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he di cronac

Il passato è un uovo rotto, il futuro è un uovo da covare.

Paul Eluard

9 771827 881004 QUOTIDIANO • VENERDÌ 13 GENNAIO 2012

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

1) Il premier spiega a Montecitorio la nostra strategia in Europa: «No a nuovi vincoli dall’Unione»

Un patto per salvare l’Italia L’Udc propone a Pdl e Pd un accordo per garantire al Paese credibilità anche dopo Monti La Bce non alza i tassi: giù lo spread,su le Borse. L’ Vendita record per i Bot di Rocco Buttiglione

Unione di Centro e il Terzo Polo appoggiano, senza esitazione, lo sforzo di risanamento del governo Monti. Siamo consapevoli della gravità della situazione in cui si trova il Paese e siamo grati al Presidente Monti, per i suoi sforzi personali, ma anche per il patrimonio di credibilità culturale e internazionale che ha messo a disposizione dell’Italia. La crisi è profonda.

Draghi: «Sui mercati c’è ancora molta incertezza, ma nel corso del 2012 vedremo i primi segni di ripresa»

segue a pagina 2

Francesco Pacifico • pagine 3

2) Entrambi i quesiti dichiarati inammissibili. Ma la Corte invita il Parlamento a modificare le norme

Un patto per cambiare il Porcellum La Consulta boccia i referendum: ora tocca ai partiti trovare l’intesa per una nuova legge Di Pietro insulta il Colle: «L’ha deciso Napolitano». C Dura replica: «Volgarità» di Riccardo Paradisi

ome da previsioni, anche se con un giorno di ritardo, la Consulta ha bocciato i quesiti referendari che chiedevano di cancellare il Porcellum. Ma la Corte Costituzionale ha anche invitato il Parlamento a modificare la legge esistente: invito che i partiti maggiori si sono già detti disponibili ad accogliere in vista di un accordo. Solo Di Pietro si è tirato indietro.

L’ex magistrato fa il tribuno: «Siamo al regime, manca solo l’olio di ricino». Parisi: «Continueremo la battaglia» alle pagine 4 e 5

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3) Il deputato Pdl accusato di camorra evita l’arresto per undici voti. Esultanza in aula dell’ex maggioranza

...E il patto per salvare Cosentino La Lega torna ad allearsi con Berlusconi ma si spacca. Decisivi anche i sei voti dei radicali Bossi e Maroni sull’orlo della rottura.L’ex ministro: N «I nostri non capiranno» di Marco Palombi

icola Consentino non va in carcere. Per ora almeno. A deciderlo non sono stati dei giudici ma 11 parlamentari. La richiesta di arresto fatta dalla Procura di Napoli, infatti, è stata respinta con 309 voti contro 298. La Lega, che ha detto no alle norme salva-Italia del governo Monti, ha detto sì a quella salvaConsentino. «I nostri non capiranno», ha commentato Maroni.

Scintille nella direzione: per la prima volta, Bobo attacca frontalmente (e pubblicamente) il Senatùr

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

8•

WWW.LIBERAL.IT

alle pagine 6 e 7 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


L’Europa non ci chiede solo fatti concreti per il presente, ma anche garanzie di continuità nella politica di rigore e di equità

Accordo per il dopo-Monti Solidarietà, tutela del merito e condanna di furbizia e disonestà: i partiti devono prendere un impegno per il futuro del Paese di Rocco Buttiglione segue dalla prima È prima di tutto una crisi morale e di credibilità che coinvolge un’intera classe dirigente. Certo, quando sento in Parlamento qualcuno che dice che la soluzione di tutti i problemi è stampare moneta, così la distribuiamo a tutti e tutti sono più felici, capisco profondamente la diffidenza degli amici tedeschi contro una classe dirigente che annovera al suo interno persone che hanno una visione così semplificata e barbara di cosa è l’economia di un grande Paese.Tuttavia, anche se la capisco non posso giustificarla. È venuta meno in Europa la fiducia nell’Italia. Lo spread sul debito pubblico registrato dai mercati è il sintomo di una sfiducia diffusa nella nostra classe dirigente e ho già spiegato anche un po’ il perché. Con qualche ingenerosità molti - ed io fra di essi, lo ammetto - ne abbiamo fatto carico, in modo unilaterale, al governo Berlusconi. Senza sminuire le responsabilità del precedente governo, che ci sono e sono gravi, dobbiamo riconoscere che in questa perdita di credibilità nessuno di noi è esente da colpe. La credibilità si recupera solo con uno sforzo corale, che deve coinvolgere tutte le forze politiche e l’intera classe dirigente del Paese. Le misure che questo Parlamento ha approvato sono forti e incisive. Lo ha detto il premier alla Cancelliera Merkel:

Italia al 92mo posto al mondo per libertà economica. Intanto il Pdl si spacca sulle riforme del lavoro

Liberalizzazioni, i diktat di Berlusconi e il no di Bossi ROMA. Una mezza apertura che nasconde un veto di proporzioni immense. Silvio Berlusconi ha mandato a dire a Mario Monti che il Pdl è favorevole «alle liberalizzazioni che aiutano a sviluppare l’economia». Dirà «no a quelle inutili». E a riprova che più del merito contano gli interessati ecco il Cavaliere salvare le farmacie: «Così rischiano di chiudere». Oggi in Consiglio dei ministri Mario Monti inizierà a discutere il pacchetto, che va ben oltre tassisti e farmacisti e punta a monopoli sedimentati (come il controllo della rete da parte di Fs), a ridurre i costi dei servizi professionali (anche aumentando i notai). E persino a superare un tabù come l’articolo 18 e a congelare il reintegro nelle aziende sorte da fusioni e con meno di 50 dipendenti. Una cura da cavallo per un Paese che – nella classifica Heritage FoundationWall Street Journal – è al 92esimo posto al per libertà economia. Ed è meno appetibile di Georgia o Mauritius. A rimettere tutto in discussione è proprio l’uscita di Berlusconi. Infatti, il suo partito, dopo avere avuto rassicurazioni su un piano più trasversale, aveva scelto un approccio più collaborativo. Gli ultimi distinguo, infatti, erano sul metodo, sull’assenza di confronto con le categorie, più che sul merito delle misure. Anche perché a via dell’Umiltà hanno iniziato a litigare – e a spaccarsi – sulle riforme in materia di lavoro. Ieri c’è stata un’accesa riunione del partito e da giorni Renato Bru-

netta e Maurizio Sacconi hanno consigliato ai colleghi di non appoggiare senza se e senza ma il pacchetto Fornero. Da un lato i due ex ministri sono spinti da motivi strettamente tattici, dall’altro puntano a difendere la loro opera al governo. E lo fanno, ben sapendo di avere l’appoggio di Cisl e Uil, secondo i quali la Fornero deve rafforzare gli esistenti contratti d’apprendistato e di inserimento.

Il pidiellino Giuliano Cazzola ipotizza che «almeno sulle liberalizzazioni i partiti, se il governo tiene duro, abbozzeranno». Intanto però c’è la fila a fare distinguo, con il solo Terzo Polo ad appoggiare Monti. «Le liberalizzazioni servono per creare maggiore concorrenza, ma si deve guardare a 360 gradi», ricorda il leader udc Pier Ferdinando Casini. Intervenendo ieri alla Camera Massimo D’Alema ha scandito che «è difficile pensare a una strategia della crescita che faccia leva solo su misure di liberalizzazioni e rafforzamento della competitività». E oggi Bersani incontrerà Monti per esprimere le preferenze del Pd. Alza i toni invece Umberto Bossi: «I tassisti per tanti anni hanno lavorato sottopagati. Monti ha fatto un errore tirando addosso a una categoria tanto importante». (f.p.)

«L’Italia ha fatto e ancora sta facendo i suoi compiti a casa». Dobbiamo dire con chiarezza, però, che da parte europea la risposta fino ad ora non è interamente soddisfacente. Il meccanismo, che si era in qualche modo delineato per difendere il debito pubblico italiano contro la speculazione internazionale, non sta funzionando bene.

La Banca centrale europea non è prestatore in ultima istanza degli Stati. È, però, prestatore in ultima istanza per le banche e ha creato condizioni che permettono al sistema bancario di sostenere il debito pubblico degli Stati. Questo, però, non avviene o avviene solo in modo parziale. Perché? Credo che vi siano tre motivi. In primo luogo, l’offerta di credito della Bce si estende solo a tre anni. Di conseguenza, i tassi di interesse a breve sono caduti, mentre sono rimasti invariati o quasi invariati (in realtà, sono caduti un po’) quelli nel lungo periodo. In secondo luogo, la Eba, la European Banking Association, ha imposto alle banche obblighi di ricapitalizzazione ed obblighi di svalutazione dei titoli di Stato in loro possesso che le scoraggiano dall’acquisto di tali titoli. Su questo bisognerebbe trovare il modo di intervenire.


i tre casi del giorno/1

13 gennaio 2012 • pagina 3

Monti e Draghi convincono i mercati Rendimenti dimezzati e successo dell’asta dei Bot di ieri da 12 miliardi. Vola anche Piazza Affari di Francesco Pacifico

ROMA. I complimenti di Angela Merkel non basteranno a salvare l’Italia. Il prrimo a saperlo è Mario Monti, che ieri mattina alla Camera ha richiamato ancora una volta i partiti che appoggiano il governo: «L’Italia deve dare e confermare, nella realtà e nelle apparenze, l’immagine di un Paese maturo che non cede di un millimetro sulla linea del rigore, senza però di cadere preda di un formalismo eccessivo». E con questo messaggio il premier non vuole soltanto frenare le spinte demagogiche, comparse soprattutto a destra dopo l’uscita delle prime bozze sulle liberalizzazioni: «Per noi è fondamentale contare sull’indirizzo e sul contributo del Parlamento. È molto importante che ci sia dietro l’azione del governo, ma vorrei dire sopra e prima dell’azione del governo, l’orientamento del Parlamento su questi temi».

Appello raccolto in pieno dall’Udc, che rilancia invitando Pd e Pdl a «sottoscrivere un patto che dica che la politica di serietà e l’economia sociale di mercato sarà mantenuta». Concorda anche Pier Luigi Bersani: «È un buon metodo, sarebbe una buona cosa se il Parlamento riuscisse a convergere su una posizione nazionale a sostegno del suo governo, il Parlamento non ce l’ha solo la Germania». Quindi la stabilità del Paese, prima che finanziaria, deve essere politica. Soltanto così l’Italia potrà tranquillizzare i mercati e, soprattutto, incidere nelle trattative sulla riforma della governance europea, ancora oggi rallentate dai diktat e dai veti tedeschi. Non a caso ieri le Figaro scriveva che «Mario Monti ha lasciato Berlino, ricoperto dalle lodi di Angela Merkel, ma a mani praticamente vuote: il premier italian ha spinto per un intervento più massiccio della Bce, per gli eurobond e per un rafforzamento dell’Efsf. Richieste davanti alle quali la cancelliera è rimasta di marmo». Forse il bilancio non è così negativo come sostiene il quotidiano francese – il quale comunque riconosce all’ex retMa la ragione fondamentale e la più importante di tutte è ancora un’altra. I mercati guardano con fiducia al governo Monti e questo è uno dei motivi della caduta dei tassi a breve. Tuttavia, non guardano con eguale fiducia alla politica italiana nel lungo periodo e abbiamo visto prima un esempio delle ragioni per cui non hanno tutti i torti a guardare con diffidenza al lungo periodo. Cosa avverrà dopo la fine del governo Monti? Cosa avverrà dopo le prossime elezioni? La politica del rigore e della responsabilità è destinata ad essere una parentesi, dopo la quale tutto torna come prima? Se così fosse, la sfiducia di lungo periodo nella capacità dell’Italia di svolgere il suo ruolo in Europa sarebbe giustificata. Dobbiamo tutti essere con-

tore di aver “sedotto” i tedeschi – ma il premier non fa fatica ad ammettere le difficoltà affinché «l’Italia giochi un ruolo attivo per condurre l’Europa sul cammino della stabilità e della crescita». Soprattutto se l’obiettivo è quello di «evitare che si introducano vincoli più rigidi e ulteriori sanzioni rispetto a quelli esistenti nell’ambito del patto di stabilità e crescita». Per quanto tecnico, Monti ha

sono arrivati Bot semestrali per 3,5 miliardi di euro, con l’interesse calato fino all’1,644. E in entrambi i casi la richiesta è stata doppia rispetto all’offerta. Sale Piazza Affari (+2,09 per cento). Dietro l’atteggiamento più benevolo degli operatori verso il Belpaese ci sono – dando ragione a Monti – soprattutto le ultime mosse della Bce. Perché se i leader europei traccheggiano sulle loro

dimostrato meglio dei politici di professione di saper misurare le aspettative e la rabbia delle gente. E siccome soltanto l’Europa può risolvere i problemi italiani, annuncia che si batterà perché la Ue non sia «soltanto disciplina di bilancio: è molto importante che si passi oltre senza dimenticare l’aspetto disciplina, ma si investa più energia politica costruttiva sul versante della crescita». Intanto segnali positivi arrivano sia dallo spread tra Btp e Bund (478 punti base, con Il rendimento del nostro decennale al 6,62 per cento) sia dalle aste di ieri con il quale il Tesoro ha rinnovato 12 miliardi di debito pubblico. Prima sono stati collocati 8,5 miliardi in Bot annuali con un tasso sceso al 2,735 dal 5,95 per cento precedente. Quindi sul mercato

mosse, Mario Draghi dimostra di saper parlare ai mercati.Ieri il governatore della Banca centrale europea non ha abbassato i tassi per il terzo mese consecutivo, ma ha assicurato di essere «pronti ad agire, se necessario» con una nuova riduzione dei saggi a febbraio. Quindi ha richiamato la Germania e gli altri partner europei a non fare compromessi al ribasso sul patto fiscale e a «una rapida attuazione dell’Efsf e dell’Esm è urgente e necessaria». Se non bastasse, e dopo che Goldman Sachs e Fitch hanno sostenuto che soltanto gli acquisti sul mercato secondario della Bce terranno in piedi Italia e Francia, ecco il governatore garantire che andrà avanti il Securities Market Programme. E chissà come hanno gra-

