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he di cronac

Conoscere gli altri è saggezza. Conoscere se stessi è saggezza superiore. Lao Tzu

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 20 GENNAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I benzinai pronti a dieci giorni di serrata: «Se confermano la bozza, chiudiamo in strade e autostrade»

La rivoluzione liberale Dopo vent’anni sprecati, parte il progetto “società aperta” Energia, carburanti, banche, trasporti, farmacie. Oggi Monti vara il decreto sulle liberalizzazioni. Resta ancora aperto il nodo taxi: la base contesta i sindacati, favorevoli all’accordo col governo COMPROMESSI

PROVINCIALISMI

di Francesco Pacifico

Finalmente la via italiana alle riforme

ROMA. Oggi inizia la fase due: tre decreti per liberalizzare l’Italia e creare ricchezza per un miliardo e mezzo all’anno. Monti tiene duro e piega tassisti, farmacisti, banche ma anche potentati come Eni e professioni. Nel frattempo, si verifica una spaccatura fra gli autisti delle auto bianche: dopo un primo momento di tregua con Palazzo Chigi, i titolari sfiduciano i loro sindacati e annunciano nuove manifestazioni. a pagina 2

di Errico Novi a tenuto presente un dato, se si vuole esprimere un giudizio obiettivo sulle scelte che il governo Monti oggi dovrebbe formalizzare: le condizioni del campo in cui si gioca la partita. Si tratta di un terreno pesante, ai limiti dell’impraticabilità. A renderlo tale provvede un’Europa latitante, dalla consistenza sempre più prossima all’impalpabile. Modernizzare un Paese in un quadro privo di punti di riferimento chiari qual è quello offerto oggi dall’Ue è impresa difficilissima. Far tollerare aperture impegnative del mercato, iniezioni anche misurate di concorrenza, è più complicato quando la cornice è precaria. In un’Europa tesa allo spasmo tra tedeschi e francesi. a pagina 3

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Le previsioni di Fmi e Bce

Parlano Luciano Gallino e Fabrizio Onida

Lagarde e Draghi, Fornero sì, Fornero no: segnali contrastanti si accende sul prossimo biennio il dibattito sul lavoro Secondo il Fondo «nel 2012 C’è chi dice che tre anni di tempo l’Italia sarà in recessione». sono troppi e chi chiede Mentre Eurotower sceglie pazienza ai giovani, perché la speranza: «Possibile la ripresa» la via intrapresa è quella giusta Massimo Fazzi • pagina 5

E. Novi e F. Lo Dico • Pagine 6 e 7

Ma per la nostra stampa l’incontro con Cameron non è importante di Osvaldo Baldacci Italia vuole tornare protagonista in Europa, e può esserlo. Oggi l’Italia che riprende la giusta via vuol dire anche che il nostro Paese è il perno intorno al quale è l’euro a salvarsi, e l’Europa tutta. E, non dimentichiamolo, salvare l’Europa vuol dire salvare non solo l’economia, a un livello planetario, ma salvare un modello, un modo di essere, un way of life. Salvare la storia e l’ispirazione liberal-democratica. Non mi sembra poco. E l’Italia è il cuore assiale di questo processo, l’epicentro di un movimento virtuoso verso la salvezza. Dovremmo esserne più che orgogliosi. Sentirci responsabili, rimboccarci le maniche, ma certo a testa alta. segue a pagina 3

L’

Gli osservatori della Lega araba presentano un rapporto sul massacro ordinato da Assad

Teheran e Damasco, giochi pericolosi Gli ayatollah sfidano il mondo e comprano il greggio dalla Siria (sotto embargo) di Luisa Arezzo

Ecco perché Islamabad è di nuovo in bilico

Mentre il Pakistan rischia ancora il collasso

iciamola tutta: era un segreto di pulcinella che circolava non da giorni, ma da settimane, il fatto che l’Iran si stesse dando da fare per “piazzare”il greggio di Damasco, strozzato dall’embargo. Ma ieri è arrivata una conferma para-ufficiale sulle pagine del Wall Street Journal: Teheran aiuta la Siria ad eludere l’embargo petrolifero imposto da Usa ed Europa, consentendo l’arrivo del greggio siriano in Iran per poterlo vendere sul mercato internazionale e restituendo i proventi al regime di Assad. a pagina 10

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

di Mario Arpino n Pakistan, tra autobombe, raffiche di kalashnikov, assalti alla polizia ed attacchi ai rifornimenti Nato per l’Afghanistan, continuano le grandi manovre. Non tanto quelle per prevenire il “pericolo indiano”o per ripulire le aree tribali, intendiamoci. Stiamo parlando di quelle interne. a pagina 10

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• ANNO XVII •

NUMERO

13 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 20 gennaio 2012

la rivoluzione liberale

Spaccatura fra le auto bianche: gli autisti sfiduciano i loro sindacati e sono pronti a nuove manifestazioni. Tensioni nel Pdl

Operazione “Italia aperta” Oggi inizia la fase due: tre decreti per liberalizzare l’Italia e creare ricchezza per un miliardo e mezzo all’anno. Monti tiene duro e piega tassisti, farmacisti, banche ma anche potentati come Eni e professioni

di Francesco Pacifico

ROMA. I tassisti non ne vogliono sapere di tornare al lavoro e sfogano la loro rabbia disconoscendo i loro rappresentanti e una settimana di faticosissime mediazioni. I proprietari di farmacia e i farmacisti dipendenti si ritrovano uniti soltanto nell’accusare un governo, a loro dire,succubo del Big Pharma. I benzinai, intanto, si preparano alla serrata. Proteste tutto sommato prevedibile e infondo contenuti di fronte a un pacchetto di liberalizzazioni che non colpisce soltanto la punta della catena degli esercenti, ma tocca potentati come l’Eni o il mondo delle professioni. E che, una volta applicato senza eccezioni, può generare almeno un punto di Pil di crescita all’anno in più. Questa mattina Mario Monti porta in Consiglio dei ministri tre decreti (uno, per l’appunto, sulle liberalizzazioni, un altro sulle semplificazioni e un altro ancora sulle aste per le fre-

quenze tv) che danno l’avvio alla Fase 2 del suo governo. Quella dedicata alla crescita, indispensabile in un Paese che nel 2012 rischia di indietreggiare di oltre un punto percentuale (addirittura del 1,6 per cento secondo Confindustria) più per la debolezza della domanda interna che per la domanda estera dei nostri prodotti. In quest’ottica ecco Monti – con la collaborazione del sottosegretario Antonio Catricalà e del ministro Corrado Passera – accelerare la separazione tra l’Eni e Snam la società che gestisce e controlla la rete di distribuzione del gas. Cioè un monopolio in piedi nonostante un decennio di riforme in chiave liberalizzatrice e e che è stata una delle cause che spingono le famiglie a pagare il 12 per cento e le aziende il 26 per cento in più sulla bolletta elettrica rispetto alla media europea. Oppure il tentativo di modernizzare dall’alto il mondo delle

professioni, le cui parcelle costano ogni anno oltre tre punti di Pil e vengono definite dalle aziende straniere uno dei motivi per i quali è meglio restare lontani dall’Italia. Infatti ecco il governo dei tecnici provare a cancellare con un tratto di penna le tariffe minime, introdurre un preventivo scritto da concordare con il cliente, aumentare il numero dei notai (1.500 in più) e permettere di svolgere tirocini e praticantati anche nel biennio finale dell’università. I partiti che appoggiano il governo fanno quadrato

intorno all’ex rettore della Bocconi. Ma non mancano piccoli distinguo dettati più da sondaggi che da strategie a lungo termine. Per esempio si sembra essere preso alla sprovvista dal pacchetto il leader del Pdl, Silvio Berlusconi. Ieri, in mattinata, lo stato maggiore del partito ha presentato una lunga serie di misure destinata soprattutto a colpire gli abusi del mondo finanziario e assicurativo. A ora di pranzo il Cavaliere, invece, ha convocato i suoi per annunciare la linea da tenere. Complice la decisione del ministro Passera di mettere all’asta le frequenze liberate dal pas-

saggio al digitale terreste, l’ex presidente del Consiglio avrebbe mandato un chiaro messaggio al suo successore: «Sosterremo lealmente il governo, ma valuteremo ogni suo provvedimento di volta in volta, senza fare sconti». Infatti guai a parlare di elezioni anticipate: «Non conviene a nessuno accollarsi ora la responsabilità di far cadere il governo».

Intanto, nel mirino dell’esecutivo, finiscono anche banche e assicurazioni, che, complici le patrimonializzazioni chieste dall’Eba o l’aumento dell’Irap, hanno ritoccato al rialzo le loro tariffe a inizio anno. Sul primo versante ecco il “conto corrente base”, con costi tendenti allo zero, mentre ex lege potrebbero essere anche fissati paletti alle commissioni sui prelievi con il bancomat. In campo assicurativo invece si freneranno i conflitti d’interesse sulle polizze assicurative che accompa-


Ignorato l’incontro fra il premier e Cameron

Concertazione senza troppe concessioni

La stampa ha snobbato Londra. Perché?

Finalmente una via italiana alle riforme

di Osvaldo Baldacci

di Errico Novi segue dalla prima

Ma tutto questo, per l’importanza e il peso che ha, per la fatica che comporta, per l’impegno che richiede, non può essere qualcosa di affidato solo alla buona volontà e alla credibilità del governo Monti. È l’Italia che si salva e che trascina con sé in terreno positivo l’intero continente. Non è lo sforzo velleitario di pochi. O non dovrebbe esserlo. Il governo non deve essere lasciato solo dalla politica, prima di tutto. Ma anche questo non basta. Dev’essere il sistema Paese a rendersi conto della responsabilità che abbiamo. E dell’opportunità. Il sistema paese nel suo complesso. A partire quindi dai mass-media. Che invece appaiono ancora storditi dal cambio di passo dell’Italia, dal mutamento degli scenari. Oggi i mass media, per certi versi, sembrano persino ancora più indietro della politica. Sembrano ragionare ancora con categorie vecchie, provinciali, a mio avviso sbagliate anche allora, ma tanto più fuori luogo adesso. Politicamente restano bloccate a ragionamenti e approcci bipolaristi scomparsi ormai dalla scena, falliti. Ma peggio ancora sembrano essere bloccati a quel provincialismo che guarda solo all’ombelico italiano e alle beghe interne dimenticando quanto l’Italia sia più che mai immersa nella situazione mondiale ed europea da cui dipende e con cui interagisce. ù

Ora, è fuori di dubbio che quella della nave da crociera sia una vicenda drammatica, sconvolgente (e speriamo che nel naufragio della Concordia non ci sia alcun ulteriore presagio negativo, bastano i morti e le conseguenze materiali del disastro). Ma che questo abbia dato adito ai nostri mezzi di comunicazione di relegare in un taglio basso la visita del premier Monti a Londra e l’incontro con Cameron denota ancora un forte provincialismo. L’incontro era di portata enorme, l’Italia tornava protagonista a Londra. Monti convinceva la City sulla nostra affidabilità, la Gran Bretagna grazie all’Italia tornava ad essere aperta alle questioni europee, con Cameron si è rilanciato il mercato unico, e il tutto inserito in un contesto di tour delle capitali europee che Monti sta battendo senza sosta per costruire posizioni comuni che raddrizzino l’economia europea. Sono cose concrete, non visite di routine di un vecchio politicismo diplomatico: quegli incontri europei riguardano i nostri posti di lavoro, le nostre industrie, le tasse che dobbiamo pagare. Forse i cittadini dovrebbero interessarsene, ma per farlo hanno anche bisogno dell’aiuto di chi per mestiere e vocazione è destinato a questo. L’informazione ha un ruolo centrale, delicato, determinante. Un ruolo cuore per disegnare il profilo di un paese e della sua gente. Un ruolo che influisce sulla qualità della democrazia, e persino sulla sua sopravvivenza. Forse una maggior attenzione ai temi che davvero determinano il presente e il futuro sarebbe un segno di responsabilità. Sarebbe dare un contributo al salvataggio dell’Italia e al recupero del suo ruolo di protagonista. Emblematico di questo provincialismo, purtroppo in negativo e quindi da superare, è stato anche giovedì scorso, quando la giornata ha oggettivamente fornito molti spunti importanti e interessanti. Ma in quale ordine sono stati selezionati? Li ricordiamo, il salvataggio di Cosentino da parte della Camera, la bocciatura dei referendum sulla legge elettorale da parte della Corte Costituzionale, e la relazione del premier Monti con conseguente dibattito su quali saranno le scelte strategiche fondamentali per la politica europea da parte dell’Italia, nell’attuale ambito di necessità di scegliere gli strumenti più idonei per contrastare la crisi. Non è difficile dire che quest’ultimo tema è stato quello considerato di minor rilievo, quasi a margine del resto. Eppure era l’unico tema di ampio respiro e di indiscussa centralità. L’unico veramente decisivo per il nostro futuro. Ma finché il sistema Paese e il sistema dei media resteranno legati all’effimero del quotidiano senza un minimo di sguardo profondo e lungimirante, non ci sarà futuro.

a tenuto presente un dato, se si vuole esprimere un giudizio obiettivo sulle scelte che il governo Monti oggi dovrebbe formalizzare: le condizioni del campo in cui si gioca la partita. Si tratta di un terreno pesante, ai limiti dell’impraticabilità. A renderlo tale provvede un’Europa latitante, dalla consistenza sempre più prossima all’impalpabile. Modernizzare un Paese in un quadro privo di punti di riferimento chiari qual è quello offerto oggi dall’Unione è impresa difficilissima. Far tollerare aperture impegnative del mercato, iniezioni anche misurate di concorrenza, è più complicato quando la cornice è precaria. In un’Europa tesa allo spasmo tra le rigidità tedesche e il piccolo calcolo francese, Mario Monti sceglie una via italiana alle riforme. Opta per un approccio sì modernizzatore ma privo di forzature dirompenti. Si tratta di una logica misurata e, viene da dire, ispirata alla ragionevolezza. Sul mercato del lavoro come sulle liberalizzazioni.

