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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 28 GENNAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Poca retorica e molti richiami alle difficoltà di oggi per ricordare la “liberazione” del lager di Auschwitz

Non di solo euro vive l’uomo Napolitano ricorda la Shoah: «L’Europa non smarrisca i suoi valori»

Celebrando la Giornata della Memoria,il Presidente si commuove: «L’antisemitismo è ancora vivo. Guai a dimenticare le radici della libertà».Monti: «Dalle crisi si esce anche coltivando i nostri ideali» Via alle semplificazioni. Bene la vendita dei bot: crollano gli interessi

Da oggi tutto è più semplice: la Rete contro la burocrazia. Lo spread scende sotto i 400 Documenti on line, pagamenti elettronici, nuove regole per l’apprendistato, ulteriori facilitazioni per i disabili: il governo continua la sua corsa e i mercati gli danno ragione

ROMA. Bentornata memoria! Tra i tanti effetti benefici della pacificazione politica di questi mesi c’è sicuramente anche l’uscita della memoria, della coscienza del nostro passato dal cono d’ombra nel quale era stata cacciata negli anni scorsi. Così, per esempio, ieri sono state meno ambigue e meno retoriche degli anni precedenti le celebrazioni in occasione della Giornata della Memoria. Con il presidente Napolitano che si commuove parlando dei rischi ancora forti del negazionismo o il premier Mario Monti che fa appello alla Storia che deve insegnarci ad essere ancora più coraggiosi. a pagina 2

Errico Novi e Marco Scotti • pagine 4 e 5

Finirà tutto con un abbraccio o siamo all’addio al bipolarismo?

Dove porta lo scontro Pdl-Lega di Enrico Cisnetto i sono molte ragioni per considerare “a salve” le ultime “sparate” di Bossi, che fanno immaginare un divorzio definitivo da Berlusconi. Intanto perché così il leader della Lega ha sempre fatto: urla da comizio e pragma-

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LE COLPE DELL’OCCIDENTE

di Gualtiero Lami

tismo nei fatti. Poi perché la pallottola che questa volta ha messo in canna – «faccio saltare la giunta Formigoni» – ne offre due al Cavaliere, una per la testa di Cota e l’altra per quella di Zaia. a pagina 4

L’Odio genera mostri. E nelle nostre società ce n’è ancora tanto di Rocco Buttiglione l 27 gennaio del 1945 i soldati russi entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz e il mondo dovette prendere atto dell’orrore che lì si era compiuto. Nell’arco di pochi anni un intero popolo è stato quasi completamente sterminato, compresi vecchi, donne e bambini per l’unica colpa di essere membri del loro popolo. Si tratta, per di più, di un popolo particolare. È un popolo che da secoli vive in mezzo a noi ed è diventato parte del nostro popolo. a pagina 3

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Le primarie dei repubblicani a una svolta

Una strategia comune da Damasco a Teheran

Nell’Occidente i bugiardi hanno perso i freni

Romney, i mormoni vogliono il loro record

Assad, perché trattare con un tiranno morente?

Il concetto di onestà sul viale del tramonto

I (pochi) vizi e le (tante) virtù del candidato che potrebbe diventare la sopresa anti-Gingrich

Non basta fare la voce grossa, occorre sostenere gli avversari di Ahmadinejad e del siriano

La fiducia nell’altro traballa,“dare la parola” non basta più: così entra in crisi la convivenza

Maurizio Stefanini • pagina 18 EURO 1,00 (10,00

Michael Ledeen • pagina 20 CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

19 •

WWW.LIBERAL.IT

William Damon • pagina 22 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 28 gennaio 2012

Qui sopra, l’arrivo dei deportati ebrei al campo di concentramento di Auschwitz all’inizio del 1944. A destra, il presidente Napolitano che ieri si è commosso ricordando una sua visita al lager fatta vent’anni fa. A fronte, Primo Levi, per oltre un anno recluso ad Auschwitz: da quell’esperienza nacque «Se questo è un uomo»

Il nuovo clima politico dà un senso inedito alle cerimonie per il 27 gennaio

La nostra vera moneta sono i valori

Napolitano parla della Shoah e si commuove «Dobbiamo combattere il negazionismo: il razzismo non è vinto, è ancora tra noi» E Monti: «La storia ci insegna il coraggio» di Gualtiero Lami