Alla Camera il premier richiama i partiti: «Per incidere nell’Unione non dobbiamo più cedere sulla linea del rigore»

sapevoli del fatto che la politica di domani non potrà essere la stessa politica di ieri. L’Europa sta scegliendo un modello sociopolitico: è la economia sociale di mercato, fondata sul rispetto della regola di mercato e sulla solidarietà. L’economia sociale di mercato significa che il lavoro

Noi dobbiamo dare all’Europa la certezza del fatto che l’Italia sceglie questo modello e questa scelta verrà confermata anche da chi governerà nel futuro: chiunque vinca le prossime elezioni e qualunque sia la formula politica che governerà il Paese. Non andranno al governo forze,

L’Europa sta scegliendo un modello: è l’economia sociale di mercato, fondata sul rispetto delle regole da parte di tutti e sulla solidarietà viene prima del consumo, che il merito deve essere premiato e il demerito deve essere punito, che i furbi non devono prevalere sugli onesti e sui laboriosi e che non vi è lavoro senza competitività. È una rivoluzione del costume ed è una rivoluzione morale.

le quali vogliano aggregare l’Italia al nord Africa, andranno al governo forze le quali vogliono mantenere l’Italia in Europa. La conflittualità tra le forze politiche, le insofferenze che periodicamente si manifestano, la sensazione che si ha che alcuni

dito le banche, quando il banchiere si è soffermato sulla richiesta del’Eba di ricapitalizzare le banche italiane per 114,7 miliardi. La loro richiesta «era giusta ma è stata decisa in un momento diverso dall’attuale, sul profilo dei prezzi dei titoli di stato e delle condizioni economiche e così ha finito per essere prociclico e ampliare così le difficoltà degli istituti di credito». Draghi non concorda con chi chiede nuovi stress test. E manda a dire che nella fase che sta vivendo la Europa «i programmi di ricapitalizzazione delle banche non devono risultare in sviluppi a detrimento delle attività economiche». Concetti semplici che il mondo del credito userà per spingere l’Eba ad accetterà tempi per i rifinanziamenti più ampi, anche per evitare quanto accaduto in Italia a Unicredit. Infondo è naturale che il governatore si trasformi in pompiere, soprattutto in un momento nel quale «le continue tensioni dei mercati finanziari continuano a pesare sulle attività economiche dell’Eurozona». E l’Italia è un po’il paradigma di questa situazione. Non a caso Monti, ieri mattina alla Camera, ha ammesso di non «vedere l’ora che a fine gennaio si possa chiudere la trattativa sul Fiscal Compact. Non escludo che una volta acquisito l’accordo, la Bce si senta più rilassata».

Infondo, per un Paese che ha visto la produzione industriale calare a fine anno dello 0,7 per cento, un rasserenamento del quadro finanziario internazionale serve più della ritrovata autorevolezza. Anche se è il Fondo monetario a sostenere che quelli del professore sono «passi importanti per ricostruire la fiducia, alimentare la crescita e rimettere il debito sulla giusta traiettoria» e dalla Danimarca, patria della flex-security, la premier Helle Thornig-Schmidt plaude alla Montieconomics, che «unisce rigore e crescita ed è una combinazione che dovrebbe ispirare anche gli altri Paesi».

aspettino la fine di questa stagione per ricominciare tutto come prima, non aiutano a generare fiducia.

Il Terzo Polo invita il Partito Democratico ed il Popolo della Libertà, l’onorevole Bersani e l’onorevole Alfano a sottoscrivere un patto che dica che la politica della serietà e del rigore, la politica dell’economia sociale di mercato è fatta propria da tutte le forze politiche responsabili e sarà nel tempo continuata e mantenuta con il concorso di tutti. So che a molti parlamentari non piace l’idea di una grande coalizione, la stessa parola è tabù, ma io sono notoriamente politicamente scorretto e quindi la pronuncio lo stesso. Un patto di sistema tra le forze politiche,

consacrato da una mozione parlamentare, può trasmettere agli alleati ed ai mercati la stessa certezza del futuro che è l’effetto più prezioso di una grande coalizione. Un patto del genere non mette in questione la giusta differenza tra le forze politiche e nemmeno la distinzione tra maggioranza e opposizione, ma sarebbe un impegno comune per il rinnovamento morale della politica, per quella nuova politica che il Paese ci chiede. Quando sembra che le nubi si addensino sul futuro è necessario aprire con più energia e più coraggio il cammino della speranza. Ha detto una volta un poeta: «Vicino è, ma difficile da afferrarsi, il Dio. Dove però cresce il pericolo, lì aumenta anche la speranza».


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i tre casi del giorno/2

No sia all’abolizione della legge Calderoli sia alla sua modifica: ma il Parlamento è chiamato a trovare una soluzione

Ora tocca ai partiti

La Corte boccia i referendum ma invita a cambiare la legge. Pdl, Pd, Terzo Polo e Maroni favorevoli a un lavoro comune. Solo Di Pietro si tira indietro. E per spiegarlo a tutti insulta Napolitano: «La Consulta ha voluto compiacerlo» di Riccardo Paradisi ome da previsioni, anche se con un giorno di ritardo, la consulta boccia i quesiti proposti dai promotori referendari guidati da Antonio Di Pietro e Arturo Parisi che chiedevano l’abrogazione totale del Porcellum - l’attuale legge elettorale vigente - e l’abrogazione delle novità introdotte nel precedente Mattarellum.

C

I costituzionalisti si sono dunque pronunciati per l’inapplicabilità dello strumento referendario alle questioni elettorali. Il primo quesito secondo la consulta non è praticabile perché lascerebbe sprovvisto l’ordinamento di una legge elettorale, il secondo inammissibile per quanto concerne il nodo del premio di maggioranza. La reazione di Di Pietro alla bocciatura è scomposta e furibonda: «L’Italia si sta avviando, lentamente ma inesorabilmente, verso una pericolosa deriva antidemocratica, ormai manca solo l’olio di ricino» dichiara l’ex Pm che si scaglia ad ariete contro la Consulta e il Qui-

rinale: «Quella della Corte non è una scelta giuridica ma politica per fare un piacere al capo dello Stato, alle forze politiche e alla maggioranza trasversale e inciucista che appoggia Monti, una volgarità che rischia di farci diventare un regime». Dal Colle la reazione è immediata: «Parlare della sentenza odierna della Corte Costituzionale come di una scelta adottata per fare un piacere al Capo dello Stato è una insinuazione volgare e del tutto gratuita, che denota solo scorrettezza istituzionale». L’analisi di Arturo Parisi, membro del comitato referendario non è certo positiva sul verdetto della Corte costituzionale ma almeno è composta. L’ex ministro della Difesa si dice «tutto fuorché sorpreso dalla bocciatura dei quesiti da parte della Corte Costituzionale, anche se il prolungamento della Camera di Consiglio della Corte aveva dato speranza. Noi abbiamo fatto la nostra parte. Adesso tocca ai partiti, a quelli che questa legge l’hanno voluta e a quelli che ne

hanno goduto. Non vorrei essere nei loro panni, ma noi continueremo la battaglia dentro e fuori in Parlamento».

Per azioni dimostrative fuori dal parlamento si sta già organizzando il Popolo viola: «Dobbiamo scendere in piazza il prima possibile - dice il coordinatore dei Viola Gianfranco Mascia la cui dichiarazione di guerra è un escalation che vale la pena seguire per comprendere l’humus ideologico dell’opposizione

L’Udc pronta a reintrodurre le preferenze e la legge proporzionale

populista: «Se negli anni scorsi siamo scesi in piazza per combattere il conflitto di interessi di Berlusconi, adesso è venuto il momento di scendere in piazza contro i poteri forti che stanno condizionando l’Italia. Quando non si permette l’espressione della volontà di più di 1.200.000 cittadini che hanno firmato per poter scegliere se abrogare il Porcellum, quando la decisione della maggioranza dei cittadini nei referendum di giugno sulla salvaguardia dei beni comuni viene disattesa, quando continuiamo a farci governare da un Premier che non è stato scelto dagli elettori, quando gli stessi che hanno portato il nostro Paese al default economico siedono ancora nella maggioranza parlamentare, quando la Cricca continua a difendere i propri esponenti inquisiti, quando la voce della società civile viene messa a tacere, vuol dire che è arrivato il momento di scendere in piazza per riprenderci la parola, ribellandoci e riprendendo la nostra capacità decisionale».

Siccome l’indignazione in politica si calibra sulle proprie convenienze Rifondazione comunista, incendiaria in altre occasioni, in questa occasione spezza una lancia per la Consulta: «Esprimo il pieno apprezzamento per la sentenza della Consulta che ha correttamente dichiarato inammissibili i quesiti referendari sulla legge elettorale - dice Paolo Ferrero – La sentenza della è pienamente conforme al dettato costituzionale. Adesso -concludesi tratta di prendere atto del fallimento del bipolarismo e di arrivare ad una legge elettorale proporzionale». Il Pd non gioisce, avendo contribuito a raccogliere le firme utili alla presentazione dei referendum, ma è critico nei confronti dei toni di Di Pietro. «Rispettiamo pienamente il verdetto della Consulta – dice il segretario Bersani – ma ora tocca al Parlamento agire. Quel che è certo è che non possiamo tenerci la legge che abbiamo, perché in una situazione già molto grave finiremo per vede-


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Il politologo Paolo Pombeni commenta la bocciatura dei due quesiti e analizza le prospettive

«Non solo riforma elettorale: tutto lo Stato è da rifare»

«Se non si inserisce dentro un contesto di modifiche organiche - elezione del presidente della Repubblica, Senato regionale - non si va lontano» a bocciatura dei quesiti referendari proposti da Antonio Di Pietro e Arturo Parisi da parte della Consulta non determina soltanto la responsabilità per i partiti e il parlamento di lavorare adesso a una nuova legge elettorale condivisa che archivi il Porcellum, il sistema elettorale universalmente esecrato che, con l’avallo di fatto di tutte le forze politiche, ha determinato un parlamento di nominati. La bocciatura dei referendum costituisce anche l’innesco della deflagrazione compiuta dell’alleanza tra Pd e Idv. La foto di Vasto dopo il furioso scambio di accuse tra il segretario Pd Bersani e l’ex Pm Di Pietro è ormai un dagherrotipo da museo.

