20121
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 21 GENNAIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un vero e proprio record: quasi nove ore di riunione dei ministri. E alla fine la conferenza stampa di Monti
Il governo non cede ai ricatti Liberalizzati gas, taxi, farmacie, professioni. Più chances per i giovani Un intero giorno di Consiglio e di trattative a oltranza: alla fine il decreto che cambia l’Italia. Tassisti e avvocati infuriati. L’Authority blocca i benzinai: non più di tre giorni di sciopero LA TERAPIA
Ma il movimento Forza d’urto si spacca
Unica soluzione: fare gli Stati Uniti d’Europa
Allarme Sicilia: «La campana suona per tutto il Sud» Viaggio nell’isola paralizzata da scioperi e violenze che quasi tutti pensano possano contagiare l’intero Mezzogiorno. Il premier chiama il governatore Lombardo e lo convoca a Roma per mercoledì
di Enrico Cisnetto
H
L’ex premier attacca: ci aspetteremmo di essere richiamati
Napolitano: «Norme incisive» Attenti, adesso nessuno Berlusconi: «Cura senza frutti» soffi sul fuoco sociale Casini e Bersani: «Avanti così» di Giancristiano Desiderio
ualunque parte prendiate la crisi italiana, vi appaiono i partiti. Se, per fare un esempio immediato, dite che questo governo non ne imbrocca una - e sappiamo che non è vero subito dite a voi stessi: ma perché i governi precedenti, quelli tutti politici e tutti partitici, che cosa hanno fatto? Perché i governi precedenti, quelli tutti politici e partitici non si sono mai occupati di abbassare almeno la bolletta energetica?
La politica in subbuglio: solo Udc e Pd mantengono il timone fermo. Nel Pdl invece, oltre all’affondo del Cavaliere, serpeggiano malumori e voglia di difendere le corporazioni. Il Colle riporta tutti alla realtà
Franco Insardà • pagina 4
Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 3
Q
a fatto bene Barbara Spinelli a sottolineare con evidenti tratti di matita rossa (Repubblica del 18 gennaio 2012) le contraddizioni su Europa e moneta unica in cui è caduto Monti. a pagina 6
LA TRANSIZIONE
Fase costituente: è il momento di nuovi partiti di Francesco D’Onofrio on è ancora probabilmente compreso a fondo il significato radicalmente innovativo del governo Monti rispetto alla lunga esperienza del rapporto tra Parlamento e Governo.
N
a pagina 8
Un saggio del grande analista Usa Robert Kagan
Morti 4 soldati francesi, il presidente annulla la missione
XXI secolo, il mondo sarà ancora americano
Ora Sarkozy si prepara a diventare “pacifista”
di Luisa Arezzo
di Antonio Picasso
li Usa stanno vivendo il loro canto del cigno, come molti sostengono? O gli americani si stanno preventivamente auto-suicidando per il terrore che l’America sia entrata in declino? È dalla risposta che potrebbe dipendere il futuro prossimo che verrà. a pagina 20
ltri quattro soldati francesi uccisi a Tagab, nella provincia di Kapica, a Nord di Kabul. Parigi rende noto che, dei 16 feriti totali, alcuni versano in gravi condizioni. Non si può escludere che il numero di morti salga. Li ha uccisi un soldato afgano. a pagina 18
G
EURO 1,00 (10,00
A
CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
14 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 21 gennaio 2012
la rivoluzione liberale
Una boccata di ossigeno per l’economia reale
Infrastrutture: fondi sbloccati per 5,5 miliardi di Marco Scotti è un nome dietro a uno degli interventi più importanti fin qui realizzati dal Governoe. Il nome in questione è Cipe, acronimo di Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Il suo ruolo è cruciale nell’ambito delle politiche economiche di lungo corso, perché stabilisce – tra l’altro – a quali settori debbano essere destinati i fondi messi a disposizione dal Governo (di cui è diretta emanazione). Ieri è stato deciso di allocare 5,5 miliardi di nuove risorse, concentrandosi in particolare sulla (citiamo testualmente la nota di Palazzo Chigi) “realizzazione di nuove infrastrutture e apertura di nuovi cantieri, contrasto del rischio idro-geologico, rilancio dei piani per l’edilizia abitativa, scolastica ed universitaria, rifinanziamento del Fondo Sviluppo e Coesione”. La parte più significativa dei 5,5 miliardi (circa 3,9) è stata assegnata alla realizzazione di nuove reti ferroviarie, con particolare attenzione al Mezzogiorno dove è stato dato il via libera alla realizzazione e al potenziamento delle tratte Napoli-Bari-Lecce-Taranto, Salerno-Reggio Calabria e Potenza-Foggia. Un investimento significativo che dovrebbe – anzi, dovrà – rilanciare il sistema infrastrutturale del Sud Italia e portarlo a livelli analoghi a quelli del Settentrione.
C’
Il secondo punto su cui si è fissata l’attenzione del Cipe è relativo al contrasto del rischio idro-geologico, con particolare riguardo nei confronti del Mezzogiorno. E anche in questo caso non si può che guardare con favore a quanto deciso. I fondi allocati per contrastare il dissesto idro-geologico permetteranno di rendere nuovamente fruibili i territori minacciati da calamità naturali. Una piccola parte di questi fondi (circa 15 milioni) è stata destinata al riequilibrio dei territori che ospitano centrali nucleari dismesse e impianti del ciclo combustibile.Terzo snodo fondamentale: l’edilizia, declinata sia dal punto di vista abitativo che scolastico-universitaria. Non è un mistero che numerose scuole ed atenei italiani cadano letteralmente a pezzi. Per questo, mettere mano agli edifici tempio della cultura è un dovere morale che avrà sicuramente benefici effetti anche sulla competitività italiana nel mercato – globalizzato – dei giovani cervelli. Né è stata dimenticata dal Cipe l’importanza dell’edilizia abitativa: per questo motivo si è deciso di intervenire su un totale di 1689 alloggi (tra nuove costruzioni e ristrutturazioni). Infine, estremamente significativo il rifinanziamento al Fondo Sviluppo e Coesione. Il Fondo, nato nel 2010 per ottemperare alle esigenze del neonato federalismo fiscale, norma il trasferimento di risorse tra governo centrale e i comuni. In particolare, l’attuale esecutivo si è impegnato a riallocare “i tagli per circa 10,5 miliardi stabiliti con diversi provvedimenti del precedente governo”. Ulteriori fondi saranno destinati a numerosi interventi, tra i quali opere infrastrutturali, aiuti alle imprese agricole e all’attuazione del piano carceri. Se, dopo anni di immobilismo, è lecito riservarsi il beneficio del dubbio, appare comunque evidente come gli interventi proposti vadano nella direzione sperata: investimenti per generare crescita. La fase due è ufficialmente partita.
il fatto
Varato il decreto liberalizzazioni: deregulation contrattuale per i nuovi treni
Le otto ore che cambiarono l’Italia Da un Consiglio dei ministri che batte ogni record di durata arriva una rivoluzione per l’economia, dalle professioni ai taxi di Errico Novi
ROMA. Mentre Mario Monti e i suoi ministri cercano di rifocillarsi con qualche tramezzino, un pragmatico come Giuliano Cazzola invita a non farsi andare i bocconi di traverso: «Preparatevi a una fase aspra di conflitti sociali che avranno anche ripercussioni sulla vita dei cittadini, è il prezzo per far passare un ampio programma di liberalizzazioni». Assolutamente realistica, come previsione. A maggior ragione dopo il varo da parte del Consiglio dei ministri di un ventaglio ampio e articolato di deregulation, che non arretra nella gara di scherma con i tassisti (sì alle licenze plurime, all’extraterritorialità e all’Autorithy) né concede riguardi particolari agli ordini professionali. Prevedibile dunque che si avveri la profezia del parlamentare bolognese. Da qui fino alla definitiva conversione del decreto liberalizzazioni continueranno i blocchi, gli scioperi di categorie come quella forense poco aduse al picchettaggio, e con esse le grida di dolore e magari il disordine pubblico organizzato. Ma è il prezzo da pagare per un pacchetto di aperture del mercato in cui c’è poco di selvaggio ma tante piccole protezioni scardinate. Ed è prevedibile che gli ex detentori delle rendite non staranno a guardare. A Palazzo Chigi si fa giusto una pausa tramezzino, di qualche minuto. Piccolo break che interrompe una maratona da restare stecchiti: la riunione inizia alle 10 e 37,
si concluderà 8 ore dopo. Altro che comodità dei tempi accademici. Giulio Tremonti sarà chiamato a una qualche spiegazione filosofica sulla durata lampo dei vertici da lui preceduti nel triennio 2008-2011: o è una lumaca Monti, o non esisteva il governo di cui lui faceva parte e che in lui, probabilmente, esauriva la sostanza della decisione. Il professor Mario Monti invece si immerge in un serratissimo confronto che scandaglia ogni possibile dettaglio delle molte questioni affrontate dal decreto. Quasi come se il lavoro suo e dei ministri dovesse assolvere in anticipo parte dei compiti a cui sarebbero preposte le Camere. Evidentemente la complessità dei nodi da sciogliere è tale che il presidente del Consiglio non se la sente di spedire in Parlamento una griglia troppo approssimativa. E così vengono messi a segno dei colpi niente male, alcuni dei quali promettono di offrire persino qualche interessante occasione per i giovani.
Su tutte, quelle che verranno grazie alla norma sui tirocini per l’accesso alle professioni: la loro durata massima non potrà superare i 18 mesi, dei quali 6, quindi un terzo, potrà svolgersi nelle università. Equivale a una quasi assoluta abolizione delle forme di sostanziale schiavismo legalizzato a cui gli aspiranti avvocati, architetti e commercialisti devono sottoporsi presso studi di colleghi più maturi per guadagnare l’accesso agli esami di Stato. Sarà
la rivoluzione liberale
21 gennaio 2012 • pagina 3
il retroscena
Berlusconi con il piede in due staffe Attacco del Cavaliere a Monti, ma il Colle: «Misure incisive». E Casini e Bersani: «Andiamo avanti così» di Vincenzo Faccioli Pintozzi Unione di centro lo diceva sin dall’inizio, ma l’endorsement con cui ieri Pier Luigi Bersani ha riconosciuto l’efficacia dell’opera intrapresa dal governo di Mario Monti dà coun munque di barlume speranza per questo Paese. Un barlume che diventa fiammella quando il Quirinale “benedice” il pacchetto di misure dell’esecutivo, ma che ritorna alla triste realtà quando ad aprire la bocca è l’ex premier, Silvio Berlusconi. Secondo l’uomo della “rivoluzione liberale”, che in quasi vent’anni non è mai riuscito a fare, i poco più di due mesi di insediamento dei tecnici sono “un fallimento”: «La cura Monti non ha funzionato». Per poi proseguire: «Ci aspettiamo di essere richiamati al governo». Per tornare però alle note positive, aprendo i lavori dell’assemblea nazionale del Partito democratico, il segretario Pd ha voluto tratteggiare un partito
L’
che «rinuncia alla vittoria pronosticata dai sondaggi in caso di elezioni anticipate per non mandare il Paese in macerie» ma che chiede“di più”nel campo delle liberalizzazioni. Un tema su cui si schiera anche Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc: «C’è chi dice che si poteva fare di più. Mi limito a constatare che si è fatto quello che non si è fatto fino ad oggi. Liberalizzare significa più attenzione per il consumatore, più concorrenza. È doloroso forse per alcune categorie ma è necessario andare avanti». Non è mancato neanche l’apprezzamento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui il pacchetto di riforme approvato dal governo tecnico è “impressionante e corposo”.
In ogni caso, pur con qualche ritardo, il Pd appoggia la linea moderata. Sempre secondo Bersani, infatti, «abbiamo lavorato con grande unità per un governo di emergenza. Non volevamo vincere
Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Le misure del governo sono dolorose ma necessarie, dobbiamo andare avanti su questa strada» sulle macerie del Paese, e abbiamo insistito perché il governo non venisse azzoppato da equilibri di rappresentanza politica». «Si smetta – ha aggiunto – di far circolare l’idea, che arriva in Europa, di un cosiddetto disimpegno della politica. Noi ci siamo e ci saremo, ben sapendo che non tutto è nelle nostre mani e che siamo minoranza in un Parlamento che è ancora quello di 4 anni fa”. Ma
per questo, oltre che per l’abolizione delle soglie minime per le parcelle, che gli avvocati sono sul piede di guerra con un tono raramente adoperato in passato: due giorni di sciopero a febbraio, il 23 e il 24, un’intera settimana di astensioni dal lavoro a inizio marzo, sit-in davanti Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama e occupazioni “simboliche”degli uffici giudiziari. Decisioni assunte dall’Organismo unitario dell’avvocatura, l’organo di rappresentanza politica della professione, il cui presidente Guido Alpa parla di «funzione costituzionale dell’avvocato ridotta a mera attività mercantile, con una mortificazione dello stesso diritto del cittadino alla difesa». Oggi a Milano si terrà una sorta di stati generali delle professioni, una protesta trasversale che promette di trasferirsi con collaudate proiezioni lobbistiche nelle aule parlamentari chiamate a convertire il decreto varato ieri dall’esecutivo. Non manca di essere riconvertita ad occasione di ulteriore espressione del dissenso l’udienza fissata sempre per gli avvocati dal Papa il prossimo 22 febbraio: «Ci piacerebbe che il Pontefice ci rivolgesse una parola di conforto», dice ancora Alpa.
Bersani ne ha anche per gli alleati, l’Idv di Di Pietro e Sel di Vendola, disfattisti e forse meno interessati al bene comune: «Siamo certi che nessuno potrà pensare di prendere alle spalle il Pd in un passaggio delicatissimo per il Paese, perché tutto poi torni semplicemente come prima. Questo passaggio di responsabilità verso il Paese coinvolge noi, che siamo la forza principale, ma interpella tutti». «L’Italia prima di tutto non è uno slogan, è l’atto politico più alto e più impegnativo. Abbiamo messo in campo la politica, non l’abbiamo messa all’angolo - prosegue Bersani -. Semmai abbiamo messo all’angolo gli egoismi di partito, la miopia, il piccolo cabotaggio. Chiedo a questa Assemblea di ribadire e rafforzare il nostro messaggio. La crisi è seria e molto grave. La preoccupazione molto diffusa non deve diventare paura. L’Italia ce la farà, anche con il nostro aiuto. L’Italia ha bisogno di ricostruirsi, e questo non sarà possibile senza una partecipazione attiva e democratica dei cittadini. Cercheremo di mettere un nostro segno con tutte le forze che abbiamo nel lavoro impegnativo dei prossimi mesi». Un clima di coraggio e di apprezzamento che, sulla linea dell’Unione di centro, si affossa con l’intervento di Berlusconi. Uscendo dall’ennesima udienza per il processo Mills, l’ex premier ha infatti dichiarato: « La cura finora non ha dato alcun frutto. Ci aspettiamo di essere richiamati». Un intervento cui poi ha aggiunto: «Non siamo noi a essere in caduta, è l’intera politica a essere in caduta libera». Ma questo non è certo colpa dei politici: «È che siamo dentro le gabbie volute dai padri costituenti».
La conclusione è in bellezza: «Le liberalizzazioni? Siamo stati interpellati e abbiamo modificato molto, ma non escludo che molto si possa ancora fare
consumatori e delle famiglie». In positivo, naturalmente. L’elenco è vasto. Oltre che sulle professioni, ci sono infatti novità che riguardano naturalmente il “trasporto pubblico urbano non di linea”, cioè i taxi, le farmacie – con le regioni commissariate dal governo nel caso di mancata approvazione delle piante organiche con i nuovi esercizi – e qualche rimodulazione opportuna, a cominciare dal riallungamento della distanza minima dalle coste per le trivellazioni petrolifere: confermato il vecchio limite delle 12 miglia al posto delle 5 inizialmente inserite in bozza, con compiacimento di molti parlamentari meri-
del contratto nazionale Monti sarà peggio di Sacconi», urla Giorgio Cremaschi della Fiom, «si scavalca a destra Sacconi e si sceglie di assecondare le posizioni più estreme delle imprese, si sta con Marchionne per capirci». Oliviero Diliberto, e altri con lui, parlano di «favore a Montezemolo».
Entrano nel provvedimento, oltre alle già annunciate novità per Rc auto, liberalizzazione degli orari d’apertura dei negozi e per mutui e commissioni bancomat, anche una forte deregulation per le edicole: più libertà per la superficie occupabile dai giornalai,libertà di rifiutare i gadget degli editori, possibilità di fare sconti e di «vendere qualsiasi altro prodotto». Confermata la possibilità di pagare in Bot i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione fino a tutto il 2011 e al limite massimo di 2 miliardi. Passo avanti anche nella lubrificazione della macchina della giustizia sul versante dei contenziosi legati più direttamente all’economia: nascono nei tribunali “sezioni specializzate in materia di impresa”, che avranno competenza tra l’altro su proprietà indiustriale, concorrenza sleale e class action. Un arbitro necessario ora che per il sistema produttivo la partita potrà giocarsi in campo più aperto.
