20118
he di cronac
La guerra è come l’amore, trova sempre il suo fine Bertolt Brecht
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 18 GENNAIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Bocciati i testi di IdV, Lega e Radicali, approvata con 424 voti a favore quella unica di Pdl, Pd e Udc
La “guerra civile” è finita Per la prima volta dopo 20 anni, applausi bipartisan al Guardasigilli È dall’intervento di Craxi del 1992 che il Paese si spacca su processi e magistratura. Ieri, invece, la Camera ha approvato una mozione unitaria per una riforma del settore. Che oggi penalizza il Pil SVOLTA IN PARLAMENTO
Il primo ministro incontra gli amministratori del Meridione
La pacificazione può salvare il nostro Paese
La svolta di Monti: «Il nostro Sud è decisivo per l’Europa»
di Osvaldo Baldacci
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Cronistoria di un conflitto feroce
Il premier incontra gli enti locali e ribalta gli antichi stereotipi sul Mezzogiorno. Parigi e Berlino rinnovano la fiducia all’Italia
poi dicono che non è cambiato niente. Non solo ieri in aula alla Camera c’è stato il primo applauso bipartisan a un ministro da tempo immemorabile. Ma inoltre questo è avvenuto proprio sulla Giustizia. Beneficiata del consenso unanime il ministro Paola Severino che ha presentato la relazione annuale sullo stato della Giustizia, e dopo alcuni lustri si è potuto tornare a parlarne partendo dai dati oggettivi della situazione e dalle necessità reali del sistema giustizia, degli interessi della nazione, dall’impegno per risolvere il problema. Una tematica che dopo tanto tempo non è più stata incentrata sullo scontro tra politica e magistratura, sulla caccia al colpevole oppure sui casi specifici che interessano un limitato numero di persone. Un applauso che non è stato solo un gesto formale di cortesia.
La Severino mette a tacere il “tintinnare di manette” Dopo gli allarmi del leader socialista, sono stati i berluscones i più feroci nel settore Maurizio Stefanini • pagina 4
Parla Giovanni Sabbatucci
«È cambiata proprio l’aria del nostro mondo politico» «La caduta di Berlusconi ha permesso la svolta anche da parte del Pdl. È un passo importante» Riccardo Paradisi • pagina 5
Parlano Bianchi, De Giovanni e Perrone
«Adesso si può chiudere la questione meridionale» di Franco Insardà
ROMA. «Lo sviluppo del Mezzogiorno è un contributo deci-
Sui blog impazza l’assurda telefonata con la Guardia Costiera
Schettino rischia 15 anni Il capitano sentito dai pm: ipotesi omicidio colposo
sivo per una crescita sostenibile e durevole dell’Europa». Da Mario Monti arriva un messaggio che fa ben sperare per quelle regioni del Paese considerate “la zavorra dell’Italia”. Il professor De Giovanni sull’argomento è disincantato:«Nelle dichiarazioni di Monti il Mezzogiorno non è più la palla al piede dell’Italia, ma nella realtà, purtroppo rischia di esserlo ancora. Non basta una dichiarazione per cambiare le cose. Ben venga una politica meridionalista. Sono tra quelli che da sempre sostengono che il Mezzogiorno debba avere un ruolo importante, quella di Monti, però, la considero una dichiarazione che definirei canonica e non strategica e decisiva». a pagina 6 EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
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• ANNO XVII •
di Francesco Lo Dico
ROMA. «Ero io al comando della nave». Ma «non potevo risalire. La nave dopo l’urto con lo scogli ha avuto uno sbandamento di 90 gradi». Nel giorno dell’interrogatorio di garanzia davanti al gip di Grosseto, Valeria Montesarchio, il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, conferma quanto detto al pubblico ministero subito dopo il naufragio, ma si difende dalle accuse. a pagina 10 NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
Una nuova aria in politica
Quegli applausi che aprono alla pacificazione
pagina 2 • 18 gennaio 2012
di Osvaldo Baldacci poi dicono che non è cambiato niente. Non solo ieri in aula alla Camera c’è stato il primo applauso bipartisan a un ministro da tempo immemorabile. Ma inoltre questo è avvenuto proprio sulla Giustizia. Beneficiata del consenso unanime il ministro Paola Severino che ha presentato la relazione annuale sullo stato della Giustizia, e dopo alcuni lustri si è potuto tornare a parlarne partendo dai dati oggettivi della situazione e dalle necessità reali del sistema giustizia, degli interessi della nazione, dall’impegno per risolvere il problema. Una tematica che dopo tanto tempo non è più stata incentrata sullo scontro tra politica e magistratura, sulla caccia al colpevole oppure sui casi specifici che interessano un limitato numero di persone. Un applauso che non è stato solo un gesto formale di cortesia. Un gesto che già di per sé mostrerebbe comunque un clima nuovo che ha messo alle spalle un periodo tutt’altro che cortese, ma che è stato suffragato e confermato da una mozione unitaria presentata da Pdl, Pd e Terzo Polo per approvare la relazione esposta. Mozione che la Guardasigilli ha commentato definendola “un fatto nuovo”, una “novità politica molto importante”, “un segnale molto importante” che denota “compattezza” della maggioranza, “e quindi il mio ringraziamento non è di forma ma di sostanza”. Una prova concreta che se si sgombra il campo dalle faziosità e dagli interessi di parte è possibile fare qualcosa di buono.
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La giustizia è e resta un tema fondamentale, che è stato assurdo lasciare in questi anni nelle mani dello scontro furibondo tra chi voleva tutelare lo status quo e chi voleva dilaniarla. Anche in questo tema bisogna mettersi insieme con senso di responsabilità e serietà. Lasciando da parte le contrapposizioni sterili e aprioristiche per poter concentrare tutte le proprie energie sulla ricerca della soluzione dei problemi. Questa è la strada che sembra aver voluto indicare il ministro, una strada non a caso tecnica, ma che non può che essere al contempo politica, perché fare una scelta è sempre questione di politica. Politica nel senso nobile, nel senso di selezionare una direzione, metterla al confronto con le altre proposte e poi trovare democraticamente una rotta comune o prevalente, e non politica nel senso di faziosa. Questa è una differenza chiave per capire quello che sta succedendo in Italia, e le vicende di ieri mattina sono un buon segnale che finalmente si è imboccata la strada giusta. Una strada che si può praticare in molti ambiti. Avendo come stella polare l’interesse nazionale. Ad esempio adesso sarà il turno di un’altra mozione molto più articolata e importante, quella proposta da Rocco Buttiglione per sostenere le politiche di rigore e serietà nel lungo termine e di fronte all’Europa, in modo che i partiti diano forza al governo Monti ma soprattutto al “progetto Italia” per i prossimi anni e non solo di elezione in elezione. Questo è il punto: lasciare da parte la politica fatta solo in funzione dei sondaggi e dei consensi immediati, e recuperare la politica della progettualità, della visione, della capacità di guida, con riferimento a un interesse nazionale immutevole che prevale sul desiderio di sconfiggere l’avversario anche a costo di mandare a fondo il Paese. È un bene che questo possa accadere anche a partire dalla Giustizia.Una giustizia efficiente (amministrativa, civile, del lavoro) lubrifica i meccanismi economici, permette di operare con serenità, incentiva gli investimenti. Non è qualcosa che si possa trascurare. Ha ragione Casini: «Le ultime due pagine della relazione sullo stato della giustizia sono un programma completo per la giustizia: in un mese potremmo fare la riforma epocale!».
Bocciati i testi di IdV, Lega e Radicali, approvato con 424 voti a favore quello unico
Giustizia Anno Zero
Il Guardasigilli ottiene applausi bipartisan e mozione unitaria da Pd, Pdl e Udc. Sembrano passati anni luce da Berlusconi. Il leader centrista: «Possiamo fare molto» di Marco Palombi orse parlare di pacificazione è ancora troppo, ma ieri il clima in quel microcosmo complicato che è l’intersezione tra sistema giudiziario e politica italiani era decisamente più temperato rispetto agli eccessi del decennio berlusconiano. Tre cose almeno lo indicano, non dello stesso genere, ma figlie dello stesso mutamento di temperatura: la mozione unitaria con cui PdL, Pd e Terzo Polo hanno approvato la relazione tenuta ieri alla Camera da Paola Severino, l’apprezzamento per le parole del ministro della Giustizia arrivato addirittura da Italia dei Valori e il numero dei presenti in aula. Partiremo da quest’ultima notazione: ad ascoltare il Guardasigilli, in mattinata, c’erano poco più di una cinquantina di parlamentari, quasi tutti della ex opposizione, mentre un po’ abbandonato sedeva tra i banchi del PdL l’ex ministro Angelino Alfano (il quale peraltro, insieme a molti altri, ha voluto affidare a Twitter il suo commento quasi in tempo reale: “Il ministro Severino ha espresso in aula grande riconoscimento per le riforme del nostro governo. Sono soddisfatto. Il tempo è galantuomo”).
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Anni luce dai precedenti appuntamenti del genere, quando Montecitorio straboccava di deputati, quelli del partitone berlusconiano su tutti, ansiosi di sapere quale altra “riforma epocale” della giustizia sarebbe stata annunciata dal Guardasigilli o dal presidente del Consiglio. Severino, invece, fa un discorso tecnico
quanto il governo di cui fa parte, in cui sono del tutto assenti riferimenti di qualunque genere allo scontro tra politica e magistratura e scarseggiano assai persino gli aggettivi.
Niente magnifiche sorti e progressive del sistema, grande enfasi sulla manutenzione della macchina: tutta una serie di accorgimenti che – rimanendo in metafora – potrebbero evitarci di rimanere continuamente a piedi. In sintesi, dice il Guardasigilli, l’inefficienza della giustizia ci costa un punto di Pil all’anno, senza contare i costi in risarcimenti per errori e lunghezza dei processi. Obiettivi? Ridurre gli attuali duemila uffici giudiziari allocati in tremila edifici e le spese di gestione, razionalizzare l’uso del personale. Tenta l’impensabile il Guardasigilli: «Per quanto possa apparire paradossale, proprio oggi, in presenza di una drammatica congiuntura economica internazionale, si presenta l’occasione, forse irripetibile, di riformare davvero il sistema giudiziario italiano». Certo, a patto che «tutti i protagonisti - magistrati, avvocati, personale amministrativo e cittadini - siano disposti ad accettare che un altro modello di servizio giudiziario, più snello, più rapido, meno costoso e meno intasato», rinunciando «magari a qualche privilegio o a qualche abitudine consolidata e rassicurante». Applausi bipartisan. È quello il segno che qualcosa è cambiato, al di là di quelle che saranno le sottolineature successive nel di-
«Abbiamo 9 milioni di cause arretrate» Bankitalia: la lentezza costa 1 punto Pil. La Severino: «Spesi 46 milioni per errori giudiziari» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. L’inefficienza della giustizia civile italiana può essere misurata in termini economici come pari all’1 per cento del Pil: a dirlo non è qualche stravagante tecnico o accademico, ma Bankitalia. Citata dal ministro Severino in apertura della propria relazione alla Camera. Ministro che aggiunge che questo dato «non deve meravigliare. È chiaro che l’andamento dell’economia è influenzato anche dall’inefficienza della giustizia civile». E non solo: troppi processi da smaltire, con tempi per arrivare a conclusione che vanno dagli oltre sette anni nel civile ai quasi cinque nel penale. Il ministro della Giustizia parla dello stato del suo settore e parte da una premessa: «Per quanto possa apparire paradossale, proprio oggi, in presenza di una drammatica congiuntura economica internazionale, si presenta l’occasione, forse irripetibile, di riformare davvero il sistema giudiziario italiano». E un segnale di speranza: «Gli interventi messi a punto dal governo Monti per migliorare la situazione del sistema giustizia non sono ancora riusciti a determinare una svolta positiva e strutturale nel sistema giudiziario italiano ma non mancano né i segnali positivi, né le potenzialità che consentono di prevedere un miglioramento concreto». Al termine del suo intervento Pdl, Pd e Terzo polo hanno presentato una mozione comune alla Camera dove si accolgono le dichiarazioni e si approvano.