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Non ci sono strappi. Non ci sono rivoluzioni traumatiche. C’è sì, in più di un caso, qualche forte elemento di novità. Modulato però in una forma compatibile con le caratteristiche del sistema italiano. Dalle farmacie al settore dell’energia, Monti e il suo esecutivo adottano sempre una mano cauta. Sui farmaci, per esempio, resta almeno per ora fuori dal decreto l’immediata e totale liberalizzazione dei prodotti di fascia C. Era il punto sul quale s’era più accalorata l’associazione dei farmacisti. In compenso arrivano aspetti interessanti per il consumatore: l’obbligo di indicare sulla ricetta il medicinale equivalente, per esempio. E forse una significativa apertura sugli sconti, applicabili anche per i prodotti di fascia A. Non è esattamente quanto speravano i titolari di parafarmacie nelle loro previsioni più ottimistiche, ma è un passo avanti interessante. In grado di coniugare aperture e tutela di legittimi, quanto consolidati interessi. Sul fronte più significativo per il sistema economico nel suo complesso, quello dell’energia, c’è la separazione proprietaria tra Eni eb il gestore della rete, Snam. Il tutto calibrato però secondo tempi comodi. Chi vuole può avanzare l’obiezione di eccessiva prudenza. Chi invece vuol vedere le cose sotto la lete del realismo non può che ammettere l’importanza di uno sforzo a cui altri hanno preferito sottrarsi. Stesso criterio sembra ispirare il decreto nelle parti che riguardano in fondo le tariffe dei professionisti, le banche, le assicurazioni. Sui taxi è lecito sospendere il giudizio fino all’ultimo minuto utile, visto il grado di tensione in cui si svolge il confronto con la categoria. Ma appunto pare infrangersi il mito non positivo del governo tecnocratico che ignora il carattere del Paese, le aspettative dei settori produttivi, le difficoltà che attraversa anche chi spesso può avvalersi di protezioni e di qualche forma di rendita. Non c’è il disumano commissariato che infligge intollerabili sferzate al sistema. Né l’inavvicinabile e algido consesso professorale incapace di trasferirsi dall’astrattezza accademica alla prassi della vita reale. Ci sono invece un premier e un governo capaci di modulare i provvedimenti secondo l’approccio della buona politica. Di una buona politica moderata, si può senz’altro aggiungere. Persino sul mercato del lavoro, se le indiscrezioni saranno confermate, la direzione scelta è quella della riforma possibile, non dello strappo conflittuale. E appunto, tale approccio va giudicato nel contesto di smarrimento in cui giace l’Europa. In quella Unione che ha chiesto all’Italia di modificarsi nel profondo ma che su se stessa non è in grado di applicare interventi di effettivo rilancio, ci sono un Paese, un governo che in poche settimane compiono avanzate riformatrici rimandate per anni da governi di centrodestra e di centrosinistra. Dovrebbe bastare questo, a un giudice sereno, per ammettere che Roma dà prova della propria affidabilità a chi tanto si dice ansioso di verificarla.

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gnano i mutui e, per ridurre i rincari del Rc auto, maggiore trasparenza e sconti se si installerà una “scatola nera”. Guardando alle categorie più scontente, ecco una stretta contro i paletti che impediscono ai benzinai di rifornirsi da diversi produttori o rivenditori: dal 30 giugno i contratti di esclusiva petrolifere saranno nulli, con i gestori che primi potranno approvvigionarsi liberamente «per la parte eccedente il 50 per cento della fornitura». Addio anche anche ai limiti per i distributori di benzina self-service al di fuori dei centri abitati. Misure che hanno spinto il Coordinamento nazionale unitario di Faib Confesercenti e la Fegica Cisl di annunciare in una nota congiunta «l’immediato stato di agitazione e la chiusura per sciopero degli impianti stradali ed autostradali di 10 giorni». Dopo giorno di muro contro muro i sindacati dei tassisti, invece, hanno trovato una mediazione di massima con il governo. Confermato che sarà la futura autorità per le reti a stabilire se è necessario un incremento delle licenze e se è possibile introdurre concessioni part-time e tariffe più basse in determinate fasce. In cambio del sì a queste misure, i tassisti avrebbero strappato al governo la possibilità di poter acquistare il carburante a prezzo professionale, come avviene per camionisti e agricoltori». Un compromesso che però non è bastato agli autisti: ieri al Circo di Massimo, quando leader storici come Lorenzo Bittarelli hanno annunciato la fine della protesta, molti tassisti hanno fischiato i loro rappresentanti, rifiutato l’ordine di riprendere il lavoro e promesso manifestazioni anche oggi.

Cospicuo anche il pacchetto sui farmaci: piena liberalizzazione dei turni e degli orar, estensione degli sconti, mentre la categoria è riuscita a salvaguardare il tetto dei 3mila abitanti per l’apertura di nuove attività con un allargamento però per la vendita dei farmaci di fascia C. Deluse infatti le parafarmacie, che potranno entrare in questo mercato soltanto nelle Regioni in cui non sia stato assegnato almeno l’80 per cento delle nuove licenze. Ma a scatenare le maggiori polemiche è l’obbligo per i medici di famiglia d’inserire nelle ricette, salvo particolari situazioni, l’eventuale farmaco generico equivalente. A nome della categoria il leader del Fimmig Giacomo Milillo tuona: «Siamo sulle barricate a difesa dell’autonomia prescrittiva del medico, contro ogni pressione dell’industria farmaceutica». Mentre Federferma parla di norma «che non ha niente a che fare con la concorrenza, si alza solo il prezzo».


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la rivoluzione liberale

L’analisi dell’economista dell’American Enterprise Institute sulla “giostra interminabile” dei prestiti all’Europa

Washington vs. Merkel I contribuenti americani sono stanchi di pagare i conti della periferia del continente. L’Ue ha la sua Banca centrale: usi quella se vuole salvare nazioni inadempienti, nonostante la dura opposizione del governo di Berlino di Desmond Lachlan siste un grandissimo divario tra quello che l’amministrazione Obama continua a dire e quello che invece fa riguardo il concetto di prestito alle nazioni della periferia europea. Infatti, nonostante il governo americano continui a insistere sul fatto che l’Europa ha la capacità finanziaria per sostenere quelle nazioni continentali nei guai, ha anche permesso al Fondo monetario internazionale di salvare dal fallimento la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda con un prestito che non aveva precedenti. E lo ha fatto in un modo che ha di fatto messo in pericolo per la maggior parte i contribuenti statunitensi come mai prima d’ora. E come se questo non fosse abbastanza, l’amministrazione sembra voler adesso quanto meno fare finta di non vedere che il Fondo monetario stia per stanziare le proprie risorse per una serie di prestiti bilaterali nei confronti dell’Europa. È il caso dei mas-

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sicci invii di denaro a Italia e Spagna di cui si parla in questi giorni, un comportamento che squalifica tutto quello che il Fondo ha fatto nella sua esistenza e che ci mette (tutti noi americani) a serio rischio.

Non si tratta di illazioni ma di fatti. Negli ultimi diciotto mesi, il Fondo ha concesso prestiti all’Europa con una generosità che non ha precedenti nei 67 anni che compongono la sua storia. Durante le crisi terribili che hanno colpito le nazioni asiatiche e latino-americane negli anni ’90 del secolo scorso, il Fondo non ha mai concesso prestiti superiori a 12 volte le quote di contributo dei Paesi richiedenti. Questa volta, nei prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo, il valore del prestito ha superato le quote di 35 o 40 volte. Parlando in termini di dollari americani, l’impegno di prestito del Fondo monetario internazionale a queste tre nazioni europee si aggira oggi intorno

ai 100 miliardi. Considerando il fatto che gli Stati Uniti pagano una quota pari al 17 e tre quarti per cento dei fondi Fmi, questi prestiti mettono a rischio i contribuenti americani per circa 20 miliardi di dollari, qualora questi Paesi non siano in grado di onorare i loro debiti. Ancora più sconcertante, il Fondo ha preso l’impegno di prestare denaro nonostante il fatto che l’Europa abbia denaro proprio per salvare la sua periferia; e che il Vecchio Continen-

Obama fa finta di non sapere quanto siamo a rischio di un crack

te non ha fatto nulla in nessuna forma per aiutare gli Stati Uniti a risolvere le crisi immobiliari e del settore bancario che hanno colpito gli States nel 2008 e nel 2009.

L’amministrazione Obama al momento gioca al ribasso e minimizza i potenziali rischi nei confronti dei suoi elettori: sostiene che il Fondo preferisca lo status di creditore, al momento, e sottolinea che nessuna nazione importante abbia mai fallito

nel compito di onorare i suoi debiti con l’organismo internazionale. Quello che il nostro governo non dice è che l’esperienza del Fondo nel campo del rientro dei debiti non è particolarmente rilevante rispetto all’attuale programma di prestiti all’Europa, dato che il piano di risollevamento del continente è molto più ampio di qualunque altro piano mai elaborato.

L’amministrazione non ha neanche agito in maniera onesta nel campo del dibattito con la società, dato che non ha spiegato alla popolazione Usa quanto sia stato fino a oggi inefficace il programma di sostegno finanziario messo in atto nella periferia europea. Per quanto questi programmi siano stati certamente utili a rimandare con un calcio il barattolo in fondo alla strada, non hanno fatto nulla per riportare alla solvibilità Grecia, Irlanda e Portogallo. A essere sinceri, invece, il piano del Fondo mone-


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Intanto le Fiamme Gialle entrano da Standard & Poor’s: l’accusa è manipolazione dei mercati

Mentre Lagarde e Draghi giocano alla guerra delle cifre

Per il Fondo «nel 2012 saremo in recessione», ma Eurotower lancia segnali di speranza: «L’attività economica registra timidi segni di ripresa» di Massimo Fazzi padroni delle monete, ovvero i dirigenti dei massimi istituti bancari al mondo, hanno scelto lo stesso giorno per giocare alla guerra delle cifre. E se il Fondo Monetario internazionale di Cristine Lagarde gioca a deprimerci, parlando di recessione per l’Italia nel 2012 e nel 2013, la Banca centrale europea di Mario Draghi dà un pochino più di ottimismo aprendo alla “ripresa economica”, per quanto leggera, dell’Europa. Partiamo dalle ultime stime del Fondo, secondo cui il nostro Prodotto interno lordo «subirà un calo del 2,2% quest’anno e dello 0,6% il prossimo». Si tratta di un taglio di 2,5 punti percentuali per il 2012 e di 1,1 punti per il 2013 rispetto alle previsioni di settembre scorso. Lo scenario globale del resto non è incoraggiante: «La ripresa mondiale è in stallo ed è minacciata dalle crescenti tensioni nell’area euro e da altre fragilità». Secondo gli economisti del Fondo monetario, che hanno redatto la bozza del World Economic Outlook da cui sono tratte queste cifre, «il Pil mondiale salirà del 3,3% nel 2012 (-0,7 punti sulle precedenti stime) e del 4% nel 2013 (-0,5). Il prezzo del petrolio si manterrà elevato intorno ai 100 dollari al barile». Anche se non è poi così vero che “mal comune, mezzo gaudio”, va comunque registrato che con l’Italia soffrirà l’intera Eurozona. L’area dell’euro «andrà in una lieve recessione nel 2012 come risultato del rialzo dei redimenti dei titoli di Stato, degli effetti della diminuzione del credito all’economia reale e dell’impatto delle ulteriori misure di consolidamento fiscale». Tra i grandi partner, il Pil della Germania salirà dello 0,3% nel 2012 e dell’1,5% nel 2013, quello della Francia dello 0,2% e dell’1%, mentre per la Spagna è atteso un -1,7% e -0,3%.

