un ipotetico 4 per cento. Dall’altra parte dell’Atlantico il team Obama – che non ha mai incontrato una nazione, una banca, una compagnia o un possidente di case che non volesse aiutare finanziariamente – sta spingendo affinché Eurotower divenga una copia carbone dell’americana Federal Reserve. Fino a ora, aver impegnato 200 miliardi di euro per comprare bond ha creato soltanto un transitorio respiro di sollievo per i prezzi, affossando però nel contempo il bilancio della Bce con degli asset molto problematici.
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Puntare su denaro gratuito non fa altro che dare un sollievo di breve durata a un problema di lungo periodo. Questo modo di fare ignora semplicemente il potere degli incentivi e la velocità con cui queste aspettative si riflettono sugli schermi finanziari globali di oggi. I politici, che non sarebbero più legati ai costi dei prestiti, tornerebbero una volta di più a spendere troppo denaro per convincere i loro elettori a vivere con un tenore di vita che la loro produttività non può permettersi. Un’esplosione nella riserva di denaro darebbe il via a una larga inflazione e, insieme ad essa, a un massiccio trasferimento di benessere dall’ordinato nord Europa verso un più rilassato sud. I mercati sarebbero costretti ad affrontare una crisi valutaria, proprio loro che un tempo potevano contare su un euro stabile. Ma nella strada che va da un prestito totale e un abbandono dei mercati al caos c’è un punto dove la Bce può intervenire con efficacia: può infatti creare un “piano di sostegno” per puntellare i progressi eu-
ropei in vista dell’unione fiscale. Delle chiare regole di intervento potrebbero aiutare a mitigare l’incertezza che sconquassa i mercati. Un annuncio pubblico della creazione di questo piano potrebbe inserire una nuova regola: la Bce si impegna ad acquistare tutti i bond di uno Stato membro che abbia un prova-
«Per vincere dovete dare una Bundesbank agli italiani, non una Bankitalia ai tedeschi» to – non promesso – impegno alla riforma fiscale fino a un margine di inflazione del 5 per cento. Si tratterebbe di un intervento istantaneo: se il governo in necessità dovesse uscire dall’Eurozona o fallire i suoi impegni, la Bce smetterebbe automaticamente di sostenerlo. In questo modo la Bce potrebbe uscire dal bivio se scegliere i mercati stabili o l’integrità delle Banche centrali. Metterebbe un limite al mercato, proteggendo gli investitori contro le perdite provocate dal panico (ma non da tutte le perdite). Metterebbe un freno alla mania di spesa dei politici, aiutando nel contempo le economie più deboli nella loro strada verso la ripresa. E soprattutto salvaguarderebbe gli elementi chiave del benessere finanziario dell’Eurozona: liquidità, solidi valori collaterali e, per lo stesso euro, inflazione e tassi di scambio stabili. Questo piano cadrebbe mentre sale l’inflazione, combattendo contro l’espansione monetaria. Ogni mese, un tasso di inflazione annuale dell’Eurozona porterebbe al reset il livello di tasso per i bond da 5 a 10 anni. Al tasso inflativo attuale pari al 3 per cento, i tassi di interesse sovrani sarebbero limitati all’8 per cento. Per un bond a 7 anni con un interesse del 7 per cento avremmo un ritorno garantito del prezzo nominale pari al 95 per cento. Se l’inflazione cala al 2 per cento, il prezzo salirebbe al 100 per cento. Le Banche centrali sono disegnate per alzarsi quando i mercati falliscono la loro funzione. Per i puristi del Consiglio centrale della Bce, questo piano potrebbe rispondere ai requisiti classici di un pre-
statore di ultima istanza, che presta durante una crisi con tassi cattivi invece che buoni. Cosa succederebbe invece se la Bce decidesse di sedersi a un lato del campo, senza inserire un piano di sostegno per arrestare la spirale discendente? Gli investitori si rifiuteranno di comprare bond a questi tassi. I mercati nel panico porteranno i prezzi oltre ogni valutazione razionale. Chi chiederà un prestito, solvente ma senza liquidi, sarà costretto al default mentre i costi della finanza schizzeranno fuori controllo. I politici e i banchieri confonderanno la fine del loro mondo con la fine del mondo. La Banca centrale abbandonerà i suoi principi e un altro bailout rinnoverà la fiducia degli investitori a scherzare con i soldi dei contribuenti. I fondatori dell’Unione monetaria europea promisero di dare una rigorosa Bundesbank agli italiani. Invece, sembra che la Bce sarà costretta a cambiare il passo e dare ai tedeschi la Banca d’Italia. L’Europa deve uscire dalle ombre della preistoria finanziaria – dove le grandi banche e i governi si uniscono per gestire i mercati – e accettare la realtà: esiste una stanza globale di commercio che è dura e veloce, focalizzata sul profitto. Dovete imparare a lavorare con i mercati, non controllarli, e dovete usare la Bce senza corromperla.
alto tasso di cambio verso il dollaro e basso tra lira e marco che ha consentito alla Germania di guadagnare sulle esportazioni. Adesso o l’Europa si pone il problema della crescita e la Germania fa memoria di questi ultimi quindici anni ammettendo con i fatti che ha tratto giovamento da questo assetto oppure è il disastro. La politica comune non è la lesina comune, perché dopo la lesina c’è solo la lesina». Ma Monti è in grado di ottenere una politica europea per la crescita? La Malfa è relativamente ottimista: «Credo che riusciremo a evitare la versione più draconiana di questa norma. Monti deve però fare pressing, forte anche del fatto che sulle posizioni di condizionamento dell’Europa sono schierati europeisti italiani della prima ora, non euroscettici o eurocritici. Europeisti e amici della Germania che spingono in questa direzione. Che è l’unica se non si vuole che l’Europa imploda. Se poi è questo l’obiettivo di alcuni, ebbene che lo dicano. L’Italia ha già dato ora è l’Europa che deve dare all’Italia».
Dalla Merkel arriva invece, per ora, solo qualche timida apertura ma per il resto si tratta ancora di attendere. E la cancelleria sembra più abbottonata che aperta a cambiare pagina sulla governance europea. «Non so se sia giusto dire che la Germania debba restituire qualcosa all’Europa dopo aver ricevuto aiuto ai tempi della riunificazione tedesca» - dice infatti la Merkel, durante la conferenza stampa congiunta con Monti rispondendo a chi gli chiedeva se non ritenesse che Berlino non debba avere un atteggiamento più generoso verso l’Ue. «L’unificazione tedesca è stato un vantaggio per l’Europa, forse abbiamo avuto anche noi un vantaggio, ma siamo convinti di essere utili all’Ue». Se non altro la Germania è disposta a versare fin dall’inizio più capitale nell’Esm (Fondo salva-stati permanente - ndr) «perché se ci sono dei versamenti subito potrebbe essere un messaggio positivo per i mercati». Parla di “timide aperture” tedeshe anche l’esponente del terzo polo ed esperta di politiche economiche e amministrative Linda Lanzillotta. «Le politiche di rigore che l’Italia ha dato prova di voler fare non devono uccidere il malato. I segnali della Germania sono ancora troppo timidi anche perché la crescita della Germania viene dalle esportazioni e le esportazoni sono date dall’area euro. Se questi paesi che importano prodotti tedeschi non ripartono anche la Germania dovrà prendere atto della situazione». In qualche modo l’Italia ha avuto dei riconoscimenti, la Merkel ha ammesso che manovra, tagli e riforme sono state avviate. «Dopo i passi fatti la visione europeista dell’Italia ricomincerà a contare. E farà pesare il suo status. Mettendo al centro la riforma della Bce e della governance europea».
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Attesa la decisione degli zibellini sull’ammissibilità dei quesiti
L’assedio alla Consulta I referendari sfilano fuori dalla Corte costituzionale. E Calderoli va all’attacco di Marco Scotti e fosse un film, il titolo sarebbe “Il giorno del giudizio”; se fosse una partita di calcio, sarebbe un derby che decide l’esito del campionato. Comunque la si voglia guardare, la decisione della Consulta – attesa per oggi, dopo una lunga camera di consiglio iniziata ieri – che dovrà dichiarare ammissibili o meno i due quesiti referendari che riguardano la legge elettorale conosciuta come porcellum (la mirabile definizione è di Giovanni Sartori), rappresenta e rappresenterà uno spartiacque nella vita politica italiana. Mentre fuori i referendari sfilano e Di Pietro invoca le preghiere dei firmata, sembra un assedio. Ma partiamo dall’inizio. Il 21 dicembre 2005 viene approvata in tutta fretta una nuova legge elettorale. Padre del provvedimento è Roberto Calderoli, che bolla la sua neonata creatura con un aggettivo che non si sente spesso nelle nursery: porcata, che verrà presto mutato in un più raffinato porcellum.
S
La sostanza cambia poco, la legge elettorale, realizzata sull’onda di sondaggi che davano la coalizione guidata da Romano Prodi in vantaggio schiacciante sull’asse LegaPdl, era l’estremo tentativo di arginare la possibilità del centro-sinistra di entrare a Palazzo Chigi. Punti chiave della “porcata”: abolizione dei collegi uninominali; premio di maggioranza alla Camera di 340 seggi (il 55%) alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza relativa; indicazione del nome del candidato premier, autentica forzatura della Costituzione che prevede che sia il Presidente della Repubblica a scegliere il nome del Primo Ministro; e, soprattutto, abolizione delle preferenze, che di fatto esautorano la volontà
popolare, facendo scegliere ai partiti i nomi di coloro che siederanno nei banchi del Parlamento. Dopo l’elezione del Governo Prodi, si inizia a parlare della volontà di abrogare il porcellum per dare vita a una nuova legge elettorale. Ma ogni tentativo cade immancabilmente nel vuoto anche per la fragilità sistemica dell’esecuti-
Punti chiave della “porcata”: abolizione dei collegi uninominali e premio di maggioranza vo guidato dal professore bolognese. Il Berlusconi IV sembra voler trovare un nuovo meccanismo di elezione, ma dalle parole non si passa mai ai fatti. Con il progressivo scollamento del governo
di centro-destra dal consenso popolare, inizia a farsi sentire forte la volontà di alcuni di cambiare le regole del gioco. Primo tra tutti, un gruppo di intellettuali e di professori (tra cui Giovanni Sartori, Tullio De Mauro e Margherita Hack).