sono pari a sette anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale a quattro anni e nove mesi (1.753 giorni)». Con oltre 2,8 milioni di nuove cause in ingresso in primo grado «l’Italia è seconda soltanto alla Russia nella speciale classifica stilata nel rapporto internazionale Cepej. Ebbene proprio questo fenomeno determina un ulteriore intasamento del sistema conseguente al numero progressivamente crescente di cause intraprese dai cittadini per ottenere un indennizzo conseguente alla ritardata giustizia». Per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, poi, «nel solo 2011 lo Stato ha subito un esborso pari ad oltre 46 milioni di euro». In media ogni anno, continua il ministro, «si celebrano 2.369 procedimenti per ingiusta detenzione o errore giudiziario. Non meno rilevanti sono le conseguenze dell’eccessiva durata del processo penale. I detenuti in attesa di giudizio rappresentano il 42% dell’intera popolazione carceraria. E se è vero che la libertà personale può e deve essere limitata per tutelare la collettività - aggiunge la Severino è incontestabile che una dilatazione eccessiva della durata del processo pregiudica questo delicato equilibrio tra valori di rango costituzionale ed aumenta la sofferenza di chi è costretto ad attendere, da recluso, una sentenza che ne accerti le responsabilità. Con la possibilità, non del tutto remota, che alla carcerazione preventiva segua una sentenza assolutoria». In questo senso, non poteva mancare l’emergenza carceri: «Sento fortissima, insieme a tutto il governo, la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti, ma anche degli agenti della polizia penitenziaria, che negli stessi luoghi ne condividono la realtà e, spesso, le sofferenze», scandisce il Guardasigilli. Spiegando che, al di là dei dati numerici, (sono ”66.897 i detenuti che, salvo poche virtuose ecce-
Emergenza per le carceri, costi di detenzione, burocrazia: il ministro spazia per tutti i campi critici della Giustizia
Secondo il ministro ci sono troppi processi da smaltire, con tempi per arrivare a conclusione che vanno dagli oltre sette anni nel civile ai quasi cinque nel penale. Un quadro generale che «desta forti preoccupazioni sia in ordine all’enorme mole dell’arretrato da smaltire che, al 30 giugno del 2011, è pari a quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni per il civile e 3,4 milioni per il penale), sia con riferimento ai tempi medi di definizione che nel civile
battito. Pier Ferdinando Casini, pure lui, si affida a twitter: «Clamoroso alla Camera. Applauso unanime e convinto! Sembra un governo politico! Finalmente una bella pagina per la giustizia». « entusiasta il leader dell’Udc: «Le ultime due pagine della relazione di Severino sono un programma completo: in un mese potremmo fare davvero una riforma epocale», a partire da una nuova legge anti-corruzione. Il PdL invece, sulla scia delle parole di Alfano, punta tutto sulla continuità tra le parole del Guardasigilli e l’azione del governo Berlusconi: «Plaudo alle parole del ministro, alla cultura del garantismo che esprime, alla continuità di azione che interpreta, all’intelligenza del trasformare la crisi in sfida per il cambiamento», mette a verbale Maria Stella Gelmini. «Non possiamo che approvare questa relazione – dice Maurizio Gasparri – Severino ha riconosciuto il nostro lavoro».
zioni, soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un Paese come l’Italia”), «siamo di fronte a un’emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana». Ciò premesso, il ministro non fa riferimento alcuno a provvedimenti di clemenza, tipo l’amnistia, chiesta dai radicali.
Se non per ribadire quanto già affermato in più occasioni: «L’amnistia richiede maggioranze qualificate e richiede l’attivazione del Parlamento. E ho già detto che se il Parlamento dovesse raggiungere delle intese su questo il governo, e io stessa come ministro, non avrebbe nulla da obiettare in ossequio alla volontà parlamentare». Poi una stoccata alla burocrazia: «L’Italia non può più permettersi oltre 2.000 uffici giudiziari allocati in 3.000 edifici.Troppe spese e troppa burocrazia. Secondo il ministro occorre quindi «ridurre le spese di gestione e razionalizzare l’utilizzo delle risorse umane esistenti, in progressivo decremento a causa del blocco delle assunzioni e del numero medio dei pensionamenti annuali, pari a circa 1.200 unità. Il decreto che taglia il numero dei tribunali e prevede l’accorpamento di 674 uffici, consentendo di recuperare 2.104 unità di personale amministrativo e di risparmiare, a regime, 28 milioni di euro l’anno».
sato”, di un Parlamento in cui “si respira aria nuova”: «Finalmente, si parla dei problemi veri della giustizia, come l’arretrato dei processi civili e penali e la drammatica situazione carceraria. Il ministro ne ha parlato con onestà e questo è un grande merito». Certo, non tutte le ciambelle vengono col buco e Antonio Di Pietro ha dovuto in seguito un po’ marcare le distanze: bene Severino, ci sono i presupposti per collaborare, ma «noi non facciamo parte dell’assurda maggioranza Pdl-Pd-
ga tutto ha fatto tranne che offrire spunti di lavoro: i parlamentari lumbard - oltre a definire vaga, senza nessuna proposta sulla lentezza dei processi e deludente la relazione del ministro – erano interessati a fare una chiassata contro l’amnistia che in Parlamento nessuno ha proposto (tranne la pattuglia radicale).
Quanto al problema delle carceri - di quelle del Nord perché della altre ai padani non interessa – per il Carroccio si risolve in un modo solo: via gli immigrati (che è un po’ la loro proposta per tutto). Il capogruppo Reguzzoni, invece, ha colto l’occasione per chiedere la convocazione di una riunione dei capigruppo per calendarizzare una mozione di sfiducia contro Corrado Passera. Al netto del cerchio magico, comunque, che il clima sia cambiato non è in discussione: persino Luca Palamara, segretario dell’Anm, lo trova “rasserenato”. Quanto al programma, basta coi progetti grandiosi: “E’ il momento di accantonare i disegni velleitari – dice il vicepresidente del Csm Michele Vietti - e fare piccoli interventi mirati per intervenire sulle cause seriali, quelle che si ripetono e intasano gli uffici. E’ il macigno dell’arretrato che condiziona il funzionamento della giustizia”. Piccole cose, qualche ideuccia, anche così si archivia la Seconda Repubblica della guerra senza quartiere tra Silvio Berlusconi e quei “matti” dei magistrati.
Pier Ferdinando Casini affida a twitter il suo commento: «Clamoroso alla Camera. Applauso unanime e convinto! Sembra un governo politico! Finalmente una bella pagina per la giustizia». Alfano: «Soddisfatto»
Luigi Vitali, per dire, avvocato berlusconiano e membro della commissione Giustizia, non si prende nemmeno la briga di sottolineare i meriti del Cavaliere. In aula dice secco: «Il ministro è stata convincente. Per questo esprimo piena e convinta condivisione nei riguardi della sua seria e obiettiva relazione».Persino i dipietristi, per bocca del pasdaran Federico Palomba, parlano di “tratto tangibile di discontinuità rispetto al pas-
Terzo Polo» e dunque «abbiamo presentato una nostra mozione». Cose che succedono, ma comunque il risultato parlamentare è lì: bocciati i testi di IdV, Lega e Radicali, approvata con 424 voti a favore (e 58 contrari) quella unitaria della “assurda maggioranza”. Il Guardasigilli incassa con signorilità: «Questa mozione è un segnale importante, un fatto nuovo, una novità politica molto importante e mi rammarico sinceramente di non aver potuto dare parere favorevole anche alle altre, veramente ricche di spunti interessanti».Severino è evidentemente una persona gentile, perché in realtà la Le-
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l’approfondimento
Togliatti e Moro promisero che non ci sarebbero mai stati processi in piazza per la politica. Mentre Craxi sentì un “tintinnio di manette”
Il Ventennio
Era il 1992, e Craxi parlava in Aula. Anche la Seconda Repubblica è stata contrassegnata da un rapporto fra giustizia e politica fatto di alti e bassissimi. Ricostruiamo una storia che si avvia alla fine di Maurizio Stefanini ta finalmente finendo l’interminabile guerra civile giudiziaria italiana? È bastato che il ministro della Giustizia Paola Severino dicesse una cosa ovvia, nel concludere alla Camera la Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011, perché l’aula infine se ne uscisse in un applauso bipartisan. Il ministro si era limitato a riconoscere che il complesso degli interventi finora attuati «non è ancora riuscito a determinare una svolta positiva e strutturale nel sistema giudiziario italiano», anche se «non mancano né i segnali positivi né le potenzialità che consentono di prevedere un miglioramento concreto». Dopo decenni di meccaniche contrapposizioni tra denunciatori di golpe giudiziari e denunciatori di golpe anti-giudiziari, il ministro ha finalmente riconosciuta quella che è una evidenza irrefutabile per gli sfortunati frequentatori dei tribunali: e cioè, che il sistema giudiziario italiano ha un “deficit di efficienza” che però “nessuno di noi può permettersi di conside-
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rare ineluttabile”, in un momento in cui «ogni settore della vita pubblica è tenuto a garantire il proprio contributo operativo al miglioramento delle condizioni economiche del Paese». La Severino ha perfino quantificato i “termini economici” nei quali “può essere misurata l’inefficienza della giustizia civile italiana”: l’1% del Pil! «All’ulteriore dilatazione dei tempi di definizione dei giudizi presso le Corti d’Appello», infatti si aggiunge «l’entità ormai stratosferica e sempre crescente degli indennizzi liquidati», passati dai 5 milioni di euro del 2003 agli 84 del 2011. Un’”emorragia inarrestabile autoriproduttiva di ulteriori ritardi”. Insomma, “tutti i protagonisti debbono accettare un altro modello di servizio giudiziario”. «Un modello più snello, più rapido, meno costoso e meno intasato non soltanto è possibile ma è oggi assolutamente necessario e non più rinviabile. Ciascuno di noi sarà magari chiamato a rinunciare a qualche privilegio o a qualche abitudine consolidata e rassicu-
rante, ma così facendo consegneremo al Paese, cioè a tutti noi, un sistema giudiziario migliore e più giusto».
Proprio alla vigilia di Tangentopoli un personaggio indubbiamente al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Falcone, martire anti-mafia, aveva fatto una serie di “interventi e proposte” poi pubblicati nel 1994 da Sansoni, in cui ad esempio chiedeva la separazione delle carriere, «accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico
Le frasi corrette e condivisibili della Severino hanno sgelato Montecitorio
ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere». Secondo Falcone, infatti, «disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti». Ma già all’epoca l’atmosfera sul tema giustizia era divenuta irrespirabile, e infatti lo stesso Falcone si prese accuse gravissime di connivenza sia coi mafiosi che col potere politico. Prima che venisse la sua drammatica morte a rendergli paradossale giustizia. Giorgio Galli sostiene che era stato quando il Pci aveva cercato di inserirsi nella faida interna dc dello scandalo Wilma Montesi e ne era stato tacitato con la scoperta del suo avvocato di
punta Sotgiu a fare il voyeur della moglie in una casa di tolleranza, che aveva individuato una sua priorità nel penetrare i gangli vitali della Magistratura e della Stampa.
In effetti, il modo in cui Palmiro Togliatti aveva voluto il ministero della Giustizia nei governi del Cln lascia intendere che la strategia era iniziata da prima. Ma è dagli anni ’70 che con l’etichetta dei Pretori d’Assalto e il decollo di Magistratura Democratica viene allo scoperto l’esistenza di un settore sempre più importante di toghe che utilizza il proprio potere in chiave che se non è proprio rivoluzionaria, certo è esplicitamente politica. Loro d’altronde lo ammettono esplicitamente: Gianfranco Amendola ci scrive sopra un best-seller che si intitola In nome del popolo inquinato, e che diventerà uno dei manifesti del movimento ecologista italiano. Poiché a ogni azioni corrisponde sempre una reazione, quando dalla sinistra emerge un’altra proposta come quella del Psi
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Per lo storico Giovanni Sabbatucci «è finita l’epoca della contrapposizione frontale sulla giustizia»
«La caduta di Berlusconi apre all’era dell’armistizio»
Pdl, Pd e Udc sottoscrivono una mozione unitaria a sostegno della relazione del Guardasigilli. Un fatto inaudito rispetto al quindicennio trascorso di Riccardo Paradisi opo la relazione del ministro Severino sullo stato della giustizia nel Paese la Camera si distende in un lungo applauso. Non solo. Pdl, Pd e Terzo polo presentano una mozione comune sulle dichiarazioni del ministro in cui accolgono le sue dichiarazioni e le approvano. Un segnale importante e inedito che la Guardasigilli, ringraziando per la compattezza dimostrata dalle forze politiche che l’anno sottoscritta, definisce «non di forma ma di sostanza». La risoluzione comune Pdl-Pd-Terzo Polo d’altra parte è un fatto inedito, impensabile fino a pochi mesi fa. Quello della giustizia è stato infatti il fronte politico italiano più caldo e controverso dell’ultimo quindicennio, la linea che ha diviso come una faglia profonda i campi della politica, reso incomunicanti le classi dirigenti, disegnato il bipolarismo più selvaggio d’Europa.
