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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 14 GENNAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Città bloccate, turisti a piedi negli aeroporti, caos fuori dalle stazioni: una giornata di ordinaria follia

Facciamogli perdere la corsa! Rivolta dei tassisti contro le liberalizzazioni. L’Authority: «Precettateli» Sciopero selvaggio in tutto il Paese, violenze a Roma. La corporazione del tassametro si gioca il tutto per tutto contro una riforma che, secondo l’Antitrust, aumenterebbe il pil di un punto e mezzo Quattro riflessioni d’autore sul sistema italiano

Monti, dopo Monti e Terza Repubblica: cosa sarà dell’Italia? Una grande coalizione no, ma un patto sul futuro sì

Standard & Poor’s declassa Parigi

UNA LOBBY DA BATTERE

Più taxi per tutti: ora il governo non ceda di Giancristiano Desiderio n questo strano Paese c’è l’idea pessima che le ferrovie siano affare dei ferrovieri, che la scuola sia cosa dei professori, che i tribunali siano dei magistrati e, ora come ora, che le farmacie siano affare di famiglia dei farmacisti e che i taxi siano roba dei tassisti. In un Paese minimamente decente, invece, le ferrovie, la scuola, i tribunali, le farmacie e anche i taxi sono servizi che hanno come proprio “centro”i viaggiatori, le famiglie, gli imputati, i malati e persino i comuni mortali. a pagina 5

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La Francia perde la tripla A, le Borse vanno in picchiata, e Atene si blocca sul debito. Timori anche per l’Italia

di Rocco Buttiglione

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«Attenti a Bossi e Berlusconi, getteranno mine sul campo»

L’agenzia statunitense annuncia una decisione drastica e si rincorrono voci sui rischi che correrebbe anche il nostro debito: i mercati entrano in fibrillazione. Bene la vendita di Btp ma lo spread con il bund tedesco risale

colloquio con Stefano Folli

Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 2

Shame, un cast eccezionale per un film scomodo

Tocca al Terzo Polo tirare la volata alla Riforma

Non parlate male di questa “vergogna”

di Enrico Cisnetto

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di Anselma Dell’Olio

Un’intesa sulle regole può ridare fiato ai partiti

hame, che racconta l’ossessione sessuale, è una parola che appartiene all’universo morale: il senso di vergogna. È un giudizio o un’ammissione di colpa? Qualche critico interpreta il titolo come un atto d’accusa moralistico degli autori, contro il sesso «sportivo», anonimo, indiscriminato, puro esercizio fisico da ritenersi salubre, tonico, un toccasana, senza ricaschi negativi.

S

di Francesco D’Onofrio

alle pagine 6, 7 e 8

a pagina 9

EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

9•

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Le auto bianche si fermano in tutto il Paese: traffico bloccato a Roma, turisti a piedi negli aeroporti e nelle stazioni

Il ricatto del tassametro Caos, polemiche, incidenti tra gli autisti, minacce di precettazione: ennesima, paradossale giornata di blocco del servizio pubblico di Gualtiero Lami

ROMA. Ci risiamo. Ancora non si sa se e come il governo intenda procedere sulla strada delle liberalizzazioni; ancora non si sa se e come il decreto in gestazione allargherà il numero di licenze per i taxi e una delle caste italiane più potenti e impermeabili a ogni tipo di regola ha bloccato città e aeroporti pensando che la prepotenza sia l’unica arma da usare nel confronto sociale. I tassisti tra la sera di mercoledì e tutta la giornata di ieri hanno protestato, senza preavviso, senza autorizzazione, lasciando a piedi turisti e cittadini a Roma, a Milano, a Napoli, a Torino, a Trieste; un po’ dovunque, insomma. La ragione della protesta è semplice: i tassisti hanno una naturale, atavica allergia alle regole civili. Nello specifico, stavolta non vogliono che nuove licenze siano aggiudicate ad altri (aspiranti) lavoratori. In passato, non volevano calmierare le proprie tariffe. Di contro, e naturalmente, vogliono sgravi fiscali per l’acquisto della benzina e di parti di ricambio delle automobili. E guai a parlare di ricevute fiscali o simili: i tassisti sono la perfetta rappresentazione simbolica di una certa italianità. Una sorta di macchietta, una parodia di se stessi: non a caso Alberto Sordi - sia pure in vecchiaia - ne diede una versione proverbiale. E ieri, in quest’ottica, i tassisti hanno dato il meglio di loro stessi. A Roma,

Parigi perde la tripla A: interrotte le trattative sul debito ad Atene

S&P declassa la Francia e le Borse vanno in picchiata di Vincenzo Faccioli Pintozzi agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s colpisce ancora e, dopo settimane di segnali di fumo e trepidazioni annuncia di aver deciso di tagliare il rating della Francia. Parigi perde così la sua tripla A, segnale di massima affidabilità del debito estero del Paese emettente. Il downgrade ha risparmiato invece Germania, Paesi Bassi e Lussemburgo. Nel frattempo, però, a Milano piazza Affari perde l’1,9%, Londra arretra dell’1,2%, Francoforte dell’1,7%, Parigi perde l’1,2%. Seduta negativa per Wall Street dove il Dow Jones e lo S&P 500 perdono l’1,1%. Notizie negative anche da un altro fronte della crisi europea: l’Istituto di finanza internazionale (Iif), che ha avviato le trattative con Atene per conto delle banche, ha annunciato di aver sospeso i negoziati perché i colloqui «non hanno portato a una risposta costruttiva» dalle parti. Per questo motivo, l’Iif ha deciso per una “pausa di riflessione”. Fonti vicine ad Atene parlano di “situazione molto grave” dopo l’interruzione delle trattative.

L’

Rendimenti in discesa, e quindi una seconda giornata di buone notizie per l’Italia, per i 3 miliardi di Btp a tre anni andati all’asta questa mattina: il tasso è calato al 4,83% dal 5,62% del precedente collocamento. Inversione di marcia invece sul fronte dello spread tra i titoli decennali italiani e tedeschi con il differenziale che, dopo aver toccato un minimo di 461

ha sfondato quota 500 punti e poi ha ritracciato a 490. Sul mercato secondario i Btp a 10 anni rendono il 6,768%, quelli a 5 anni il 5,927% e quelli a 2 anni il 4,330%. Prevedibile impennata invece dello spread tra i titoli francesi a 10 anni e l’equivalente bund tedesco dopo le voci sul declassamento della Francia, che avevano iniziato a circolare già ieri nel pomeriggio. La forbice tra i due titoli si allarga a 135 punti base dai 121 di ieri mattina..

In Asia, Tokyo ha chiuso in rialzo dell’1,36%, Hong Kong dello 0,57%, mentre sono in ribasso da tre giorni le Borse cinesi dopo che Credit Suisse e Rbs hanno messo in dubbio la capacità da parte del governo di allentare la politica monetaria a causa della pressione dell’inflazione. L’euro è in forte calo sul dollaro dopo l’annuncio di un declassamento della Francia da parte di Standar’s & Poor’s. La moneta unica che questa mattina era scambiata a 1,2862 dollari è sprofondata a 1,2650. All’inizio della seduta a New York, il barile si attesta in calo, scivolando al di sotto della soglia dei 99 dollari al barile. Pesa l’improvvisa accelerata del dollaro sull’euro, determinata dalla possibilità che già oggi la scure di Standard & Poor’s si abbatta sul rating dei paesi dell’Eurozona. I future sul petrolio a febbraio sono scambiati a 98,20 dollari al barile, in ribasso di 88 centesimi rispetto alla chiusura di ieri.

per esempio, riuniti tra piazza Colonna e largo Chigi (nei pressi della presidenza del Consiglio) hanno non solo rallentato il traffico, ma spesso hanno cercato di fermare e insolentire i pochi, pochissimi tassisti che cercavano comunque di svolgere il loro lavoro. Un’auto è stata presa a calci, da un’altra è stata strappato il numero della licenza: i filmati hanno fatto il giro del web. E poi sono comparsi cartelli con su scritto: «Mario Monti scialla» (un modo giovanlista per dire al premier di lasciar perdere con le sue pretese riformiste) o «Siamo pronti per i soliti pescecani», loro considerandosi delle povere vittime. Morale, per tutta la giornata ieri è stato praticamente impossibile trovare un taxi, con enormi disagi per i cittadini e insormontabili problemi per i turisti stranieri appena atterrati a Fiumicino e Ciampino. Paradossale la situazione alla stazione Termini dove i tassisti accettavano di caricare solo gli “anziani”: non è che chiedessero la carta d’identità ai possibili clienti, si limitavano a farsi arbitri del destino decidendo in prima persona chi fosse anziano e chi no. Non molto diversa, la situazione a Milano, Napoli e Trieste, con pochissimi taxi circolanti, mentre a Torino le cose si sono via via normalizzate nel pomeriggio.

Poche e sommesse sono state le prese di posizione dei leader politici a questo indegno caos. Ma al di là delle immaginabili


prima pagina

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Concorrenza: Monti incontra i partiti Casini: «Subito misure anche per i poteri forti». Il governo taglia tutte le auto blu di Riccardo Paradisi l giro di consultazione del premier Mario Monti con i maggiori partiti italiani ha lo scopo di garantire al governo un sostegno sufficiente alla campagna di interventi riformatori sul mercato del lavoro che l’esecutivo tenterà di incardinare nelle prossime settimane. Al centro del confronto – che si tiene in contemporanea con l’assedio dei taxista romani di palazzo Chigi – soprattutto il pacchetto sulle liberalizzazioni destinato a innestarsi sulle aspre polemiche intorno all’articolo 18 e incendiare ulteriormente lo scontro sociale, provocando resistenze corporative.

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Un rischio reale se il leader dell’Udc Pierferdinando Casini che incontra per primo Monti a palazzo Chigi, accompagnato da esponenti di Fli, garantisce al premier sostegno ma a condizione di spalmare bene i provvedimenti Procedere alle liberalizzazioni a tutto raggio dunque, «senza però colpire sempre e solo i soliti noti». «L’incontro è andato bene – dice Casini al termine della consultazione - Noi abbiamo chiesto che le liberalizzazioni siano fatte non solo nei confronti dei soliti noti, ma anche verso i poteri forti. Questo significa più concorrenza, più vantaggi per i consumatori, perché le tariffe scendono. E quindi non solo taxi, farmacie e giornali ma anche servizi pubblici locali». La richiesta di Monti ai partiti che lo sostengono è appunto quella di aiutare il governo a convincere le varie lobby sugli effetti positivi che le liberalizzazioni potranno avere sull’economia. Un’opera di persuasione affatto facile se si considera che proteste dei cittadini, al di là dell’assurdità semantica di un celodurismo esibito solo in presenza di voci…, quel che colpiva ieri girando per Roma (ma uguale doveva essere in altre città) era la certezza di impunità dei tassisti. Non un baffo ha spostato loro la dichiarazione del l’Autorità di garanzia sugli scioperi che ha invitato i prefetti cittadini a valutare l’ipotesi di precettare i tassisti renitenti al servizio pubblico. Va da sé che nessun prefetto – per il momento – ha ritenuto di doverlo fare. D’altra parte, l’impunità ostentata dai tassisti è ben motivata. Come si ricorderà, il 28 novembre 2007 Roma fu letteralmente paralizzata da centinaia di tassisti che – senza preavviso, senza autorizzazioni – bloccarono auto e autobus dell’Atac per ore e ore per protestare contro l’intenzione dell’allora sindaco Walter Veltroni di aumentare le li-

oltre ai tassisti, protagonisti di scioperi aggressivi in molte città italiane, minacciano di entrare in agitazione nei prossimi giorni anche farmacisti, edicolanti e distributori di carburanti. I prossimi che dovrebbero essere colpiti dalla lenzuolata di liberalizzazioni secondo le indiscrezioni governative emerse al termine del Consiglio dei ministri di ieri. Ma sarà il consiglio dei ministri di giovedì 19 a ufficializzare le tappe dei provvedimenti. Considerato che il sottosegretario Antonio Ca-

I centristi chiedono all’esecutivo interventi anche su servizi pubblici locali, trasporti, energia elettrica e forniture di gas tricalà aveva promesso l’approvazione del decreto entro il 20 di gennaio e che Monti, proprio il 20, sarà impegnato nel vertice con Angela Merkel e Nicolas Sarkozy mentre il 18 sarà a Londra per incontrarsi con il primo ministro britannico David Cameron, l’uomo dei no a questa Europa. Le liberalizzazioni riguarderanno comunque più settori ed entro una settimana arriverà il testo. «Conoscendo Monti – dice Benedetto della Vedova, esponente di Fli presente all’incontro del Terzo polo con il premier - le intenzioni del governo sono quelle di fare un provvedimento ampio per più settori volto ad aumentare la concorrenza e la competitività». Il Terzo polo ha chiesto a Monti interventi importanti non solo sulle

cenze cittadine. Ne nacque un contenzioso legale durissimo: l’amministrazione comunale di allora chiamò in giudizio 453 tassisti accusati di interruzione di pubblico servizio. Il processo, dopo vari rinvii, si è tenuto nel luglio scorso: oltre al sostegno partecipe di molti consiglieri della nuova maggioranza (nel frattempo Alemanno aveva sostituito Veltroni) che all’epoca hanno tappezzato Roma di manifesti di solidarietà, lo stesso sindaco Alemanno si è speso per la loro causa. Un solo autista è stato condannato. E solo perché nel corso della protesta del 2007 aveva bruciato un cassonetto.

professioni ma per quel che riguarda lo Stato, servizi pubblici locali, trasporti, energia elettrica, gas «anche avendo il coraggio di scelte difficili, come la separazione delle reti di trasporto dalle aziende – dice ancora Della Vedova - Si deve partire dando un segnale forte anche su questi settori, dove ci sono resistenze di grandi aziende». Anche dal Pdl arriva a Monti un “si”sulle liberalizzazioni ma anche in questo caso con precise riserve. «Confrontarsi con i sindacati è giusto e doveroso - dice il capogruppo in Senato del pdl Gasparri – ma è altrettanto doveroso incontrarsi con i rappresentanti di tutte le altre realtà professionali e produttive. Bisogna liberalizzare per favorire lo sviluppo, non per assumere iniziative punitive e depressive che, soprattutto in una fase economica così complessa, avrebbero conseguenze letali. L’impegno del Pdl, quindi, proseguirà tenendo conto degli interessi di tante realtà sia prima del varo delle misure, sia in occasione del confronto parlamentare che non è per nulla scontato perché valuteremo le proposte settore per settore». Ma nell’agenda politica c’è un altro appuntamento segnato con l’evidenziatore dell’urgenza, quello con la riforma della legge elettorale. Dopo il colpo a vuoto dei referendari infatti ora sta al Parlamento modificare, resistenze permettendo, la legge elettorale vigente, il cosiddetto Porcellum. A sentire le dichiarazioni degli esponenti dei maggiori partiti quasi tutti parlano della necessità di mettere mano a una decisa modifica del Porcellum, a parole universalmente esecrato, per aver determinato un parlamento di nominati. L’ulti-

invitato i colleghi a «mantenere la calma» e «riprendere il servizio». L’invito in alcuni casi non è andato a vuoto perché al cambio di turno, molti autisti hanno pensato bene di approfittare del caos per conquistare le corse più vantaggiose: segno che non solo i tassisti sono poco solidali nei confronti della società che li ospita, ma lo sono poco anche nei confronti dei lo-

ma autorevole voce che nel Pdl ha chiesto l’apertura del cantiere per la riforma elettorale in parlamento è l’ex ministro egli esteri Franco Frattini anche se all’interno del partito guidato da Alfano non sono state poche le voci che invece sostanzialmente difendono la bontà dell’attuale legge elettorale.

Tra gli avvocati del Porcellum nel centrodestra, gli stessi Bossi e Berlusconi, che insomma non sono proprio le ultime file dei loro rispettivi partiti, hanno definito quella partorita dall’ex ministro della Semplificazione Calderoli, una buona legge elettorale magari bisognosa di qualche modifica. Al netto delle difese d’ufficio il mainstream sembra comunque orientato a una modifica delle regole per eleggere la rappresentanza parlamentare, il problema però è verso quale modello elettorale procederanno i partiti e il parlamento, quale sarà insomma la sintesi, e se sarà possibile trovarne una, tra l’ampio ventaglio di proposte e di posizioni che si registrano all’interno degli schieramenti e degli stessi partiti visto che si va da posizioni di proporzionalismo puro a difese estreme del bipolarismo con premio di maggioranza? Una torre di babele dentro cui si dovrà pur trovare un comune denominatore per avviare il dibattito sulla riforma elettorale.

nella bozza circolata non corrisponde al vero, poi si apra un tavolo governo-sindacati. Altrimenti le assemblee continueranno». Come se «democratico» e «responsabile» fossero aggettivi plausibili, in queste ore, sulla bocca di chi di fatto una messo in atto uno sciopero selvaggio senza regole, sulle spalle di cittadini inermi e in modo del tutto irresponsabile.

re il proprio peso sugli autisti. Sono iniziative - in genere poco efficaci, purtroppo - che si ripetono spesso per cercare di protestare contro chi interrompe servizi per i cittadini. Per ora però si tratta solo di una mossa «mediatica».Viceversa, rischiano di risultare molto più efficaci nel creare disagi le iniziative lanciate dai tassisti per i prossimi giorni. Lunedì è prevedibile che Roma sia totalmente bloccate dalla mega assemblea degli autisti prevista al Circo Massimo. Lo stesso è possibile che succeda nelle altre grandi città (Milano, Bologna, Napoli, Firenze) dove sono in programma iniziative analoghe. Il lunedì successivo 23 gennaio, poi, sarà la volta della serrata nazionale: niente taxi in giro. Questa è la minaccia ufficiale della categoria, come se fino a ora avessero scherzato.

Alcune sigle sindacali invitano gli autisti alla calma, altre chiedono un confronto urgente con il governo: in attesa dell’assemblea di Roma e della serrata del 23

Paradosso nel paradosso, nel primo pomeriggio alcune categorie sindacali dei tassisti (FitCisl, Ugl-Taxi, Federtaxi Cisal, Atitaxi Mit) hanno messo su un «Fronte dei volenterosi» che ha

ro stessi colleghi.Viceversa, Nicola Di Giacobbo, coordinatore nazionale di Unica-Cgil ha spiegato che «Ci aspettiamo che un governo democratico e un ministro responsabile convochino le organizzazioni sindacali e dicano chiaramente che quello che abbiamo letto

Dal canto loro, i cittadini in queste ore hanno un’arma sola per rispondere alla protesta dei tassisti: un controsciopero lanciato sul web. La richiesta che ieri ha fatto il giro della Rete è stata quella di non prendere taxi in nessun modo nei prossimi giorni in modo da far senti-


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l’approfondimento

I potentati contestano il piano del governo Monti impegnato nella difficile transizione alla ”fase due”

Il Grande Mutamento

«Professioni, trasporti: occorre puntare a liberalizzazioni che incidano davvero sul Pil», dice Alessandro De Nicola. «Attenti al rischio-Grecia: non diamo l’immagine di un Paese in preda alle proteste di piazza», dice Marco Fortis di Franco Insardà

ROMA. I tassisti circondano Palazzo Chigi. Il leader sindacale più riformista che ci sia, Raffaele Bonanni, deve ammettere che qui «si istiga alla rivolta». Mentre Bossi schiera già le truppe del Nord «perché non si può colpire gente che ha faticato una vita». In attesa che si palesino le rimostranze dei potentati colpiti dal piano Monti-Catricalà l’Italia si scopre spaccata sull’ultima ondata di liberalizzazioni.