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Meno crudo il bollettino mensile della Banca centrale europea. Secondo il testo, pubblicato sempre ieri, «permangono considerevoli rischi al ribasso per le prospettive economiche nell’area dell’euro, in un contesto di elevata incertezza, ma nel corso del 2012 ci si può attendere che l’attività economica registri una ripresa, seppure molto graduale». Questa ripresa, scrivono i tecnici dell’istituto guidato da Draghi, «sarebbe favorita dall’andamento della domanda mondiale, dai tassi di interesse a breve termine assai contenuti e da tutte le misure intraprese per sostenere il funzionamento del settore finanziario». I rischi al ribasso sono invece connessi «all’intensificatsi delle tensioni nei mercati del debito dell’area dell’euro nonché alla loro potenziale propagazione all’economia reale dell’area; inoltre riguardano l’economia mondiale, le spinte protezionistiche e una possibile correzione disordinata degli squilibri internazionali». Intanto, le Borse europee viaggiano

in territorio positivo (Milano brilla con l’1,25% e Unicredit schizza a quasi +10%) dopo il successo delle aste di bond in Spagna e Francia, che ha collocato con successo 7,965 miliardi di euro di bond con scadenze 2014 2015 e 2016, in quello che i mercati consideravano il primo test dopo la perdita della tripla A: il target era tra 6,5 e 8 miliardi di euro e la domanda è stata di 18,9 miliardi di euro. Il rendimento del titolo con sca-

Il Pil della Germania salirà dello 0,3% nel 2012 e dell’1,5% nel 2013, quello della Francia dello 0,2% e dell’1% denza 2014 è sceso dall’1,58% all’1,05%, quello con scadenza 2015 è calato dal 2,44% all’1,51% e quello con scadenza 2016 è diminuito dal 2,82% all’1,89%.

Proprio l’andamento dei mercati, e le operazioni di turbativa dello stesso, hanno agitato ieri la cronaca italiana: la Guardia di Finanza ha perquisito la sede milanese nell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Gli accertamenti sono stati disposti dalla Procura della Repubblica di Trani che da tempo ha in corso un’inchiesta nei riguardi di Standard e Poor’s e Moody’s accusate di aver manipolato il mercato con “giudizi falsi, infondati o comunque imprudenti” sul sistema economico-finanziario e bancario italiano. Parallelamente, la procura di Milano avrebbe messo nel mirino i giudizi espressi dalle principali case di rating statunitensi, ma non sono stati presi contatti con i colleghi baresi. Anche negli Stati Uniti, Standard & Poor’s è finita sotto la lente del dipartimento della Giustizia per il downgrade del debito Usa e i giudizi su alcuni titoli “tossici”. «Standard and Poor’s è sorpresa e costernata da queste indagini sulle sue valutazioni indipendenti. Le accuse fatte sono del tutto prive di fondamento e senza merito e con forza difenderemo le nostre azioni, la nostra reputazione e quella dei nostri analisti», afferma Standard & Poor’s in una nota.

La procura di Trani ha esteso gli accertamenti sulle agenzie di rating al recente downgrade di due gradini del debito sovrano dell’Italia deciso da S&P venerdì scorso. Nell’inchiesta vi sono già sei indagati: tre analisti ”con funzioni apicali”di S&P (Eilen Zhang, Frank Gill e Moritz Kraemer), uno di Moody’s e i responsabili legali per l’Italia delle due agenzie. I tre analisti di S&P sono accusati, oltre che di “manipolazione del mercato”, anche di “abuso di informazioni privilegiate” per aver “elaborato e diffuso, nei mesi di maggio, giugno e luglio 2011 - anche a mercati aperti - notizie non corrette (dunque false anche in parte), comunque esagerate e tendenziose sulla tenuta del sistema economico-finanziario e bancario italiano”.

tario – che prevede una sorta di assestamento fiscale sempre all’interno del diktat europeo, che preclude l’uso della svalutazione per promuovere le esportazioni e si affida all’austerità fiscale – non ha fatto altro che peggiorare la recessione economica nelle nazioni coinvolte. E queste recessioni hanno compromesso ancora di più le finanze pubbliche della periferia, aumentando i problemi collegati al debito pubblico.

Per capire quanto siano seri i rischi posti dai prestiti del Fondo alle tasche dei contribuenti americani, va notato anche il fatto che l’impegno di prestito del Fondo nei confronti di Grecia, Irlanda e Portogallo ammonta a più del 10 per cento dei Prodotti interni lordi di quei Paesi. E, cosa ancora più significativa, sono circa un quarto e un terzo delle entrate derivanti dal gettito fiscale. Il rischio per i contribuenti americani peggiora ancora, poi, se consideriamo che la possibilità di un crollo del sistema euro è ora divenuta una possibilità distinta. Se questo crollo dovesse poi verificarsi in una maniera non controllata, avrebbe un impatto devastante sulle previsioni di crescita economica della periferia europea e sulle sue finanze pubbliche. Considerando l’enorme importo dei prestiti del Fondo monetario, in relazione al gettito fiscale di queste nazioni, si verificherebbe una reale possibilità di non ripagare l’istituto. Ancora più fastidiosa per gli statunitensi che pagano le tasse è la possibilità che il Fondo inizi a sostenere anche Italia e Spagna: si tratterebbe, sulla carta, di un prestito bilaterale. All’ultimo summit europeo di Cannes, le nazioni che compongono l’Unione europea si sono accordate per un prestito bilaterale al fondo pari a 260 miliardi di dollari, che andrebbe ad aumentare il fondo da 390 miliardi messi a disposizione dall’Fmi sempre per Roma e Madrid. Giudicando quello che ha fatto fino ad ora il Fondo monetario internazionale nel campo dei prestiti, possiamo dire che se il fondo andasse nelle casse di Spagna e Italia sarebbero gli americani quelli più esposti a ogni rischio. Parliamo di un prestito all’Italia di 750 miliardi e alla Spagna di 450 miliardi. Se ricordiamo le quote di ingresso Usa nei fondi Fmi, il rischio per noi è di perdere 220 miliardi. A fronte di tutto questo, il minimo che l’amministrazione americana dovrebbe fare sarebbe dire la verità ai propri cittadini riguardo ai potenziali rischi di questa operazione. Per non parlare del fatto che Washington dovrebbe cercare di evitare che i buchi della periferia europea siano ripianati con i nostri soldi.


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la rivoluzione liberale

Riforma del lavoro 1. Parla Luciano Gallino

«Tre anni di prova sono un’enormità» «Giusto accantonare l’ipotesi Ichino, ma si rischia di spostare la precarietà da un bacino all’altro» di Errico Novi ROMA. C’è da distinguere due questioni: «Un conto è la strategia del governo: e in proposito va detto che è molto meglio presentarsi al tavolo delle trattative senza ipotesi di abolizione dell’articolo 18, come pare voglia fare il governo. Altra cosa è giudicare i contenuti della proposta, perché anche l’ipotesi del contratto unico di inserimento implica comunque il rischio di spostare semplicemente da un bacino all’altro la precarietà». Luciano Gallino è forse lo studioso italiano della materia del lavoro più schierato contro l’introduzione di una forte flessibilità in uscita, e non trascura un dato: sulla riforma del lavoro, il governo sembra assumere una posizione attenta a non suscitare conflitti, peraltro inutili. Dal modello di riordino dei contratti resterebbe escluso il modello Ichino, l’unico che metta in discussione l’articolo 18. Almeno è questo il quadro ricomposto da un’esclusiva di Repubblica presentata sull’edizione di ieri. Eppure Gallino intravede altri aspetti critici: «Tre anni di prova sono troppi», dice a proposito della latenza prevista dal contratto unico di inserimento rispetto all’obbligo di reintegra. E ancora, spiega il sociologo torinese, «c’è il problema di una disoccupazione e di una precarietà che ormai affliggono non solo i giovani ma anche i quarantenni, e qui non basta la revisione degli istituti contrattuali. Ci vorrebbe un New deal che per ora non è all’orizzonte». Con l’ipotesi su cui lavora il ministro del Welfare, che è quella di Boeri e Garibaldi, c’è comunque il problema di un contratto a tempo indeterminato sempre più lontano per i neoassunti. Vede, i contratti atipici di cui attualmente si fa largo uso hanno una caratteristica fondamentale: il cartellino di scadenza. Come accade per le merci, questi rapporti di lavoro fatalmente scadono. Con il contratto unico di inserimento hanno di per sé un vantaggio: sono privi di una data di fine, appunto. Detto questo, 3 anni di prova costituiscono un periodo incredibilmente lungo. Perciò dico che c’è il rischio di trasferire la precarietà dai vecchi bacini a questo. Non è più precarizzante la giungla attuale? C’è il vantaggio di assottigliare la lunga lista di modelli oggi disponibile. Ma diventa anche più difficile ottenere un contratto a tempo indeterminato. A questo si accompagna l’enormità del periodo di prova. Certo, 3 anni di lavoro in un’azienda prima di ottenere la piena tutela non sono pochi. Sono sproporzionati rispetto all’esigenza di conoscere le capacità professionali del dipen-

dente. In genere bastano 6 mesi. Anche i tratti comportamentali e caratteriali in genere vengono fuori abbastanza presto. Né si può dire che serva tutto questo tempo per compiere una adeguata formazione in azienda. In 8 casi sui 10 ormai basta qualche giorno, al massimo poche settimane, visto che la maggior pare dei tipi di lavoro offerti ha un carattere di forte ripetitività. Ma rispetto all’attuale panorama degli atipici... In Francia nel 2006 gli studenti contestarono duramente il contratto di primo inserimento che aveva una durata inferiore ai 3 anni previsti da questa ipotesi. Ci videro una nuova forma dio precarietà. Il ministro del Welfare parrebbe aver deciso di escludere dal tavolo l’articolo 18. Un buon segno? Certo, se giudichiamo la strategia va detto che è un bene avere accantonato l’ipotesi Ichino, che prevedeva la sua applicazione solo dopo vent’anni. Ma appunto, la strategia è un conto, i contenuti sono un’altra cosa. Ma un qualche nuovo modello non servirebbe anche per il reinserimento dei cinquantenni? C’è una situazione estremamente grave che riguarda disoccupati e ”scoraggiati” rispetto alla ricerca del lavoro: richiederebbe interventi anche sul fronte della creazione di posti di lavoro oltre che della lotta alla precarietà. E ce dell’altro. Dica pure. Il precario non è più solo il giovane venticinquenne che lavora in un fast food o in un call center e aspetta di trovare un’occupazione più in linea con le aspettative. Oggi c’è una precarietà enorme fino ai 35-40 anni e per moltissimi ultraquarantenni. Qualche novità dovrebbe arrivare anche sugli ammortizzatori sociali. Attualmente il problema è che cassa integrazione e indennità di disoccupazione sono alla portata solo di chi un’occupazione ce l’ha. In Francia è stato da poco introdotto il reddito di solidarietà attiva, che garantisce un minimo di 600 euro a chi non ha un lavoro o a chi ha un reddito bassissimo. Ma un sostegno simile si regge se c’è una forte base di popolazione attiva. Qui invece abbiamo previsioni che indicano l’inversione di rotta nel calo degli occupati addirittura nel 2012. È la conseguenza di un sistema economico fondato sulla simmetria tra alta intensità di capitale e bassa intensità di lavoro. E purtroppo, per ora, questo schema non è messo in discussione.

«Dal governo una strategia equilibrata. Resta il nodo del calo degli occupati»

Sulla strada della Fornero


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Riforma del lavoro 2. Parla Fabrizio Onida