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Una linea Maginot che ha visto schierate l’una contro l’altra le armate dei garantisti e dei giustizialisti, dei berlusconiani e degli antiberlusconiani, eserciti posseduti dall’ideologia chiodata della contrapposizione frontale, paralizzate dalla logica binaria del muro contro muro che non ha lasciato campo a sfumature, posizioni terze, all’equanimità di sguardo e di giudizio. Che ha espulso, di fatto, la moderazione intesa come stile pubblico prima ancora che come cultura politica. Ora invece non solo le armi sembrano deposte ma addirittura si fa largo l’ipotesi, anch’essa fanatapolitica fino a qualche mese fa, che sia possibile una riforma della giustizia condivisa dalle principali forze politiche. «Per quanto possa apparire paradossale - dice il ministro Severino – proprio oggi, in presenza di una drammatica congiuntura economica internazionale, si presenta l’occasione, forse irripetibile, di riformare davvero il sistema giudiziario italiano». Un auspicio, quello del ministro della Giustizia, dettato dall’urgenza drammatica del malfunzionamento della macchina giustizia in Italia e dallo stato tremendo delle carceri del Paese. «E si può fare questo lavoro ciascuno nel proprio ambito, trasformando le criticità in opportunità di sviluppo e di miglioramento dei servizi offerti al cittadino». Giovanni Sabbatucci, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, legge questo passaggio parlamentare come una svolta significativa. «È accaduto qualcosa di nuovo rispetto a quanto eravamo abituati a vedere e sentire in questi anni: sulla giustizia, una delle criticità prioritarie del Paese, si è cominciato invece a ragionare. E credo che si continuerà a farlo. Credo infatti si possa prendere atto che una
lunga fase di transizione e contrapposizione è terminata, che è improbabile che si ricominci da dove eravamo rimasti. Anche perché, a parte clamorosi colpi di scena, non riavremo Berlusconi presidente del Consiglio. È la situazione che si è determinata intorno alla sua condizione, al suo vero o presunto conflitto di interessi, alla sua vera o presunta persecuzione giudiziaria, ad aver paralizzato il dibattito sulla giustizia nell’ultimo quindicennio.
«C’è l’esigenza di voltare pagina. Anche la magistratura inquirente sta allentando la morsa» Ad aver impedito al buon senso di esprimersi secondo la realtà: ossia che se da un lato era vero che Berlusconi aveva un enorme conflitto d’interesse, dall’altro è sempre esistita in Italia un pezzo di magistratura politicizzata che con Berlusconi ha usato la mano pesante».
N o n c h e l a c o n t r a pp o s i z io n e tra politica e giustizia sia finita naturalmente anche perché in una democrazia in crisi è fisiologico che ognuno dei tre poteri abbia la tentazione di marciare per conto suo. «Però oggi c’è la possibilità - dice Sabbatucci - di avviare un discorso meno conflittuale e arrivare, anche sull’onda dell’emergenza a un impegno comune». Come è avvenuto per l’economia potrebbe insomma accadere per la giustizia. «Anche perché i lustri di guerra civile simulata hanno logorato tutte le parti in campo, hanno sfibrato partiti e posizioni, stancato gli italiani, presi ora da altre emergenze. Insomma è diventata insostenibile per chiunque la dialettica ad alzo zero tra berlusconiani e antiberlusconiani. C’è l’esigenza di voltare pagina e mi sembra ci sia anche la volontà di tutte le parti interessate
a farlo. D’altra parte mi sembrano un segnale chiaro sia le dimissioni di Berlusconi e dall’altro l’allentarsi della morsa d’una certa magistratura inquirente. Certo, c’è chi tenterà di suonare la stessa musica, di investire ancora sul giustizialismo e sul vittimismo giudiziario, ma si tratta di residui». Anche la vicenda degli esponenti Pdl Papa e Cosentino, a cui va aggiunto il caso del senatore Pd Tedesco, viene letto da Sabbatucci come un capitolo estraneo alla lunga storia della guerra civile simulata degli ultimi anni. «Si tratta di casi che nella loro diversità hanno a che vedere con la questione delle prerogative del Parlamento, che negando l’autorizzazione all’arresto non ha fatto altro che esercitare le sue prerogative come è sempre avvenuto durante la Prima repubblica».
craxiano che lo stallo della politica italiana cerca di sbloccarlo con un altro approccio, lo scontro è quasi fatale. La Dc aveva più che altro subito l’offensiva giustizialista. Il Psi craxiano sfrutta il discredito che sulla Magistratura era piombato per il caso di Enzo Tortora sponsorizzando quel referendum sulla responsabilità civile dei giudici il cui impatto concreto poi sarà in gran parte disinnescato, ma che segna per il “partito dei giudici” un grave rovescio simbolico. Per l’80,2% dei votanti i giudici devono pagare per i loro errori. Ma Tangentopoli offre ai magistrati l’occasione di ridiventare popolare, e di sferrare la devastante controffensiva. E poiché anche il Pci diventato Pds è in grave imbarazzo di fronte alle piega che la storia mondiale ha preso, a sua volta si unisce al fronte dei giudici.
All’atteggiamento passivo della Dc corrisponde il tentativo di resistenza di Craxi, che da una parte già nel discorso di fiducia al governo Amato I chiama in correità tutto il Parlamento; dall’altro accusa la magistratura di muoversi “dietro un preciso disegno politico”; dall’altra ancora attraverso l’Avanti! inizia a far indagare su certi altarini di Di Pietro. Sul momento, nessuna delle tre strategie sembra funzionare. Ma quando poi la discesa in campo di Berlusconi dà inizio alla Seconda Repubblica, per 17 anni il gioco politico ha continuato a incantarsi attorno al tema dei giudici. Per ben i governi del Cav hanno cercato di mettere mano a una qualche riforma della Giustizia: dal Decreto Biondi del 13 luglio del 1994, al Lodo Schifani del 22 giugno del 2003, alla Riforma Castelli del 20 luglio 2005, al Lodo Alfano del 22 luglio 2008, alla Legge su Legittimo Impedimento del 10 marzo del 2010. Il Decreto Biondi è stato affondato da una combinazione tra moti di piazza e strategici avvisi di garanzia; la Riforma Castelli è stata abbondantemente annacquata dall’intervento del Presidente Ciampi; il resto è stato cassato dalla Corte Costituzionale. Ampiamente condivisa l’impressione che la preoccupazione settoriale per i problemi di Berlusconi avesse via via prevalso sui progetti più complessivi. D’altra parte, però, quando è stato il centro-sinistra a provare a sua volta a mettere le mani sul problema, con le due riforme Mastella. Neanch’esse erano particolarmente radicali, ma sono costati alla consorte del ministro la vicenda giudiziaria che portò alla fine anche dell’ultimo governo Prodi. Quasi a ribadire il concetto che chi tocca i giudici muore. Proprio per il conflitto di interessi l’ultimo governo Berlusconi non è riuscito neanche nelle altre riforme proposte: dal processo breve alla legge sulle intercettazioni e alla riforma della Corte Costituzionale. È arrivato adesso il momento della svolta?
politica
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Le opinioni di Luca Bianchi, Biagio De Giovanni e Nico Perrone
Monti svolta verso Sud Esiste ancora una questione meridionale, oppure lo sviluppo del Sud rappresenta, come dice Mario Monti «un contributo decisivo per una crescita sostenibile e durevole dell’Italia e dell’Europa»? di Franco Insardà
ROMA. «Lo sviluppo del Mezzogiorno è un contributo decisivo per una crescita sostenibile e durevole dell’Europa». Da Mario Monti arriva un messaggio che fa ben sperare per quelle regioni del Paese considerate “la zavorra dell’Italia”. Il professor Biagio De Giovanni sull’argomento si dichiara disincantato:«Nelle dichiarazioni di Monti il Mezzogiorno non è più la palla al piede dell’Italia, ma nella realtà, purtroppo rischia di esserlo ancora. Non basta una dichiarazione per cambiare le cose. Ben venga una politica meridionalista. Sono tra quelli che da sempre sostengono che il Mezzogiorno debba avere un ruolo importante, quella di Monti, però, la considero una dichiarazione che definirei canonica e non strategica e decisiva. La ritengo più un frase da conforto, mentre bisognerà capire se le politiche che si stanno per adottare saranno in grado di rimettere in moto il Mezzogiorno».
meridionale. Va rilevato che per la seconda volta non viene ghettizzato nelle competenze di un unico ministro, ma c’è il tentativo, così come deve essere, di farlo rientrare nella strategia complessiva della politica economica. Il Sud viene ricollocato all’interno dell’agenda complessiva del governo, passando dalla politica delle concessioni al Mezzogiorno a quella di un orientamento favorevole delle politiche nazionali. Per il passato con questo sistema la classe politica ha avuto dei vantaggi, ma si è fatto molto poco per lo sviluppo, perché nell’ambito di interventi nazionali si riservava qualcosa per il Sud. Il quadro attuale è senz’altro interessante, ora bisogna verificare, al di là degli annunci, che cosa si potrà realizzare».
Nico Perrone, professore di Storia contemporanea all’Università di Bari, si mostra più diffidente: «Ci troviamo di fronte a un governo composto in larPer Luca Bianchi, vice direttore della ghissima maggioranza da settentrionali Svimez, si tratta di «un cambio di passo ed è quasi naturale che debbano dire rispetto al passato nell’attenzione al te- qualcosa per tranquillizzare le regioni ma del Mezzogiorno. Possiamo comin- del Sud, schiacciato sempre più dalla ciare a capire che la questione meridio- crisi. Può darsi che ci sia una maggiore nale possa diventare una opportunità attenzione da parte del governo al Mezzogiorno, ma penso che BIAGI DE GIOVANNI occorrerà attendere i fatti concreti. In questi giorni Con la politica registriamo, invece, la annunciata drastica riduzione dei treda questo governo ni a lunga percorrenza il Sud potrebbe per il Sud. E questo non non essere depone bene». considerato Per De Giovanni la quepiù la palla stione meridionale «esiste al piede dell’Italia, molto prima dell’unità ma nella realtà, d’Italia, ma è tramontato, purtroppo, invece, il vecchio modo di rischia di esserlo impostare la questione ancora meridionale. Tutto quello che è avvenuto nel decen-
LUCA BIANCHI
di risorse disponibili ci sono. Mi riferisco ai fondi Si tratta strutturali, molti dei quali di un cambio non sono stati spesi in di passo rispetto questi anni, su cui, finalal passato mente, c’è una maggiore nell’attenzione attenzione su come veral tema ranno utilizzati. Dei quadel Mezzogiorno. ranta miliardi del settenIl Sud viene nio ce ne sono ancora una ricollocato trentina disponibili. Si all’interno tratta di un salvadadell’agenda del nio sul quale si governo può rappresentare una spinta non nio berlusconiano: l’emergere della soltanto per il Sud, ma poquestione settentrionale, la Lega e il fe- tenzialmente alla crescita deralismo segnalavano un cambiamen- del Paese.Trovo debole, anto profondo nella società italiana. Un fe- che se funziona a livello di nomeno che non svanisce nel nulla e immagine l’andare a far che va tenuto presente affrontando la vedere a Bruxelles questione meridionale con parametri quello che funziona diversi. Non tutto quello che si diceva al bene nel MezzoNord era giusto, ma alcuni rilievi aveva- giorno. Un attegno un loro fondamento. Bisogna trovare giamento tipico un i modi per evitare il ritorno della dina- po’ della retorica mica della secessione e della questione meridionale che settentrionale. In questo periodo perso- fa il paio con il nalmente sono molto preoccupato per Sud solo terra quello che sarà il futuro dell’euro, tutti i di “Gomorra”. piani di sviluppo sono ovviamente lega- Penso che te al salvataggio della moneta europea. l’Italia debQuello dell’utilizzo dei fondi europei, ba presenusati malissimo finora, è un processo tare un piamolto lento e occorrerà prevedere degli no integrato investimenti nazionali». che preveda l’utilizzo di riSulla questione investimenti il vice- sorse per vadirettore della Svimez ritiene che «nel lorizzare aldossier che si porterà a Bruxelles biso- cune potengnerà individuare non le politiche com- zialità inespresse che il pensative, ma quelle per la crescita. Se Mezzogiorno ha. Occorc’è un’area da cui può partire la cosid- re coordinare le politidetta “fase due” non può che essere il che regionali, avere la Mezzogiorno, considerando che un po’ certezza dei fondi a di-
politica
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Incontro positivo tra il governo e gli amministratori del Sud
Fiducia da Parigi e stop da Berlino
Per la Germania «l’Italia può fare da sola», mentre la Francia appoggia il piano italiano di Francesco De Felice
ROMA. Berlino rimanda al mittente coltà e che ogni anno riusciamo a sten-
NICO PERRONE
La vicenda trasporti sollevata dal ministro PasPuò darsi sera è corretta e Luca che ci sia Bianchi ritiene che Treniuna maggiore talia abbia realizzato attenzione «una vera e propria seda parte cessione ferroviaria che del governo va ben oltre qualsiasi anal Mezzogiorno, nuncio leghista». ma penso Anche De Giovanni conche occorrerà corda: «Il trasporto ferattendere roviario è regredito in fatti maniera evidente. La concreti proposta di Passera di pensare ad agenzie regionali potrebbe essere sposizione, concentrare gli interventi, positiva, perché romperebbe alcuni come pensa di fare il governo, su delle monopoli passivi e sarebbe uno di quei priorità e una corretta informazione processi aggregabili alle liberalizzasull’utilizzo delle risorse». zioni. Se si smettesse di discutere dei Il governo nella sua agenda, taxi e si cominciasse ad affrontare dei secondo il professor De capitoli più seri come l’energia e i traGiovanni, deve avere sporti sarebbe meglio». «ben chiari gli interventi per il Mezzogiorno, La proposta del governatore della ma non penso siano Sicilia Raffaele Lombardo sulla fiscasufficienti i fondi eu- lità di vantaggio trova d’accordo De ropei. Occorrono del- Giovanni; «Potrebbe essere una delle le politiche infra- misure decisive per il rilancio del Mezstrutturali e impren- zogiorno, perché permetterebbe la ditoriali che pre- creazione di imprese private, incentisuppongono inve- vate a investire. Ovviamente coniugate stimenti che non con la riforma della giustizia, la lotta mi sembra ci sia- alla criminalità organizzata e lo svino. Il governo luppo delle infrastrutture. È vero che le Berlusconi ha mafie sono diffuse anche al Nord, ma avuto un’occasio- le basi sono al Sud. Ci troviamo di ne storica negli anni fronte al classico cane che si morde la scorsi che non ha uti- coda: alcune cose si possono fare a lizzato, deludendo molti patto che se ne realizzino altre che, a e io ero tra questi. Il loro volta, sono condizionate. Occorrepiano per il Sud, la rebbe un colpo d’ala, di fantasia e di Banca del Sud sono forza politica che spero questo goverstati soltanto degli no possa avere. Monti a di fronte a se annunci ai quali non una settimana decisiva per il suo eseè seguito nulla». cutivo e per il Paese».