Il tirocinio per accedere agli ordini sarà di 18 mesi, 6 all’università. Avvocati in rivolta, approvate già due serie di scioperi. Edicole libere e più grandi, cambia tutto per i taxi
Secondo la benemerita e accreditatissima Cgia di Mestre, il panorama degli interventi previsti dal decreto è tale da condizionare «il 15 per cento della spesa media dei
dionali, a cominciare dal finiano Fabio Granata, in allarme per l’impatto su turismo e ambiente. Tra i ripensamenti dell’ultim’ora ce n’è uno che riguarda lo scorporo della rete ferroviaria, eliminato. Resta invece ad avvalorare la previsione di Cazzola sulle reazioni della piazza la deroga ai contratti di lavoro nazionali per chi si inserirà nel mercato passeggeri su ferro. Rete ferroviaria italiana (Rfi) e Fs dovrebbero separarsi, il che fa insorgere la Cgil: «Se davvero verrà confermata la cancellazione
in Parlamento». Insomma, una cura “deludente” alla quale però lui e i suoi hanno partecipato. Ma a spiegare la vera posizione del Popolo delle libertà ci pensa Osvaldo Napoli, vice presidente dei deputati del Pdl, che sul provvedimento sulle liberalizzazioni dice: «Un processo solo abbozzato sarebbe soltanto fonte di conflittualità sociale. Se i grandi sistemi conservano intatta la loro posizione dominante diventa difficile per il Pdl sostenere l’azione del governo. E difficile per il governo spiegare la sua esistenza. Voglio credere che non sarà così». Il capitolo dei taxi, spiega ancora, «è stato affrontato a metà, mentre altre più spinose questioni neppure sono state ancora sfiorate. Il Pdl guarda con attenzione alle decisioni dell’esecutivo avendo di mira due obiettivi: gli effettivi benefici per i consumatori dall’apertura dei mercati; l’ampiezza effettiva del progetto liberalizzatore che non può essere circoscritto o limitato a pochi settori senza guardare alle fonti della libertà di mercato, vale a dire energia e trasporti». A difesa delle caste.
pagina 4 • 21 gennaio 2012
la rivoluzione liberale
Per chi suona la Sicilia Mercoledì Monti incontra Lombardo. Fine del blocco dei Tir, ma “Forza d’urto” prosegue ad oltranza anche se i presidi saranno allentati di Franco Insardà
ROMA. I “forconi” in piazza, Palermo senza sindaco in attesa del commissario. In questi giorni la Sicilia sta vivendo momenti davvero difficili, stremata da cinque giorni di blocchi a oltranza: aziende ferme, ospedali senza approvvigionamenti e ambulanze senza carburante. La morsa da oggi comincia ad allentarsi, dopo l’annuncio dell’incontro per mercoledì tra il governatore siciliano e il presidente del Consiglio. «Queste rivendicazioni saranno portate con forza e con determinazione come sono solito fare», ha detto Raffaele Lombardo, dichiarandosi solidale con i manifestanti, definendo però saggia la decisione dei piccoli padroncini dell’Aias di far terminare le proteste entro la mezzanotte di ieri. Secondo Lombardo è arrivato il momento di «spostare la protesta a Roma, coinvolgendo seriamente il governo nazionale». Resta, però, la resistenza degli altri autotrasportatori indipendenti, assieme ai produttori agricoli e ai pescatori delle marinerie, il comitato “Forza d’urto” ha annunciato che la protesta prosegue ad oltranza anche se i presidi saranno ridotti. I siciliani ora temono che l’annunciato sciopero dei benzinai possa rendere ancora più caotica la situazione. Calogero Mannino parla da siciliano, da ex ministro dell’Agricoltura, ma anche da viticoltore: « In Sicilia c’è un malessere acuto, anche maggiore ri-
spetto ad altre regioni del Sud per il problema del trasporto dei prodotti agricoli. Il ciliegino di Pachino, o i fiori e le fragole di Marsala, o l’arancia di Ribera per arrivare sui mercati del Nord hanno costi di trasporto insostenibili. Ecco perché agricoltori e autotrasportatori e a seguire i produttori di grano duro sono scesi in piazza, senza alcuna forma di organizzazione e la fiamma è andata crescendo di giorno in giorno. Si tratta, insomma, di una jacquerie spontanea che potrebbe avere ripercussioni in tutto il Paese». Per Emanuele Macaluso, profondo conoscitore della sua regione e dei movimenti politici, direttore del Riformista, quello che succede «mostra la debolezza grave dei partiti e in particolare della sinistra. Incapaci di guidare movimenti che abbiano uno sbocco e anche una metodologia del tutto comprensibile e democratica. È evidente che in tutto il Mezzogiorno esiste una situazione sociale gravissima, con un’assenza di prospettiva, ma c’è uno sbandamento politico legato alla debolezza dei partiti. Questi elementi messi insieme hanno praticamente generato questo movimento siciliano, un segnale della situaEMANUELE MACALUSO zione di allarme che c’è nel MezzoIl ribellismo giorno, un po’ simiè nella storia le a quella araba. della Sicilia, Bisogna fare attenma era racchiuso zione sia alle politinelle corsie che governative democratiche che ai comportadai grandi partiti menti dei partiti. Il come il Partito ribellismo è nella comunista, storia della Sicilia, la Democrazia ma racchiuso nelle cristiana corsie democratie i socialisti che dai grandi partiti come il Pci, la
GIAN PIERO D’ALIA Negli ultimi trent’anni la classe politica siciliana, invece di preoccuparsi di come far crescere l’economia, contenendo i costi di impresa, ha gonfiato la spesa pubblica
Dc e il Psi». Sul ruolo dei partiti nella vicenda siciliana insiste anche Mannino: «È dimostrato ampiamente da questa vicenda che mancano non soltanto i partiti, ma anche le organizzazioni di categoria come Coldiretti e Confagricoltura. Purtroppo i partiti politici, diventati leaderisti e personali, sono esonerati dalla ricerca del consenso e della rappresentanza. Nella Dc, ma più ancora nel Pci, erano rappresentati tutte le componenti sociali: dagli agricoltori agli artigiani, dai professionisti ai proprietari terrieri. In Parlamento, quindi, c’era la configurazione sociale del Paese. La via d’uscita a questa situazione è il disegno generale dell’Italia, un Paese che si sta ripiegando. Sono stato un sostenitore del governo Monti a fianco dell’Udc, autonomamente e per mia scelta, ma questo è un modello senza riferimenti sociali. Anche sulle liberalizzazioni si è diffuso un discorso teorico e
astratto, realizzato da elementi del governo privi di rapporto con la società e di linee di mediazione». Sulla stessa linea il capogruppo dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia e coordinatore regionale, impegnato domenica a Palermo nei congressi provinciale e cittadino del suo partito, secondo il quale questa protesta è «figlia di una cattiva politica, i partiti devono riacquistare un ruolo centrale. ’La protesta siciliana non va cavalcata, va governata. Chi la strumentalizza rischia di bruciarsi le mani perché non ha la coscienza a posto. E ciò vale tanto per chi ha responsabilità di governo regionale, quanto per chi le ha avute a livello nazionale nell’esecutivo Berlusconi. Se gli autotrasportatori, i pescatori, gli agricoltori ed i commercianti siciliani si trovano in questa situazione non è certamente per responsabilità dell’attuale governo, che è in carica da poco più di un mese, ma di coloro che non hanno fatto nulla, pur avendone la possibilità, negli ultimi tre anni e mezzo. Ci vuole maggiore serietà: chi pensa di giocare al gioco del cerino, strumentalizzando i manifestanti, resterà vittima delle proprie furbizie. Perché si sa le bugie hanno sempre le gambe corte. Negli
ultimi trent’anni la classe politica siciliana, invece di preoccuparsi di come far crescere l’economia, contenendo i costi di impresa, si è occupata di gonfiare la spesa pubblica. Per coprire questi costi si sono aumentate le aliquote regionali sui carburanti, utilizzati per agricoltura, pesca e trasporti. Da qui la saldatura di diverse categorie della regione e la conseguente protesta». Nino Salerno, ex numero uno di Confindustria siciliana e
NINO SALERNO L’allarme lanciato dal presidente di Confindustria regionale Ivan Lo Bello su possibili infiltrazioni mafiose nella protesta non è campato in aria
presidente regionale dei Circoli liberal, sottolinea come la protesta comincia ad avere «i connotati della rivolta popolare. I partiti e le associazioni di categoria sono stati scavalcati e non si è dato spazio all’intermediazione. I siciliani sono delle persone comprensive, chi protesta non ha tutti i torti, ma quando si arriva all’esasperazione il fenomeno può interessare anche il resto del Paese. Il disagio non è soltanto siciliano, anche se probabil-
Gli stessi soggetti non avevano saputo riformare il Paese
Partiti, nessuno soffi sul fuoco Non si può sostenere l’esecutivo ma contestarne le scelte di Giancristiano Desiderio ualunque parte prendiate la crisi italiana, vi appaiono i partiti. Se, per fare un esempio immediato, dite che questo governo non ne imbrocca una - e sappiamo che non è vero - subito dite a voi stessi: ma perché i governi precedenti, quelli tutti politici e tutti partitici, che cosa hanno fatto? Se, per fare un altro esempio immediato, prendete in esame i provvedimenti delle liberalizzazioni e ne considerate la parzialità - e anche qui sappiamo che non è vero subito dite a voi stessi: ma perché i governi precedenti, quelli tutti politici e partitici non si sono ma occupati di abbassare almeno la media della bolletta energetica? E si potrebbe continuare per molto, praticamente per ogni cosa che il governo Monti fa si può nominare la stessa cosa non fatta dai governi precedenti, tanto a destra quanto a sinistra. Allora?
Q
MANLIO SGALAMBRO mente qualcuno sta cercando di struL’esplosione mentalizzarlo. L’alpotrebbe dare larme lanciato dal energia presidente di Cone interrompere findustria Lo Bello la rigidità assoluta su possibili infiltradel moloch zioni mafiose nella rappresentato protesta non è dall’euro, campato in aria. al quale Normalmente gli europei quando ci sono forsi stanno ti disagi sociali la sacrificando criminalità organizzata trova terreno fertile. Le istituzioni dovrebbe essere più pre- na è più ampia di quanto non senti e efficienti. Confindu- si immagini, non può essere stria ha dimostrato negli ulti- sottovalutata dal governo e inmi anni di essere non soltanto fatti nei prossimi giorni si avcritica, ma collaborativa e, so- vierà una trattativa. Daltro prattutto sulla lotta alla mafia canto In Parlamento abbiamo chiesto all’inizio della protesta di avere la schiena dritta». Gianpiero D’Alia mette sul- che il governo si facesse caril’avviso per il rischio che, in co di ascoltare le parti. Ora, otconcomitanza con il provvedi- tenuto il risultato dell’apertumento delle liberalizzazioni, ra del tavolo di trattative, i «questa saldatura sul malesse- blocchi devono cessare, perre sociale possa avere dimen- ché questi cinque giorni hansioni maggiori in ogni parte no messo in ginocchio i siciliadel Paese. La protesta sicilia- ni e le attività produttive dell’isola, come giustaCALOGERO MANNINO mente ha denunciato il presidente Mancano non di Confindustria soltanto le forze regionale. Per altro politiche, il rischio di infiltrama anche zioni criminali non le organizzazioni si possono escludedi categoria. re, non si può dePurtroppo i partiti, monizzare nessudiventati leaderisti no, ma occorre avee personali, re cognizione di sono esonerati causa della situadalla ricerca zione. Da una parte del consenso ci sono imprenditori in difficoltà, dal-
Allora, signori, responsabilità. Non è dato soffiare sul fuoco, soprattutto se avete scelto liberamente e - va dato atto - con responsabilità di sostenere il governo che si chiama tecnico ma che con il necessario sostegno parlamentare è politico. La Sicilia è ferma. Il movimento dei Forconi la paralizza. L’autotrasporto non trasporta più nulla (anche se ormai nel movimento ci sono divisioni e i camionisti vogliono andare ormai per la loro strada). Se in Italia, e non solo al di là dello Stretto, si fermano le quattro, sei, otto e dieci ruote si ferma l’Italia che, essendo già ferma di suo, diventerebbe una mummia in pieno Mediterraneo. Ma questo non è che l’inizio. I taxi hanno fatto la loro parte e anche il movimento dei tassisti si è spaccato. Quindi seguirà la protesta dei farmacisti, degli avvocati. Insomma, ogni “corpo sociale”si sente toccato e ferito mortalmente dalle liberalizzazioni che - è bene ripeterlo - si chiamano così perché liberano, cioè impediscono monopoli e mercati protetti. Un tema che se si dà uno sguardo ai passati programmi elettorali sia a destra sia a sinistra era ben presente ma poi - ecco il punto - è diventato assente (eccezion fatta per le celebri “lenzuolate”di Bersani). Stando così le cose,
appare chiaro quale sia il dovere dei partiti: non soffiare sul fuoco, non lisciare per il verso del pelo i privilegi delle corporazioni e, insomma, non fare il doppio gioco. Sì, doppio gioco.
Perché di questo si tratta: dal Popolo della libertà al Partito democratico si sostiene il governo e dal Pdl al Pd non si può indicare nel governo un avversario o un nemico sociale da cui liberarsi o del quale non si condividono scelte e medicine amare. Il governo dei tecnici altro non sta facendo ciò che il governo dei partiti politici ha sempre detto di voler fare e non ha mai fatto. Interessa molto poco qui il motivo dell’impotenza riformista dei governi di destra e di sinistra: ciò che conta è che i governi dei partiti politici non hanno avuto la capacità di riformare la società italiana per consentirle di essere più aperta, più giusta e più ricca di opportunità per chi ieri era giovane e oggi comincia ad avere una certa età. Oggi ci sono i postmoderni vespri siciliani. Ieri ci sono state le vacanze romane dei tassisti arrabbiati e organizzati. Domani ci saranno altre proteste perché l’agenda del governo, a dispetto di chi pensa che si tocca Tizio e si salva Caio, riguarda tutti e attraversa per intero la società italiana. Proprio qui c’è per i partiti un ruolo ancora da svolgere. Che posto occupano in questa società italiana? Sono ancora rappresentativi di qualcosa in senso ampio o sono soltanto organizzazioni condizionabili fortemente da lobby e fette di elettorato radunato intorno alle professioni? La tentazione di cavalcare la tigre di ieri, di oggi e di domani è molto pericolosa. Non solo perché è pericoloso in sé soffiare sul fuoco sociale ma anche perché il problema non risolto è solo rinviato e, fatti due calcoli, indovinate a chi sarà rinviato? Dunque, dimostrino oggi di saper essere all’altezza del governo dell’Italia di domani. L’Italia di ieri è finita con un commissariamento. Quella di domani può iniziare sotto il segno della democrazia e della partecipazione, ma dipende da che cosa sapranno fare oggi i partiti. Perché Monti, da parte sua, ha dimostrato di saperci fare.
21 gennaio 2012 • pagina 5
l’altro dei soggetti che vorrebbero strumentalizzare la protesta: mi riferisco sia a organizzazioni mafiose che a frange di estrema destra che, evocando il ribellismo siciliano tentano di cavalcare la protesta antipoltica e antistatuale». La visione del filosofo Manlio Sgalambro è più dura: «Ho l’impressione che la Sicilia si stia punendo per le colpe passate. Ma lo sta facendo in una maniera disastrosa e non si capisce dove si vuole arrivare. Potrebbe partire dalla Sicilia una protesta come quella dei vespri siciliani e superare lo Stretto. Questi malumori li definirei metafisici che nascono dal basso e a un tratto si modificano, senza che ci sia la mediazione di partiti, associazioni e del governo centrale. Il rischio che possa produrre effetti a catena è un bel rischio, perché l’esplosione potrebbe dare energia e interrompere quella rigidità assoluta di questo moloch rappresentato dall’euro, al quale gli europei si stanno sacrificando. Spero che questo avvertimento che parte dalla Sicilia venga raccolto dal governo centrale e che si intervenga presto».
Lo storico Giuseppe Casarrubea evidenzia il carattere, in qualche modo anarchico del movimento: «Non ha dei capi, una direzione precisa, delle forme organizzate o delle piattaforme di rivendicazione corrette con le controparti. Il disagio creato è tale che viene da pensare se questo movimento voglia raggiungere scopi diversi da una vera rivendicazione, con provocazione di risposte incontrollate ad atti di violenza. La situazione è molto grave e alla crisi che perdura da tempo in Sicilia si è aggiunta quella nazionale e mondiale. La protesta dei “forconi” la vedo come una forma di jacquerie, che spesso ha contraddistinto i contadini siciliani e che ha prodotto reazioni sanguinarie di governi piuttosto adusi alle maniere forti. Se aggiungiamo il timore che ci possano essere infiltrazioni mafiose il quadro mi sembra completo. Non sarei molto tranquillo, anche perché l’ordine pubblico è messo in discussione e la situazione rischia di diventare incontrollabile, perché se non c’è la speranza in un futuro politico serio il cittadino a chi si deve affidare? Ci troviamo di fronte a uno stato anomico, privo di regole. I partiti sono abbastanza disorientati perché non sono abituati né a leggere la realtà sociale ed economica in modo scientifico e corretto, né a proporre soluzioni credibili. Basti pensare alla dissennata gestione delle acque da parte della Regione e alle conseguenze che ha avuto sull’agricoltura».
pagina 6 • 21 gennaio 2012
la rivoluzione liberale
La crisi è nata negli Usa: ma la radice delle nostre difficoltà risiede nell’abbandono di uno storico traguardo politico
Stati Uniti d’Europa
Un solido governo federale sul modello statunitense non è più solo un’utopia, ma la sola risposta convincente per i mercati. E soprattutto, servirebbe a scaricare le armi della speculazione rivolte contro l’intero eurosistema di Enrico Cisnetto a fatto bene Barbara Spinelli a sottolineare con evidenti tratti di matita rossa (la Repubblica del 18 gennaio 2012) le contraddizioni su Europa e moneta unica in cui è caduto Mario Monti – forse per un eccesso di diplomazia nei confronti della signora Merkel, che comunque non gli ha successivamente risparmiato un secco batti e ribatti con le stesso cancelliere tedesco – contenute in una sua intervista al giornale tedesco Die Welt.
H
In essa il nostro presidente del Consiglio sostiene un po’ arditamente che «non c’è nessuna crisi dell’euro» e che la situazione difficile che stiamo vivendo «non è la conseguenza di un difetto del modello europeo», per poi trarre la conclusione che «non avremo mai gli Stati Uniti d’Europa, anche perché non ne abbiamo biso-
gno» e che l’Unione europea basta e avanza. Naturalmente alla figlia di Altiero Spinelli non poteva che dare fastidio l’affermazione secondo cui dell’utopia di Ventotene «non si parla più per la semplice ragione che è stata in gran parte realizzata», e vedere nelle parole di Monti una sorta di tradimento dell’aspirazione unitaria dei padri fondatori dell’idea stessa
Finora governi, Banca centrale e Commissione non sono riusciti a fare chiarezza
di Europa. Ma in realtà il problema va ben al di là del «tradimento ideale», perché è proprio sul terreno del più brutale pragmatismo che il ragionamento di Monti inciampa. E rischia di indurre l’Italia a commettere un errore esiziale. Ma partiamo dalla valutazione iniziale: la crisi non è europea. Ciò è vero se ci si riferisce alla crisi finanziaria scoppiata nel-
l’estate del 2007 (mutui subprime), poi diventata nel 2008 crisi del sistema bancario (caso Lehman) e quindi recessione (2009).
Quel disastro è nato negli Stati Uniti, ha colpe quasi esclusivamente americane e sulle sue cause ben poco rimedio è stato posto sia dall’amministrazione Obama sia dai vari vertici G8 e G20 che si sono succeduti.
Ed è pure vero che le conseguenze di quella crisi mondiale sono all’origine della “crisi europea” che è iniziata agli albori del 2010 quando le agenzie di rating decretarono il primo di una lunga serie di downgrading del debito sovrano greco, e che tuttora stiamo vivendo. Nel senso che per fronteggiare il “nuovo 1929”, soprattutto dal lato della tenuta delle banche, i Paesi continentali si sono fortemente indebitati ed è sulla sostenibilità di quel debito che si è innescata la vicenda che Monti giudica extra-europea. Ma se è vero che quella è l’origine, altrettanto vero è che i timori dei mercati circa la non finanziabilità del debito denominato in euro nascono dal congenito difetto dell’eurosistema, quello di avere una moneta unica ma 17 economie diverse regolate da altrettanti stati sovrani. Certo, questa era
21 gennaio 2012 • pagina 7
L’analisi dell’American Enterprise Institute sul trattato “comprensivo” chiesto da Van Rompuy
Ma nella storia non è mai riuscito di unire il Continente “per forza” La Guerra dei 30 anni, Napoleone, le due guerre tedesche: tutti tentativi disastrosi di accorpamento. Forse serve una nuova Vestfalia di Michael Aslin olfgang Munchau ha scritto recentemente sul Financial Times un editoriale in cui mette a paragone l’attuale crisi dell’Eurozona con la Guerra dei Trent’anni del 1618-1648. Munchau chiarisce quasi subito che non si aspetta lo scoppio di una guerra dopo il crollo dell’Eurozona, ma tuttavia predice la possibilità di una divisione fra Nord e Sud del Vecchio Continente, una divisione che dovrebbe riflettere quella verificatasi fra cattolici e protestanti. Era l’inizio di quella guerra, una divisione che ancora marchia l’Europa. Allo stesso modo, sembra verificarsi di nuovo la divisione che ha segnato il rapporto fra Gran Bretagna e Continente in tutto il diciassettesimo secolo: oggi il protagonista è David Cameron, che questo mese si è rifiutato di dare la propria disponibilità a un nuovo Trattato europeo che potesse affrontare la crisi.