Per Marco Fortis, professore di Economia industriale, all’università Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison, c’è «sicuramente una insofferenza delle varie categorie a ogni minimo cambiamento. Iniziando, però, dal settore che è in grado di far più confusione si corre il rischio di dare l’immagine di un paese che scende in piazza e blocca tutto, come è successo in Grecia. Ora bisognerà vedere quale sarà il giudizio della comunità internazionale e della stampa estera su questa vicenda. La protesta di una

minoranza potrebbe essere percepita come quella del paese, trasformando i problemi dei tassisti in quelli di tutti gli italiani, con possibili influenze negative anche sui mercati. Forse c’è stato un errore di tipo tattico-comunicazionale a fronte di una reazione composta di tutti gli italiani alla manovra Monti, non colta a sufficienza dai mercati al punto che siamo costretti a rincorrere la Spagna. Finora l’azione di governo ha prodotto dei risultati fiscali piuttosto imponen-

ti insieme a una riforma previdenziale rigorosa, non per questo il paese si è scomposto più di tanto. Oggi, invece, rischiamo di dare l’impressione di essere un paese che ha tirato troppo la corda e ora insorgono le categorie. Ma una cosa è la protesta di milioni di lavoratori in difesa dell’articolo 18, altra cosa è la manifestazione di qualche migliaia di tassisti. Se si iniziasse con la liberalizzazione di settori meno appariscenti, anche nelle forme di protesta che possono

È auspicabile che si proceda al ritmo di una riforma al mese

mettere in campo, ci potrebbero essere maggiori margini di manovra. Insomma i notai difficilmente assedierebbero Palazzo Chigi, mentre se viene paralizzata Roma il tam tam mediatico produce effetti negativi. Con questo non voglio dire che non vanno liberalizzati anche i taxi, ma che bisognerebbe evitare lo scontro». Anche Alessandro De Nicola, presidente della Adam Smith Society, docente alla Bocconi ed editorialista di Repubblica, ritie-

ne che i tassisti «non sono il problema maggiore che abbiamo, soprattutto per quanto riguarda la loro incidenza sul Pil. Su questa categoria si è detto tutto quello che c’era da dire e parliamo di persone che sgobbano molto e non sono certamente milionari. Se si procedesse al ritmo di una liberalizzazione importante al mese, così come annunciato dal ministro Passera, ci metterei la firma. Sarebbe assurdo pensare che con un colpo di bacchetta possano essere varate tutte insieme, esistono dei tempi tecnici di applicazione. Se l’iniziare da alcuni settori nascondesse la volontà politica di preservarne altri le critiche sarebbero giustificate, se invece, in una società rimasta bloccata per sessant’anni, si procede con gradualità non ci sarebbe alcuno scandalo. Sulla loro realizzazione sono moderamente ottimista». Quando si parla di liberalizzazioni va tenuto presente il vantaggio che ne può derivare in termini economici, ma secondo


Liberalizzare non è soltanto utile alla crescita: è necessario per rimettere al centro il cittadino

Più taxi per tutti: il governo non ceda alle corporazioni Il premier non ha bisogno di consigli: ma se li cerca, ascolti cosa dicono i cittadini. E non i rappresentanti o i membri di caste uniche al mondo di Giancristiano Desiderio n questo strano Paese c’è l’idea pessima che le ferrovie siano affare dei ferrovieri, che la scuola sia cosa dei professori, che i tribunali siano dei magistrati e, ora come ora, che le farmacie siano affare di famiglia dei farmacisti e che i taxi siano roba dei tassisti. In un Paese minimamente decente, invece, le ferrovie, la scuola, i tribunali, le farmacie e anche i taxi sono servizi che hanno come proprio “centro” o riferimento i viaggiatori, le famiglie, gli imputati, i malati e persino i comuni mortali. In Italia tutto questo sembra essere impossibile perché questo è semplicemente il paese dei mercati protetti. Che cosa significa liberalizzare? Liberare i mercati e avere come punto di riferimento i cittadini in vario genere - l’utenza, i consumatori, i clienti o come altro vogliate chiamare noi stessi - e non le corporazioni che mirano unicamente a perpetuarsi in saecula saeculorum. Quindi il presidente del Consiglio non abbia paura degli strombazzamenti dei tassisti romani sotto Palazzo Chigi e vada avanti portando un po’ di libertà e sana concorrenza in un Paese che non cammina e non cresce prima di tutto perché non sa più cosa voglia dire cambiare e rischiare.

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A proposito di liberalizzazioni, Antonio Polito ha scritto mercoledì scorso sul Corriere della Sera che c’è una pagliuzza nell’occhio dei “piccoli” e dei “privati” e una trave nell’occhio dei “grandi” e dei “pubblici”, che ci sono delle disparità perché si toccano farmacie e taxi ma non si vedono i grandi vantaggi provenienti dalla separazione proprietaria tra Eni e Snam rete gas.Va bene, concordiamo. Ma che facciamo, ci fermiamo perché si è iniziato da qui invece di iniziare da lì? Dunque, invece di riformare rinviamo? Il problema è opposto: iniziamo a riformare. La liberalizzazione dei mercati protetti, dalle licenze dei taxi ai banchi farmaceutici, non diventa ingiusta e inutile perché la separazione tra Eni e Snam “non è una priorità”come ha detto Antonio Catricalà.Verrà anche quel momento. Smettiamola di pensare che una cosa è ingiusta e inutile perché non se ne fa ora un’altra. Il “benaltrismo”- i problemi sono altri - non porta da nessuna parte se non a diventare un Paese eternamente in coda. Tuttavia, la protesta dei

taxi a Roma e nelle altre città, Napoli ad esempio con Piazza Plebiscito strapiena di auto bianche che sembrano la Montagna di Sale di Paladino, è imponente. Vuoi vedere che hanno ragione da vendere? In verità, la protesta è imponente perché i tassisti sanno come fare per far casino e farsi notare. Basta fare il contrario di quanto fanno quando sono in servizio e non si sa dove siano. Oggi alla stazione Termini ci sono viaggiatori e turisti e pendolari e comuni mortali in co-

Le scene che si sono viste nelle città italiane sono indegne di un Paese almeno civile da dietro il nulla. Ma è esattamente quanto avviene tutti i giorni. Ogni santo giorno a Termini c’è una fila che non termina mai: si aspetta il taxi. In altre città europee accade l’inverso: c’è la fila dei taxi che attende i turisti, i viaggiatori, i clienti. Mentre a Parigi o a Londra o a Berlino i taxi aspettano i passeggeri, a Roma e a Napoli e a Milano sono i passeggeri che aspettano i taxi. E non è finita qui. Perché una volta che sono riusciti a salire su un taxi ne scendono imbufaliti e disgustati ripromettendosi di non prenderne altri. Motivo? I costi enormi. Il sovraprezzo. La gita in città non richiesta per strade e stradine alternative che hanno il solo scopo di far salire il tassametro. E l’inchiesta di Striscia la notizia? Ve la ricordate? Gli stranieri erano sistematicamente truffati. Prendo a caso due righe da un pezzo del sito Corriere.it, anzi dal commento che vi ha lasciato un lettore. Dice: «Vivo a Roma, non guido e prendo spesso il taxi. Lunghe attese al telefono prima, e poi lunghe attese mentre arriva. Tutto a mia spese. Poi, parlano al telefono, hanno la radio accesa ed ad alto il volume, ognuno

applica dei supplementi vari ed eventuali. Una volta sono stata insultata in malo modo per aver rifiutato di pagare il supplemento di un euro su UN SOLO bagaglio. Poi c’è chi vuole 2 euro da Termini. E potrei continuare. In sintesi, è un oligopolio nemmeno regolato. La maggiore concorrenza, forse, garantirà un po’ di più l’utente».

Il capo del governo non ha bisogno di consigli ma se è alla ricerca di qualche suggerimento, allora, legga cose come queste o ascolti non i tassisti, i farmacisti, i notai, gli architetti e via fino a ventotto sigle professionali uniche al mondo ma gli utenti, i clienti, i consumatori, tutti coloro che chiedono servizi e trovano disservizi, tutti coloro che cercano opportunità e trovano corporazioni. Le liberalizzazioni vanno fate sia per principio sia per pratica. E le due cose non sono affatto divise. I provvedimenti potranno avere effetti concreti utili e così saranno stati utilissimi oppure non avranno tutti immediate conseguenze positive ma saranno comunque utili perché stabiliranno in concreto il principio che una cosa si può fare non perché autorizzata ma perché non è vietata. Insomma, o si ritorna alla libera iniziativa o è meglio che chiudiamo baracca e burattini e ci iscriviamo tutti ai sindacati e vediamo cosa sa fare lo zio di Bonanni.

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il professor De Nicola deve essere inteso «per tutta l’economia e non soltanto per i consumatori. In termini di Pil un settore che conta molto è sicuramente quello dei servizi professionali sul quale, a giudicare dalla bozza circolata, il governo ha giustamente posto l’attenzione. Inoltre ci sono tutti quei servizi che hanno a che fare con le infrastrutture del Paese dai trasporti aerei a quelli locali, fino tutti i servizi municipali. Parliamo di settori che, oltre a non essere irrilevanti per il Pil, condizionano tutti gli altri e vanno sicuramente presi in considerazione. Incideranno sulle tasche dei cittadini e anche per gli altri settori, perché dei trasporti efficienti garantiscono una migliore operatività delle aziende e mobilità di persone e merci».

È fondamentale, però, per De Nicola non confondere «le liberalizzazioni, l’apertura cioè del mercato a nuove possibilità di operare e alla libertà di scelta, con dei provvedimenti pro-consumatori che possono avere due difetti. Il primo è che possono essere inefficienti dal punto di vista economico, il secondo è che ci possono essere delle conseguenze del tutto inintenzionali che o rendono inutile la norma, oppure provocano danni. È un po’ quello che è successo con l’abolizione del contributo di ricarica dei gestori di telefonia mobile, che hanno spostato quel costo sul traffico telefonico. Nella bozza che è circolata in questi giorni per il settore assicurativo si prevede una misura a dir poco assurda. Mi riferisco all’obbligo per gli agenti a essere plurimandatari, con l’obiettivo di garantire una maggiore offerta, ma si possono sollevare tre obiezioni. La prima è che questa regola esiste soltanto in Italia, la seconda è che l’obbligo degli agenti plurimandatari restringe l’accesso al mercato dei giovani. Senza dimenticare che, siccome ogni gruppo controlla una serie di assicurazioni, l’agente può facilmente avere nel suo pacchetto più società gestendo in modo discriminatorio la sua clientela. Questo è il classico esempio non di una liberalizzazione, ma di una misura dirigistica che produce degli effetti inintenzionali a svantaggio e del produttore e dei consumatori». La Cgia di Mestre si è detta scettica sull’efficacia delle liberalizzazioni “all’italiana”, affermando che «sono costate alle famiglie quasi 110 mld di euro: 286 euro all’anno per nucleo familiare dall’avvio delle aperture dei mercati di ogni singolo settore sino al novembre 2011. A questo proposito il professor De Nicola precisa: «Non conosco lo studio della Cgia di Mestre e, quindi, non esprimo un giudizio. Ma posso dire, però, che i dati che si conoscono, anche su base internazionale, confermano che le liberalizzazioni, a parità di servizi offerti abbassano i prezzi e, soprattutto migliorano la qualità».


Il 25 gennaio il governo alla prova europea

Una Coalizione? No,ora serve un Patto per il futuro di Rocco Buttiglione l 25 gennaio il governo verrà alla Camera dei deputati per esporre la sua linea di politica europea. In quella occasione è necessario che le forze che appoggiano il governo approvino una mozione comune che le vincoli nel lungo periodo ad una politica di serietà e di rigore. L’Europa, infatti, si sta dando un modello politico e sociale. È la economia sociale di mercato. È un modello che rinuncia esplicitamente alla manipolazione politica della moneta, che premia il merito e la competenza, che sa che non c’ è lavoro senza competitività, che ordina una solidarietà forte verso chi è realmente del bisogno, che riconosce senza infingimenti la regola di mercato. L’Italia deve dire se questo modello ci sta bene oppure no, se lo accettiamo e consapevolmente lo facciamo nostro o se lo subiamo malvolentieri in un momento di debolezza in cui abbiamo bisogno dell’ aiuto dei nostri alleati con l’intenzione dissimulata di sabotarlo, di abbandonarlo e tradirlo alla prima occasione possibile. Questa è la questione essenziale della politica di oggi. Non si può stare nella stessa moneta senza una visione comune di lungo periodo. È necessario un patto fra le forze politiche che accettano questa prospettiva per garantire i nostri alleati che la politica del governo Monti non è un intermezzo, passato il quale tutto torna come prima. Per questo il patto che dobbiamo stringere ha un carattere quasi costituzionale. Anzi, in realtà ha un valore costituzionale. Esso esplicita il senso della introduzione in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio.

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Nelle aste recenti dei Buoni del Tesoro si consolida una tendenza solo parzialmente positiva. I titoli a breve vanno benissimo e i tassi di interesse si dimezzano. La stessa cosa non avviene per i titoli a lungo termine. Questo cosa vuol dire? I mercati hanno fiducia nel governo Monti e ci danno credito per l’ arco di tempo corrispondente alla durata prevedibile di tale governo. Non sanno cosa pensare per il dopo e da ciò deriva la differenza anormalmente alta fra i tassi di interesee a breve e quelli a lungo periodo. Bisogna che le forze politiche responsabili si impegnino a proseguire la politica di serietà e rigore europei anche dopo la fine del governo Monti. Quella che proponiamo non è una grande coalizione. La grande coalizione la abbiamo proposta al momento della formazione del governo Monti ma abbiamo dovuto registrare la indisponibilità del PdL e del PD. La proposta attuale è piuttosto quella di un impegno comune su di un modello politico sociale che ci impegnamo a realizzare e che sottraiamo alle mutevoli geometrie della politica di partito. Al di fuori di questa area si dispieghi pure la dialettica fra i partiti ed essi, se lo vogliono, si scontrino pure. Vogliamo però definire un’area di consenso bipartisan che dia serenità e certezze a chi vive e lavora in Italia ed a chi viene in Italia per investire e produrre. È un modo per dire: gli italiani meritano fiducia, sono partners affidabili non solo per il breve periodo ma per una intera fase storica.

L’editorialista del “Sole24Ore” mette in guardia dal ritrovato feeling tra i due leader

«Attenti alle mine di Silvio e Bossi» «Tenere in vita il Porcellum è l’ultima carta nelle mani del Senatùr». L’analisi di Stefano Folli di Francesco Lo Dico

ROMA. «Io ho sempre ritenuto che l’attuale legge elettorale sia una buona legge che mira alla governabilità del Paese. Può essere migliorata soprattutto per quanto riguarda il premio di maggioranza del Senato che è stato attribuito pro quota alle singole regioni, finendo quindi di essere una garanzia di governabilità. Io credo che il Parlamento dovrà fare un intervento per portare anche, per quanto riguarda il Senato, il premio di maggioranza a livello nazionale». Riacciuffato per i capelli l’antico alleato Umberto Bossi, Silvio Berlusconi ha lasciato balenare subito l’ideale contropartita che forse ha promesso al leader del Carroccio. Evitato in extremis il carcere a Nicola Casentino con i voti decisivi dei leghisti, il parere negativo della Consulta opposto ai quesiti referendari è arrivato per il Cavaliere come una fortunosa coincidenza. Adesso il padrone del Pdl ha tutto il tempo di rinsaldare l’asse con la Lega, in nome di un comune interesse a partorire una legge elettorale favorevole. Un ritrovato feeling che potrebbe significare persino la reviviscenza

di quella che già c’è: il Porcellum. E una serie di inciampi inattesi, ad esempio sulla strada delle liberalizzazioni, sul già difficile cammino della legislatura salva-Italia. «La possibilità che Berlusconi e Bossi minino il cammino del governo Monti esiste», commenta l’editorialista del Sole24Ore, Stefano Folli, «ma credo vada inquadrata soprattutto come una tentazione. I due leader sono molto allettati dall’idea di staccare la spina e fare campagna elettorale contro l’Europa e i sacrifici richiesti dai professori. Anche se in fondo sanno bene di correre un rischio enorme. Pdl e Lega sembrano piuttosto volersi rassicurare a vicenda sulla base di un illusione». Dopo i voti leghisti contro l’arresto di Cosentino, Berlusconi ha subito magnificato le virtù del Porcellum. È la legge elettorale il minimo comune denominatore di questop riavvicinamento? Bisogna ammettere che dopo il parere sfavorevole della Consulta, cambiare la legge elettorale sarà veramente difficile. Il sentimento popola-

re diffuso è che il cittadino deve tornare a usufruire del diritto di scegliere i suoi rappresentanti, ma impedire la nascita di una riforma che potrebbe essere sfavorevole al suo partito è l’unica carta da giocare che è rimasta in mano al Seanatùr. Impossibile dunque pensare a un disegno condiviso? Ho l’impressione che a questo punto dovremo tenerci la legge Calderoli. L’idea di una riforma istituzionale organica è ormai tramontata a mio modo di vedere. E semmai Berlusconi ha proposto di correggere il Porcellum in senso ulteriormente peggiorativo con un premio di maggioranza anche al Senato. Ieri ha scritto nel suo editoriale per il “Sole”che alcuni addirittura mormorano di Bossi e Berlusconi pronti a staccare la spina del governo Monti nei prossimi mesi. Una voce fondata? La tentazione aleggia in entrambi i due leader, ma credo che si tratterebbe di un’operazione troppo spericolata. Pdl e Lega dovrebbero assumersi il rischio di riavvicinare il Paese


cosa sarà dell’Italia

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Non si possono e non si devono abrogare le firme dei referendari