«È la via giusta, serve chiarezza» «Finalmente nuove regole del gioco, ma attenti: chi perde il posto non deve ripartire da zero» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Il contratto unico rappresenta la strada giusta, occorre eliminare la selva di oltre quaranta tipi di rapporto di lavoro oggi vigente in Italia che ha generato tanta confusione e molti abusi. Il modello Boeri Garibaldi fa fronte alla necessità di contemperare le garanzie e le protezioni da destinare al lavoratore e le esigenze delle imprese che sono scoraggiate ad assumere perché spaventate dall’articolo 18. Anche se occorre fare chiarezza sul destino dell’assunto che viene mandato via prima della scadenza triennale. È necessario che il tempo che fa scattare le garanzie sia cumulativo, altrimenti si constringerebbe il giovane a un pericoloso gioco dell’oca». Docente di Economia internazionale alla Bocconi di Milano, Fabrizio Onida apre al modello Boeri incaricato di sanare il mercato del lavoro, dopo la lunga e schiavistica stagione del precariato. Ma il nodo occupazione si interseca in queste ore con l’imminente approvazione delle liberalizzazioni, di cui in fondo è parte. Professore, non è ancora chiaro: l’articolo 18 resta o viene abolito? Io credo che resti, o che debbe restare, a protezione delle ingiuste cause di licenziamento, e cioé per i casi discriminatori. Oltre che sul contratto unico, il governo punta a creare lavoro attraverso le liberalizzazioni. Un piano convincente? Anche se il pacchetto allo studio non è definitivo non si può che esprimere soddisfazione per l’azione di governo. Favorire la competizione in settori chiave come gli ordini professionali e i servizi non potrà che far bene al nostro Paese. A patto però di non concedersi l’illusione che i risultati arriveranno da subito. Le liberalizzazioni gettano le fondamenta di un progetto che darà frutti sul lungo periodo. La concorrenza non si crea da un giorno all’altro. Professore, la relazione che accompagna il piano del governo dice che lo Stato non può più fare da bancomat. Le liberalizzazioni sono la strada giusta per tornare a crescere? È la strada per innescare una ripresa della domanda. Siamo a corto di gettito per finanziare aumenti di spesa, e affinché le liberalizzazioni portino reale sollievo nelle tasche dei cittadini è necessario sostenere la domanda interna. Appare sempre più urgente promuovere le condizioni per una ripresa basata essenzialmente sullo sviluppo di autonome attività d’impresa, dice il governo. Ma come si sostiene a breve termine la do-

manda interna, senza la quale la crescita è impossibile? Mi pare che il governo abbia intenzione di rilanciarla attraverso il recupero dell’evasione fiscale. Se il trend del 2011 dovesse mantenersi anche nei prossimi mesi, il governo potrà destinare il gettito recuperato a maggiori spese e alla riduzione degli oneri sociali. E questo è uno degli obiettivi meno reclamizzati ma più decisivi che il governo tenterà di perseguire. Un segno di discontinuità importante, rispetto all’era Berlusconi. Confindustria valuta gli effetti delle liberalizzazioni in un 1,4 per cento di pil l’anno per i prossimi vent’anni. Scenario credibile? Risultati apprezzabili non sono conseguibili a breve termine. Forse i primi effetti positivi dei provvedimenti si faranno sentire a fine anno in coincidenza con una leggera ripresa della domanda interna. A lungo termine è possibile prospettare invece un impatto più rilevante, anche se sbilanciarsi su percentuali è azzardato, in quanto i numeri vengono tirati fuori da modelli econometrici che non possono tener conto di molte variabili. In Italia, spiega la relazione del governo, tutti i settori che producono servizi vivono al riparo dalla concorrenza internazionale. Il loro margine di profitto medio è del 61 per cento, contro il 35 per cento dell’area euro. Bastano taxi e parafarmacie per adeguarci agli standard europei? Il governo Monti va nella direzione giusta: ridurre i molti regimi di rendita monopolistica che imbrigliano lo sviluppo del Paese. L’intento non è quello di penalizzare singoli settori o ordini professioniali, ma di riscrivere le regole del gioco per favorire la concorrenza e offrire ai cittadini tariffe competitive e un più ampio ventaglio di scelta. Ciascuna delle corporazioni “colpita”dalle liberalizzazioni, lancia segnali d’allarme per gli effetti controproducenti di questa o quell’altra apertura a maggiore concorrenza. I provvedimenti allo studio del governo partono naturalmente da stime generiche che costituiscono più che altro dei punti di riferimento per orientare il lavoro. È necessario perciò che il governo lasci margini sufficienti a dei correttivi in corso d’opera, e che predisponga eventuali fasi di sperimentazione in grado di fornire suggerimenti e migliorie sulla base dell’applicazione diretta delle norme.

«Coniugare la flessibilità alle garanzie per il lavoratore: il modello Boeri è convincente»


il paginone

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ROMA. Quella che stiamo attraversando «non è più solo una crisi economica o finanziaria, ma di prospettiva. Serve una nuova Camaldoli per rilanciare l’idea di bene comune e uscire da questa situazione». È la proposta di Giancarlo Elia Valori, presidente de La Centrale finanziaria e docente presso le università di Pechino e Gerusalemme, che a liberal spiega la sua visione per il futuro dell’Italia. Camaldoli infatti significò attivare una prospettiva, una visione alta ma al tempo stesso operativa in un momento non meno critico dell’attuale per il nostro Paese. Tra i principi ispiratori del Codice di Camaldoli vi era l’idea di uno Stato inteso come garante e promotore del bene comune. Oggi ci siamo dimenticati di questa finalità e ci siamo dimenticati dello Stato, che molti vorrebbero ridotto a mero fascio di residuali funzioni fiscali e amministrative. Ci siamo dimenticati, soprattutto, del “bene comune”. «Il fatto – spiega Valori – è che i cattolici e il loro Partito Popolare non sono mai stati del tutto ai margini della politica italiana. Basta intendersi su cosa si definisce per “politica”. Il movimento laureati, la rete dell’Azione Cattolica, il magistero lontano ma sempre vigile di don Luigi Sturzo, che lega il cattolicesimo non al liberalismo ma a un progetto completo di riforma dello Stato e dell’economia italiane. Qui, l’influsso sui cattolici popolari è il personalismo francese di Mounier, l’esperienza di Bernanos, l’accettazione dei diritti dell’uomo in funzione di una teologia politica che riconosce alla Chiesa il diritto di operare, come tale, nella città dell’Uomo, per dirla con Sant’Agostino. Centralità della persona, accettazione della legge dello Stato se coincide con il retto sentire e la libertà di tutti gli uomini». «Il bene comune – riprende – nel codice di Camaldoli del 1943, è il fine dello Stato, che non può sostituirsi ai singoli, il mito del “Leviatano” di Hobbes, e che comunque riguarda le condizioni esterne necessarie a tutti i cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e dei loro “uffici”, per dirla con il linguaggio quasi ciceroniano di Pio XII. Oggi c’è davvero bisogno di questa filosofia dei cattolici democratici nel dibattito politico e culturale italiano e europeo». «Gli Stati – spiega ancora – sono diventati tutti più deboli e incapaci, spesso, di proteggere e sostenere il bene comune, a meno di non “chiedere l’anima”ai loro cittadini, e probabilmente la vera sfida sarà, per i cattolici e per tutti i democratici di cultura liberale, impostare una teoria e una pressi del “bene comune” al tempo degli hedge funds, della globalizzazione finanziaria, dell’impoverimento di massa e del trasferimento di gran parte del baricentro manifatturiero e, poi, finanziario, dal centro euroamericano ai Paesi in Via di Sviluppo, dove la cultura del bene comune, per motivi storici e ideologici, non è particolarmente diffusa. Globalizzare le idee dopo aver universalizzato la finanza, ecco la sfida per una ipotetica “nuova Camaldoli”».

Dignità, eguaglianza, solidarietà della persona umana: ecco altri principi ispiratori di Camaldoli. Oggi che molti sembrano richiamarsi, spesso a sproposito, all’esperienza del ’43, come crede si possa ricollocare la persona nella centralità che le compete sulla scena umana? «La persona - dice Valori - nella filosofia politica dei cattolici, soprattutto nel gruppo dei filosofi legati a Mounier è irriducibile non solo allo Stato, ma an-

«Dobbiamo ripartire dal bene comune, dalla persona non più titolare di semplici diritti formali, ma capace di elaborarne di nuovi». Parla Giancarlo Elia Valori

Camaldoli 2012

Serve un nuovo codice dei cattolici in politica di Vincenzo Faccioli Pintozzi che alla comunità e al gruppo. Viene in mente il concetto heideggeriano di “essere gettati nel mondo”, una relazione che implica l’unicità non solo della persona fisica, ma anche della sua sub stantia morale e spirituale. Uscire dal soggettivismo capitalista era il primo fine dei collaboratori di Mounier, poiché il gruppo di Esprit vedeva nel concetto borghese di persona l’atomismo del mercato, l’incapacità di creare una teoria dello Stato, il bellum omnium contra

I cristiani hanno, proprio con il personalismo, una teoria dello Stato (il bene comune e ciò che lo rende efficace) e una teoria della rappresentanza politica

omnes che può distruggere non solo ciò che è “superato” nell’economia, secondo il modello di Schumpeter, ma anche la storia e la morale profonda dei popoli. Per Mounier, il capitalismo “faceva trop-

po presto”, accelerava sul breve periodo trasformazioni che avrebbero necessitato di più tempo; mentre il comunismo, che pure, è bene notarlo, ha solo con Lenin una vera e propria “teoria dello Stato” sia pure nel progetto della sua estinzione finale nella comunità degli eguali, distrugge la persona invisibile sul fasullo altare della persona visibile, dei suoi “bisogni”, della sua mera sopravvivenza che, spesso, non viene nemmeno garantita dal boslevismo che si fa stato e economia. I cattolici hanno, proprio con il personalismo, una teoria dello Stato (il bene comune e ciò che lo rende efficace) e una teoria della rappresentanza politica. Si ricordi che la borghesia, in Italia e in Europa, cade sotto il tallone di acciaio dei totalitarismi fascisti perché non ha partiti organizzati, ma solo ottocenteschi comitati elettorali, mentre il proletariato organizzato

dai comunisti crea un partito per la sola finalità del “rovesciamento dello stato di cose presenti”, per usare la formula di Marx e di Engels». Il concetto di persona del cattolicesimo politico «è dunque innovativo, coerente con la nuova “società delle masse”e con la loro nazionalizzazione, e soprattutto con un corretto rapporto, che vale anche per i non credenti, tra soggetto e stato. Oggi la situazione è molto più complessa, poiché la persona (e la sua dignità, con i suoi diritti inalienabili) è divenuta, grazie alle ideologie del postmoderno, un semplice fascio di istinti o una “macchina desiderante”, per usare una vecchia formula di Deleuze. Ma, se questo fosse vero, allora gli istinti, che sono sostanzialmente eguali in ognuno, non definiscono la persona, e non vi è nessuna derivazione logica tra titolarità di una


il paginone rerà poi che la Chiesa e i cattolici più avvertiti utilizzino il fatto che il Papato è cattolico, ovvero universale, per ricostruire una rete di diritti tra monndo sviluppato, terzo mondo e Paesi in Via di sviluppo. Sul piano politico-culturale, tanto maggiore il tasso di sviluppo, tanto maggiore, nel vecchio “terzo mondo”, il tasso di nazionalismo e di divario crescente tra ricchi e poveri. Si pensi alla Cina, o al Brasile post-Lula. Difendere l’universalità dei valori umani, difendere un nuovo diritto del lavoro nell’era della globalizzazione, senza creare rendite ma anche senza distruggere vite e dignità dei popoli, tutelare la natura, come spesso sostiene, con la sua consueta capacità di precorrere i tempi, Papa Benedetto XVI, sono tutti elementi di una Nuova Camaldoli che non potrà non essere globale, come universali sono le sfide che anche l’Italia si trova a fronteggiare in questi anni».

pulsione desiderante e la dignità e la libertà di chi desidera la sua realizzazione spirituale e materiale. Una contraddizione logica che si risolve con il paradosso di Tertulliano: la Fede. E questo vale anche per i non credenti, mentre una cultura del corpo e della istintualità pura è distruttiva, lo stiamo già vedendo, non solo della società ma dei singoli, concreti esseri umani. Anche qui, la Chiesa è chiamata a formulare una filosofia politica universale che sazi la voglia non di semplici “valori” da proclamare, ma di pratiche sociali da mettere in atto. E la questione non riguarda solo la pur importantissima carità». Camaldoli fu prassi, prova di pensiero, ma fu anche capacità di dialogo e forza di movimento. Possiamo realisticamente pensare che tutto questo – movimento, dialogo, prassi, azione – possa guidare un nuovo risorgimento culturale? «Certamente. Senza il “codice di Camaldoli” non vi sarebbe stata la Costituzione repubblicana, e non dico questa costituzione, ma una Carta Fondamentale italiana e repubblicana qualsivoglia. La rete dell’Azione Cattolica, che il regime fascista teme e reprime ma che non può del tutto eliminare, la capacità da parte del Papato di parlare agli USA, con lo stretto rapporto tra Pio XII e l’ambasciatore personale Myron Taylor, il sostegno del ricco (culturalmente) cattolicesimo francese, che ha vissuto la Rivoluzione del 1789 e il capitalismo “massonico”, sono tutti segni del fatto che erano i cattolici democratici a sostenere lo Stato nazionale da ricostruire. Non i laici, minoritari anche nella borghesia liberale, e Benedetto Croce, sapientemente, parlerà del “non possiamo non dirci cristiani”, in quegli anni; non i comunisti di Togliatti, che identificano correttamente la DC come il vero antemurale sociale e politico, non solo strategico e internazionale, alla loro presa del potere in Italia, che Togliatti si illuderà sempre di compiere aggregando parte dei

Una manifestazione studentesca. In basso, San Pietro. Nella pagina a fianco, Mounier e Saraceno

cattolici di sinistra, non certo la Monarchia che era fuggita e il socialismo, stretto tra una alleanza con il PCI e i primi tentativi di una alleanza modernizzatrice con i cattolici democratici». Ma oggi è possibile questa nuova rinascita culturale, ripensando il “Codice di Camaldoli”? «Certamente. Se mi si consente una serie di suggerimenti, un nuovo “Codice”camaldolese potrebbe partire dalla nuova teoria della “persona”: non più titolare di semplici diritti formali, ma capace di elaborarne di nuovi all’interno di una libera comunità. Occor-