Che, guidato da Stefano Passigli, dà vita all’iniziativa “Io firmo”, che si propone non solo di abrogare la legge Calderoli, ma di dare vita a una nuova legge elettorale che si basa fondamentalmente su quattro punti: abolizione dei listini bloccati; eliminazione del nome del candidato premier dalle schede elettorali; soglia di sbarramento sul modello tedesco; ripensamento del premio di maggioranza che rischia di favorire oltre misura la coalizione che si aggiudica la maggioranza relativa. Il progetto trova ampia eco sui giornali e sembra un buon viatico da cui ripartire. Ma siamo in Italia, dove è bello farsi la guerra anche quando si è d’accordo. Anzi, forse la soddisfazione è persino maggiore. Ecco quindi che, poco dopo il lancio della raccolta delle firme dell’iniziativa di Passigli, la politica torna a far sentire la sua voce. In particolare, Idv e una frangia del Pd capitanata da Arturo Parisi, lanciano una contro-proposta di referendum abrogativo, che diviene ben presto l’unica dopo la decisione di Stefano Passigli di abbandonare uno scenario che si stava trasformando in una sorta di gara a chi è più ostile al porcellum. La proposta dell’Idv e di Parisi consta di due quesiti: il primo volto a cancellare completamente la legge Calderoli, il secondo che mira invece a correggere le modifiche effet-
In alto la Corte costituzionale in occasione della nomina del presidente. A sinistra Di Pietro, a destra Parisi. Nella pagina a fianco l’ex ministro leghista Calderoli tuate nel 2005, ridando vita, de facto, al cosiddetto Mattarellum nato sull’onda di Mani Pulite. La campagna di raccolta firme lanciata da Di Pietro ottiene oltre 1.200.000 adesioni e viene portata davanti alla Consulta, che deve decidere se dare via libera o meno al referendum abrogativo. Torniamo così al punto di partenza. Che cosa ci si può attendere dalla decisione della Corte? Tre le possibili strade.
La prima, che viene considerata da molti la più probabile, è la bocciatura della richiesta referendaria. Questo perché la Consulta teme che se si considerasse ammissibile la richiesta dei firmatari, se vincesse il “sì”vi sarebbe un vuoto normativo che non permetterebbe agli italiani di andare a votare fino a che il parlamento non riuscisse a trovare un accordo su una nuova legge elettorale. Ma, dicono altri costituzionali-
sti, questa non è l’unica visione possibile: se si abrogasse il porcellum si potrebbe mantenere nel frattempo il Mattarellum, in attesa di una nuova legge elettorale. È su questo che si gioca la partita più complicata. Secondo gli ultimi “exit poll”, dei quindici membri della Consulta, sei sarebbero favorevoli al referendum, cinque contrari e quattro ancora in bilico. Una situazione di grande incertezza. Una nota ironica è rappresentata dal fatto che uno dei quindici è proprio Sergio Mattarella, padre del Mattarellum che si troverebbe a dover dare parere positivo o negativo sulla legge che ha soppiantato la sua.
Seconda possibilità: la Consulta boccia il primo quesito, quello che vorrebbe proporre l’abrogazione del Porcellum e dà invece via libera a quello che lo “restaurerebbe”, riportandolo di fatto alle sembianze che aveva il Mattarellum. Ap-
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Con una lunga e dotta nota spiega perché andrebbero rigettati i quesiti
E l’ex ministro si scopre esperto costituzionalista
Fra le sue mille vite, al leader leghista mancava quella di giurista. Ieri è sceso in campo per il suo Porcellum di Marco Palombi
ROMA. Uno è abituato a vederlo in molte vesti:
che, e qui si innesta l’ultima e più calda polemica, il Parlamento non riesca nel frattempo a realizzare una nuova legge elettorale. Sembrava, fino a poco tempo fa, una remota possibilità, dal momento che l’Esecutivo e le Camere erano troppo impegnati a fronteggiare l’emergenza composta dal mostro a due teste recessione-speculazione. Sembrava, appunto.
Una nota ironica è rappresentata dal fatto che uno dei quindici a decidere è proprio Sergio Mattarella pare al momento la soluzione meno percorribile, anche perché la più pilatesca delle tre. Infine, terza possibilità: i quindici decidono di dare via libera alle consultazioni referendarie che potrebbero tenersi, sempre secondo la Costituzione, in un arco temporale compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. Sempre
Perché negli ultimi giorni il Pd ha affermato con vigore la volontà di intavolare una nuova trattativa per una legge elettorale – finalmente – a misura di cittadino. L’iniziativa non dev’essere piaciuta a Di Pietro, che ha dichiarato – dopo aver sostenuto che se la Consulta dovesse bocciare l’iniziativa referendaria saremmo di fronte alla morte della democrazia – di prendere atto che Pd e Pdl hanno di fatto dato vita a una nuova maggioranza da cui l’Idv è esclusa. Professori o no, lo scenario politico italiano ha sempre un terribile retrogusto amaro. Speriamo che la pallina di zucchero arrivi presto.
odontoiatra, allevatore di lupi, pork sitter in passeggiata su terreni destinati a moschea, dichiaratore compulsivo sulle agenzie di stampa in specie nel week end, anti-islamico vagamente psicotico, riformatore delle istituzioni in baita, patriota celtico, omofobo in servizio permanente effettivo, addirittura ministro. Ieri, però, Roberto Calderoli ci ha sorpreso e s’è presentato al mondo sotto la nuova veste di costituzionalista sopraffino. Non si fraintenda, colui che oggi si firma pomposamente Coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord, qualunque cosa significhi, potrebbe persino aver ragione, ma è il ruolo che non gli si addice: troppo difficile per chi ami seguirlo giornalmente - vederlo passare dalle contestazioni sul cotechino della signora Monti alle colte elucubrazioni di teoria costituzionale. L’ardua materia su cui il nostro s’è esercitato ieri, per i curiosi, è nientemeno che quella della ammissibilità costituzionale dei referendum elettorali. In conflitto d’interessi, peraltro, visto che l’attuale legge l’ha scritta proprio lui per poi definirla una “porcata”- da cui, appunto, Porcellum - inventata solo per ridurre i margini di vittoria del centrosinistra nel 2006. La Consulta, sostiene Calderoli, potrebbe far passare i quesiti solo “sulla base di motivazioni politiche, in conseguenza della pressione dell’elevato numero dei sottoscrittori, dei media e all’indebita invasione di campo dei professori di diritto costituzionale. Il pronunciamento nel merito, invece, non può che essere di inammissibilità”. Apodittico, il nostro, che d’altronde fu saggio in Cadore nell’estate 2003, anche se non a lungo: “Da quando t’ho fatto saggio, ti sei rincoglionito”, lo ridimensionò Umberto Bossi pochi mesi dopo. Tant’è, la saggezza – nota costituzionale di ieri a parte – non è mai stata la sua passione. Cogliendo fior da fiore si potrebbe citare la volta, era il 2007, che mise “a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale per una passeggiata sul terreno dove si vorrebbe costruire”, o quella in cui negò si potesse concedere il diritto di voto ai “bingo bongo che qualche anno fa stavano ancora sugli alberi” o definì in tv la giornalista Rula Jebreal “quella signora abbronzata”. Più che dalla Costituzione, insomma, uno se lo immagina preoccupato dall’effetto dell’omosessualità nel bergamasco (“la civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni: qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”) o pronto alla pugna contro le orde islamiche: va almeno ricordata la sua performance del 2006,
quando mostrò su Raiuno la t-shirt con le vignette satiriche su Maometto scatenando un attacco al consolato italiano a Bengasi in cui morirono 11 persone.
Tempi dimenticati, almeno per ieri, quando il buon Calderoli ha voluto spiegarci perché non si può riesumare il vecchio Mattarellum – utilizzando, peraltro, il termine “reviviscenza”, tanto tecnico quanto aulico – coi referendum proposti da Parisi e Di Pietro. Si immagina che chi legge sia curioso della teoria calderoliana almeno quanto lo fu chi scrive leggendo il titolo d’agenzia, dunque eccola: intanto, dice l’ex ministro leghista, non si può resuscitare una legge abrogando quella che l’ha sostituita, ma c’è un’altra ragione, sostanziale, per dire no. Segue, per così dire, il ragionamento: “Anche qualora - in ipotesi - si potesse produrre la riviviscenza della legge abrogata, il Mattarellum non sarebbe in grado di funzionare in quanto i collegi e le circoscrizioni di quest’ultimo avrebbero dovuto essere adeguati al censimento del 2001 e alle modifiche della legge Tremaglia sugli eletti all’estero. L’adeguamento si è reso così necessario che, a suo tempo, nel 2005, venne adottato un decreto-legge, il n. 64, quale intervento ponte di emergenza, in mancanza del quale non sarebbe stato possibile andare a nuove elezioni”. Oggi, dunque, “non sarebbe possibile intervenire con nessuno strumento legislativo sul Mattarellum in quanto lo stesso risulta abrogato e quindi non ci sarebbe l’oggetto su cui intervenire. Conseguentemente, anche se fosse condivisa la tesi della riviviscenza del Mattarellum, rimarrebbe un vuoto legislativo che la nostra Costituzione non accetta in materia elettorale e certamente la Consulta non può dichiarare ammissibile un quesito nella speranza che questo vuoto venga sanato successivamente”. Su questo dato di fatto, conclude sarcastico l’odontoiatra Calderoli, “si è accuratamente taciuto…”. Non si sa se questo testo così ispirato il nostro se lo sia fatto scrivere (o almeno leggere) da qualcuno, oppure se nel segreto della sua villa, il Coordinatore delle segreterie eccetera si diletti in studi pensosissimi che qui si rivelano: noi, comunque, si continua a preferirlo nella sua versione naif. Speriamo, per dire, che dopo gli Europei di calcio di questa estate possa riprendersela con la Francia come fece dopo il Mondiale 2006: “Ha perso – disse allora – perché ha immolato la propria identità per il risultato schierando negri, islamici e comunisti”. Questo è Calderoli.