Ora siano i moderati a riformare la legge Il “caso Lega” è un esempio dei tempi: il mondo della vecchia politica è all’ultimo capolinea di Enrico Cisnetto uò darsi, come sostiene qualcuno, che nel valutare il fondamento giuridico dei referendum sulla legge elettorale, la Corte Costituzionale abbia avuto “sensibilità politica”, e dunque abbia in qualche modo tenuto conto del fatto che un sì avrebbe aperto le porte ad una campagna contro il parlamento dei “nominati” che sarebbe stata inevitabilmente delegittimante per il governo. Sta di fatto che i quesiti erano malposti e la pretesa di abrogare una legge abrogata era un’illogicità prima ancora che una chiara forzatura del diritto costituzionale. Dunque, pur nell’attesa delle motivazioni, possiamo felicemente archiviare la pratica referendum. Ciò che invece non può e non deve essere archiviata è la pratica nuova legge elettorale. Sia perché le firme raccolte – 1,2 milioni – sono tali da richiedere comunque una risposta politica adeguata, sia perché si respira nel Paese un profondo desiderio di cambiamento, almeno per quanto riguarda il ritorno della preferenza, sia infine perché tutte le forze politiche si sono espresse contro l’attuale legge, a cominciare da quelle che l’hanno scritta e votata. Questo significa che deve essere subito imboccata la via parlamentare – che poi è la più propria e che doveva già essere attivata da tempo – per riformare la legge Calderoli altrimenti detta Porcellum. Qualcuno auspica che siano Alfano e Bersani ad assumersi la responsabilità del primo passo. Magari. Ma siccome è difficile credere che ciò avvenga, forse la cosa migliore è quella che sia il Terzo Polo a prendere l’iniziativa. Finora non è stato fatto per la preoccupazione di trovare interlocutori su posizioni distanti, e probabilmente diversificate al proprio interno.Vero. Ma questo non deve esimere nessuno dal provarci. Qui posso solo ribadire che la scelta della legge elettorale non può essere disgiunta da quella del sistema politico-istituzionale, e quindi dal modello di democrazia, che s’intende promuovere. Per quanto mi riguarda, non mi stancherò di ripetere che non esistono sistemi e modelli giusti o sbagliati in assoluto, ma in relazione ai dna dei paesi in cui si devono applicare e al momento storico che essi vivono. Partendo quindi dalle caratteristiche dell’Italia – che non è detto si debbano subire fatalisticamente, ma che neppure si possono ignorare facendo finta che gli italiani siano anglosassoni – e considerato la fase che viviamo, caratterizzata più che mai dalla necessità di fare le grandi scelte impopolari finora eluse, io continuo a credere che l’esperienza tedesca sia quella a cui dobbiamo guardare con più attenzione. Anche perché è quella che più facilmente consente una fase di convergenza delle forze politiche, che

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sull’orlo del baratro, con il rischio di vedere punita questa condotta da parte degli elettori. Una campagna populista contro Monti e l’Europa rappresenta un enorme azzardo, almeno per ora. I due accarezzano l’idea del blackout soltanto per farsi coraggio. Certo si può pensare però a notevoli operazioni di disturbo per cementare l’intesa. Sarà liscio il cammino delle liberalizzazioni nel dopo Cosentino? Prevedo un percorso ad ostacoli perché i due leader non sono certo esenti dalla inclinazione a farsi avvocati delle corporazioni. Ma più in generale, le

contro gruppi sociali meno influenti come i tassisti, e troppo morbido con i veri potentati di questo Paese: e cioè banche, petrolieri e assicurazioni? È un errore che va evitato, pena la credibilità di questo governo. Il governo deve dimostrare di volere compiere un vero salto di qualità nell’interesse del Paese, e contro ogni tipo di ingessatura che ha fortemente ostacolato lo sviluppo economico. In caso di evidenti differenze tra figli e figliastri, Monti servirebbe sul piatto di Lega e Pdl una serie di ottimi argomenti. Bossi e Berlusconi devono fare molta

Oggi chi è favorevole a questo schema ha un’arma in più, a mio avviso decisiva: la frantumazione delle alleanze e, forse, degli stessi due partiti maggiori che hanno incarnato il bipolarismo italico. Non è solo lo scossone dato dalla caduta del governo Berlusconi e dalla sua sostituzione con i “tecnici” di Monti. No, qui siamo di fronte ad un processo irreversibile. Si pensi a quanto sta accadendo nella Lega: se Bossi insiste per recuperare il rapporto elettorale con il Pdl, il Carroccio si spacca; se invece accontenta Maroni per tenere unita la baracca, addio centro-destra. Senza contare che anche dentro il Pdl, pur sopiti i vecchi malumori, si sta facendo strada la valutazione che il mantenimento della legge attuale o l’affermazione di un sistema comunque maggioritario (se non ci fosse il premio di maggioranza, potrebbero essere i collegi uninominali o le circoscrizioni molto piccole a favorire il meccanismo bipolare) favorirebbe il ritorno sulla scena di Berlusconi e quindi la riaffermazione delle logiche che in molti si sono convinti di dover superare. Stessa cosa nel centro-sinistra. Il Pd è preso tra due fuochi: riaffermare la cosiddetta “fotografia diVasto”(quella che ritraeva Bersani unito a Di Pietro e Vendola) o aprire al Terzo Polo, ben sapendo che entrambe le alleanze non si possono fare. In più i fermenti interni al partito, specie sul fronte delle scelte da fare in economia, sono tali da far temere scissioni da un momento all’altro. Dunque, non c’è bisogno di essere critici sul bipolarismo fin qui realizzato (attraverso alleanze in cui è stata premiata la capacità di aggregare forze, anche marginali, a costo di non poter poi governare, piuttosto che l’omogeneità programmatica) e di conseguenza favorevoli alla riaggregazione delle forze secondo uno schema che veda convergere moderati e riformisti e schiacci sui lati estremi del sistema politico i massimalisti, i giustizialisti, i secessionisti e i populisti (categorie, peraltro, che spesso si mischiano e intersecano) per capire che al prossimo giro si deve cambiare sistema. Basta prendere atto che i vecchi poli e i partiti che li hanno incarnati si stanno disintegrando, e non solo perché si sono divisi sulla fiducia al governo Monti. E, pragmaticamente, agire di conseguenza. Mi aspetto che, con un pizzico di coraggio e molta lungimiranza politica, ciò accada. Al più presto. (www.enricocisnetto.it)

Si deve prendere atto che i partiti che hanno creato questa legge sono finiti

I tecnici possono farcela ma dovranno prestare molta attenzione alla comunicazione. Premurarsi di far comprendere agli italiani che le liberalizzazioni sono parte di un progetto che ha come fine una nuova Italia sarà la migliore strategia per evitare trappole forze politiche devono girare a debita distanza da atteggiamenti populisti. In questo duro frangente, le ragioni del consenso farebbero il male del Paese. Riusciranno Monti e i professori ad uscire indenni dall’imboscata? I tecnici possono farcela ma dovranno prestare molta attenzione alla comunicazione. Premurarsi di far comprendere agli italiani che le liberalizzazioni sono parte di un progetto che ha come fine una nuova Italia sarà la migliore strategia per evitare inciampi. Non c’è il rischio che anche nel caso delle liberalizzazioni il governo Monti appaia rigoroso

è indispensabile per riuscire a fare le scelte difficili che ci attendono (vedi le difficoltà intorno alle liberalizzazioni o alla riforma del mercato del lavoro).

attenzione. Una graduale deriva populista e l’opposizione a provvedimenti importanti per sanare il Paese finirebbe per consegnare Monti al centro o al centrosinistra. Proprio come dice Buttiglione. La rivoluzione liberale non avrebbe dovuto farla Berlusconi? È questo il punto. Il sostegno convinto a Monti accrediterebbe il centrosinistra come forza innovatrice desiderosa di rimettere in piedi il Paese. E viceversa relegherebbe le pretese di ammodernamento del Pdl in un cantuccio. Berlusconi e Bossi, a quel punto, si condannerebbero all’irrilevanza.


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cosa sarà dell’Italia

Centralità europea e sovranità nazionale devono trovare un punto di equilibrio per concludere l’integrazione comunitaria

Un doppio enigma per i partiti Le questioni poste dal governo “tecnico” sono fondamentali. E l’appoggio politico deve mutuarsi in un sostegno a tutto campo di Francesco D’Onofrio l rapporto tra il cosiddetto “governo tecnico Monti” e le forze politiche presenti in Parlamento ha rappresentato fin dall’inizio una questione di grande e complesso rilievo politico e istituzionale. Il sostegno parlamentare al governo Monti ha infatti rappresentato sostanzialmente le motivazioni di una decisione politica centrata sull’Europa per la prima volta da molti anni a questa parte. L’intero sistema politico e istituzionale italiano si era infatti venuto costruendo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale proprio su un rapporto difficile tra la vecchia sovranità nazionale – tipica degli Stati nazionali europei dell’Ottocento – e la dimensione tendenzialmente universale propria del cristianesimo da un lato e del socialismo anche non sovietico dall’altro.

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Il sopravvenire del progetto di costruzione unitaria europea aveva infatti rappresentato un primo serio ancoraggio territoriale tra la dimensione nazionale e quella “proto-europea”tipica della Guerra Fredda. Per molti anni il processo di integrazione europea aveva quasi finito con l’essere percepito (all’interno dei confini italiani) prevalentemente per la garanzia democratica che esso poneva a presupposto di qualunque ipotesi di espansione del processo medesimo. Il processo di

integrazione europea proseguiva nel corso degli anni con una percezione forse insufficiente delle conseguenze che esso comportava per l’essere e il funzionare delle nostre istituzioni politiche ed economiche, locali e nazionali. L’avvento dell’euro aveva infatti rappresentato una svolta di grande significato alla quale probabilmente non era stato dato il rilievo necessario per quel che esso comportava per la stessa vita economica e civile italiana. Una sorta di progressivo rinchiudersi nella dimensione nazionale finiva pertanto con il

che concerne lavoro, economia e istituzioni. Con Monti irrompe pertanto la dimensione europea rispetto alla “pigra” dimensione nazionale che aveva caratterizzato molti anni di questa che siamo soliti chiamare la Seconda Repubblica.

Il sostegno parlamentare al governo Monti viene pertanto deciso anche da parte di forze politiche che non hanno concorso alla sua nascita e alla sua formazione. Il sostegno parlamentare ha infatti assunto per alcune forze politiche un significato quasi esclusivamente na-

Con Monti irrompe la dimensione europea rispetto alla “pigra” dimensione nazionale che aveva caratterizzato molti anni di questa che siamo soliti chiamare la Seconda Repubblica produrre da un lato un sostanziale “rinsecchirsi” della ispirazione cristiana e dall’altro un tentativo di far prevalere la dimensione italiana della proposta comunista che pur si continuava a declinare in senso sovietico. La stagione di Mani Pulite ha finito pertanto con l’incidere profondamente sulla dimensione economica e politica dell’Italia, perché è avvenuta in un contesto ormai definitivamente post-sovietico, senza che per altro che si cogliesse fino in fondo la necessità del cambiamento italiano per tutto quel

zionale, mentre per altre ha avuto un significato prevalentemente europeistico. Il sostegno parlamentare al governo Monti ha rappresentato infatti il punto di intesa minimo anche tra forze politiche che si erano duramente combattute nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Questo sostegno sta subendo un progressivo logoramento perché non può essere tenuto in vita a lungo senza che si passi in qualche modo ad una qualche forma di grande coalizione. È di tutta evidenza che la grande coalizione può

tradursi concretamente in una comune assunzione di responsabilità anche per la politica quotidiana, da parte di forze politiche naturalmente alternative le une alle altre. Ma si tratta comunque di una alternanza tra forze politiche tutte compiutamente europeistiche nel senso della prospettiva politica generale. Si può invece trattare della ricerca di alcune regole soltanto di convivenza tra forze politiche naturalmente destinate ad esprimere differenti orientamenti di governo. La grande coalizione infatti (quanto meno nella recente esperienza tedesca) significa esprimere compiutamente personale e strutture di governo comuni a forze politiche che pur mantengono una propria autonoma e distinta identità. Essa invece può certamente limitarsi alla ricerca di regole politiche e costituzionali comuni anche a prescindere da altri specifici aspetti della vita politica quotidiana. In questo secondo caso l’intesa non è più solo parlamentare perché contiene la dichiarata volontà di soluzioni concordate per regole considerate fondamentali per la vita politica ed istituzionale anche al di fuori della vicenda parlamentare. Si entrerebbe in tal caso in una sorta di ricerca parlamentare di regole comuni pur nella distinzione rispetto ad un gover-

no che risulterebbe sempre più caratterizzato da una sorta di distinzione degli obiettivi politici perseguiti.

Saranno le prossime settimane a farci comprendere se il passaggio dal sostegno parlamentare al Governo Monti alla Grande Coalizione tra le forze politiche che fino ad oggi hanno costituito la base parlamentare del governo stesso sarà un passaggio che darà vita ad Grande Coalizione che comprende anche la struttura del governo, o se si limiterà ad una pur essenziale intesa parlamentare su poche ma grandi questioni politiche ed istituzionali, quali ad esempio quelle concernenti la struttura del parlamento, l’organizzazione del governo, l’ispirazione di fondo dei sistemi elettorali. Una cosa rimane comunque fin d’ora acquisita: centralità europea e sovranità nazionale dovranno trovare un punto di equilibrio che il lungo processo di costruzione dell’integrazione europea non ha ancora trovato all’indomani della conclusione dell’esperienza storica dell’Unione Sovietica. Questioni politiche fondamentali dunque sono le questioni di fronte alle quali il cosiddetto “governo tecnico Monti” ha posto e pone tutte le forze politiche che gli hanno sino ad ora assicurato il necessario sostegno parlamentare.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Shame” è un film sulla dipendenza sessuale. A dispetto del titolo (“Vergogna”), non ha intenti moralistici ma l’ambizione di rappresentare con un cast eccellente e con il dono della semplicità una possibile realtà

hame, che racconta l’ossessione sessuale, è una parola che appartiene all’universo morale: il senso di vergogna. È un giudizio o un’ammissione di colpa? Qualche critico interpreta il titolo come un atto d’accusa moralistico degli autori, contro il sesso «sportivo», anonimo, indiscriminato, puro esercizio fisico da ritenersi salubre, tonico, un toccasana, senza ricaschi negativi. Gli psicoanalisti amano parlare di sensi di colpa, ma questi istigano aggressività verso chi li provoca; la vergogna, al contrario, è un’autopunizione, una condanna interiore. Nell’ebraismo il concetto di colpa sembra più sviluppato. L’umorismo di Woody Allen ne è intriso; nel cristianesimo prevale la vergogna. È ovvio che il rapporto tra i due stati è stretto, come si vede nel film. Brandon (Michael Fassbender), trentenne scapolo a New York, lavora per un’azienda hi-tech qualunque. Ha il classico ufficio con vista espansiva sui grattacieli, algido e impersonale come l’appartamento che occupa a Chelsea; dove non vive in senso ampio, ma che usa per mangiare, dormire e sfogare la sua ingordigia di sesso.

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L’OSSESSIONE DI BRANDON di Anselma Dell’Olio


l’ossessione di

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A casa è incollato ai siti porno hard persino mentre consuma takeaway cinese. È di ottima presenza e in perfetta forma fisica. Non gli è difficile rimorchiare donne in ogni dove: in metropolitana, al bar, al ristorante, per strada, arrivando ad accoppiarsi con una sconosciuta contro un muro di notte. In mancanza d’altro, convoca squillo e prostitute. Oggi questa fissazione si chiama sexual addiction. È indubbiamente diversa dal libertinaggio: provare piacere nella lussuria. (In questa distinzione il Don Giovanni di Mozart è libertino; il Casanova di Fellini un drogato di sesso). La dipendenza implica la coazione a ripetere fosca, torva, più castigo che godimento; si fa anche in assenza di piacere, di eros, di appagamento. Il sesso diventa rimedio, anestetico, come il whiskey per l’alcolista. Non si beve e non si tromba (fare l’amore è termine inadatto a coiti seriali, selvaggi, disperati; sono parenti della martellata in testa per scordare i dolori di pancia). Un uomo pubblico come Dominique Strauss-Kahn pare appartenere alla genìa del libertino esasperato, aggressivo, (secondo testimonianze delle donne passate per le sue mani poco tenere); ma questi maschi considerano le forzature ruvide «dolci violenze». Da ciò che si sa di DSK, è un estroverso che ama coartare la preda, piegando le regole della seduzione fino a sfiorare - se non centrare - lo stupro.

Brandon è un introverso, ombroso e affascinante. Il suo capo David (James Badge Dale) appartiene alla categoria degli aspiranti libertini. È un mandrillo che ci prova con tutte le donne che incontra, anche l’elegante serveuse brasiliana in un night. «Si sarebbe offesa se non ci avessi provato!» dice per salvarsi la faccia quando la donna gli gira le spalle. Il cliente ha sempre ragione ma up to a point, e i rattusi maldestri vanno molto in bianco. Qualche anno fa, ai tipi che si buttano a prescindere, senza grazia né fascino, si dava il soprannome «Mr. Bianchini». David è di quella schiatta; finge amicizia con Brandon per approfittare della cacciagione che attira. Il capo si spreca in complimenti e piaggerie banali e le donne lo schizzano; è troppo scoperto nel suo egotismo lascivo per fare colpo. A Brandon basta lo sguardo, la presenza e le femmine lo rincorrono «con il materasso in spalle» come diceva un vecchio donnaiolo. David, in realtà, non è un amico; invidia il successo del suo sottoposto e si attacca a lui come alla barca che lo

anno V - numero 1 - pagina II

brandon

go, ti prego». Ma vediamo anche lo spessore del legame di sangue, di un’infanzia martoriata condivisa. Dopo l’irruzione violenta in bagno, Brandon entra in salotto con la mazza da baseball ancora in mano e la usa per sollevare il boa di struzzo color lampone di Sissy. Ci affonda il viso e lo annusa, investito da uno tsunami di ricordi, anche se non sappiamo quali. Qualcuno pensa che sia un’allusione all’incesto; è possibile ma improbabile, almeno tra i due fratelli. Se lui è soggiogato dalla sua libido, lei è una ninfomane che si fa sedurre in venti minuti da David, che poi tempesterà di telefonate. La ninfomania, come il sesso compulsivo, sono fughe da se stessi, dalle storture interiori che impediscono di volersi bene, di entrare in intimità non spuria con una persona che amiamo, riamati. Non trovo per niente moralistico il film, poiché l’opera non è ipocrita, ma ha il dono della semplicità. McQueen non condanna, osserva, e il suo sguardo corrisponde al vero. Con tutta la sua friabile emotività e sconsideratezza, Sissy è però consapevole del valore dei rapporti famigliari. Da poche frasi s’intuisce che la crescita dei due fratelli è stata tormentata. Non occorre conoscere i dettagli, come non serve sapere di cosa si occupa l’azienda di Brandon.Verso la fine Sissy lascia un messaggio vocale al fratello: «Non siamo persone cattive; è solo che veniamo da esperienze cattive». È lei, quando il fratello la strapazza per la storia con il capo e la vuole cacciare di casa, che gli ricorda chi sono: «Sei mio fratello. Sono tua sorella. Dobbiamo occuparci l’uno dell’altro».

porta in acque pescose. A Brandon fa sequestrare il computer in ufficio. Definisce il suo hard drive «una fogna, una cloaca», per l’immane quantità di siti pornografici visitati, pieni d’ogni perversità immaginabile e non. «Anale, doppio anale, e cream pie… Non so nemmeno cosa sia! Un autentico depravato, uno schifoso, li frequenta durante le ore d’ufficio e a spese dell’azienda». Per continuare a usarlo come esca gli offre una via d’uscita. «Sarà stato il tuo stagista?». È una chiamata a rapporto appena dissimulata, come il disprezzo che prova per la sessuomania di Brandon che il capo però non disdegna di sfruttare, dall’alto della sua posizione di marito e padre cacciatore di gonnelle con la fede al dito, con la sicumera di un top manager cui tutto è concesso. Un giorno Brandon trova la porta di casa aperta e dance music a tutto volume. C’è qualcuno sotto la doccia. Prende una mazza da baseball da un armadio e irrompe in bagno gridando «T’ammazzo!». Una giovane donna (Carey Mulligan, d’inaudita bravura) urla di spavento, nuda e bagnata. Si era sentita all’inizio sulla segreteria di casa, una voce implorante. («Rispondi Brandon, ti prego, rispondi!»). L’avevamo scambiata per una delle sue compagne di letto rompiballe. Invece no, era Sissy, la sorella minore. È una cantante jazz alla deriva, famelica d’affetto ed estroversa quanto il fratello è avvitato su se stesso. Se Brandon è sul punto di implodere, Sissy è una mina vagante che può esplodere da un momento all’altro. E come insegna Cecov, se si vede un’arma a inizio spettacolo, prima del-

la fine deve fare fuoco. Il film è a presa rapida, ma decolla con l’arrivo di Sissy. Gli sceneggiatori, il regista con Abi Morgan, hanno dato gli spunti ai due attori per creare un rapporto tra fratello e sorella minore, verosimile e struggente. Morgan è commediografa e sceneggiatrice dell’atteso biiopic su Margaret Thatcher, The Iron Lady, di prossima uscita. Steve McQueen, omonimo dell’attore americano scomparso nel 1980, è un anglo-africano, con il fisico ingombrante di un giocatore di rugby; tutto sembra, meno che un raffinato video-artist che ha vinto il Premio Turner. Shame è il suo secondo lungometraggio. Il primo, Hunger, inedito in Italia e vincitore di numerosi premi, tra i quali la Camera d’Or a Cannes come miglior opera prima, è su Bobby Sands (sempre Fassbender), scrittore e attivista del Irish Republican Army, che si è lasciato morire nel 1981 nel carcere di Long Kesh nell’Irlanda del nord. Se Hunger si concentra sugli effetti fisiologici dello sciopero della fame e sulla profonda ribellione di un prigioniero politico, il secondo registra le convulsioni di un uomo incarcerato nel proprio corpo, ostaggio di pulsioni perverse.