Un intervento pubblico nell’economia sarebbe auspicabile, proprio ora che è ripreso il ritornello delle “privatizzazioni”? «Bisogna chiedersi cosa vuol dire “intervento pubblico”. Pasquale Saraceno o Ezio Vanoni, di fronte a una questione come questa, si sarebbero domandati, come accadde a Paronetto all’Iri, cos’è davvero pubblico e cosa intrinsecamente privato. Il principio di una buona gestione va ben oltre la titolarità della proprietà delle imprese, e probabilmente la questione di una nuova teorica dell’intervento pubblico nell’economia riguarda un vecchio termine caro agli economisti di Camaldoli: la programmazione. Noi abbiamo a che fare, oggi con un capitalismo che “crea valore per gli azionisti”, ma senza definire il tempo della creazione e della durata di tale valore. Una economia “mordi e fuggi” che sta distruggendo sé stessa. Sarebbe necessario, e anche questo è nello spirito della carta camaldolese, un dibattito globale, nelle sedi opportune, su chi produrrà cosa nei prossimi dieci anni. I “trenta gloriosi” anni che vanno dalla prima ricostruzione economica postbellica degli anni ’50 alla fine delle parità fisse definita a Bretton Woods, che gli USA utilizzarono per far pagare agli europei la loso superinflazione da guerra del Vietnam in parallelo con la costruzione della “Great Society”di Lyndon Johnson, sono finiti. Ma non affatto finita la necessità di una analisi concordata della divisione mondiale del lavoro. La Cina vuol fare la manifattura del globo? Benissimo, ma l’UE farà la comunità delle infrastrutture, che venderà a USA, Cina, Russia, India. Gli USA terranno le tecnologie dell’innovazione? Ottima idea, ma eviteranno di entrare nel mercato delle tecnologie fini per il consumo privato. Se si razionalizza la divisione mondiale del lavoro, si aumenta la redditività media degli investimenti, che acquisiscono effetti di sinergia ambientale, e il tutto dovrebbe essere gestito, sempre nello spirito di Camaldoli, da un nuovo accordo tra le monete. Non più la guerra Euro-Dollaro, rovinosa alla fine per entrambi, la ridefinizione di bande di oscillazione tra le monete tali da sostenere periodo nazionali di sviluppo o crisi senza esportare inflazione o distruggere i mercati altrui, ecco, sono tutte idee che si potrebbero discutere nella Nuova Camaldoli del Terzo Millennio». Giovani e povertà, giovani e lavoro. Qualcosa è saltato nel passaggio tra le generazioni, oramai allo sbando. Camaldoli cosa potrebbe co-

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municare ai giovani? «Ai giovani occorrere ripetere il messaggio evangelico, che Papa Giovanni Paolo II amava citare spesso,“non abbiate paura”. Aprire le porte a Cristo vuol dire aprire le porte a tutti gli uomini e ad ogni uomo, singolarmente preso. I giovani non trovano lavoro, soprattutto in Italia, per colpa di una cattiva formazione secondaria e universitaria, che è stata pensata per dare lavoro alla proletarizzazione degli insegnanti piuttosto che per fornire occasioni serie agli studenti, e poi per motivi culturali. Noi abbiamo creato una gioventù del consumo cospicuo, evidente, come quello che Veblen leggeva nei capitalisti USA, che è ormai resecata dalla produzione, manuale come intellettuale. La persona è un tutto, è il concetto di Mounier, e il consumismo giovanile ha distrutto la stessa identità di questa dimensione della vita. Cosa fare, praticamente? Le linee del ministro attuale del Welfare Fornero sono razionali, ma occorre una nuova prospettiva culturale e spirituale: si lavora e si studia per il bene comune, dove si realizza la mia persona, non il mio soggetto. La cooperazione, in questo senso, potrebbe dare alcune risposte: cooperative di giovani, fiscalmente ben trattate, e che possono accedere a finanziamenti legati ad una specifica entità finanziaria, pubblico-privata, una sorta di Cassa Depositi e Prestiti della società».

Quali crede possano o debbano essere, in sintesi, i principi ispiratori di una politica ispirata all’idea di bene comune? «Il bene comune è la libertà del sog-

Difendere l’universalità dei valori umani, difendere un nuovo diritto del lavoro nell’era della globalizzazione, senza creare rendite ma anche senza distruggere vite

getto che si confronta, ogni giorno, con la libertà di altri uomini e donne. Il bene comune, oggi, cos’è? È la ricerca di un punto di contatto reale tra i vari gruppi sociali, che la degenerazione postmoderna del capitalismo ha separato. Gli imprenditori e i lavoratori, i giovani e i vecchi, i poveri e i ricchi, i laici e i cattolici, oggi siamo abituati, purtroppo, ad una società dove ogni gruppo si immagina di giocare, come dicono gli economisti, un “gioco a somma zero”nei confronti degli altri, di tutti gli altri. È un errore prima spirituale e culturale, ma è anche un errore tecnico e economico. Ogni attività sociale dovrebbe essere, da questo punto di vista, insieme più libera e più socializzata, ma dislocando diversamente socialismo e liberalismo. Un grande e dimenticato economista italiano, Enrico Barone, nel suo “Il ministro della produzione nello stato collettivista”, del 1908, sosteneva che era possibile, in astratto, risolvere le equazioni classiche dello sviluppo economico, svolgendo “un lavoro immane”, anche in una economia collettivista. Noi non amiamo nessun tipo di collettivismo, ma cercare di razionalizzare le comunità (e qui ci ricordiamo dello straordinario esempio di Adriano Olivetti) con criteri di libero gioco tra di loro, e non necessariamente tra aziende private o pubbliche, ma tra libere comunità, è, ancora questa, una sfida della Camaldoli prossima ventura


mondo

pagina 10 • 20 gennaio 2012

I risultati del mese di monitoraggio presentati ieri sera. La Francia: «Inviarli subito all’Onu». Ad Homs circa 20 morti

La Lega prende tempo L’organizzazione panaraba sta negoziando un prolungamento del mandato in Siria di Antonio Picasso l capo delegazione degli ispettori arabi in Siria, il generale sudanese Mohamed Mustafa el-Dabi, torna al Cairo con un pugno di mosche. Un trofeo dell’iniqua missione a Damasco voluta dalla Lega Araba. Il rapporto verrà reso forse domenica, o forse mai. Dopodomani, infatti, è fissata nella capitale egiziana l’ennesima riunione straordinaria dell’organizzazione panaraba in cui si dovrebbe decidere se e come intervenire verso il regime Baath. Già domani i Paesi più indomiti – Qatar in primis – è probabile che si siedano intorno a un tavolo per delineare una strategia comune. Il che potrebbe dire presentare una

I

ziando per un prolungamento del mandato. Khodeir ha anche smentito che la Lega abbia ricevuto una proposta formale per l’invio di una forza militare. Al contrario, il comitato ministeriale si dovrebbe limitare a valutare il rapporto del capo missione. La dichiarazione riprende le voci circolate la scorsa settimana sull’intenzione dell’emiro del Qatar, Hamad Ben Khalifa alThani, di creare un contingente panarabo da inviare a Damasco, Homs e nelle altre città siriane dove si sta consumando il massacro di migliaia di oppositori ad Assad. Fonti delle Nazioni Unite parlano di almeno 5.400 morti in questi dieci mesi

«Non c’è nessuna pianificazione per un eventuale intervento della Nato nel Paese», ha dichiarato ieri il generale Knud Bartels, nuovo presidente del Comitato militare della Nato mozione di intervento (militare?) nel Paese. Nel frattempo il resto degli osservatori della Lega sono ancora in Sira. Per domenica stessa è in agenda il loro ritorno. L’ambasciatore Adnan al-Khodeir, capo delle operazioni di monitoraggio al Cairo, ha fatto sapere che l’organizzazione e il governo di Damasco stanno ancora nego-

di guerra civile. L’ultima trentina di vittime risale a ieri e l’altro ieri, sommate.

Il Qatar continua a tessere una maglia di diplomazia dalla tramatura molto accurata. L’intervento a fianco della Nato nelle operazioni in Libia lo conferma. La cosa non dovrebbe sorprendere, visto che più e

Scoop del Wall Street Journal

Te heran aiuta D am a sc o ad ag gi rare le san zioni sul pe troli o di Luisa Arezzo

più volte l’emiro al-Thani ha cercato di fare da paciere nelle crisi mediorientali. In un caso gli è andata bene, la crisi libanese del 2008, nel secondo no, e stiamo parlando dell’impasse palestinese. È chiaro che il Qatar voglia fare la voce grossa. Specie di fronte a una Lega Araba che tentenna. Ed è altrettanto chiaro che gli avversari di Doha abbiano capito la sua strategia e adesso cerchino di contenerla. Venerdì scorso, per esempio, il segnale di al-Jazeera, televisione qatariota appunto, è stato frequentemente disturbato. Gli esperti dicono che si potrebbe trattare di un sabotaggio. Un’operazione fatta da chi se ne intende di frequenze televisive. Chi meglio degli ingegneri iraniani oppure di quelli libanesi del canale al-Manar, quello di Hezbollah, potrebbe inscenare una simile diavoleria? È da Teheran e dal libano sciita, ma anche da Damasco, che piovono su Doha le accuse ad al-Jazeera di diffondere propaganda ostile al regime siriano. Altrettanto schietta è la visione di un nemico storico del regime degli

iciamola tutta: era un segreto di pulcinella che circolava non da giorni, ma da settimane, il fatto che l’Iran si stesse dando da fare per “piazzare” il greggio di Damasco, strozzato dall’embargo. Ma ieri è arrivata una conferma para-ufficiale sulle pagine del Wall Street Journal: Teheran aiuta la Siria ad eludere l’embargo petrolifero imposto da Stati Uniti ed Europa, consentendo l’arrivo del greggio siriano in Iran per poterlo vendere sul mercato internazionale e restituendo i proventi al regime di Assad. A denunciarlo è un’indagine americana rivelata ieri dal quotidiano, secondo cui il mese scorso sarebbe arrivato in Iran un carico di 91.000 tonnellate di petrolio. «La spedizione di petrolio in Iran mirava a eludere le sanzioni imposte alla Siria», ha denunciato un alto funzionario del Dipartimento del Tesoro Usa sotto anonimato. Secondo il quotidiano americano, la rivelazione conferma il sostegno garantito da

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Teheran al regime siriano impegnato a reprimere le manifestazioni di piazza. Un portavoce dell’Ambasciata iraniana alle Nazioni Unite ha dichiarato che non ci sono sanzioni internazionali contro la Siria che Teheran debba essere chiamata a rispettare, sottolineando che sono potenze straniere, non l’Iran, ad alimentare il conflitto in Siria garantendo forniture di armi. «La Siria è uno stato indipendente e l’Iran rispetta la sua sovranità - ha detto il portavoce - l’Iran ritiene che i siriani abbiamo il diritto all’autodeterminazione, liberi da ogni intervento esterno».

Le preoccupazioni degli Stati Uniti, tuttavia, non si appuntano solo su Teheran, storico alleato di Damasco, ma anche sulla Russia, con un occhio vigile sui trasporti aerei e navali, dopo che Mosca ha pubblicamente dichiarato di non avere intenzione di rinunciare a vendere armi alle forze di sicurezza di Assad. Prima del funzionario anonimo

A sinistra, Burhan Ghalioun, presidente del Cns, l’opposizione siriana. In alto, un’immagine scattata da un telefonino “ribelle” ad Homs mostra centinaia di persone abbracciate che manifestano contro il regime. Sotto, il presidente Ahmadinejad assieme a Bashar al-Assad

americano, ieri era stato il primo ministro britannico David Cameron a denunciare «il sostegno considerevole», questa volta in materia di armamenti, portato dall’Iran al regime del presidente siriano Bashar al Assad, bollato come «pietoso tiranno». «C’è una massa di prove che dimostra che l’Iran fornisce un sostegno considerevole» al potere in carica a Damasco, ha dichiarato mercoledì il capo del governo britannico di fronte ai deputati. Facendo soprattutto esplicito riferimento all’implicazione di Hezbollah, organizzazione filo-iraniana, nell’approvvigionamento di armi del regime del «pietoso tiranno responsabile della morte di tanti suoi connazionali». Lunedì scorso, invece, er stato un portavoce del ministero degli Esteri francese a denunciare le consegne di armi «illegali e profondamente preoccupanti» dell’Iran verso la Siria, portate alla luce da un commissione di esperti Onu. Teheran, evidentemente, ieri non ha ri-


mondo

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è uno sciita del partito di Amal. Con Geagea ha in comune il Paese di origine, il governo nel quale i due lavorano possibilmente senza parlarsi, ma non certo la vision strategica. Il fatto che l’organizzazione panaraba non sappia fare altro che temporeggiare è confermato da tre fattori. 1) Dalla minaccia di sospendere la Siria come Stato membro, all’invio degli osservatori sono passati due mesi circa. Troppo tempo, durante il quale Assad è andato avanti con le sue violenze. Intanto, la credibilità della Lega è colata a picco. 2) La procedura non è la stessa adottata nei confronti dell’Iran. Se di fronte alla Siria, la Lega sta passando come un’educanda aggredita dall’orco cattivo, in faccia agli ayatollah – che certo un po’ più aggressivi lo sono – mostra tutta la sua grinta. L’Iran chiude Hormuz? Non c’è problema, gli Stati del Golfo sapranno sopperire alla mancanza del greggio iraniano.Tornano utili le parole ancora di re Abdallah: «Se venisse risolta la questione israelo-palestinese, l’Iran non sarebbe più un problema militare». Il sovrano non solo picchia duro sugli Ayatollah, ma sa pure come farli tacere. 3) Tergiversare alla Lega fa comodo. Come ha detto Geagea, è così che si sfinisce Assad. E si detta il passo al governo democratico siriano prossimo venturo. Ieri il caso Assad è stato anche il piatto forte servito al summit franco-australiano di Parigi. Il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, si è confrontato con il suo omonimo di Canberra, Kevin Rudd. Entrambi si sono detti convinti della necessità di mandare Assad sotto processo alla Corte internazionale dell’Aja. È un’idea! Prima però bisogna prenderlo.