La Consulta «potrebbe far passare i quesiti solo sulla base di motivazioni politiche, per la pressione dei sottoscrittori, dei media e dei costituzionalisti»
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entunmila abitanti, Casal di Principe si trova in provincia di Caserta, tra il Volturno e l’agro aversano. Il nome, secondo la leggenda, risale a un figlio naturale del re di Ungheria Mattia Corvino che aveva complottato contro il padre, e che il padre per punizione mandò appunto al confino in un casale in mezzo alle paludi, ai confini del regno del suocero Ferdinando I d’Aragona. Insomma, un domicilio coatto del XV secolo. Corvino è tuttora il cognome locale più diffuso, ma prima di concludere razzisticamente per un trapianto di dna eversivo che abbia irreversibilmente predeterminato gli abitanti bisogna ricordare tre cose. Primo, che Antonio Bardellino, colui che a fine anni Settanta ebbe l’idea di infiltrare la vecchia camorra nell’economia dando vita a quello che sarebbe stato chiamato “il Clan dei Casalesi”, era in realtà nato a San Cipriano d’Aversa. Secondo, che a Casal di Principe sono nati fior di vittime e denunciatori della criminalità organizzata: dal prete anticamorra Giuseppe Diana, assassinato nel 1994; al sindacalista medaglia d’oro al valor civile Federico Del Prete, a sua volta assassinato nel 1992; a Domenico Noviello, imprenditore e anche lui medaglia d’oro, assassinato invece nel 2008; a Rosaria Capacchione, giornalista autrice del libro L’oro della camorra. Il terzo particolare, è che il ruolo di “capitale della camorra”dato a Casal di Principe dal libro Gomorra di Roberto Saviano ha forse un’origine troppo mediatica per non meritare di essere ripensata con un po’di prospettiva. Riprova di una sensibilità popolare che non si sa se definire pacifista, antimilitarista e antistatale, il soldatino che lancia una granata al locale monumento ai caduti di Piazza San Rocco è stato a lungo deriso col soprannome di“nanerottolo”. Ma di posti di blocco dell’esercito, in rinforzo a Carabinieri e Polizia, il paese è stato riempito dopo l’uscita del best-seller di Saviano, su volere del Ministero dell’Interno.
il paginone
V
Ascesa e caduta de
di Maurizio
Insomma, non è un posto facile per nascere. Nicola Cosentino, che a Casal di Principe viene al mondo il 2 gennaio del 1959, non è parente diretto di camorristi. Due suoi fratelli si legheranno però a famiglie chiacchierate. Uno, in particolare, si sposerà con Mirella Russo, sorella del boss Peppe O’ Padrino, oggi all’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa. Un altro si sposerà invece con la figlia del defunto boss Costantino Diana. I fratelli sono quelli che oggi gestiscono la società di gas e carburante fondata dal padre, ma lui non partecipa. C’è anche la madre che fa di cognome Schiavone: cognome che a torto o a ragione è anch’esso associato alla camorra. Lui in realtà vuole fare il calciatore e sembra che abbia anche del talento di centravanti goleador, ma lo ferma un brutto infortunio, e Nicola seguendo un percorso più consueto ai rampolli del ceto medio-alto centromeridionale si iscrive alla facoltà di giurisprudenza. Ma prima ancora della laurea sente anche un’altra attrazione che al è centro-sud spesso collegata alla carriera forense, e si dà alla politica. A 19 an-
ni è infatti consigliere comunale con il Partito socialista democratico italiano: una forza politica dal passato glorioso, la cui immagine già a quell’epoca era, a causa degli scandali, la più appannata di tutto l’arco costituzionale; anche se, come poi evidenzierà Tangentopoli, è fin troppo facile scaricare sul Psdi la comoda definizione di “partito dei ladri”. Quel che accade è che con l’ascesa di Craxi il Psdi si è visto svuotare la sua nicchia politica storica, e ridurre spesso a una sorta di scatola vuota, al servizio di chiunque voglia riempirla con personalità e iniziativa. E Cosentino di iniziativa evidentemente ne ha. A 21 anni diventa infatti consigliere provinciale; a 24 assessore con delega ai servizi sociali; a 26, rieletto consigliere provinciale, è assessore alla Pubblica Istruzione. Rieletto per la terza volta di fila nel 1990, diventa assessore all’Agricoltura. È durante questo mandato che la Prima Repubblica viene giù con Tangentopoli. Collassano i vecchi partiti, e con essi anche molte carriere politiche. Ma per altri la crisi è un’opportunità. In
particolare, la creazione di Forza Italia che in breve si trova a essere il primo partito nazionale ma senza rappresentanze locali, dà l’occasione a molti eletti del vecchio pentapartito di aprire gruppi consiliari del nuovo movimento di Berlusconi, e di entrarci così in posizioni di forza. L’ex-socialdemocratico Cosentino, per la verità, all’inizio ha provato ad andare con i nuovisti di Alleanza Democratica. Ma nel 1994 fa il salto, e il 23 aprile 1995 è eletto per Forza Italia consigliere regionale. 12.851 preferenze, pari al 31,50% dei voti di preferenza espressi nella sola provincia di Caserta: sul suo radicamento nel
re per le questioni regionali e della Commissione Difesa. Il 24 settembre 1997 è designato coordinatore di Forza Italia per la provincia di Caserta, per poi divenire vice-coordinatore regionale con delega agli enti locali, e nel giugno 2005 coordinatore regionale. Qua bisogna ricordare le difficoltà di Forza Italia in Campania. Alle regionali del 1995 è risultato per un’incollatura il secondo partito col 18,87% dei voti contro il 19,95% del Pds e il 18,28% di An, ma governatore è diventato l’aennino Antonio Rastrelli. Nel 2000 è diventata primo partito col 20,93 contro il 14,19 dei Ds, l’11,14 di An e il 10,53 del
Dopo “Gomorra” il paese natale di Cosentino ha assunto il ruolo di “capitale della camorra”. Forse una definizione mediatica, ma la località dell’aversano è abitata da famiglie “chiacchierate” territorio, non ci piove. Neanche sul fatto che chi si radica in territori chiacchierati finisce fatalmente per essere chiacchierato a sua volta. Ma ciò a più lungo termine. Nel 1996 dalla Regione salta intanto direttamente nella politica nazionale: deputato con 35.560 voti, nel collegio Capua Piedimonte Matese. E sarà rieletto anche nel 2001, nel 2006 e nel 2008.
Componente del direttivo parlamentare di Forza Italia, dal 17 ottobre 1996 è membro della Commissione parlamenta-
Ppi, ma governatore è diventato il diessino Antonio Bassolino. Nel 2005 Bassolino è confermato e in più Forza Italia è dimezzata quasi all’11,94%; contro il 15,95 della Margherita, il 15,2 dei Ds, il 10,58 di An e il 10,14 dell’Udeur. Il rovescio si è esteso anche alla figura personale di Cosentino, che si è candidato alla Presidenza della Provincia di Caserta con sondaggi a favore che gli davano fino al 60% dei voti, ed è stato invece sconfitto dal candidato del centro-sinistra Sandro De Franciscis dell’Udeur.
il paginone Oggi a Montecitorio il voto finale sul via libera all’arresto dell’ex sottosegretario Pdl, accusato di concorso esterno in associazione camorristica Cosentino con Berlusconi. Proveniente dal Psdi, dopo Tangentopoli entra in Forza Italia e viene eletto consigliere regionale nel ’95. Fino a diventare, nel IV governo Berlusconi, sottosegretario all’Economia e alle Finanze
l’onorevole Nicola Cosentino e anche l’onorevole Mario Landolfi vi aveva svariati interessi». Landolfi era di An. «Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe». «Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto». È così che nel novembre del 2009 i magistrati inquirenti inviano alla Camera una richiesta di autorizzazione a procedere per l’esecuzione della custodia cautelare per il reato di concorso esterno in associazione camorristica. «Cosentino contribuiva con continuità e stabilità, sin dagli anni Novanta, a rafforzare vertici e attività del gruppo camorrista che faceva capo alle famiglie Bidognetti e Schiavone, dal quale sodalizio riceveva puntuale sostegno elettorale creando e cogestendo monopoli d’impresa in attività controllate dalle famiglie mafiose, quali l’Eco4 spa, e nella quale Cosentino esercitava il reale potere direttivo e di gestione, consentendo lo stabile reimpiego dei proventi illeciti, sfruttando dette attività di impresa per scopi elettorali», dice il mandato di arresto. La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera respinge, ma a fine 2009 è il camorrista pentito Luigi Guida, “O’ndrink”, a fare nuove rivelazioni sul rapporto tra Cosentino e i fratelli Sergio e Michele Orsi: il primo arrestato per associazione a delinquere; il secondo assassinato nel 2008 per aver denunciato dei camorristi. Il 28 gennaio del 2010 la Cassazione conferma le misure cautela-
cui la provenienza da una zona ad alta presenza camorrista non gli ha provocato ancora il minimo appunto, nell’agosto del 2008 L’Espresso pubblica improvvisamente una dichiarazione del boss pentito Carmine Schiavone dai toni esplosivi. «Io era amico di Nicola Cosentino... Io intervenni anche per far votare Cosentino... Però il Riccardi mi sembra
ri a carico di Cosentino; il 19 febbraio Berlusconi respinge la richiesta di dimissioni. Ma ormai Cosentino è diventato un tema più caldo delle stesse Olgettine. E nel luglio del 2010, quando salta fuori la storia della “nuova P2”di Flavio Carboni, tra le varie accuse fatte c’è
el “principe” Nicola
o Stefanini Sembra per le gelosie di altri dirigenti, che passano armi e bagagli al partito mastelliano. Viene messo comunque alla testa di un partito allo sbando in vista di elezioni politiche che si annunciano proibitive, e che infatti saranno perse. Ma Cosentino fa il miracolo di far aumentare i suffragi di Forza Italia di due volte e mezza, arrivando al 27%, tornando così al primo posto fra i partiti campani. Certo: a tutte le politiche la lista di Berlusconi tende a prendere di più, proprio per l’effetto di trascinamento del leader. Comunque, viene premiato con l’arrivo al governo: dal 12 maggio è sottosegretario all’Economia e alle Finanze del quarto governo Berlusconi, con delega alla programmazione economica. È il massimo della sua carriera, visto che in questo momento è sottosegretario, deputato e consigliere provinciale; coordinatore regionale. Un ulteriore salto lo tenterà nel 2010, quando cerca di essere candidato a governatore in un voto regionale che l’usura dell’immagine di Bassolino già fa intravedere come una vittoria annunciata per il Pdl. Ma gli viene preferito Stefano Caldoro, che infatti sarà eletto.