L

Ma ora è da vedere con quale metodo si procederà verso la riforma della legge elettorale e quale sarà l’orientamento delle forze politiche considerando che all’interno degli stessi schieramenti si va da posizioni che sostengono il maggioritario a settori che invece caldeggiano il ritorno al sistema proporzionale e e delle preferenze. Il politologo Paolo Pombeni se da un lato definisce scontata la bocciatura della corte e auspicabile un’intesa tra le forze politiche per una nuova legge dall’altro fissa dei paletti secondo lui necessari perché questo lavoro a cui sono chiamate le forze politiche possa davvero produrre qualcosa. «La bocciatura dei referendum da parte della Corte costituzionale – dice Pombeni a liberal – è una sorpresa solo per chi pensava che la Consulta potesse lasciare un vuoto nella disciplina in materia. Insomma sarebbe stato assurdo che proprio la corte costituzionale stabilisse la liceità di un vuoto normativo. E a chi

sostiene che in mancanza di una legge vigente, in questo caso il Porcellum, si sarebbe sostituito il precedente, il Mattarellum, ha già replicato con un paradosso non per questo inefficace dal punto di vista argomentativi che allora l’abolizione dell’ergastolo ripristinerebbe con ciò la pena di morte». Nondimeno, ammette Pombeni «Il Porcellum è una pessima legge e va cambiata. Il problema è capire come e con quale legge alternativa. Se infatti tutti, a parole sono contro il Porcellum ognuno poi ha un suo modello, cali-

«La Consulta non poteva lasciare un vuoto legislativo, era chiaro che avrebbe detto no ai quesiti» brato sulle convenienze della sua forza politica, di legge alternativa. Sicché se le forze politiche sono responsabili devono capire che una riforma elettorale va fatta dentro la cornice di una riforma istituzionale, distribuendo il peso dell’intervento su più aspetti». Quali? È chiaro che bisogna dare una forma più compiuta e chiara alla presidenza della Repubblica, che va riformato il bicameralismo, che vanno riequilibrati i poteri istituzionali». Si dirà: ma è urgente una riforma elettorale. Pombeni replica che inserirla all’iterno d’una più vasta riforma istituzionale velocizza non rallenta la pratica e soprattutto impedisce l’assalto alla diligenza dei partiti che vorranno, ognuno, disegnare il nuovo sistema a propria immagine e somiglianza. «Il senato – dice Pombeni – potrebbe diventare la camera di rappresentanza dei poteri locali, le categorie sociali potrebbero avere un peso maggiore nella scelta del presidente della Repubblica, mentre la Camera potrebbe continuare a rappresentare le forze politiche e il consenso di cui sono espressione. Si creerebbe insomma un equilibrio plurale all’interno del quale ogni forza politica potrebbe trovare compensazioni e spazi». Del

resto quello attuale è un momento favorevole a riforme di questo tipo secondo Pombeni. «Con un governo tecnico-politico che potrebbe fare da arbitro e camera di compensazione e con la consapevolezza diffusa tra gli italiani che in un momento di crisi così grave è necessario trovare delle soluzioni mature e realistiche al cul de sac in cui s’è infilato politicamente il Paese». A proposito del polso della società italiana. Pombeni è convinto, a differenza di altri opinionisti e osservatori della realtà italiana, che il populismo non goda affatto di buona salute. E che anzi la sua stella è destinata a declinare con il permanere della crisi. Pombeni muove dalla rottura tra Pd e Italia dei Valori, confermata e resa ancora più profonda dalla bocciatura dei referendum della corte costituzionale e dal corredo di polemiche che ne sono seguite.

L’alleanza di Vasto non aveva motivo di esistere – dice Pombeni – era qualcosa di innaturale e di effimero sin dalla fase embrionale in cui è rimasta. Si sarebbe comunque arrivati alla rottura. «Perché del Pd si può pensare tutto il male possibile ma è un partito con una tradizione politica vera mentre Di Pietro è un arrembante populista». Un populista che «può racimolare qualche consenso nell’immediato ma nel breve lungo periodo, di fronte a una crisi come questa, la gente non è disposta a mettersi in mano a dei capipolo. Perché capisce che con le urla e le scimittare non si va da nessuna parte». (Ri.Pa)

re accresciuto il distacco tra i cittadini e le istituzioni». E per quanto riguarda le esternazioni di Di Pietro Bersani le liquida così: «Di solito è Berlusconi a esprimersi in questa maniera». La controreplica dell’Idv, a sancire una rottura ormai definitiva con i democrat, arriva a stretto giro: «Non merita alcun commento il tentativo, a referendum morto, dell’onorevole Bersani, di mettere il cappello su un’iniziativa condivisa solo da una parte degli esponenti democratici, in palese dissenso dallo stesso Bersani che non ci risulta abbia firmato il referendum. La crisi democratica e la prospettiva di un regime viene aggravata da un Governo di tecnici senza legittimazione popolare che procede, come il predecessore Berlusconi, per decreto legge e con richiesta di voto di fiducia».

Da parte del Pdl si registra un atteggiamento ondivago: c’è chi la definisce «una buona legge da migliorare», come Berlusconi e chi come Rotondi promette il Pdl lavorerà in parlamento per una riforma elettorale condivisa. La Lega invece con Maroni parla dell’urgenza di cambiare questa legge elettorale «altrimenti si offenderebbe il sentimento democratico dei cittadini». Secondo l’Udc la legge va cambiata in ogni caso. «Così come ieri non abbiamo tirato per la giacca la Consulta – dice il portavoce nazionale dei centristi De Poli – allo stesso modo oggi esprimiamo rispetto per la sua decisione. Per l’Udc non cambia nulla, perché a prescindere dall’esito dell’esame dei due quesiti referendari che ne ha sancito l’inammissibilità, la legge elettorale va in ogni caso cambiata. Noi siamo per approvare una legge elettorale che reintroduca le preferenze: i cittadini devono poter scegliere i propri candidati». Un’urgenza quella della riforma del Porcellum – una legge elettorale che determina, di fatto, l’esistenza di un parlamento di nominati – di cui si fanno portavoce anche gli esponenti dell’associazionismo cattolico: «Ci mobiliteremo con tutte le forze sociali disponibili per costringere la politica a cambiare questa vergognosa legge elettorale imposta dalla peggiore partitocrazia di sempre – dice il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero - Mai più gli elettori dovranno essere sottoposti all’umiliazione delle liste bloccate». Aggiunge Olivero: «Ridare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti, spezzando così la logica perversa della cooptazione, è l’obiettivo intorno al quale va costruita la più grande alleanza possibile in Parlamento». A questo punto la palla è ai partiti che dovranno trovare un accordo su un modello elettorale che garantisca la governabilità e la chiarezza della scelta degli elettori. E magari la possibilità ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti.


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i tre casi del giorno/3 Dicono no all’arresto in 309. Il parlamentare: «Mi dimetto da coordinatore campano», ma poi ci ripensa

La Lega si spacca, Cosentino si salva

Bossi sconfessa Maroni che è vicino alla rottura: «I nostri non capiranno». È quasi rissa tra i deputati del Carroccio. Decisivi anche i no dei sei radicali di Marco Palombi marcord. È l’unica parola che possa descrivere quello che ieri s’è visto a Montecitorio: come se non ci fossero i professori al governo, come se il paese stesso non avesse mentalmente voltato pagina rispetto al berlusconismo triste, solitario y final, come se a novembre il Cavaliere non avesse dato il suo addio definitivo a palazzo Chigi. C’è chi, scherzando o forse no, vorrebbe addirittura riportare indietro le lancette dell’orologio: «Abbiamo di nuovo la maggioranza: dovremmo tornare al governo», ironizzava Guido Crosetto dopo che l’aula della Camera aveva salvato Nicola Cosentino dall’arresto con 309 voti a favore contro 298. Prima di capire cos’è successo, però, va registrato il salto spazio-temporale che ha riportato la politica italiana ai tempi di Silvio Berlusconi. È bastata un’oretta: il tempo di archiviare le parole sul nuovo Patto europeo di Mario Monti - un premier che ha fatto giustamente dimettere un sottosegretario per una vacanza da 20 mila euro pagata da un costruttore - che lo stesso ramo del Parlamento italiano è tornato alla battaglia attorno ad un caso giudiziario scabrosissimo, che vede uno dei suoi membri accusato di essere il referente nazionale del clan camorrista dei Casalesi, il quale - come da prassi - si difende accusando la magistratura politicizzata («Uno dei pm che mi indagavano oggi fa l’assessore nella giunta di De Magistris a Napoli», «contro di me è stata fatta una forzatura enorme»). Puro amarcord, come si vede. «Dopo un paio di mesi di

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tecnici, è tornata la bella politica», si scherzava in Transatlantico. E non solo: torna di moda per un giorno anche il giornalismo del retroscena, del sussurro, del pettegolezzo e a volte della menzogna lasciate trapelare in modo interessato; tornano gli esperti di accordi sottobanco, inciuci, confidenze rilasciate da chissà chi, chissà dove. «La Lega ha salvato Cosentino perché Berlusconi ha promesso a Bossi che si andrà a votare». No, «i Radicali hanno salvato Cosentino perché Berlusconi gli ha promesso i posti in Parlamento». Macché, «sono stati il Pd e l’Udc a salvare Cosentino perché altrimenti Berlusconi staccava la spina a Monti». Il Cavaliere è un uomo potente, ma non è il Lord Voldemort di Harry Potter: al di là di quello che è in grado di dire (molto) e fare (molto meno), la

franchi tiratori nel suo stesso partito: «Comunque vada il voto di stamattina, un minuto dopo mi dimetterò da coordinatore del Pdl in Campania». Qualcuno, infatti, pur di toglierselo di mezzo, avrebbe potuto arrivare a dimenticarsi i principi di garantismo (o, se preferite, impunità) che sono alla base del partito del predellino. È tanto vero che, una volta incassato il risultato positivo, il nostro cambierà opinione: «È mia intenzione dimettermi, ma prima devo parlare coi vertici del Pdl campani e nazionali». Si vedrà, in ogni caso Nic non sembra più avere quella fretta terribile delle ore in cui rischiava la galera: anche la faccia è più rilassata, a tratti sorridente, mentre in aula stringe mani e riceve applausi e abbracci (tra cui, calorosissimo, quello dello scarcerato Alfonso Papa) subito do-

Scene di giubilo tra i banchi del Pdl subito dopo l’annuncio del risultato della votazione. «Più che un applauso, un’eutanasia del Parlamento, un suicidio in diretta», ha commentato Casini sua più grande capacità è quella di occupare l’intero spazio mentale di addetti ai lavori e quella parte di opinione pubblica che si nutre quasi professionalmente di politica.

Quanto ai fatti di ieri mattina, eccoli. Di prima mattina Nic ’o mericano si dichiara innocente intervenendo su una delle tv di Silvio Berlusconi, attacca i magistrati che chiedono il suo arresto e rivela che lo stesso proprietario della tv nonché leader del Pdl ed ex premier gli ha detto di «stare tranquillo». Lui, pertanto, si dichiara “tranquillo”. Poi il nostro mette a verbale una dichiarazione che serve a ridurre al minimo i

po aver schivato la minaccia. Quel che resta sono quei 309 voti che l’hanno salvato: chi e come l’abbia fatto, è una cosa che rimarrà incerta visto che il voto era segreto. Bisogna farsi due conti: contando i gruppi e i gruppuscoli che hanno dichiarato il loro appoggio alla causa di Cosentino (Pdl, Responsabili, Radicali e pezzi del misto) si arriva infatti attorno ai 260 deputati o giù di lì, il che significa che ci sono una cinquantina di voti arrivati all’ex sottosegretario indagato per camorra dal fronte opposto. I più sospetti sono, ovviamente, i leghisti. La commediola messa su dagli intransigenti padani - a cui non sfugge nemmeno uno dei cote-


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La lite al vertice dei leghisti vista dal politologo Paolo Feltrin

«Il motivo? Il Senatur non può correre da solo» «Senza l’appoggio del Pdl, il Carroccio non potrebbe sedersi al tavolo delle trattative sul Porcellum» di Francesco Lo Dico

Per la prima volta, l’ex delfino sconfessa pubblicamente il capo e in Aula vota sì. Ma Bossi gli risponde sprezzante: «È scontento? Pazienza, non piangeremo certo per questo» chini acquistati dalla signora Monti - pare una di quelle sceneggiate che andavano di moda in quel di Napoli: lunedì scorso l’ufficio politico federale decide su imput di Roberto Maroni che Cosentino va mandato in galera; mercoledì Umberto Bossi dice che «nelle carte non c’è niente» e «la Lega lascia libertà di coscienza»; ieri in aula Luca Paolini, avvocato, interviene a nome del gruppo e demolisce la richiesta dei Pm, poi conclude dicendo che il gruppo è favorevole all’arresto ma che ognuno vota come gli pare. Poco prima lo stesso Paolini era stato quasi picchiato dal maroniano Dozzo in una riunione tra deputati («Dì la verità: ti ha chiamato Berlusconi»).