Il caso Ben Ali dovrebbe insegnare qualcosa. Magari l’ex presidente tunisino non ha le mani insozzate di sangue com’è per il rais siriano. Tuttavia, chi ci dice che Riyadh non troverebbe in un lampo una gabbia dorata anche per lui, magari sempre a Gedda? Teniamo anche conto della Russia, sempre più ostile a qualsiasi intervento straniero in Medioriente. Chiudiamo con la cronaca. Come si è detto, ieri sono stati contati circa 18 morti. Quattro di loro sarebbero attivisti ricercati e uccisi dalle forze di sicurezza in un’imboscata nella provincia di Idlib, nel nordovest. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, i quattro, la cui identità non è stata resa nota, si erano dati alla fuga e nascosti sulle colline di Zawiya, vicino al confine con la Turchia. Nel frattempo, Fouad Aliko, leader del Kurdish Yekiti Party, fazione locale del’indipendentismo kurdo, ha confermato la volontà del suo movimento di sospendere la propria adesione al Cns, il Comitato nazionale siriano, in quanto non sarebbe stato raggiunto un accordo sul futuro ruolo dei kurdi nel Paese. Secondo Aliko non ci sarebbe un’intesa sul modo con cui la nuova Costituzione dovrebbe trattare la minoranza sul fatto che debba essere riconosciuta come una comunità originaria siriana. «I canali di dialogo con le autorità di Damasco restano aperti». Due le conclusioni da trarre. Il Cns sta lavorando già per un post-Assad. È positivo. I kurdi parlano con Assad. Non è positivo. Soprattutto perché così si rischia di spaccare il fronte dell’opposizione al regime.

Tergiversare agli arabi fa molto comodo. Si sfinisce il dittatore e si detta il passo al possibile nuovo governo

Assad. Samir Geagea, il leader delle Forze libanesi – maronita e reduce di una ventina d’anni circa di galera a Beirut – sembra di non veder l’ora che Damasco crolli. «Il presidente Bashar al-Assad non può sopravvivere ancora. È debole e non ha più legittimità interna, né a livello arabo, né sul piano internazionale», ha detto Geagea, senza però specificare cosa intenda quando parla di sopravvivenza. Se solo politica, oppure fisica. Riguardo al progetto del Qatar, ha sottolineato inoltre che «buona parte di coloro che si dicono contrari a un intervento straniero in Siria nascondono il desiderio di la-

sciare che la crisi logori la Siria e la sua gente».

Più fumosa è invece la posizione del re di Giordania, Abdallah II, ieri intervistato dalla Cnn. Per il sovrano la questione siriana è un puzzle complicato, dalla difficile soluzione. Ci permettiamo di dire che non è necessario essere una testa coronata per capirlo. La laconicità del pensiero di re Abdallah è dettata, molto probabilmente, dal timore che la rivolta, quando sarà conclusa in Siria, si sposti. In tal caso, la Giordania avrebbe tutte le caratteristiche per essere il prossimo

sposto alle parole del Wall Street Journal, ma ha invece fatto un passo indietro su Hormuz, dicendo di non aver mai voluto chiudere lo Stretto, vitale passaggio per le esportazioni di petrolio nel Golfo. La rassicurazione (se può considerarsi tale) è venuta dal ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, a margine di una visita in Turchia: «Noi vogliamo pace e tranquillità» ma alcuni Paesi della regione spingono gli altri a trovare riferimenti esterni e lontani «12 miglia da questa regione».

La precisazione di Salehi arriva poche ore dopo le dichiarazioni del segretario di Stato Usa, Leon Panetta, il quale aveva assicurato che Washington «è pienamente preparata» a qualsiasi tipo di confronto con l’Iran sullo Stretto di Hormuz. Intanto lunedì a Bruxelles i ministri degli Esteri dell’Ue dovrebbero decidere il congelamento dei beni della Banca Centrale iraniana, attraverso cui Teheran riceve

Paese arabo a vivere la sua primavera di lotta. Da Amman si osserva Damasco con prudenza. Lo fanno tutti nella Lega Araba. Geagea che non ha praticamente un peso politico, ed è comunque noto per la mancanza di tatto diplomatico, si può permettere di entrare a gamba tesa sullo stinco dell’avversario. Tant’è che il ministro degli Esteri libanese, Adnan Mansour, ha detto che la soluzione migliore per la crisi siriana è da trovarsi nel dialogo. La frase fa il paio con quella di Abdallah. D’altra parte,

i pagamenti per l’export di petrolio, e un embargo petrolifero graduale. «Riusciremo a trovare un accordo sui due punti», ha assicurato il capo della diplomazia francese Alain Juppè. Per l’embargo petrolifero resta da definire l’inizio dell’embargo (probabilmente luglio) e la clausola di revisione per verificare l’impatto economico delle sanzioni sui paesi che importano da Teheran, tra cui l’Italia. L’impianto sanzionatorio sembra comunque confermato, con il blocco immediato di nuovi contratti, e un intervallo (probabilmente di sei mesi) per chiudere quelli esistenti. Il ministro degli Esteri australiano, Kevin Rudd, ha invitato «gli amici a Pechino e in altri paesi asiatici a riflettere seriamente» sull’opportunità di unirsi all’embargo petrolifero per modificare la politica nucleare iraniana. Ma la sua richiesta al momento è caduta nel vuoto.


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grandangolo Tutti contro tutti, ecco l’aria che tira a Islamabad

Inferno Pakistan, dove l’intrigo è ormai l’unica legge Lo scandalo “Memogate” ha aperto nel Paese una resa dei conti. E la presunta malattia di Zardari non ha fugato l’ipotesi di un possibile colpo di stato. Gli attori sono tutti presenti: presidente, primo ministro, corte suprema, avvocati, militari, intelligence, religiosi e talebani. È assente solo il popolo, che continua a subire senza speranza di Mario Arpino n Pakistan, tra autobombe, raffiche di kalashnikov, assalti alla polizia ed attacchi ai rifornimenti Nato per l’Afghanistan, continuano le grandi manovre. Non tanto quelle per prevenire il “pericolo indiano”o per ripulire le aree tribali, intendiamoci. Stiamo parlando di quelle interne, ovvero delle lotte intestine tra gruppi di potere. Non ci sono esclusioni di colpi. Ormai, e segnatamente dopo il ritiro di Musharraf, siamo al tutti contro tutti. Gli attori sono presenti in gran numero: presidente, primo ministro, corte suprema, avvocati, militari, servizi segreti, potere religioso, talebani e mestatori. Assente: il popolo, che da troppi anni continua a subire questa strana democrazia. Se la giovane Storia di questo Paese non ci dicesse che è sempre stato così, verrebbe da pensare che il fantasma di bin Laden, ucciso dalle squadre delle forze speciali americane in un compound di Abbottabad il 2 maggio scorso, si stia divertendo a prendere le sue rivincite.

I

Il lettore ricorderà che a quel tempo sia il Governo del presidente Zardari, presieduto dal primo ministro Roussuf Raza Gilani, sia i media locali ponevano inquietanti interrogativi sull’operato delle forze armate e de i servizi di sicurezza militari, accusando tutti di non essere riusciti a scovare il capo di al-Qaeda con i propri mezzi e, soprattutto, di aver lasciato mano libera al raid dei seals americani. Come nelle occasioni di

uccisioni mirate dei droni della Cia in Waziristan, veniva sollevato il caso – questa volta di ancora maggiore gravità – della violazione della sovranità nazionale del Pakistan da parte degli Stati Uniti. Un paio di giorni dopo l’azione Zardari e Gilani incontrano il generale Ashfaq Kayani, il capo di Stato Maggiore nominato da Mussharraf ai tempi della sua rinuncia al comando dell’esercito, ma i chiarimenti per entrambe le parti non sono soddisfacenti. Da quel momento i rapporti tra militari e civili, che nel paese non sono mai stati calorosi, restano formalmente corretti, ma di glaciale,

L’ammiraglio Mullen sembra aver ricevuto una richiesta di aiuto dal governo contro un golpe militare reciproca diffidenza. Non passa molto tempo che scoppia lo scandalo che per pakistani, americani e inglesi va ormai sotto il nome di “Memogate”. Era successo che un certo Mansur Ijaz, uomo d’affari che vive tra Islamabad, Londra e

Whashington vantando amicizie altolocate in ciascuno dei tre paesi (livello ambasciatori, ministri ed alti gradi delle forze armate), era stato intercettato mentre da Monaco parlava in Black Berry con l’ambasciatore pakistano a Washington, ma in quel momento a Londra, il quale gli chiedeva di far pervenire al presidente del Joint Chief of Staff (allora l’ammiraglio Mike Mullen) una richiesta di aiuto da parte di Zardari, che temeva un colpo stato da parte dei militari.

Il promemoria sarebbe stato redatto su istruzioni dell’ambasciatore Haqqani direttamente da Ijaz, discusso con gli inglesi, fatto approvare via email dallo stesso Zardari e immediatamente trasmesso al generale Jones, allora consigliere di Obama per la sicurezza, il quale lo avrebbe poi recapitato all’ammiraglio Mullen.Tutto ciò sarebbe avvenuto – esistono le registrazioni telefoniche dei Black Berry – nella prima settimana di maggio 2011. D’altro canto la storia, che ormai incominciava a circolare creando un bailamme di risentimenti, negazioni, affermazioni e imbarazzi, veniva confermata per filo e per segno dallo stesso businessman Ijaz al Financial Times, il 10 ottobre 2011. Successivamente la memoria, che doveva essere confidenziale, è stata integralmente pubblicata dal sito web di Foreign Policy il 17 novembre scorso. Vera o falsa che sia, per gli attoniti militari è stata una vera e propria bomba, in grado di minare definitivamente rappor-

ti già compromessi da tempo. La memoria, che non risulta firmata, era diretta all’ammiraglio Mullen, con la specifica richiesta all’amministrazione Obama di esercitare «…un forte, urgente e diretto messaggio al generale Kayani e al generale Pasha (direttore dell’Isi – interservice intelligence) perché pongano termine alla loro sodalità, mirata a far cadere l’apparato governativo civile». Mullen avrebbe dovuto convincere Kayani a cancellare l’Isi, essendo già pronto un servizio intelligence nazionale tutto civile. In cambio di questo favore, il presidente Zardari avrebbe ordinato un’inchiesta indipendente, alla quale erano invitati a partecipare elementi indicati dell’amministrazione Usa, al fine di valutare il grado di connivenza esercito-intelligence-direttorati civili e i talebani, con immediato siluramento degli eventuali responsabili. Il nuovo apparato intelligence civile avrebbe fatto in modo di consegnare agli americani personaggi affiliati o amici dei talebani ancora in Pakistan – si menzionano al-Zawahiri, mullah Omar ed altri – o, in alternativa e concomitanza, di dare carta bianca agli americani perché procedano in proprio sul territorio. Nel settore delle armi nucleari, la nuova intelligence avrebbe rimesso in atto le misure – già sperimentate con successo dal governo militare di Musharraf – per la sicurezza e la verificabilità (da parte degli americani?) di procedure e programmi. Ancora, sarebbe stata eliminata la sezio-


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Probabile rinvio del suo rientro in patria

Musharraf ancora non torna ex presidente pachistano Pervez Musharraf, in esilio volontario a Londra, potrebbe rinviare l’annunciato ritorno a Islamabad dopo che il governo ha ribadito l’intenzione di procedere al suo arresto una volta rientrato in patria. Musharraf, come ha ricordato ieri il ministro degli Interni di Islamabad, Rehman Malik durante un intervento al Senato pachistano, è infatti ricercato dalla polizia pachistana. È oggetto di un mandato d’arresto emesso nel febbraio del 2011 nel quadro delle indagini sull’omicidio dell’ex premier pachistano Benazir Bhutto; un secondo mandato lo lega alla morte di un leader indipendentista del Belucistan, Akbar Bugti, ucciso in un’incursione dell’esercito nel 2006. Musharraf aveva annunciato il 9 gennaio scorso di voler fare ritorno in Pakistan «tra il 27 e il 30 gennaio»: «Sono pronto a presentarmi in tribunale e dimostrare che tutte le accuse rivolte contro di me sono prive di fondamento»; l’ex generale, intervistato dalla Bbc, non ha escluso di volersi presentare alle prossime elezioni presidenziali. Intanto, la Corte suprema del Pakistan ha aggiornato al primo febbraio l’udienza del primo ministro Yousuf Raza Gilani, ascoltato ieri in aula in via preliminare, nell’ambito del processo per corruzione nei confronti del presidente Asif Ali Zardari. Gilani deve rispondere delle accuse di non aver ordinato un’inchiesta su presunta corruzione a opera di Zardari. Dopo la testimonianza fornita dal premier e dal suo avvocato, che ha chiesto tempo per portare ulteriori argomenti, la commissione composta da sei membri ha deciso di concedere altre due settimane di tempo e ha aggiornato l’udienza al primo febbraio.