ROMA. Bentornata memoria! Tra i tanti effetti benefici della pacificazione politica di questi mesi c’è sicuramente anche l’uscita della memoria, della coscienza del nostro passati dal cono d’ombra nel quale era stata cacciata negli anni scorsi. Così, per esempio, ieri sono state meno ambigue e meno retoriche degli anni precedenti le celebrazioni in occasione della Giornata della Memoria che, ricordiamo, è stata istituita per non dimenticare gli orrore del nazismo, proprio nella ricorrenza della liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’Armata rossa.

Ebbene, ieri ha colpito sicuramente l’immaginario degli italiani il volto commosso del presidente Napolitano che, al Quirinale, davanti a una platea attenta di studenti, ha ripetuto che «la scuola della memoria deve essere un antidoto a quei rigurgiti di negazionismo e antisemitismo, di intolleranza e di violenza

che, per quanto marginali, sono da stroncare sul nascere». Naturalmente il presidente ha inquadrato il tema in prospettiva europea, invitando a non dimenticare i valori della Ue: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. «L’Europa è questo», ha detto il capo dello Stato. E non bisogna dimenticarsene perché distratti dalla crisi finanziaria ed economica: «Dobbiamo fare i conti con queste assillanti realtà, ma non perdiamo di vista il senso e i valori della costruzione europea». A scansare ogni equivoco di retorica, poi, Napolitano si è commosso di nuovo ricordando il suo viaggio ad Auschwitz, vent’anni fa, con Giovanni Spadolini, in rappresentanza del Parlamento italiano. Con la voce rotta, il presidente ha sospeso il suo discorso per qualche istante, per poi riprendere. La Shoah è stata una «tragedia dell’Europa», ha aggiunto, ed occorre vigilare «contro ogni ricaduta nel nazionalismo, nella ricerca del nemico, nel rifiuto del diverso». A questo punto, il presidente ha ripreso le parole di Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, che aveva definito i negazionisti i «nuovi nazisti» e ricordato come la giornata debba essere un’occasione di riflessione con-


Attenti, tra noi c’è ancora tanto Odio L’orrore della Shoah ha radici antiche nella cultura dell’Occidente. Non del tutto recise di Rocco Buttiglione l 27 gennaio ricorre la giornata della memoria. Il 27 gennaio del 1945 i soldati russi entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz ed il mondo dovette prendere atto dell’orrore che lì si era compiuto. Nell’arco di pochi anni un intero popolo è stato quasi completamente sterminato, compresi vecchi, donne e bambini per l’unica colpa di essere membri del loro popolo. Si tratta, per di più, di un popolo del tutto particolare. È un popolo che da secoli vive in mezzo a noi ed è diventato parte del nostro popolo. Si tratta di compagni di scuola, di colleghi sul posto di lavoro, di vicini di casa, di amici e di parenti, talvolta di mogli o di mariti. Improvvisamente tutti questi sono divenuti non uomini, da perseguitare e da uccidere come animali nocivi, come bestie. Gli ebrei erano un altro popolo ma erano anche il nostro stesso popolo. Di un ebreo italiano o romano è assai difficile dire se sia più ebreo o più italiano o romano. Chi può dire di essere più romano di Elio Toaff?

I

Nel momento in cui ricordiamo l’orrore non possiamo non prendere sul serio la domanda: come è stato possibile questo? Certo, la responsabilità penale è personale e non la si può certo estendere a popoli interi. I nomi di molti dei carnefici (non tutti) sono noti. Esiste però anche un’altra responsabilità, una responsabilità morale e storica che coinvolge in qualche misura tutti noi per avere fatto (o non fatto) qualcosa che l’orrore lo ha preparato o almeno non lo ha impedito. I cristiani hanno alimentato per secoli un sentimento antiebraico (non antisemita) che certo non ha chiamato allo sterminio degli ebrei ma ha cercato la discriminazione, ha favorito il pregiudizio, ha alimentato il sospetto, la diffamazione, l’odio. È stato il primo gradino della piramide al cui culmine c’ è l’olocausto. La cul-