l’appello romano di Van Rompuy e Monti con un secco: «Potere fare da soli», mentre da Parigi, tramite il suo ministro dell’Economia, Francois Baroin, arriva un attestato di ottimismo: «Abbiamo piena fiducia nel piano dell’Italia». Una fiducia ribadita da Bruxelles che segue con attenzione le nostre vicende e le mosse del governo presieduto dall’ex rettore della Bocconi, proprio nel giorno in cui un’altra agenzia di rating, Fitch, si dice certa del default greco e anticipa un possibile declassamento per il nostro Paese. Oggi e domani il commissario europeo alla Politica regionale Johannes Hahn visiterà Liguria e Campania e incontrerà Mario Monti, il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi e l’amministratore delegato di Trenitalia Mauro Moretti.
La fase due dell’esecutivo procede e ieri Monti, insieme ai ministri Passera, Clini, Barca e Profumo ha ricevuto a Palazzo Chigi i presidenti delle Regioni del Mezzogiorno e una delegazione di sindaci. Il dossier su “il Mezzogiorno e l’Europa”, al quale sta lavorando il governo, «sarà pronto la prossima settimana», ha detto il ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, al termine dell’incontro. Il documento conterrà anche i provvedimenti per il Sud già approvati dal governo: i 9,6 miliardi sbloccati per il potenziamento delle reti infrastrutturali e l’impegno per colmare entro il 2013 il divario digitale. Il ministro Barca ha aggiunto: «È stato un incontro molto interessante e ha fornito spunti per mettere a punto il dossier per il Mezzogiorno, le cui linee sono frutto di una coesione tra i presidenti delle Regioni, i sindaci, i ministri e il premier per capire che se l’Italia è il volano della crescita per l’Europa il Sud lo è per quella dell’Italia». Il governatore siciliano Raffaele Lombardo, ha sottolineato la necessità di una «fiscalità di vantaggio, che noi abbiamo sperimentato con straordinario successo attraverso il credito di imposta per gli investimenti. Una fiscalità diversa, molto più efficace rispetto ai fondi strutturali che comportano diffi-
to a risparmiare dal disimpegno». Secondo Lombardo sarebbe possibile utilizzare «un miliardo di euro, riconvertendo i fondi strutturali e convincendo l’Europa». Soddisfatto il governatore della Puglia Nichi Vendola: «A Bruxelles sarà presentato il Sud che funziona, quello delle buone pratiche». Secondo il presidente pugliese è importante che il Mezzogiorno abbia «visibilità, dopo che è stato oscurato per 20 anni e chiuso in un sortilegio cattivo. Il Sud, come il Nord, deve fare i conti con mafia e illegalità».
Tanti i temi affrontati a cominciare dai trasporti locali pubblici regionali. che secondo il ministro Passera sarebbe «un sistema insufficiente e costoso», per il quale avrebbe proposto la costituzione di «agenzie regionali». Ottimismo è stato espresso anche da Vito De Filippo, presidente della Basilicata: «Ciascuna Regione ha presentato un progetto e una pratica anche di rigore in termini di risparmio e di efficienza della pubblica amministrazione». Proprio sul tasto dolente dei costi si è soffermato il governatore della Campania Stefano Caldoro: «Chiediamo risorse sicure e certe perché la difficoltà di liquidità è un problema sociale. È necessario che sul patto di stabilità si faccia un passo avanti e sia più flessibile. Siamo soddisfatti perché abbiamo rafforzato la governance comune». La condizione indispensabile per il rilancio del Mezzogiorno secondo il sindaco di Bari, Michele Emiliano, è «una lotta alla mafia senza pietà. Ho proposto di implementare in tutte le città del Sud con periferie a rischio, l’Agenzia per la lotta alla criminalità organizzata, strumento che stiamo testando a Bari da qualche tempo e che ha dato ottimi risultati». Il suo collega napoletano Luigi De Magistris ha apprezzato la decisione di convocare gli amministratori locali del Sud: «Ci hanno soprattutto ascoltato, è stato un incontro riepilogativo, ma la concretezza si avrà dai tavoli tecnici. Ora attendiamo i fatti».
Il ministro Barca: «La prossima settimana sarà pronto il dossier su “Il Mezzogiorno e l’Europa”, al quale stiamo lavorando»
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Il Monòpoli delle Le difficoltà di Unicredit, dai sogni internazionali di Profumo alla ricapitalizzazione difensiva di Ghizzoni sono il paradigma del capitalismo all’italiana di Giancarlo Galli ovremmo avere il coraggio di ammetterlo: quel che sta accadendo da troppi anni nel sistema bancario italiano è un mistero. Di quelli dolorosi per almeno un paio di milioni di piccoli risparmiatori-azionisti che avevano creduto nella favola bella di un “buon investimento”, ritrovandosi fra le mani poco più che “pezzi di carta”. Emblematico il caso di Unicredit, al “disonore”delle cronache finanziare per un tracollo della quotazione in Borsa che ben fotografa la drammaticità dello scenario. Si rifletta. Al culmine della sua stagione di gloria (evidentemente effimera), il titolo era arrivato a quotare 7,65 euro. Siamo nel 2007, ed il suo amministratore delegato Alessandro Profumo veniva celebrato dal Financial Times come “Alessandro il Grande”. Nell’intervista non si nascondeva le ambizioni: “Unicredit è un player italiano, ma non è vero che siamo una banca italiana. Ci poniamo l’obiettivo di essere la prima banca europea”. Promessa mantenuta con l’acquisizione della Hpv, quarta banca tedesca che controlla Bank Austria e la polacca Pbh. Sino alla fusione fra un Gruppo Intesa retto da Giovanni Bazoli ed il San Paolo di Torino, Unicredit è leader italiano, il quarto dell’area euro, il nono dell’intero Vecchio Continente. 28 milioni di clienti, settemila sportelli in diciannove paesi, 800 miliardi di attivo. Mentre i 316 mila azionisti si leccano i baffi: un ricco dividendo e le quotazioni in vertiginosa ascesa. C’è in piazza Affari chi sostiene che non è tutto oro quel che luccica: è trattato da menagramo!
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Sennonché la stella del Profumo enfant prodige, nato a Genova nel 1957, cresciuto dopo la laurea in Bocconi alla McKinsey pouponnière di manager di successo, improvvisamente registra un appannamento. Per mai chiariti motivi ha dovuto subire il diktat del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio che gli ha imposta (moral suasion, si preferisce sostenere), l’acquisizione
della Capitalia di Cesare Geronzi che ha in pancia le uova di pietra (e cioè i debiti) del Banco di Sicilia e del Banco di Roma. Mentre si scopre che pure la campagna acquisti in Germania e Balcani è tutt’altro che un affarone. Il valore borsistico di Unicredit rapidamente precipita. Sennonché il Profumo, dai detrattori ribattezzato “Mister Arrogance”, tetragono sostenitore della vocazione internazionale di Unicredit, aggrega nell’azionariato di controllo di Unicredit le banche libiche di Gheddafi, il fondo sovrano di Abu Dabhi, i tedeschi di Allianz. Al teutonico Dieter Rampl, la presidenza. E comincia la giostra degli aumenti di capitale. In questi giorni, qualcuno ha fatto i conti: nel momento del massimo splendore, Unicredit capitalizzava in Borsa 69 miliardi di euro. La scorsa settimana, alla vigilia dell’ultimissimo aumento di ca-
I problemi sono iniziati quando l’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio «impose» all’istituto milanese di acquisire Capitalia di Geronzi pitale da 7,5 miliardi si era scesi attorno ai dieci o poco più. Calcoli approssimativi, che tuttavia rendono l’idea. Nel frattempo, Alessandro il Grande era uscito di scena, con una liquidazione attorno ai 50 milioni. La poltrona del generalissimo è passata ad un colonnello di lungo corso, il manager Federico Ghizzoni che dell’ex comandante spremo non sembra tuttavia condividere progetti e strategie. Al carisma del predecessore che sognava in grande, contrappone il realismo di un ordinario ripiegamento: concentrarsi sul nocciolo duro, l’Italia. Può avere ragione, se disponesse di quelle doti che trasformano, come sosteneva Napoleone, un soldato in un Condottiero. La sua indubbia onestà è limitata da una prudenza ai confini della reticenza. Certo, non è il solo a sostenere che la Banca, la sua Unicredit, è solida nella fondamenta. Sennonché certe cose nemmeno si devono dire… in questo le regole non scritte della finanza sono categoriche. Il
volenteroso Ghizzoni a lungo proclama che non vi sarà bisogno di ulteriori aumenti di capitale. Perché non presagire che, all’annuncio, lo sconcerto sarà generale. Al pari dell’operazione lanciata alla vigilia di Natale, col raggruppamento delle azioni di Unicredit. Una nuova contro dieci vecchie. Uno sprovveduto, osservando il listino constata: le azioni sono tornate a 7 euro. Abbaglio: in realtà, 70 centesimi. È comprensibile a questo punto che l’ennesimo aumento di capitale finisca come s’ha da temere debba finire: il Consorzio di garanzia messo in piedi da Mediobanca che ha in Unicredit il primo azionista, dovrà mettersi sulle spalle gran parte dell’inopinato. Infatti gli stessi soci storici di Unicredit, dai libici ad una miriade di Fondazioni bancarie, nicchiano.