L’

ne “S”dell’intelligence dedicata ai contatti con i talebani e si sarebbe dato corso alla cessione di informazioni ed alle estradizioni richieste in relazione agli attentati di Mumbai del 2008.

Ovviamente, visto che a colpi di dichiarazioni ai media tutti negavano tutto, la misura era ormai colma e l’onnipotente Corte Suprema decideva di intervenire. A questo punto, siamo già a dicembre, Zardari lasciava il Paese per una misteriosa malattia che richiedeva cure speciali negli Emirati (infine, dopo molte incertezze, è rientrato) e l’ambasciatore a Washington Haqquani, pur negando tutto e parlando di “storia costruita”, ha rassegnato formali dimissioni, subito accettate dal governo Gilani. Silenzio e mini-

I rapporti tra civili e forze armate, mai stati calorosi, restano corretti, ma di glaciale e reciproca diffidenza

fabile Imran Khan, già grande campione di cricket, poi professore, poi scrittore, poi uomo politico fondatore della Lega per la Giustizia e, ora, anche grande filantropo. Dimostrando un’estrema flessibilità sotto il profilo ideologico, è stato alleato di Musharraf nel 1999, diventandogli poi nemico e passare, con il suo gruppo minoritario, a dare supporto a Zardari per poi metterglisi regolarmente contro, come da prassi usuale. Ora sta cercando di ritagliarsi una propria parte anche nel cosiddetto Memogate. È un personaggio particolare, del quale sentiremo ancora parlare. Interessante è un suo profilo (negativo) tracciato su GeoPakistan da Humayun Gauhar, giornalista e commentatore politico già ghost-writer di Musharraf.

L’inchiesta aperta dalla Corte Suprema, che ha il potere di chiamare a deporre chiunque, presidente delle repubblica, primo ministro o capo militare che sia, sta aprendo nuovi vasi di Pandora, riattizzando proprio in questo mese le scintille del “tutti contro tutti”. Ad esempio, giorni or sono il premier Gilani, dopo aver silurato un ex militare dall’incarico di segretario generale della difesa per rimpiazzarlo con un civile, si è lasciato incautamente sfuggire che il capo di stato maggiore Kayani e il direttore dell’Isi generale Pasha avrebbero violato la Costituzione per aver riferito ciò che sapemizzazioni da parte Usa. Naturalmente, vano sul caso Memogate direttamente al in questa torbida situazione tutti hanno presidente della Corte Suprema, senza cercato, o stanno ancora cercando, di prima passare dal ministro della giustitrarre qualche vantaggio. Come l’ex pre- zia. Fredda e secca la risposta dei militamier Nawaz Sharif, acerrimo nemico dei ri, che hanno fatto non tanto velatamenmilitari, fondatore della Pakistan League te sapere che queste accuse «potrebbero (N) – N sta per Nawaz – alleato di Zarda- avere gravi conseguenze anche per il ri per abbattere Musharraf, ma divenuto Paese». Ciò è stato sufficiente per pronemico del presidente subito dopo il suc- vocare un ripensamento di Gilani che, cesso elettorale di quest’ultimo. O l’inef- presiedendo una riunione del Defence Cabinet Committee (qualcosa di simile al nostro ConsiCITTÀ DI REGGIO CALABRIA SETTORE RISORSE EUROPEE E NAZIONALI glio Supremo di Difesa), alla AVVISO DI APPALTO AGGIUDICATO CUP:31110000170006 – CIG:06395995C9 presenza di Kayani si è afAMMINISTRAZIONE AGGIUDICATRICE: Comune di Reggio Calabria –Settore Risorse Europee e nazionali, Via Vicenza n. 2 (palazzo frettato a gettare acqua sul ex Onmi )– 89125 Reggio Calabria. PROCEDURA: aperta ai sensi dell’art. 55,comma 5, del D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. NATURA, ENTITA’E fuoco, ripromettendosi di atCARATTERISTICHE: “Servizio di assistenza tecnica all’Amministrazione comunale per l’attuazione e monitoraggio del programma PISU tendere il giudizio della Corcittà di Reggio Calabria” - Importo a base di gara € 350.000,00 oltre IVA . DATA AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA: 12.05.2011 DATA te prima di fare altre esterAGGIUDICAZIONE DEFINITIVA: 23.09.2011 CRITERIO: offerta economicamente più vantaggiosa OFFERTE RICEVUTE: 3 OFFERTE nazioni. Il Pakistan, oggi, è AMMESSE: 3 AGGIUDICATARIO: RTI P.A. Advice Spa/ Contesti Srl VALORE DELL’OFFERTA: € 250.005,00 al netto del ribasso praanche questo. Intanto Pervez ticato del 28,57 % oltre IVA. ULTERIORI INFORMAZIONI POSSONO ESSERE RICHIESTE A: Settore Risorse Europee e nazionali Musharraf, da Londra, osd.ssa Elisabetta Grillone - Tel. 0965312728-Fax 0965.324204 IL Dirigente del Settore Avv. Francesco Barreca serva e riflette.

i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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La Corte suprema ha convocato Gilani dopo che il suo governo non ha rispettato l’ordine di scrivere una lettera alle autorità svizzere affinché riaprissero il fascicolo sul riciclaggio di denaro a opera di Zardari, che è anche presidente del Partito del Popolo pakistano. Gilani ha spiegato ai giudici che non aveva alcuna intenzione di violare gli ordini, ma che non ha scritto quella lettera in quanto il capo di Stato gode di immunità in base a quanto stabilito dalla Costituzione pakistana. A fargli eco è il suo avvocato, Barrister Aitzaz Ahsan, che ha ricordato che Zardari è protetto dalla legge e che il governo non può intentare un processo legale contro di lui. Il legale ha quindi chiesto alla Corte di aggiornare l’udienza di un mese in modo da avere il tempo di poter esaminare tutti i documenti relativi al caso. Se la Corte giudicasse Gilani colpevole, il premier potrebbe perdere il suo incarico di governo. Uno scenario che farebbe sprofondare il Pakistan in una profonda crisi politica in un momento di difficoltà economiche e di continua lotta con i miliziani islamici. Durante l’udienza, fuori dalla Corte si sono radunati diversi sostenitori del primo ministro, che Gilani ha salutato prima dell’inizio del procedimento. Il giudice ha quindi deciso di esimere il premier dal comparire nelle prossime udienze.

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cultura

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Il culto delle “child star” nel cinema americano, un fenomeno fondato sull’incerta sospensione del tempo. Tra mito e mercato

Ambigue o innocenti? Shirley Temple, Judy Garland e Natalie Wood: breve storia (emblematica) di tre dive di talento di Orio Caldiron l culto della bambina prodigio - la child star che arriva prestissimo sullo schermo per restarci fino a che l’alibi dell’età glielo consente - è uno degli aspetti più inquietanti del divismo in grado di svelare come pochi altri l’ambiguo intreccio di sogno e realtà, glamour e puericultura, mito e merce che è al fondo del fenomeno. Non è certo il caso di lasciarsi andare al facile moralismo, forse l’importante è cercare di capire. Anche perché le pose buffe ma sapienti delle bimbette di pochi anni che si atteggiano a vamp e le grazie acerbe delle adolescenti in dieta richiamano l’attenzione sulla prodigiosa fotogenia di alcuni soggetti piuttosto di altri, sull’imprinting fotografico della macchina da presa, sul meccanismo stesso della riproduzione tecnica dell’immagine infantile alla base della redditizia liturgia stellare che accompagna non poche figure di attori e attrici in erba. La soglia precoce o precocissima dell’età sembra chiamata a sdoganare gesti e atteggiamenti che altrimenti sarebbero rimossi come leziosi e bamboleggianti, ma è anche vero che il successo della bambina prodigio si muove sul filo di rasoio dell’innaturale sospensione del tempo, sull’azzeramento impossibile della crescita al di fuori della storia e della biologia. Fino a quando?

I

Nel panorama del cinema americano, che è da sempre il terreno di cultura del fenomeno, o almeno quello di maggiore risonanza, si moltiplicano gli esempi attraverso i quali ci si può affacciare sul particolarissimo stardom dei piccoli interpreti. Nessun’altra può vantare la popolarità di Shirley

Temple che nella seconda metà degli anni Trenta, dai sei ai dieci anni, è in testa alla classifica degli incassi, stracciando Greta Garbo e Clark Gable, senza contare i trecentomila dollari all’anno che guadagna. Classe 1928, qualche anno prima aveva debuttato come bathing beauty - come dimenticare le bellezze balneari adulte delle comiche di Mack Sennett? - in un piccolo costume da bagno tenendo in mano una coppa più grande di lei senza smettere di alzare il dito in modo accattivante e disinvolto. Soprannominata Riccioli d’Oro, aveva un suo repertorio di vezzi e gesti, di canzoncine, di esibizioni di tip-tap che sfodera in una ventina di film prima che il pubblico cominci ad accorgersi che la sua beniamina sta crescendo, mentre va bruscamente in frantumi il mito dell’infanzia eterna. Se verrebbe da pensare all’insopportabile trionfo del lezioso tra moine svenevoli e micidiali scivoloni nella melassa, la realtà è diversa. Nonostante gli evidenti limiti di molti titoli della sua breve avventura cinematografica, la ragazzina è una vera attrice. Il suo talento è fuori discussione, come la sua attitudine per la commedia. Basta vederla all’opera in L’idolo di Broadway (1938), il musical di Irving Cummings in cui è accanto al giovanissimo Jimmy Durante, per restare incantati dalla singolare bravura e dalla insospettabile autorità con cui dirige il traffico nella divertente sequenza del tribunale che grazie a lei diventa l’anteprima dello spettacolo dove si esibiscono tutti gli attori, i ballerini e i cantanti a rischio di sfratto. Sono ancora più interessanti le bambine prodigio con una brillante carriera da adulte come Judy Garland e di Natalie Wood, figure diversissime nel divismo novecen-

Judy Garland nel “Mago di Oz” di Victor Fleming (1939). Sotto, Natalie Wood, ex attrice bambina, adolescente in “West Side Story” (1961), di Robert Wise e Jerome Robbins, musicato da Leonard Bernstein. A destra, Shirley Temple con Walt Disney. La “chid star” è stata nella seconda metà degli anni Trenta, tra i sei e i dieci anni, in testa alle classifiche degli incassi tesco che hanno però più di un tratto in comune. Gli spettatori possono dire di entrambe di averle viste crescere sullo schermo dalle prime particine fino ai ruoli più importanti, consentendo quella vicinanza che riguarda di solito la vita di tutti i giorni e non i percorsi fantasmatici dell’immaginario. Nonostante lo sfarzo scenografico della superproduzione, Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming non sarebbe entrato trionfalmente nell’immaginario del secolo scorso se non fos-

Nella seconda metà degli anni Trenta, Riccioli d’oro sbancò i botteghini stracciando attori come Greta Garbo e Clark Gable se per gli stupori e gli slanci della diciassettenne Judy Garland che canta Over the Rainbow, toccante celebrazione dell’altrove con cui dà al film il suo cuore in un’interpretazione intensa e profonda. Singolare testimonianza del genio plurale dello Studio System, il film fa dell’attrice la regina del musical degli anni Quaranta. Figlia d’arte - nasce a Grand Rapids, Minnesota, il 10 giugno 1922, se ne va il 22 giugno 1969 a Londra per una overdose di sonniferi - fin da bambina debutta

accanto ai genitori nel vaudeville e viene presto scritturata dalla Metro-Goldwyn-Mayer. La serie con cui la major l’impone in coppia con Mickey Rooney - da Piccoli attori (1939) a Musica indiavolata (1940) e I ragazzi di Broadway (1941), tutti e tre di Busby Berkeley - sprizza allegria ed entusiasmo, ma la dura realtà della factory hollywoodiana sarà rivelata solo più tardi dalla giovanissima interprete, costretta ad alternare eccitanti per stare sveglia e sonniferi per dormire, la distruttiva spirale che segnerà il resto della sua vita.