tura laico/ positivista della fine del secolo XIX ha trasformato la teoria scientifica di Darwin in una ideologia scientista, in una generale visione filosofica biologistica che vede la storia come lotta di razze in cui trionfa alla fine il più forte ed il più debole viene sterminato. A questa visione si riallaccia, attraverso Haeckel, Chamberlein e Gobineu il razzismo nazista. In Italia, per la verità, l’idealismo di Croce e Gentile, in Italia, hanno opposto una forte resistenza a quelle tendenze e questo è uno dei motivi della minore

del risentimento e dell’odio. Masse popolari impoverite, traumatizzate dal ricordo dei massacri e delle privazioni subite nelle trincee, sono state mobilitate alla ricerca di un capro espiatorio sul quale scaricare le proprie frustrazioni ed il proprio desiderio di rivalsa e di vendetta. Per questo ruolo gli ebrei erano i più adatti. È bene riflettere su questi meccanismi perché la tentazione di mobilitare per fini politici quel fondo di invidia, rabbia, risentimento che c’ è comunque in tutte le società è sempre a portata di mano. Oggi questo

In queste occasioni si deve riflettere sulle responsabilità della storia, ma è importante anche ricordare tutti quegli uomini giusti (da padre Kolbe a Korchak) che scelsero di sacrificare la propria vita in cambio della salvezza di quella degli altri virulenza del razzismo italiano rispetto a quello tedesco.

Ancora più importante è stato forse il fatto che la nostra vita pubblica è stata dominata, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, dalla politica

divisa che abbracci anche le altre vittime di quel terribile periodo storico. Non meno netto il messaggio, con un preciso richiamo alle radici dell’Europa, diffuso da Mario Monti: «Il momento che Italia ed Europa stanno vivendo è molto delicato e in questo contesto, più che mai, occorre vigilare perché rigurgiti di antisemitismo, xenofobia, intolleranza non intacchino i nostri valori fondanti, vanificando lo sforzo che tutti insieme stiamo compiendo per consolidare la nostra convivenza civile». Poi Monti ha centrato la sua attenzione sulla ricorrenza storica in senso stretto, «che vede la comunità ebraica dolorosamente protagonista nel ricordo della disumana criminalità nazista che ha generato la tragedia della Shoah». E proprio il ricordo della Shoah, ha sottolinea il premier, è alla base dei valori della Ue: «Il nostro Paese ha tratto insegnamento dagli errori e dagli orrori del passato e da questi ha costruito la sua identità sui valori di dignità umana, libertà, democrazia e uguaglianza: gli stessi valori sui quali è nata e si è rafforzata l’Unione europea». E oggi più che mai, secondo il presidente del Consiglio, «la storia e la sua memoria chiedono l’impegno ed il coraggio di tutti ad ogni livello». Infine, Monti ha ricordato di avere avuto già modo di dire che «la crisi (ogni crisi, aggiungo) per essere superata in tutti i suoi gravi profili richiede di guardare

avviene molte volte in Europa sotto la copertura dell’antisionismo mentre in altre parti del mondo la violenza oggi viene indirizzata prevalentemente contro i cristiani.

Accanto alle ragioni dell’Olocausto ed alle colpe, alle omissioni ed alle insufficienze che lo hanno reso possibile è bene anche ricordare i giusti che hanno rifiutato la complicità con il male, che hanno agito anche con rischio personale per aiutare le vittime. Ricordiamo i conventi di clausura, le case parrocchiali e le opere cattoliche che hanno aperto le porte ai perseguitati e la grande opera di sostegno e di aiuto voluta e protetta da Pio XII. Ricordiamo le tante donne ed i tanti uomini che hanno sostenuto e difeso i loro amici ebrei o anche i perseguitati che non conoscevano per semplice sentimento di comune umanità. Ricordiamo anche quanti fra le vittime hanno saputo sostenere anche nella sofferenza estrema i loro compagni e dare una particolare testimonianza di dignità. Ricor-

in avanti con coraggio, con speranza, ma anche di riscoprire le proprie radici; lo ribadisco oggi, anche con maggiore forza». Monti ha poi ricordato di avere avuto già modo di dire che «la crisi (ogni crisi, aggiungo) per essere superata in tutti i suoi gravi profili richiede di guardare in avanti con coraggio, con speranza, ma anche di riscoprire le proprie radici; lo ribadisco oggi, anche con maggiore forza. La memoria della Shoah». E ha conclu-