Sin qui le Grandi Manovre attorno ad Unicredit, che fanno il paio con altre: i guai in cui versano colossi dai piedi d’argilla quali il Monte Paschi di Siena, il Gruppo Popolare di Verona, la Popolare di Milano e via via in questo mesto rosario. Ma scavando in profondità, bisogna rispondere ad una domanda che fin qui non ha trovato che parziali risposte: perché il sistema bancario italiano annaspa? Verità è che le nostre “carissime”banche si sono illuse di poter agire, sfruttando un ginepraio di compiacenze politiche prescindenti dalle referenze
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e Banche (di Stato) La ricapitalizzazione
Un’operazione (difficile) da 7,5 miliardi di euro
partitiche, in regime di assoluta irresponsabilità gestionale. Concedendo, negli anni dell’economia rampante, crediti ad occhi chiusi. Alle aziende come ai privati specie nel settore dei mutui. Un po’ tutti, al di là del “colore” dei consigli d’amministrazione, avevano creduto nello sviluppo infinito del consumismo grazie al credito facile. Viene da chiedersi quanti fra i banchieri in circo-
Per i detrattori, il nuovo numero uno di Piazza Cordusio può vantare «una indubbia onestà limitata da una prudenza vicina alla reticenza» lazione o fra quelli che hanno già pagato pegno (da Antonio Fazio a Cesare Geronzi per fare un paio di nomi illustri oltre a quello di Profumo), nel loro agire si siano lasciati incantare dalle sirene dello sviluppo infinito.Va da sé che non hanno “peccato”solo i “nostri”, ma ovunque. Sennonché, nel mondo capitalistico, il ricambio della classe dirigente è stato più deciso e talvolta brutale che sotto i nostri cieli. Inutile col senno di poi piangere sul latte versato, peggio: sul sangue del risparmio; occorre guardare oltre la Caporetto bancaria-borsistico-finanziaria che stiamo vivendo. Le
follie del capitalismo probabilmente impongono sterzate a 360°. Un po’ come succede con la Grande Crisi degli Anni Trenta cui l’attuale sempre più strettamente s’apparenta.
La privatizzazione delle banche trasformatasi in “mercato” fra i potentati economici pubblici e privati, potrebbe essere stato un colossale errore. Rammentiamo che, in un quadro non molto diverso, appunti negli Anni Trenta, venne costituito l’Iri che assunse il controllo de Facto delle tre maggiori banche: Credito Italiano, Commerciale, Banco di Roma. Fu “dirigismo”, certo; ma esiste ancora un pluralismo liberista che meriti di essere difeso? Che pluralismo era poi se in un susseguirsi di balletti fra “soliti noti” le stesse banche, le compagnie di assicurazione, si spartivano le poltrone? Non è dunque pretesa eccessiva adombrare l’urgente necessità che dopo aver tanto peccato il sistema bancario-finanziario venga rimesso in riga? Richiamandolo alla sua primaria responsabilità: favorire il rilancio dell’economia reale, anziché attardarsi in una difesa ad oltranza di una casta di oligarchi che ha in buona misura fallito. Spiace infatti scriverlo, ma se in questo momento ci troviamo con l’acqua alla gola, non poca responsabilità va caricata sulle spalle della casta dei banchieri. Unicredit docet.
MILANO. La ricapitalizzazione di Unicredit sarà di 7,5 miliardi di euro; sempre che gli investitori accolgano l’appello del colosso bancario italiano. Il passo più importante, subito dopo la decisione presa dall’Assemblea straordinaria a metà di dicembre scorso, è stato il via libera del governo italiano allo sblocco dei fondi della Banca Centrale libica, socio al 4,99% dell’istituto italiano. I libici, infatti, sono stati i primi ad accettatare la ricapitalizzazione della banca. Subito dopo, in modo fortemente simbolico il vice direttore generale di Unicredit, Paolo Fiorentino, ha partecipato all’aumento di capitale dell’istituto sottoscrivendo 102 mila azioni, per un controvalore di 200 mila euro. L’operazione è stata decisa, come si ricorderà, dopo un lungo peridodo di polemiche e al termine di una riunione fiume presso la sede della Banca di Roma, che si è protratta per sei ore e ha visto la presenza dei grandi soci per un totale del 33% del capitale: Mediobanca (5,24%), Aabar (4,9%), Banca Centrale della Libia (4,98%), Cariverona (4,2), Blackrock (4,02%), Caritorino (3,3%), Carimonte (2,89%), Lybian Investment Authority (2,59%) e Allianz (2,043); l’unica astensione alla decisione è stata presa dalla Fondazione Bds con lo 0,6%. Il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, ha spiegato che si tratta di «una operazione che è come un patto di onore, un patto di fiducia tra chi lo richiede e gli azionisti che ne sopportano l’onere». Rampl, poi, ha ricordato come l’impegno richiesto ai soci è «quanto ci spetta dopo la decisione assunta dal Consiglio Europeo che ha assegnato alla Bce il compito di assicurare a tutte le banche liquidità e la capacità di sostenere quanto può garantire alle nostre comunità una crescita equilibrata ma più sostenuta rispetto a quanto avuto sinora». Evidente, infatti, il legame tra la maxi-operazione e la colossale apertura di credito alle banche europee da parte della Bce.
Federico Ghizzoni è il nuovo numero 1 di Unicredit. A Piazza Cordusio (nella foto al centro) ha preso il posto dell’ex amministratore delegato dell’espansione internazionale: Alessandro Profumo
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Interrogato dal gip di Grosseto, l’ufficiale si difende ma rischia 15 anni di carcere. Intanto sale a undici il bilancio delle vittime: recuperati 5 cadaveri
La versione di Schettino Il comandante della Concordia nega di aver abbandonato la nave e attacca: «Ho salvato migliaia di persone» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Ero io al comando della nave». Ma «non potevo risalire. La nave dopo l’urto con lo scogli ha avuto uno sbandamento di 90 gradi». Nel giorno dell’interrogatorio di garanzia davanti al gip di Grosseto,Valeria Montesarchio, il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, conferma quanto detto al pubblico ministero subito dopo il naufragio, ma si difende dall’accusa di aver abbandonato la nave nel naufragio dell’Isola del Giglio. «Ho salvato, centinaia, migliaia di persone», ha attaccato il comandante della nave Costa Concordia, Francesco Schettino, in risposta alle domande del gip. A darne notizia, al termine dell’udienza di convalida dell’arresto sono stati il procuratore capo Francesco Verusio e l’avvocato del comandante, Bruno Leporatti. Ma «la ricostruzione fornita dal comandante della Costa Concordia Francesco Schettino non ha modificato l’impianto accusatorio», ha precisato lo stesso Verusio. Mentre il legale dell’uomo, rivolgendosi ai giornalisti fuori dal tribunale, ha perorato la causa del suo cliente, sul quale pende l’accusa di aver abbandonato in anticipo la nave: «Provate voi se vi riesce a risalire su una imbarcazione in quelle condizioni. Ci vuole un elicottero…ci vuole». Per Leporatti «non sussiste alcuna esigenza cautelare». Al termine dell’interrogatorio il comandante della Concordia è stato riaccompagnato nel carcere di Grosseto, ma prima di salire su un mezzo della polizia penitenziaria ha avuto un breve colloquio con la moglie, il fratello Salvatore e un cugino. Fonti vicine all’inchesta rivelano che Schettino sarà sottoposto a esami tossicologici con l’intento di verificare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti da parte del comandante la notte del naufragio. Ma dall’interrogatorio non sono trapelati ulteriori dettagli sulla dinamica dell’incidente. «C’è un segreto istruttorio che dobbiamo rispettare», ha detto il procuratore capo di Grosseto. Rifiutatosi di tornare a bordo a coordinare i soccorsi, forse dopo una manovra spregiudicata che ha sospinto l’imbarcazione contro gli scogli dell’isola del Giglio, il capitano della Costa crociere «rischia fino a 15 anni di carcere», secondo quanto riferito dal pm di Grosseto Verusio, se dovessero essere confermate le accuse di «omicidio colposo plurimo, naufragio e abbandono di nave».
Il bilancio delle vittime si è accresciuto ieri di altre cinque unità, dopo il ritrovamento di una donna e di quattro uomini nella parte di poppa sommersa della nave affonda-
ta venerdì notte. Tutte comprese tra i 50 e i 60 anni, sono state rinvenute dai sommozzatori nei pressi di un punto di raccolta ormai sommerso, non lontano dal luogo in cui erano stati già recuperati i corpi senza vita dell’italiano Giovanni Masia e dello spagnolo Guillermo
Il procuratore capo Francesco Verusio ha spiegato in conferenza stampa che «la ricostruzione fornita dall’indagato non ha modificato le accuse» Gual. Tutti indossavano ancora i giubbotti salvagente. Secondo la prefettura, sono ancora ventinove i dispersi dopo il naufragio, ma l’elenco è ancora approssimativo perché fondato soprattutto sui nomi “rivendicati”, cioé di cui sono state chieste notizie dai familiari o dai consolati. «Al momento» – ha detto il Capo dipartimento della Protezione civile, Franco Gabrielli, «abbiamo 29 dispersi rivendicati da familiari o da autorità consolari. Uno di questi è probabile sia riconducibile al cadavere di un cittadino te-
desco che sarà sottratto a questa lista quando ci sarà la certezza che è lui. Noi non abbiamo la lista ufficiale dei passeggeri che è sulla nave e deve essere recuperata». E ieri Vigili del Fuoco e Capitaneria hanno smentita la notizia del ritrovamento di un settimo cadavere, che era circolata attorno alle tredici. Il bilancio dunque, è fermo al momento a sei morti e 29 dispersi. Di questi, ha comunicato l’Unità di crisi della Protezione civile, quattro sono componenti dell’equipaggio: oltre a un italiano mancano all’appello un ungherese, un indiano e un peruviano. E latitano ancora le notizie di altri 23 passeggeri di cui tre italiani, quattordici tedeschi, quattro francesi e due statunitensi. Le loro ricerche sono riprese ieri mattina attorno alle 8 e mezzo, dopo la forzata pausa notturna decisa dopo che i leggeri movimenti della Concordia hanno convinto i soccorritori a interrompere le operazioni.
Per cercare di velocizzare i tempi, gli uomini della Marina Militare hanno utilizzato delle microcariche esplosive per aprire dei varchi sulla chiglia della nave in modo da tracciare una rapida via d’accesso alle parti sommerse del relitto. La speranza, alimentata dallo stesso ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, è quella di ritrovare delle persone rimaste vive a bordo della nave, che potrebbero aver trovato rifugio in qualche comparto della stessa non invaso dalle acque. «Considerando l’alto numero di dispersi», ha detto Clini, «non è da escludere, ma bisogna fare in fretta». «I subacquei», ha aggiunto il titolare dell’Ambiente, «stanno facendo un lavoro molto rischioso operando in condizioni molto difficili, ma necessarie per cercare di recuperare eventuali altre persone. Ora la priorità è salvare le possibili vite umane». Ma Clini ha anche spiegato le ragioni che hanno indotto lo Stato di emergenza, «dichiarato per consentire e attuare le misure in tempi rapidi, cioè corrispondenti alla sfida di evitare la dispersione in mare di oltre 2000 tonnellate di carburante stivate nei serbatoi. Abbiamo bisogno di procedere con urgenza, in tempo più
brevi di quelli consentiti dalle procedure ordinarie». Ma la sensazione che la posizione di Schettino sia gravata ormai da pesanti indizi di colpevolezza, è stata confermata anche dall’audizione al Senato del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera. Il naufragio della Costa Concordia, ha detto l’ex numero uno di Banca Intesa, è «un caso drammatico, un clamoroso caso di errore umano o quantomeno di non rispetto di policy e regole». Emergono frattanto nuovi dettagli sul terribile timing di venerdì scorso. Sono stati due abitanti dell’Isola del Giglio i primi a dare l’allarme, da terra, del naufragio della Costa Concordia. Poco dopo le 21 e 30, Matteo Coppa e Ido Cavero hanno riferito di aver visto una grande nave da crociera inclinata tra lo scoglio della Gabbianara e il Porto, e di aver immediatamente lanciato l’allarme alla Capitaneria di Porto del Giglio, da dove sarebbe poi stata allertata la Guardia Costiera di Porto Santo Stefano. I due isolani sarebbero poi stati raggiunti da un uomo della Capita-
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Il rischio è che la nave scivoli verso l’abisso con i serbatoi pieni
Ora scatta la corsa per salvare il clima di Massimo Fazzi a corsa contro il tempo scattata venerdì 13 gennaio non punta soltanto a recuperare i dispersi (che oramai rischiano di essere iscritti nel listino delle vittime) del naufragio della Costa Concordia, ma anche per evitare un disastro ambientale. I serbatoi della nave sono pieni di oltre 2300 tonnellate di gasolio (di cui 2000 di heavy fuel e 300 di carburante più leggero). Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha già avvertito la Costa Crociere: dovrà presentare il piano per lo svuotamento dei serbatoi entro 48 ore. Meno di due giorni, altrimenti la situazione potrebbe trasformarsi in una catastrofe. Clini ha anche spiegato che giovedì al Consiglio dei Ministri verrà proclamato lo stato di emergenza. La Concordia è appoggiata su un fondale di 30 metri: se scivolasse più in basso (a pochi metri si apre un abisso), a causa delle condizioni metereologiche instabili, si inabisserebbe. A quel punto sarebbe un disastro ambientale, impossibile recuperare il gasolio e tutte le varie sostanze chimiche se la nave affondasse. Il relitto è già scivolato di nove centimetri in avanti e di uno e mezzo di lato e da giovedì in poi è previsto un peggioramento del meteo con mareggiate e onde alte fino a un metro e mezzo. «Abbiamo lasciato due vie di fuga (una a prua e una a poppa) e 40 metri di distanza dalla nave per dare possibilità di intervento alle vedette delle forze dell’ordine», ha detto Lorenzo Barone, responsabile del progetto antinquinamento marino del ministero dell’Ambiente. Ieri, nelle acque antistanti l’isola del Giglio, è stato trovato del fluido oleoso che si sta cercando di circoscrivere utilizzando le cosiddette “panne”, barriere protettive galleggianti anti-inquinamento.Al Giglio sono arrivati tecnici e ingegneri della società olandese “Smit Salvage” e di quella italiana “Fratelli Neri”, le società specializzate incaricate dalla Costa Crociere di recuperare il carburante. «Inizieremo i lavori prima possibile, non abbiamo ancora il via libera dei soccorritori, la priorità va a loro. Finché esiste la possibilità, anche la minima, cercheranno di trarre in salvo i dispersi. Il nostro lavoro è subordinato al loro ok. Noi stiamo valutando la logistica, la possibilità sul come intervenire. Le nostre difficoltà sono identiche a quelle dei soccorritori: le condizioni meteorologiche».