L’irruzione di Sissy - la famiglia - nella vita del fratello è sconvolgente e mette in moto una discesa agli inferi. Lui la odia per la sua fragilità, per il suo essere letteralmente senza fissa dimora, una ragazza irrisolta, che mendica affetto da chiunque le mostri un briciolo d’attenzione. Dopo essersi fatto estorcere l’ospitalità, Brandon la sente al telefono mentre implora un amante che chiaramente cerca di scaricarla: «Ti amo, ti amo, ti amo. Non ho voglia di uscire, voglio stare con te.Ti pre-

Lei veste vintage e anche i suoi sentimenti sono d’annata. Non la incantano la libertà dai condizionamenti tradizionali, l’infinita disponibilità, il cercare e concedersi continuamente a stimoli sempre nuovi, tipici delle metropoli, senza soluzione di continuità e fine a se stessi. Nemmeno Sissy, anima infelice, è capace di costruire rapporti durevoli e appaganti, ma è consapevole del loro spessore e li desidera con tutta se stessa. McQueen e Morgan sono dovuti andare in America per intervistare sexual addicts disposti a raccontarsi. McQueen disdegna metafore e speculazioni psicologiche. Gli interessano i comportamenti, i significati che ne scaturiscono. I due autori hanno trovato solo sessuomani maschi, però. Pare che le femmine si sciupino con il rischio estremo, come i piccoli annunci su Craig’sList e altri siti web, una roulette russa in cui si rischia l’incontro con molestatori, maneschi, maniaci. Un artista-regista con la fiducia nei propri mezzi e il coraggio di non imbrogliare le carte con mistificazioni intellettualoidi o spregiudicatezze modaiole, che rende con chiarezza la sua visione della vita e degli intrecci affettivi, è ragione di giubilo e di meraviglia. Insomma, non ha paura di farsi capire. Gli attori sono dei fuoriclasse: Fassbender (Bastardi senza gloria, Jane Eyre, A Dangerous Method) merita la Coppa Volpi vinta a Venezia. Ma la ragione principe per non farsi sfuggire il film è Carey Mulligan (An Education, Drive,Wall Street - il denaro non dorme mai). Il suo viso non ha segreti: non recita, abita la pelle dei suoi personaggi. E ha doti canore insospettabili finora; la sua versione lenta di New York, New York riduce il cuore in frantumi. Le nudità frontali di ambo i sessi non sono erotiche ma significanti come un cilicio. Da non perdere.


MobyDICK

arti

i solito mette in fila poche parole quel «duchampiano», concettuale, neo-pop d’un Maurizio Cattelan. Ma stavolta, il cinquantunenne padovano che ha infilato nella sua arte dello sberleffo Giovanni Paolo II colpito da un meteorite (La Nona Ora), la Z di Zorro impressa con tre rapidi fendenti sulla tela azzurra smitizzando i tagli di Lucio Fontana e la mano in marmo di Carrara col dito medio alzato (L.O.V.E.), si racconta nell’autobiografia intitolata Un salto nel vuoto. La mia vita fuori dalle cornici (Rizzoli, 250 pagine, 18,90 euro). Finalmente parla, quel gran timido e solitario d’un Cattelan. Risponde per filo e per segno alle domande di Catherine Grenier (condirettore del Centre Pompidou di Parigi) snocciolando vita, carriera e sculture shock. Dice: «L’umorismo è un modo per comunicare, per superare la barriera della timidezza. E se vuoi, serve da cortina fumogena per far passare un messaggio importante che se espresso in maniera letterale potrebbe risultare meno effettivo di quanto intenda essere. L’ironia nasconde spesso un momento drammatico».

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Sfilano, in questo libro-conversazione, il padre camionista e la madre casalinga/infermiera; la scuola abbandonata troppo presto («È sempre stata un problema per me: non perché fossi stupido, ma perché mi rendeva stupido») e un lavoro dopo l’altro: dal commercio di statuine e immaginette con l’effigie di Sant’Antonio, all’impiego a tempo pieno in ospedale e poi all’obitorio («Può sembrarti strano», racconta all’intervistatrice, «ma in fin dei conti non era un lavoro sgradevole, sono contento di averlo fatto. In ospedale ti trovi davanti l’intero spettro della vita: dalla nascita alle

L’umorismo? Un passepartout di Stefano Bianchi malattie benigne, fino alla vecchiaia e poi alla morte»); il primo incontro con l’arte nei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto e il debutto da designer antropomorfico in quel di Forlì, col tavolo tondo chiamato Cerberino; il trasferimento a Milano e quindi a New York, dove tuttora risiede e ha fondato la minuscola Wrong Gallery di appena un me-

scritta Torno subito; e di quella volta che organizzò alla Galleria Comunale d’Arte Moderna una partita di calcetto fra undici immigrati africani e altrettanti giocatori del Cesena.

Il campo era lo Stadium, calcio-balilla chilometrico. Di quando, a Milano, appiccicò letteralmente al muro con lo scotch il

seum di NewYork: «A me fa pensare a dei salami. È così che li si conserva, sai, appesi al soffitto. Ecco, ho trattato i miei lavori come dei salami! Non c’è più alcuna gerarchia tra le opere. Sono tutte allo stesso livello. E poi, in una certa misura, questo modo di presentarle toglie il lato tragico. L’insieme di tutte

Thompson. Suddiviso in cinque capitoli (L’estetica del fallimento, Dimensioni politiche, Dualismo e morte, Dall’irriverenza all’iconoclastia, Cultura dello spettacolo e immagine mediata), il volume ci fa fotograficamente (ri)scoprire i perturbanti capolavori dell’estetica Made in Cattelan: da La Rivoluzione siamo noi, autoritratto dell’artista vestito in feltro come Joseph Beuys e sospeso per il colletto a un appendiabiti, all’elefante mascherato stile Ku Klux Klan

Dall’obitorio al Guggenheim, vita, mestieri e carriera di Maurizio Cattelan. L’enfant terrible dell’arte contemporanea, vincendo l’abituale timidezza, si racconta in un libro intervista. Mentre a New York si sta per chiudere la grande retrospettiva a lui dedicata tro quadro.Racconta, l’enfant terrible dell’arte che depista, di quando inchiodò sulla porta della galleria Neon di Bologna un cartello con la

Alcune opere di Cattelan: qui accanto “The end”, sopra “Novecento” e “Him”. In alto, l’installazione del Guggenheim di New York

gallerista Massimo De Carlo e al Castello di Rivara fece penzolare una corda da una finestra, come se qualcuno fosse appena evaso. D’altronde, spiega, «tendo a percepire il lato comico della vita. Una parte di me non riesce a fare a meno di cogliere i lati assurdi delle cose, il paradosso, ma al tempo stesso una situazione palesemente comica può incupirmi. È un contrasto che crea uno stato di tensione, e penso sia visibile nel mio lavoro». La chiacchierata-fiume si conclude con All, retrospettiva kolossal in cartellone fino al 22 gennaio al Guggenheim Mu-

queste opere è un’“altra” opera, un’opera unica. Per anni ho lavorato sulla decontestualizzazione. Adesso sono arrivato al punto in cui decontestualizzo me stesso». All è anche il titolo della monografia rilegata e bordata in oro come una tesi universitaria (Skira Editore, 256 pagine, 45,00 euro) che è a tutti gli effetti un catalogue raisonné curato da Nancy Spector (vicedirettore della Guggenheim Foundation) e arricchito dai contributi critici di Katherine Brinson, Diana Kamin, William S. Smith e Susan

di Not Afraid Of Love; dal piccolo Adolf Hitler in cera di Him, con le mani raccolte in preghiera e lo sguardo rivolto all’alto dei cieli, al «riposa in pace» di John Fitzgerald Kennedy dentro una bara aperta (Now): presidente impeccabile, senza le ferite dell’assassinio, a piedi scalzi in un gesto d’umiltà beatifica. Proprio tutto, insomma. Però… «A dire il vero non volevo niente di preciso. Volevo solo prendere in mano il mio destino, nel bene e nel male».


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el 1459 i Medici avviavano una delle imprese decorative più suggestive del rinascimento fiorentino, incaricando Benozzo Gozzoli di affrescare con la Cavalcata dei Magi la cappella della dimora di via Larga, la prima residenza urbana progettata da Michelozzo per il patriarca della casata, Cosimo il vecchio. La cappella, nell’economia dell’edificio, era di importanza strategica. Non solo luogo di culto della famiglia, ma interfaccia tra privato e pubblico, spazio deputato all’incontro tra il signore e l’illustre ospite, introdotto in questo piccolo e prezioso vano quadrangolare prima di accedere alla visita del palazzo. Qui entrò il duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, nell’aprile del ’59, pochi mesi prima che gli affreschi fossero eseguiti, ma a sacello oramai concluso, con il pavimento di marmi pregiati, il soffitto ligneo intagliato e il quadro di Filippo Lippi, con la Natività del Signore, che costituiva il fulcro tematico e figurativo dell’intero ciclo pittorico commissionato a Gozzoli. Un’epigrafe posta su un portale di accesso alla cappella, andata perduta, ne esaltava la dimensione sacra con i seguenti distici: Regum dona, preces superum, mens virginis arae sunt sacra: siste procul, turba profana, pedem! ( I doni dei re, le preghiere degli spiriti superni, la mente della Vergine sono le cose sacre dell’altare: tieni lontana, o folla profana, il piede!).Versi solenni e persino minacciosi, in contrasto con lo spazio a cui introducevano, trasformato dal pittore in una festosa favola a colori, gremita di personaggi sfarzosamente abbigliati che fluivano da una parete all’altra e avvolgevano con lo splendore dell’oro, del lapislazzuli e delle lacche rosse. Una profusione di materia-

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il paginone

MobyDICK

Ulivo e alloro, melograno e piantaggine, salvastrella e tifa, rose, cedri, arance amare e gli immancabili cipressi. Così, tra realtà e fantasia, il pittore della “Cavalcata dei Magi” arredò il paesaggio che fa da sfondo al suo insuperabile ciclo di affreschi. Come documenta puntualmente un singolare libro li rari e costosi che rischiarava e dotava di luce propria la buia cappella. Il racconto dei Re della Stella e dei loro doni portati a testimonianza dell’epifania del Signore e della sua vera natura di Uomo, Re e Dio, il misterioso viaggio degli antichi sapienti, figure dalla complessa simbologia che allude alle Virtù cardinali, alle tre fasi del giorno e alle tre età dell’uomo, ha, del resto, una presenza forte e concreta nella città di Firenze. Dal 1417 una confraternita di laici, di cui fecero parte i maggiori componenti della famiglia dei Medici, era intitolata ai Santi re Magi e ogni tre anni una rappresentazione ne rievocava l’arrivo con una grandiosa sfilata, in vita fino alla cacciata dei Medici del ’94. La cavalcata di Gozzoli offre così la più celebre testimonianza visiva di questa tradizione e lo fa con un linguaggio, ancora tardo gotico e cortese ma in sintonia con le nuove ricerche espressive, in equilibro tra tendenza all’astrazione e precisione del dettaglio, tra fedeltà ai significati biblici e gusto per la narrazione concreta, calata nella stagione felice dell’età medicea.

Sfilano nella Cavalcata, circondati da paggi e arcieri, Cosimo, i figli Piero e Giovanni, seguiti da una vasta folla di cavalieri dove sono stati riconosciuti, tra gli altri, lo stesso Benozzo Gozzoli, col copricapo rosso firmato in lettere d’oro, gli umanisti Marsilio Ficino e Cristoforo Landino, i dignitari italiani Sigismondo Malatesta e Galeazzo Maria Sforza. Lorenzo, il promettente erede dei

Medici, è poi idealizzato nella figura di Gaspare, il più giovane dei magi, mentre dietro Baldassarre e l’anziano Melchiorre, in testa al corteo, si potrebbero nascondere i volti dell’imperatore Giovanni VIII Paleologo e di Giuseppe patriarca di Costantinopoli, effettivamente giunti a Firenze nel 1439, in occasione del concilio fra la Chiesa di Occidente e la Chiesa d’Oriente, altro evento di cui l’affresco, dagli innumerevoli strati di significati, conserva memoria.

Insieme a questa vivida galleria di ritratti, autentico coprotagonista della composizione è un ampio e rigoglioso paesaggio trasportato magicamente nel chiuso del palazzo fiorentino, che dall’alto di una bianca città in cui si deve riconoscere Gerusalemme, si dipana lungo le pareti, scorre dietro al corteo di uomini e animali, avanza in primo piano con una sorprendente varietà di immagini. Una elaborata scenografia di rocce, boschi e giardini, per la prima volta analizzata e svelata nelle sue molteplici componenti grazie a un singolare studio di Mauro Agnoletti e Maria Adele Signorini dell’Università di Firenze (Il paesaggio nella Cavalcata dei magi, Pacini Editore), che consente di dare un nome preciso a tutti gli «attori» del mondo vegetale disposti sui diversi piani dell’affresco e permette di penetrare anche nella dimensione storica del paesaggio rurale, aspetto che connota la nostra penisola in modo più marcato rispetto ad altri paesi ma fino a ora poco indagato.

L’erbario di Benozzo di Rita Pacifici

Alcune immagini del ciclo di affreschi “La cavalcata dei Magi” di Benozzo Gozzoli. Tra i vari personaggi sono raffigurati Cosimo de’ Medici, i figli Piero e Giovanni, lo stesso Benozzo e Marsilio Ficino. Lorenzo de’ Medici, a quel tempo promettente erede della casata, è idealizzato nella figura di Gaspare, il più giovane dei Magi anno V - numero 1 - pagina IV


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È certamente la fisionomia della terra toscana, come ci si offre in una giornata pura e tersa, a fare da sfondo alla cavalcata regale, anche se l’artista non sembra riprodurre un luogo definito, riconoscibile, ma piuttosto un luogo di fantasia, costruito come una specie di erbario, un dettagliato catalogo del patrimonio forestale e agrario presente nel territorio. Una rappresentazione non coerente che mette insieme specie vegetali la cui presenza è dovuta a esigenze simboliche ed evocative, come l’ulivo e l’alloro, il cui nome echeggia quello di Lorenzo, il melograno e la palma, estranea all’habitat toscano ma assai diffusa nelle iconografie a carattere sacro, a erbe comuni, proprie dei prati e dei terre-

prodotti con abilità nelle caratteristiche anche minute delle diverse specie. Alberi dai frutti decorativi, quali cedri e arance amare, care ai Medici per la somiglianza con i simboli del proprio stemma, e poi faggi, abeti dalla corteccia chiara che risalta in mezzo al fogliame, pini dalle chiome a ombrello e soprattutto cipressi, che compaiono in tutte le scene, isolati o in filari, con almeno una ventina di esemplari delle due maggiori varietà ancora oggi presenti. Quelle forme affusolate che identificano il territorio toscano, dove quest’albero non è mai stato confinato solo alle aree cimiteriali, e che costituiscono anche la sigla, la firma vegetale di Gozzoli, che li predilige in tutta la sua pittura.

I Medici, che commissionarono l’opera a Gozzoli nel 1459 per una dimora fiorentina, consideravano la natura parte integrante della città ideale ni calpestati, dalla piantaggine all’erba croce, dalla salvastrella ai lunghi steli della tifa, caratteristica delle zone paludose. Piante non nobili e che avevano già fatto il loro ingresso nella pittura italiana con il Beato Angelico, ma che Benozzo recupera con una maggiore resa naturalistica rispetto al maestro, donando vivacità e brillantezza alle scene e rivelando una spiccata vocazione descrittiva, tanto che raffigura persino un ligustro dai piccoli fiori bianchi, raramente presente nelle opere rinascimentali.