Alla fine non si sa chi abbia votato cosa: il Senatur e anche Maroni tentano di accreditare l’idea che solo il povero Paolini (e pochi altri) abbiano votato contro l’arresto, mentre a soccorrere Cosentino ci hanno pensato il Pd e l’Udc. L’interessato la pensa diversamente: «Non eravamo quattro gatti: sui 56 presenti di oggi (tra cui non c’era Umberto Bossi, ndr) dai 20 ai 30 parlamentari della Lega hanno votato come me». Commento lunare di Bossi: «Io non penso che la Lega voglia mandare in galera un terrone solo perché è terrone. Nella Lega nessuno dice che i napoletani devono andare in galera a tutti i costi». L’ex ministro dell’Interno, invece, ci tiene a smarcarsi: «Non so se gli elet-

tori e la base capiranno: ho ricevuti molti messaggi negativi», ammette lasciando Montecitorio (e infatti sui siti del movimento è tutto un profluvio di insulti contro il Carroccio venduto a Berlusconi). I travagli della Lega, che si dibatte nella difficile successione al duo Bossi-Berlusconi, sono specchio di quanto - più in piccolo accade anche nel Pd: per l’ennesima volta, anche se alla luce del sole, i radicali hanno deciso di non seguire la linea del gruppo di cui fanno parte e votare contro l’arresto, risultando alla fine decisivi (se si fossero conformati alle scelte del Pd sarebbe infatti finita 304 a 303 a favore della custodia cautelare). «È un’altra ferita», spiegava a caldo il capogruppo Dario Franceschini; «non posso che sottolineare un’altra volta la scorrettezza del loro comportamento», gli faceva eco Rosi Bindi. Per il Terzo Polo, accusato anche lui di aver salvato segretamente Cosentino, parla Pier Ferdinando Casini: «Fa polemica chi vuole inquinare le acque come Maroni. I numeri sono chiari: per il Pd 198 deputati, meno i sei Radicali che hanno votato contro l’arresto; l’Udc 36; 22 per Fli; 21 per l’Idv e 7 per l’Api. La somma fa 284 e ci sono stati 298 sì all’arresto». Quanto al merito, il leader dell’Udc è nettissimo: «Il voto su Cosentino è stato un grave errore politico. E l’applauso dopo la proclamazione del voto è stato l’eutanasia del Parlamento, un suicidio in diretta».

ROMA. «Alla fine il gruppo resterà spaccato. Più di dieci parlamentari della Lega voteranno contro l’arresto», aveva predetto un esponente leghista a poche ore dal voto dell’aula chiamata a decidere sull’arresto di Nicola Cosentino. E il risultato è stato che, dopo l’appello alla libertà di coscienza lanciato da Umberto Bossi, i no del Carroccio sono risultati decisivi nel respingere il carcere per il coordinatore del Pdl campano. Un risultato che ha mandato su tutte le furie Roberto Maroni, sempre più deciso a contrastare la leadership del Senatùr, ma le cui mosse sucitano notevoli perplessità in merito agli obiettivi perseguiti. «Riuscire a comprendere perché Bossi abbia deciso di non spezzare la corda è abbastanza comprensibile», spiega Paolo Feltrin, docente di Scienze politiche all’università di Trieste. «Ciò che sfugge è la strategia dell’ex ministro degli Interni. Anche se un’ipotesi indiziaria può essere immaginata». Professore, perché Bossi ha fatto retromarcia su Cosentino? Il leader del Carroccio ha preso atto che numerose divergenze lo allontanano dal Pdl, ma non è disposto a recidere il tenue filo di un possibile rilancio dell’alleanza con Berlusconi. Non c’è da fare troppe dietrologie sul merito, probabilmente si tratta di un ragionamento politico dettato da esigenze molto pratiche. Vediamole allora. Innanzitutto incombono le elezioni amministrative che coinvolgono importanti città del Nord. Uno strappo brusco avrebbe reso insanabile il dissidio, come minacciato in modo abbastanza palese da Fabrizio Cicchitto. Bossi non vuol certo correre il rischio di passare improvvisamente all’opposizione. L’alleanza con il Pdl è a breve termine preziosa. Ma per andare più a fondo alla questione, bisogna guardare in direzione della Corte costituzionale. La non ammissibilità del referendum non è abbastanza confortante per Calderoli e soci? Al di là del verdetto della Consulta, che comunque consente ai partiti di avere molto tempo a disposizione per discutere, il Senatùr è preoccupato dal dibattito su una nuova legge elettorale. Se la Lega si sfosse sfilata definitivamente dall’asse con il Pdl, avrebbe permesso ai due maggiori partiti di lavorare a una riforma di tipo maggioritario. Mantenere il dialogo con il Pdl, significa invece poter trattare e poter incidere sul sistema di voto. E Berlusconi ha detto ieri che il Porcellum è una buona legge. Favore restituito? Comunque vada, è ragionevole supporre che i leghisti sceglieranno un indirizzo definitivo per le prossime politiche in base al tipo di riforma elettorale che verrà eventualmente

partorita. Anche se c’è una terza ragione, cui dare il giusto peso. E di certo non è la lotta per la secessione. Il leader del Carroccio teme di avere lo stesso contraccolpo negativo che lo atterrò nel ’97. Se le politiche del governo Monti dovessero avere successo e mettere in sicurezza il Paese, Bossi vedrebbe ridimensionata la sua credibilità di fronte agli elettori. Come già accadde con il governo Ciampi. Volendo procedere a una sintesi, la Lega digrigna i denti ma in realtà ha paura di restare isolata. Bossi prova a forzare ma senza rompere, fa la voce grossa ma difficilmente arriverà a uno strappo vero. Sa bene che se uscisse dal centrodestra l’interlocutore privilegiato del Pdl diventerebbe l’Udc. Il quadro sembra completo e convincente. Ma nel caso di Maroni è difficile percepire una qualche progettualità. Che idea se ne è fatta? Se guardiamo al percorso di Maroni, gli ultimi maldipancia sembrano incomprensibili. Nelle tre esperienze di governo leghiste si è guada-

Il Senatùr sa bene che se uscisse dal centrodestra l’interlocutore privilegiato del Pdl diventerebbe l’Udc. E pesa la sorte del Porcellum...

gnato un profilo istituzionale, moderato, di padano in doppio petto serio e legato ai valori dell’unità nazionale. Oggi invece ha assunto posizioni radicali. Con quale scopo? Quello di spodestare Bossi puntando a raccogliere intorno a sé i malumori dei leghisti duri e puri? È chiaro. C’è una contesa per il potere della quale magari ignoriamo ulteriori aspetti su cui ancora non è stata fatta luce. Ma una pista da non sottovalutare può essere quella che porta a Giulio Tremonti. È probabile che l’ex ministro degli Interni si sia persuaso ad abbracciare le bandiere più radicali nel tentativo di ostacolare l’asse tra Bossi e Tremonti che lo vedrebbe soccombente. In un certo senso forse Maroni ha scelto un giacobinismo obbligato nel timore di venire eclissato. Che cosa farà la Lega dopo Monti? Ho l’impressione che per saperne di più dovremo arrivare all’autunno. Lo stop al referendum priva il Parlamento di quella pistola alla tempia che significava tempi precisi per partorire una nuova legge elettorale. Tutto ora invece resta appeso e la Lega sceglierà il da farsi in base a un’eventuale riforma. Senza trascurare il fatto che comunque le andrebbe benissimo il Porcellum, che specie a livello regionale ha consentito al Carroccio di conquistare alcune importanti regioni del Nord.


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olti sociologi si sono domandati ”dove sia, finita la borghesia?”, o più realisticamente hanno parlato di ”eclisse della borghesia”. A rispondere a questo interrogativo può contribuire un libro scritto a due mani da Antonio Galdo e Giuseppe De Rita: un giornalista molto attento ai problemi sociali (da ricordare il suo libro Non sprecare, edito qualche anno fa da Laterza) e De Rita, presidente del Censis. Già qualche anno fa nella Intervista sulla borghesia in Italia, De Rita, alla domanda di Galdo se esistesse in Italia una borghesia, rispondeva che, «a differenza degli altri paesi europei, non vi è una borghesia fortemente strutturata e capace di assumersi la responsabilità complessiva di dirigere il paese ed esprimere una classe politica. Al suo posto si era venuta a formare una bolla di ceto medio, esploso con il processo sociale avvenuto in questi ultimi quarant’anni». A Galdo, che gli chiedeva cosa fosse stata la “molla” che aveva messo in moto il meccanismo di formazione di questa massa amorfa, De Rita faceva un’osservazione non priva di verità: «Quando ha iniziato a formarsi, invece, era visibile una voglia di crescere; è stata una corsa verso l’upgrade, una faticosa salita di gradino in gradino che ha dato la spinta alla formazione del ceto medio». Una spinta quella che si verificò nei primissimi anni Cinquanta; a determinare questo fenomeno erano stati responsabili diversi fattori: «l’uscita dal fascismo, la voglia di ricostruire dopo la guerra; i primi richiami della civiltà americana, l’orizzonte di uno stile di vita improntato al benessere e non alla povertà; il fatto che tra il 1950 e il ‘52 tramontassero le lotte operaie e bracciantili» e forse, si deve, aggiungere l’attenuarsi della minaccia social-comunista, con la vittoria dei partiti centristi. Non vi era qualcosa di positivo quasi di eroico in questo slancio di ricostruzione che investì questi ceti ma in genere grande parte della società italiana? Se questa massa di ceto medio è divenuta nel corso degli anni una palla al piede per lo sviluppo economico annegandosi nel consumismo e cercando rifugio nell’assistenzialismo, nel clientelismo, divenendo tributaria dei “poteri forti”se non cadendo preda delle pratiche mafiose, non si può dire che tutta la colpa ricada su di essa. Lo stesso allargamento delle classi medie che sono diventate la maggioranza del popolo italiano non era un segno di modernizzazione e anche di superamento dell’anomalia italiana? Non era possibile dare uno sbocco positivo a questo fenomeno sociale, che si configura come una vera e propria rivoluzione antropologica, anche in termini di costruzione di una democrazia moderna? In realtà questo ceto medio di massa non si è trasformato in una vera moderna borghesia, cioè in una classe dirigente. La differenza tra la borghesia e il ceto medio non è una questione semantica. Nella cultura politica liberale si è sempre rifiutato di considerare la borghesia come una classe in senso sociologico, semmai si è considerata una classe generale o una classe non classe (B. Croce, Un equivoco concetto storico: la borghesia in Etica e Politica, Bari, 1931, pp. 321-338). Croce confutava le interpretazioni marxiste secondo cui la borghesia era un ceto economico che si identificava con la classe capitalistica: e ne dava una formulazione etico politica, considerandola un

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È vero, la borgh Riflessioni sul corto circuito, tipicamente italiano, che si è creato nel rapporto tra società, ceti dirigenti e classe politica. A partire da un libro di De Rita e Galdo di Fabio Grassi Orsini

Il ceto medio nato negli anni Cinquanta si è lasciato dirigere dai grandi partiti di massa rinuciando così a una sua funzione autonoma ceto dirigente la cui funzione era quella di ricercare l’interesse generale. La borghesia era cioè «il complesso di tutti coloro che hanno vivo il sentimento del bene pubblico» ... «ed operano in modo conforme». Il termine ceto medio ha un significato ancora più incerto sul piano sociologico e sta a indicare uno strato intermedio tra la classe imprenditoriale e la classe operaia (convivendo con sottospecificazioni come piccola borghesia). Da un punto di vista politologico ha senso parlare di ceti medi? Se per ceti medi si intendono quei ceti che non rientrano nella borghesia, intesa come classe dirigente, sembra più produttivo parlare di ceti “diretti”.