W
Vorrei tuttavia sottolineare che, secondo me, la “amara lezione” posta dal parallelo compiuto da Munchau sembra un poco troppo esagerata. Innanzitutto, da quello che sembra anche dalla situazione descritta proprio da lui, non siamo nella fase della Guerra dei Trent’anni ma, più che altro, alla rottura dei rapporti diplomatici e commerciali che portarono in un secondo tempo al conflitto vero e proprio. Fino ad ora, le istituzioni che reggono l’Unione europea continuano a funzionare – quanto meno, nel modo in cui hanno “funzionato”fino a oggi – e la gestione della crisi in corso viene decisa in concerto fra i membri. Oggi l’Unione europea sembra molto più simile agli ultimi anni del Sacro Romano Impero, il cui collasso è la causa – come giustamente fa notare Munchau – che ha poi scatenato la guerra. È un procedimento normale che le crisi provochino le guerre, non è mai avvenuto il contrario. Un collasso dell’Eurozona è potenzialmente un evento in grado di scatenare una reazione di eventi a catena lunga decenni, che potrebbe poi portare al parallelo indicato da Munchau. Ma di certo non siamo ancora a quel punto: anzi, ne siamo ancora parecchio lontani. I risultati che dovrebbero uscire dagli infiniti, sempre più disperati e sempre meno efficaci negoziati interni all’Unione europea e fra i suoi leader determinerà se e come l’intero progetto possa andare avanti o crollare. Forse la cosa più interessante è il tratto in cui Munchau parla del Trattato di Vestfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei
Trent’anni – così come a quella di otto anni fra spagnoli e olandesi – che secondo lui è il tipo di “risoluzione comprensiva” che Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, cerca oggi. Con il trattato di Vestfalia si inaugurò un nuovo ordine internazionale, un sistema in cui gli Stati si rico-
Oggi non ci sono armi ma bond. Eppure, non fanno meno male delle pallottole o delle bombe
noscono tra loro proprio e solo in quanto Stati, al di là della fede dei vari sovrani. Assume dunque importanza il concetto di sovranità dello Stato e nasce quindi una comunità internazionale più vicina a come la si intende oggi. La pace di Vestfalia fu firmata in due località separate a causa dei dissidi tra i cattolici e i protestanti. Cosicché dapprima si riunirono i cattolici a Münster ed i protestanti ad Osnabrück.
Ma questa cura, secondo Munchau, sarebbe peggiore della malattia. Il Trattato mise in atto un “equilibrio instabile” che «provocò una frammentazione dell’Europa continentale cui seguirono 300 anni di crudeli carneficine». Io sono pronto a scommettere che la maggior parte degli storici considera la nascita del concetto di sovranità statale – che di fatto emerse proprio dal Trattato – uno dei maggiori successi mai conseguiti in Europa. L’accettazione del principio che ogni sovrano determina la religione del suo proprio Stato – che risaliva al Trattato d’Asburgo del 1555 – mise in piedi le fondamenta per l’emergere della libertà religiosa come diritto. E, anche se è vero che il resto del diciassettesimo secolo e buona parte del diciottesimo furono periodi di guerra continua fra gli Stati europei, è vero anche che furono le azioni degli Stati sovrani a mettere un freno al tentativo napoleonico di creare un nuovo Sacro Romano impero sotto il suo controllo. Questo condusse, secondo Munchau, a un secolo di pace generale – più o meno fra il 1815 e il 1914 – senza alcuna significativa minaccia al sistema imperante nel continente. Le guerre tedesche del 1914 e del 1945 non sono nate da un desiderio personale di ridisegnare la mappa dell’Europa ma da un tentativo, simile a quello di Napoleone, di unirla attraverso le armi. Oggi l’Europa affronta di nuovo una grande questione: se un sistema di continua diluizione della sovranità nazionale – con lo scopo di creare un governo paneuropeo – sia veramente efficace, stabile e più giusto di uno in cui la sovranità permetta ai singoli Stati di determinare il proprio destino. I tentativi passati di ricreare una Pax Romana in Europa sono stati dei completi fallimenti o hanno provocato risultati disastrosi. La paura di divisione espressa da Munchau dovrebbe essere temperata da una paura più forte di un’unione forzata.
la condizione dell’euro fin dal suo concepimento nel 2002 dopo un decennio di incubazione. Ma fintanto che le cose andavano bene, del problema si occupava solo qualche economista rompiscatole. Poi con la crisi e l’esplosione del debito, a metterlo in risalto ci ha pensato la speculazione. Che ha cominciato dalla Grecia, poi ha messo nel mirino Irlanda e Portogallo, quindi Spagna ma soprattutto Italia, ma avendo sempre come obiettivo l’euro. Ora, se la speculazione finanziaria internazionale scommette sulla tenuta dell’eurosistema, è difficile negare l’esistenza di una crisi. La quale c’è non fosse altro per l’esistenza stessa della pressione speculativa.
E quando questa dura due anni e si fa così arrembante da costringere la Banca centrale europea a emettere warning quotidiani e i leader europei a riunirsi in continui vertici d’emergenza, dire che il problema è americano appare un tantino fuori luogo. Ma la cosa più importante è che se si parte da una diagnosi sbagliata, non si può che arrivare ad una terapia sbagliata. E dire che di un governo federale sul modello degli Usa non c’è bisogno perché vanno bene gli strumenti di governance che l’Unione europea si è data significa non aver capito quale risposta i mercati pretendono per togliere la pistola della speculazione dalla tempia dell’eurosistema. Il che rende questa operazione di trasferimento di sovranità dagli stati nazionali ad un governo europeo centrale direttamente eletto dai cittadini non un’utopia spinelliana, ma una ben più materiale necessità. Sono due anni che va avanti questa storia, perché finora i governi, la Commissione, la Bce (cui però non spetta il compito di entrare nel merito di una questione politico-istituzionale) non hanno detto con chiarezza che occorre andare nella direzione degli Stati Uniti d’Europa. Non lo hanno nemmeno detto, figuriamoci muovere qualche passo in quella direzione. Ora Monti ha teorizzato addirittura il contrario. Forse le sue parole avranno fatto piacere alla Merkel, ma certo non aiutano la formazione di una consapevolezza, prima, e di una volontà, poi, di quale sia il drammatico problema dell’Europa oggi e di come si possa risolverlo prima che sia troppo tardi. In tutti i casi, sarebbe bene che l’Italia finisca di distrarsi – presa com’è tra il risentimento collettivo verso il comandante Schettino e quello corporativo di taxisti e altre categorie – e cominci a discutere di un tema fondamentale per il nostro presente e per il nostro futuro come quello della moneta che abbiamo in tasca. (www.enricocisnetto.it)
politica
pagina 8 • 21 gennaio 2012
Il neo-equilibrio richiede che esistano soggetti capaci di sapersi collocare nello stesso tempo tempo nella società e nelle istituzioni
L’ora di nuovi partiti
on è ancora probabilmente compreso a fondo il significato radicalmente innovativo del governo Monti rispetto alla lunga esperienza del rapporto tra Parlamento e Governo che è stato caratterizzato - per gran parte della cosiddetta “Prima Repubblica” - da un ruolo esorbitante dei partiti politici, e per tutta la cosiddetta “Seconda Repubblica” - da un ruolo potenzialmente anche populista delle elezioni politiche. Si è discusso in un primo momento del significato costituzionale iniziale del Governo Monti: «Sospensione della democrazia» o ruolo nuovo delle forze politiche non più vittime della illusione elettorale? Si è discusso in seguito del rapporto tra sostegno parlamentare e riforme costituzionali: il primo formalmente necessario per la natura parlamentare del nostro sistema di governo; le seconde rimesse ad una specifica iniziativa parlamentare da parte delle medesime forze politiche che hanno consentito e consentono al governo di nascere ed operare; è necessario ora cercare di comprendere il rapporto che si sta instaurando tra le forze politiche da un lato e la fase costituente dall’altro.
N
Risulta infatti indispensabile comprendere ora che anche forze politiche non presenti in Parlamento possono concorrere significativamente alla definizione delle nuove regole costituzionali. Queste in particolare non concernono solo le forze politiche presenti in Par-
Pochi se ne rendono conto ma il governo Monti ha aperto una fase costituente con nuovi soggetti politici, né partitocratici come la prima repubblica né elettoralistici come la seconda di Francesco D’Onofrio lamento, ma finiscono con il riguardare fino in fondo il significato stesso di Italia che si ha in mente; e quindi della forma politica democratica che si intende perseguire. La fase costituente che si è di fatto aperta con il Governo Monti deve pertanto essere vissuta sia nella sua necessaria origine parlamentare, sia nella sua apertura ai contributi innovativi di forze politiche anche non presenti in
tegici della nascente Repubblica Italiana. Basta rileggere infatti con attenzione gli interventi che all’Assemblea svolsero i sostenitori del primato della persona rispetto allo Stato; i sostenitori della natura costituente della classe operaia; i sostenitori (allora marginali) del primato dell’iniziativa economica privata e quindi del significato stesso del mercato. La fase costituente che si è aperta
La fase che si è aperta con il nuovo esecutivo deve essere vissuta sia nella sua necessaria origine parlamentare, sia nella apertura ai contributi di forze politiche anche non presenti in Parlamento Parlamento. Si tratta dunque di una fase costituente che finisce con l’investire non solo le regole costituzionali in senso stretto, ma anche e più in generale i valori di fondo sui quali quelle regole sono costruite. All’Assemblea Costituente della Repubblica erano infatti presenti forze politiche di molto diversa forza rappresentativa, ma tutte comunque compartecipi della definizione degli obiettivi stra-
con la nascita del Governo Monti sollecita pertanto sia le forze politiche che comunque si rifanno alla cultura del primato della persona umana; sia le forze politiche che vedono nella concorrenza la natura costituente nuova dello Stato rispetto al mercato medesimo; sia le forze politiche che pongono il lavoro al centro della propria attenzione in assoluta e regolare continuità con la stessa af-
fermazione iniziale della nostra Costituzione repubblicana; sia le forze politiche che hanno dell’Italia una idea definibile come federale, asseritamente compatibile con la conservazione della sua unità e indivisibilità. Fase costituente dunque a spettro molto largo perché non rinchiudibile in una lettura puramente giuridica della costituzione medesima. È in questo senso che si può leggere questa stagione politica ed istituzionale italiana nel senso di una sua complessiva stagione costituente che comprende, al proprio interno, certamente le nuove regole giuridiche e costituzionali, ma che va al di là di un giuridicismo inteso in senso assolutistico. La percezione di una così ampia fase costituente pone alle forze politiche presenti in Parlamento un compito certamente duplice: da un lato sostenere il governo in carica per riaffermare la natura parlamentare del nostro sistema di governo; dall’altro dimostrare anche concretamente che si intende aprire la formulazione giuridica delle nuove regole anche al contributo di forze politi-
che non presenti in parlamento, ma comunque rappresentative di valori costituenti nella società italiana. È in questo contesto che si percepisce fino in fondo la novità che concerne anche la definizione di quel particolare soggetto politico che è il partito politico. Il nuovo equilibrio costituzionale richiede infatti che anche oggi esistano partiti politici capaci di sapersi collocare ad un tempo nella società e nelle istituzioni.
Il raccordo tra società ed istituzioni costituisce infatti la natura specifica di un partito politico che non potrebbe essere “costituente” nel senso indicato in precedenza se si limitasse ad essere esclusivamente presente nella organizzazione sociale, o se - al contrario - operasse esclusivamente all’interno delle istituzioni. Raccordo tra società ed istituzioni significa sostanzialmente riuscire ad essere ad un tempo sensibile rispetto a quel che avviene nel corpo sociale senza mai identificarsi soltanto in esso, ed operatore nelle istituzioni senza mai rinchiudersi in una dimensione esclusivamente istituzionale. La fase costituente che si è dunque aperta con il Governo Monti richiede innanzitutto proprio questa definizione di nuovi partiti politici: non più partiti per così dire “partitocratici”come in gran parte furono i partiti della cosiddetta “Prima Repubblica”; ma neanche partiti politici tendenzialmente solo elettorali, come è avvenuto in gran parte della cosiddetta “Seconda Repubblica”.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
COM’ERAVAMO
Raccontare il mondo senza uscire di casa. Un’arte in cui eccelle Bill Bryson, autore dell’appassionante “Breve storia della vita privata”
5.000 ANNI FA
di Pier Mario Fasanotti
e le casse dello Stato fossero meno sofferenti o se si scegliesse di abbattere l’evasione fiscale e magari comprare qualche caccia-bombardiere in meno, ci sarebbero soldi da investire nella cultura scolastica. Si potrebbe invitare in Italia uno straordinario divulgatore storico, Bill Bryson. È nato in America, ma si è innamorato dell’Europa. Indaga sul come vivevano coloro che ci hanno preceduti. Vero: la Storia è inevitabilmente l’elenco di battaglie, rivoluzioni, congiure, crisi economiche eccetera. Ma se si rimane ancorati a questo canone, poco o niente si comprende sul comportamento quotidiano delle antiche generazioni. Mirabilmente esatto è il giudizio che il Daily Mail ha formulato su questo autore: «Bryson è riuscito a scrivere una storia del mondo senza uscire di casa». Quante cose non sappiamo - o crediamo di saperle, sbagliando - su come erano costruite le città, le abitazioni, sul modo di cercare cibo e coltivare orzo e frumento. Leggere l’ultimo suo libro tradotto in italiano (Breve storia della vita privata, Guanda, 500 pagine, 20,00 euro) ci fa appassionare alla storia. Alla storia dell’uomo nella sua quotidianità.
S
com’eravamo 5.000 anni
pagina 10 • 21 gennaio 2012
Stanze, luoghi dell’anima vere «una stanza tutta per sé», per usare un’espressione di Virginia Woolf, è l’ambizione, e l’intima necessità, degli scrittori. Molti scrivevano di notte. Marcel Proust, per esempio. L’esile e asmatico francese prediligeva il letto: era lì che poteva incontrare la sua musa notturna. La governante Céleste lo rimproverava amabilmente: «Non siete mai coricato… voi siete venuto a posarvi lì. In questo momento il vostro pigiama, tutto bianco, con quei vostri movimenti del collo, vi dà l’aspetto di una colomba». Céleste lo aiutava a incollare le paperolles con le aggiunte al manoscritto, testimone tenera dei suoi tormenti e delle sue gioie. Una mattina lo vede più sorridente del solito e gli domanda la ragione. Lui risponde: «Ho scritto la parola “fine”». Poco dopo morirà. La stanza è il luogo segreto dell’anima. Anche per Franz Kafka, un altro animale notturno. In una lettera a Felice Bauer (gennaio 1913) confessa: «Scrivere significa aprirsi oltre misura… di conseguenza quando si scrive non si è mai abbastanza soli… non c’è mai abbastanza silenzio intorno e la notte non è ancora abbastanza notte». Voleva essere «l’abitante della cantina». Le stanze non sono mai solo rettangoli o quadrati arredati, come si evince dal libro di Michelle Perrot (Storia delle camere, Sellerio, 399 pagine, 18,00 euro). L’autrice, docente universitaria ed esponente di spicco della nuova storia sociale francese, parte da una verità incontestabile, e abilmente indagata: «Molte strade portano alla camera: il riposo, il sonno, la nascita, il desiderio,
A
Nel 1850 si abbattè sulla Gran Bretagna una tempesta devastante. Nelle isole Orcadi, in Scozia, il vento strappò via la copertura d’erba di una collinetta ampia e irregolare, del tipo localmente noto come howie. Quando gli isolani, passata la tempesta, tornarono lì, rimasero sconvolti perché trovarono i resti di un piccolo villaggio di pietra, privo di tetti ma complessivamente intatto. Risale a cinquemila anni fa. È quindi più antico di Stonehenge e delle grandi piramidi. Il borgo è noto come Skara Brae. In nessun altro luogo del mondo si può apprendere come si svolgesse la vita domestica all’età della Pietra. C’è da rimanere sbalorditi dinanzi al grado di raffinatezza di queste case del periodo Neolitico: porte con dispositivi di chiusura, sistema di drenaggio e perfino un rudimentale impianto idraulico con scanalature nei muri per fare scorrere le acque di scolo. Le pareti erano altre circa tre metri, i pavimenti erano in pietra. Ciascuna abitazione aveva spazi quadrati e nicchie scavate nella roccia: probabilmente armadi o letti, oppure serbatoi per l’acqua, col risultato che gli strati isolanti mantenevano l’ambiente asciutto e confortevole. Le casette sono tutte della medesima dimensione, collegate l’una all’altra da passaggi coperti che arrivavano fino a uno spazio molto ampio dove, con tutta probabilità, c’era la zona mercato. A Skara Brae il tenore di vita era alto. Gli antichi abitanti avevano gioielli e vasellame, coltivavano frumento e orzo, pescavano grandi quantità di pesci e crostacei (tra cui un merluzzo da trentacinque chili). Mancava però la anno V - numero 2 - pagina II
legna, quindi per riscaldarsi si bruciavano le alghe. L’Europa preistorica, annota Bryson, era una zona semi-desertica. Quindicimila anni fa gli abitanti delle isole britanniche superavano a fatica le duemila unità. A Skara Brae e dintorni si calcola che nell’epoca demograficamente d’oro gli abitanti fossero addirittura ventimila. Seicento anni di agio e serenità per questa cittadella pietrosa. Poi, verso il 2500 a.C. tutti scomparvero. A quanto pare all’improvviso. Mistero sul perché. Probabile che la causa sia stata una malattia infettiva, rischio al quale tutti andavano incontro nel momento in cui decidevano di vivere insieme. Quale fu il morbo responsabile non sappiamo, ma è verosimile pensare a un contagio «di casa in casa».
Quel che si sa con certezza è che i mutamenti climatici furono tremendamente bruschi. Circa 12 mila anni fa la Terra cominciò a riscaldarsi con rapidità, per poi ripiombare in un millennio di gelo, ultimo sussulto dell’era glaciale. Dopo secoli e secoli di gelo, la temperatura si assestò a livelli accettabili. Ecco la Rivoluzione Neolitica che interessò l’intero globo. Strano ma vero: l’agricoltura, scrive l’autore, «venne inventata in modo indipendente sette volte: in Cina, nel Medio Oriente, in Nuova Guinea, nelle Ande, nel bacino amazzonico, in Messico e nell’Africa occidentale. Alla stessa stregua, le città emersero in sei regioni diverse: Cina, Egitto, India, Mesopotamia, America cen-
fa
l’amore, la meditazione, la lettura, la scrittura, la ricerca di sé, Dio, la reclusione voluta o subita, la malattia, la morte… dal parto all’agonia, la camera è il teatro dell’esistenza o almeno ne è il retropalco, il luogo dove il corpo nudo, deposta la maschera, si abbandona alle emozioni, al dolore, alla voluttà… la camera è una scatola, reale e immaginaria».Virginia Woolf scriveva su fogli appoggiati sulle gambe, poi li lasciava cadere a terra. In un testo di Balzac: «Lo straniero si chiuse in una camera, accese la lampada ispiratrice e si affidò al temibile demone del lavoro, chiedendo parole al silenzio e idee alla notte». Ecco nuovamente l’oscurità, questa conchiglia impalpabile. George Sand, dopo animatissime serate, sale nella sua chambre bleu, la camera azzurra dove ha allestito un vano chiuso da sportelli: lì scrive migliaia di lettere e alcuni romanzi. Arthur Rimbaud affitta una mansarda con vista sul giardino di una scuola. Sotto c’è una folta vegetazione. «Adesso lavoro di notte. Da mezzanotte alle cinque del mattino… alle tre la candela impallidisce, negli alberi gli uccelli gridano tutti assieme: è finita. Basta col lavoro. Devo guardare gli alberi e il cielo, colti in quell’ora indicibile, la prima del mattino». A letto scrivono in molti. Colette, per esempio. Ma anche Marie Cardinal: «Posso lavorare solo stando sdraiata… in un posto qualsiasi: una camera da letto o un sacco a pelo». Simone de Beauvoir prima di entrare in una stanza d’albergo s’assicurava che ci fosse un tavolo per scrivere. Diffidava degli ambienti troppo confortevoli, le piaceva «il fischio confortante dei treni». Quando la celebre coppia era a Parigi, lavorava negli angoli appartati dei caffè. Col passare del tempo e con la fama crescente non fu più possibile: troppi li osservavano. Simone usa allora la camera con cucina: «Non condividevo la condizione delle casalinghe, ma avevo un barlume delle loro gioie». Un giorno affitta una camera «rustica» simile a quella sognata da bambina. La vita di bohéme l’affatica. Sartre si trasferisce nella casa materna. Simone si sente a proprio agio tra le quattro mura: «Quasi da tre settimane non sono uscita di camera e non ho visto nessuno oltre a Sartre. In un’altra stanza d’affitto mette le tende rosse alle finestre». (p.m.f.)
trale e regione andina». Quando il conquistatore spagnolo Cortés sbarcò in Messico, non trovò catapecchie o tende di juta, ma strade, canali, città, palazzi, scuole, tribunali, mercati, sistemi di irrigazione, re, preti, templi, contadini, artigiani, eserciti, astronomi, mercanti, sport, teatro, arte, musica e libri. Una civiltà nel più alto senso del termine. Più o meno nello stesso tempo in cui gli archeologi ri-scoprivano Skara Brae, l’inglese Dorothy Garrod, trovò a Shuqba, in Palestina, un’antica cultura chiamata natufiana (dal nome del wadi, il letto fluviale asciutto, che era nei paraggi). Lì fu fondata quella che viene descritta come la più antica città del mondo: Gerico. Quel popolo era molto sedentario, ma non coltivava la terra. Un’altra città «che non avrebbe dovuto esistere» è Catalhoyuk (che significa «montagnola forcuta»), nella regione turca dell’Anatolia. Secondo certi archeologi poteva contendere a Gerico il primato temporale della fondazione. Risalente a novemila anni fa, fu abitata in modo permanente per oltre mille anni con una popolazione record di ottomila unità. In realtà Catalhoyuk non era una città vera e propria, ma un grande villaggio. Un borgo molto strano, in ogni caso, dato che non c’erano né strade né vicoli. Le case erano ammucchiate tutte insieme, quasi un’unica massa solida: «Chi si trovava al centro poteva essere raggiunto soltanto arrampicandosi sui tetti delle altre case, tutte di altezze diverse, ed entrando attraverso una serie
di botole: un sistema estremamente scomodo. Non c’erano piazze o mercati, palazzi municipali o amministrativi (elementi, questi, che distinguono la città dal villaggio, ndr) , nessun segno di una minima organizzazione sociale». Era come se, pur avendo attorno a sé un vasto terreno paludoso e alluvionale, quegli antichi turchi temessero che le maree potessero minacciarli da ogni lato. Come mai nessuno allargò il centro abitativo, o ne creeò altri, nel terreno circostante? Eppure quelli di Catalhoyuk non erano affatto stupidi, e nemmeno primitivi. Coltivavano i campi ma a grande distanza dalle case. Erano abili tessitori, cestai, falegnami, mobilieri, costruttori di archi, indossavano tessuti eleganti. Estrema attenzione all’estetica, senza però pensare a porte e finestre.