Un’altra dichiarazione importante è stata resa dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il quale ha voluto ricordare che «le leggi razziali sono una pagina dolorosa per l’Italia, che con esse si rese complice della Shoah. Quelle leggi restano una macchia indelebile per il nostro Paese». Perciò, ha concluso Fini, «celebrare la giornata della memoria è giusto perché si tenga sempre presente

Ad Adorno ha risposto anche Primo Levi, un prigioniero di Auschwitz, un chimico torinese, uno scrittore, un poeta. Ha scritto: «Voi che vivete sicuri Nelle vostre tepide case Voi che trovate tornando a sera Un pasto caldo e volti amici Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì e per un no. Considerate se questa è una donna Senza capelli e senza nome Senza più forza per ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato Vi comando queste parole Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via Coricandovi alzandovi. Ripetetele ai vostri figli Stando in casa, andando per via. O vi si sfaccia la casa La malattia vi impedisca I vostri figli torcano il viso da voi».

l’Olocausto, ma soprattutto perché si immettano nella società italiana gli antidoti per evitare nuove forme di discriminazione, di razzismo, di odio tecnico e di odio religioso». Mentre, nel campo di concentramento di Buchenwald, dopo aver ascoltato i racconti di alcuni ex deportati anche il presidente del Senato Schifani si è commosso e ha ripetuto: «Non possiamo, non dobbiamo dimenticare e non dimenticheremo. Abbiamo il dovere nei confronti dei giovani di trasmettere questi principi». Da segnalare infine, tra le tante, una dichiarazione del leghista Zaia, governatore del Veneto: «Il giorno della memoria non è un rito ripetitivo - ha detto - ma un’occasione per dire che chi tocca un ebreo tocca ognuno di noi. In particolare in questi tempi di crisi in cui si respira un clima non positivo». Poi, saltando a un tema completamente diverso, Zaia ha aggiunto: «Non c’è solo il rischio del negazionismo fra i giovani. Un esempio di questo lo ha fornito in queste ore il settimanale tedesco Der Spiegel, che riferendosi alla tragedia del Giglio afferma che gli italiani sono codardi e non sono una razza. Questo è inaccettabile». Evidentemente ieri Zaia aveva letto il Giornale della famiglia Berlusconi che, con discutibile “tempismo”, titolava a tutta pagina: «A noi Schettino, a voi Auschwitz». Evidentemente non a tutti è ternata la memoria.

Polemiche per un titolo del “Giornale” contro i tedeschi: «A noi Schettino, a voi Auschwitz». Ma Zaia approva: «Anche questo è razzismo, non solo quello nazista» so spiegando che «è la parte costitutiva di queste radici, ancoraggio che impedisce di abbandonare la meta, che resta sempre quella della pace, della giustizia, della libertà per ogni uomo e per ogni popolo».

diamo san Massimiliano Maria Kolbe che ha dato la vita nella cella della fame per salvare un altro prigioniero, padre di una famiglia numerosa. Ricordiamo Janus Korchak che, potendo salvarsi, scelse di rimanere con i bambini che gli erano affidati perché potessero morire con dignità. T.W. Adorno si domandava se dopo Auschwitz la poesia fosse ancora possibile. Gli ha risposto Giovanni Paolo II, che ha detto che Kolbe, e altri uomini come lui, hanno capovolto il significato di Auschwitz. Il campo era stato costruito per mostrare che un potere totale può fare dell’ uomo quello che vuole, ridurlo ad una massa di carne urlante e dolorante, impadronirsi della sua anima. Kolbe (e Korczak) hanno mostrato come invece l’uomo possa mantenere la sua dignità attraverso l’amore ed il dono di sé anche nelle condizioni più difficili costruite proprio per rendere impossibile l’amore e distruggere la dignità.