Per individuare il rapporto tra gruppi sociali e potere politico è preferibile ricorrere al concetto di élite (Sartori I significati del termine élite in Aa.Vv., Le élites politiche, Bari, 1961, pp. 94-99), elaborata dalla sociologia politica classica (Mosca, Pareto) e che ha trovato da tem-

po un’elaborazione che l’ha resa compatibile con una “società aperta”. Ci si riferisce alla “teoria delle élites democratiche”, che ha trovato una sistemazione definitiva nella politologia americana, ma che aveva già avuto una sua prima elaborazione in Salvemini, Gino Luzzatto, Gobetti, Burzio, Dorso, Panfilo Gentile, poi ripresa da Bobbio e Stoppino. Le caratteristiche differenziali delle élites democratiche rispetto a quelle tradizionali sono, per generale consenso: la base sociologica molto allargata del loro reclutamento; la concorrenza tra le élites che ne assicura il continuo rinnovamento e il controllo democratico sulla gestione del potere. Le élites sono espressione della società civile e ne costituiscono la parte attiva. Le élites dirigenti sono chiamate a svolgere una specifica funzione che consiste nell’orientare l’opinione pubblica e di partecipare alla formazione e alla selezione della classe politica. Questo ruolo viene loro riconosciuto in forza del loro prestigio sociale e della loro competenza a esercitare una leadership e sono tanto più in grado di esercitare questo ruolo tanto più sono “responsive”nei riguardi della società. La mancanza di una borghesia intesa come un complesso di élites dirigenti pone una serie di problemi che i due autori analizzano. Il paese è, secondo loro, come una macchina senza driver; non è in

condizione di elaborare una classe politica e di darsi una rappresentanza capace di fare progetti in grande. Non vi è dubbio che i ceti medi di massa abbiano dimostrato un notevole protagonismo sociale cui non è corrisposta un’adeguata iniziativa politica. Questo è dipeso dalla circostanza che si usciva dal fascismo e questi ceti emergenti non avevano valori democratici e modelli simili a quelli prevalenti nei paesi europei: in sintesi non avevano una cultura capitalistica né un’esperienza associativa in campo politico. Non poterono darsi una nuova organizzazione sociale né potevano contare su di un’élite che fosse loro espressione diretta. Furono in pratica eterodiretti; finirono per subalternizzarsi ai grandi partiti di massa in modo prevalente nei riguardi della Dc, ma anche al Pci (e questo fu vero per alcuni strati intellettuali e ceti burocratici).

Con la crisi del sistema politico della Prima Repubblica, essendo venuta meno la protezione dei due grandi partiti, i ceti medi - almeno quella parte che si era collocata al centro - sono stati interpretati ma non guidati dal berlusconismo perché il progetto di un partito liberale di massa non si è realizzato; sono perciò alla ricerca di una rappresentanza. Problema non molto differente riguarda quella parte dei ceti medi che


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hesia non esiste

La formazione delle élites politiche in una moderna democrazia è altrettanto importante della partecipazione popolare avevano cercato la protezione del Pci e della sinistra democratica perché non hanno visto svilupparsi nel Pd e nel suo sistema di alleanze una solida alternativa riformista. Nonostante ciò gli autori del libro sono convinti che siamo alla fine di un ciclo e che la società italiana saprà trovare una via di uscita dalla crisi. Secondo gli autori, vi sono segnali di speranza, costituiti dal prendere corpo di nuove forme di partecipazione collettiva, che si riscontrano nei soggetti intermedi. Segnali anche di nuove forme di mobilitazione e di rappresentanza: che si realizzano ad esempio nel volontariato, nella rete della sussidiarietà, nell’associazionismo, nello sviluppo dei social networks, nella rivitalizzazione del mondo cooperativo e della piccola impresa. Si tratta, tuttavia, di una speranza. Non sembra che i ceti medi, che pure sopporteranno il maggior peso delle manovre, abbiano dimostrato di voler far sentire la loro voce o che siano intenzionati a dar vita a un nuovo sistema

di partiti che possa rappresentarli, mentre si levano le proteste provenienti dalle corporazioni, dalle lobbies e dai settori più conservatori delle categorie economiche e dei sindacati. Si tratta di vedere se la crisi sarà un’altra occasione mancata come è stato in occasione del collasso della Prima Repubblica o una nuova opportunità, ma questa seconda alternativa dipende da quelli che saranno i comportamenti della classi

medie, se cioè dimostreranno di essere in grado di accettare la sfida e darsi un ruolo dirigente, interpretando una responsabilità nazionale. Per quanto non si possa non riconoscere l’alto valore analitico e interpretativo fornito da questo volume sul problema della formazione di queste nuove classi medie e sull’individuazione dei loro caratteri distintivi, la domanda del perché si sia prodotta un’eclisse della borghesia rimane senza risposta. Permane cioè il mistero di dove sia finita quella borghesia che centocinquant’anni fa aveva promosso una rivoluzione nazionale e che, dopo aver governato il paese per sessant’anni, era sopravvisuta al fascismo, che l’aveva emarginata dal punto di vista politico, e dopo essere riapparsa dopo la caduta del regime, aveva dato un notevole contributo alla rinascita della democrazia nella fase costituente. Si tratta in realtà di una

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domanda retorica perché la stessa politica dei ceti medi, praticata dai partiti di massa aveva un segno fortemente antiborghese. Di fatto essa aveva operato per diminuire il potere economico e il prestigio sociale della vecchia borghesia e per emarginarla politicamente. Le giustificazioni che venivano date per legittimare tale scelta strategica erano molteplici. In primo luogo, si sosteneva che la borghesia aveva sostenuto il fascismo, il che riguardava solo una parte della vecchia classe politica che lo aveva inizialmente accettato, convinta che Mussolini avrebbe messo ordine nel caos del dopoguerra senza travolgere l’assetto costituzionale, non considerando, invece, quell’altra parte che prese un atteggiamento di resistenza morale, partecipando, poi, alla cospirazione antifascista. Sul piano economico e sociale, si è identificato la borghesia con la grande proprietà latifondista e con il capitale monopolistico. Nella stessa ricostruzione della struttura delle classi che avevano fatto gli economisti di scuola marxista, la configurazione della borghesia come classe capitalistica assumeva un profilo funzionale e una dimensione quantitativa aderente a quanto disegnato dalla propaganda antiborghese. La stessa storiografia aveva recepito un’immagine da essa derivante con la conseguenza di cancellare i meriti patriottici di quel ceto dirigente.

D’altra parte, la borghesia, almeno a partire dalla fine dell’età degasperiana, si era ritratta dalla politica attiva anche a livello locale, con la conseguenza di rendere sempre più evanescente la sua rappresentanza. È probabile anche che la desistenza da un impegno politico diretto sia derivata da una scarsa competitività delle generazioni più giovani nel quadro di una democrazia di partiti. Ma ciò che più conta è che sono stati i partiti ad assumere il monopolio della formazione delle élites politiche creando un corto circuito nel rapporto tra società, ceti dirigenti e classe politica. Per cinquant’anni quest’ultima è stata reclutata quasi esclusivamente tra i dirigenti di partito e di sindacato o tra i quadri delle organizzazioni collaterali, con scarsi apporti provenienti dalla società civile. Ne è conseguito un graduale decadimento del livello della classe politica che è all’origine del collasso della Prima Repubblica. Salvo il caso della prima legislatura della cosiddetta Seconda Repubblica, in cui si produsse un certo ricambio con l’ingresso di elementi esterni alla nomenclatura politica, i canali di comunicazione si sono richiusi e non si può dire che la qualità dell’attuale classe politica sia molto diversa da quella della Prima Repubblica. Del resto il fatto che dinanzi alla crisi economica in atto i partiti abbiano dovuto fare un passo indietro, passando la mano a una élite tecnocratica, la dice lunga sulla capacità di una classe politica così selezionata a farvi fronte. Guardando oltre l’emergenza, non ci si può aspettare che basti cambiare una legge elettorale - cambiamento pur necessario - per migliorare la qualità della rappresentanza. Quello della formazione di una classe politica competente e capace di dedicarsi al bene comune è un problema più complesso e di lungo periodo. D’altra parte, la formazione delle élites politiche è in una moderna democrazia altrettanto importante della partecipazione popolare.


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Diventa un caso internazionale la «bravata» dei militari Usa. Washington apre un’inchiesta, Karzai contro «i gesti disumani»

Il video-scandalo

I marines urinano sui cadaveri dei talebani: un filmato scatena le proteste in Afghanistan di Pierre Chiartano un video shock. In termini giuridici si chiama vilipendio di cadaveri. Stanno suscitando un terremoto di polemiche le immagini di quattro soldati americani in Afghanistan che urinano sui corpi di tre afgani, presunti talebani appena uccisi, ridendo e scherzando. Durissima la reazione anche del presidente Karzai che si è detto profondamente «sconvolto» e severa quella della Nato, che ha parlato di un gesto che «disonora», mentre paradossalmente più cauta la reazione dei talebani che sottolineano come il caso non ostacolerà i negoziati di pace.

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«È frutto di frustrazione e di una vera deriva culturale», commenta a caldo a liberal il generale Fabio Mini, esperto militare e già comandante di Kfor, la forza Nato in Kosovo. Sull’episodio ritratto nel video, postato mercoledì in forma anonima su LiveLeak, il Pentagono ha subito dichiarato che aprirà un’inchiesta. «Non abbiamo ancora verificato l’origine e l’autenticità di questo video – si legge in un comunicato del dipartimento della Difesa – ma le azioni riprese sono contrarie ai nostri valori e non indicativi del modo di essere dei Marines». Il problema è quello dell’addestramento “culturale”delle truppe inviate nei teatri esteri. Giovani ragazzi catapultati da Peoria, Falkenburg o altre cittadine sperdute del Midwest direttamente nei teatri operativi. Uno spirito cameratesco spesso portato all’eccesso che ha sempre distinto il Corpo dei Marines, creando non pochi problemi al Pentagono. Ma sempre accettato a causa del lavoro “sporco” che le truppe d’assalto americane hanno sempre dovuto svolgere.Tutto ciò può aver provocato una falsa sensazione di appartenere a una élite al di fuori delle regole che governano le forze armate Usa. Ma ciò può essere vero per tutti i reparti speciali. Forse gli eccessi che abbiamo visto nel video shock sono il prodotto di un mix di ignoranza, mancanza di preparazione e un malinteso senso d’appartenenza al Corpo. Deprecabile sotto ogni punto di vista comunque. E infatti il Pentagono non ha usato mezze misure nel

Come nel caso di Abu Graib si deve intervenire con durezza

La superiorità della democrazia è che punisce simili vergogne di Antonio Picasso on è necessario che la Nato dia la propria ferale conferma che quelli inquadrati siano Marines degli Stati Uniti, oppure che ci dica che siamo in Afghanistan e che i soldati stiano facendo quello che stanno facendo. L’eloquenza delle immagini è on line. Non c’è bisogno di un verdetto finale da parte del comando centrale. E se questo venisse, sarebbe grottesco. Siamo nell’anticamera di un’Abu Ghraib atto secondo, in salsa afgana. Quel che si può temere è un’eventuale reazione dei talebani. Anche loro navigano su internet. E non osiamo immaginare come potrebbero comportarsi nella malaugurata ipotesi che un ragazzotto dell’Iowa o di Chicago cadesse nelle loro mani nei prossimi giorni. L’Asia centrale è un posto dove la legge del taglione ha ancora un senso.