Fonte di stupore per noi del Ventunesimo secolo è la storia della stanza da bagno. Un pregiudizio assai diffuso è che gli antichi fossero sporchi. Quanto mai sbagliato. Rischiamo di confondere la civiltà nata millenni fa con il Medioevo europeo: all’epoca di Shakespeare Londra era fetida e sporca. Parigi gareggiava in lordura. Prendiamo, per esempio, una casa costruita 4500 anni fa nella valle dell’Indo, in un luogo chiamato MohenjoDaro: aveva un ingegnoso sistema di scivoli con cui allontanare i rifiuti dall’aera abitata e farli arrivare in un letamaio. L’antica Babilonia era dotata di canali di scolo e di un sistema fognario. La civiltà minoica si avvaleva di acqua corrente, vasche da bagno e di altre comodità. Questo accadeva ben più di 3500 anni fa. Gli antichi greci avevano il culto del
bagno. Piaceva loro spogliarsi nel «ginnasio» (termine che allude alla nudità degli atleti) e fare ginnastica nello spazio comunitario. I greci erano rapidi: si bagnavano poi si asciugavano in fretta. I Romani invece adoravano il languore delle vasche e l’acqua in generale (s’è scoperto che una casa di Pompei aveva trenta rubinetti). Nel territorio conquistato dai Romani i bagni non erano solo un luogo in cui lavarsi, bensì una sorta di rifugio quotidiano, un passatempo, uno stile di vita. Là dove scorreva l’acqua (molto pulita) c’erano biblioteche, negozi, palestre, barbieri, estetisti, campi da tennis, tavole calde e bordelli. Insomma erano una specie di centri commerciali imperniati sull’attività benefica dell’acqua, aperti a tutte le classi sociali. Fu invece il Cristianesimo a manifestare un costante e curioso disagio nei riguardi della pulizia. Identificazione santitàsporcizia? San Tommaso Becket morì nel 1170: quando lo seppellirono alcuni notarono che i suoi indumenti intimi «pullulavano di pidocchi». Nel Medioevo, con l’arrivo della peste, valeva un principio del tutto errato, ossia che lavandosi i pori si aprissero e così i vapori mortali invadessero l’organismo. Di qui l’abitudine di tappare i pori con la terra. Scrive Bryson: «Per i seicento anni successivi la gente evitò in tutti i modi di lavarsi o soltanto bagnarsi, con sgradevoli conseguenze… le infezioni diventavano un fatto quotidiano, i foruncoli, gli sfoghi e le pustole erano la norma». Oltre alla peste bubbonica, tra il 1485 e il 1528 migliaia furono le vittime di una malattia di cui oggi si sa pochissimo salvo che sparì misteriosamente: il «sudore inglese».
MobyDICK
arti
i guardi quel liricissimo e crepuscolare tondo, così poco michelangiolesco (e magari più vicino alla nebbiosa fotografia pittorialista d’epoca) che si chiama S’avanza. Di Angelo Morbelli, il delicato e impegnato cantore alessandrino della solitudine da cronicario, popolata di larve di vecchi decrepiti, lasciati soli nelle dolenti giornate di festa, la «canuta testa stanca», abbandonata sui banconi dell’ospizio, come dormienti bambini all’asilo del trapasso. Questa volta, anche se la melanconia è la stessa, in fondo, ci troviamo però in un’atmosfera più aristocratica, alta, di villeggiatura cechoviana (o meglio, giacosiana: Come le foglie, che cadono, come simboli pesanti). Di fatti ogni cosa, nell’aria lattiginosa di questo rosato crepuscolo (che potrebbe anche essere un’aurora sinistra, imporporata di tremori meteoropatici) pare scendere a valle, lentamente degradare, smottare emotivamente. Ma a dominare su tutto è l’ambiguità costitutiva, e non soltanto visiva (quel puntinato lentigginoso di luce-colore pulviscolare, che tende a pastellare pure l’aria della sera).
21 gennaio 2012 • pagina 11
Particolare del tondo di Angelo Morbelli “S’avanza”. In basso due opere esposte a Palazzo Zabarella, a Padova
S
Che cosa infatti «s’avanza»? La pubere nube, non ancora formata, dalle timide guance di fiore? Oppure la sera, che tutto assorbirà in un ultimo, rapido raggio di luce? La tisi dolciastra della stanca protagonista, appoggiata al molle cuscino, la mano reclinata, che ha appena lasciato infrangersi un romanzo sfogliato dalla brezza, entro un piccolo cimiterino di petali, a cascata, dalla vestaglia lampeggiante di ricami? Oppure ancora la vita e la morte, che agguanta questa veduta di Langa, in una possibile, definitiva dissolvenza d’immagine? L’arte non deve rispondere, spiegare, illustrare. Deve suggerire, suggestionare, sublimare. Come la musica (priva di significati, ma proustianamente e romanticamente evocatrice di odori e memorie, o meglio di odorimemoria) che è, wagnerianamente, l’arte regina, leader, eroica di questo vertiginoso e straordinario periodo creativo, che mescola insieme crepuscolarismo e scapigliatura, divisionismo e stile floreale, e si compendia in fondo nella definizione, ampia e accogliente, di Simbolismo. Sì, Simbolismo in Italia, come sapientemente compendia la suggestiva mostra padovana a Palazzo Zabarella. Anche se il titolo pare quasi un ossimoro, tanto poco lo spirito nordico e visionario del Simbolismo (che pensiamo più vicino a Rodenbach e Huysmans, Moréas e Baudelaire, Khnoppf e Klinger) sembra adattarsi al carattere più natura-
Quelle funi sopra l’abisso di Marco Vallora lista e concreto-narrativo e meno decorativo-speculativo dell’arte italiana. Ma basterebbe leggere gli intelligenti saggi dei due curatori, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, per capire quanto fosse aperto e fecondo questo periodo di sperimentalismo stilistico e di accelerazione culturale, nutrito di fantasmi, alchimie sinestetiche, commistioni formali, di sirene e meduse, Grandi Iniziati alla Schuré e Misteri Rosacrociani (un’evo che taglia radicalmente le usurate radici dello scientismo-verista d’ispirazione positivista e che si apre alle ombre dell’inconscio, del demonico, del deforme). Nell’articolato catalogo Marsilio, Mazzocca si occupa del rapporto del «simbolista mitografo» D’Annunzio, che volle fare della propria vita di dandy opera d’arte, nei confronti delle delibate edizione pictae, che dimostrano
Paesaggi incantati e spettrali, allegorie subacquee, ombre lagunari, mani guantate e reclinate, molli cuscini, pagine sfogliate nella brezza... Il simbolismo italiano, col suo immaginario “artigianale”, in mostra a Padova
quanto l’arte figurativa debba alla Poesia e viceversa. In particolare con la sua folle impresa «rinascimentale»-huysmanniana dell’istoriatissima Isaotta Guttadauro. Carlo Sisi si occupa invece del parallelo rapporto di Pascoli con le illustrazioni artistiche delle sue humiles myricae (ovviamente quello misteriosofico e animista del Gelsomino notturno e del «fanciullino», attratto dai misteri insondabili delle notti cosmiche e dei sentimenti umbratili). E lo fa con gli stessi artisti prescelti dall’Orbo Veggente, ma chiedendo ben altra penetrazione, ovviamente post-macchiaiola. E questi, soprattutto il geniale Adolfo De Carolis (non più dannunziamente Magister De Karolis) nel loro duttile, prensile immaginario «artigianale», riescono davvero a penetrare quel suo diverso simbolismo e a dimostrare le molte anime di questo movimento davvero ad ampio spettro. Che mescola insieme paesaggi incantati o spettrali, allegorie subacquee e abissali, Orfei travestiti da poeti decadenti e poeti decadenti, che paiono stregoni.
Basterebbe quell’autoritratto sulfureo e di pece alla Edgar Allan Poe (che illustra magistralmente) di Alberto Martini, l’elegantissimo tuxedo da società, i riflettenti scarpini di coppale, i fatali baffetti, assediati da coboldi veneziani che strimpellano diabolici violini paganiniani, da ombre lagunari sinistre, da ectoplasmi, che s’irradiano dalle mani guantate come delle aure astrali. Perché entrare nelle «stanze» segrete del Simbolismo significa penetrare negli inferi dell’introspezione ebbra di sé e tentare universi misteriosi e allarmanti. Andare oltre, comunque, valicare il decorato diaframma delle specchiere borghesi e magari incontrarci dentro persino, nel bianco-e-nero petroso, minerale, alchemico, che è anche quello radiografico dei raggi X e delle fantasie spiritiche, brandelli d’un mondo antico e sommerso, che mescola enigmi egiziani con lire apollinee, melusine romantiche e bibliche vergini folli. Del resto, se si legge meglio e senza reciderlo, quell’attacco formidabile dello Zarathustra di Nietzsche, «L’uomo è una fune sospesa tra l’animale e il superuomo, una fune sopra l’abisso», si capisce meglio questo andirivieni allucinato, al di là del tempo scientifico. «Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte, non una meta. Un pericoloso passare dall’altra parte, un pericoloso esser per via, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso inorridire e arrestarsi». Il Simbolismo in Italia Padova, Palazzo Zabarella fino al 12 febbraio
pagina 12 • 21 gennaio 2012
er tutta la vita André Breton coltivò, con particolare trasporto, l’interesse nei confronti del mondo dell’arte moderna, arrivando a svolgere le funzioni di consulente per importanti gallerie e divenendo collezionista egli stesso. La clamorosa vendita all’asta della sua collezione, avvenuta nel 2003, testimonia al riguardo la lungimiranza con la quale il capostipite del surrealismo si rapportò sia alle arti figurative sia ad altre manifestazioni artistiche come il primitivismo (notevole al riguardo la sua raccolta di bambole Kachina, prodotte dagli indiani Hopi) nonché a espressioni plastiche che risentono della sua concezione di una beauté convulsive. Tale interesse critico è documentato dal quarto volume delle Oeuvres completes che raccoglie, nella celebre collana della Pléiade, tutti i suoi scritti sull’arte. D’altronde, uno dei suoi testi più pregnanti al riguardo, Il surrealismo e la pittura, comincia provocatoriamente con il seguente incipit: «L’occhio esiste allo stato selvaggio». Il saggio fu originariamente pubblicato nel 1928 da Gallimard dopo che vari estratti erano stati anticipati nei mitici fascicoli della Révolution surréaliste.
P
In questa rivista uscirono i testi più dirompenti del surrealismo, tra cui i due manifesti programmatici dello stesso
il paginone
MobyDICK
Picasso un antesignano, Braque incerto, Dalì avido, de Chirico amorale, Max Ernst premonitore, Mirò sommario… Così André Breton, capostipite del Surrealismo, giudica, in rapporto al suo credo, alcuni maestri della pittura moderna… In un celebre saggio (ora riproposto), scandito da rêveries, citazioni poetiche, assunti teorici tura automatica che consisteva nel registrare, senza alcun tipo di sorveglianza psicologica, le immagini che di volta in volta affioravano dall’inconscio. Ben presto si distinsero in tale procedimento due figure d’eccezione come quelle di Robert Desnos e René Crevel che scrivevano i loro testi sottoponendosi ai cosiddetti «sonni ipnotici». Naturalmente un tale linguaggio influenzò anche gli artisti: si considerino, in tal senso, le composizioni automatiche di André Masson o i disegni collettivi soprannomi-
Al “Surrealismo e la pittura” Breton lavorò assiduamente: dopo la prima edizione del ’28, l’opera fu rimaneggiata due volte, nel 1945 e nel 1965 Breton che, sulla falsariga delle avanguardie storiche precedenti, tra cui il dadaismo, si proponeva di scardinare i canoni stereotipati della rappresentazione artistica e letteraria attraverso una nuova concezione estetica, in parte legata alla scoperta dell’inconscio freudiano. È noto che una delle tecniche più importanti fu quella della scrit-
anno V - numero 2 - pagina IV
nati cadavres exquis. Numerosi furono i riferimenti da cui prese l’abbrivo Breton, tra i quali bisogna segnalare perlomeno la lezione di precursori come Sade e Rimbaud, Jarry e Lautréamont. La teoria degli accostamenti analogici casuali si rifà espressamente all’autore misterioso dei Canti di Maldoror, il quale asseriva che «la poesia deve
essere fatta da tutti, non da uno». In tale contesto vanno lette alcune sperimentazioni, non di rado sconfinanti in una dimensione provocatoriamente ludica del linguaggio, come quelle della stesura collettiva di un testo: si pensi, ad esempio, alla raccolta poetica Les champs magnétiques, uscita nelle edizioni Au sans pareil nel 1920 e composta da Breton e Philippe Soupault, universalmente considerata la prima opera surrealista. Alcuni titoli basilari nella storia del movimento sono stati composti a quattro mani, come L’Immaculée conception di Breton e Eluard o, addirittura, a sei, come Ralentir travaux di Breton, Char ed Eluard (entrambi i volumi furono pubblicati nel 1930 dalle Editions surréalistes).
Breton lavorò assiduamente intorno al saggio Il surrealismo e la pittura, tanto da proporne due ristampe rimaneggiate, rispettivamente nel 1945 per Brentano’s di New York e nel 1965 sempre per Gallimard. Si tratta di un lavoro che mette in luce il rapporto esistente tra alcuni artisti di prima grandezza e il credo surrealista ma che, al tempo stesso, non disdegna frequenti divagazioni di altra natura: rêveries, citazioni poetiche, assunti di stampo teorico. Ab-
L’occhio selv e le sue vis di Pasquale Di Palmo scondita ora lo ripropone in un piccolo ma elegante volumetto (88 pagine, 12,00 euro) che recupera la traduzione allestita da Ettore Capriolo per la vecchia edizione di Marchi del 1966. In questo saggio viene analizzata l’opera di alcuni artisti che hanno espressamente aderito al surrealismo (Giorgio de Chirico, Max Ernst,Yves Tanguy, Man Ray, André Masson, Joan Mirò, Hans Arp) o che hanno operato ai margini dello stesso, come Picasso. Non mancano tuttavia veloci ricognizioni su pittori un tempo amati, come Braque e Derain. Picasso è considerato un antesignano del movimento surrealista in virtù della sua opera travolgente, che si pone come una sorta di spartiacque nell’ambito della pittura moderna. Ci sarà, ine-
21 gennaio 2012 • pagina 13
vaggio sioni vitabilmente, un prima e un dopo Picasso, come asserisce lo stesso Breton: «Bisogna veramente avere preso coscienza del tradimento delle cose sensibili per avere il coraggio di rompere completamente con esse, e a maggior ragione con ciò che di facile il loro aspetto abituale ci propone; non si può dunque non riconoscere a Picasso un’immensa responsabilità».
D’altro canto l’ammirazione nutrita nei confronti del pittore spagnolo, nonostante quest’ultimo non si possa considerare un surrealista tout court, si manifesta sin da subito. Ne è testimonianza il fatto che diversi disegni e tele cubiste di Picasso illustrino le pagine della Révolution surréaliste sin dal primo nu-
mero, uscito nel 1924. Nel fotomontaggio presente in quel fascicolo inaugurale, intorno all’immagine dell’anarchica Germain Berton, condannata per avere ucciso il rappresentante del partito monarchico Marius Plateau, compaiono infatti le effigi dei surrealisti e di qualche loro precursore, tra cui Freud e, appunto, Picasso. Se l’opera di Picasso rappresenta agli occhi di Breton l’esempio di un’inesauribile ricerca tesa a smascherare il mimetismo insito nell’estetica delle apparenze, la pittura di Braque, altrettanto elogiata nelle sue fasi iniziali, non sembra perseguire lo stesso rigore: «Ma un giorno Braque ha avuto compassione della realtà; perché ogni oggetto sia al suo posto, non mi stancherò mai di ripeterlo, bisognerebbe che ognuno di noi ci mettesse qualcosa di suo. Ci sono interminabili secondi di posa che durano quanto una vita. Si può, senza che questo determini delle conseguenze, rinnovare all’infinito il gesto di offrire un mazzo di fiori. Ma chiedere a questo mazzo di nascondere la mano che l’offre tremando è troppo. La mano di Braque ha tremato». La figura alla quale Breton non risparmia critiche severe è quella di Giorgio de Chirico, pittore che aveva entusiasmato con i suoi quadri metafisici i surrealisti all’inizio della loro avventura intellettuale e che si è sempre più allontanato dai loro ideali, in considerazione della prospettiva dei facili guadagni. In questa vicenda sembra di intravvedere la stessa intransigenza che caratterizzò i successivi rapporti con Salvador Dalì, teorico del metodo paranoico-critico modellato sul celebre assioma di Lautréamont secondo il quale il bello nasce «dall’incontro fortuito di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo anatomico». Orbene, alla prima fase sopraggiunge la consapevolezza che l’opera di Dalì è diventata un’espressione di maniera, tanto che Breton arriverà ad anagrammare emblematicamente il nome del pittore spagnolo in «Avida Dollars». Osserva Angela Sanna nella sua accurata postfazione: «Il pensiero e le opere afferenti alla stagione metafisica di de Chirico continueranno a essere difesi da Breton e amici anche dopo l’insanabile rottura che sopravvenne tra questi e il pittore all’indomani del loro pur promettente avvicinamento. La svolta classicista dell’artista, autoproclamatosi pictor classicus nel 1919, e le sue successive riproduzioni di pitture metafisiche, giudicate dai surrealisti frutto di un’attività opportunistica e mercantile, urtarono infatti le aspettative ideologiche e artistiche del
gruppo, provocando scontri e polemiche». All’effetto di magica sospensione provocato dai paesaggi metafisici di de Chirico composti tra il 1910 e il 1917 è subentrata una fase di depauperamento dell’espressione artistica che, giocoforza, accentuerà quel gioco sfrontato «che consiste nel deridere il proprio genio perduto». Breton mette in relazione il periodo d’oro della pittura metafisica con la fase classicistica della pittura dechirichiana, sostenendo al contempo che il pittore italiano, per motivi meramente opportunistici, si attenesse a una condotta tesa a contrassegnare «la totale amoralità del personaggio». Osserva ancora Breton: «Impotente a ricreare in sé come in noi l’emozione passata, ha messo in circolazione un gran numero di falsi, tra i quali copie servili, del resto quasi tutte antidatate, e varianti ancora peggiori. Questa truffa contro il miracolo è già durata fin troppo». Tra i pittori surrealisti Breton si sofferma a elogiare l’opera di Max Ernst, considerata alla stregua di una premonizione, in virtù della sapiente maniera di accostare elementi analogici casuali: «Nascono sotto il suo pennello donne eliotropiche, animali superiori uniti al suolo mediante radici, immense foreste verso le quali ci spinge un desiderio selvaggio, giovani che non pensano ad altro che a calpestare la madre».