Dopo il muro contro muro, la seconda ordinanza di custodia cautelare come “referente nazionale” di cosche casalesi, ha portato al sì della Giunta per le autorizzazioni a procedere
Nel frattempo, infatti, proprio con l’arrivo al governo hanno iniziato ad addensarsi su di lui nubi di tempesta mediatica. Dopo trent’anni di carriera politica in
che si candidò anche lui, quindi furono divisi questi voti tra il Riccardi e il Cosentino. Ma ci andò solo Cosentino». Il Pm Raffaele Cantone giudicherà il tutto un mucchio di balle, e le indagini saranno archiviate. Ma quasi a ruota, nel settembre del 2008, a tiralo in ballo è Gaetano Vassallo: un imprenditore reo confesso di aver smaltito abusivamente rifiuti tossici in Campania attraverso la corruzione di politici e funzionari. «Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro», dice ai pm della direzione distrettuale antimafia napoletana. «Posso dire che la società Eco4 era controllata dal-
anche quella di aver cercato di far candidare Cosentino alla Regione Campania proprio con una campagna denigratoria contro Caldoro. Come si è visto, peraltro, senza alcun successo. Ma stavolta i fatti comporterebbero scorrettezze gravi all’interno dello stesso Pdl. Il 14 luglio del 2010, data fatidica, nell’anniversario della presa della Bastiglia Cosentino rassegna le dimissioni da sottosegretario, dopo un incontro con i vertici del partito.
Nel caso si inserisce pure la rottura tra Berlusconi e Fini quando la Commissione Bicamerale di controllo degli Enti di previdenza e del Comitato per la Legisla-
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zione vota contro l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni telefoniche di Cosentino, richiesta dai pm di Napoli, e il presidente finiano della stessa Commissione, Antonino Lo Presti, passa lo stesso la richiesta alla Camera. Ma il 22 settembre è un nuovo no: 308 no contro 285 sì. Muro contro muro. Una nuova inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Napoli sulla camorra porta a una seconda ordinanza di custodia cautelare in carcere, come “referente nazionale”delle cosche casalesi. Il 10 gennaio del 2012 la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei Deputati boccia infine la relazione del Pdl Paniz per negare la richiesta di custodia cautelare per Cosentino.Tra gli 11 voti contrari, assieme a Pd, Italia dei Valori e Terzo Polo, c’è anche la Lega, che è intanto finita a sua volta nell’occhio del ciclone per alcuni investimenti all’estero, e che cambia clamorosamente posizione con l’intenzione di scatenare una“reazione a catena”.Tra i 10 favorevoli assieme a Pdl, Popolo e Territorio e Pri c’è anche Maurizio Turco: radicale eletto nel Pd, che in nome del garantismo parla di fumus persecutionis dovuto a parenti e provenienza di Cosentino, e a didi chiarazioni pentiti non riscontrate.
mondo
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Lo “zar” punta sul Fronte nazionale panrusso per rilanciare la sua leadership e riprendere il controllo del Paese dopo le proteste di piazza
La scommessa di Putin In vista delle elezioni di marzo il premier rivoluziona la macchina elettorale di Enrico Singer l problema: come vincere le elezioni presidenziali del prossimo 4 marzo senza passare per l’umiliazione del ballottaggio e, soprattutto, senza scatenare manifestazioni di protesta contro possibili brogli che potrebbero davvero trasformare la piazza Rossa nella piazza Tahrir di Mosca, un’eventualità ancora remota, ma che non è più da escludere a priori. La soluzione, secondo Vladimir Putin: abbandonare al suo destino il partito Russia Unita, che nel voto per la Duma del dicembre scorso ha perso milioni di voti, e puntare sul nuovo Fronte nazionale panrusso, un movimento che per mesi ha scaldato i motori e che, adesso, sta per scendere in pista con l’obiettivo di raccogliere consensi in tutti i settori della società. Con una rete capillare di cellule nelle città, nei villaggi, nelle imprese e nelle istituzioni. E con la speranza di lasciare all’opposizione che cresce nel Paese soltanto due scelte estreme e contrapposte: i veterocomunismi di Ghennady Zyuganov e gli ultranazionalisti di Vladirmir Zirinowksy che si presenteranno forzatamente separati e, quindi, condannati a perde-
I
re. Dopo la batosta alle legislative di un mese fa, l’uomo forte del Cremino ha ormai messo a punto la strategia per rilanciare la sua leadership. Il primo atto è stato il siluramento di chi lo aveva consigliato finora, Vladislav Surkov, e la seconda mossa è stata la scelta di una strana coppia di super-assistenti: Stanislav Govorukhin, uno dei registi russi più conosciuti, e una vecchia conoscenza dell’apparato come Vjaceslav Volodin. A Mosca
Germania. Nel luglio del 1998 è già alla testa del Fsb, lo spionaggio in versione postsovietica. Nell’agosto del 1999 Boris Eltsin lo nomina primo ministro. Nel dicembre di quello stesso anno assume l’interim presidenziale dopo le dimissioni di Eltsin. Nel marzo del 2000 è eletto presidente e nel 2004 ottiene un secondo mandato. Nel 2008 scatta la staffetta con Dmitri Medvedev che, nel settembre scorso, annuncia che non si ricandiderà spianando la strada
La vera sfida è quella di non dare adito a dubbi sulla legittimità della sua elezione, sia in Russia che sulla scena internazionale, e di fare questo con una vittoria al primo turno li chiamano già il gatto e la volpe. E le indiscrezioni sulle prossime tappe della corsa alla terza presidenza cominciano a circolare.
Ma per capire qual è il disegno di fondo bisogna fare qualche passo indietro. Vladimir Vladimirovich Putin nace nel 1952 e la sua ascesa verso i vertici del potere è folgorante. Parte dai servizi segreti, il Kgb, di cui è a capo in un Paese-chiave come la
al ritorno di Putin che, per quattro anni, è rimasto al Cremino nelle vesti di premier. Ma già all’inizio della coabitazione in salsa russa c’è stato un passaggio decisivo: nel novembre del 2008 la coppia Medvedev-Putin ha fatto approvare dal Parlamento una riforma costituzionale che ha portato a sei anni – da quattro – il mandato presidenziale rinnovabile una volta. Questo significa che Putin punta a rimanere al potere fino al 2024,
quando avrà 72 anni. Realizzando, così, un sogno che è al tempo stesso la sua grande ambizione politica: interpretare il ruolo dell’uomo forte di un’intera generazione: 2000-2024. La “generazione Putin” che, ai suoi occhi, dovrebbe segnare il momento di svolta della storia della Russia: dal comunismo e dalla crisi seguita alla sua caduta, fino alla rinascita del Paese come grande potenza mondiale. Con la sua figura, naturalmente, da iscrivere accanto a quelle dei grandi russi di tutti i tempi, anche oltre le divisioni
ideologiche: da Alessandro II, lo zar che portò i cosacchi fino a Parigi, fino a Stalin del quale ormai, più che i crimini, si ricorda e si celebra la vittoria nella “guerra patriottica”contro il nazifascismo.
La Russia di Putin si considera l’erede diretta dell’Urss vittoriosa sulla Germania nella seconda guerra mondiale e si ritrova, tuttora, rivale degli Stati Uniti come ai tempi di Breznev. Non più nella logica dei blocchi tenuti assieme con la forza delle armi e dell’ideologia, ma in
Stanislav Govorukhin, Vladislav Surkov e Vjaceslav Volodin: il team scelto per la rielezione
Le tre eminenze grigie del Cremlino uando ai primi di dicembre Putin aveva proposto come capo del suo staff elettorale il regista Stanislav Govorukhin, alcuni avevano gridato al “colpo di scena”. Il cineasta, così era stato letto il suo arrivo, avrebbe avuto il compito di ammorbidire i toni e l’immagine del Premier e smorzare la deriva autoritaria che da sempre era stata associata (con successo, bisogna dire) alla figura dello “zar”. Immagine paradossalmente debole e quasi ridicola dopo le grandi proteste che avevano scosso la Russia.Viceversa, quando alla fine dello stesso mese Vladislav Surkov, l’ideologo del Cremlino aveva rassegnato le dimissioni (cacciato via, secondo gli osservatori) da primo vice capo dell’amministrazione presidenziale per approdare al governo come vicepremier, si era pensato
Q
di Luisa Arezzo che l’uomo (Surkov fino a un mese fa era considerato il terzo uomo più potente del Paese dopo Putin e Medvedev) non godesse più dei favori del Premier e che dunque il suo zampino nelle presidenziali sarebbe stato pressoché nullo. Ma forse le cose non stanno proprio co-
sito. Detto questo, a decidere gli scenari pre-elettorali c’è adesso Vjaceslav Volodin (già capo di gabinetto del governo e vicepremier a sua volta), da poco arrivato all’apparato della presidenza al suo posto. Insomma, lo scambio di poltrone resta sempre il giocattolo preferito da
Il cineasta oggi al vertice della campagna è fra i 50 personaggi pubblici firmatari di una lettera a favore della detenzione dell’ex capo della Yukos, Michail Khodorkovsky sì. Secondo il quotidiano russo in lingua inglese Moscow Times Surkov continua ad essere l’eminenza grigia che sempre è stato e il suo, di fatto, sarebbe solo un allontanamento di facciata utile anche a ridimensionarne il potere fin qui acqui-
Vladimir Putin. La triade Govorukhin, Surkov e Volodin, di fatto, si bilancia a vicenda. E questa è forse l’unica vera novità di rilievo. Govorukhin è uno dei registi più popolari e amati del Paese, in particolare per
alcuni film di culto, tra cui Verticale (’67) e Il posto dell’incontro non si può cambiare (’79), con il famoso cantautore Vladimir Visotski come attore. 75 anni, dal 2005 è iscritto al partito putiniano Russia Unita.