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Dopo la guerra d’Etiopia, nel 1936, si era parlato per la prima volta di “italiani brava gente”, accezione poi ripresa dalla cinematografia degli anni Sessanta del secolo scorso e dal libro di Del Boca sulla nostra colonizzazione in Libia. Con quelle parole si cercava di far passare il nostro Paese come immune alle accuse di aver fatto ricorso al gas nervino per accelerare le sorti del conflitto nel corno d’Africa: noi andavamo in Etiopia non per conquistarla, ma per civilizzarla. Oggi la Nato sarebbe in Afghanistan non per distruggere un Paese già piegato da altri passati scontri, bensì per introdurvi la nostra democrazia. Exporting democracy, l’aveva chiamata così Bush a suo tempo. Nato brava gente, quindi! Certo, ogni tanto, la guerra può sfuggire di mano. In Etiopia come in Afghanistan. Questo perché in guerra tutto è lecito.Trattasi di un ulteriore luogo. E comunque non è così. Primo perché il rispetto del nemico, anche da caduto, è proprio della cultura occidentale. Almeno sulla carta. Chi non prova un senso di pietà per il corpo di Ettore trascinato da Achille lungo le mura di Troia, sotto gli occhi disperati di Priamo? Una scena straziante scritta più di tremila anni fa. I talebani non sono troiani, mentre pochi tra gli americani sanno chi fossero gli achei. D’altra parte, fare del cadavere del nemico un trofeo (XVIII secolo prima di Cristo) e orinare oggi sui resti di un morto non è lo stesso. E francamente quest’ultima è più disgustosa. C’è un però. Ed è essenziale. Dei gas in Etiopia se ne parlò sottovoce. Un po’ perché i mezzi di comunicazione, in quegli anni, erano quello che erano. E soprattutto perché a dirlo più forte, si sarebbe rischiato grosso. A sua volta, dello scempio che hanno fatto i talebani durante il loro governo dell’Afghanistan, noi ne siamo venuti a conoscenza solo dopo l’inizio della guerra. Oggi, grazie a un telefonino e a quella libertà di stampa, che resta certamente made in Usa, possiamo arrogarci il diritto di commentare le oscenità della guerra senza il timore di censure o persecuzioni. La stampa americana e quella europea puntano giustamente l’indice contro quei non più bravi soldati che insozzano i cadaveri dei nemici. Il Pentagono ha già detto che aprirà la sua inchiesta. Non giudichiamo i risultati a priori. La pena inflitta ai carcerieri pervertiti di Abu Ghraib magari non è stata all’altezza della reato commesso. Tuttavia la notizia è circolata e le istituzioni hanno scelto la strada della trasparenza. Segno che la democrazia funziona. Magari ogni tanto si inceppa. Però c’è.

Mini: «Penso che questi ragazzi portino un bagaglio che è ormai della società americana, sicuramente di una cultura che permea la società militare: il disprezzo totale per l’avversario» giudicarlo. «Un comportamento disgustoso e inaccettabile per chiunque vesta un’uniforme: mi ha dato il voltastomaco», ha dichiarato John Kirby, portavoce del Pentagono. Anche il corpo dei Marines ha deciso di aprire un’inchiesta interna. «Non abbiamo ancora verificato l’origine e l’autenticità delle immagini», hanno spiegato i vertici militari in un comunicato in cui hanno comunque sottolineato come «questi atti non abbiano nulla a che vedere con i valori del corpo dei Marines».

«Qualunque siano le circostanze o i protagonisti di questo video, si tratta di un comportamento disgustoso, mostruoso e inaccettabile per tutte le persone in uniforme», ha affermato un portavoce del corpo d’élite dell’Esercito americano. Affermazioni nette e inequivocabili. Il danno non sarà solo d’immagine ma provocherà certo un’ondata emotiva nel mondo musulmano, non solo in Afghanistan. Da parte loro, i talebani hanno diramato un comunicato in cui condannano questo episodio come «uno dei tanti esempi degli orrori commessi dagli americani in Afghanistan». Il generale italiano ha però un punto di vista particolare sulla vicenda. «Non è mancanza di preparazione. Ho visto i programmi e assistito ai corsi. Le nozioni base – prosegue Mini – gli vengono fornite. Penso che questi ragazzi portino un bagaglio di atteggiamenti che sono ormai della società americana, sicuramente di una cultura che permea la società militare: il disprezzo totale per l’avversario. È tipico dei Marines e di tutte le


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La sfida culturale ha spesso superato i confini del rispetto

Provocazioni reciproche tra scarpe, fumetti, maiali Tutta la lunga storia dei (difficili) rapporti tra Occidente e mondo arabo è tempestata di offese simboliche di Vincenzo Faccioli Pintozzi islam contemporaneo conta quasi un miliardo di fedeli, divisi in tre rami principali. Questi tre rami - sciiti, sunniti e wahabiti - si distinguono l’uno dall’altro per l’interpretazione teologica degli scritti coranici, per la loro applicazione nella vita sociale e persino per il destino degli eredi di Maometto. Tutti e tre, però, sono unitissimi da un sacro furore religioso per qualunque cosa offenda la loro fede. Alcuni campi sono proprio intoccabili: la contaminazione del cibo attraverso un errato uso della macellazione, ovviamente ogni dissacrazione dei testi o dei luoghi sacri, e infine le offese ai corpi dei defunti. Il filmato che mostra militari statunitensi impegnati nell’urinare su alcuni cadaveri di musulmani rappresenta uno schiaffo in faccia, una sfida aperta a tutto il mondo islamico. Considerando il fatto che in Pakistan e in Arabia Saudita si può essere messi a morte anche se si appoggia un sacco di foglie secche contro una moschea, o si pronunciano frasi anche lontanamente poco rispettose nei confronti del Profeta, non è difficile immaginare che questo filmato scatenerà proteste di massa contro l’occupazione americana e contro l’Occidente in genere.

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Il generale italiano: «Guardando la blogosfera americana dei commenti su internet, ci si accorge che la pancia del Paese ritiene che quei militari abbiano fatto bene» forze speciali. Si sente meno nell’esercito, perché i comandanti hanno un livello culturale leggermente superiore. Il concetto brutale del Corpo è che i Marines ”devono solo soffrire”». Insomma mancanza di cultura sull’avversario e frustrazione. Certo, frustrazione ma per cosa? «Un avversario che non possiede missili, aerei e mezzi viene considerato un nulla. Sono considerati degli animali… e sugli animali si può pisciare», è l’analisi cruda del generale italiano pluridecorato anche dal Pentagono. «È una logica perversa che butta a mare la tradizione e il senso di civiltà che ha sempre caratterizzato la società americana. Ciò che è avvenuto non è solo un danno d’immagine ma di sostanza». Guardando la blogosfera americana dei commenti su internet ci si accorge che la pancia dell’America «afferma che quei militari hanno fatto bene». «I commenti della politica, del Pentagono e dei giornalisti contano poco. La gente comune appoggia quei militari», commenta Mini. C’è da dire che è sempre esistita un’America radicale, quella che produceva le “milizie” e che guarda-

va a Washington come a un ”nemico”. E al pensiero liberal come a una malattia degenerativa dei valori tardizionali della nazione. Un’America dal linguaggio duro e dagli atteggiamenti spicci. «Mi era già capitato in precedenza di fare analisi di questo genere su altri efferati episodi in Iraq e mi sono accorto delle reazioni della gente comune in difesa dei militari». In più l’apparato militare Usa è provato dai tanti fronti aperti e le risorse umane si pescano ormai nella Riserva e nella Guardia nazionale. «In quei filmati ci potrebbe essere l’idraulico che si è fatto un anno di Afghanistan per arrotondare lo stipendio». E gli americani nell’Helmand fanno la guerra vera.

«È la degenerazione della guerra e la frustrazione. Spesso i comandanti li mandano fuori in missione per toglierli da un ambiente circostante che li fa sentire avviliti e odiati. Non vengono più guardati come dei liberatori». Anche se ad onor del vero gli stessi americani hanno prodotto degli strumenti di analisi militare-politico-culturale come i Fusion center che sono delle vere fucine, non solo per l’intelligence ma anche laboratori sociali e antropologici. Forse sono le due facce di una stessa medaglia. L’ultimo caso analogo risale allo scorso anno, quando le riviste Der Spiegel and Rolling Stone pubblicarono le foto di altri soldati americani che posavano divertiti accanto ai cadaveri di afgani mostrati come trofei. Negli anni passati avevano destato scalpore anche le immagini video di soldati Usa che bruciavano per sfregio i cadaveri di talebani uccisi in combattimento.

no per ogni vittima del vile attentato ordinato da al Qaeda. Alla fine, il rogo non venne messo in pratica: ma per fermare il “religioso” furono costretti a scendere in campo la Casa Bianca, la Nato, praticamente tutte le Cancellerie occidentali. E, meno metaforicamente, scesero in piazza praticamente tutti gli islamici del mondo. Come scordare, poi, le terribili violenze (anche religiose) compiute contro i detenuti di Guantanamo? La prigione speciale voluta dalla prima amministrazione Bush comprendeva tutti coloro che, nel mondo, erano accusati o sospettati di terrorismo. Nonostante almeno due decine di detenuti siano state liberate nel corso del tempo perché totalmente estranee alle accuse, nel corso della prigionia sono stati costretti tutti a dormire con i maiali; guardare mentre sul loro libro sacro venivano compiute gesta tremende; assistere a filmati pornografici chiaramente proibiti dalla loro fede.

Per non farci mancare nulla, anche noi italiani abbiamo dato prova della stessa idiozia. Erano i primi giorni del settembre del 2007 quando l‘allora vice presidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, dichiarò: «Metto personalmente e fin da subito a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale per una passeggiata sul terreno dove si vorrebbe costruire la moschea». Il luogo di culto doveva sorgere a Bologna, e la passeggiata con il suino ne avrebbe contaminato il terreno. Non contento, l’esponente lombardo ricordò il caso di Lodi «dove la fatidica moschea non è mai stata realizzata in quanto il terreno, dopo la passeggiata del mio maiale, fu considerato infetto e pertanto non più utilizzabile». Il senatore della Lega aggiunse: «Visto che dalle nostre parti c’è ne piena l’aria potremo organizzare in futuro il maiale-day ovvero concorsi e mostre per i maiali da passeggiata più belli da tenersi nei luoghi dove chiunque pensi di edificare non un centro di culto ma il potenziale centro di raccolta di una cellula terroristica». E poco importa che gesti del genere non hanno mai fermato il terrorismo. Un maiale è per sempre.

La scarpa ormai è diventata quasi una bandiera degli arabi che vogliono protestare contro gli Usa e contro chiunque sia loro alleato in Medioriente

Ma la dissacrazione latu sensu non è un’innovazione del mondo a stelle e strisce. In effetti, essa venne introdotta sin dalle prime Crociate cristiane tese - almeno sulla carta - a riconquistare i luoghi sacri del Vangelo alla Chiesa. Reperti storici, testimonianze e persino diversi quadri raccontano di valorosi crociati impegnati nella demolizione di moschee e nello sventramento dei cadaveri dei nemici, pratica con la quale (secondo il Corano) si impedisce all’anima di raggiungere Allah. Ma, senza fare ricorso alla storiografia, basta sfogliare i giornali degli ultimi anni per capire che la guerra ideologico-religiosa è uno strumento che raduna troppi seguaci. All’inizio del settembre 2010, ad esempio, fu proprio un pastore cristiano battista - Terry Jones - a lanciare la sua provocazione ai musulmani: per l’anniversario dell’abbattimento delle Torri gemelle, propose infatti di bruciare una copia del Cora-


società

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Al via una vera e propria rivoluzione destinata a modificare (forse a peggiorare) il mercato della gestione dei domini

Basta monopolio.com La Rete non ha più suffissi obbligatori: ma per il web è un’arma a doppio taglio di Marco Scotti a ieri internet è il posto più libero della Terra. Ma come, si dirà, non era già stato da tempo riconosciuto come il luogo dove esprimere senza vincoli le proprie idee? Non era già stato dichiarato pubblicamente che il ruolo della rete, e dei social network in particolare, è stato di vitale importante per quel fenomeno comunemente chiamato “primavera araba”? Tutto vero. Ma, da ieri, su internet non esiste nemmeno più il vincolo dei domini di primo livello, ovvero, di quel suffisso che segue il punto. Da almeno dieci anni, da quando cioè internet è entrato prepotentemente nelle case degli italiani, ci siamo abituati a considerare come un tutt’uno il nome del sito e il suo dominio: ci sono .com e .net, i più “internazionali”; c’è .it, che fa immediatamente riferimento al nostro paese (ogni paese ha il suo suffisso, ovviamente); ci sono i domini istituzionali come .gov e .eu. Che, automaticamente, forniscono una precisa indicazione sul sito che si sta per andare a visitare.Tanto che, nel settembre scorso, proprio per evitare sgradevoli sorprese, si era deciso di creare un nuovo dominio, .xxx, che avrebbe immediatamente caratterizzato i siti a luci rosse, impedendo così quei contatti non voluti con pagine con contenuti pornografici.