André Masson, considerato uno dei tipici rappresentanti dell’arte automatica professata dallo stesso Breton, non poteva che essere esaltato: «Ha fin troppo ragione Masson a diffidare dell’arte, dove più che altrove le trappole si spostano nell’erba e i passi di un essere che tenga a rimanere libero, o a non alienare la propria libertà se non a ragion veduta, sono contati».Del pari l’opera di Man Ray, autore di alcuni celebri rayogrammes, che si può a tutti gli effetti considerare il fotografo «ufficiale» del movimento surrealista, è considerata come il tentativo riuscito «da un lato di determinare i limiti esatti ai quali la fotografia può arrivare, e dall’altro di adibirla a fini diversi da quelli per cui sembrava essere stata inventata, e in particolare di proseguire per proprio conto e con propri mezzi, l’esplorazione di quella regione che la pittura credeva di potersi riservare». Sorprendono invece le riserve avanzate intorno alla pittura di Mirò, al quale viene riconosciuto il tentativo sistematico di rapportarsi all’automatismo, anche se adulterato dal fatto che l’artista «abbia verificato molto sommariamente il valore e la ragione profonda» di tale tecnica.
altre letture di Riccardo Paradisi
Ecco perché senza padre non c’è crescita a società degli eterni adolescenti»: così lo scrittore americano Robert Bly ha definito la realtà occidentale dove dall’orizzonte culturale sembrano banditi concetti di autorità e di limite e dove le regole sono più subite che accettate, dove insomma, si fa fatica a diventare adulti. Per capire perché l’Occidente sembra una triste Disneyland abitata da una popolazione senile ma al tempo stesso immatura è utile leggere Il segno del padre di Paolo Ferliga, un libro che ripubblica in edizione aggiornata Moretti e Vitali (238 pagine, 16,00 euro) con un’appendice sui siti internet dedicati al padre. Un saggio che spiega come l’assenza della figura del padre dalla famiglia e della figura maschile nella formazione abbia prodotto una carenza d’identità che è poi degenerata in comportamenti alienati, caratterizzati da dipendenze e violenze. Sembra che quella del padre sia una figura dispensabile - dice Ferliga - di cui sia possibile fare a meno. Ma privi della figura paterna i figli si trovano disorientati, e fanno fatica a entrare nel tempo della storia e della vita, non crescono. Restando degli eterni adolescenti.
«L
*****
Salgari: un’avventura senza fine i Emilio Salgari nel 2011 è ricorso il centenario della morte. La fondazione Rossellini per la letteratura popolare, sempre attenta ai fenomeni della narrativa fantastica e d’avventura, gli ha dedicato un’opera antologica dal titolo Salgari, salgariani e falsi Salgari (Fondazione Rossellini per la cultura popolare, 224 pagine, copie numerate non in vendita) che ricostruisce il mondo dello scrittore veronese indagando il ciclo da lui inaugurato. Ciclo che non s’esaurisce nelle sue opere ma che prosegue esondando in un vasto filone che grazie a un’organizzata industria del falso d’autore ne ha sfruttato, arato e ampliato le saghe, resuscitando i personaggi creati da Salgari, addirittura intrecciandone i destini. Lo studio della fondazione prende in considerazione un centinaio di opere che fanno riferimento quasi esclusivamente ai tre più celebri cicli inventati dalla fantasia di Salgari: quello indo-malese, quello dei corsari delle Antille e quello del Far west. L’ampio lavoro, ricco di documentazione e apparato critico testuale è godibilissimo anche allo
D
sguardo, costellato com’è da vecchie illustrazioni di sapore esotico primonovecentesco.
*****
Marsilio Ficino, il Platone dell’umanesimo edico, astrologo, teologo, filologo e filosofo, fine traduttore e interprete, sottile pensatore, tanto votato alla più astratta speculazione dialettica quanto consacrato all’impegno sacerdotale, Marsilio Ficino è colui che alle soglie dell’età moderna ha offerto al mondo latino la conoscenza dei testi fondamentali della tradizione platonica greca, primi fra tutti il Corpus platonicum e le Enneadi plotiniane che ebbero sulla coscienza occidentale un influsso enorme. Assieme alla Teologia platonica dello stesso Ficino che ora Bompiani pubblica in un imponente volume della collana «Il pensiero occidentale» (2049 pagine, 40,00 euro). Del platonismo Ficino è stato ermeneuta e commentatore sapendo realizzare una sintesi dottrinaria che assurge alla dignità d’un autentico sistema filosofico, contribuendo alla fine dell’egemonia aristotelica all’interno dell’università. L’idea della concordia tra ermetismo e cristianesimo è una delle tesi fondamentali proposte nella Teologia platonica, nella quale il Ficino si spinge fino ad avanzare l’ipotesi secondo la quale Mercurio altri non era che Mosè.
M
*****
La patria è... sentirsi ancora un po’ bambini ov’è casa mia? Si chiede un numero sempre maggiore di persone nel mondo contemporaneo caratterizzato da mobilità illimitata e da un crescente disorientamento culturale e religioso. Un mondo dove la nostalgia della patria - un concetto colpevolmente e stupidamente bandito per decenni dalla cultura ufficiale intonata al marxismo e al laicismo - è sempre più forte, tanto da confinare spesso pericolosamente con il nazionalismo. Indagando questo sentimento Anselm Grün nel saggio Dove mi sento a casa (Lindau, 113 pagine, 12,00 euro) definisce il concetto di patria più ampio di qualsiasi spazio fisico, abbraccia ad esempio la lingua, la musica (e i ricordi che risvegliano in noi), la fede nella quale siamo cresciuti. La patria è tutto ciò che ci dà sicurezza nella vita: persone comprensive, luoghi amati, il senso di comprensione che possiamo trovare in Dio.
D
pagina 14 • 21 gennaio 2012
MobyDICK
Cd
di Stefano Bianchi olling Stones? Macché: Strolling Bones. Anziché pietre che rotolano, ossa che passeggiano. Nel 1977, il settimanale New Musical Express apostrofa così Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood, Bill Wyman e Charlie Watts.Toglietevi di mezzo, che qui in Inghilterra l’aria s’è fatta punk e il vostro jet-set rock è ormai morto e sepolto. Brutta botta, per il quintetto: Wood all’epoca ha trent’anni, Jagger e Richards neppure trentacinque, Watts li ha superati d’un soffio e Wyman ne ha pizzicati quaranta. Se lui non si sente una cariatide, figuriamoci gli altri. Eppure, è l’anarchia punk ciò che ora conta. Meglio essere Sex Pistols che Rolling Stones. Loro, però, non vogliono sentir parlare di prepensionamento.Tant’è che a New York Jagger, Richards e Wood scoprono che la musica viaggia dal downtown del Cbgb all’uptown dello Studio 54 snocciolando punk rock e discomusic. Quindi, basta assecondare i tempi che corrono mantenendo ben salda l’impronta «stoniana». Detto e fatto: dal 10 ottobre ’77 al 2 marzo ’78, la band incide ai Pathé Marconi Studios di Parigi il quattordicesimo album della sua storia: s’intitola Some Girls ed è frutto della predominante creatività di Mick Jagger, più che mai deciso a rispondere coi fatti alle provocazioni fino a sfoggiare t-shirts punkettare con sopra scritto Destroy e Beast. Keith Richards, dal canto suo, è in pieno trip da eroina ma garantisce comunque la sua fondamentale presenza in tutte le sessions. Rieccolo dunque sugli scudi l’ellepì
R
Teatro
entre il TeatroValle Occupato ha appena ospitato la «sesta permanenza» affidata a Scena Verticale e alla Calabria, è ancora in corso al Teatro Piccolo Eliseo in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese il mese di programmazione che ospita alcune importanti realtà del teatro di Puglia. Raggruppate sotto la comune dicitura «Puglia in scena a Roma» quattro compagnie si alterneranno fino al 5 febbraio sul palcoscenico del Piccolo per un ventaglio di proposte «Dop». Dopo Macbeth Night da Shakespeare proposto dalla Compagnia Cerchio di Gesso e diretto da Simona Gonnella, abbiamo assistito a Il paradosso del poliziotto e Tex Willer di Teatro Kismet OperA in scena fino a domani. Adattato per il teatro e diretto da Teresa Ludovico, il testo origina dall’omonimo libro dell’ex sostituto procuratore antimafia al tribunale di Bari Gianrico Carofiglio (edizioni Nottetempo, collana I sassi) e da Intervista impossibile a Tex Willer dello stesso autore. In scena una poltroncina e un tavolino, a lato uno sgabello d’appoggio, fogli
M
Stones: dodici perle alla faccia del punk
spettacoli
da sette milioni di copie vendute che si apre e si chiude con due pezzi di quelli che fanno il botto: Miss You, dall’inconfondibile ritmo discotecaro inventato dal pianista Billy Preston, per una volta alla batteria e sotto gli occhi di Jagger, durante le prove dei concerti canadesi a El Mocambo; Shattered, rock adrenalinico metabolizzato da geniali parentesi rap. Fra l’uno e l’altro, è tutto un rincorrersi di accelerazioni, rallentamenti, stili, atmosfere: dal rock-blues di When The Whip Comes Down, al mirabile soul d’una Just My Imagination (Running Away With Me) «rubata» ai Temptations; dal rock & roll di Lies e Respectable, al country & western di Far Away Eyes; dal rhythm & blues di Beast Of Burden, al riff assassino di Before They Make Me Run, fino alla scorza bluesy di Some Girls. A Parigi, gli Stones registrano in tutto una cinquantina di brani: alcuni di essi, rivitalizzati, troveranno posto in Emotional Rescue (’80) e Tattoo You (’81), dodici rarità vengono invece proposte in questa doppia deluxe edition evidenziando la loro dimensione rootsier, lontana da ogni vezzo modaiolo, punk o disco che sia. Ascoltare per credere il country + rockabilly di Claudine; il blues chicagoano di When You’re Gone; il sorprendente calypso di Don’t Be A Stranger; l’energia verace di I Love You Too Much, che ricalca quella di It’s Only Rock ‘N Roll (But I Like It); l’istinto sopraffino di Keep Up Blues e Petrol Blues; il country nevrotizzato di Do You Think I Really Care; il travolgente rockblues di So Young e No Spare Parts, incantevole ballata. E poi le covers: Tallahassee Lassie di Freddy «Boom Boom» Cannon, scintillante rock & roll; You Win Again di Hank Williams, inappuntabile country; We Had It All di Waylon Jennings, idem country, intonata dalla voce di Keith Richards che è tutta una screpolatura. Derisi e sbeffeggiati, i Rolling Stones si prendono la rivincita con Some Girls. Voto: dieci con lode. Alla faccia del punk. E delle sue schitarrate. The Rolling Stones, Some Girls Deluxe Edition 2 cd, A&M Records, 22,99 euro
Faccia a faccia con Tex Willer di Enrica Rosso appallottolati a terra a marcare il territorio e una bottiglia di super alcolico già piuttosto avviata… naturalmente l’immancabile macchina da scrivere. Ombre cinesi inquiete e inquietanti di personaggi più o meno riconoscibili segnano il confine con la realtà virtuale dietro alle immaginarie pareti. Questa la tana studio dello scrittore che di lì a poco si troverà a raccogliere la testimonianza di un ispettore di polizia. L’investigatore cita Brice Parain e avvisa «le parole sono pistole cariche» quindi da maneggiare con cura e inanella ricordi a scopo lectio magistralis. Scorre veloce il tempo in sua compagnia fino al momento in cui, svelati i principi della sua arte «perché il lavoro dello scrittore ha molto a che fare con le storie» forse frutto della generosa bevuta, la scena si appiattisce come un foglio di giornale, si colora di tramonto e a sostituire il poliziotto si ma-
terializza in scena il ranger del titolo. Nonostante il Mitico si aggiri guardingo per il palco con la pistola in pugno sempre pronta a fare il suo dannato dovere, tra i due c’è da subito famigliarità e senso di reciproca appartenenza e dopo alcune schermaglie su chi dei due più ha influenzato l’altro, scopriamo che Tex spiava, invidioso, l’autore da cucciolo sprofondarsi nella poltrona paterna a spendere, in compagnia degli albi del cuore, i suoi pomeriggi perfetti. Questa è la parte più suggestiva del testo in cui prendono corpo le domande irrinunciabili. Sorprendentemente scopriamo che Tex detesta i fagioli, si schernisce per quel suo linguaggio
zapping
La formula vincente DEL TINELLO ROCK di Bruno Giurato
l ritorno di Red Ronnie in televisione è un successo non annunciato. La sua Roxy Bar Tv che va in onda solo in streaming ha totalizzato 130 mila contatti solo il primo giorno di programmazione, nello scorso dicembre. E pochi giorni fa i server sono andati in tilt per i troppi collegamenti. Successo non annunciato perché la formula del Red è l’anti XFactor. Il format «muscolare» che è comunque riuscito nell’impresa di riportare le canzoni in televisione è basato sullo psicodramma del concorrente, e sulle discussioni in giuria. E invece la trasmissione di Red è fatta di chiacchiere, interviste, canzoni (rigorosamente live, niente playback). È radio in tv, in breve: e su internet è una formula vincente, perché si può rimpicciolire la finestra video e seguirla con un occhio mentre si fa dell’altro. O non guardare affatto, tanto si capisce lo stesso: non solo anti Xfactor, ma anche televisione antitelevisiva. Con la formula del tinello rock (ma davvero rock, anche per il piglio e la libertà) il buon Red tiene alte le origini freaketttone (perché in fondo uno che si chiama Red e ha quel casco di capelli in testa non può non essere un freak, comprese le frequentazioni politiche inaspettatamente morattiane), e offre un palcoscenico musicale finalmentre aperto all’improvvisazione, laddove sembravamo condannati a Sanremo che quest’anno si preannuncia inguardabile (ma lo guarderemo perché come scriveva Tomasi di Lampedusa «bisogna sapersi annoiare»). O ai rituali di un Morgan sempre più caricatura di se stesso a cominciare da quell’aria di babbo Natale smunto.
I
eccessivamente colorito e ridondante e - roba da non crederci - cita con padronanza Samuel Taylor Coleridge. È insomma un tenero, affabile, forbito burbero di qualità. Tutto questo naturalmente, noi suoi assidui lettori, lo sapevamo già. Non paghi della sua immagine rude avevamo spiato come Carofiglio «negli spazi bianchi tra una vignetta e l’altra in cerca di verità», ma certo condividerlo a teatro è assai più bello. Ora che è una certezza non ci resta che spargere la voce. Sullo stesso palcoscenico il 24 sarà la volta di Teatro Minimo con Sequestro all’italiana di Michele Santeramo per la regia di Michele Sinisi e dal 31 gennaio al 5 febbraio chiuderà la mini rassegna il Teatro dei Borgia con Midsummer di David Greig diretto da Gianpiero Borgia.
Il paradosso del poliziotto e Tex Willer, Teatro Piccolo Eliseo fino al 22 gennaio, info: www.teatroeliseo.it - tel. 06 488721
Religione
MobyDICK
ppena arrivato in libreria, Altissima povertà, regole monastiche e forma di vita di Giorgio Agamben è andato letteralmente a ruba tanto che nel giro di un mese ne è stata fatta una seconda edizione. Non si tratta di tirature sbalorditive, ma ugualmente tanto interesse suscitato nei lettori da un libro dedicato alla storia del monachesimo rappresenta un segnale significativo. L’argomento coinvolge un pubblico largo e attento. La riflessione di Agamben si concentra in questa occasione sul significato assunto dalla regola, ossia dall’insieme di precetti che vanno a comporre l’uso monastico, nell’esperienza e nelle successive teorizzazione dei fondatori degli ordini religiosi e dei pensatori che a essi si sono ricollegati. L’autore parte dalla considerazione che «il monachesimo è stato il tentativo forse più estremo e rigoroso di realizzare la forma vitae del cristiano e di definire le figure della prassi in cui essa si risolve». Alla base di ogni esperienza di questo genere si colloca infatti sempre l’imitazione di Cristo, che in qualche modo si formalizza, nel senso che si cala nel rispetto di una prassi che guida ogni atto nella vita del monaco. La tensione fra la posizione di regole di natura giuridica e la proposta di un modello di vita costituisce allora il nocciolo della questione monastica, attorno al quale la riflessione medievale ha sviluppato approfondimenti il cui studio non si è esaurito.
A
In tutta la tradizione cenobitica, ossia di coloro che insieme si ritirano dal mondo per vivere un’esistenza per quanto possibile santa, è presente la consapevolezza del fatto che il monaco non si sottopone a un complesso di norme dalla natura costrittiva, al contrario egli si impegna a dare alla propria vita una forma complessiva che lo aiuti a seguire l’esempio di Cristo. La dicotomia viene condensata nell’opposizione tra regula e preceptum, ossia nella natura giuridica o tecnica del vincolo che obbliga al rispetto dell’uso monastico. Scopriamo allora che i comportamenti del monaco sono ritenuti più simili a quelli di un artigiano che apprende e affina i segreti della propria arte che non a quelli di un soggetto che si uniforma alle istruzioni di un superiore. In tale contesto l’ubbidienza al proprio abate, della quale pure viene fatto voto, non costituisce un atto di subordinazione quanto uno strumento iniziatico
libri
21 gennaio 2012 • pagina 15
cettistica rigorosa. Capita quindi che nel testo di riferimento di un monastero al posto di una successione di norme alle quali i monaci si devono attenere si trovi direttamente la narrazione della vita del fondatore, proposta come esempio di una sequela di Cristo realizzata, che diviene modello comportamentale per quanti desiderano incamminarsi lungo lo stesso percorso. La vita intera del monaco si trasforma dunque in una liturgia, ogni momento della quale è regolato e indirizzato verso una perfezione che si realizza solo nei pochissimi casi di santità. Preghiera, lavoro, rispetto degli orari, silenzio, canto, attività in comune e solitudine sono elementi che costituiscono un solo rito.