I suoi film, spesso basati di trame poliziesche o di avventura, sono caratterizzati in genere da un personaggio maschile forte che cerca di vendicare atti criminali ma deve evitare le norme sociali comunemente accettate per riuscirci. Ma questo non significa che non si sia dedicato ai “classici”, visto che ha iniziato la sua carriera con adattamenti tv di successo per adolescenti, tra cui Robinson Crusoe e Le avventure di Tom Sawyer. La scelta di entrare in politica arriva subito dopo la perestroika (dal 1993 è un deputato della Duma) quando
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Fronte ha mantenuto tratti vaghi, senza radici sul terreno, limitandosi a raccogliere adesioni elettorali decise a tavolino da collettivi industriali e organizzazioni varie. Proprio sulle regioni della sterminata Federazione russa e sulle realtà locali scommettono ora gli strateghi per il “Putin-tris”, incaricati, come ha spiegato una fonte dell’amministrazione presidenziale, di «parlare al popolo per convincerlo sia che bisogna votare per il premier, sia che le elezioni saranno oneste e regolari».
Il progetto è quello di lasciare all’opposizione che cresce nel Paese soltanto due scelte estreme e contrapposte: i veterocomunisti di Zyuganov e gli ultranazionalisti di Zirinowksy
quella molto più sofisticata delle relazioni economiche a colpi di forniture di gas e di petrolio. In questa costruzione strategica che Putin insegue da tempo e che considera sufficiente a sostenere il suo potere in nome della “stabilità” tante volte invocata per restituire forza alla Russia, si è inserita tuttavia una variabile finora sottovalutata. Che si chiama, semplicemente, volontà popolare. Abituato ai giochi di potere nel chiuso delle mura del Cremlino, Putin ha sempre considerato le elezioni come un dazio da pagare alla
dogana della democrazia formale, ma da aggirare facilmente in caso di necessità ricorrendo al vecchio vizio sovietico di aggiustare i risultati. Certo, non si tratta più di far ottenere al Pcus il 98 per cento dei voti. Ma di evitare di perdere la maggioranza assoluta, sì. Nelle elezioni per il rinnovo della Duma, il 4 dicembre scorso, il 51 per cento di Russia Unita è stato raggiunto a malapena ricorrendo anche al gioco del premio di maggioranza e – secondo l’opposizione che è scesa in piazza – a brogli dimostrati anche da alcuni vi-
deo amatoriali che hanno ripreso schede bianche riempite da scrutatori truffaldini durante lo spoglio.
Per le elezioni del prossimo 4 marzo questo è uno scenario che Putin vuole evitare. Prima di tutto perché, qualora non superasse il 50 per cento più uno dei voti, sarebbe costretto a sottoporsi a un ballottaggio contro lo sfidante meglio piazzato sul quale potrebbero anche concentrarsi i suffragi di tutti i suoi avversari. E poi perché un’elezione in odore di brogli potrebbe sollevare movimenti di protesta in piazza dagli sbocchi oggi imprevedibili.
Ecco, allora, il cambio di cavallo: addio a Edinaia Rossia, Russia Unita, che rimarrà soltanto come una delle componenti del Fronte nazionale panrusso in cui confluiranno partiti minori pro-Putin e movimenti ufficialmente “di base”che si stanno organizzando in fabbriche e uffici. Il sito Gazeta.ru ha riferito ieri che il nuovo staff per la campagna presidenziale vuole mobilitare gli elettori «tramite la formazione capillare di cellule del Fronte popolare». Questo movimento era stato lanciato dallo stesso Putin lo scorso maggio temendo il crollo di popolarità del partito di governo Russia Unita. Il crollo c’è stato, ma il
diventa uno dei leader del partito democratico di Russia. A quel punto, abbandona le sue convinzioni anticomuniste sostenendo nelle presidenziali del 1996 l’allora leader del Kprf Ghennadi Ziuganov contro Boris Eltsin. Nel 2000 si candida lui stesso nella corsa al Cremlino, ma non raggiunge neppure l’1%. E diventa un fedelissimo di Putin, tanto che il suo nome è fra i 50 personaggi pubblici firmatari di una lettera a favore della detenzione dell’ex capo della Yukos, Michail Khodorkovsky (in barba al fatto che aveva realizzato un lungo documentario-intervista con Solgenitsin sugli orrori dei gulag e sulle detenzioni forzate).
Su Vladimir Surkov è già stato scritto molto, benché sia sempre stato un uomo ”dietro le quinte”. Della serie: meno mi si vede e meglio è. L’ultimo profilo lo ha appena pubblicato il Moscow Times, proprio per riaffermare che il suo siluramento è più di facciata che di fatto. Sempre elegante nel suo doppiopetto e cravatta in seta nera, Vladislav è stato l’ideologo di Russia Unita – il partito della coppia Putin-Medvedev – nonché
Se a decidere le mosse sarà Vjaceslav Volodin, il compito di presentarle alla gente è stato affidato a Stanislav Govorukhin, uno dei registi più popolari sin dai tempi dell’Urss, entrato in politica ed eletto alla Duma nel 1993 e tornato poi al cinema (il suo ultimo film è stato Il fuciliere del reggimento Voroshilov), fino alla chiamata di Putin. Un ruolo importante nella strategia di comunicazione sarà riservato ai governatori locali, anche loro invitati a “affidarsi a una squadra di tecnici”. Gli analisti politici russi vicini all’opposizione, secondo Gazeta.ru, sono tuttavia scettici. Non credono che i nuovi metodi cambieranno gli umori di quella larga fetta di opinione pubblica che si è schierata con la contestazione. Secondo Gleb Pavolovsky, un politologo che fino allo scorso aprile era tra i consulenti presidenziali, «il vero problema di Putin è di riuscire a non dare adito a dubbi sulla legittimità della sua elezione a presidente, sia in Russia che sulla scena internazionale, e di poter vincere al primo turno». Questo risultato non è più così certo: un ballottaggio sarebbe stato impensabile fino a pochi mesi fa, ma anche l’ultimo sondaggio realizzato dall’istituto Vziom ha rivelato che la popolarità di Putin, oggi, non supera il 45 per cento.
l’eminenza grigia della “democrazia sovrana” made in Russia. A lui si devono gli ultimi rivolgimenti della politica russa, dallo scambio di ruoli tra premier e presidente alla defenestrazione del ministro delle Finanze Kudrin, fino alla cacciata di Michail Prokhorov da Causa Giusta, fittizio partito d’opposizione. Nato ceceno col nome di Aslambek Dudayev, si è ufficialmente fatto cambiare il nome nel 1969 a seguito dell’abbandono del padre e del successivo trasferimento nella regione di Lipetsk di cui era originaria la madre, Zinaida Surkova.
Qui sopra, Vladislav Surkov e Stanislav Govorukhin. In apertura, Vladimir Putin e un’immagine delle manifestazioni che dopo le elezioni legislative del 4 dicembre hanno incendiato tutte le città della Russia
Grande progettista dell’impalcatura costituzionale russa, nel suo studio campeggiano le foto di Che Guevara, John Lennon, Barack Obama e del rapper Tupac Shakur. Non solo: ha scritto molte canzoni per il gruppo rock Agata Kristi e si sussurra che sia l’autore di un libro di successo (in inglese Almost Zero) pubblicato sotto uno pseudonimo e da poco recensito sul London Review of Books. Infine c’è Vjaceslav Volodin, classe 1964, approdato alla Duma nel 1999 dopo una lunga militanza a livello regionale. E che da allora non si è più fermato.
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Per il presidente del Gulf Research Center la crisi ha sempre meno a che fare con le proteste e sempre più con una lotta regionale per l’egemonia
Siria, la vera posta in gioco Come rovesciare Assad, ridimensionare Teheran e garantire i Paesi del Golfo di Abdulaziz Sager o scenario in Siria appare complesso e intricato, e il suo esito finale è oscuro, o quantomeno non chiaramente discernibile. Ma in realtà le cose potrebbero stare diversamente, e lo scenario più prossimo potrebbe essere che la soluzione giungerà per via straniera, ovvero tramite un intervento internazionale con il ricorso alla forza militare – dopo che si sono esaurite le carte regionali a disposizione, a causa delle posizioni mutuamente distanti tra le due parti in conflitto in Siria (il regime e la piazza – o, se si preferisce, l’opposizione).