Nuova riunione-fiume del consiglio dei ministri. È la volta della semplificazione, dai certificati alle regole degli appalti

Elementare, Monti

Il governo continua ad ammodernare il Paese: la velocità della Rete sarà il vero scudo dei cittadini contro le lentezze della burocrazia di Errico Novi

ROMA. Disarmante. Al punto da indurre calembour cervellotici. Mario Monti introduce, si potrebbe dire, la “semplificazione della semplificazione”. Rende cioè agile, velocissimo, un processo che altri hanno vanamene provato a compiere. Se l’attuale premier centra l’obiettivo di dare immediata effettività a forme di modernizzazione quali l’Agenda digitale e la Banca dati nazionale dei contratti pubblici, il precedente del governo – solo per fare un esempio ravvicinato – si era immortalato nelle prodezze di Roberto Calderoli, che dismetteva pile di carte ma non le cattive abitudini dell’amministrazione. Monti appunto rende semplice un passaggio che altri hanno caricato di complicazione e pesantezza. E come se non bastasse, l’esecutivo contiunua a procedere con il piglio di chi archivia una pratica e già ne squaderna un’altra sul tavolo: nello specifico, quella «consultazione pubblica» sul valore del titolo di studio annunciata dal premier in conferenza stampa subito dopo il Consiglio dei ministri.

Il “Semplifica Italia” è dunque una collazione variegata di norme che velocizzano le pro-

cedure per i cittadini, le imprese e la pubblica amministrazione. Si va dall’immediatezza nel richiedere e ottenere certificati, cambi di residenza, iscrizioni a concorsi pubblici, persino permessi di parcheggio per gli invalidi, alla completa digitalizzazione dei verbali d’esame degli atenei. C’è l’Agenda digitale ricca di novità anche in termini di accesso ai dati delle amministrazioni da parte dei cittadini (con uno scarto positivo in termini di trasparenza che vale qualche lustro, se parametrato sui tempi dei governi passati) ai meccanismi immediati nello scambio di informazioni tra gli enti pubblici e le aziende coinvolte nelle gare d’appalto. Già una misura come questa, di per sé, lascia facilmente intuire la portata economica enorme in termini di risparmi pubblici e privati. L’esecutivo non lesina proiezioni: le amministrazioni dovrebbero spendere 1,3 miliardi di euro l’anno in meno, le piccole e medie imprese una cifra attorno ai 140 milioni. Considerato il carattere di “provvedimento a costo zero” (o quasi) del decreto varato ieri, si comprende bene quale ne sia l’utilità marginale. Con pochi ag-

Olli Rehn: «Italia e Spagna accelerano sul risanamento» giornamenti nelle procedure – i software già esistono, semplicemente giacciono inutlizzati – si otterranno risultati tanto storici quanto alla portata di chi ha preceduto Monti.

Non c’è da stupirsi del fatto che il presidente del Consiglio esibisca un entusiasmo e un compiacimento superiori rispetto quanto mostrato in occasione del “Salva Italia” e del recente “CrescinItalia”. «I mercati danno importanza alle riforme strutturali per la crescita: queste misure migliorano la qualità della vita dei cittadini e migliorano la competitività dell’economia attraverso il miglioramento della produttività che deriva da tutte le attività economiche». Il Professore enuncia una legge generale che qualsiasi studente del primo anno di Economia possiede già chiara nella testa, e che ovviamente si capisce anche senza essere laureati, checché ne pensi Michel Martone: accelerare i tempi delle procedure fa risparmiare denaro a tutti gli attori di un sistema produttivo. Ecco, lui afferma l’evidente principio con la tensione emotiva di chi dissimula con grande sforzo un’e-

Bot sotto il 2% e scende lo spread ROMA. Buone notizie per l’Italia e la sua tenuta sui mercati. Ieri era attesa la prova difficile della collocazione di otto miliardi di titoli di Stato: il rendimento dei Bot a sei mesi è sceso sotto la soglia del 2% per la prima volta dal maggio dello scorso anno, quando si era attestato all’1,664%. Ieri sono stati venduti titoli con un rendimento pari all’1,969%, in netto calo rispetto al 3,251 registrato a fine dicembre. Sono stati assegnati anche 3 miliardi di Bot flessibili scadenza 27 dicembre: in questo caso la domanda è stata pari a 5,4 miliardi e il rendimento medio ponderato si è attestato al 2,214%. Dopo l’esito dell’asta, il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi a dieci anni è sceso sotto quota 410 punti a 407, con un tasso del 5,919%. A sottolineare il momento po-