SORELLA POVERTÀ Secondo Giorgio Agamben il monachesimo, tema di un suo saggio recente, si è ostinatamente avvicinato alla realizzazione del proprio progetto (l’imitazione di Cristo) ma l’ha altrettanto ostinatamente mancata. Solo l’esperienza francescana si è spinta dove altri non hanno osato... di Sergio Valzania adatto a rendere più veloce e completa la trasmissione di un sapere in vista di un miglioramento delle qualità della vita. Quindi per un monaco è corretto dire vivere «in obbedienza» e non semplicemente «obbedendo», il rispetto della regola sta alla base della sua scelta, egli l’ha assunta, non la subisce. Allo stesso modo il giocatore rispetta le regole di un gioco e nello stesso tempo si ingegna ad approfondirne i segreti, i trucchi e i modi
per migliorare la propria partita obbedendo a regole che egli stesso chiede ai più esperti di trasferirgli. La stessa forma che prende la redazione della regola in alcuni casi costituisce una conferma del prevalere dell’intenzione, dell’insegnamento e dell’esempio rispetto a una pre-
Qui compare la divaricazione fra monachesimo e tradizione sacerdotale, della quale la Chiesa è garante. Il sacerdote rimane tale e i suoi gesti mantengono intatta la capacità di somministrare i sacramenti anche in caso di indegnità, ben diversa è la condizione del monaco. Qualora egli non rispetti la forma vitae che ha dichiarato di scegliere la sua natura monastica scompare, dato che essa coincide con i voti e con l’intenzione di rispettarli. In questa prospettiva, avverte Agamben, l’intera riforma protestante può essere letta come la lotta di un monaco agostiniano, Lutero, contro la liturgia ecclesiastica. A giudizio di Agamben il momento più alto e impegnativo della riflessione monastica e della sua ricerca di assoluto si ha nell’esperienza francescana, in particolare quando si pone la questione della paupertas altissima, l’Altissima povertà che dà il titolo al volume. Il Santo e i suoi successori pongono infatti la questione decisiva del rapporto del monaco con il mondo, con le sue regole giuridiche e in particolare con il diritto di proprietà, che intendono rifiutare in modo radicale. Questo intento pone fin dalla sua nascita l’ordine in una situazione unica, che genera contrasti sia al suo interno che con il papato e la curia, quella avignonese in particolare. I francescani rivendicano una condizione assoluta, simile a quella degli animali non a caso così presenti nei racconti che i discepoli ci hanno tramandato attorno alla vita del Santo. Gli animali usano i beni del mondo, ma solo per quanto necessario e senza mai vantare su di essi una pretesa giuridica. Il cavallo mangia la biada senza esserne proprietario. Se il progetto avesse avuto successo alcuni uomini si sarebbero posti in una condizione del tutto nuova, inaudita, nei confronti del mondo, se ne sarebbero chiamati fuori. Ma, come scrive Agamben nell’introduzione di Altissima povertà, il monachesimo si è ostinatamente avvicinato alla realizzazione del proprio progetto di forma di vita e «l’ha altrettanto ostinatamente mancata». Nelle lingue moderne esiste una traccia bizzarra di questo inevitabile fallimento. In italiano diciamo che l’abito non fa il monaco, i tedeschi dicono invece Kleider machen Leute. L’abito fa le persone. E tutti abbiamo la nostra parte di ragione. Giorgio Agamben, Altissima Povertà, regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza Editore, 190 pagine, 15,00 euro
MobyDICK
pagina 16 • 21 gennaio 2012
cinema
La via crucis di Antonio e Luminita ella stagione dei premi preOscar, The Help è già in pole position per una (o più probabilmente) più candidature alla statuetta dorata. È una scommessa quasi sul velluto, visto le candidature ai Golden Globes, i premi della stampa estera di Hollywood; spesso anticipano quelli dell’Academy of Motion Picture Arts & Sciences. Ai Globes ha ottenuto quattro nomination: miglior film, miglior attrice (Viola Davis), migliore attrice non protagonista (Jessica Chastain e Octavia Spencer, afroamericana come la Davis). Ha vinto la Spencer. Tratta dall’omonimo romanzo ambientato a Jackson, Mississippi nel 1962, la storia ruota intorno a Eugenia, detta Skeeter, una giovane neo-laureata, e alla sua ambizione di scrivere un libro basato sulle testimonianze delle donne
N
di Anselma Dell’Olio to nulla all’inizio degli anni Sessanta, se non nella coscienza di Skeeter (Emma Stone) con le sue ambizioni letterarie, e nella testa di nere accorte come Aibileen (Davis) e Minny (Spencer).
Il successo registrato dal film negli Usa ha avuto il vantaggio di un pubblico pre-costituito; i 10 milioni di lettori entusiasti del best-seller. È noto che i film sui neri non hanno le stesse chance con il pubblico italiano. Eppure, ci sono più assonanze con le nostre vite, che differenze radicali. La prima domanda di Skeeter ad Aibileen ne è la dimostrazione: «Come ci si sente ad allevare i figli dei bianchi, mentre i tuoi sono cresciuti da altri?». A quei tempi molte famiglie bianche consideravano i «loro» neri una
Minny è prontamente assunta dalla neo-sposa Celia Foote (Jessica Chastain), detestata dalle altre perché «non nasce». Celia è l’arma segreta del film. Chastain (Tree of Life), ancora una volta straordinaria, costruisce un’adorabile «nata ieri» fuori ambiente, intenta a dimostrare al marito inesistenti doti da casalinga. (Chastain è da Oscar; Howard, come al solito, mediocre. Hilly è un personaggio senza sfumature, troppo facile da odiare. Al naturale, le due rosse sono quasi identiche). Celia è detestata perché da white trash qual è, si è pappata il miglior partito della città, e il più bello; e non ha nemmeno un passato immacolato. Tutte le bianche nascondono segreti che saranno svelati (non qui), spesso con insolito diverti-
chiari, misteriosi. (Ottimo Ignazio Oliva nella parte di un suo compare o ricettatore). La giovanissima immigrata vive ai margini di una baraccopoli, ricattata da connazionali che le hanno confiscato i documenti. Per riaverli deve pagare un riscatto, come paga per dormire in un furgoncino fetido. Sa che sarà dura affrancarsi; i suoi miserabili furti non l’avvicineranno alla meta in tempi brevi, forse mai. Per uscire dalla miseria di serva della gleba ha bandito gli scrupoli. Sopravvive borseggiando passanti sugli autobus e dove capita, specie in ospedale, dove la gente è più distratta o malata per difendersi. Ha un piano per cambiar vita: comprarsi una nuova identità legale. Un portantino dell’ospedale che lei bazzica le propone un affare; costi e ricavi sono altissimi. Quando Luminita vede Anto-
“Sette opere di misericordia” è il debutto (di qualità) nel lungometraggio dei gemelli Di Serio. “The Help” racconta la discriminazione razziale negli anni Sessanta in Usa, ma ha molte assonanze col nostro stile di vita di colore, su vite passate a servizio dei bianchi. Siamo nel periodo storico in cui cresce l’onda del movimento per i diritti civili dei neri, capeggiato da Martin Luther King. Nel film si ricorda l’uccisione di Medgar Evers, noto attivista nero realmente esistito, ucciso mentre rientrava a casa il 12 giugno 1963. È l’anno in cui il presidente Kennedy pronuncia il discorso inequivocabile sulla «crisi morale che l’America sta affrontando come nazione e come popolo». Poco dopo introduce la legislazione nota come The Civil Rights Act del 1964; non solo diventa reato la discriminazione razziale, ma prevede anche una commissione ad hoc perché i cittadini che subiscono torti sulla base di razza, colore, sesso o religione, possono fare ricorso al governo federale. A Jackson, nel profondo sud, non è ancora cambia-
parte della famiglia, benché li trattassero peggio del parente meno amato. In Italia non c’è la pesante eredità della schiavitù da smaltire, ma è impossibile sentirsi moralmente superiori. Il regista e sceneggiatore Tate Taylor è amico di Kathyrn Stockett, autrice del romanzo, ed è cresciuto con lei a Jackson. Il suo film è stato criticato come feel-good movie, sentimentale e buonista. È pur sempre un film Disney, ma le vicende sono molto gustose. Skeeter scopre che l’adorata tata nera Constantine (Cicely Tyson) è stata licenziata dopo 29 anni di servizio. La pepata Minny è scaricata a sua volta dalla socialite Hilly Holbrook (Bryce Dallas Howard), l’arbiter gusti della buona società. Promuove un’ordinanza che obbliga a costruire un bagno esterno a uso esclusivo dei neri di casa.
mento (la vendetta di Minny è da non perdere). Una lacuna del film è l’assenza di sfumature. Nobiltà d’animo, simpatia, profondità di sentimenti sono delle nere; le bianche sono meschine, prevenute, snob. Ma il divertimento è garantito, anche grazie al doppiaggio impeccabile di Maura Vespini. Da vedere.
Sette opere di misericordia è il debutto nel lungometraggio narrativo dei gemelli torinesi Di Serio, Gianluca e Massimiliano. Documentaristi e videoartisti, hanno molti premi, mostre e festival alle spalle. Presentato a Locarno e Torino, il film racconta le storie incrociate di Luminita (Olimpia Melinte, bravissima), un’immigrata moldava clandestina, e di Antonio (Roberto Herlitzka, mai deludente), un pensionato malato ed emarginato, che vive di traffici poco
nio, ricoverato per una malattia cronica, capisce che è la vittima perfetta da sfruttare a tradimento per eseguire il suo piano audace e molto pericoloso. Formalmente rigoroso e girato da bravi artisti quali sono i De Serio, è un film di poche parole che scandisce l’odissea di Luminita e Antonio attraverso capitoli intitolati (con ironia) alle sette opere di misericordia: dar da bere agli assetati, da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare gli infermi e i carcerati, alloggiare i pellegrini. Più che capitoli, sono perverse stazioni della croce.Verso la fine, le cose cambiano. I registi sono stati paragonati ai fratelli Dardennes; ma forse sono più parenti di Robert Bresson (Diario di un ladro, 1959): tormenti dell’anima con delitto, castigo, redenzione, e la totale assenza di melodramma e di psicologismi. Da vedere.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Prestazioni sociali agevolate: più controlli della Guardia di Finanza PERCHÉ NON FIDARSI DELLE ILLAZIONI DELLE OPPOSIZIONI In questi giorni gli italiani hanno avuto modo di udire cose folli e vergognose.Vergognose dal punto di vista della dignità e integrità politica delle istituzioni, e soprattutto dimostranti l’ignoranza di taluni soggetti politici in merito all’ordinamento costituzionale dalla nostra amata Repubblica. Iniziamo quest’analisi con le critiche mosse contro la legittimità del governo presieduto da Mario Monti. Taluni insinuano che «Questo governo viola i principi fondamentali della democrazia» e che «Non è il governo eletto dagli italiani». Queste frasi dimostrano come si ignori la Costituzione, nonché il tentativo di convincere la gente che quanto detto è verità, mentre ciò che affermano i sostenitori del governo è menzogna, falsità. A riprova dell’ignoranza di queste forze politiche, basti leggere quanto statuito dalla Costituzione: gli articoli 56 e 57 al comma 1 stabiliscono, infatti, che sono elette la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica. In merito al presidente del Consiglio dei ministri, il quale è capo del governo, la Costituzione al comma 2 dell’articolo 92 statuisce che il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su sua proposta, i ministri.Altre illazioni su questo governo, invece, riguardano l’integrità politica e morale del presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Si millantano gravi ingerenze di oscuri poteri forti ma - Costituzione alla mano - è il Parlamento che rende legge gli atti e le proposte normative dell’esecutivo. Il governo attuale, tra l’altro, legittimato da un voto di fiducia molto ampio, sta facendo per le prossime generazioni ciò che negli ultimi dieci anni i governi precedenti non sono stati capaci di attuare per paura di perdere le elezioni. Lo stesso De Gasperi, ai tempi, si preoccupò di governare, ponendo le basi per il “boom” economico che, tra gli anni Sessanta e Ottanta, vide l’Italia protagonista di un grande miracolo. Le politiche successive, specie quelle del periodo 1982-2009, hanno posto le basi per le varie crisi economiche del 1992, del 2001 e del 2010, crisi accentuata da una vergognosa amministrazione delle finanze italiane. Ora questo governo curerà l’Italia dai mali causati da una cattiva amministrazione, a favore di una più salda e duratura ripresa mirata alle prossime generazioni, e non alle prossime elezioni. Mattia Savorana C I R C O L I LI B E R A L PA L E R M O
Caro direttore, qualche giorno dopo il benemerito blitz di Cortina contro gli evasori fiscali il generale Bruno Buratti, comandante del reparto operazioni della Guardia di Finanza, dopo aver descritto come la GdF intende combattere l’evasione fiscale ha dichiarato: «Insieme alla lotta all’evasione è cruciale anche il contrasto alle frodi sulla spesa pubblica. Quest’anno abbiamo denunciato 11mila persone per aver indebitamente percepito oltre 500 milioni di euro di provvidenze pubbliche. Abbiamo individuato 1,8 miliardi di euro di danni erariali e 4mila falsi poveri che hanno indebitamente beneficiato di prestazioni sociali agevolate». Sarà senz’altro vero quello che dice il generale Buratti. Fatto sta che di contrasto alle frodi sulla spesa pubblica in Campania non ci sono molte tracce. Negli scorsi anni i giornali locali hanno riportato solo molto raramente notizie relative a successi ottenuti dalla Guardia di Finanza in questo campo. Presumo, quindi, che nelle altre regioni la sitazione non sia molto diversa. Eppure sono sicuramente molte, in Italia, le persone che, per ottenere più facilmente le prestazioni sociali agevolate, dichiarano fraudolentemente di non aver alcun reddito familiare o di averne uno molto basso. Sarebbero sicuramente opportuni controlli frequenti della Guardia di Finanza su queste dichiarazioni. In mancanza di essi il rischio è che aumenti la sfiducia nello Stato, già molto diffusa, tra coloro che fanno dichiarazioni corrette e che, per questo motivo, sono scavalcati nelle graduatorie da quelli che fanno i furbi.
Franco Pelella - Pagani (SA)
LIBERALIZZAZIONI: PRIORITÀ ASSOLUTA PER LA CRESCITA DEL PAESE
L’AUTENTICA SOLIDARIETÀ E IL VERO BENEFATTORE
Le liberalizzazioni sono indispensabili soprattutto per i giovani, per premiare il merito e garantire parità sociale. Sono una priorità assoluta per consentire al Paese di crescere. Chi si mette di traverso ostacola di fatto questo obiettivo. Le corporazioni, talvolta a ragione, talvolta meno, difendono i propri interessi, ma quest’ultimi non dovrebbero mai finire per fagocitare l’interesse generale dell’economia nazionale e i diritti dei consumatori. Nessuno vuole liberalizzazioni selvagge, nessuno vuole punire nessuno, ma tutti vogliono che i servizi costino meno e siano migliori. Ovviamente i risultati non si vedranno immediatamente ma solo nel medio periodo.
Assicura facile consenso e popolarità l’esortazione alla solidarietà, che è diventata espressione magica e abusata. La solidarietà parolaia e inflazionata perde valore, come la moneta. La sola solidarietà redistributiva non è toccasana da idolatrare: potrebbe disincentivare l’operosità e favorire il parassitismo. Affermano di tutelare i poveri e i deboli: la sinistra, la Chiesa, il politicamente corretto, il centro e pure la destra (col pluriclassismo, che respinge la lotta di classe dei comunisti). L’autentica solidarietà si fonda sull’azione costruttiva, non sulle chiacchiere. Considerando l’esplosione demografica, la penuria e la fame nel mondo, anche il pigro deve applicarsi, darci dentro, darsi da fare ed essere di gamba lesta (olio di gomiti nel lavoro fisico). Il faticone - che lavora, sacrifica, risparmia, rischia, investe e produce - concorre al bene comune e migliora le sue condizioni autonomamente, senza pretendere l’aiuto altrui. La produzione è la moderna moltiplicazione dei pani e dei pesci. Impegnato tutta la vita nell’adempimento del dovere e nella fruttuosa parsimonia, egli si riscatta dalla povertà e costituisce un patrimonio fruttifero, atto a fronteggiare future evenienze sfavorevoli (generanti nuovi oneri e
Francesco Villa
IL GOVERNO SBAGLIA SULLE FARMACIE Sono convinta che il governo debba andare avanti senza tentennamenti e con delle liberalizzazioni efficaci per guardare a un mercato più concorrenziale. Ma è anche vero che sulle farmacie le liberalizzazioni non avrebbero alcun effetto se non quello di rendere il servizio e la qualità più scadente ai danni degli italiani. Oltre a non determinare una diminuzione del prezzo dei farmaci.
Carlotta Nevio
L’IMMAGINE
VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Qual è l’animale con più occhi? Gli occhi composti degli insetti e dei crostacei sono costituiti da più unità ottiche autonome (dette ommatidi) che si coordinano per dare luogo alla cosiddetta visione “a mosaico”. Il maggior numero di unità si trova nelle specie che cercano il cibo e il partner mentre volano, e il record spetta alle libellule che possono averne fino a 28mila. Gli occhi semplici invece sono costituiti da un bulbo oculare, una lente e una zona sensibile alla luce (la nostra retina). Li troviamo nei vertebrati, in alcuni cefalopodi (piovra, nautilo) e nei ragni. In questo vasto gruppo di animali il campione è il ragno che può avere da 6 a 8 occhi semplici. I vertebrati hanno in genere due occhi, con una sola eccezione: il tuatara, un rettile. Considerato un fossile vivente (appartiene all’antichissimo ordine dei Rincocefali o Sfenodonti, comparso sulla Terra 220 milioni di anni fa), il tuatara ha un terzo occhio posto al centro del cranio, detto occhio parietale. Il terzo occhio ha piccole lenti, una retina e una connessione nervosa degenerata: deve quindi essersi evoluto da un occhio vero e proprio. La sua funzione è tuttora sconosciuta: potrebbe essere legata all’assorbimento dei raggi ultravioletti per la sintesi della vitamina D, o alla percezione del ciclo luce/buio o, ancora, alla regolazione del calore corporeo.
cali di redditi). Contribuisce alla collettività col pagamento d’imposte e tasse; non cerca l’assistenzialismo dello Stato protettore, padrone dell’individuo dalla culla alla bara. Come lavoratore instancabile e risparmiatore perseverante, egli giova all’umanità: produce più ricchezza di quanta ne consuma. Alla sua morte lascia un bel regalo – i suoi beni – a eredi: familiari, parenti, istituti di beneficenza e altri. Egli è il vero altruista e benefattore, che dà al consorzio civile più di quel che riceve, ossia un contributo netto positivo.
Gianfranco Nìbale
ITALIA DECLASSATA DAI SUOI POLITICANTI
APPUNTAMENTI GENNAIO VENERDÌ 27 - ORE 11 - ROMA PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale Circoli Liberal
LE VERITÀ NASCOSTE
A testa in giù Guardare il mondo a testa in giù è una cosa, ma realizzare un’intera casa al rovescio, arredamento compreso, è davvero singolare. L’idea è venuta a due architetti polacchi Klaudiusz Golos e Sebastion Mikuciuk, che hanno progettato e costruito questa villetta a Trassenheide sul Mar Baltico, in Germania. Che cosa li ha spinti a realizzare questa stranezza? Solo il gusto di fare qualcosa di diverso
Vergogna mondiale per l’Italia declassata alla tripla B dai suoi politicanti. Inutile prendersela con Standard & Poor’s. Dove sono finiti i premi Nobel per l’economia made in Italy che avrebbero dovuto prevedere i fatti scientificamente? L’eclisse della ragione investe oggi l’intera classe politica incapace di dare una speranza di futuro ai giovani d’Italia e d’Europa senza più valori. Cari giovani, amate la Giustizia e sperate in un futuro migliore.Voi siete le risorse umane e le energie dell’Italia del presente e del futuro, di un Paese stanco della retorica del passato. Voi siete i cittadini di oggi e di domani che chiedono giustamente di fare quadrato per trasformare l’Italia in una nuova potenza economica in piena autonomia energetica (non con le pale a vento, ma con la fusione elettro-nucleare, con l’economia dell’idrogeno). Voi siete i governatori, i politici, i leader, gli amministratori, i tecnici, gli astronauti, gli ingegneri, i giuristi, i medici, gli architetti e i lavoratori che applicheranno e difenderanno il federalismo in Italia.Voi siete il Nuovo Risorgimento d’Italia.Voi siete la Storia.