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Questa distanza fra le parti è dovuta al fatto che entrambe scommettono di essere sulla via della vittoria: il regime scommette sulla disperazione dei manifestanti e sulle divisioni e le debolezze delle organizzazioni dell’opposizione, oltre che sulla loro incapacità di resistere alla sua macchina militare, e sul sostegno accordato a Damasco da parte di Russia e Cina; il regime è inoltre convinto dell’inefficacia del sostegno regionale ed internazionale al-
l’opposizione, e ritiene che il rapporto degli osservatori della Lega Araba sarà a suo favore. Dal canto suo, l’opposizione scommette sull’estendersi delle aree interessate dalle manifestazioni e sul loro propagarsi a tutta la Siria, ed in particolare a Damasco e Aleppo; essa scommette anche sulla disintegrazione dell’esercito, con l’aumentare delle defezioni e del timore dei suoi comandanti di andare incontro a una dura condanna per aver ucciso i rivoluzionari ed aver commesso stermini di massa; ciò dovrebbe spingere questi comandanti ad abbandonare il regime di Bashar al-Assad portandolo al crollo e alla rovina. Vi è poi la speranza crescente di un’internazionalizzazione del conflitto siriano e dell’ingresso sulla scena del Consiglio di Sicurezza dell’Onu come fattore di protezione nei confronti della rivoluzione. Ma come evolverà lo scenario di un intervento delle forze internazionali o di una internazionalizzazione della crisi siriana? La risposta si nasconde in una serie di punti, fra cui: il fatto che il regime siriano non
abbia altra scelta che quella di ricorrere alla soluzione securitaria, ben sapendo che la rinuncia a questo approccio significherebbe per esso un rapido crollo; d’altra parte è evidente che una soluzione del genere è una soluzione tampone che può funzionare solo temporaneamente, poiché rinvia la fine del regime senza impedirla.
Vi è poi una crisi di fiducia fra il regime siriano e il vicinato regionale ad eccezione dell’Iran e dell’Iraq (che è a sua volta sotto l’influenza di Teheran), il che significa che non vi sono alleati arabi del regime di Damasco dopo che quest’ultimo ha rifiutato tutti i suggerimenti arabi. Anche la scommessa del regime siriano sul sostegno di Russia e Cina si risolverà in un fallimento poiché l’atteggiamento di simpatia da parte di Mosca e Pechino non durerà in eterno. Le mosse occidentali nei confronti di Mosca, che vuole avere il proprio tornaconto, si sono già rivelate utili. Si tratta di una consuetudine legittima nei rapporti internazionali fra le grandi potenze – e in generale fra quelle che han-
Un osservatore della Lega Araba, l’algerino Anwar Malek, ha abbandonato la missione a Damasco lanciando pesanti accuse di complicità con il regime all’operazione promossa dalla Lega no influenza sull’andamento degli eventi mondiali – che è già stata applicata in passato con Mosca. La Siria è considerata l’ultima roccaforte dell’influenza russa in Medio Oriente, e uno dei maggiori mercati per le armi russe nella regione. Mosca dunque rinuncerà a questa roccaforte solo a un prezzo molto elevato – o perlomeno ragionevole. Questo prezzo ha già cominciato a profilarsi all’orizzonte, essendo rappresentato dall’adesione della Russia all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), un obiettivo che Mosca non è riuscita a raggiungere in 16 anni di serrati negoziati. A ciò si aggiunga l’enorme sostegno finanziario offerto a Mosca da parte del Giappone e della Corea del Sud, il cui valore è in via di definizione proprio in questo momento.
Quanto all’intervento regionale, esso non riuscirà a risolvere la crisi in nessun modo, poiché non vi è alcun attore che voglia o possa entrare in un confronto militare o rimanere coinvolto in questa crisi, dopo che tutti gli sforzi arabi si sono risolti in un fallimento, se si ec-
cettua la posizione della Lega Araba la quale attende il rapporto degli osservatori. Da quest’ultimo, tuttavia, non verrà fuori granché a giudicare dalle notizie che giungono da Damasco e dai contrasti che si profilano all’orizzonte riguardo al contenuto atteso di tale rapporto. Dal canto suo, la Turchia non potrà agire da sola per svariate ragioni; tutto ciò che potrà fare è non perdere anche la piazza siriana dopo aver perso la speranza di poter fare affidamento sul regime di Damasco.
Allo stesso tempo Ankara guarda con occhio vigilante a come i curdi siriani si rapporteranno con la situazione interna del paese e con i curdi degli Stati confinanti – ed in particolare con i curdi di Turchia – dopo che si sarà sciolto il contratto alla base dell’attuale Stato siriano. Dunque non resterà altra opzione al di là di quella internazionale, la quale ha cominciato a prendere una nuova piega al Consiglio di Sicurezza con la bozza di risoluzione presentata dalla Francia con il sostegno americano ed occidentale, con cui si apre la strada all’inter-
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L’ingegnere lavorava a Natanz. «Colpa di Usa e Israele»
Iran, ucciso un altro scienziato nucleare Continuano gli attentati mortali in Iran contro scienziati impegnati nel programma nucleare. Ieri mattina una bomba a Teheran ha ucciso Mustafa Ahmadi Roshan, 32 anni, vicedirettore dell’ufficio commerciale dell’impianto di arricchimento dell’uranio della centrale di Natanz. È il quarto agguato mortale a scienziati iraniani in due anni, e le autorità di Teheran hanno accusato subito Israele e Stati Uniti. Roshan, laureato in chimica, secondo l’agenzia Fars lavorava ad un progetto su una membrana di polimeri per separare i gas durante il processo di arricchimento dell’uranio. Il vicepresidente iraniano Mohammed Reza Rahimi ha dichiarato che «questa azione terroristica commessa dagli agenti dell’oppressione (termine usato dai politici iraniani per gli Stati Uniti) e dal regime sionista punta a impedire ai nostri scienziati di servire» il loro paese. In parlamento a Teheran i deputati hanno gridato «morte a Israele e morte all’America». Poco dopo l’attentato, la Cina (principale alleato di Teheran) ha auspicato che l’Iran e l’Agenzia dell’Onu sull’energia nucleare (Aiea) rafforzino la loro cooperazione per «chiarire le questioni relative al programma nucleare iraniano prima possibile».
vento straniero innanzitutto all’insegna dell’intervento militare umanitario, come è accaduto in Libia l’anno passato, e prima ancora in Iraq nel 1991 e in Kosovo nel 1999. A tale intervento bisognerà preparare la strada nei corridoi del Consiglio di Sicurezza, e attraverso contatti segreti e riunioni a porte chiuse, e con l’apporto di numerosi attori tra cui la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, e gli Stati dell’Unione Europea. Da ciò emergerà un accordo internazionale sulla base di contrattazioni finanziarie ed interessi strategici, che nel suo complesso porterà a disegnare una nuova mappa del concetto di sicurezza regionale in Medio Oriente, i cui effetti si estenderanno ad altri Stati ed a periodi futuri a lungo o (almeno) a medio termine.
dallo scoppio della Rivoluzione islamica del 1979, e poi dopo la caduta del regime di Saddam Hussein a Baghdad nel 2003.
Come premessa ai nuovi lineamenti del concetto di sicurezza nazionale, nella fase successiva all’intervento internazionale volto a rovesciare il regime siriano, vi è il contenimento del ruolo iraniano – che in futuro sarà confinato all’interno dell’Iran, mentre attualmente si estende all’Iraq a causa della composizione del sistema politico al potere a Baghdad e del suo rapporto speciale con Teheran – affinché tale ruolo non eserciti la propria influenza su altri Stati della regione come Teheran ha pianificato ed ha cercato di fare fin
nese di disarmo del partito e di un’integrazione delle sue forze armate (qualora queste ultime lo accettassero) nell’esercito libanese.
Di conseguenza, la fase successiva all’intervento internazionale volto a rovesciare il regime siriano vedrà l’indebolimento di Hezbollah in Libano, o addirittura il suo strangolamento, il quale porterà a sua volta allo smantellamento del movimento sul lungo periodo – o quantomeno ad un suo ridimensionamento – ed all’accelerazione dell’implementazione delle richieste dello Stato liba-
to che molti Stati arabi sono assorbiti dalle loro crisi interne o sono parzialmente – o temporaneamente – usciti dalla struttura di sicurezza regionale e di azione comune. Ciò pone una grande responsabilità sulle spalle degli Stati arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) e li spinge ad accelerare lo sviluppo di una strategia di sicurezza che garantisca (innanzitutto e con urgenza) la stabilità nella regione del Golfo, e (in un secondo momento) nel mondo arabo, sulla base della considerazione che la sicurezza del Golfo non
Gilles Jacquier, reporter di France 2, ieri è morto ad Homs per lo scoppio di una granata esplosa contro un pullman di giornalisti. Lo scorso anno aveva vinto il premio Ilaria Alpi
Il concetto di sicurezza regionale nella prossima fase è vago e oscuro, ed è alterato da conflitti non dichiarati tra forze tradizionali e forze nuove fra gli Stati esistenti nella regione, in particolare vista l’assenza di un’azione araba comune, e da-
si esaurisce entro i confini degli Stati del Golfo, ma è legata alla sicurezza dell’intera regione. La strategia di sicurezza regionale del Golfo deve necessariamente cominciare con l’attivazione della Peninsula Shield Force (le forze armate integrate del Gcc), con la revisione della dotazione di armamenti degli eserciti del Golfo, e con lo sviluppo dei loro equipaggiamenti e meccanismi militari, concentrando l’attenzione sulle armi
In alto, il presidente siriano Bashar al-Assad. a destra, un’immagine dell’attentato che ieri a Teheran ha ucciso Mustafa Ahmadi Roshan, 32 anni. A sinistra, le proteste in Siria
tecnologicamente avanzate. Tutto questo perché la prossima fase sarà fonte di incertezza e di preoccupazione, i suoi protagonisti saranno più numerosi, ed i loro interessi più interconnessi, alla luce del tramonto di potenze regionali importanti e del rafforzamento del potere e dell’influenza di Stati non arabi nella regione, che possiedono armi nucleari o armi convenzionali avanzate. A ciò si aggiunga l’instabilità in Asia centrale e in Africa, la quale significa che la cintura di sicurezza esterna che circonda gli Stati arabi è anch’essa instabile, e ciò richiede di considerare l’iniziativa della difesa in qualità di miglior mezzo di attacco.