sitivo, è arrivato anche l’applauso del Commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn, che durante il suo intervento al Forum economico mondiale di Davos ha sottolineanto come Italia e Spagna stiano accelerando il risanamento fiscale. Per voltare pagine, però, non più sufficiente la sola azione della Banca centrale europea, ha continuato Rehn secondo cui anche Usa e Gran Bretagna devono aiutare a costruire una rete di sicurezza contro un aggravarsi della crisi. Positivo, infine, anche il giudizio sull’operato dell’Italia da parte del segretario generale dell’Osce, Angel Gurria. Che sempre a Davos ha detto: «Il governo italiano sta facendo bene sul risanamento a breve termine, ma sta anche esaminando a fondo le questioni di medio e lungo termine».


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28 gennaio 2012 • pagina 5

Basta un click per annullare le code Documenti on line, pagamenti elettronici e facilitazioni per i disabili: ecco la “rivoluzione” di Marco Scotti

ROMA. Dopo il Consiglio dei Ministri sul decreto liberalizzazioni, durato oltre otto ore, una nuova riunione fiume per i membri dell’esecutivo. Questa volta sul tavolo i provvedimenti volti a rendere un po’ più facile la vita degli italiani, immediatamente raccolti sotto l’ombrello di “semplificazioni”. Sei ore di discussioni, di dibattiti, di confronti, per raggiungere un piano condiviso per portare avanti quella famosa “fase due” che è il nocciolo duro su cui l’esecutivo si sta concentrando. Visibilmente soddisfatto, Mario Monti ha dichiarato che questo pacchetto migliorerà sensibilmente la qualità della vita dei cittadini che si devono rapportare con la pubblica amministrazione e, al contempo, renderà l’economia più competitiva, perché libera da inutili fardelli burocratici. È innegabile, infatti, che l’Italia fosse tra i paesi maggiormente imbrigliati da lungaggini amministrative che rendevano a volte frustrante dover svolgere anche le procedure più semplici (il rinnovo di documenti importanti o la richiesta di alcuni certificati). Il decreto approvato dal Cdm, in attesa che venga definitivamente convertito in legge, sembra andare nella direzione migliore per il nostro paese, fornendo ai cittadini notevoli opportunità di sveltire le procedure. Vediamo in dettaglio i provvedimenti più significativi.

parametro su cui tarare le classifiche in alcuni concorsi pubblici. Né va dimenticata la polemica sorta dopo le dichiarazioni del viceministro Martone che aveva definito “sfigati” quegli studenti che non siano ancora laureati a 28 anni, di fatto assestando un colpo importante all’intero sistema dell’istruzione nostrano. Il governo ha preferito stralciare questa parte, promettendo una «consultazione pubblica».

Analizziamo ora quanto contenuto nel decreto. In primo luogo, una serie di provvedimenti che renderanno molto più agevole la concessione dei certificati, sia per i privati che per le aziende. Da oggi, infatti, se il decreto manterrà gli aspetti esposti dal governo nella conferenza stampa di ieri, sarà possibile anche per le piccole e medie imprese ottenere una certificazione ambientale unica, senza dover ottenere singoli bolli da diversi uffici sparsi sul territorio. Risparmio di tempo e di denaro, in un momento in cui l’imprenditoria, specialmente quella di dimensioni contenute, sta vivendo un momento difficile. Sarà, oltretutto, più semplice ottenere anche altri tipi di certificazioni, snellendo notevolmente le procedure oggi vigenti. Per quanto riguarda gli appalti, l’istituzione di una banca dati unica permetterà un risparmio annuo di circa 140 milioni. A ciò si aggiunge la possibilità per i privati cittadini di reperire direttamente on-line le documentazioni di cui hanno bisogno, senza più code snervanti negli uffici comunali. La carta d’identità, poi, avrà scadenza il giorno del compleanno dell’intestatario immediatamente successivo alla scadenza che era originariamente prevista sul documento. In materia di dati personali, sarà possibile eliminare la documentazione cartacea, portando a un risparmio di circa 320 milioni di euro l’anno. Infine, il cambio di residenza, che potrà avvenire in soli due giorni. E se qualcuno pensa che sia un fenomeno di importanza relativa, resterà sbalordito nello scoprire che si tratta di un fenomeno che coinvolge ogni anno circa 1.400.000 italiani. Altro capitolo estremamente importante è la vo-