Non mancano le rose, che abbondano nelle due scene dei cori angelici, ai lati dell’altare. Cespugli fioriti e rose rosse, rosa e bianche composte in ghirlande, secondo l’uso che prevarrà fino al Seicento, quando subentrerà la consuetudine di raccogliere i fiori recisi in un vaso, e che trasmettono un’atmosfera da giardino di delizie. Moltissimi, infine, gli alberi sullo sfondo dell’elegante Cavalcata quattrocentesca, ri-

La lettura dell’affresco nella chiave proposta dal saggio, integrato da approfondite schede botaniche e affiancato dal testo anche in lingua inglese, permette interessanti considerazioni sui caratteri del paesaggio rinascimentale. Un territorio ricco e vario, dall’evidente «biodiversità», potremmo dire oggi: con montagne fitte di boschi che, grazie ai terrazzamenti, convivevano con i pascoli e le coltivazioni secondo la pratica delle coltura promiscua, ormai progressivamente scomparsa e anzi in antitesi alla situazione attuale. È quel paesaggio che ha origine nel Medioevo e di cui riportano descrizioni entusiaste i viaggiatori del Grand Tour, a cominciare da Michel de Montaigne che nel 1581 descriveva appunto tutta la Toscana come un giardino, impressioni che perdurano fino a oggi, se ancora Fernand Braudel, negli ultimi decenni del Novecento, poteva definire il paesaggio intorno a Firenze come «la più commovente campagna che esista». Del resto, a questa identità co-

sì ben documentata dalla Cavalcata dei Magi, a un paesaggio riportato all’ordine, alla simmetria, anche nella componente rurale, capace di sedurre grazie alla cultura e all’ingegno, i Medici non solo diedero vigore e impulso, ma impressero un loro marchio diffondendo sul territorio una moderna concezione degli insediamenti abitativi e degli spazi verdi annessi. Firenze stessa, riportano le cronache, alla fine del Quattrocento contava circa centotrentotto tra orti e giardini, che venivano impiantati dovunque.

Nel palazzo di via Larga ve ne era uno con siepi a forma di animali, persino sulla Loggia dei Lanzi, nel secolo successivo, verrà creato un lussureggiante insieme di «vasi di limoni, gelsomini e mortelle, frutte di più sorte e vasi ripieni di vaghi fiori», inaugurando la moda dei giardini pensili che si diffonderà anche fuori città. Gente proveniente dal Mugello, da quella residenza di Cafaggiolo che Gozzoli sembra ricordare tra le aristocratiche dimore che punteggiano il dipinto, i Medici si rivelarono sensibili al fascino della campagna a cui amavano ritornare, trasformando i castelli turriti in ville dai magnifici giardini, non più serrati da mura secondo la tipologia medioevale dell’hortus conclusus, ma aperti sul paesaggio, sulle colline e i campi addomesticati dall’attività agricola. Spazi disegnati ad arte che adornavano le ville di Poggio a Caiano, di Fiesole, di Careggi, e poi a Cinquecento inoltrato, quella di Castello, considerato dal Vasari «uno dei più ricchi giardini d’Europa». Luoghi ameni, frutto di una passione erudita e sfondo di conversazioni filosofiche, dove Lorenzo il Magnifico amava passeggiare componendo i suoi inni bucolici, Marsilio Ficino studiava le piante officinali e i granduchi coltivavano personalmente i filari di rose, trasmettendo di padre in figlio la passione per i fiori. Nel segno di un’alleanza che la dinastia medicea seppe stabilire con il genius loci di Firenze, con la pagana Flora, dea di una natura considerata parte integrante della città ideale.

Riletture

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Quel “Natale” a casa Marone di Leone Piccioni

manuela Bufacchi e Silvia Zoppi Garampi hanno dedicato a Gherardo Marone (Buenos Aires 1891- Napoli 1962) un libro assai bello, ricchissimo di notizie, commenti, giuste interpretazioni. Il titolo è Gherardo Marone e i futuristi a Napoli (Gaetano Macchiaroli Editore). Da qualche tempo le due scrittrici si sono occupate del futurismo in Italia e, in una zona non molto nota per questo aspetto, hanno indagato sul movimento futurista a Napoli. Marone non fu solo un persuaso ammiratore del futurismo, fu anche - direi - un organizzatore di cultura importante e scrittore. Il suo nome resta soprattutto legato alla rivista La Diana uscita tra il 1915 e il 1917. Marone era nato in Argentina ma arrivò presto in Italia per gli studi universitari. Se ne tornò in Argentina non sopportando la negazione della libertà che fu del fascismo, e poi andò e venne dall’Argentina a Napoli più volte spegnendosi nella città partenopea a settant’anni. Politicamente fu amico di Gobetti e Amendola: dal punto di vista artistico e letterario ebbe vastissimi rapporti con gli scrittori e i pittori italiani. Nell’elenco dei nomi con i quali ebbe rapporti non ci sono solo personaggi di serie A: alcuni sono stati certamente dimenticati. Ma si vedano tra i futuristi i rapporti con Carrà, De Pisis, Folgore, Govoni, Marinetti, la Sarfatti, Savinio e Soffici. Indubbiamente manca il nome di Balla. Carrà tra il ‘16 e il ‘17 è a Ferrara con De Chirico ed elogia per iscritto il lavoro di Marone annunciando che «a guerra finita inizieremo con Savinio una rivista e un movimento nuovo tra i nuovi». L’attività della Diana si conclude con la pubblicazione dell’Antologia della Diana: sia all’una che all’altra collabora con De Pisis. Parlando di Marinetti, Marone rivela che quel capo storico del futurismo considerava La Diana superiore a La Voce «troppo culturale e chiusa, diretta com’è da uno scocciatore-pontefice De Robertis». (Naturalmente sono osservazioni di fronte alle quali ognuno ha le proprie opinioni).

E

E veniamo alla parte più strettamente letteraria che riguarda Marone e i suoi rapporti con gli scrittori: si tratta (niente di meno) che di Benedetto Croce, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti e Diego Valeri. Nell’ultimo numero della Diana Marone scrive: «C’è un poeta nel mondo che bisogna cominciare a citare e anche un poco ad amare perché forse è il più puro di tutti. Fino a oggi ce ne siamo accorti specialmente Papini e io che più di ogni altro in Italia lo conosciamo e sentiamo... Verranno in seguito tutti i ragazzi ciarloni di questa buffa repubblichetta dell’arte a proclamarci le loro tardive scoperte. Si chiama Giuseppe Ungaretti». I rapporti tra Marone e Ungaretti durarono fino alla morte

I rapporti tra i futuristi (ma non solo) e lo scrittore napoletano in un saggio di Emanuela Bufacchi e Silvia Zoppi Garampi dello scrittore napoletano: in seguito l’editore Mandadori ha pubblicato l’ampio scambio di lettere tra i due, curato dal fratello di Marone e con una mia introduzione. Ungaretti mandò diverse poesie a La Diana pubblicate poi da De Robertis tra le «poesie disperse». Ma a Napoli il 26 dicembre del 1916, ospite di Marone, scrisse Natale splendida poesia che fa parte della prima raccolta ungarettiana. («… Ho tanta/ stanchezza/ sulle spalle/ Lasciatemi così/ come una/ cosa/ posata/ in un/ angolo/ e dimenticata…»). Alle prime vacanze dal fronte Ungaretti va a Napoli ospite di Marone: «Avevo un letto magnifico dove passare la notte ma io non riuscivo - scrive Ungaretti - a dormire nel letto perché ero abituato a dormire per terra: non potendo dormire, mi sono messo giù nel pavimento a dormire».


Narrativa

MobyDICK

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Georges Simenon IL GATTO Adelphi, 165 pagine, 10,00 euro

n matrimonio tardivo, breve e disgraziato. Tutto sul filo dell’incomprensione, del rancore e dell’odio. Simenon, in questo romanzo scritto nel 1966 (Il gatto, che nel ’71 ispirò il film omonimo con Simone Signoret e Jean Gabin nella foto, ndr), dà prova di bravura rallentando gli avvenimenti e privilegiando l’analisi psicologica dei protagonisti, che poi sono due, marito e moglie, lui 73 anni lei 71. Émile, ex muratore ed ex capomastro, rimane vedovo di Angele, donna dalla vitalità forse grossolana ma spontaneamente felice, sposa quasi per caso Marguerite, già moglie di un musicista apprezzato per la sia figura esile e il suo incedere con il frac. Émile e Marguerite si sposano non per interesse: a nessuno dei due importa dei soldi dell’altro. Semmai, insinua Simenon, a muovere l’ex muratore verso la sfortunata erede di quello che un tempo era un apprezzabile patrimonio immobiliare è il desiderio di essere accettato, per la prima volta, in un certo ambiente, che a lui era parso sempre lontano. L’appartenenza a una classe sociale elevata non è elemento estraneo nella narrativa di Simenon. Spesso, nei suoi romanzi ma anche nelle inchieste del commissario Maigret, il meccanismo psicologico di un personaggio, che si considera o altezzosamente alto-borghese oppure rancorosamente popolare scatta e innesta reazioni che distanziano le persone da una routine normalmente tranquilla, sotto la quale tuttavia si cela la cenere del non dichiarato. I due coniugi del Gatto sono imbarazzati dall’improvvisa intimità matrimoniale, che rimane perciò teorica, solo di facciata. La freddezza e l’atteggiamento di dolorosa resa di lei fanno desistere il sanguigno Émile nel proseguire nell’avvicinamento dei corpi e delle menti. Il quadro si sporca quando l’uomo porta a casa Joseph, un gatto randagio. Lei, così affezionata a Coco, il suo pappagallo - quasi fosse un’ancora emotiva lo vede come una minacciosa intrusione. Gatto e pap-

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libri

Società

Ritratto

di coppia in un interno Marguerite ed Émile, un gatto e un pappagallo. Un matrimonio tardivo e infelice raccontato da Simenon di Pier Mario Fasanotti pagallo rappresentano aggressore e vittima. Oppure, in un’interpretazione metaforica, il randagio è il marito, l’uccello è lei, vittima perché è in gabbia, sia pure protetta dalle sbarre. Il giorno in cui il gatto sarà trovato stecchito in cantina, Émile pensa che l’abbia avvelenato lei, per vendetta. E, con un moto infantile e violento, si vendica contro il volatile in gabbia. Ecco che inizia una con-

vivenza ostile e ostinatamente muta: comunicano attraverso foglietti. Si scrivono accuse: «Hai un colore verdastro», «Fatti una doccia, puzzi». Guardano insieme la televisione, la sera. Lei lavora a maglia, lui sonnecchia dopo aver bevuto vino. Ogni tanto Émile estrae il suo taccuino, scrive una parola rancorosa, lo piega e lo lancia sul grembo della moglie. Spesso c’è scritto soltanto «il gatto», a ricordo di una viltà. Silenzio, sguardi furtivi. Émile teme di essere avvelenato da Marguerite, di cui spia il deperimento fisico la sera quando si spoglia, quindi compra una credenza con tanto di serratura: lì mette il cibo che si compra da solo. Lei farà altrettanto. «Una vecchia coppia sfiorita» dirà la gente. Lei esclude il divorzio perché cattolica, ma non smette di umiliarlo. Émile «non si sentiva vecchio; ma vedeva vecchia lei, più di sua madre che era morta a cinquantotto anni». Marguerite ha la pelle diafana, è gracile. Émile, all’epoca del goffo corteggiamento, pensava che «avesse il sorriso dolce e rassegnato delle donne dei calendari di una volta». Ma dopo l’avvelenamento del gatto, la giudica perfida: «Aveva sempre ragione lei. Era sicura di sé. Era certa di essere nel giusto…». Émile inevitabilmente ricorda la prima moglie, le gite domenicali, il loro gioioso rotolarsi sui prati, «la saliva della domenica che, quando si baciavano a lungo, sapeva di campagna». Marguerite arriva a forzare la situazione sbeffeggiandolo davanti a una donnetta invitata per il the. L’uomo si sottrae al destino di «animale domestico» umiliato, esce di casa.Va in una camera d’affitto, sopra l’osteria gestita da Nelly, vedova sensuale, e disponile con tutti. Ma non sarà lì a finire la sua vita: Marguerite compirà l’ultima velenosa recita. Simenon denuda i suoi personaggi: non c’è solo con il loro presente, ma le ombre del passato. Una poltiglia amarissima.

Se la vita è tutta un clic (un’analisi del mondo virtuale) e 800 milioni di individui non ne possono prescindere nelle loro relazioni sociali: se le rivolte contro le tirannie anziché le armi adottano le nuove tecnologie, se la metà della giornata degli utenti del primo mondo, dagli adolescenti brufolosi ai top manager, si dipana davanti a un display, vuol dire che il mondo virtuale è in larga parte reale». La prefazione a firma di Gianni Perrelli è l’ideale premessa per farsi catturare da Come pesci nella Rete, arguto saggio sui social network scritto a quattro mani da Marika Borrelli e Januaria Piromallo (Armando Editore, 286 pagine, 20,00 euro). Tra baci e colazioni virtuali, cappuccini imbevibili che montano in bacheca, tormentoni esilaranti ormai entrati nel glossario minimo della conversazione comune («Ti trovo su Facebook?» «Mi aggiungi?» «Ma perché mi hai cancellato?» «Mi hai tolto dalla lista, per caso?»), le autrici mostrano passo dopo passo la fitta interdipendenza tra relazioni reali e conoscenze virtuali. Entrambe blogger e giornaliste dotate di puntuta sagacia, la Borrelli e la Piromallo mettono in fila fatti e riflessioni in grado di rappresentare

«S

di Franco Insardà meglio i confini di una questione sociale, spesso dibattuta all’insegna di due opposti eccessi. Da una parte i misoneisti, i fieri oppositori del clic che snobbano la Rete e la reputano la culla di ogni futilità. Dall’altra gli ottimisti ad libitum, che magnificano Internet come l’ottava meraviglia del mondo. La terza via di Come pesci nella Rete, consiste invece nel descrivere esperienze e umori che gravitano intorno ai social network, senza rinunciare mai a una sapida ironia che rende ugualmente distanti da uno sfascismo intransigente e da ingenui alleluia. Appaiono naturalmente alcuni dei temi più scottanti che hanno consacrato la Rete a tema fisso dei nostri telegiornali: dalle rivoluzioni arabe, alle campagne elettorali di Pisapia e Moratti, ai falsi profili che hanno tratto in inganno anche giornalisti navigati, non ultimo il caso Passera e le finte liberalizzazioni annunciate urbi et orbi a insaputa del ministro. E altro spazio è dedicato a molti dei rivolgimenti sociologici innescati dai social network: l’impennata dei divorzi e quella dei matrimoni, il

Invadenza della Rete e rapporti sociali indagati con competenza e ironia da due addette ai lavori

furto d’identità e altri profili penali di alcune azioni del tutto inedite, che spesso hanno fatto ammattire la legge nell’ultimo anno. Al contempo, le più precise ricerche internazionali sul fenomeno rendono conto dei numeri dell’odierna way of living internettiana. Non mancano coloriti bozzetti dedicati alla politica che cinguetta su Twitter e Facebook, le simpatiche aberrazioni dell’italiano medio alle prese con anglismi come add me e share this, e ficcanti istantanee su giovani, coppie e lavoratori incappati per fortuna o sfortuna nei gangli assassini della Rete. Grazie a Facebook, ormai si viene lasciati e ci si fidanza, si viene assunti oppure licenziati, si recuperano amicizie perdute e se ne ritrovano altre per nulla gradite. Se ne ricava alla fine la sensazione di vivere oggi in quel racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, dove un gruppo di persone si era trovata a vivere all’interno di un singolo punto, con la conseguenza che sapevano tutto di tutti, tutti si conoscevano e nessuno era più libero di far niente. Un saggio che coniuga felicità di scrittura e scorrevolezza, e interroga tutti i cibernauti dell’evo moderno. Impegnati spesso a reinventarsi un’esistenza virtualmente diversa. Per riscoprirla uguale a se stessa, se non peggiore, nonostante una montagna di clic.


MobyDICK

Jazz

spettacoli

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Fabrizio Bosso, che ha collaborato, insieme ad altri illustri colleghi al nuovo disco di Dino e Franco Piana (foto in basso)

di Adriano Mazzoletti rchiviata Umbria Jazz di cui è doveroso ricordare uno splendido concerto del duo Flavio Boltro-Danilo Rea impegnati nella rilettura, nella cornice del Museo Greco di Orvieto, di alcune pagine operistiche, ecco giungere l’anteprima di un nuovo disco di Dino e Franco Piana che sarà pubblicato a giorni. I due musicisti astigiani hanno chiesto la collaborazione di alcuni colleghi fra i più qualificati, Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Enrico Pieranunzi, oltre al pianista Luca Mannutza, al sassofonista Max Ionata, Roberto Gatto e al contrabbassista Giuseppe Bassi con i quali hanno realizzato questo nuovo lavoro pubblicato da Alfa Music. Franco Piana, ancora una volta, dimostra le sue indubbie qualità di compositore e arrangiatore. In queste registrazioni la sua scrittura, per quattro strumenti a fiato e sezione ritmica, ricorda quella per grande orchestra. Il disco si apre con Open Dialogues, una suite in quattro movimenti di grande intensità, introdotta da Pieranunzi. Nella partitura, come Gil Evans quando scriveva per Miles Davis, anche Franco inserisce momenti liberi in cui i solisti possono sempre mantenere in vita quel bene prezioso del jazz che è l’improvvisazione dove Bosso usa la tromba e Franco il flicorno. Solo in Dark Eyes ambedue suonano lo stesso strumento. Fabrizio lo si ascolta nel primo assolo immediatamente seguito da Franco. Tutti i solisti hanno l’ambizione di soggiogare e affascinare l’ascoltatore, sottoponendolo a una tensione crescente. La sequenza dei tre assolo, in Assimetrico, con Bosso impetuoso, il cui timbro ricorda quello delle orgogliose trombe di Harlem dove l’idea iniziale si svilup-

A

Il bene prezioso

dell’improvvisazione pa continuamente sino all’estremo dell’ispirazione, Franco lirico, toccante che controlla l’emozione attraverso una severa disciplina, e Luca Mannutza che in questo disco dimostra capacità sorprendenti, danno vita a momenti di grande

Teatro

energia. Dino Piana è immediatamente riconoscibile oltre che per lo stile, anche per l’intonazione, il vibrato, l’attacco e la sonorità che in lui si fa vigorosa. Il suo stile così personale è ben in evidenza nelle parti improvvisate in Open, nel già citato Assimetrico dove prepara la strada a Max Ionata e agli altri, in A Song for my Kids in un serrato dialogo con Enrico Rava e nel veloce Walking Fast con uno straordinario Giuseppe Bassi. Pieranunzi si ascolta invece a lungo nel lirico

Sunlight, un altro di quei temi in cui Franco Piana dispensa a piene mai la sua sensibilità di compositore. Max Ionata è con Fabrizio Bosso il più giovane di questa All Stars. Con una importante carriera e un’altrettanto significativa discografia, ha già inciso in passato sia con Luca Mannutza che con Fabrizio Bosso al quale è legato da una vicinanza stilistica assai considerevole. Come Sonny Rollins ha l’arte di contrapporre le note passando dal registro grave all’acuto e di John Coltrane il timbro spietato e penetrante: questo sassofonista ha una spiccata personalità che lo pone molto in alto nel jazz italiano di oggi, così straordinariamente creativo.