Il cambiamento politico in Siria, e la caduta del regime baathista che ha governato il paese per oltre quarant’anni, determineranno conseguenze radicali che porteranno alla ridefinizione degli equilibri di forza a livello regionale. Il cambio di regime in Siria non è ritenuto soltanto un affare interno poiché il ruolo giocato nei decenni passati dall’alleanza tripartita di Iran, Siria e Hezbollah nel determinare ed influenzare l’andamento degli eventi regionali non può essere ignorato. Il venir meno della Siria in questa alleanza avrà effetti radicalmente negativi sugli altri attori che la compongono. © al-Sharq al-Awsat
e di cronach
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grandangolo L’analisi del più grande fra i dissidenti cinesi
Ottenere la democrazia non sarà un pranzo di gala A 40 anni dal fallito tentativo di colpo di Stato di Lin Biao, la Cina moderna deve guardare con coraggio alla sua storia e capire che non si può trattare con il Partito comunista: deve essere rovesciato subito con la forza. Il rischio è che il popolo dimentichi la lezione degli eroi e si rassegni a vivere come gli schiavi dell’imperatore: un fallimento per tutti noi di Wei Jingsheng a via d’uscita per la Cina contemporanea è la democrazia. Questa conclusione ha, nel tempo e in maniera graduale, ottenuto sempre più consenso in passato. Si tratta di un percorso lungo più di un secolo. In ogni caso, l’argomento principale che i cinesi discutono sempre di più è divenuto come raggiungere la democrazia. Una delle strade più battute, che nel tempo è divenuta datata, parla di come riformare il sistema comunista e, con il tempo, muoversi gradualmente verso l’obiettivo. La premessa di questo tipo di strada è identificare nel sistema comunista una forma di proto-democrazia a livello popolare, nonostante tutti i suoi errori. Di conseguenza, è possibile migliorarlo con delle riforme. Questa modalità di miglioramento dovrebbe avvenire in modo “pacifico, razionale e non violento”. Oppure, usando la terminologia cara a Mao Zedong, sarebbe semplicemente “il conflitto all’interno del popolo”. Ma questa evoluzione rientra veramente all’interno dei “conflitti del popolo”, ed è quindi possibile raggiungere queste riforme attraverso strade “pacifiche, razionali e non violente”, come avviene in società democratiche simili a quella statunitense? Tra l’altro, una società democratica non è mai del tutto “pacifica, razionale e non violenta”quando si impegna a risolvere i propri conflitti. C’è ancora bisogno, a volte, di polizia e militari e si affida alla forza quando deve trattare con dei violenti spinti da motivi irragionevoli. Que-
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sti violenti non sono mai una sfida nei confronti dei tiranni, in particolar modo dei tiranni comunisti, che portano avanti una dittatura irragionevole come stile di vita. Esattamente 50 anni fa, il 13 settembre del 1971, in Cina avvenne un fatto che sconvolse il mondo. Parliamo del maresciallo Lin Biao, all’epoca il successore designato di Mao, che cercò di organizzare un colpo di Stato per rovesciare proprio il suo presidente. Lin non riuscì nel suo scopo, e venne ucciso in un incidente aereo durante il suo tentativo di fuga: questa morte provocò un’aura di mistero sui fatti avvenuti e scatenò una
Anche se ha fallito, Lin ha svegliato le coscienze della sua generazione e ha costretto tutti a guardare in faccia la violenza di Mao serie di discussioni relative all’evento. Quel tentativo provocò un enorme invecchiamento in Mao, che decise di non affrontare più i problemi politici e divenne un leader assurdo. Gli innumerevoli fan di Mao, che lo adoravano, divennero più
sobri. Moltissime persone oggi dicono che fu proprio quell’evento a incrinare nelle loro menti il mito di Mao, e che fu da allora che iniziarono ad avere un vero pensiero indipendente che li allontanò sempre di più dalla morsa del comunismo.
Io penso che dovremmo chiedere a queste elite di intellettuali – che seguono il tono occidentale e parlano di modi di protesta “pacifici, razionali e non violenti” – se conoscono il Partito comunista meglio di quanto lo conoscevano gli intellettuali dell’epoca di Lin Biao. Persino questi arrivarono a capire che l’unico modo per trattare con la tirannia comunista è quello di non scendere mai a compromessi con questa (che non accetta i compromessi) e quindi rovesciarla con la forza. Ma perché questi continuano a dire che il Partito comunista è pronto a rispondere alle richieste “pacifiche, razionali e non violente”? Qualche tiranno è mai caduto a seguito di richieste?I rivoluzionari del tempo di Lin Biao, che abbiano aderito al Partito comunista o al Kuomintang, avevano in mente come prima cosa la forza della loro nazione e la prosperità del loro popolo: elementi che avrebbero permesso ai cittadini cinesi di vivere come esseri umani. Tuttavia, mentre la loro rivoluzione otteneva sempre più successo, capirono che quello che ottenevano era sempre più distante dalle intenzioni originarie. Il potere politico che erano costretti a salvaguar-
dare divenne una tirannia, simile a quella che avevano rovesciato, e capirono che presto ne avrebbe superato persino gli abusi. Capita questa situazione alcune persone si abbandonarono alla corrente; altri si ritennero troppo deboli per ribellarsi e adottarono un basso profilo; altri ancora decisero invece che non avrebbero più potuto tollerare altri abusi e decisero di reagire. Lin Biao era uno di questi ultimi. Peng Dehuai, Hu Yaobang e Zhao Zhiyang anche.
Va detto però che questi ultimi tre non capivano la natura del Partito comunista bene come la comprendeva Lin Biao. Questi pensavano infatti che attraverso modi “pacifici, razionali e non violenti”avrebbero potuto trattare con Mao Zedong e Deng Xiaoping, avrebbero potuto rivolere i loro problemi: ecco perché non avevano alcuna speranza di farcela. Invece l’aperta ribellione di Lin Biao, per quanto fallita, è stata un potenziale successo: una sconfitta gloriosa. Se non fosse stato per il coinvolgimento del figlio nel colpo di Stato, che pensava fosse un gioco da bambini, Lin avrebbe avuto successo: con il suo stile militare non sarebbe mai caduto nella trappola tesa dal servizio segreto alle dipendenze di Zhou Enlai. Molti amici hanno più volte ammesso fra i sospiri che, se Lin avesse avuto successo, il popolo cinese avrebbe sofferto per molti meno anni. Io però credo che, anche se non ce l’ha fatta, Lin ha ottenuto un grande successo: ha sve-
12 gennaio 2012 • pagina 15
Per il Capodanno lunare oltre 3,2 miliardi di viaggi interni. Paura per il maltempo
E il Paese si prepara al più grande esodo della storia dell’uomo di Vincenzo Faccioli Pintozzi ra cattivo tempo e diverse incertezze sulla situazione delle strade e delle ferrovie, inizia oggi il più grande esodo interno della storia dell’umanità: in vista del Capodanno lunare, infatti, la Cina si prepara per affrontare 3,2 miliardi di spostamenti sul proprio territorio. Si tratta di circa 80 milioni di viaggi al giorno, un aumento del 9,1 per cento rispetto all’anno scorso. Per il nuovo anno, che inizia il 23 gennaio, il governo si aspetta disagi enormi. Per tradizione, la vigilia del capodanno è spesa con la famiglia nel proprio Paese d’origine: questo implica il ritorno a casa delle centinaia di milioni di migranti che in maniera illegale lavorano nelle grandi città o nelle province più ricche. Quello che inizia è l’anno del Dragone. In Cina, il drago è il segno dell’Imperatore cinese o l’elemento maschile Yang, simbolo del potere e della ricchezza. Tuttavia, secondo la tradizione buddista non è un segno eccellente: il drago – che aiutò Buddha a salire al cielo – è più grande della vita stessa e quindi spesso eccessivo. Nella tradizione orientale, la Festa di Primavera è l’occasione principale per aprire nuovi affari, grandi o piccoli, e per chiudere i conti dell’anno pagando tutti i debiti. Nei giorni seguenti al Capodanno si va in visita a templi taoisti e buddisti per cercare la fortuna. Alle porte di casa e ai lati delle porte dei negozi si appendono scritte augurali che suggeriscono “Successo in tutte le imprese”; “Grandi ricchezze”; “Ogni anno sempre meglio”. I distici appesi nelle abitazioni parlano di ricchezza, lunga vita, molti figli, carriera di successo: “Possano tutti i tuoi desideri essere esauditi” o “Diecimila generazioni”. I cristiani espongono di solito frasi tratte dal Vangelo e auguranti la benedizioni di Dio.
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gliato molta gente dal torpore e ha infranto il mito di Mao Zedong. Ha aperto una breccia per delle vere idee rivoluzionarie, anche nel futuro, e quindi non si può dire che abbia fallito. È stato come in un duello, in cui uno dei due viene ucciso ma riesce comunque a ferire gravemente l’altro. Anche se quel duello ha provocato una situazione in cui entrambi hanno perso, Lin Biao è comunque un eroe: e non quel genere di eroe simile a quelli che si vedono oggi, che si inginocchiano e implorano. Oltre a lui, nessun
Anche Liu Shaoqi e Hu Yaobang volevano andare contro il sistema, ma credevano di poterlo fare con le parole altro ha mai capito bene la natura del Partito comunista come Peng Dehuai. Entrambi sono i veri eroi e i pilastri principali del Partito comunista e del mito di Mao Zedong, che hanno combattuto con onore durante la guerra contro i giapponesi e i nazionalisti e hanno combattuto una guerra brutale anche all’interno del Partito. Peng ha usato la sua anzianità di servizio, ma ha credito di poter ragionare con Mao Zedong; credeva di poterlo portare dalla parte del popolo. Ma non capiva che questa idea era contraria alla natura stessa del Partito, dell’intero apparato. Anche se la presa di coscienza di Lin è andata un poco oltre, anche Peng aveva capito la natura tirannica dei comunisti. Aveva capito, anche se troppo tardi, che non c’era possibilità di cambiamento attraverso metodi ragionevoli e che serviva la forza. Oggi alcuni sedicenti storici stanno cercando di
infangare la memoria di Lin Biao. Ma commettono due errori marchiani. Da una parte cercano di convincere il mondo che Lin non voleva ribellarsi, che non era un contro-rivoluzionario in lotta contro la tirannia ma un leale membro del Partito comunista. Questa idea cancella i meriti storici di Lin. Io credo che la definizione di quel ribelle da parte della Banda dei Quattro e di Deng Xiaoping sia la più pertinente: buona parte della vita di Lin è stata spesa al servizio dei comunisti, per conquistare il Paese e provocare un disastro per la popolazione. Eppure, dopo il suo risveglio ha compiuto un atto così magnanimo che si possono cancellare i suoi peccati e considerarlo un eroe del popolo.