Prevista una consultazione pubblica per stabilire il «valore» dei titoli di studio; addio a tutti gli attestati cartacei in molti ambiti della pubblica amministrazione

Partiamo da ciò che nel decreto non c’è ma che è destinato a fare molto discutere: il valore legale dei titoli di studio, soprattutto relativamente alla parte che concerne la votazione. I sussurri che avevano preceduto l’approvazione del decreto parlavano di un’abolizione del valore delle votazioni in alcuni concorsi. È un dato di fatto che la laurea, soprattutto dopo le numerose modifiche realizzate al sistema universitario italiano, aveva perso la propria precipua connotazione di raggiungimento dell’eccellenza, divenendo piuttosto un passaggio obbligato senza il quale non era possibile aspirare a posizioni lavorative che fossero minimamente gratificanti. Il dibattito si era concentrato quindi sull’opportunità o meno di indicare la valutazione conseguita come un sultanza da stadio. Esultanza che non deriverebbe dall’aver trovato chissà quale uovo di Colombo, ma dal sollievo per aver compiuto un’azione di govcrno semplice, attesa da lustri e indispensabile. L’economista si compiace appunto di aver fatto bingo in termini di produttività del sistema senza aver dismesso alcun patrimonio pubblico ma anzi con la sua valorizzazione. «Abbiamo seguito le migliori pratiche conosciute a livello internazionale, anche a questo decreto affidiamo il risanamento dell’economia italiana». C’è da chiedersi ancora una volta: ci voleva davvero il governo dei “tecnici” per conseguire un simile risultato?

Non c’è una risposta scontata. Alcuni specifici contenuti del decreto “Semplifica Italia” può darsi che siano frutto di personali competenze. Di quelle del ministro Filippo Patroni

Griffi, per esempio. Non a caso il successore di Calderoli (sic!) interviene con Monti in conferenza stampa ad esporre alcuni capitoli del provvedimento, per esempio la «autorizzazione unica ambientale», cioè la possibilità di «cumulare tutti i permessi in un unico nulla osta che sarà molto più facile richie-

da parte dell’utenza? Lui ci ha pensato, e nel breve ma evidentemente riuscitissimo sondaggio volante ha pescato qualche trovata intelligente, per esempio quella di far scadere i documenti «nel giorno del compleanno» dell’intestatario. Geniale, e qui certo il merito va attribuito ai cittadini da cui è ve-

lontà di accelerare sulla cosiddetta Agenda Digitale, che comprende una serie di provvedimenti mirati a migliorare lo stato delle infrastrutture tecnologiche del nostro paese, facendo compiere un importante balzo in avanti all’Italia nel tentativo di equipararsi agli altri stati più sviluppati. L’Agenda Digitale incentiva cittadini e aziende a dotarsi di sistemi più evoluti da impiegare anche nel dialogo con la pubblica amministrazione.

Altri provvedimenti significativi: la possibilità di pagare, da maggio, quanto dovuto all’Inps solo attraverso l’ausilio di strumenti elettronici, eliminando – come già fatto per il pagamento delle pensioni – il denaro contante. L’iscrizione all’università potrà avvenire solo on-line, sulla scia di quanto avviene in molti altri paesi. Saranno promosse forme di turismo sostenibile per giovani, anziani e disabili. La riduzione delle emissioni da parte degli edifici pubblici è un buon viatico per cercare di rendere maggiormente virtuoso il consumo energetico del nostro paese. I beni confiscati alla mafia potranno essere dati in gestione a cooperative composte da giovani di età non superiore a 35 anni perché rendano gli immobili resort di interesse turistico. Sembra davvero che l’Italia abbia ripreso a camminare.

didascalia che Monti offre del passaggio di ieri) sulla competenza tecnica. Prevale un valore aggiunto che dovrebbe essere proprio della politica. Solo che la politica – e non solo Berlusconi – ha fatto molto per sventolare ogni singola sillaba messa nero su bianco, ma ben poco per costruire un discorso