Nicola Facciolini
mondo
pagina 18 • 21 gennaio 2012
Quattro soldati d’Oltralpe muoiono in uno scontro a fuoco, l’Eliseo annuncia la fine dell’addestramento dei militari locali
Sarkozy pacifista! Pronto lo stop alle missioni francesi in Afghanistan. In vista del ritiro totale di Antonio Picasso ltri quattro soldati francesi uccisi a Tagab, nella provincia di Kapica, a Nord di Kabul. Parigi rende noto che, dei 16 feriti totali, alcuni versano in gravi condizioni. Non si può escludere che il numero di morti salga. «Un soldato afgano uccide quattro militari francesi». L’impostazione del titolo dell’Independent merita una riflessio-
A
ne. È su chi ha compiuto l’azione che bisogna ragionare. Chi ha sparato indossava l’uniforme del governo armato e stipendiato da Kabul. Un uomo che, a rigor d’alleanza, avrebbe dovuto combattere al fianco dei francesi che invece ha ucciso. Contro i talebani e per la pace del Paese. Il suo, allora, è stato il gesto di uno squilibrato? Potrebbe se fosse la prima volta. Dal novembre 2009 a oggi, si contano almeno 35 solda-
ti stranieri uccisi per mano di militari o poliziotti afgani. Più quelli di ieri. Quaranta morti non sono un caso isolato e che vanno in controtendenza con la piena cooperazione fra i contingenti stranieri e le truppe di Kabul. Di questo è bene che ne prenda atto il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen.
Al momento, ad averne fatto più le spese sono stati gli statunitensi, con i loro 16 caduti per fuoco amico. Seguono gli inglesi con 8 vittime. L’ultima, prima dell’incidente di Tagab, risale a dicembre dello scorso anno. Anche in quel ca-
Dal novembre 2009 a oggi si contano almeno 35 soldati stranieri uccisi per mano di militari o poliziotti afgani. Più quelli di ieri e si arriva a 40. Non sono un caso isolato ma un’emergenza so si è trattato di un francese, un membro della Legione straniera.Tutto questo non può sorprendere e soprattutto non può essere liquidato alla maniera in cui ha cercato di fare Rasmussen. La scorsa settimana l’oscenità dei marines che orinava sui cadaveri dei nemici. Oggi questo sfogo di follia da parte
dell’alleato locale. A Bruxelles e a Washington è giunta l’ora di fare una riflessione sulle operazioni. Un recente rapporto del Pentagono parla della costante crescita di suicidi, alcolismo e casi di abusi sessuali in seno alle forze armate Usa. La salute mentale dell’esercito più forte del mondo, dopo l’Iraq e con
dieci anni di conflitto in Asia centrale, si sta logorando ogni anno che passa. Rapporti di questo genere – che comunque vengono divulgati – è possibile che circolino anche presso i ministeri della difesa europei. L’Alleanza atlantica, nella sua prima e unica esperienza di impiego fuori quadrante sta raccogliendo un fallimento. Anche se non si può definirlo ancora come tale. È probabile che abbia ragione il sottosegretario agli esteri italiano, Staffan de Mistura, il quale suggerisce un «ritiro graduale delle forze oc-
Fra tre mesi il Paese dovrà scegliere il nuovo presidente. E l’attuale cerca di recuperare i voti dell’estrema destra
Nicolas torna populista per la rielezione a decisione è stata presa in pochi minuti. Quando la notizia del massacro di Tagab è arrivata a Parigi, Nicolas Sarkozy era riunito con i suoi consiglieri in vista dell’incontro con il corpo diplomatico già schierato all’Eliseo. Ed è stato proprio di fronte agli ambasciatori che il Presidente ha annunciato la sospensione di ogni attività dell’Armée in Afghanistan e il probabile ritiro anticipato del contingente. C’è l’emozione e il dolore per la morte di quattro soldati e il ferimento di altri 16, naturalmente. Un tributo di sangue che porta a 82 il numero dei caduti francesi dall’inizio dell’intervento della forza multinazionale. C’è la sensazione che gli obiettivi della fase finale della missione – formare al combattimento i soldati afghani che dal 2014 dovrebbero
L
di Enrico Singer rimanere soli contro i talebani – non si riescono a realizzare: anzi, che si addestrano uomini che poi sparano contro i loro istruttori. Ma c’è, soprattutto, il “fattore P”. P come presidenziali. Le elezioni che, tra il primo turno del 22 aprile e il ballottaggio del 6 maggio, diranno se Sarko passerà altri cinque anni alla guida del Paese, oppure no. Siamo entrati negli ultimi cento giorni prima del voto e il fattore-presidendiali sta scombinando tutte le strategie, sta piegando all’interesse supremo di non perdere la sfida con François Hollande anche scelte di campo che sembravano indiscutibili: che si tratti dell’asse con Angela Merkel in Europa o della ritrovata sintonia con gli Usa e con la Nato.Tutti i sondaggi te-
stimoniano che Nicolas Sarkozy è in svantaggio nei confronti del candidato socialista, che deve recuperare consensi e tenere conto degli umori dell’opinione pubblica che sta per diventare corpo elettorale. Nel caso dell’Afghanistan, non poteva lasciare al suo avversario l’esclusiva di una campagna imperniata sul prevedibile slogan «riportiamo a casa i nostri ragazzi». Anche se, durante la sua presidenza, ha sempre seguito una linea di estrema fermezza – del resto tradizionale per la Francia, sopratutto in Africa – che ha trovato nella recentissima crisi libica e nella deposizione di Gheddafi la sua massima espressione. Adesso, però d’interventi militari non si parla più. La nuova tattica è la pruden-
za. Come nel caso dell’Iran, per esempio. Sempre ieri, di fronte ai diplomatici, Nicolas Sarkozy ha detto che «un’azione militare non risolverebbe il problema ma scatenerebbe la guerra e il caos in medio Oriente e forse nel mondo» e che per questo la Francia farà di tutto per evitarla.
Ma il “fattore P” non pesa soltanto sul capitolo delle operazioni armate. La virata più decisa è quella che Sarkozy ha impresso alla sua politica europea. Fino a poche settimane fa si presentava a braccetto di Angela Merkel proponendosi come il paladino del salvataggio dell’euro. Ora sono gli interessi della Francia ad avere ripreso il sopravvento. Da quando Standard & Poor’s gli ha fatto l’affronto di togliergli la tripla A, nei
mondo
21 gennaio 2012 • pagina 19
tuale ritiro preventivo cambierebbe poco le cose. Almeno in teatro operativo. Il buco lasciato dai francesi sarebbe colmato dagli Usa. Ma di questo Obama potrebbe non esserne felice. Gli attacchi mostrano il dilagare di sentimenti anti-occidentali all’interno delle forze afghane. E i recenti episodi del video di soldati americani che si accaniscono su quei corpi, o le accuse a due soldati britannici di aver abusato sessualmente di due bambini afgani non hanno certo aiutato la coalizione. In tal senso, il New York Times ieri ha criticato pesantemente le posizioni assunte dalla Nato. «Alterchi letali sono chiaramente non rari e isolati e riflettono una minaccia in rapida crescita che potrebbe non avere precedenti nella storia militare moderna degli alleati», ha scritto il quotidiano. I vertici della coalizione non hanno voluto al momento commentare. Un portavoce dell’Isaf, il colonnello Jimmie E. Cummings, ha parlato di una «collaborazione quotidiana con il personale afghano e non stiamo ravvisando
cistica, è vero. Tuttavia, le ultime vicende sono di difficile confutazione. L’avevamo scritto che ci saremmo dovuti aspettare ritorsioni di vario tipo al video dei marines. Le ritorsioni dei talebani non sono arrivate. Quelle dei nostri alleati sì.
Del resto, gli studenti armati stanno raccogliendo a man bassa successi. Ieri, hanno rivendicato l’abbattimento di un altro elicottero Nato nella provincia meridionale afghana di Helmand: sei i soldati uccisi. In una comunicazione il portavoce locale dei mujaheddin ha precisato che l’operazione è stata condotta da un commando nel distretto di Musaqala. Nel tardo pomeriggio, si è avuta la notizia che i soldati uccisi erano tutti statunitensi. Sia per questi che per i francesi, i mujaheddin hanno esultato. In termini ancora più estesi, la crescente instabilità pakistana fa al loro caso. Un tempo si leggeva sui manuali di strategia che l’Afghanistan facesse da profondità strategica del Pakistan, perché quest’ultimo è
Un recente rapporto del Pentagono parla della costante crescita di suicidi, alcolismo e casi di abusi sessuali in seno alle forze armate Usa che sono da troppo tempo di stanza a Kabul cidentali». Se non altro in questo modo, la Nato eviterebbe di passare per quella che scappa da una sconfitta. In più gli interventi positivi di ricostruzione dell’Afghanistan – e ci sono! – non andrebbero dimenticati. Mercoledì il presidente afgano Karzai sarà a Parigi ospite di Sarkozy. È logico che i talebani abbiano voluto preparare la loro parte di visita. Stanno migliorando anche da un punto di vista organizzativo. Prima erano studenti ignoranti e dalle barbe lunghe. Oggi, magari restano esteriormente tali – per
quanto vada loro riconosciuto che sanno battersi come leoni – però si sono impratichiti nella comunicazione e nella politica, secondo i canoni occidentali. Insomma, anticipano perfettamente le visite all’estero di Karzai. Non sarà un summit facile, infatti, quello con Sarko.
I quattro morti di Kapisa portano a 82 il numero dei militari francesi caduti in Afghanistan dall’inizio del dispiego della forza internazionale alla fine del 2001. Attualmente nel Paese ci sono 3.600 soldati francesi
dopo che ne sono stati ritirati 400 a ottobre. Circa 130mila soldati stranieri, per due terzi americani, sono impegnati nel Paese. Le forze francesi hanno registrato nel 2011 le loro perdite più gravi dall’inizio del conflitto, con 26 soldati uccisi durante le operazioni militari, di cui 5 in un attentato suicida il 13 luglio. I militari francesi sono impegnati nella formazione dell’esercito afghano che dovrà sostituire la Nato dopo la partenza della forza internazionale prevista entro il 2014. Le monde è convinto che un even-
suoi discorsi è aumentato il tasso di orgoglio patriottico e perfino di autarchia economica con pubblici inviti a «comprare francese».
Anche l’insistenza sulla Tobin tax – ha annunciato che la legge sarà votata dal Parlamento anche se la Ue non si metterà d’accordo – è una mossa diretta più al fronte interno che alla solidarietà europea. E’ giusto che, come ha detto in tv, «si pagano le tasse su tutto e non vedo perché non le dovrebbero pagare le transazioni finanziarie», ma Sarkozy è lo stesso che non molto tempo fa avvertiva che la Tobin tax ha senso se la mettono tutti, altrimenti può fare un danno più grave del vantaggio perché gli investimenti si spostano dove i mercati sono più convenienti. La verità è che il Presidente e i suoi consiglieri sono sempre più ossessionati dai sondaggi e da una loro apparente, paradossale contraddizione. Se si guarda la torta delle intenzioni di voto, una quota tra il 24 e il 26 per cento va a Sarkozy, il socialista Hollande è sempre in testa con il 28 per
Dallo scontro con la Turchia alla Tobin Tax, gli analisti leggono ogni sua mossa in chiave elettorale
problemi e preoccupazioni». Ciò di cui non si vuole parlare è di un nuovo sentimento di patriottismo da parte dei militari afgani, i quali vorrebbero correre alla fine del 2014, per essere testimoni della smobilitazione degli eserciti stranieri.
Patriottismo perché questi stranieri, dalle uniformi così diverse dalle loro, non sono più visti come alleati e tanto meno amici. Patriottismo contro una coalizione vista sempre di più come un esercito invasore. Una prospettiva sbagliata e sempli-
cento, poi vengono Marine Le Pen, la candidata dell’estrema destra, con quasi il 20 per cento, e il centrista François Bayrou con circa il 15. Un risultato simile al primo turno manderebbe al ballottaggio Sarkozy contro Hollande. E qui i sondaggi lasciano di sasso l’attuale inquilino dell’Eliseo: nello scontro diretto, Hollande vincerebbe con il 55 per cento contro il 45. Come dire che una fetta degli elettori dell’estrema destra e del centro si sposterebbe a sinistra piuttosto che votare per Nicolas Sarkozy. Mentre, sulla carta, dovrebbe essere il contrario. Hollande potrebbe, magari, contare sui voti che andranno ai candidati minori dell’estrema sinistra che non gli consentirebbero, però, il balzo dal 28 per cento del primo turno alla maggioranza assoluta. Ecco che Sarkozy, per evitare che i suoi cento giorni finiscano con una disfatta, come quelli di Napoleone, sta lanciando segnali all’elettorato dei candidati che, almeno secondo le previsioni, non andranno al ballottaggio. Da quando è cominciata la Quinta Repubblica, tre Presidenti – Charles de Gaulle,
sempre impegnato nelle tensioni con l’India. È assai probabile che dell’imparruccato e tutto occidentale concetto di profondità strategica in Asia centrale non ne sappiano nulla. Non perché sono arretrati, ma perché le guerre tribali e claniche si combattono in altro modo, certo non muovendo i carri armatini come a Risiko. Detto questo, è il Pakistan oggi a fare da profondità strategica dei talebani. È il paradossale rovescio delle sorti della guerra. Così come è il grottesco rovescio delle alleanze il caso di Tagab.
François Mitterrand e Jacques Chirac – sono riusciti a raddoppiare il loro mandato; gli altri due – George Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing – si sono fermati a uno. Il gioco delle probabilità propone il rischio che si realizzi un 3 a 3 che Nicolas Sarkozy cerca di scongiurare con un attivismo che intreccia ammiccamenti a destra e a sinistra. A Parigi molti osservatori leggono ormai ogni sua mossa in chiave pre-elettorale. Dallo scontro con la Turchia di Erdogan sulla legge che sarà approvata lunedì dal Senato e che riconosce il genocidio armeno (in Francia la minoranza armena è numerosa e influente), al pellegrinaggio inatteso – era dal 1920 che un Presidente non lo faceva – compiuto il 6 gennaio a Domremy, nei Vosgi, il villaggio natale di Giovanna d’Arco che, suo malgrado, è diventata l’icona più sfruttata dal Front National di Marine Le Pen. Forse è soltanto dietrologia. Come per l’Afghanistan. Ma, di sicuro, l’Europa avrà tutto da perdere da un Nicolas Sarkozy prigioniero per tre mesi del “fattore P”.
li Stati Uniti stanno vivendo il loro canto del cigno, come molti sostengono? O gli americani si stanno preventivamente autosuicidando per il terrore che l’America sia entrata nella spirale del declino? È dalla risposta a queste due domande che potrebbe dipendere il futuro prossimo che verrà. Almeno secondo Robert Kagan, il neocon già autore di Paradiso e Potere (vi ricordate? Da una parte la kantiana Europa/Venere, che gode e ha goduto dei benefici della pace sociale garantita dal sistema di sicurezza americano, dall’altra gli Stati Uniti/Marte, cardine di questo sistema e detentore supremo del potere militare che ne permette la sopravvivenza) che a metà febbraio pubblicherà il suo ultimo libro, The world America made (il mondo che ha costruito l’America). L’ordine mondiale contemporaneo, questo è l’assunto, - caratterizzato da un numero di nazioni democratiche senza precedenti; una prosperità mondiale globale, nonostante la crisi, mai vista prima; e una pace duratura fra le grandi potenze – riflette i principi e i desiderata americani, ed è stato costruito
G
La fine dell’egemonia è una scelta, non un destino. Almeno non ancora
e preservato dalla potenza Usa sotto ogni profilo: politico, economico e militare. Se il potere americano cede il passo, l’intero ordine mondiale attuale comincerà a traballare, entrando a sua volta nell’orbita del declino. Finendo probabilmente per essere rimpiazzato da un altro tipo di ordine, evidente riflesso dei principi e desideri delle nuove super potenze. O forse no. Forse semplicemente collasserà, né più né meno come franò l’ordine mondiale europeo nella prima metà del Ventesimo secolo. Comunque sia, il credo comune a molti che il mondo come lo conosciamo ora possa sopravvivere alla disfatta statunitense, per Kagan è un abbaglio unico, un’illusione. Se l’America è entrata nel cono d’ombra della Storia, tutti ne pagheranno le spese.
Il punto è: quanto è reale questa percezione? A sentire gli analisti, da Fareed Zakaria a Thomas Friedman e Paul Kennedy, la crisi è alle porte, con gli Stati Uniti che hanno perso la loro strada e abbandonato quelle virtù che li hanno portati al successo, e gli americani tesi a guardare al dinamismo dei paesi emergenti con una profonda malinconia, quella del “come eravamo”per intenderci. Per carità, non che le paure siano peregrine: la crisi economica esplosa nel 2008 e la crisi del debito, associata alla crescita esponenziale della Cina, dell’India, del Brasile e della Turchia, sembra avvalorare la tesi declinista. Altri fanno risalire il triste giro di boa all’11 settembre, con il crollo del World Trade Center sotteso a testimoniare, quasi fisicamente, lo sfacelo imminente. E poi la guerra all’Iraq, lo scandalo Guantanamo, il pantano afghano: tutti colpi di piccone all’immagine stelle e strisce fi-
L’opinione del più famoso analista a stelle e strisce
XXI SECOLO Sarà ancora americano. Se lo vorremo L’ordine mondiale riflette ancora i nostri principi. Solo se cederemo il passo, traballerà. Fino al declino. L’ultimo saggio di Robert Kagan di Luisa Arezzo no a ieri conosciuta. Quel soft power capace di attirare come un magnete molti attori internazionali. Senza parlare dei fallimenti più o meno evidenti in politica estera: il mancato accordo di pace in
Medioriente, la perseveranza nucleare di Iran e Corea del Nord, il “no”ricevuto dalla Cina all’adeguamento del tasso di cambio dello yuan, le rivolte nel mondo arabo che stanno allontanando sempre
il saggio
di più gli Usa da quella parte di mondo. Insomma, i motivi per essere preoccupati Robert Kagan non li nega, ma li constualizza, in qualche modo li sterilizza con la Storia. Dicendo: i declinisti sono convinti che Pechino marcherà la fine dell’impero americano. Ma forse ci si dimentica che due decenni fa questo ruolo spettava al Giappone e che per cinquant’anni l’Unione Sovietica è stata sul punto di ribaltare le gerarchie mondiali e cancellare la supremazia di Washington. Anche gli arabi produttori di petrolio sono stati, negli anni Settanta, a un passo dal ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti. Addirittura c’è stato chi pensava che prima o poi sarebbe stata l’Europa a prendere il sopravvento. Già, perché ci si scorda che gli Stati Uniti hanno sofferto delle crisi prolungate alla fine del Novecento, negli anni Trenta in quelli Settanta, involuzioni che hanno fatto gridare alla perdita del primato e che invece hanno poi portato a tre dei periodi più brillanti dell’America nel Novecento: gli anni Dieci, i Quaranta e gli yuppissimi anni Otttanta.