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Max Iguera, socio della Cambiaso-Risso, rappresentante in Italia della Smit, la società olandese che ha recuperato il sottomarino russo Kursk e bonificato nel 2008 il relitto della petroliera Haven affondata nel 1991 davanti al porto di Genova a una profondità di 80 metri. A lui la Costa Crociere ha affidato la missione estrema di svuotare la Concordia di 2.400 tonnellate di carburante e, di fatto, di salvare l’intero arcipelago dell’Argentario da un possibile disastro ambientale di dimensioni immani. Intervistato da Panorama, spiega che «le condizioni meteo al momento sono stabili e finché si manterranno tali è presumibile che la situazione non cambi. A meno che non ci siano movimenti improvvisi dello scafo che però al momento non mi risultano esserci». Per quanto riguarda il recupero, Iguera spiega: «La prima fase delle operazioni riguarderà il recupero del combustibile. La società Smit ha un contratto con gli armatori della nave solo per questa operazione. Il carburante deve essere pompato dalle 17 cisterne nelle quali si trova tramite pompe esterne e apparecchiature di vario genere inclusi sistemi di riscaldamento del combustibile per aumentarne la fluidità visto che alla temperatura in cui si trova sott’acqua tende a condensarsi. Successivamente sarà pompato all’interno di una nave cisterna atta a riceverlo e infine mandato allo smaltimento. Il motivo per il quale l’operazione di rimozione del combustibile è molto delicata sta proprio nel fatto che bisogna tenere in considerazione una molteplicità di fattori. L’obiettivo primario è evitare qualsiasi tipo di sversamento e per questo la Smit ha delle appare particolari che addirittura permettono di poter forare la cisterna e allo stesso tempo estrarre il carburante senza che ne esca una goccia, a patto, ovviamente, che le cisterne siano intatte. La fase successiva a questa procedura, che si chiama Hot Tapping, prevede una serie di calcoli di stabilità per verificare che qualunque manovra di alleggerimento non pregiudichi la stabilità della nave».
Al Giglio sono arrivati tecnici e ingegneri della società olandese “Smit Salvage” e di quella italiana “Fratelli Neri”, incaricati di salvare il salvabile
neria di Porto del Giglio insieme al quale avrebbero raggiunto la nave alla deriva in motoscafo, dando il via alla mobilitazione dei soccorsi da terra.
Oggi sono previste le autopsie su cinque delle sei vittime del naufragio all’ospedale di Orbetello e l’inizio delle operazioni della Smit, incaricata di estrarre 2mila e 380 tonnellate di carburante dal serbatoio della Costa Concordia. ll presidente della commissione Lavori pubblici del Senato, Luigi Grillo annuncia un’indagine conoscitiva volta ad accertare i fatti del Giglio.
di fauna da salvare, il vero patrimonio dell’arcipelago toscano. Secondo uno dei tecnici incaricati di evitare il disastro «l’operazione di svuotamento delle cisterne è estremamente complicata, non stiamo parlando di togliere l’acqua dalla piscina di casa. Ma fino a quando rimangono intatte le cisterne, abbiamo buone possibilità di poter intervenire in sicurezza anche qualora la Concordia dovesse inabissarsi».
Nella foto grande, la Costa Concordia incagliatasi venerdì scorso sugli scogli dell’isola del Giglio ( a destra uno scorcio). A sinistra, un sub
Le operazioni di “debunkeraggio”, cioè aspirare il gasolio utilizzando delle navi cisterne per portarlo via dalla nave, una volta partite, dureranno circa 15 giorni. A rischio c’è un ambiente, quello del Giglio, protetto. Ci sono settecento specie di flora e
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Il premier Alex Salmond vuole portare i cittadini al voto nel 2014 per un referendum che dividerebbe Edimburgo dal Regno Unito dopo 300 anni
Se la Scozia fa bye bye Riuscirà Cameron a bloccare la spinta secessionista? Sì, ma solo se la consultazione si terrà a stretto giro. Viceversa... di Antonio Picasso ll’alba del 2012, un anno interessante per il Regno Unito, David Cameron non si sa ancora se vinca o perda nella schiera di sfide che lo attendono. Due i maxi appuntamenti per il Paese: le celebrazioni del 60esimo anniversario dell’ascesa al trono di Elisabetta II, il prossimo 6 febbraio, e le Olimpiadi di Londra, in estate.Tuttavia, Downing street non può che dirsi serena nel preparare questi ulteriori show del Paese. Da entrambi si prevedono buon introiti per i forzieri un po’ vuoti del Regno. Ecco, è appunto sull’unità del Regno che risiedono le inquietudini del primo ministro. Le ambizioni di indipendenza della Scozia non sono da prendere sotto gamba. L’8 gennaio il premier ha dichiarato che il suo governo concederà all’Holyrood (il parlamento scozzese) l’autorità giuridica di indire un referendum sull’indipendenza, a condizione che quest’ultimo si limiti a rivolgere una domanda secca “in/out”. Due giorni dopo il premier scozzese Alex Salmond ha annunciato l’intenzione di indire una votazione per l’autunno del 2014. La storia delle Highlands non è quella della Padania. Sebbene, fino a qualche anno fa, l’argomento si limitasse a riscuotere successi di botteghino. Erano i tempi delle pellicole su William Wallace (Braveheart) e su Rob Roy. La figura più illustre dello Scottish National Party era Sean Connery. Bellissimo nel suo kilt, ma politicamente innocuo. Oggi, con il rischio che un referendum provochi un’ulteriore separazione in seno al Regno Unito, la questione scozzese è tornata al centro del dibattito nazionale.
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tro tasselli del puzzle britannico (Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord e appunto Scozia) fanno della corona un esempio di federalismo ibrido. Prima di tutto perché si tratta di una monarchia. Unico è il sovrano, due i regni, uno il principato, per l’Ulster non si è mai capito. Da un punto di vista amministrativo, le quattro federazioni hanno sempre goduto della piena autonomia. Dal fisco alle leghe sportive, passando per il sistema sanitario e terminando con le congregazioni religiose. Edimburgo ha la sua Bank of Scotland, a cui seguono bandiera, inno con cornamuse, nazionali di calcio e via discorrendo. Le stesse onorificenze concesse da Sua Maestà per i cittadini scozzesi fanno parte di ordini cavallereschi differenti. La regina è capo di una Chiesa di Scozia la quale, sebbene protestante, non si scisse dal cattolicesimo per gli stessi motivi che diedero vita all’anglicanesimo. Di fronte a tanta grazia, verrebbe da chiedersi cos’altro vuole Salmond. Semplice: una fetta più grande di autonomia economica-fiscale, pur restando nel grembo della Corte di San Giacomo e del Commonwealth. In gergo la chiamano devo-max, ossia una riforma che emancipi quasi al cento per cento la Scozia dalle manovre finanziarie londinesi. Nelle mani degli inglesi resterebbero la gestione della difesa, della politica estera e qualche altra limitatissima attività tesa però solo a questioni d’oltremanica. I progetti referendari sono due. Cameron è d’accordo nel coinvolgere l’opinione pubblica, ma limitandosi a chiederle un parere sull’indipendenza; “sì o no”, nient’altro. Da Holyrood, invece, giunge la richiesta di inserire maggiori quesiti, affinché l’elettore possa ragionare anche su questioni particolari. Devo-max in primis. È logico che facendo riflettere i cittadini in termini di contributi – e non solo ideologicamente – il clan indipen-
Il leader dello Scottish National Party è stato chiaro: «Ce ne andremo con i nove decimi delle riserve di petrolio del regno»
È da quindici anni che Londra ha riconosciuto la giurisdizione locale dello Scottish Parliament. In questo periodo, non essendosi placati i desideri di separazione, Edimburgo ha saputo accattivarsi l’opinione pubblica locale. I quat-
dentista Salmond avrebbe più chance di vittoria. Altro che la libertà di cui parlava Wallace ai tempi dei Plantageneti! Tra scozzesi e inglesi, il livore si ridotto a un mero problema di portafoglio. Del resto, la maggior parte delle risorse petrolifere del mare del Nord sono in acque territoriali britanniche sì, ma oltre la linea immaginaria di prosecuzione del Vallo di Adriano.
Se la Scozia ottenesse l’indipendenza, la quasi totalità degli introiti del settore energetico cambierebbero destinazione: da Londra a Edimburgo. Si tratta di 11 miliardi di sterline (anno fiscale 2011/2012). Un rendimento che è destinato a salire. I detrattori di Salmond, comunque, sono convinti che una maggiore autonomia della nazione scozzese mettere in luce le strategie sempre più populiste del governo di Edimburgo. In parole povere gli scozzesi non sarebbero capaci di governarsi da soli. Ed è per questa ragione che, tre secoli fa, dovettero soccombere alle giubbe rosse. Per Cameron sicuramente non si tratta di un argomento spensierato. Il governo
tory paga la scelta compiuta nel 1997 da Blair di concedere i poteri a un parlamento scozzese eccessivamente intrecciato con quello di Londra. Già in quegli anni fu messo in luce il rischio che Westminster facesse da assemblea rappresentativa degli affari inglese e, al tempo stesso, della politica nazionale britannica. Mentre Edimburgo si sarebbe limitata a essere una realtà locale. Questo è
L’opinione dell’ex direttore del Times
Londra accetti la devolution Se non lo fa, perderà anche il Galles e l’Irlanda del Nord di Simon Jenkins i risiamo. L’Irlanda se n’era già andata. La Scozia sta per fare altrettanto. Poi sarà la volta del Galles. E dopo? Della Cornovaglia? Dell’Isola di Wight? Non si può sapere che cosa implicherà per il Regno Unito l’inettitudine della politica londinese. L’ultimo round di “sì” e “no” all’indipendenza della Scozia è puro teatro. La vera questione è la “devomax”. Londra la esecra. Edimburgo la desidera più di ogni altra cosa. Per tutta la settimana scorsa i costituzionalisti sono stati tirati fuori dalle loro spelonche impolverate per esaminare minuziosamente leggi e documenti. Ma tutto ciò è inutile. Quando le province dissidenti si fissano sull’idea del separatismo non c’è codicillo o referendum di legge che tenga. Nulla li fermerà. Si pensi alla Bosnia, alla Slovacchia, al Kosovo o alla Macedonia: paesi diversi, ma nati nello stesso modo. La Gran Bretagna è andata in guerra per disgregare l’unione jugoslava. E molti britan-
C
nici non vedono l’ora che anche l’Europa si disgreghi. Perché combattere per mantenere il Regno Unito quando è evidente che esso sta andando in briciole? Quanto più Londra si farà beffe delle aspirazioni dei popoli non inglesi delle isole britanniche, tanto più tali sentimenti cresceranno. L’Irlanda ci ha abbandonati nel 1922, per esasperazione nei confronti del malgoverno londinese. Soltanto l’anno scorso gli irlandesi hanno tollerato di ricevere in visita la regina, per un giorno solo.