Lavia e Pirandello, un colossal a 3D l pirandelliano Tutto per bene messo in scena da Gabriele Lavia, attuale direttore artistico del Teatro Stabile di Roma, ha debuttato pochi giorni fa, in prima nazionale, con alcuni giorni di ritardo rispetto alla data prevista, ma diciamolo subito: è un colossal. Dalla novella datata 1906 lo stesso Pirandello sviluppò nel 1920 il testo affidato all’arte attoriale di Ruggero Ruggeri. Una commedia di tradimenti e incomprensioni in cui la morte non pone fine a nulla; semplicemente il finto dialogo finalmente muta forma e diventa affannoso monologare. Il regista Lavia estrapola e promuove alcune zone del testo moltiplicandole, cambiando l’ordine originale di presentazione dei personaggi al pubblico a favore di un’amplificazione dell’interiorità del protagonista da lui stesso interpretato. Altresì crea un’ipotetica macchina del tempo visiva in cui nei momenti climax i personaggi restano intrappolati, costretti a retrocedere, ingoiati dal passato, poiché tutto è già avvenuto. D’impatto anche la materializzazione della sposa defunta in foggia d’angelica visione. Lavia schiera in campo anche una squa-

I

di Enrica Rosso dra di eccellenze. La scena elegantissima, formalmente ineccepibile di Alessandro Camera moltiplica i piani dell’azione in una successione di luoghi ossessivamente in bianco e nero in un raro equilibrio di piani verticali e orizzontali che tranciano i volumi immensi e tragicamente opprimenti dello spazio, assecondati e serviti egregiamente dalle luci di Giovanni Santolamazza che, a rendere più cupo e claustrofobico il luogo dell’azione, fa vivere e vibrare con particolare cura gli spazi fuori scena (la gigantesca vetrata che fa da sfondo e che non smetterà di palpitare all’unisono con le emozioni degli interpreti, ma anche le due lame di luce che inondano la scena dagli ingressi laterali: due punti di fuga che costringono il vissuto imploso, all’interno del quale ogni personaggio cova il proprio tangibile, ostentato, risentito disagio). Le musiche composte da Giordano Corapi frammentate da tuoni, accrescono ulteriormente il senso di precarietà emotiva dei personaggi. Tutti sfarzosamente vestiti dagli accurati abiti di

Andrea Viotti. Ma nulla vale la profonda bellezza della scrittura scevra da pietismi e di lunare grazia che a conclusione del secondo atto, a seguito del dolorosissimo confronto tra il consigliere di stato Martino Lori e la di lui presunta figlia Signora Palma Lori stigmatizza così il loro rapporto: «Nulla tu per me, nulla io per te, più nulla. E se sapessi come lo sento adesso, tutt’a un tratto, che sono tanti anni, di questo nulla!». La parte meno felice dell’operazione curiosamente riguarda la mancata forza esecutiva dei pur valorosi interpreti. Come se il regista avesse, in un certo senso, sposato e spinto la scelta interpretativa di tutti i personaggi a correre e a bruciare le battute senza renderne la vita interiore, mancando quindi l’appuntamento con il sottotesto qui, più che altrove, fondamentale. L’unico a non essere soggiogato da quest’incantamento è proprio Lavia che assurge automaticamente alla

tridimensionalità laddove il resto della compagnia uniformemente vacilla. Segnaliamo anche la virtuosa iniziativa per opera dei volontari dell’Associazione nazionale sordi che si fa carico di tradurre nel linguaggio dei segni il testo agito in palcoscenico per i non udenti presenti in sala. All’anteprima applausi scroscianti per tutti.

Tutto per bene, Roma,Teatro Argentina, fino al 10 febbraio, info: tel. 06 684001 www.teatrodiroma.it


Essere & Tempo

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om’è giusto che sia, a tre mesi dalla morte (il 5 ottobre scorso) Steve Jobs è quasi scomparso dalla circolazione mediatica. Tutti conoscono la sua avventura scritta e riscritta in tutti i modi, pubblicata e allegata a puntate ai quotidiani. L’instant book su di lui stampato in Italia da Mondadori (Steve Jobs), in realtà era in preparazione da due anni ed è basato su una quarantina di interviste eseguite da Walter Isacsson; è stato pubblicato in anticipo per sfruttare commercialmente il decesso. Jobs avrebbe fatto lo stesso. Passata la turbolenza, oggi, si scorge appena, nell’angolo di qualche libreria, la sua foto sulla copertina di un libro che è già in saldo (a tra poco il film; d’altro canto non ne hanno fatto uno su Zuckerberg che con Facebook ha inciso meno nella recente storia tecnologica?). E allora perché andare controcorrente ri-parlando di Jobs? Per l’irritazione che ha causato quella sua frase ripresa da tutti come detta da un capo religioso (vabbè, messianico lo era, oltre che scorbutico). Stay hungry, stay fool, una citazione presa dal motto del The Whole Earth Catalog, una serie di pubblicazioni che dal 1968 per un certo periodo diffusero una cultura liberal e alternativa. Ma dette dal guru Mac, tutti a seguire quelle parole, prenderle come esempio e interpretarle. (Siate affamati siate folli dà ora il titolo a un libro Rizzoli uscito a cura di George Beahm, dove il patron della Apple viene raccontato «in parole sue», ndr). Sì, ha detto hungry, ma mica che voleva proprio dire «affamato», era più avido di conoscenza, come dire «curioso»…

MobyDICK

ai confini della realtà

C

E poi quel fool, non era folle, no, è troppo semplice, intendeva «sognatore»… Invece, Jobs voleva proprio riferirsi ai crampi del suo stomaco e a qualche rotella fuori posto. La fame riguarda un periodo di cui l’autore si è spesso vantato. Erano i tempi dell’università quando per evitare di incidere sulla pensione dei suoi due genitori adottivi, lasciò il Reed college (in seguito chiamerà il figlio con questo nome) e rimase senza soldi. Restituiva lattine per 5 cents l’una, camminava per 10 km per un pasto caldo al tempio Hare Krishna. Pare che si aggirasse famelico per la città di Portland in Oregon e scroccasse cibo e divani su cui passare la notte a casa di amici. Per non pesare troppo su di loro, li alternava e questo richiedeva lunghi trasferimenti a piedi durante i quali pensava molto e gli venivano le idee migliori. Questa perlomeno è la sua versione ufficiale. Naturalmente a posteriori ricordava quei tempi come eroici. Magari, come tanti della sua età non aveva voglia di studiare ma volle dare una certa nobiltà alla sua decisione. Rimase però come uditore per un anno e mezzo, avvicinandosi nel frattempo alla controcultura sessantottina a base di Lsd, altre sostanze, viaggio rituale in India e così via. Domanda: quanti di quelli che

Curiosità e follia

non fanno il successo di Leonardo Tondo hanno fatto scelte simili, ne sono poi saggio venne declamato con tanto di così contenti? Tutta la sua fortuna gli toga, invece della tradizionale divisa: piombò addosso per caso. Intanto, l’in- jeans e maglia nera. È paradossale che contro nel 1976 con il meno imprendi- in una delle più prestigiose istituzioni toriale, ma più tecnologicamente dota- americane si possa in pratica consito, compagno di liceo Stephen Woz- gliare, contro tutte le statistiche ameriniak, detto il mago di Woz (la vera cane (da noi è un’altra storia), che non mente dell’invenzione del nuovo com- è necessaria un’istruzione universitaputer e quello che mise insieme il pri- ria quando le probabilità di trovare lamo e il secondo voro prima della Apple), la cui malaurea breve sono dre, peraltro, fu infinitamente inquella che seferiori rispetto a gnalò ai due rauna persona che gazzi un sistema l’abbia conseguiper telefonare ta. Steve Jobs sarà gratuitamente (e stato anche un geillegalmente). nio, quello che Con la vendita di come è stato scritqueste scatole da to su un famoso tweet - ha toccato appoggiare al miil brutto mondo crofono, i due midella teconologia sero insieme seie lo ha fatto divenmila dollari con tare bello, ma il facui iniziarono la moso motto è anloro attività che dato bene per lui passò di successo perché aiutato da in successo fino una serie di circoai recenti iPod, stanze favorevoli. iPhone, iPad. SolIl 99,99% di quelli tanto dal 1977 al che hanno seguito 1981, le vendite quel consiglio (anpassarono da due che senza conomilioni di dollari “Be hungry, be fool”... scerlo) sono finiti a seicento. Un’aA guardar bene sotto un ponte. scesa mai vista. Una formula post Wozniak lasciò le parole hoc è facile, ma Apple nel 1987 e del patron della Apple troppo spesso falnon rimase in diventate Verbo, limentare. Si fa buoni rapporti presto a prendere con il suo più faraccontano una storia moso ex-amico. A il personaggio di diversa, fatta anche pensare male, è super successo di fallimenti, precarietà, possibile che gli che ha lasciato un screzi siano stati patrimonio da otdroga. A tre mesi causati dal narcito miliardi di doldalla morte, detti lari e raccontare sismo di Jobs. e contraddetti intorno come ci è riuscito. Per tornare a faSe si volesse dare me e follia, il mesa Steve Jobs

un quadro serio, si dovrebbero prendere tutti quelli che hanno abbandonato gli studi, affamati o curiosi, folli o sognatori e vedere quanti di loro sono arrivati a un successo anche straordinariamente più modesto.

Il suo vero punto di forza era un altro e, quello sì, dovrebbe essere seguito: Steve Jobs era uno che capiva la gente al volo, che sapeva quello che voleva lui e ciò che volevano gli altri tanto da fargli dire: «Non spetta al consumatore sapere quello che vuole». Inoltre, sapeva circondarsi della migliore gente possi-

bile che riusciva a spronare e incoraggiare, criticare e se necessario umiliare. Altra ricetta che dovrebbe essere tenuta presente da genitori e insegnanti e che conoscono bene gli imprenditori grandi e piccoli che abbiano interesse a mandare avanti un’azienda, per il vantaggio di tutti. Inoltre, l’alchimia Apple è stata costruita sull’ossessiva insistenza sui dettagli più minuscoli, la testardaggine, la tenacia e la pazienza. Si dice che nel corso di un anno Jobs gettò via due prototipi di iPhone prima di approvare quello definitivo (per il momento). A queste suoi tratti c’è da credere, altro che fame o curiosità e follia. Ma si sa tutte le volte che si elogia la follia (almeno Erasmo lo faceva con ironia) si levano scudi a favore della libera espressione e contro la psichiatria. E tutti applaudono (l’articolo è stato scritto su un Apple PowerBook).


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Giungla retributiva: l’attualità di Ugo La Malfa sugli alti emolumenti IL FUTURO DI POTENZA C’è ancora molto da fare per rendere la nostra città moderna, accogliente, con servizi pubblici migliori e rilanciarla nel ruolo strategico di città capoluogo al servizio dell’intera regione. La partecipazione e la condivisione nelle scelte da operare devono ritornare centrali nei processi decisionali, e nessuno deve poterli vivere con estraneità e indifferenza. Bisogna pensare al futuro della città, aprendo un dibattito serrato con tutti coloro che hanno contributi e idee da formulare. Il progetto dei sottopassi a Rione Risorgimento, avanzata dal Circolo tre anni fa, costituisce un esempio da imitare e da ripetere per altre questioni aperte, spalancando le porte a tutti i professionisti della città, che spesso portano in dote ad altri contesti regionali il loro potenziale creativo. La proposta dei sottopassi, che oggi è stata fatta propria dal Comune e che ha ricevuto un finanziamento importante dal Cipe, potrà permettere un decongestionamento del traffico e il potenziamento della metropolitana leggera. Stessa cosa dicasi per quanto concerne la nostra seconda proposta, quella della realizzazione di un centro sportivo polivalente nella zona G: opera essenziale per lo sport, il tempo libero e l’aggregazione dei giovani e delle tante famiglie di Potenza. Speriamo che la politica cittadina sia più responsabile poiché in gioco non vi è solo il futuro di un’area in forte sviluppo, ma la vivibilità complessiva della città. Altre nuove proposte che sosterremo sono la riqualificazione dell’ex cip-zoo; avanzeremo proposte per migliorare il centro storico della città ridotto al lumicino; suggeriremo idee riguardo alle energie rinnovabili accessibili per tutti; daremo consigli per il completamento delle reti di connessione e per la valorizzazione di siti che devono tornare accessibili anche a fini turistici (Villa Romana in primis). Infine, riconfermeremo il nostro impegno non solo per le tematiche più squisitamente culturali ma - anche e soprattutto - per quelle a sfondo sociale. La famiglia, la prevenzione, il ceto medio, il disagio giovanile, le difficoltà dei più deboli, continueranno ad essere al centro delle nostre attenzioni. Enzo Fierro CIRCOLI LIBERAL POTENZA

Le recenti notizie delle alte retribuzioni dei dipendenti del Parlamento nazionale fa tornare alla memoria un episodio di trentasei anni or sono, e più esattamente del 13 settembre 1975, quando Sandro Pertini si dimise da Presidente della Camera a seguito delle critiche espresse da Ugo La Malfa sulle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato, che testimoniavano l’esistenza di una ingiusta“giungla retributiva”. È evidente che non è cambiato molto da allora se il problema si ripropone. Le continue sortite di Ugo La Malfa in difesa della economia nazionale non erano molto gradite a certa stampa che lo chiamava - con intento dispregiativo - “Cassandra”, dimenticando che i fatti avevano dato ragione alla Cassandra troiana. Altro episodio dimenticato dai più, perché forse è vero che siamo un popolo dalla grande storia e dalla corta memoria, è quello della rinuncia fatta dal grande Ugo il 2 marzo 1979, dopo poco più di una settimana dall’incarico di formare un nuovo governo conferitogli dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini, perché era mancata al partito di maggioranza relativa sia la visione di un moderno progetto per il futuro che il coraggio di rischiare una breve impopolarità, elementi questi indispensabili Luigi Celebre che qualificano positivamente gli “Statisti”.

QUOZIENTE FAMILIARE E BENE COMUNE Il Comune di Parma ha purtroppo deciso di sospendere il Quoziente Familiare, ossia il sistema messo a punto negli ultimi anni dalla precedente amministrazione per calcolare tasse e tariffe comunali in base al numero dei figli o dei componenti e carichi familiari. Il Quoziente Familiare “Parma” ha una concezione che è esattamente opposta al classico Isee. Nell’Isee i carichi familiari hanno una dinamica di tipo decrescente, mentre nel Quoziente Parma progressivamente crescente, ossia ad ogni componente o figlio in più viene riconosciuta una aliquota maggiore. Ciò ha lo scopo di incentivare l’unità e la solidarietà familiare e soprattutto la natalità. In una parola l’Ente pubblico investe risorse sulla Famiglia, perché la Famiglia, ed è qui il punto, è una risorsa di interesse pubblico. L’obiezione che normalmente viene fatta al Quoziente Familiare è di non essere equo per il suo carattere universalista e che l’aiuto pubblico dovrebbe essere impostato su politiche assistenziali mirate esclusivamente alle fasce più deboli della popolazione, cioè alle famiglie povere. Questa obiezione, che viene principalmente dagli ambienti della Sinistra, confonde ancora una volta le politiche di lotta alla povertà, di assistenza sociale, con le politiche familiari che sono di incentivo e basate sugli sconti tariffari, che

invece hanno carattere universalista. Sono due “voci”che vanno assolutamente distinte, anche se ugualmente importanti. La politica di lotta alla povertà infatti non può essere fatta con “sconti”. Per un povero pagare una bolletta 80 euro invece di 100 euro, non gli cambia la vita. Un povero non ha né i 100 né gli 80 euro. Il povero ha bisogno di essere aiutato “di peso”, con politiche assistenziali complessive e coordinate che lo facciano uscire dallo stato di indigenza. Altra cosa invece sono le politiche familiari, che non sono di diretta lotta alla povertà (se non indirettamente come prevenzione) ma che, basate su sconti tariffari hanno lo scopo di far rimanere più soldi in tasca anche alle famiglie del ceto medio non povere, e fungano quindi da incentivo per la natalità e facciano nascere il desiderio, ad esempio, in chi ha due figli di cercarne un terzo. L’obiettivo dunque delle politiche familiari è prima di tutto l’interesse che lo Stato ha ad un incremento di una natalità che vede l’Italia agli ultimi posti nel mondo. Dobbiamo uscire dalle falsità neo-malthusiane che vedono nel decremento della popolazione un aumento della ricchezza pro-capite. Ciò è stato smentito da numerosi studi scientifici. Un solo esempio. Se cala il numero dei figli, dei giovani e quindi dei lavoratori, i quali versano contributi alla previdenza, non possono essere pagate più le pensioni. Se

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Cane in visita alla padrona in ospedale Una donna di Varese, ricoverata in ospedale con gravi patologie, potrà ricevere la visita del suo cane. Lo ha deciso il giudice tutelare Giuseppe Buffone che nella sua sentenza ha sancito che il «sentimento per gli animali costituisce un valore e un interesse a copertura costituzionale». La donna aveva chiesto al personale della clinica di poter vedere il suo animale, ma aveva ricevuto risposta negativa. Non si è arresa e si è rivolta alla magistratura. E la decisione è arrivata, a firma del giudice Buffone, che dà ragione alla signora. Le motivazioni sono legate alla «evoluzione dei costumi», al cambiamento della «coscienza sociale», al rispetto di «tutte le creature viventi». Ecco dunque che la magistratura riscrive le regole dell’ospedale e stabilisce un precedente. «In base all’evoluzione della coscienza sociale e dei costumi, il Parlamento» ritiene «che un tale sentimento (il riferimento è a quello per gli animali) costituisse oramai un interesse da trarsi dal tessuto connettivo della Charta Chartarum». Considerazioni condivisibili che rispecchiano l’evoluzione dei comportamenti e dei rapporti tra l’uomo e gli animali da compagnia. Peccato che in Italia sia necessario ricorrere a sentenze di tribunali per vedersi riconosciuti tali diritti.

prima c’erano “tre nipoti” che con i loro contributi pagavano la pensione a “un solo nonno”, ora c’è “un solo nipote” che con i suoi contributi deve pagare la pensione a ben “tre nonni”. Non ci sono più soldi per pensioni decenti ed è questo il motivo per cui in tutto il mondo i governi cercano di procrastinare il raggiungimento dell’età pensionabile il più tardi possibile. Una maggiore natalità garantisce inoltre la conservazione del patrimonio culturale dell’Italia. Non si può infatti considerare come scelta ottimale che il problema natalità ce lo risolvano gli immigrati. Non voglio teorizzare una sorta di “autarchia demografica” ma non cadiamo nel rischio opposto che vede gli italiani oramai rassegnati ad essere una popolazione vecchia o in via di estinzione. E se allo Stato conviene il ripristino ormai inderogabile di una natalità ottimale, il Quoziente Familiare “Parma”, sperimentato nella nostra città, va dunque difeso e semmai esteso.