D

Quanto ratificato da ieri dalla Icann (The Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) supera però definitivamente lo schema tradizionale dei siti internet, cui eravamo abituati da tempo: si inizia con www Wide (World Web), si prosegue – preceduto dal punto – con il nome del sito, e si conclude con l’estensione (.com, .net, .it). Da ieri, invece, scordiamoci pure l’ultima

parte: sarà possibile realizzare siti che siano semplicemente costituiti dal nome e dal cognome della persona. Si assisterà al proliferare di www.mario.rossi, per esempio. Raccontata così, questa liberalizzazione non sembra particolarmente significativa né, soprattutto, in grado di spostare di molto gli equilibri di un sistema che ogni giorno raccoglie miliardi di informazioni, di nuove pagine e consente a utenti di tutto il mondo di ampliare i propri orizzonti. D’altronde, che cosa potrebbe mai cambiare per l’utilizzatore tipo di internet, digitare il nome di un sito facendolo terminare con .com o con un altro dominio? Teoricamente proprio nulla. E la vicenda si potrebbe liquidare decisamente in fretta.

In realtà, la questione è più complessa. Intanto, per un problema di copyright, poi per una questione di costi. Partiamo dal primo punto. Se da ieri è possibile realizzare siti con i nomi più disparati, non più vincolati dalla “grammatica” web cui eravamo abituati, chi o che cosa può impedire che qualche buontempone (nella migliore delle ipotesi) non decida di creare, ad esemil sito pio, www.coca.cola? Teoricamente nessuno, e si aprirebbe un enorme falla che non tutelerebbe in alcun modo azien-

de o persone fisiche, che sarebbero esposte al proliferare pressoché incontrollato di siti e sitarelli che, per avere maggiore appeal, potrebbero fare leva su nomi altisonanti e famosi. Alcune aziende, preoccupate che qualcuno possa accaparrarsi il loro nome – in gergo tecnico si chiama cybersquatting o cybergrabbing – per poi rivenderlo a peso d’oro, hanno avanzato più di una perplessità, temendo appropriazioni indebite di marchi e nomi registrati. Si passerebbe dalla speculazione azionaria a quella del mercato di internet: perché chiunque potrebbe rapidamente registrare presso la Icann un dominio con il nome di una grandissima azienda (basta essere rapidi e silenziosi) per poi mercanteggiare diritti milionari per restituirlo. Si tornerebbe improvvisamente indietro di decenni, a quando le neonate multinazionali dovevano registrare velocemente in tutti i paesi del mondo il proprio marchio, pena la sottrazione da parte di persone disposte poi a rivenderlo alla multinazio-

Si teme che qualcuno possa correre a registrare sigle tipo www.Coca.Cola e poi andare dagli interessati per rivenderle a caro prezzo: le regole dei motori di ricerca dovranno cambiare nale medesima a prezzi non certo di saldo. L’esperienza (anche qui da noi in Italia) è piena di esempi molto sgradevoli, da questo punto di vista. Insomma, sarebbe un gran bel pasticcio.

La Icann, per cercare di tutelare persone e aziende, ha deciso di stabilire prezzi di acquisto dei domini estremamente elevati. Per poter dare vita a un nuovo “punto qualco-

sa…” bisognerà sborsare circa 185.000 dollari (al cambio attuale più di 150.000 euro). E qui entriamo nel secondo tema importante della nostra discussione. Se fino a ieri per realizzare un sito internet con i domini conosciuti, bastavano poche decine di euro all’anno, oggi se si vuole provare a emergere dal mare magnum di pagine internet realizzando un sito ad hoc per la propria azienda o attività, è necessario avere a disposizione una cifra decisamente importante. Lo snodo non è di poco conto: se si esclude il dominio .xxx – che in realtà ancora non è attivo e per il quale la Icann aveva deciso di partire da richieste estremamente elevate per la registrazione di ogni sito che terminasse con quel suffisso – il resto della rete ha sempre permesso sostanzialmente a tutti, dalle multinazionali da centinaia di miliardi di dollari di volume d’affari al giovane voglioso di far conoscere le proprie potenzialità, di darsi visibilità con una spesa estremamente contenuta (in Italia sono circa 60 euro all’anno per un sito base). Ora, se per le multinazionali il problema non sussiste, forse si rischia di


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dare nella direzione opposta. Ed è una “primizia” che, non sfuggirà agli osservatori più attenti, rischia di creare un pericoloso precedente. È come se in Italia, se si dovesse dare corso alla tanto discussa liberalizzazione delle licenze per i taxi, si sostenesse che sì, tutti possono avere diritto alla possibilità di effettuare questo tipo di servizio. Ma solo chi paga una cifra di 150.000 euro può guidare vetture con quattro ruote, aria condizionata e con numero di telefono personalizzato che fa riferimento solo e soltanto a quell’automobile e a quell’autista. Gli altri, possono al più avere diritto a una macchina con i tergicristalli non funzionanti, le ventole rotte e l’arbre-magique ormai senza più profumazione. E, soprattutto, a un radiotaxi comune per tutte le innumerevoli vetture che girano per la città.

appannare un po’ la vetrina per gli altri. Certo, i siti rimarranno anche nella configurazione attuale (.com, .net, ecc.) e quindi tutti potranno mantenere la propria pagina on-line. Ma, certamente, si darà vita a un internet a due velocità e a due classi, in cui chi è può spendere (persona fisica o azienda che sia) potrà godere di una ribalta privilegiata rispetto agli altri che, invece, dovranno accontentarsi del consueto spazio.

La sfida è quindi duplice e non banale: da un lato, enormi capitali che si sposteranno verso le casse della Icann perché marchi storici abbiano finalmente il proprio dominio; dall’altro, i cosiddetti piccoli, che saranno in misura infinitamente superiore, cercheranno di arginare lo strapotere dei pochi provando ad emergere da un magma che rischia di inghiottirli. Soffermiamoci ancora su questo punto: in un periodo in cui, specie nel nostro paese, si fa un gran parlare di liberalizzazioni come strumento per aumentare il numero dei player e, di conseguenza, per accrescere la concorrenza generando una susseguente diminuzione dei prezzi e un incremento della qualità, internet, da sempre pioniere di nuovi metodi di comunicazione e di nuovi contenuti, sembra an-

Un altro rischio concreto è che la gestione dei siti possa diventare enormemente più onerosa di oggi proprio perché da domani ci si dovrà difendere da ogni tipo di concorrenza o pirateria

È giusto dunque chiedersi dove stia andando internet: sembra quasi che si voglia passare, rapidamente, dal palcoscenico su cui nessuno può esimersi dal salire a un luogo elitario, destinato solo a chi “se lo può permettere”. Un’inversione di tendenza, una svolta a “u” cui facciamo fatica ad abituarci. D’altronde, è già da un paio d’anni che iniziamo ad assistere ad un autentico scollamento tra la visione che abbiamo comunemente di internet come luogo in cui reperire informazioni e intrattenimento e la reale immagine che la rete sta dando di sé: il polso del cambiamento ci viene dato dalle valutazioni, assolutamente “virtuali”(è proprio il caso di dirlo) che i player della finanza mondiale danno dei più importanti siti. Se, infatti, fino ad ora le aziende avevano avuto un valore tangibile, legato alla produzione, al numero di dipendenti, al volume d’affari e via dicendo, oggi internet ribalta la prospettiva: non ciò che si produce, ma ciò che si può offrire all’esterno in termini di visibilità. Facebook, ad esempio, viene valutato circa 50 miliardi di dollari dagli analisti, una cifra che difficilmente sarebbe riscontrabile se, invece che permettere di contattare vecchi amici, vendesse pentole allo stesso numero di utenti oggi iscritti al social network. Ma, si sa, ciò che interessa di Facebook è la possibilità di personalizzare per ogni iscritto le pubblicità, in modo da renderle davvero efficaci perché ritagliate come un vestito su ciascun utente. Internet quindi sembra orientato verso un singolare “bi-frontismo”: da un lato vettore di nuovi modi di comunicare e, perché no, anche strumento contro l’oppressione (come si è visto in Maghreb o in Cina); dall’altro, avvitato sempre più verso i pochi. Quale delle due facce avrà la meglio?

e di cronach

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cultura

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ai cos’è il paparazzo? Un animale con la Kodak!. Freddura italiana, ovviamente. George Eastman, inventore del marchio, raccontava di aver battezzato il suo marchio a quel modo «perché era un nome breve, vigoroso, facile da pronunciare», e, soprattutto, «per soddisfare le leggi sui marchi depositati», in inglese «non significava nulla». Inoltre la lettera K, all’inizio e alla fine, gli sembrava che desse un’impressione di “incisività e di forza”. Comunque, anche senza la possibilità di giochi di parole, il marchio Kodak è rimasto legato a una quantità di frasi memorabili. «Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto», fu lo slogan con cui Eastman promosse nel 1888 la prima fotocamera destinata ad essere usata anche da non professionisti. Appena sette anni dopo, il “Viaggiatore del Tempo” protagonista del capolavoro seminale della fantascienza The Time Machine di Herbert George Wells rimpiange di non essersene portata una al seguito nel mondo pericoloso dell’anno 802.701. «Se avessi almeno pensato a una Kodak, avrei potuto in un attimo fotografare la

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momentanea visione di quel mondo sotterraneo che più tardi avrei esaminato a mio agio». “Kodak moment” è anche un’espressione che in inglese è diventata quasi standard, per indicare un momento destinato a essere celebrato per la posterità. Tra fine anni ’80 e inizio anni ’90, proprio mentre finiva la Prima Repubblica, in Italia era martellante la pubblicità dell’alieno-nanetto Ciribirì, che sull’aria dell’omonimo valzer in un’atmosfera vagamente

stito da un miliardo di dollari, per superare il periodo del Chapter 11 operando in normalità, e evitando la bancarotta. Famosa parte della legge fallimentare statunitense che permette alle imprese una ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario, il “Capitolo 11” permetterebbe infatti alla società di organizzare un’asta sotto la supervisione della corte per la bancarotta, in modo da vendere i suoi 1100 brevetti. Ma nel con-

Dagli apparecchi fotografici alle pellicole, l’impero della celebre casa si è presto allargato anche alla finanza, fino a diventare uno dei pilastri dell’economia statunitense del Novecento ««Blade Runner»» tornava al suo pianeta facendo vedere le foto che aveva fatto realizzare in carta Kodak. «Ciribì! Ciribì? Ciribau…, Ciribau, Kodak? Ciribiribì, Kodak!». «Ho capito, ho capito, carta Kodak», ripeteva il negoziante assalito da un’orda di altri nanetti extraterrestri. «Kodak, quando la carta è importante», concludeva lo spot, mostrando una nave spaziale col logo della K su una fiancata. Sembra ieri, sono passati vent’anni, era il tempo in cui cadeva il Muro di Berlino.

Più che fantascienza, quella della carta Kodak nello Spazio, ormai è ucronia. Nel 1976, la Kodak deteneva una quota di mercato equivalente al 90% di tutta la pellicola fotografica venduta negli Stati Uniti. Ma il 2012 è iniziato con la società che cercava di ottenere un pre-

tempo stava anche cercando di effettuare la stessa operazione senza aiuto, in modo da evitare di dover depositare i libri in tribunale. la Eastman Kodak aveva avvertito sullo stato precario dei proprio conti a novembre: o riesce a vendere i suoi brevetti, o trova capitali in altro modo, o dovrà chiudere entro i primi sei mesi del 2012. Lasciando così a spasso 19.000 dipendenti, e ponendo fine a un’avventura industriale durata 131 anni.