La resistenza alla devolution nel 1979 costò al primo ministro laburista James Callaghan la maggioranza e decimò il supporto al suo partito in Galles. L’imposizione della poll tax agli scozzesi nel 1989 contribuì alla rovina di Margaret Thatcher e in pratica spazzò via i Tory scozzesi. Oggi la posizione di Cameron sulla Scozia è equiparabile a quella di Giorgio III nei confronti dell’America: «sgomento e
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Una bottega per turisti ad Edimburgo; sotto, il premier David Cameron e a sinistra il premier scozzese Salmond assieme alla regina Elisabetta
e di cronach
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak
me andrà a finire la questione. Le previsioni, al momento, sono in favore degli indipendentisti. In questo caso, l’unica a salvare la Gran Bretagna dallo sfaldamento sarebbe la monarchia. Come sta succedendo in Belgio. Evidentemente matrimoni e giubilei non sono così patinati come si vuole far credere.
quanto accaduto. Oggi l’ipotesi che con un voto nasca una Scozia indipendente da Londra, soprattutto da un punto di vista di numeri – perché poi per il resto lo è già, come abbiamo visto – lascia turbati gli osservatori della stabilità interna del Regno Unito. O meglio, dei Regni Uniti, come eventualmente si chiamerebbe il Paese dal
stupore per l’atteggiamento ribelle che purtroppo si registra in alcune delle mie colonie». Ancora più sconcertante è il modo col quale Cameron esecra la “devomax”, l’unico provvedimento che potrebbe effettivamente mitigare le forze centrifughe nel Regno Unito. Anche se i dettagli devono ancora essere messi a punto, il concetto è semplice: gli scozzesi dovrebbero alzare le loro tasse e spenderle come credono, ponendo fine alla loro dipendenza fiscale da Londra. Non si parla di re, soldati, bandiere, confini e passaporti. La devolution si estenderebbe al pagamento delle infrastrutture del welfare state. Il governo scozzese – ed eventualmente anche quelli del Galles e dell’Ulster – diventerebbe responsabile in maniera diretta delle politiche interne e sarebbe tenuto a risponderne al suo elettorato. Se gli scozzesi vogliono questo – e dai sondaggi emerge che lo vogliono davvero – che importanza ha se“costerà loro miliardi di sterline”come i media britannici vanno incessantemente sban-
2014. La carta al momento giocata da Cameron è quella dell’anticipare l’avversario. È stato lui a offrire il referendum agli indipendentisti. Questi non si aspettavano che un conservatore fosse disponibile ad aperture così sostanziali. Il premier non poteva fare altrimenti: ha attaccato per difendersi. Il problema è però co-
dierando compiaciuti? La Danimarca sopravvive. La Norvegia pure. Nel frattempo le economie di Scozia, Galles e Ulster sono sempre più simili a quella della Grecia, caratterizzata da politiche di spesa slegate da quelle fiscali, al punto da arrivare a un’irresponsabile dipendenza. La Scozia trangugia i soldi inglesi e i politici nazionalisti prendono sempre più voti, spendendoli per borse di studio agli studenti, prescrizioni mediche e turbine eoliche. Non c’è vantaggio per gli inglesi nel lasciare che questa dipendenza continui. E bisogna riconoscere alla maggior parte dell’opinione pubblica scozzese il merito di volere che tale dipendenza abbia fine. La “maximum devolution” riporterebbe a casa sua, nel suo paese natale, la responsabilità fiscale di Adam Smith. Riporterebbe con i piedi per terra il populismo spendaccione dei nazionalisti di Salmond, probabilmente li
«Un secolo fa le isole britanniche erano una nazione. Il governo adesso pare orientato a farne quattro»
A questo punto però, bisogna chiedersi quale sia il peso specifico di Cameron nelle sue scelte e se esse siano dettate da una strategia di lungo periodo. La battaglia combattuta contro l’idea dell’Ue di tassare le transazioni finanziarie sta avendo successo nella City. Ma in Scozia, per esempio, è probabile che ci siano più europeisti che avversari di Bruxelles. Altrettanto scetticismo lo si intravede nelle iniziative per frenare la crisi. I tagli alla difesa, dolorosi ma necessari – come hanno ammesso gli stessi militari – lasciano il dubbio su come il Paese colmerà il vuoto in termini di sicurezza nazionale e di interventi all’estero. Meno soldati, significa ridurre il contributo nei teatri di crisi. E questo giova a un membro così influente e ambizioso della Nato? Va aggiunto che, nell’ultimo bimestre, esportazioni e inflazioni hanno subito anche una lieve inversione di tendenza. Ci si chiede se, una volta fatta cassa con nuove politiche di risparmio, i tory sarebbero in grado di far ripartire il motore. Oppure il loro dinamismo nasce dal fatto che, dall’altra parte della barra ai Comuni, il Labour è in crisi nera? Vincere per la troppa debolezza dell’avversario non è vincere. Questo gli scozzesi lo sanno bene. Glielo insegna la storia. Ma forse anche Cameron dovrebbe tornare sulle epopee della brughiera per capire dove va il Regno.
farebbe perdere alle prossime elezioni e comprometterebbe la causa della piena indipendenza. Tutto ciò a beneficio dei Tory di Cameron.
Il Regno Unito è stato il frutto di opportunismo e convenienza, non di identità tribale. La sua dissoluzione ebbe inizio già negli anni Venti, e non si è ancora arrestata. Non c’è una necessità storica per la quale debba esistere, non più di quanto l’avessero il Terzo Reich, l’Unione Sovietica e, ora come ora, l’Unione Europea. Le confederazioni devono essere aggiornate per sopravvivere. Ma spesso sopravvivono molto al di là del loro vero scopo. Cameron dovrebbe lasciare che Salmond indica il suo referendum e farsi promotore della “devo-max”, che incoraggia la responsabilità fiscale e metterebbe fine alle costose sovvenzioni alla Scozia, e il cui realismo politico potrebbe ridare fiato ai Tory in Scozia. È davvero un mistero il motivo per il quale Cameron sia determinato a ostacolarla «finché avrà sangue nelle vene». La risposta possibile è una sola. Il potere e la smania di controllo su tutto acquisiscono una logica tutta loro quando i politici arrivano alla più alta delle cariche. In questo caso, però, la smania è controproducente. Un secolo fa le isole britanniche erano una nazione. Il governo pare orientato a farne quattro.
Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo
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grandangolo Un saggio del direttore di Studi arabi all’Al-Ahram Center del Cairo
Siria e Iran, la profezia di Ehud Barak e la scommessa di Gerusalemme
Israele segue da vicino la crescente polarizzazione regionale contro il cosiddetto “asse del male”, e pensa che l’ostilità nei confronti di Teheran da parte di alcuni Stati arabi, ed il fatto che questi si stiano impegnando a rovesciare il regime di Damasco, siano destinati a far nascere un “asse sunnita” contro quello del male di Mohamed El-Saeed Idris ochi giorni fa, alla luce di quanto sta accadendo in Siria, e di ciò che sta avvenendo a livello arabo, regionale ed internazionale a proposito di questa crisi, il ministro della difesa israeliano Ehud Barak ha predetto la caduta del presidente siriano Bashar al-Assad e del suo regime nell’arco di alcune settimane, aggiungendo che Assad «si avvicina alla fine del suo governo». La cosa che ha maggiormente attirato l’attenzione di Barak a questo proposito è la situazione dell’esercito siriano – che rappresenta la scommessa principale, a quanto sembra – ed in particolare ciò che starebbe portando alla sua disgregazione. Con grande interesse, Barak ha fatto due osservazioni: la prima è che il numero delle forze siriane che hanno defezionato dall’esercito ha superato la soglia dei 10.000 soldati; la seconda riguarda l’aumento del numero di coloro che disertano il servizio militare.
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Il giornale israeliano Haaretz ha considerato entrambe le questioni come due segnali importanti dell’imminenza del crollo del regime siriano. Ciò significa che la situazione dell’esercito siriano sarà al centro dell’attenzione nella gestione della crisi siriana da parte di coloro che cercano di rovesciare il regime – ovvero che tale situazione sarà al vertice delle priorità, in aggiunta ad altre questioni non meno importanti. Tali priorità sono numerose, sia a livello interno siriano che a livello arabo, regionale ed in-
ternazionale. Sul piano interno, gli israeliani puntano sull’aggravarsi della crisi economica – la stessa scommessa che fanno riguardo all’Iran. Si scommette sull’inasprimento della crisi economica come strumento di pressione popolare per smuovere i “blocchi inerti” di cittadini che non hanno aderito alla ribellione contro il regime. Ma questa scommessa è un’arma a doppio taglio in alcuni casi. Infatti, sebbene sia in grado di smuovere l’inerzia dei cittadini silenziosi e addirittura di quelli impauriti, per altro verso l’inasprimento delle condizioni economiche può essere utilizzato come stru-
Oltre 10mila soldati siriani hanno abbandonato l’esercito e aumentano quelli che disertano il servizio di leva mento per rafforzare la coesione nazionale e la difesa del regime, se quest’ultimo riesce a dipingerlo come un “complotto straniero” contro il popolo e lo Stato. Perciò la scommessa sul peggioramento della crisi interna viene persegui-
ta con cautela e con un forte impegno affinché essa vada secondo la direzione desiderata. Tale scommessa è perciò legata ad un’altra: quella che punta al rafforzamento dell’opposizione interna e della sua coesione, e ad impedire che si verifichino spaccature nei suoi ranghi. Quest’ultima è però una scommessa su cui è molto difficile puntare, alla luce del fatto che esiste una frattura reale tra coloro che vogliono rovesciare il regime e salvaguardare l’unità della Siria facendo a meno di qualsiasi intervento straniero, per non ripetere l’esperienza irachena né quella libica, e coloro che chiedono un intervento militare internazionale per rovesciare il regime senza tener conto del prezzo da pagare. Un intervento del genere, infatti, trasformerebbe inevitabilmente la Siria in un altro Iraq o in un’altra Libia, e farebbe di Israele un attore direttamente coinvolto nella gestione della situazione interna in Siria. Da ciò discende l’importanza delle altre scommesse arabe, regionali ed internazionali. Gli israeliani, infatti, stanno seguendo da vicino l’assedio imposto a quello che in passato è stato definito “l’asse del male”, e del quale – dopo la caduta dell’Iraq, del Sudan e della Libia – ormai fanno parte solo l’Iran, la Siria, Hezbollah, e Hamas in Palestina. All’interno di Israele si segue quella che viene descritta come una crescente polarizzazione regionale contro “l’asse del male”, e si ritiene che la crescente ostilità nei confronti dell’Iran da parte di al-
cuni Stati arabi, ed il fatto che questi Stati si stiano impegnando nell’azione volta a rovesciare il regime siriano – secondo quanto ha sostenuto l’analista militare del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth – siano destinati a determinare la nascita di un “asse sunnita” contro “l’asse del male”nel suo complesso.