Glauco Santi

LA FORZA DI COMBATTERE IL MALE

APPUNTAMENTI GENNAIO VENERDÌ 27 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal

LE VERITÀ NASCOSTE

Spirale blu Un turbinio di gas cosmici si muove all’interno di Abell 2052, un ammasso galattico situato a 480 milioni di anni luce dalla Terra. Le immagini di colore blu mostrano le spire dinamiche di questi gas, quelle in oro le galassie. L’enorme spirale blu si è formata quando un piccolo cluster di galassie è andato a collidere con una galassia più grande, non lontana da quella ellittica al centro della foto

Quando ti diagnosticano un tumore, la vita cambia. Ci sono persone rinunciatarie, che si deprimono e addirittura non vorrebbero curarsi. Il male le vince prima se possibile. C’è chi invece cerca di continuare a vivere normalmente, si cura con terapie talvolta molto pesanti, lavora e trova proprio in ciò a cui ha sempre rivolto la sua energia e la sua passione la forza per guardare avanti, per porsi dei nuovi obiettivi, delle nuove mete da raggiungere. Questo abitua a convivere con un male così forte, così invadente, come quasi sempre è un tumore. Davanti c’è la speranza che la malattia diventi cronica come purtroppo poco spesso ancora accade. Il destino e lì dietro l’angolo pronto a regalarti qualcosa oppure a non farti nessuno sconto.

Alessandro Bovicelli


il reportage

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Per noi sono solo colf e operai. Ma per l’esercito di “orfani bianchi” sono madri e padri scomparsi. Un’assenza che porta anche al suicidio

I figli dell’emigrazione In Romania 350mila bambini crescono senza genitori. Partiti per lavorare di Cristina Bezzi econdo le stime Unicef sono 350.000 in Romania i bambini con uno o entrambi i genitori all’estero per lavoro. Mentre madri e padri sono in Italia, Spagna e Francia per contribuire ad un bilancio famigliare altrimenti impossibile, loro vengono accuditi da zii, nonni o altri parenti. A volte vivono praticamente soli, magari affidati a qualche vicino di casa. Anche a seguito di recenti e drammatici fatti di cronaca, al destino di questi “orfani bianchi”, così vengono chiamati, si inizia a prestare sempre più attenzione. Ci siamo recati nella Moldavia romena – nordest della Romania, una regione tra le più povere del Paese e quindi più colpite dal fenomeno migratorio – accompagnati dai volontari dell’Albero della Vita, Onlus impegnata nella tutela e salvaguardia dei diritti dei bambini.

S

to dall’affollata autostazione di Iasi, principale città della Moldova romena, alle 6.30 del mattino con il minibus che ogni mattina accompagna gli insegnanti della scuola media ed elementare del paese al lavoro. Trascorso un primo pezzo di superstrada svoltiamo su una strada bianca che ci porta dalla veloce e moderna città a Liteni, paesino a circa 50 chilometri da Iasi dove il 30% dei 2.200 abitanti lavora all’estero. «In realtà sono molti di più», spiega il sindaco, Petras Constantin, perché molti continuano a rimanere registrati all’anagrafe pur non vivendo più nel paese».

Qui il ritmo è ancora scandito dalle stagioni e al posto delle macchine che hanno oramai invaso la città, la gente si sposta utilizzando carretti di legno trainati da cavalli. Tutt’intorno

Monica aveva 10 anni e un’immensa nostalgia della mamma. Ma lei non poteva tornare. Alla fine ha smesso di mangiare ed è morta. Lo choc è stato fortissimo in tutto il Paese L’economia della zona è basata prevalentemente su un’agricoltura di sussistenza che, già fragile, è stata messa in ginocchio dalle alluvioni che nel 2008 hanno colpito l’intera area. Molti hanno dovuto considerare la migrazione, per poter far fronte ai bisogni familiari. E sono partiti per periodi più o meno lunghi, lasciando i figli a casa. Par-

distese di campi in passato coltivati da un’azienda agricola di stato, restituiti poi negli anni ’90 ai vecchi proprietari. L’attività agricola è la principale occupazione delle persone che vivono nel paesino di Liteni; in questo periodo uomini, donne, vecchi e bambini sono impegnati nella raccolta del mais e il paese, nelle prime ore del pomeriggio, è

attraversato da carri carichi di pannocchie seguiti da intere famiglie che tornano verso casa. È proprio l’immagine di un cavallo che rimane bloccato dal peso esagerato del carro davanti al cancello di un’enorme e moderna villa in costruzione che mette in risalto la doppia identità del luogo. La vita del villaggio procede con il suo antico ritmo di campi arati dal cavallo, giornate che iniziano con il sorgere del sole e terminano con il suo tramonto, ma accanto alla strada bianca e polverosa si innalzano case modernissime quasi tutte non intonacate, che stanno sostituendo le piccole abitazioni tradizionali dai caldi colori pastello. Dietro ad ogni casa nuova o in costruzione c’è una storia di migrazione. Lo stile delle costruzioni spesso racconta anche la storia di quella migrazione, co-

me osserva Gheorghe Moga, direttore della scuola del paese: «Se osservi le caratteristiche delle case puoi capire anche dove le persone sono emigrate». Da Liteni le persone si sono dirette principalmente in Italia, Spagna, Francia e in misura minore in Germania.

Entriamo nella prima elementare con la maestra Ileana, i bambini le si fanno attorno e la stringono forte in abbracci. «Manifestano così la loro carenza affettiva», mi spiega. Ileana chiede quanti di loro hanno un genitore all’estero, più della metà dei circa venticinque bambini alza la mano, la maggior parte ha la mamma lontana; nel villaggio questa è la normalità. Ileana stessa è tornata in paese solo per alcuni mesi, in realtà lavora in Italia già da due anni e a breve ritornerà lì per accudire una persona anziana. «Nel 2009 c’è stata un’ ulteriore riduzione degli stipendi per coloro che lavorano nel pubblico, tutti gli stipendi sono stati ridotti del 25%, se prima prendevo circa 300 euro, dopo il 2009 lo stipendio è arrivato a 250. Ho una figlia che sta studiando a Iasi al liceo, solo per il vitto e l’alloggio devo pagare 100 euro al mese più tutte le altre spese. Mio marito lavora la terra, non ha un salario fisso e trovare lavoro qui è molto difficile. Semplicemente, se io non fossi partita non ce l’avremmo

fatta». Cerco un posto dove potermi risciacquare le mani, Maria, una ragazza di 14 anni, mi sorride e si offre di aiutarmi. Mi guida verso il pozzo azzurro proprio di fronte alla scuola; il villaggio infatti non è dotato di acqua corrente. Maria stringe forte la catenella del secchio alla corda e con movimenti decisi inizia a calare. Maria è molto curata e sembra essere serena nonostante l’assenza del padre e la distanza della madre partita per lavorare in Italia quando lei aveva otto anni. Vive con gli zii e i cugini, sembra capire i motivi per cui la madre è lontana, ma parlando con lei hai l’impressione di rivolgerti ad un’adulta responsabile più che ad un’adolescente. Spesso sono le mamme a partire perché in questo periodo è più facile per una donna trovare lavoro. Dopo l’entrata della Romania nell’Unione Europea (2007), il flusso migratorio femminile è andato aumentando, mentre in seguito alla crisi economica sono stati molti gli uomini a rimanere senza lavoro e a tornare in Romania. A Liteni ci sono diverse donne che lavorano, principalmente in Spagna ma anche nel sud Italia. Maria parte per circa 3-4 mesi all’anno, non vuole prolungare di più la sua assenza perché ha due bambini di 7 e 9 anni. Suo marito aveva lavorato per un periodo in Germania, ma negli ultimi anni non è più riu-


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rato in cui ha indagato le conseguenze causate dalla lontananza dei genitori, utilizzando un approccio che tiene in considerazione il punto di vista del bambino: «Non sono le cose materiali di cui hanno bisogno ma la presenza dei genitori, la possibilità di discutere con loro. Spesso i bambini non vengono coinvolti nella decisione dei genitori di partire; la loro impressione è che non possono chiedere aiuto a nessuno per risolvere i loro problemi».

I bambini vengono accuditi dal genitore rimasto o da una zia, altre volte dai nonni, nei ca-

Il progetto Children’s Rights Il progetto di ricerca finanziato dalla Commissione Europea “Children’s rights in action. Improving children’s rights in migration across Europe” è coordinato dalla fondazione L’albero della vita di Milano e vede come partner la fondazione Ismu, l’Università di Barcellona, la Fundaciò Institut de Reinserciò Social e l’associazione Alternative Sociale di Iasi. Scopo del progetto è analizzare le condizioni dei bambini romeni coinvolti nel processo migratorio familiare, in Romania, Italia e Spagna e sviluppare delle buone prassi per ridurre la loro condizione di vulnerabilità.

scito a trovare lavoro. Come lui anche Vasile, un 42 enne di Liteni, è rientrato dopo aver perso il lavoro all’estero. Ha lavorato come manovale a Torino per ben 7 anni, ma ultimamente faceva fatica a trovare un impiego ed inoltre spesso i datori di lavoro non lo pagavano: «Succede spesso, lavori per mesi e poi il datore non ti paga e quindi alla fine ho cercato un posto per mia

moglie come badante. Adesso lei è lì».

Vasile e la moglie hanno quattro figlie: sei, otto, dieci e quattordici anni. Attualmente è lui a prendersene cura; ha dato la sua terra in affitto per poter seguire le figlie e le faccende di casa. A breve però desidera tornare a Torino dove spera di trovare nuovamente lavoro e lascerà le figlie in custodia alla sorella. La sua idea è quella un giorno di rientrare definitivamente in Romania, ma non riesce ad immaginare quando: «Fino a quando le figlie non saranno grandi saremo costretti a lavorare all’estero. Qui la gente vive di ciò che produce la terra, non ci sono posti di lavoro, sarebbe necessario andare in città ma anche lì è difficile e un salario medio, di circa 250 euro, non è comunque sufficiente a far sopravvivere una famiglia».Vasile alza lo sguardo e mi mostra con orgoglio la casa che stanno costruendo attraverso le rimesse, anche se non è finita a breve potrà trasferirsi lì a vivere con le figlie. In lontananza la sua casa non intonacata si confonde con le pareti grige di numerose altre case. Ma sarà possibile per gli abitanti di Liteni tornare un giorno a vivere stabilmente nel loro paese? Come spiega lo psicologo Luca Catalin, direttore dell’associazione Alternativa sociale, la prima in Romania ad

I sintomi di un bambino rimasto solo, dicono gli psicologi, sono facilmente riconoscibili: permanente stato di insoddisfazione, ansia e depressione. Questa patologia è chiamata “sindrome Italia” occuparsi dei bambini soli a casa, il fenomeno non è nuovo in Romania: «Durante il comunismo ci sono state diverse generazioni di bambini che sono cresciuti da soli, poiché ambedue i genitori lavoravano tutto il giorno. Questi bambini sono conosciuti come la generazione dei “bambini con la chiave al collo”, perché passavano le giornate davanti al block con la chiave di casa appesa al collo, in attesa che i genitori rientrassero. Questa stessa generazione è quella che oggi emigra e lascia i figli a casa pensando che, così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale, proprio perché anche loro sono stati abituati alla distanza emotiva e a volte anche fisica dai genitori». L’Associazione Alternative Sociale di Iasi ha iniziato ad occuparsi di questo fenomeno impegnandosi attraverso campagne di sensibilizzazione e di informazione per i genitori, attività di prevenzione e counseling per i minori e proposte di legge per la tutela dei minori rimasti soli a casa. Luca Catalin ha recentemente concluso la sua ricerca di dotto-

si più gravi da un vicino o da un fratello maggiore. La mancanza di supervisione da parte dei genitori spesso pregiudica lo stato di salute del minore che tende a non nutrirsi regolarmente, peggiora l’apprendimento scolastico e può determinare soprattutto tra gli adolescenti la frequentazione di entourage negativi. Dal punto di vista psicologico le conseguenze possono andare da una disposizione alla depressione fino ad arrivare nei casi più estremi al suicidio. Lo scorso settembre ad Arad, Romania occidentale, è morta Monica, una bambina di dieci anni che a causa della nostalgia della madre, che lavora in Spagna, ha smesso di alimentarsi fino a che i suoi organi non hanno più retto. Il caso di Monica, ha creato un grande scandalo. La madre è stata demonizzata assieme a tutte le madri che partono «senza preoccuparsi abbastanza dei loro figli». Davanti a questo caso anche i politici hanno mostrato un cenno d’interesse tanto che il parlamentare Petru Callian ha proposto un disegno di legge che prevede una multa per i genitori che lasciano il

Paese senza aver affidato i figli ad un legale rappresentante. Come spiega Alex Gulei, assistente sociale di Alternativa Sociale, in Romania esiste già una legge che obbliga i genitori a nominare un tutore legale prima di partire per l’estero, ma poiché non è prevista nessuna sanzione, quasi nessuno si preoccupa di farlo. È il caso di Nicu un ragazzino di nove anni, che partecipa al programma del centro diurno Don Bosco della Caritas di Iasi. La mamma è partita per l’Italia quattro anni fa e quindi vive con la nonna settantenne e la sorellina di sei anni. Da anni Nicu dovrebbe sostenere un’operazione chirurgica molto delicata, ma non può farlo perché per questo sarebbe necessaria la firma della madre che è la legale rappresentante del figlio, ma che è da anni che non si mette in contatto con loro. La nonna sta pensando di far togliere per abbandono la rappresentanza legale alla madre per ottenerla lei, cosicché il piccolo Nicu possa essere operato, la sua paura è però che non le restino molti anni di vita e che se lei morisse il nipotino sarebbe affidato ai servizi sociali. Le conseguenze psicologiche ed emotive della privazione dell’affetto materno e paterno sono un prezzo altissimo pagato dai minori romeni le cui famiglie sono coinvolte nel processo migratorio. Purtroppo spesso anche per chi segue i genitori nel Paese di accoglienza il processo di adattamento è lungo e non sempre facile. In molti casi tra l’altro accade che il minore rientri in patria con o senza la famiglia subendo un ulteriore fase di adattamento. La tutela dei diritti dei minori coinvolti in processi di migrazione è complessa e non può che passare attraverso un approccio che coniughi il livello locale a quello nazionale ed europeo. Un primo passo in questa direzione è l’analisi delle loro condizioni di vita e l’individuazione di buone prassi per ridurre la loro vulnerabilità. www.balcanicaucaso.org


il saggio

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«Basta pensare che si possa sconfiggere il fondamentalismo con il dialogo. Non è così. E la Storia lo ha già dimostrato»

Guerra al totalitarismo L’islamismo è un’ideologia. E pur di farla vincere molti regimi si alleano con la sinistra estrema di Michael Ledeen uando ero giovane e vivevo a Roma, l’argomento principale di conversazione era il comunismo. L’Italia aveva il più grande partito comunista dopo l’Unione Sovietica, un partito che era sempre sul punto di diventare il più grande partito d’Italia. Anche se i grandi professoroni delle università americane ed europee non vedevano l’ora che l’Occidente perdesse la sua «smisurata paura del comunismo» (una frase coniata dall’allora consigliere alla Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski e pronunciata da Jimmy Carter in un infelice discorso a Notre Dame all’inizio del suo primo e ultimo mandato), la maggior parte degli italiani che conoscevo erano molto preoccupati (a loro toccava subirlo, mentre gli intellettuali americani potevano starsene al sicuro negli Stati Uniti a commentarlo). E mentre molti intellettuali parlavano dell’arrivo di un “comunismo dal volto umano”, chiunque nel Belpaese sapeva che un’Ita-

Q

lia comunista non sarebbe stata dissimile dall’Urss. Allora – stiamo parlando della fine degli anni Settanta – l’argomento scottante era “l’ Eurocomunismo”. Un numero sorprendente di accademici era convinto che i comunisti occidentali, come gli italiani, potevano essere democratici, proNato e addirittura anti-sovietici. Lo sfortunato “Zbig” era uno di questi, come lo erano quasi tutti gli “studiosi” di Harvard riuniti attorno a Stanley Hoffmann.

Quelli fra di noi che conoscevano i Comunisti Italiani di prima mano (il quartier generale del partito locale era a pochi passi da noi e li conoscevamo tutti) erano più restii a farsi incantare, e quando l’editore del Washington Post e uno dei suoi giornalisti di spicco, James Hoagland, venne a Roma per elogiare il leader comunista Enrico Berlinguer, restammo sbigottiti. Un mio caro amico, il brillante filosofo (ed ex comunista) Lucio Colletti, era

solito spiegarne l’essenza in maniera molto chiara: «Il comunismo non può essere riformato. O ce l’hai o non ce l’hai. Se l’Unione Sovietica si riformasse realmente, sarei pronto ad ammettere di aver fallito i miei studi sull’argomento». Ero d’accordo, e così scommettemmo con coloro che ritenevano possibile sia una via democratica al comunismo che un governo Nato affidabile sotto la guida del Pci. Anni dopo, vinsi tantissime cene quando l’impero sovietico crollò e il partito comunista italiano collassò nelle sue ceneri. Lucio Colletti, che era stato nel partito per molti anni, capì che il sistema totalitario non poteva essere cambiato. O ce l’hai, o non ce l’hai; non puoi umanizzarlo, perché la sua essenza è l’eliminazione della libertà e il controllo totale su coloro che cadono nel suo raggio. E così è stato. Il comunismo è stato sconfitto, non riformato.

Il che ci porta al “sermone” odierno, che analizza tre temi principali: il primo: quelli che sostengono che il più virulento movimento totalitario contemporaneo – il radicalismo islamico – possa essere riformato e democratizzato non conoscono nè la Riforma nè l’Islamismo. Il secondo: il totalitarismo è ciò che unisce i musulmani radicali e i radicali di sinistra. Quelli che si continuano a meravigliare di tale connubio è meglio che facciano un corso di aggiornamento sui movimenti di massa del Ventesimo secolo. Il terzo: la lotta per la libertà è sia nazionale che globale e noi dobbiamo sconfiggere tutti i nemici totalitaristi, dall’Iran islamista ai radicali di sinistra del Nicaragua. Perché si tratta di un’unica guerra. Mondiale. Riformare l’islam radicale è un’illusione. Perché quest’ultimo ha un solo obiettivo: dominare o distruggere tutti coloro che non accettano il dogma islamista. Non si tratta – come suggeriscono al-

Alla fine degli anni Settanta tanti intellettuali erano convinti che i comunisti occidentali, come gli italiani, potessero essere democratici, pro-Nato e addirittura anti-sovietici cuni – di un precetto seguito solo con i non musulmani, tutt’altro. Questa regola si applica anche contro quei musulmani che credono in una versione diversa del precetto sacro (e infatti gli apostati generalmente sono odiati ancor più intensamente dei non credenti). Esistono diverse varianti nella “shari’a” e gli islamisti radicali non tollerano alcun allontanamento dalla loro versione, non più di quanto Stalin tollerasse Trotsky o Bukharin o Lovestone, o di quanto i cattolici francesi tollerassero gli ugonotti o i luterani gli Anabattisti, o Hitler le Sturmabteilung. Molti di quelli che parlano di una “Riforma Islamica”sembra-

no dimenticare (se mai lo hanno saputo) che la Riforma non è stato un momento di confronto e conversazione, ma uno dei momenti più sanguinari della storia europea. Sebbene sia importante demolire il pensiero del male rivolto contro di noi e contro la nostra società libera, non si possono convertire i fanatici “conquistando cuori e menti”, o dimostrando loro “gli errori che fanno”. Gli utopisti reprimono o uccidono senza esitazione coloro che si avvicinano a realizzare la visione.