Quella di George Eastman, nato a Waterville nello stato di New York il 12 luglio 1854, era stata d’altronde una vicenda tipica del sogno americano. Nato in una fattoria, due sorelle più grandi, era andato un po’ a scuola, ma era soprattutto un autodidatta. Suo padre d’altronde aveva creato un istituto

commerciale a Rochester, ma si era poi ammalato, la scuola aveva chiuso, la fattoria era stata venduta, il padre e una sorella erano morte, per sopravvivere sua madre si era dovuta mettere a affittare camere, e lui stesso aveva dovuto mettersi a lavorare fin da piccolo. Ma continuò a praticare l’hobby della fotografia: a 24 anni mise a punto la preparazione di lastre secche alla gelatina-bromuro; a trent’anni brevettò la sua prima pellicola fotografica trasparente, fondando la Eastman Dry Plate Co. e la Film Co.. Per produrla; e a 34 realizzò la macchina fotografica che appunto fu la prima disegnata appositamente per pellicole, e che rivoluzionò il mondo della fotografia, mettendolo alla portata anche dei dilettanti. E non solo: la stessa invenzione del cinema non sarebbe stata possibile senza i brevetti Kodak. Nel 1889 Eastman brevetta la pellicola trasparente nitrocellulosa della larghezza di 35 mm: quella che, fino all’avvento del digitale, sarebbe stata alla base dell’industria cinematografica. E nel 1892 crea la Eastman Kodak Company apposta per fabbricarla. Inoltre, fabbrica anche apparecchi fotografici pieghevoli ed apparecchi cinematografici a passo ridotto a 16

Qui sopra, uno dei grattacieli della Kodak negli Usa: la società ha avuto in passato uno sviluppo finanziario clamoroso. A sinistra, Eastman con Thomas Edison negli anni Venti mm, su larga scala e a prezzi popolari. Appunto, in quella Rochester dove suo padre aveva aperto la sua scuola, e dove la famiglia si era trasferita dopo la vendita della fattoria. A sua volta in stile molto americano, accompagnò la creatività tecnologica alla capacità manageriale, e entrambe alla filantropia, anche se in chiave paternalista. Nella sua fabbrica non voleva i sindacati, ma creò un sistema pionieristico di welfare a favore dei dipendenti. Creatore nel 1911 della Eastman Trust and Savings Bank, già nel 1901 aveva finanziato con 625.000 dollari il Mechanics Institute, poi divenuto il Rochester Institute of Technology. E anche grazie a un suo finanziamento il Massachusetts Institute of Technology potè aprire il suo secondo campus.Tra le altre sue realizzazioni c’è anche uno speciale apparecchio fotografico creato nel 1920 proprio per la medicina odontoiatrica. E varie cliniche odontoiatriche per bambini bisognosi: a Rochester, Londra,


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Addio sogno americano (a colori) «Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto»: così nel 1888 George Eastman lanciò il mito della Kodak. Che ora la rivoluzione digitale sta facendo morire di Maurizio Stefanini

Parigi, Bruxelles, Stoccolma, anche Roma. E due college per l’istruzione dei neri nel Sud degli Usa. E la Eastman School of Music e una scuola di medicina e di odontoiatria, per l’Università di Rochester. Fa dunque un po’ impressione scoprire che un personaggio del genere morì suicida, sia pu-

re all’età abbastanza ragguardevole di 78 anni. Ma il fatto è che dal 1929 un disordine degenerativo alla colonna vertebrale iniziò a fargli soffrire le pene dell’inferno, e la madre aveva trascorso anch’essa i suoi ultimi due anni di vita in analoghe condizioni. Il 14 marzo del 1932 si sparò dunque un

colpo alla testa, lasciando un biglietto. «Ai miei amici: il mio lavoro è compiuto. Perché attendere?». A quell’epoca la sua ricchezza ammontava a 95 milioni di dollari dell’epoca: un seicentoundicesimo del Pil Usa. Dopo i funerali in una Chiesa Episcopale fu seppellito nel Kodak Park che aveva fatto

realizzare a Rochester, contro le sue volontà. Gli abitanti del posto raccontano che il suo corpo è rimasto intatto per via di tutte le sostanze chimiche che la fabbrica della Kodak avrebbe depositato sul terreno, ma è solo una leggenda. La sua casa al 900 East Avenue di Rochester è stata trasformata nel 1949 nel George Eastman House International Museum of Photography and Film. Ma così come le invenzioni di Kodak hanno aperto nel mondo della fotografia un’era, allo stesso modo anche l’avvento della tecnologia digitale ne ha aperta un’altra. Dopo alcuni brevetti usciiti tra 1968 e 1970, è proprio la Kodak che per opera dell’ingegnere Steven Sassoon nel 1975 realizza il primo prototipo di macchina fotografica digitale. Ma è solo un prototipo, cui la Kodak non dà seguito per presumibile pigrizia mentale. All’epoca la Kodak vende negli Usa non solo il 90% del mercato delle pellico-

mantiene ancora un primo posto nella vendita di macchine digitali. Ma solo con un 40%, ben lontano dalle quote di mercato imperiali del passato, e poi quando la Kodak ha deciso infine di fare delle macchine digitali il cuore del proprio business già i consumatori si stanno spostando sulla fotografia fatta con cellulari e tablet. Nel 2007 la Kodak ha appena la quarta quota di mercato negli Usa, con il 9,6%. Nel 2010 è ulteriormente scesa al settimo, con il 7%.

È ormai il momento delle decisioni estreme. Dopo che per tradizione la Kodak si è sempre fatta tutto in casa, decide di chiudere le fabbriche di pellicole affidandosi all’outsourcing, ed eliminando così 27.000 posti di lavoro. In compenso, si mette a realizzare stampanti e packaging, che assieme al software si trasformano nel suo core business, arrivando al 25% degli utili. Ma è dal 2007

Il 2012 della società è iniziato con la richiesta di un prestito-monstre di un miliardo di dollari, indispensabile per evitare il rischio (ormai sempre più concreto) del fallimento definitivo le ma anche l’85% di quello delle macchine fotografiche, ed è talmente convinta di essere la macchina fotografica per ccellenza degli americani che nel 1984 si lascia scappare a favore della Fuji la possibilità di essere la firma ufficiale delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.

E così i giapponesi entrano nel mercato Usa con una politica di taglio dei prezzi sempre più aggressiva. Nel 1990 hanno il 10% del mercato; nel 1997 sono cresciuti al 17%. Poiché un’analoga penetrazione della Kodak in Giappone non riesce la Kodak ricorre al Wto denunciando pratiche scorrette, ma le danno torto. Tra 1996 e 1997 l’utile della società scende dell’1%, e la quota di mercato Usa addirittura del 5,4%: dall’80,1 al 74,7. Intanto, dopo che un prototipo di macchina fotografica digitale analogica è stato realizzato dalla Sony nel 1981, un primo esemplare è stato messo sul mercato nel 1986 dalla Canon, e le potenzialità di trasmissione a distanza della nuova tecnologia è stata dimostrata tra 1989 e 1991 durante i fatti della Tienanmen e la Guerra del Kuwait, nel 1988 proprio la Fuji con la DS1P porta sul mercato la prima macchina fotografica integralmente digitale. Nel 1990 la Kodak capisce infine di doversi a sua volta muovere verso il digitale, e inizia a trattare sia con la Microsoft che con la Apple. Ma sembra quasi non crederci. Dal 2001 il business della Kodak crolla. Grazie a costosissimi studi per comprendere i gusti dei consumatori, nel 2005

che non riesce più a registrare un attivo, e per raggranellare qualche soldo inizia sempre più a ricorrere alle cause in tribunale per violazione di brevetti, per raggranellare qualche soldo. Nel 2010 sigla così con Ll e Samsung un accordo di licenza con cui gli viene riconosciuto il pagamento di royalty pari a 414 milioni dalla prima e 550 dalla seconda, e anche il 2011 è iniziato col deposito di due nuove denunce per violazione di proprietà intellettuale nei confronti di Apple e Htc. Ma negli ultimi mesi è stata costretta comunque a esaurire una linea di credito da 160 milioni. Eppure, proprio mentre i giornali di tutto il mondo titolavano alla malinconica fine di una sigla che aveva fatto la Storia con la esse maiuscola, è bastata la notizia che la Kodak riorganizzasse la sua struttura di business perché il titolo a sorpresa prendesse il volo, totalizzando un +30%. Per migliorare la produttività, ridurre i costi e accelerare la sua trasformazione in una società digitale il nuovo modello prevede la riduzione da tre a due del numero di attività: il segmento commerciale e quello rivolto alla clientela. «Questa nuova struttura semplifica l’organizzazione, concentrandola sui nostri clienti commerciali e finali», ha spiegato la società nella nota stampa. «Ci permette di allocare le risorse in modo più efficace, di ridurre i costi di amministrazione e migliorare l’efficienza». Vedremo se si tratta del Volo della Fenice, e se si tratta semplicemente di un estremo, effimero Canto del Cigno.


ULTIMAPAGINA A due anni dal terribile terremoto, l’Unicef pubblica un amaro rapporto sulla condizione minorile nell’isola

Haiti non è un paese per di Martha Nunziata ue anni. Settecentotrenta giorni. E nulla sembra essere cambiato. Qui, in mezzo alle baracche fatiscenti e alle tende di fortuna, ai vicoli sterrati stagnanti e ai fuochi improvvisati vige la legge del più forte tra i disperati. Si nasce (e si muore) da soli, ad Haiti. Essere madri, ad Haiti, significa ancora oggi essere destinate alla solitudine, perché la nascita non è un evento di gioia, ma un dolore, una disperazione: perché c’è la paura, l’incertezza del futuro. Anche essere bimbi, ad Haiti, significa essere un peso: per i genitori, per la famiglia, perché si è una bocca in più da sfamare. I figli del terremoto, ad Haiti, sono bambini vulnerabili, lasciati da soli dalle istituzioni ad affrontare la vita e le conseguenze dell’impatto del disastro naturale di due anni fa.

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Ogni giorno si lotta contro la povertà e il colera per la sopravvivenza: prima per trovare l’acqua, poi per procurarsi il kit per purificarla: il rischio, altrimenti, è di contrarre il colera. La sfida poi è trovare il cibo, un giaciglio e i servizi igienici nelle baraccopoli. Due anni dopo il sisma sono ancora mezzo milione le persone che continuano a vivere sotto le tende. E circa la metà sono bambini. Ma la situazione generale del paese sta lentamente migliorando: le sfide, però, restano molte e difficili. A sottolinearlo è l’Unicef che ha pubblicato il rapporto sui bambini haitiani. Più di 750.000, secondo le cifre ufficiali del rapporto, sono tornati a scuola, e 80.000 di loro frequentano ora le classi nelle 193 scuole sicure e antisismiche costruite dall’organizzazione. Oltre 120.000 bambini si divertono a giocare in uno dei 520 spazi costruiti per loro negli ultimi mesi, oltre 15.000 bambini malnutriti hanno ricevuto cure salvavita nell’ambito dei 314 programmi di alimentazione terapeutica sostenuti dall’Uni-

Più di 750.000 bimbi sono tornati a scuola dentro aule sicure, ma la maggior parte di loro ha poche opportunità: l’adozione internazionale è l’unica vera salvezza cef, e 95 comunità rurali hanno lanciato nuovi programmi per migliorare l’igiene. Nell’ambito della tutela dell’infanzia, il risultato migliore è stato che il governo di Haiti ha rafforzato il quadro di protezione giuridica per i bambini che vivono negli istituti. Prima del terremoto, il governo non sapeva nemmeno quanti bambini fossero ospitati negli istituti, o anche dove si trovassero. Ora, proprio con il supporto dell’Unicef, è stato nominato per la prima volta il Direttore di tutti gli isti-

BAMBINI tuti per minori: così più della metà dei 650 centri del paese è stato valutato e oltre 13.400 bambini (su circa 50.000 che vivono negli istituti) sono stati registrati.

Secondo il rapporto, però, la maggior parte dei 4.316.000 minorenni di Haiti hanno limitate opportunità di sopravvivere, di potersi sviluppare e di essere protetti: per moltissimi di loro l’adozione internazionale rappresenta l’unica possibilità di salvezza. Anche il sistema sanitario, a Port-au-Prince e nelle aree circostanti, è ancora precario: i cumuli di macerie e le voragini lungo le strade della capitale mostrano come la città stessa ancora porti le cicatrici del sisma, e come, ancora, sia esposta a rischi enormi. Eppure, anche in una situazione drammatica come questa, c’è chi non ha mai perso la speranza, la forza e il coraggio. Come insegna la straordinaria storia di una piccola, eroica

suora italiana: Marcella Catozza, 44 anni, di Busto Arsizio, della Fraternità Missionaria Francescana. Suor Marcella ha compiuto un piccolo miracolo: costruire il Vilaj Italyen, un’oasi di case in muratura, con un ambulatorio, una mensa per bambini, acqua potabile e perfino un campetto di calcio. Il tutto solo con le sue forze e quelle della popolazione locale. «Un giorno - racconta Suor Marcella - mentre stavo verniciando i muri, arrivò un giovanotto che mi tolse di mano il pennello e si mise verniciare. Gli dissi:“Meglio che te ne vada, non ho soldi per pagarti”. Ma lui replicò: “Se lo fai tu per il mio paese lo posso fare anch’io”». Quel giovane si chiama Lucien: a lui si affiancano il fratello Alex, poi James, poi altri giovani, spinti dall’esempio, trascinati dall’energia, rapiti dall’amore per Haiti, e dalla fede nella sua rinascita, di Suor Marcella. E così cadde il muro della solitudine.


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