Il “declinismo”, insomma, tema caro a Kagan già da inizio Duemila, torna di moda a cadenza quasi regolare e ultimamente ogni 10 anni. Alla fine degli anni Settanta l’establishment della politica estera era tutto preso da quelli che Cyrus Vance definì “i limiti del potere Usa”. Alla fine degli anni Ottanta lo studioso Paul Kennedy predisse il collasso imminente del potere americano a causa “dell’iper-estensione imperiale”. Alla
fine degli anni Novanta Samuel P. Huntington parlava dell’isolamento americano e della “superpotenza solitaria”. E infine adesso già si parla del “mondo post-americano”. Il riferimento, in questo caso, è a Fareed Zakaria, vittima illustre del declinismo, che solo nel 2004 descriveva gli States come un faro unipolare che mai si era visto eccezion fatta per Roma nei secoli d’oro del suo impero, e che meno di quattro anni dopo dava alle stampe The post american world (peraltro oggi in ristampa rivisto e aggiornato). E tuttavia, per Kagan, a ben guardare ci sono poche prove a carico della fine degli Stati Uniti. È vero che la ruota panoramica più alta del mondo è a Singapore e il casinò più grande a Macao. Ma se guardiamo a indicatori di potere più seri, gli Stati Uniti non sono in declino, nemmeno relativamente alle altre potenze. Per quanto riguarda il potere militare, poi, quello americano è impareggiabile. Gli eserciti russo e cinese stanno crescendo, è vero, ma sta crescendo anche l’esercito americano che continua ad essere tecnologicamente superiore ad entrambi. La potenza russa e quella cinese stanno crescendo relativamente ai loro vicini e nelle loro regioni, e questo causerà problemi strategici, ma come scrive George Friedman, acutissimo direttore di Stratfor, non controllano gli oceani, lo spazio e il commercio come gli Usa. Non guidano un sistema di alleanze internazionali che raggruppa il 70 per cento del potere economico mondiale. A ben vedere, Russia e Cina, non vanno oltre la Bielorussia e la Corea del Nord. Ce ne vuole di tempo prima che possano trasformarsi in dei reali competitor, ammesso che ci
riescano visto che l’economia cinese è comunque sì in crescita (anche se il suo tasso di sviluppo si sta riducendo) ma presto dovrà fare i conti con l’invecchiamento (e il sostentamento) della sua miliardaria popolazione.
È vero, dai sondaggi globali risulta che l’immagine degli Stati Uniti è senza dubbio peggiorata, ma gli effetti concreti di questo peggioramento non sono chiari. Perché l’immagine dell’America di oggi è molto meno tetra di quella dell’America degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta con la guerra in Vietnam, la rivolta di Watts, il massacro di My Lai, l’assassinio di John F. Kennedy, Martin Luther King e Bobby Kennedy e il Watergate. «Parecchi declinisti, scriveva Kagan a pochi giorni dalla vittoria di Barack Obama alle presidenziali, si im-
Il futuro senza Washington potrebbe essere dominato dagli emergenti maginano un passato mitico in cui il mondo ballava al ritmo delle regole americane. E dappertutto cresce la nostalgia per i meravigliosi anni del Secondo Dopoguerra, dominati dal potere americano». Ma tra il 1945 e il 1965 gli Stati Uniti patirono una disastro dopo l’altro: la “resa” della Cina al comunismo, l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, la sperimentazione della bomba all’idrogeno da parte dei sovietici, le agitazioni del nazionalismo post-coloniale in Indocina – e ciascuno di questi eventi si dimostrò
A destra, Clinton assieme a Rabin e Arafat; da sinistra: Khomeini, la prima pagina di un quotidiano Usa nell’ottobre del ’29, madre e figlio durante la guerra di Corea, soldati feriti in Vietnam, Martin Luther King, Jawaharlal Nehru. In alto, Barack Obama, l’attacco al Wtc, un ingresso di Guantanamo e un imprenditore cinese felice alla borsa di Hong Kong
21 gennaio 2012 • pagina 21
una sconfitta di prim’ordine, che il potere americano non poté né controllare né gestire con successo.
Niente di quello che è accaduto nei passati dieci anni, eccezion fatta per l’11 di settembre, scrive Kagan in un saggio anticipatore del suo libro e appena uscito sulle pagine di The New Republic, può pareggiare il danno fatto alla posizione degli Stati Uniti nel mondo di allora. Facciamo un paragone fra l’Iraq e l’Afghanistan con le sconfitte strategiche subite durante la Guerra Fredda. Negli anni Cinquanta e Sessanta il movimento nazionalista panarabo cancellò i governi pro-americani e aprì le porte a un coinvolgimento sovietico senza precedenti che includeva una quasi alleanza tra Mosca e l’Egitto di Gamal Abdel Nasser e la Siria. Nel 1979 il pilastro centrale della strategia americana venne meno quando lo Shah pro-americano venne deposto dalla rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini. Quegli eventi produssero un cambiamento radicale negli equilibri strategici di cui gli Stati Uniti stanno ancora soffrendo le conseguenze. Dopo la guerra in Iraq non si è verificato niente di simile. Forse allora sarebbe bene mantenere un po’di prospettiva. Il pericolo del declinismo di oggi non sta nel fatto che sia vero. Sta nel fatto che sia temuto. Una paura capace di frenare e azzoppare il dinamismo, la competitività, la capacità di rischiare, l’immensa flessibilità, la volontà di cambiare, di inventare e di crescere, che sono i veri punti di forza dell’America e del popolo americano. Scrive Kagan: «Il declino è una scelta, non un destino ineluttabile. Almeno non ancora. Gli imperi e le grandi potenze brillano e cadono, l’unica questione è quando». Un “quando” che dipende dal popolo americano e non dalla Cina o dal Brasile. Ma anche, e questo è evidente, da tutti noi.Tesi a guardare oltre senza aver affatto capito dove andare.
parola chiave WELFARE
La ricerca della felicità
Conciliare uguaglianza e libertà è sempre stato un problema. Ma oggi lo scenario è cambiato e occorre una nuova comunità politica sussidiaria che sappia essere alternativa al modello di società basato sull’asse individuo-Stato. Ecco quali potrebbero essere i suoi pilastri…
di Sergio Belardinelli volte con successo, altre volte esponendosi al rischio di impantanarsi nel più radicale individualismo e nella più radicale burocratizzazione, la politica moderna, incarnata nei meccanismi e nella cultura del modello europeo-occidentale di welfare state, ha sempre dovuto fare i conti con il problema della conciliazione di uguaglianza e libertà, ora esaltando l’individualismo e il mercato (versione liberale), ora la solidarietà e lo Stato (versione socialdemocratica). Ma oggi lo scenario risulta essere radicalmente cambiato. Sulla scena pubblica stanno facendo il loro ingresso soggettività e bisogni nuovi, non necessariamente riconducibili al binomio Stato-mercato. Il referente simbolico delle nuove politiche sociali non è più quello moderno collegato principalmente ai rischi «materiali» della povertà, della malattia ecc., ma diventa sempre più un referente di tipo «immateriale», culturale, legato soprattutto alle «capacità», al «senso del be-
A
nessere», in una parola: alla qualità della vita. Il fatto poi che in questi ultimi tempi si sia verificato uno sviluppo notevole del cosiddetto «terzo settore», ossia di un privato sociale capace di fare impresa sociale, senza essere né Stato né mercato, costituisce per molti versi una riprova ulteriore della crisi della centralità del rapporto individuo-Stato. Sembra insomma abbastanza evidente come una società che si regola secondo quel rapporto tenda, da un lato, ad atomizzare gli individui, impoverendone le capacità solidaristico-comunitarie, dall’altro a burocratizzare lo Stato, rendendolo sempre più invadente.
Emerge pertanto il bisogno di una nuova comunità politica che, in quanto comunità sussidiaria, sappia essere alternativa al modello di società basato sull’asse individuo-Stato; un’alternativa, i cui pilastri potrebbero essere enunciati nel modo che segue: a) i singoli individui, le singole persone, rappresen-
tano il valore più alto della comunità politica; b) in quanto uomo, l’uomo ha dei diritti (diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà, all’educazione dei figli) che vengono prima dello Stato e ne fondano la legittimità; c) essendo libere, le persone debbono poter perseguire liberamente i loro interessi, secondo criteri di benessere che essi stessi scelgono; d) non essendo la persona «un’isola», i legami con gli altri, gli usi e i costumi della comunità nella quale siamo nati incidono profondamente sulla nostra identità personale e sulla nostra capacità di essere liberi e felici; e) abbiamo dunque dei doveri nei confronti del bene comune, che si esprimono come reciprocità e sussidiarietà: dobbiamo promuovere le capacità dell’altro, favorire il suo empowerment, nella fiducia che anche l’altro farà lo stesso con noi. Quanto allo Stato, e) secondo lo stesso principio di sussidiarietà, anziché sostituirsi alle persone singole, alle famiglie o alle associazioni, deve
21 gennaio 2012 • pagina 23
per saperne di più
hanno detto Benedetto XVI Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità.
Ronald Dworkin I diritti presi sul serio Il Mulino Pierpaolo Donati (a cura di) Lo stato sociale in Italia Mondadori
John Rawls L’esistenza di concezioni definite della società e della persona è elemento essenziale di qualsiasi concezione della giustizia e del bene.
Maurizio Ferrera Le trappole del welfare Il Mulino
Ronald Dworkin La maggior parte delle leggi - quelle che definiscono e rendono effettiva la politica sociale, economica ed estera - non può essere neutrale. Deve formulare in gran parte l’opinione della maggioranza per quel che riguarda il bene comune.
Alberto Quadrio Curzio Sussidiarietà e sviluppo: paradigmi per l’Europa e per l’Italia Etas Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e solidale in www.welfare.gov.it
Maurizio Ferrera La strategia, pressoché obbligata, per rispondere ai nuovi bisogni e alle nuove domande è quella della ristrutturazione interna: lo spostamento di risorse dai vecchi ai nuovi rischi e dai sovraprotetti a quelli sottoprotetti.
Sergio Belardinelli (a cura di) Welfare Community e sussidiarietà Egea
aiutarle a realizzare le loro finalità; esso, quindi, f) non rappresenta più la grande macchina che dispone e realizza il «dover essere» della società; rappresenta piuttosto il principio ordinatore di una pluralità di istanze che si generano spontaneamente e autonomamente nella società stessa, rispetto alle quali tuttavia, per i motivi che dirò, lo Stato, proprio se vuole essere veramente sussidiario, non può essere nemmeno del tutto indifferente, visto che tra le diverse forme di vita sociale e individuale dovrà privilegiare e promuovere quelle che a loro volta promuovono determinati capitali sociali, rispetto a quelle che semplicemente li usurano.
Il nostro stato sociale, almeno fino a oggi, ha privilegiato un criterio allocativo di tipo, diciamo così, individualistico e paternalistico; nella variante liberale si è posto maggiormente l’accento sulla libertà, in quella socialdemocratica sull’uguaglianza, ma in entrambi i casi i destinatari delle politiche sociali sono stati sostanzialmente i singoli individui, con riguardo magari ai loro redditi, ma non certo ai loro stili di vita o al tipo di benessere cui aspirano. Del resto, secondo la vulgata dominante, sarebbe in contrasto con il pluralismo della nostra società privilegiare uno sti-
Will Smith nel film “La ricerca della felicità”. Sopra, “San Martino divide il mantello con un povero” di Simone Martini
Autonomia, responsabilità, fiducia, reciprocità, disponibilità ai sacrifici in favore degli altri, senso del dono e della gratuità sono risorse indispensabili a una società civile e pluralista
le di vita anziché un altro, una forma familiare anziché un’altra, poniamo, una coppia eterosessuale con figli, anziché una coppia omosessuale. Tuttavia mi sembra che questo modo di pensare incominci a scricchiolare pericolosamente sotto il peso della realtà. La crisi del welfare state, la grande crisi economica nella quale siamo
immersi, l’importanza acquisita in questi ultimi anni dal cosiddetto «terzo settore» e l’urgenza di rivedere pressoché in toto le nostre politiche sociali, stanno collocando il principio di sussidiarietà in una posizione sempre più rilevante nel lessico, non soltanto delle politiche sociali, ma in quello sociopolitico in generale.
Poco a poco ci stiamo rendendo conto di quanto sia importante promuovere a tutti i livelli della vita sociale il senso di una reciprocità, percepita ormai come la chiave decisiva per dissolvere la patina di autoreferenzialità che sembra essersi pericolosamente depositata su gran parte delle parole della nostra politica, a cominciare dalla parola autonomia e dalla parola libertà. Per non parlare poi dell’importanza che vanno assumendo i cosiddetti «capitali sociali». Presi tutti insieme, questi segnali indicano a mio avviso come, senza nulla togliere alla centralità della persona umana, anzi per a valorizzarla pieno, si faccia sempre più forte l’impulso a uscire dalla semantica angusta dell’individualismo autoreferenziale, della neutralità etica e del conseguente relativismo. Vediamo farsi avanti una semantica diversa, attenta soprattutto alle «relazioni sociali» e capace di guardare all’uomo nella sua incommensurabile dignità, certo, ma anche a partire dai suoi legami e dalle sue responsabilità di fronte ai propri simili. Il tipo di relazione che intrattengo con l’altro, in senso molto lato, diventa in sostanza il vero banco di prova della mia autono-
mia e della mia libertà, le quali trovano nell’altro non più soltanto il limite, ma anche la condizione che le rende autenticamente possibili. Estremizzando un po’, si potrebbe dire che abbiamo bisogno di una comunità che, a tutti i livelli, sappia promuovere autonomia attraverso la sussidiarietà e sussidiarietà attraverso l’autonomia. Si tratta pertanto di una comunità certamente pluralista, ma non relativista, né disposta a rinunciare al fatto che certe forme sociali o certi stili di vita vengano privilegiati rispetto ad altri. Del resto, checché ne dicano i fautori della neutralità etica, non è affatto vero che il nostro pluralismo sia compatibile con tutti gli stili di vita. È vero piuttosto il contrario, e cioè che una cultura e istituzioni politiche veramente pluraliste potranno mantenersi solo a condizione che il pluralismo non diventi relativismo.
Autonomia, libertà, senso di responsabilità, di fiducia, di reciprocità, disponibilità a farsi carico di qualche sacrificio in favore degli altri, senso del dono e della gratuità, tanto per fare qualche esempio, sono risorse, senza le quali una società civile degna del nome, quindi anche pluralista, non sarebbe neanche immaginabile. È dunque nell’interesse della società promuoverle. E occorre farlo in una prospettiva tale per cui, come dice la Caritas in veritate, la società sia pensata in vista «del bene delle persone che ne fanno parte» e delle relazioni che meglio valorizzano e attualizzano questo bene.
ULTIMAPAGINA Il regista, attore e produttore italiano è stato nominato ieri presidente della giuria del Festival francese
Nanni Moretti, palombella a di Martha Nunziata arà l’ottavo italiano in 65edizioni, il primo dopo 22 anni dalla presidenza di Bernardo Bertolucci, nel 1990. Nanni Moretti sarà il presidente della giuria del Festival di Cannes, che quest’anno si svolge dal 16 al 27 maggio. Si tratta di un ritorno a un presidente europeo dopo due anni di dirigenza americana (Robert De Niro nel 2011, Tim Burton nel 2010): nel 2009, infatti, a presiedere il festival era stata Isabelle Huppert. E nel 2008 l’americano Sean Penn (anno dell’ultimo trionfo italiano della Croisette, col Divo di Paolo Sorrentino vincitore del premio speciale della Giuria). «È una gioia, un onore e una grande responsabilità presiedere la giuria del festival del cinema più prestigioso del mondo, che si svolge in un Paese che ha sempre guardato al cinema con grande attenzione e rispetto», ha commentato Moretti nell’accettare il ruolo. «Come membro del pubblico conservo felicemente la stessa curiosità che avevo nella giovinezza e quindi per me è un grande privilegio imbarcarmi in questo viaggio nel cinema globale contemporaneo», ha detto Moretti, che si inserisce nel novero dei pochissimi registi italiani ai quali è stato riservato l’onore della “Croisette” dal lato della presidenza della giuria: la prima fu Sofia Loren, scelta nel 1966, poi Alessandro Blasetti nel 1967, Luchino Visconti nel 1969, Roberto Rossellini nel 1977, Giorgio Strehler nel 1982, Ettore Scola nel 1988 e il già ricordato Bertolucci, ancora fresco dei successi per l’Ultimo Imperatore, nel 1990. Moretti si troverà a giudicare, con buone probabilità, Big House, il nuovo film di Matteo Garrone, il premiato regista di Gomorra, e l’atteso ritorno dietro la macchina da presa proprio di Bernardo Bertolucci, regista di Io e te. La notizia della nomina di Moretti arriva quasi come una rivincita del cinema italiano, dopo l’esclusione dalla corsa agli Oscar del prossimo 26 febbraio dell’opera di Crialese Terraferma, escluso dalla shortlist delle 9 pellicole che si contenderanno i cinque posti disponibili. L’epopea degli immigrati non ha fatto breccia nei giurati dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences.
S
CANNES della giuria al Festival già nel 1997, ha portato sei volte a Cannes i suoi film, aggiudicandosi la Palma d’Oro nel 2001 con La stanza del figlio. L’anno scorso aveva presentato con grande successo Habemus Papam, scelto come pellicola più importante del 2011 dalla storica rivista francese dei Cahiers du Cinéma, ma in Italia fortemente criticato soprattutto dalla Chiesa, perché il film racconta i giorni successivi alla morte del vecchio Papa.
Il prescelto dal Conclave, il cardinal Melville (uno straordinario Michel Piccoli, ndr) è però preda di dubbi e fortissime ansie e per questo cade in depressione per il timore di non essere in grado di salire degnamente al soglio pontifi-
«È una gioia, un onore e una grande responsabilità presiedere la rassegna cinematografica più prestigiosa del mondo», ha commentato ieri Nella categoria “Miglior film straniero”, perciò, non figurerà nessuna pellicola italiana, ennesima delusione per il cinema nostrano, dopo Gomorra di Matteo Garrone, Baaria di Giuseppe Tornatore e La prima cosa bella di Paolo Virzì, pellicole di riconosciuto valore che non hanno però trovato il gradimento degli americani. L’ultima nomination italiana agli Oscar risale al 2006, con La bestia nel cuore di Cristina Comencini, mentre l’ultimo successo è targato Roberto Benigni: nel 1999 l’attore toscano ricevette la statuetta dalle mani di Sofia Loren, per il suo La vita è bella. Moretti, regista e attore romano, è un habitué della Croisette: membro
cio. Il Vaticano chiama allora uno psicanalista, il professor Brezzi, perché assista Melville e lo aiuti a risolvere i suoi problemi. Nanni Moretti è molto apprezzato per il suo stile sempre molto ironico, arguto, attento alla politica, abile nel registrare le mutazioni della società, con accanito e coerente moralismo e a volte capace anche di prevedere il futuro. Gli argomenti cari a Moretti e che si accompagnano in tutti i sui film sono la crisi della generazione post-sessantottina, la mediocrità della classe dirigente, il masochismo della sinistra, la volgarità della televisione e l’indifferenza cinica della gente. E per questo che la nomina di Moretti arriva al culmi-
ne di una carriera cominciata nel 1976, con il suo primo lungometraggio Io sono un autarchico, e proseguita sempre su binari alternativi, ma mai paralleli: attore, regista, produttore, sceneggiatore, Moretti ha fuso insieme sul grande schermo esperienze di vita quotidiana, attingendo alle sue passioni (la pallanuoto, amore sportivo giovanile, è la protagonista principale di Palombella Rossa) e avvenimenti di attualità politica. Il suo alter ego cinematografico è Michele Apicella, che si dibatte tra nevrosi e disagi giovanili in Sogni d’oro, che nel 1981 si aggiudica il Leone d’Oro, premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia. La dimensione internazionale arriva, invece, nel 1985, con La messa è finita, che vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino. In onore del suo dolce preferito, la Sacher-Torte nel 1987 fonda insieme all’amico Angelo Barbagallo la “Sacher Film” e produce il primo film di Carlo Mazzacurati, Notte italiana, avviandosi a dimostrare anche in questa veste il suo impegno per favorire in Italia un cinema migliore. Come attore si aggiudica un David di Donatello per Il portaborse e un Leone d’oro per lo struggente La stanza del figlio, nel quale affronta conflitti e distacchi all’interno di una famiglia. Non più da figlio, ma come padre. La passione per la politica lo spinge ad inventarsi i Girotondi prima di tornare, nel 2006, al cinema con Il Caimano, alias Silvio Berlusconi, un film da lui diretto e in cui si ritaglia una parte secondaria ma tutt’altro che marginale. Nel 2007, invece, l’ultima performance di attore, nel film di Antonello Grimaldi Caos Calmo, tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi. Il mondo del cinema e non solo gli augura un buon lavoro e chissà che la sua presenza nella giuria non sia un portafortuna per gli italiani eventualmente in concorso in questa 65ma edizione.