Non credo che il capolavoro di Hannah Arendt sul totalitarismo sia oggetto di lettura al tempo d’oggi, ed è un peccato.


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

grinzimento di al Qaeda dopo la loro sconfitta ad opera delle forze militari americane in Iraq e dalle misure di sicurezza migliorate in Afghanistan (il fatto che raramente si legge di lotte in Afghanistan adesso dipende dall’ottimo lavoro che gli Usa stanno facendo sul territorio).

Sopra, l’abbraccio fra Hugo Chavez e Ahmadinejad; in alto a destra, manifestanti pro-Assad; a sinistra, Hitler e Mussolini e a destra una parata militare ai tempi dell’Urss. In basso a sinistra, un talebano Lei comprese le dinamiche del totalitarismo, seppe cogliere le diverse forme e varietà dell’antisemitismo e non si fece ipnotizzare da alcuna ideologia. Quindi, il patto Hitler-Stalin aveva un senso, come lo ebbe la successiva guerra fra di loro. Si sono verificate alcune sorprendenti forme di collaborazione tra fascisti e comunisti, alcune di queste sembravano impossibili considerando la netta separazione del mondo in Sinistra e Destra.

Il mio amico Renzo De Felice, autore di una (lunghissima) biografia di Mussolini, si imbatté in un’affascinante collezione di documenti che erano stati spediti ai servizi segreti fascisti dalla controparte sovietica. Si trattava di rapporti in codice su luoghi e attività dei comunisti italiani residenti in Unione Sovietica. Anche De Felice trovò il codice, che ovviamente era stato fornito dai sovietici al Duce. I regimi totalitari avevano molte cose in comune, come oggi. Se Stalin poteva aiutare Mussolini, nessuno dovrebbe meravigliarsi se oggi i fanatici islamici lavorano in sintonia con i fanatici di sinistra. Non bisogna commettere l’errore di credere che siano in combutta so-

Lucio Colletti capì che il sistema totalitario non poteva essere cambiato. «O ce l’hai, o non ce l’hai» diceva, «e non puoi umanizzarlo perché la sua essenza è l’eliminazione della libertà»

lo perché hanno un nemico in comune. Piuttosto hanno una visione comune del controllo totale sui popoli che arrivano a dominare, sia nei loro territori che al di fuori. Gira una storia interessante di leader islamisti che hanno ricevuto istruzione e addestramento dai comunisti (Khomeini, per esempio, ha studiato con i comunisti sovietici ad un certo punto), e mentre esiste una lunga tradizione di antisemitismo musulmano, una grande quantità dell’attuale odio verso gli ebrei da parte degli islamisti fu trasmesso loro dai sostenitori del Fuhrer nel corso e dopo il Terzo Reich. Ora il male viene esportato dal Medioriente all’America Latina,

dove i tiranni di sinistra come Chávez tirano fuori il peggio dell’antisemitismo di Ahmadinejad.

I regimi totalitari non possono essere riformati. Non si possono “battere”col dialogo, e per sconfiggere regimi totalitari come quelli di Iran, Siria, Cuba e Venezuela serve un’azione politica, se possibile, e militare se non esistono altre vie. È una questione dialettica, come avrebbe detto il compagno Marx. Una sconfitta politica li indebolisce sul campo di battaglia, e una sconfitta militare rende la loro ideologia molto meno attraente alle future reclute, come si è visto dal rag-

La lotta contro i regimi totalitari non riguarda solo l’America contro la rete dei totalitarismi, ma adesso riguarda il cuore stesso della politica americana. Mark Levin - da sempre senza peli sulla lingua - ha combattuto energicamente e senza sosta contro gli aspiranti statisti tirannici che vogliono controllare le nostre azioni in ogni dettaglio. Quando Marco Rubio avverte che l’Amministrazione Obama minaccia di trasformare gli Usa in un paese di fannulloni, è proprio di questo che sta parlando! Certamente non sono i soli. Anche qui nella sede del PJ Media abbiamo la fortuna di avere i nuovi Simon, Solway, Fernandez, Radosh, Klavan, Hanson e altri, tutti uniti nella lotta contro i totalitarismi. Alcuni giorni fa Fouad Ajami ha firmato un bell’articolo sul Wall Street Journal sulla Siria, in cui amaramente ha sottolineato che «in fondo, l’amministrazione Obama sembra credere che la tirannia di Assad sia preferibile all’opposizione». Proprio così. Preferiscono i tiranni perché è quello che aspirano a diventare loro stessi. Odiano la confusione della nostra irritabile società e non credono molto nella nostra capacità di prendere buone decisioni, quindi si limitano a dirci quello che dobbiamo fare e a sfidarci a batterli. Proprio come fanno i tiranni stranieri. Non ci sono dubbi che questa sia la ragione di fondo per cui Obama ha lavorato così tanto – in verità sta ancora lavorando tanto in segreto – per lanciare il suo patto con l’Iran sullo stile del patto Hitler/Stalin. Qualcuno dovrebbe ricordare a Obama come si è risolto per entrambi quel grande trionfo di diplomazia totalitaria.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


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CARNE

Nella nostra società liquida, che riduce il mondo a un’immagine, è ciò che ci riconsegna al destino di esseri mortali, alla vita. E oggi, come dall’inizio dei tempi, è ancora la moltiplicazione dei corpi a garantire la conservazione della nostra specie…

Il motore della storia di Giancristiano Desiderio a carne è la nostra vita. Siamo fatti di carne. Osservazione banale e scontata, si dirà. Non è vero. Viviamo in un mondo privo di realtà, fatto di immagini, parole, numeri, elettronica, carte. La realtà è stata uccisa. Il delitto perfetto è un libro ormai datato ma conserva intatto il suo valore: la realtà è morta e vive la irrealtà. Almeno fino a quando non entra in gioco la carne. È la carne che ci riporta sulla Terra e ci consegna al nostro destino di esseri mortali. Un grande filosofo del passato, Thomas Hobbes, era un «corporeista» che non significa materialista ma più semplicemente «esistono i corpi». Come il corpo di Cristo, il corpo del Signore, il corpo divino. Anche il Verbo ha bisogno della carne per parla-

L

re. «Il verbo si fece carne». Tra carne e spirito non c’è contrasto ma corrispondenza. La carne è spirito e lo spirito è carne. La carnalità ha in sé il principio della fine del corpo. Aspiriamo a disincarnarci ma la condizione umana è tutta nel principio «il verbo si fece carne». Senza carne siamo più potenti perché meno umani. Ma uscire dalla carne non ci è dato se non per un breve tempo in cui il sapere intellettuale e tecnico prendono il sopravvento una volta liberati dal legame con la realtà della carne.

La carne ci riporta con i piedi per terra. Ubbidendo al principio dei gravi camminiamo in uno spazio concreto fatto di cose, case, casi. L’immaginazione e i tanti mezzi che la sollecitano e la catturano, insieme con i suoi desideri, ci portano in un mondo parallelo fatto, appunto, di immagine. Siamo qui con il corpo, ma siamo altrove con lo spirito o con la mente o con l’immaginazione: tutte «facoltà» che ambiscono a vivere in modo indipendente, che cercano un altro mondo e a volte lo trovano. Ma non in eterno. Il peso della carne

si fa sentire, presto o tardi, e, come una cambiale, chiede il conto. Il primato della carne prima o poi si manifesta appieno e anche la mente che abita altrove intanto lo può fare perché è incarnata. Sembra quasi che la fuga in avanti della mente, dello spirito, dell’immaginazione e dei desideri sia solo la stessa egemonia che la carne esercita sulle facoltà ritenute più nobili, alte, belle, spirituali. Il tentativo di ridurre il mondo a un’immagine può essere considerato proprio un’astuzia della carne, un po’come il diavolo che mostra al Signore il mondo e lo invita a esserne il padrone in cambio dell’anima. «Lacrime e sangue». Una formula «carnivora» che della carne succhia i succhi e i «liquidi». La «società liquida» è stata detta la nostra stagione in contrapposizione, evidentemente, a una «società solida» costituita di concretezza, stabilità, fermezza (nel senso di fermo, poco mobile se non immobile). Ma la liquidità del nostro tempo fa sentire i suoi colpi nella carne e se cerchiamo riparo dal continuo movimento della vita liquida è perché avvertiamo che la carne ha


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per saperne di più

hanno detto Giovanni Evangelista

Jean Baudrillard Il delitto perfetto Raffaelo Cortina editore

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Thomas Hobbes Leviatano Editori Riuniti

Mallarmé La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri.

Giovanni Evangelista Vangelo (Gv 1,1-18) La Sacra Bibbia Lev

Varlaine La carne è santa! Deve essere venerata.

San Pietro

Martin Heidegger L’epoca dell’immagine del mondo in Sentieri interrotti La Nuova Italia

Ogni carne è come l’erba e la sua gloria come il fiore dell’erba.

Wedekind La carne ha il suo spirito.

Vilfredo Pareto Il mito virtuista Liberilibri

Lo spirito è pronto, ma la carne è stanca.

Claude Levi-Strauss Il crudo e il cotto Il Saggiatore

Ha il nostro corpo questo difetto, che più gli si prodigano cure e conforti, e più scopre necessità e bisogni.

Petrarca

Santa Teresa di Gesù

bisogno di un rifugio, di una tana, di una abitazione (nel senso di casa e nel senso di abito con cui abbigliarsi e con cui abituarsi ad agire). Il fisco sa bene che ciò che esiste realmente è ciò che occupa uno spazio fisico, tanto che tassa le «persone fisiche», e gli immobili, i metri quadri, le automobili. Ciò che esiste è tassabile e la tassazione è una prova dell’esistenza in vita, anche se in uno Stato esoso la tassazione continua anche dopo la morte, forse in base al principio metafisico che la carne non si incenerisce subito ma solo con il tempo o forse perché il corpo lascia in vita altri corpi che restano nell’ambito della tassazione possibile e impossibile.

Il suo primato prima o poi si manifesta appieno e se la mente abita altrove lo può fare perché è incarnata. Del resto anche il Verbo per parlare ha avuto bisogno della carne

stessa debolezza la forza del mito virtuista, per ripetere il titolo che Vilfredo Pareto volle dare al suo libro più scientifico e umano. La carne si presta meglio di qualunque altro materiale a diventare pura immagine: in televisione, al cinema, in video, in fotografia, sul web, dappertutto la carne può essere data in pasto sotto forma di immagine. Anche se la carne immaginata non è più la carne carnale che non beneficia del Photoshop.

La carne è debole. La forza è proprio la debolezza. Sarà per questa sua connaturata debolezza che si cerca riparo in altri mondi e si prova a irrobustirla o potenziarla. La stessa consistenza materiale della carne è vulnerabile. Per quanto l’uomo appaia nobile pensando al suo pensiero - la celebre canna pensante - resta vero che basta poco per schiacciarlo. La carne diventa nutrimento per altra carne. Infatti, è nutriente e digeribile. Non solo per l’essere umano, ma anche per l’essere animale e perfino per l’essere vegetale. Ma

Claude Monet, “Natura morta con pezzo di carne”. In alto, “Adamo ed Eva” di Tamara de Lempicka. Sopra il titolo: “Gesù Bambino addormentato sulla Croce” di Guido Reni

la carne nutre anche senza essere mangiata e ingerita. I peccati della carne, per quanto siano i più comuni e veniali, i più umani e perdonabili, sono additati come immondi, mentre proprio la mondanità è il loro vero motivo d’essere. È la debolezza della carne a essere colpita con il mito del virtuismo.

Un tempo erano i potenti ad accusare gli impotenti al fine di conservare il potere, nel nostro tempo anche i potenti non sono più tanto potenti e il loro potere di puntare il dito contro i peccati della carne gli si è girato contro, tanto nel mondo laico quanto nel mondo religioso, e gli impotenti avvertono nella loro

Il potere - qualunque cosa sia e qualunque tipo di potere - è potere sulla carne del corpo. Il linguaggio comune rivela la cosa: «Per loro siamo carne da macello». Il potere è controllo della carne e chi sfugge al potere, a torto o a ragione, è individuato con la formula del «corpo del reato». E nulla dà più piacere al

popolo del possesso del corpo del potente che il più delle volte, soprattutto nei regimi illiberali nelle loro varie formule, è sbranato, offeso, ferito, ucciso anche da morto. La storia è piena di casi, ma anche la cronaca ne presenta di esemplari. La carne del potente non è invulnerabile. La vulnerabilità ontologica o naturale della carne fa del potere umano - potere dello Stato e della Chiesa, dell’Esercito e della Tecnica, dell’Economia e dell’Arte, della Conoscenza e dell’Azione - qualcosa di instabile. Il potere che si presenta stabile ha nella carne del potente il suo principio di corruzione: è qui il motivo della censura della malattia o della sofferenza dell’uomo potente. L’uomo potente malato è tutelato con la scomparsa dell’immagine: la carne malata non si mostra perché rende il potente visibile come un comune mortale. Ma un uomo potente invisibile è il contrario della potenza che aspira sempre a far bella mostra di sé. La carne è il vero motore della storia. Anche la legge dell’amore cristiano o platonico lo dice: «Amatevi e moltiplicatevi». Cos’altro si può fare? La moltiplicazione dei corpi è la conservazione della specie. A oggi non è stata escogitata altra soluzione migliore di quella classica, in qualunque modo praticata. Il sogno dell’immortalità, sia attraverso il prolungamento della vita sia tramite la ibernazione (come i bastoncini Findus), è un incubo. La conservazione della specie non vuole né la lunga conservazione, né il frigorifero ma la più vitale freschezza delle carni.


ULTIMAPAGINA Un milione e trecentomila euro di stanziamento pubblico per trasformare l’ultima residenza del mafioso

Il covo di Riina? Diventerà una di Angela Rossi finita con una sorta di contrappasso dantesco. Il luogo dove uno dei boss più temuti della mafia siciliana ha trascorso l’ultima parte della sua latitanza, quello che lo ha protetto e gli ha garantito sicurezza contro le forze dell’ordine, ospiterà i carabinieri. Da ieri è iniziato l’iter che tra circa un anno lo porterà ad ospitare la struttura dell’Arma. La villa nella quale Totò Riina ha trascorso con la famiglia l’ultimo periodo da latitante è stata ufficialmente consegnata ieri. Un milione e trecentomila euro, la somma occorrente a terminare i lavori di ristrutturazione a conclusione dei quali si potrà considerare compiuto anche un «atto altamente simbolico - ha dichiarato il comandante provinciale dell’Arma, generale Teo Luzi - da struttura della criminalità questo luogo diventa un presidio di legalità. È la vittoria del bene sul male».

È

Domani saranno esattamente diciannove anni dalla cattura. Era infatti il 15 gennaio del 1993 quando alla latitanza di Salvatore Riina, detto Totò, uno dei maggiori esponenti della criminalità organizzata siciliana e uno dei capi di Cosa Nostra, veniva posta fine grazie all’intervento dei Carabinieri. Riina era appena uscito da una villa all’interno di un residence in via Bernini 54, nel quartiere Uditore di Palermo. E, grazie ai fondi stanziati dall’assessorato regionale alle Infrastrutture e alla Mobilità, l’immobile che fu l’ultimo covo dell’ex capo di Cosa nostra, sarà ristrutturato e adibito a stazione della Benemerita. Un finanziamento di un milione e trecentomila euro. Denaro che consentirà di acquistare anche tutte le attrezzature necessarie per la piena operatività della struttura militare, fino ad una somma di cinquantamila euro. Sarà il Provveditorato interregionale opere pubbliche che ha redatto il progetto ad occuparsi dell’esecuzione degli interventi e che provvederà anche ad appaltare i lavori. La consegna ufficiale è avvenuta da parte dell’assessore Pier Carmelo Russo al generale Teo Luzi, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Presente anche il provveditore interregionale delle opere pubbliche, Lorenzo Ceraulo. Si tratta di un immobile posto su un terreno di millesettecentoventi metri quadrati e strutturato in questo modo: un piano seminterrato, un piano rialzato, per una superficie coperta di cinquecento metri quadrati e altre due unità abitative che saranno per gli alloggi di servizio del personale. Tra un anno esatto i lavori, che saranno appaltati il prossimo 23 febbraio, saranno terminati e la caserma sarà pronta. Una struttura che passa dall’essere stato il covo del capo di Cosa Nostra, a “casa” dei carabinieri. Degli stessi militari cioè che lo arrestarono consegnando alla giustizia uno dei boss più pericolosi. Erano le prime ore del mattino, quel gennaio di diciannove anni fa quando gli uomini agli ordini del Capitano Ultimo, nome

CASERMA Si tratta di un immobile posto su un terreno di 1,720 metri quadrati: un piano seminterrato, un piano rialzato e altre due unità abitative che saranno per gli alloggi

di battaglia di Sergio Di Caprio, lo bloccarono e lo ammanettarono.

E Ultimo diventò un mito a cui si ispirarono cinema e fiction televisive. Alle otto di quel 15 gennaio di quasi venti anni fa, Riina era in auto con il suo autista, Salvatore Biondino quando si trovò di fronte gli uomini di Salvatore Riina, detto Totò, uno dei più pericolosi leader di Cosa Nostra. È stato arrestato 19 anni fa. In apertura il suo covo

Ultimo. In seguito quell’operazione fu al centro di polemiche ed inchieste per i ritardi eccessivi in merito alla perquisizione della villa dove si nascondeva il cosiddetto capo dei capi. Ventitré giorni di troppo che spinsero l’avvio di una serie di indagini e processi.Ventitré giorni senza controllare l’immobile. Quasi un mese trascorso il quale, al ritorno, gli investigatori non trovarono più nulla. Completamente vuoto.

Da oggi sarà restituita alla completa legalità. La cerimonia ufficiale con la quale l’immobile è stato consegnato allo Stato è avvenuta presso l’Ordine dei Giornalisti, nello stesso residence, anch’essa facente parte di beni confiscati. «Anche la casa dei giornalisti – ha infatti fatto sapere il presidente Riccardo Areni – custodisce una memoria simbolica: quella degli otto cronisti uccisi dalla mafia. Si può quindi dire che la legalità ha trovato una casa, anzi due». \u2028Attualmente la stazione dei carabinieri si trova in una costruzione risalente al 1934 ed è quindi divenuta con il tempo assolutamente insufficiente soprattutto in considerazione del territorio esteso e del bacino di abitanti che vi si riferiscono, quasi centomila. Solo nell’anno appena trascorso, la stazione ha svolto ben 1.122 servizi di controllo sul territorio, raccolto migliaia di denunce, scoperto 309 reati. Con la nuova caserma si potrà svolgere un’attività maggiormente adeguata alle esigenze di un territorio che resta difficile e che possiede molte anime. Un controllo più capillare della zona. Al di là di questo resta comunque anche l’altissimo valore simbolico della consegna. La restituzione di un immobile che da covo di un criminale torna nelle mani dello Stato.


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