La polarizzazione contro l’Iran porterà dunque a un ulteriore indebolimento del regime siriano, e l’indebolimento di quest’ultimo porterà a sua volta alla debilitazione dell’Iran, ed all’indebolimento – se non alla rovina – di Hezbollah e di Hamas. Gli sviluppi legati ai rapporti regionali della Turchia giungono a sostegno di questa scommessa. I rapporti di Ankara sono infatti peggiorati sia con la Siria che con l’Iran, nel primo caso in conseguenza degli sviluppi drammatici della crisi interna siriana, e nel secondo a causa della crisi legata allo scudo missilistico Nato che sarà dispiegato in territorio turco e che l’Iran considera una minaccia nei suoi confronti. Allo stesso tempo si sta verificando un riavvicinamento fra la Turchia da un lato e l’Egitto e l’Arabia Saudita dall’altro, come indicano diversi segnali, il principale dei quali è rappresentato dalle manovre navali turche congiunte con entrambi questi paesi. Se a tutto questo aggiungiamo la scommessa di Israele sul fallimento della missione degli osservatori arabi in Siria, l’inasprirsi delle divisioni fra gli Stati arabi riguardo alla se-
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Per l’analista dell’Epc a Bruxelles, la Russia è quasi pronta a “mollare” il presidente
Mosca tiene il piede in due staffe e si prepara alla caduta del dittatore di Amanda Paul a quando ha avuto inizio la rivolta in Siria, circa 10 mesi fa, la Russia ha assunto una posizione diversa da quella occidentale, affermando inizialmente che la comunità internazionale avrebbe dovuto sostenere un dialogo di riconciliazione nazionale (come ha fatto in Bahrein e nello Yemen), invece di fissarsi sull’unica opzione della cacciata di Assad. Mosca ha continuato a sostenere Assad, opponendosi all’intervento militare e ad un cambio di regime forzato, e ha posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, insieme alla Cina, a una risoluzione europea di condanna della repressione compiuta dal regime contro le proteste antigovernative. La Russia è stata anche l’unico paese che ha deprecato la decisione dell’Ue di imporre sanzioni alle esportazioni petrolifere siriane. D’altronde, Mosca ha progetti energetici da proteggere in Siria. Russia e Siria sono alleati di vecchia data. Damasco rappresenta per Mosca uno stretto alleato militare nel cuore del mondo arabo sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Inoltre, i due paesi hanno condiviso un analogo interesse a controbilanciare l’influenza degli Stati Uniti sia a livello globale che nella regione, ed a stipulare contratti per la fornitura di armi. La cooperazione militare tra Russia e Siria è iniziata nel 1971, e il presidente Assad è stato un grande importatore di armi russe: la Siria acquista il 10% delle esportazioni annuali russe di armamenti, per un valore di circa 1 miliardo di dollari. Con la fine del regime di Gheddafi in Libia, l’industria bellica russa a quanto pare ha perso circa 4 miliardi di dollari di contratti. Soffrendo anch’essa a causa della crisi economica globale, Mosca non vuole assistere in Siria a una replica di quanto è avvenuto in Libia. La Russia ha anche una base navale nel porto siriano di Tartus, con circa 600 soldati e personale tecnico. Mosca è stata criticata per il fatto di aver continuato a fornire armi a Damasco. Alla fine della scorsa settimana una nave russa con a bordo circa 60 tonnellate di munizioni è giunta in Siria, anche se, secondo le fonti russe, queste munizioni sarebbero riservate ai militari russi di stanza laggiù e non al regime di Assad. Nel frattempo, funzionari russi presso l’Onu hanno anche sostenuto che la comunità internazionale – ed in particolare la Nato – starebbe preparando un
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rietà di tale missione e alla credibilità delle relazioni degli osservatori sulla situazione nel paese, e l’aumento della pressione internazionale volta a imporre un intervento militare attraverso la richiesta di creare una zona cuscinetto per sostenere l’opposizione siriana, la profezia di Ehud Barak sull’imminenza del crollo – o del rovesciamento – del regime di Assad acquista credibilità, secondo quanto sostengono i maggiori responsabili militari e politici all’interno di Israele. Alcuni di questi responsabili
Si continua a sparare sulla folla. Ieri sono state uccise almeno 22 persone, soprattutto nella città di Homs tendono a rappresentare questa profezia come un “effetto domino” che porterebbe al crollo dell’intero “asse del male”, visto che si sta lavorando al rovesciamento del regime in Siria ed allo stesso tempo al rovesciamento – o quantomeno alla resa – del regime iraniano, e che ciò a sua volta porterà a trasformare Hezbollah e Hamas in “bocconi digeribili” non solo per Israele, ma per gli stessi nemici di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina.
Al centro di tutte queste scommesse vi è il rovesciamento del regime in Siria, poiché ciò accrescerà la disponibilità turca ad agire contro l’Iran, ed incentiverà alcuni Stati arabi a fare lo stesso. Perciò gli israeliani spiegano che ciò colpirà duramente le capacità strategiche iraniane. Se la caduta del regime siriano è destinata a porre fine alla minaccia del
fronte settentrionale per Tel Aviv ed alla situazione drammatica vissuta da Israele durante tutto il 2011 – ovvero il fatto di essere alla portata dei missili iraniani, siriani, di Hezbollah e di Hamas – ciò a sua volta aprirà la strada (secondo i maggiori strateghi militari israeliani) alla messa a punto delle condizioni ideali per scatenare una guerra contro l’Iran, giacché né la Siria né Hezbollah né Hamas sarebbero a quel punto parti attive nel conflitto. Ciò a sua volta conferisce ulteriore importanza ai preparativi di Israele per coinvolgere per la prima volta forze Nato in esercitazioni israeliane sul fronte interno. Tali esercitazioni, il cui svolgimento è previsto per il prossimo ottobre, sono state denominate “Turning Point 6”.
Tre settimane fa, a Bruxelles, il ministro israeliano per la Difesa del Fronte Interno, Matan Vilnai, ha raggiunto un accordo a questo riguardo con Claudio Bisogniero, segretario generale delegato della Nato (recentemente nominato dal governo Monti come nuovo ambasciatore italiano a Washington (NdT.) ). In base a tale accordo, forze Nato di supporto e di soccorso si posizioneranno nelle aree ipoteticamente colpite da una grande distruzione, in esercitazioni finalizzate a prepararsi a far fronte ad un terremoto di grandi proporzioni che abbia come epicentro Israele. Questa “ipotetica” grande scossa di “terremoto” potrebbe avvenire in conseguenza di un attacco missilistico iraniano al reattore nucleare israeliano di Dimona in risposta a una guerra scatenata da Israele contro l’Iran. In questo senso la profezia di Barak non si limita soltanto alla caduta del regime siriano, ma si estende a scommesse ben più importanti riguardanti un “effetto domino”che porti alla caduta di ciò che resta del cosiddetto “asse del male”. Questo effetto domino, tuttavia, resta ancora confinato al mero ambito del possibile, ed una simile “possibilità” in assenza di certezza è destinata a far rimanere la profezia di Barak nel reame dei sogni. © medarabnews
attacco militare contro la Siria, guidato dalla Turchia, sebbene non siano mancate le smentite. A causa dei suoi interessi, la Russia ha tutte le ragioni per sostenere lo status quo, ma solo fintantoché il presidente Assad rimane un’opzione praticabile. La sua caduta finale, apparentemente ormai inevitabile, sta portando Mosca a tenere il piede in due staffe. Sebbene la Russia stia ancora appoggiando Assad, Mosca ha avviato un dialogo con l’opposizione siriana nei mesi di settembre e novembre, e si appresta ad avere un altro round di colloqui con essa, ed anche con il leader del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Burhan Ghalioun, alla fine di gennaio. Nel corso della riunione di novembre, Ghalioun ha promesso che gli interessi russi in Siria saranno garantiti anche dopo la caduta di Assad.
La Russia sembra voler promuovere il suo ruolo di “pacificatore”, soprattutto ora che la Turchia è divenuta uno dei paesi più critici nei confronti di Assad. Nel mese di dicembre, Mosca ha avanzato una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Che conteneva una serie di punti che gli altri membri non hanno potuto accettare, e rispetto ai quali hanno chiesto delle modifiche, tra cui un paragrafo che parla di «violenza derivante dall’opposizione estremista». Il testo emendato, dopo aver visto il rapporto redatto dalla missione della Lega Araba, consegnato lunedì scorso, dovrebbe essere discusso dal Consiglio di Sicurezza a febbraio (ma la Francia ha già bocciato il testo definendolo «lontano dalla realtà», ndr.). La Russia ritiene probabilmente che, più crescerà la preoccupazione dell’Occidente rispetto alla situazione in Siria, più aumenteranno per Mosca le possibilità di far leva su questa situazione per ottenere qualcosa in cambio, anche in altre aree di interesse per il Cremlino. Sembra che la Russia si stia lentamente orientando verso un cambiamento di strategia. Con ogni probabilità alla fine l’Occidente agirà, con o senza l’accordo russo, e ciò potrebbe lasciare Mosca in una situazione estremamente difficile. Pertanto, l’incontro delle Nazioni Unite potrebbe rivelarsi un momento cruciale, portando forse a un cambiamento di posizione da parte di Mosca.
ULTIMAPAGINA Voluto dal ministro Gelmini, nel programma di ricerca degli istituti ci sono territori non più italiani da un secolo
Innovazione, la Caporetto di Angela Rossi ualcuno non si è ancora accorto che la Seconda Guerra Mondiale è finita da un pezzo ed ha cambiato qualche confine in Italia. La notizia di sicuro non è arrivata in tempo reale al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Per crederci si può provare ad andare sul web e cliccare sul sito del ministero, link “Scuola in chiaro” aperto alla navigazione da pochi giorni. Esattamente lo scorso12 gennaio. Provate ad accedere a www.miur.it e quello che era stato annunciato dal ministro Francesco Profumo come «il primo passo verso un’amministrazione più moderna e trasparente» lascia quantomeno perplessi in merito alla conoscenza della storia e della geografia del Belpaese di chi cura il sito. Soprattutto in considerazione delle possibilità che esso offre e cioè quella della ricerca di scuole in Comuni come Caporetto, Grotte di Postumia, Sesana. Tutte località che
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Comuni come Caporetto, Grotte di Postumia, Sesana, vengono indicati come italiani. Ma da decenni sono in Slovenia. Mentre Lucinico, ad esempio, è stato assorbito sono da decenni in Slovenia, o come Lucinico ad esempio, che sono state assorbite da altri Comuni durante il secolo scorso. Di quello che sembra uno scherzo si è accorto per primo il quotidiano Il Piccolo di Trieste che, con un pezzo a firma del collega Giovanni Tomasin, ne ha dato notizia. Da non crederci. A spulciare il web non si finisce mai di scovare curiosità che spesso hanno dell’incredibile. Come questa. E come dire che non sempre il progresso nel campo telematico rappresenta la garanzia di esattezza. A volte, come in questo caso, forse la vecchia penna a sfera per segnare i confini o una matita ed il vecchio atlante geografico sarebbero stati senza dubbio più aggiornati. Ovvio che le reazioni non siano mancate. Intanto, secondo quanto dichiarato dall’assessore regionale all’Istruzione del Friuli Venezia Giulia Roberto Molinaro, «purtroppo questo è quello che succede quando ci si affida all’automatismo delle banche dati invece di usare la testa. Anche perché chiunque abbia frequentato una scuola elementare sa che Caporetto non è più Italia. Ed invece ai responsabili del sito deve essere sembrata un’impresa. Informarsi deve essere apparso complicato».
Qualcuno provi, per curiosità e per verificare di persona, ad andare sul sito del Ministero. In basso a sinistra della prima schermata compare lo spazio dedicato al progetto “Scuola in chiaro”. A fianco il link del sistema di ricerca delle scuole. Proseguendo ecco la sezione dedicata al luogo e il tipo di scuola a cui si desidera iscrivere il proprio figlio. Però… Provate ad andare nella sezione avanzata e selezionate le province della Venezia Giulia. Battaglia della Bainsizza, Bergogna, Ca’ Santo Spirito della Bainsizza, Castel Dobra, Caporetto, Pliscovizza della Madonna sono raggruppati sotto Gorizia. Albaro Vescovà, Auremo di Sopra, Nacla San Maurizio, Roditti, Sinadole
SCOLASTICA le troviamo invece a Trieste. E meno male che l’intenzione del ministero era quella di mettere la scuola…in chiaro.“Scuola in chiaro”– ha dichiarato ancora il ministro Profumo – «rappresenta il primo passo verso un’amministrazione più moderna e trasparente che, attraverso la rete internet, mette a disposizione dei cittadini tutte le informazioni necessarie, per accedere ai servizi e scegliere con consapevolezza dove iscrivere i propri figli. Questo strumento rappresenta anche un’occasione per le istituzioni scolastiche del Paese, che potranno fornire tutti i dati in proprio possesso sull’offerta didattica e la qualità degli istituti, con l’auspicio che il confronto reciproco inneschi meccanismi di miglioramento dell’intero sistema scolastico».
E pensate un po’ alla faccia delle mamme che, tra un link e l’altro, alla ricerca di una scuola adatta al proprio figlio ed abbiano deciso di utilizzare come sistema di ricerca la vicinanza a casa della struttura scolastica. Iscrivono un bambino in Italia e se lo ritrovano in Slovenia. E chi glielo avrebbe spiegato che i confini erano mutati da decenni ma al ministero non
se ne erano accorti? Forse una comunicazione partita in ritardo o la burocrazia che, si sa, da noi in Italia qualche problema lo crea sempre. A onor del vero però e in osservanza al detto “Mal comune mezzo gaudio”nel settore ci sono precedenti illustri, come ricorda Il Piccolo. Nel 2010 (Gelmini regnante) era toccato al sito “Scuola mia”stessi Comuni ed uguali disguidi.
Segnalazione effettuata allora dal consigliere regionale del Pd-SSk Igor Gabrovec a seguito di articoli apparsi su giornali sloveni. «Ridicolizza la nostra regione - aveva affermato Gabrovec - e rischia di incrinare i buoni rapporti transfrontalieri anche perché i nomi delle località risultano tuttora in forma totalmente artificiosa adottata durante il ventennio fascista». Pronto l’intervento del ministero degli Esteri di Lubiana che aveva convocato l’ambasciatore italiano. Incontro in seguito al quale erano stata effettuate le correzioni sul sito. Un precedente che evidentemente non ha lasciato tracce nella memoria tanto che si è ripetuto di nuovo. Forse sarebbe meglio dotare le scuole di atlanti invece che di computer.