Sul set di Incontriamoci a Saint Louis (1944), struggente rievocazione dell’atmosfera di calore e sicurezza nella smalltown d’inizio Novecento, s’innamora del regista Vincente Minnelli, il secondo dei suoi quattro mariti, con cui avrà Liza, destinata a un futuro di star. Sul finire del decennio canta e balla con Gene Kelly e Fred Astaire in due film diversissimi ma memorabili come l’eccentrico Il pirata (1947) di Minnelli e il malizioso Ti amavo senza saperlo (1948) di Charles Walters, dove trionfano la dimensione onirica e il gusto visivo tipici del musical. Ma la stagione Metro volge ormai al termine, mentre la vita privata va a rotoli e la salute è più che mai precaria. La sua appassionata fragilità prevale ancora una volta su tutto quando,


cultura

il 16 ottobre 1951 al Palace Theatre di New York, manda il pubblico in delirio con una ventina dei suoi celebri motivi e si consacra come l’icona più trasgressiva della scena americana in grado di sfidare le regole codificate, inaugurando le tournée di concerti in tutto il mondo che proseguirà fino alla fine. Se nei film dell’ultimo periodo non mancano titoli interessanti, da Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer a Gli esclusi (1963) di John Cassavetes, il suo congedo dallo schermo coincide con È nata una stella (1954), commovente parabola dell’attrice emergente accanto all’attore in declino che dimostra la sua straordinaria maturità di interprete, cantante e ballerina. Il piano-sequenza nel locale del Sunset Boulevard, dove si unisce ai musicisti per provare The Man That Got Away, strappa l’applauso. Il capolavoro di George Cukor svela con implacabile lucidità i meccanismi spietati del cinema e dei suoi retroscena. «La macchina da presa è come il bisturi del chirurgo», diceva Jean Renoir. «Apre la carne e trova il cuore». Se ci sono attrici che entrano nel fotogramma con spavalda irruenza, altre possiedono la difficile arte di dire addio. Nessuno lo fa meglio di Natalie Wood, l’attrice che ha sempre avuto un debole per i finali. Finali strepitosi, imprevedibili,

sospesi. Sin da Sentieri selvaggi (1956), il capolavoro di John Ford in cui il protagonista sta per uccidere Debbie, la nipote rapita dai comanche, di cui per anni ha condiviso usi e costumi. Il gigantesco John Wayne sovrasta imperturbabile la minuta adolescente in bilico tra due mondi, la solleva bruscamente con violenza e poi la prende in braccio, gentile e protettivo: «Andiamo a casa, Debbie». Fino allo struggente Splendore nell’erba (1961) di Elia Kazan. Quando dopo un paio d’anni lei esce dalla clinica, vuole incontrare ancora una volta Warren Betty, il suo ex fidanzato, il grande, doloroso amore della sua vita. Ora fa il contadino - lo vediamo spuntare tra il trattore e il bestiame - e si è sposato con una ragazza italiana. Hanno un bambino piccolo e sono in attesa del secondo. Stanno per an-

dare a tavola. Lei se ne va, lui l’accompagna. Si guardano, non si dicono quasi nulla, si salutano per sempre.

Mentre riecheggiano i versi di William Wordsworth studiati al liceo - «Se niente può far sì/ che si rinnovi all’erba il suo splendore/ e che riviva il fiore/ della sorte funesta non ci dorremo/ ma ancor più saldi in petto/ godremo di quel che resta» non sappiamo se il conformismo sessofobico del Middlewest della fine anni Venti ha rubato loro la giovinezza o se semplicemente sono diventati adulti. Non è possibile dimenticare neppure il finale del sottovalutato Lo strano mondo di Daisy Clover (1965) di Robert Mulligan, in cui la ragazza in blujeans sporchi e pullover stracciato che vive in una catapecchia in riva al mare con la ma-

20 gennaio 2012 • pagina 15

dre pazza, sogna di diventare una stella del cinema. Catapultata nel mondo dello spettacolo che rischia di trasformarla in un bene di consumo, torna nella baracca in riva all’Oceano. Un incidente fa saltare in aria la casa. Se ne va canticchiando lungo il mare e al pescatore che le chiede cos’è successo risponde: «Niente, io vado al cinema». Natalie Wood nasce a San Francisco il 20 luglio 1938 e muore il 29 novembre 1981, annegando al largo dell’Isola di Santa Catalina in circostanza misteriose. Solo qualche settimana fa la sorella Lana è riuscita a far riaprire il caso a suo tempo archiviato. Omicidio o incidente? La testimonianza di Dennis Davern, il capitano dello Splendour, lo yacht su cui la tragica notte di trent’anni fa l’attrice era con il marito Robert Wagner e l’amico Christopher Walken, rimette in discussione la versione ufficiale ma non convince il procuratore. Figlia di emigranti russi, il suo vero nome è Natalija Nikolaevna Zaharenko, debutta all’età di quattro anni. Ancora bambina si fa notare in una ventina di film, tra cui spiccano il natalizio Miracolo della 34a strada (1947) di George Seaton, dove è la figlia di Maureen O’Hara che contesta Babbo Natale, e il gotico Il fantasma e la signora Muir (1948) di Joseph L. Mankiewicz in cui è la figlia di Gene Tierney che crede ancora nei sogni. Ma solo con Gioventù bruciata (1955) di Nicholas Ray si afferma accanto a James Dean come una delle attrici più dotate della nuova generazione, l’immagine aggressiva dell’inquietudine giovanile al centro del cinema americano dell’epoca. Se il tragico destino del protagonista lo trasforma subito in mito, è indimenticabile la scena in cui giocano a marito e moglie: James Dean tende la mano a Natalie come in un inconsapevole passaggio di testimone. Solo pochi anni dopo partecipa a West Side Story (1961), il celebre musical di Robert Wise e Jerome Robbins e il suo nome risalta in grande nel manifesto

accanto ai ragazzi delle bande rivali che si contendono il territorio nell’Upper West Side di New York. Sono tutti ballerini per la prima volta sullo schermo che si accostano con timore reverenziale all’affermata diva di Hollywood. Senza sospettare che anche lei è in ansia per l’impegno di attrice, cantante e ballerina richiesto dal copione. Se la musica di Leonard Bernstein non si discute, la protagonista sembra perdersi nelle acrobatiche coreografie di un moderno Romeo e Giulietta vincitore di dieci Oscar. Memorabile la sequenza in cui sulla scala antincendio Maria e Tony si guardano negli occhi mano nella mano, mentre le note di Tonight raccontano il mondo trasfigurato dall’amore.

Il temperamento appassionato e malinconico ne fa l’interprete ideale delle storie strappalacrime, ma nella sua carriera si destreggia con uguale abilità tra commedia e mélo accanto a Frank Sinatra (Cenere sotto il sole), Karl Malden (La donna che inventò lo striptease), Steeve McQueen (Strano incontro), Tony Curtis (Donne, v’insegno come si seduce un uomo), Jack Lemmon (La grande corsa), Elliot Gould (Bob & Carol & Ted & Alice) . Negli anni successivi l’immagine dell’eterna ragazza dagli occhi scintillanti sembra appannarsi, mentre l’inquietudine diventa nevrosi fino a rincorrere le sue fragili eroine sul lettino dello psicoanalista. Quando la vecchia fabbrica dei sogni entra in crisi, è un esponente atipico della Nuova Hollywood come Sidney Pollack a offrirle con Questa ragazza è di tutti (1966) una delle occasioni più smaglianti della sua carriera, in cui lo slancio vibrante del desiderio viene a patti con il chiaroscuro della nostalgia e dell’incertezza. Se quella tra Alva e Owen, Natalie Wood e Robert Redford, è ancora una volta una storia d’amore impossibile in bilico tra sogno e realtà, rêverie e pragmatismo, nello sguardo penetrante di un autore che rinnova dall’interno i percorsi collaudati del cinema classico si capisce che l’età dell’innocenza è finita per sempre.


ULTIMAPAGINA Da anni ha cambiato il suo nome in Cho Son-il, che significa “la Corea è una”

Don Alejandro, il nobile spagnolo portavoce di di Maurizio Stefanini l suo nome spagnolo è Alejandro Cao de Benós de Lés y Pérez: nato a Tarragona in Catalogna nel 1974, è primogenito e dunque erede dei baroni di Lés, conti di Argelejo e marchesi di Rosalmonte. Un suo antenato conquistò in Africa per il re di Spagna l’isola Fernando Poo, altri suoi avi combatterono nelle guerra dei Re Cattolici in Francia e nel Regno di Napoli, e lui pure ha prestato per due anni servizio nell’esercito di re Juan Carlos come ufficiale, con il grado di alferez, che sarebbe poi l’italiano sottotenente. Ma il barone, conte e marchese Alejandro Cao de Benós de Lés y Pérez ha anche il nome coreano di Cho Son-il: a differenza dell’altro non l’ha avuto dai genitori ma se lo è scelto da solo, e significa “la Corea è una”. Inoltre possiede in aggiunta alla cittadinanza spagnola anche la cittadinanza nord-coreana: anch’essa non ricevuta dalla nascita, ma acquisita. Ed ha pure fatto un secondo servizio militare con le Forze Armate di Pyongyang. Anzi, è con una perfetta divisa nord-coreana che ama esibirsi ai giornalisti. Nel 2006 fu lui una star di Friends of Kim: documentario su 22 stranieri difensori del regime di Kim Jong-il che per 12 giorni visitarono la Corea del Nord per mostrare il loro appoggio, venendo ricevuti con tutti gli onori e facendosi filmare mentre acclamavano alla Corea unita. Ades-

I

so, dopo che Kim Jong-il è morto, i giornali di lingua spagnola hanno sgomitato per parlare con lui. Non solo Cao-Cho Son-il è infatti il fondatore di un’Associazione di Amici della Corea, ma dal 2002 è anche un delegato speciale del Comitato per le Relazioni Culturali con l’Estero del governo nord-coreano. In pratica, un portavoce con l’Occidente, ed una specie di sottosegretario agli Esteri di fatto.

Cao-Cho Son-il dice di essersi innamorato della Corea del Nord quando aveva 16 anni, dopo averla conosciuta attraverso un padiglione in una fiera turistica a Madrid. Infatuato della juche, l’ideologia dei Kim, entrò allora nel Partito Comunista dei Popoli di Spagna, gruppuscolo che costituisce una dissidenza filo-sovietica staccatasi dal Partito Comunista di

stesso si vanta di aver strappato con la forza a un giornalista americano i video che aveva girato. «L’80% di quello che i giornalisti stranieri raccontano della Corea del Nord è inventato, e per questo non li lasciano entrare liberamente». Pure lui ha disegnato la prima pagina web di un Paese dove Internet è vietato, da cui attacca il «mondo egoista e superficiale in cui viviamo» e «la propaganda dell’imperialismo americano». Spiega che il regime si è dotato di

PYONGYANG Dal 2002 è il delegato speciale del Comitato per le relazioni culturali internazionali del governo. In pratica, un portavoce con l’Occidente. Di fatto un vero e proprio sottosegretario agli Esteri Spagna al tempo dell’eurocomunismo di Santiago Carrillo. Nel 1993 cercò anche di creare una sezione del movimento giovanile di quel partito in una località vicino a Granada, ma fallì. Forse per curare la delusione, nel 1994 decise allora di recarsi direttamente in visita nel Paese dei suoi sogni. Il regime iniziò a coccolarlo, e gli diede non solo la cittadinanza ma anche la tessera a honorem del Partito dei Lavoratori Coreani, oltre che un grado onorario nelle Forze Armate e un tesserino onorifico di giornalista nord-coreano. E di lì ha iniziato a scalare la nomenklatura. Lo hanno riempito di decorazioni, ed è talmente inserito che alla tv locale si esibisce cantando in coreano. Il bello è che lui dice di far ciò proprio in onore alle gesta dei suoi antenati hidalgos, di cui dice che «concordano con i miei ideali di onore e giustizia». «La società più egualitaria del mondo è quella che si trova in Corea del Nord», è il suo credo.

Al prezzo di 2400 euro a persona, CaoCho Son-il organizza ogni anno visite di turisti. Provvede anche ai giornalisti stranieri, che riferiscono sul tratto estremamente signorile col quale li avverte che comunque se scriveranno qualcosa di non gradito «non torneranno mai più in Corea del Nord». Lui

un programma nucleare e di «10 missili con capacità intercontinentale» a semplice scopo di dissuasione, «se no avremmo fatto la fine dell’Iraq o dell’Afghanistan». Quando parla si mette sempre dal punto di vista del nord-coreani. «Ma se gli Stati Uniti desiderano la pace, non devono allarmarsi». Cao-Cho son-li si incarica però anche di missioni diplomatiche di alto livello.

Di recente, lo hanno mandato a Bangkok per montare la prima Camera di Commercio nord-coreana. E anche attraverso lui con l’occasione delle recenti interviste alla stampa ispanofona dopo la morte di Kim Jong-il è venuta una proposta di apertura. Ha spiegato infatti che il regime è aperto alla possibilità di una riunificazione della Corea attraverso una confederazione che lascerebbe intatte le caratteristiche dei due regimi del Nord e del Sud, ma permetterebbe di aprire le frontiere. Ha ricordato anche che tra 2000 e 2007 si era avanzato molto in direzione di questa prospettiva, ma nel 2008 l’elezione a presidente dell’”ultraconservatore” Lee Myung-bak avrebbe “distrutto gli accordi”. Per cui, secondo lui bisognerebbe aspettare i risultati delle presidenziali del prossimo 19 dicembre per avere qualche possibilità di svolta.


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