Gli storici di cui parlavamo prima dicono inoltre che Lin non era come lo immaginiamo, che la sua non era una rivoluzione perché di questo colpo di Stato “non esistono prove”. Ora, chi dice una cosa del genere è un topo di biblioteca che veramente di politica non capisce nulla: se era una cospirazione come possono esserci prove? Quante tracce pensi di lasciarti dietro? La vera prova è che sia Mao Zedong che Deng Xiaoping hanno identificato e condannato il chiaro tentativo di Lin. Questo modo di fare è simile a quello di un giocatore di scacchi che, capito cosa vuole fare l’avversario, si muove in modo da non permettergli alcun passo avanti. Alcuni dei loro giudizi personali sono stati sbagliati, ma i giudizi che hanno emesso insieme sono quasi sempre giusti. Peng Dehuai e Liu Shaoqi non si sono ribellati, e per questo sono stati riabilitati. Lin Biao non sarà mai riabilitato perché era un ribelle: non lo dice solo un uomo, non lo diceva solo Deng, ma l’intero Partito comunista. Incoraggiare una ribellione o un ribelle è la minaccia maggiore per un potere imperialista, quindi anche se il ribelle è tuo padre non può essere tollerato. Questo avviene sin dai tempi antichi. Ma esiste oggi qualcuno che voglia seguire le orme di Lin Biao?
Tuttavia, il clima di festa è molto spesso rovinato da tragedie sociali. La peggiore è la catena di suicidi che accompagna i mancati pagamenti dei lavoratori: questi, vittime di imprenditori disonesti e del governo connivente, ritardano spesso lo stipendio fino ai giorni di fine anno. Quando non lo ricevono, piuttosto che tornare a casa a mani vuote, scelgono di uccidersi. Ma anche quello dei trasporti è un problema serissimo. Secondo Liu Tienan, vice diretto-
re della Commissione per lo sviluppo nazionale e le riforme, «l’enorme numero di viaggiatori previsti va oltre la capacità del nostro sistema di trasporti». Per il burocrate, «la situazione non è ottimista da nessun punto di vista. Le difficoltà sono senza precedenti e lo scopo prefissato è molto arduo». Oltre alla capacità di traffico ci si mette anche il tempo: secondo il Centro meteorologico nazionale, il cattivo tempo sta per colpire le province di Guizhou, Hunan e Tibet. Nello Jiangxi, Hubei e Yunnan sono attese piogge ghiacciate e nevicate pesanti. Guangzhou e Shanghai, città con altissima presenza di migranti, dovranno affrontare l’esodo di 30 milioni di persone la prima e 8 milioni la seconda.
Ma il maltempo e il Capodanno non sono le uniche cose che preoccupano il governo cinese. A pochi mesi dal 18esimo Congresso generale del Partito comunista cinese - previsto per il prossimo ottobre, che deve sancire la successione all’attuale leadership - il vice presidente Xi Jinping ha infatti ordinato alle università nazionali di intensificare il controllo ideologico su studenti e giovani professori. Nel corso di un incontro con i rappresentanti del mondo accademico Xi - che salvo imprevisti dovrebbe divenire il prossimo presidente della Cina - ha chiesto «misure più ferme e forti per garantire armonia e stabilità nel Paese. Serve una buona atmosfera per il successo del Congresso». Liu Yandong - il quadro comunista donna di più alto grado, incaricata dell’educazione nazionale – conferma la messa in atto di una serie di piani per assicurare un’apertura morbida del Congresso. Lo stesso Xi ha sottolineato l’importanza di tenere sotto controllo i docenti più giovani, che “hanno molti contatti con gli studenti e esercitano un’influenza significativa su di loro e sulla diffusione delle nuove idee”. Il regime cinese, ancora del tutto nelle mani del Partito, dà segnali di nervosismo in vista della transizione del prossimo autunno. Il Paese è oramai da anni squassato da rivolte sociali, e un Capodanno senza scontri potrebbe aiutare Pechino a riportare un poco di stabilità nel Paese.
ULTIMAPAGINA L’impresa da Guiness dei primati di Francek Drenovec che ha catalogato ogni lembo di terra della Croazia
L’uomo che contava le di Angela Rossi n dieci anni le ha visitate praticamente tutte.Tra isole, isolotti e scogli, ha messo piede su ogni lembo di terra emersa sul versante croato del mare Adriatico. Francek Drenovec, sloveno, ha ricostruito, unico al mondo, un elenco particolareggiato della regione. Il sito che può essere consultato da chi è interessato a questo argomento, da Guinness, è: www.hrvatskiotoci.pdf. Analista economico ed esperto di macroeconomia, origini slovene per parte di padre e croate per parte di madre, ha speso dieci anni del suo tempo e della sua vita per portare a termine quella che è diventata praticamente una missione dettata dall’amore per l’Adriatico. Ha messo piede su tutte le aree tranne le dieci che si trovano nel Parco nazionale delle Brioni, in Istria. Qui esiste un divieto d’accesso. E così Drenovec dal 2001 a oggi è riuscito a contare e inserire nel suo elenco ben 1223 isole: 93 in Istria, 162 nel Quarnero, 265 nella Dalmazia settentrionale, 262 nella Dalmazia sebenzana, 169 nella Dalmazia spalatina e 272 nella Dalmazia meridionale. «C’è voluta una pazienza certosina - ha dichiarato lui stesso al giornale di Fiume Novi List e al Piccolo di Trieste - ma ne è valsa la pena. Siccome non dispongo di un’imbarcazione propria, mi sono fatto aiutare dalla gente del posto, con gite, gitarelle e semplici puntate sull’area che intendevo conoscere. Ho cercato di arrampicarmi sulle vette più alte di ogni isola visitata, ma non ce l’ho fatta in una cinquantina di occasioni, trattandosi di vette accessibili solo ad alpinisti ben più giovani e in forma del sottoscritto».
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Un lavoro che, come lo stesso Drenovic tiene a precisare, può presentare qualche manchevolezza a causa di alcune aree difficili da classificare. In ogni caso sono state classificate 79 isole, 520 isolotti, 227 piccoli isolotti e 397 scogli. E per isola si intende, stando alle enciclopedie cartacee e telematiche, tutto quello che supera un chilometro quadrato di superficie; isolette quelle di 10 mila metri quadrati e tutto il resto di minore superficie viene definito scoglio. Quindi l’Istria ha 2 isole (Brioni Maggiore e Minore), 42 isolette, 32 piccole isolette e 17 scogli. Fiume ha 16 isole, 34 isolette, 20 piccole isolette e 92 scogli. Il resto ricade in terra dalmata. L’argomento non è di facile composizione, in effetti. Qualche tempo fa, infatti, si era discusso del numero preciso di isole croate e mentre, stando alle cifre dell’Assoturistica nazionale, erano 1244 le terre che emergono dalle acque dell’Adriatico nei confini croati, il Dipartimento cartografico dell’Istituto idrografico della Croazia aveva parlato di 1246 isole. Per stare al passo anche Wikipedia tratta l’argomento citando 991 isole mentre sulla pagina web di Istria.info se ne contano 1233. Alcune fonti indicano che la Croazia ha 66 isole abitate, come il numero di isole che hanno impianti di resort, ma con una diversa composizione. Diciannove in realtà hanno perso i loro residenti permanenti a causa di una diminuzione costante della debole attività economica e il trasferimento degli abitanti nelle case
ISOLE
di riposo sulle isole vicine. Se si ripercorre la storia di queste terre non si può non pensare alle loro origini. Esse, infatti, sono state abitate fin dai tempi dell’antica Grecia. Tanto per citare un esempio, Hvar, dove Dionigi di Siracusa fondò una colonia nel quarto secolo a. C.
Ne ha classificate 1223. Una missione impossibile, dettata dall’amore per l’Adriatico, spesso compiuta in modo improvvisato e con mezzi di fortuna
L’economia principale isolana proviene dall’agricoltura (soprattutto vino e olive), dalla pesca e dal turismo anche se è relativamente poco sviluppata. Appunto per questo il governo croato prevede diverse forme di sostegno e protezione proprio per stimolare l’economia delle isole. Diverse le iniziative intraprese in questo senso come l’abolizione del pedaggio ponte o biglietti gratuiti per i traghetti per gli abitanti del luogo. Si tratta comunque di terre da sogno. E giusto per ricordare, sono luoghi solo da pochi anni divenuti autonomi. Fino al 1991, anno della guerra, erano parte della ex Jugoslavia. La Croazia o, meglio, la Repubblica di Croazia come recita la definizione ufficiale (Republika Hrvatska, in croato), ha una popolazione di circa quattro milioni e mezzo di abitanti secondo una stima effettuata nel 2006; ha una superficie territoriale di oltre 56 mila chilometri quadrati ed è una repubblica semipresidenziale. La lingua ufficiale è il croato. La Regione Istriana, adotta invece ufficialmente il bilinguismo (italiano e croato), ma la sua attuazione varia a livello comunale. Terre che fino al conflitto scoppiato nel 1991 non esistevano. La Croazia entrerà nell’Unione Europea il primo luglio del 2013. Oggi però, grazie a Francek Drenovec, si conosce esattamente il numero di isole che la compongono.