La disarmante rapidità dell’esecutivo nel conseguire un risultato che altri avevano solo annunciato può definirsi “semplificazione della semplificazione”. Accolti suggerimenti come la scadenza dei documenti nel giorno del compleanno dere e ottenere». Può darsi che certe novità previste dall’Agenda digitale fossero meno accessibili a chi non ha dedicato un qualche pregresso studio alla materia. Ma per esempio, in termini di rapporto diretto con i cittadini-elettori, davvero serviva il ministro alla Semplificazione Patroni Griffi per sollecitare e accogliere suggerimenti, sulla semplificazione degli atti,

nuta la segnalazione. Ma è semplicemente una prova concreta di buon governo il fatto stesso di saperla sollecitare e riconoscere, l’idea «geniale».

Prevale dunque la lucida determinzione («siamo considerati un governo molto decisionista, ma non c’era molta scelta considerate le condizioni in cui ci siamo trovati ad agire», è la

compiuto, in termini di buon governo. Il vizio di concepire la politica come uno strumento per guadagnare consensi – e non il contrario, cioè i consensi come un viatico per rendere un servizio – ha avvelenato la cosiddetta Seconda Repubblica. Ha peggiorato, questo è certo, la «produttività» della politica stessa. Ha reso strumento di propaganda ogni piccola deci-

sione, fino a distrarre le forze politiche dal valore della decisione stessa. Con la semplice, elementare efficacia che gli è propria, il governo Monti sottrae al terreno del confronto politico la manipolazione dell’ovvio, ossia il vizio di far apparire grandi e faticose quelle conquiste a cui bastano 6 ore di Consiglio dei ministri anziché un’intera legislatura. C’è poco di tecnico, in questo, e molto di rivoluzionario: per i governi che verranno più che per quello attuale. Senza considerare che l’esecutivo di Monti, su un tema simbolico difficile qual è l’abolizione del valore legale della laurea, dà ennesima priva di saper coniugare efficacia e italianissima misura. «Faremo una consultazione pubblica», dice Monti. Che mostra come il buon governo, persino un governo decisionista, non ha bisogno di lasciarsi alle spalle sacrifici umani.


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l’approfondimento

Bossi minaccia Berlusconi, il Pd punta di nuovo su un asse con Di Pietro e Vendola: i partiti invecchiano mentre l’Italia cambia

Lo Statuto Umbertino

La lite Pdl-Lega finirà con un abbraccio (come sempre) oppure segnerà davvero l’addio al bipolarismo? Dall’altra parte, Bersani non sa ancora cosa farà da grande. E invece in questo momento servirebbero scelte coraggiose i sono molte ragioni per considerare “a salve” le ultime “sparate”di Bossi, che fanno immaginare un divorzio definitivo da Berlusconi. Intanto perché così il leader della Lega ha sempre fatto: urla da comizio e pragmatismo nei fatti. Poi perché la pallottola che questa volta ha messo in canna – «faccio saltare la giunta Formigoni» – ne offre due al Cavaliere, una per la testa di Cota e l’altra per quella di Zaia, e per Bossi questo «prendi uno, paghi due» sarebbe davvero autolesionistico. Inoltre perché il leader della Lega sa bene che al Nord, nel suo elettorato (che è diverso dalla base del partito), l’azione risanatrice e liberalizzatrice di Monti non è vista male, e al di là degli aggettivi coloriti occorre tenerne conto. Infine perché le elezioni politiche sono ancora lontane, e dunque è presto per parlare di future alleanze elettorali, dato che Berlusconi non ha nessuna convenienza, personale prima ancora che politica, a staccare la spina al governo Monti. Può fare la battuta salace («ci dovranno richiamare»), ma è un cane che abbaia e non morde, come ha confermato anche nell’ultimo

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di Enrico Cisnetto vertice del Pdl, dove pure gli ex An hanno cavalcato l’idea di far cadere Monti. Dunque quello sgradevole insulto rivolto da Bossi al suo ex (?) sodale – “mezza cartuccia” – più che altro fa parte della strategia del Carroccio, di cui la lotta al “governo dei sacrifici”dei “banchieri travestiti da tecnici” è parte fondamentale, di recuperare il più possibile la sua antica fisionomia di partito anti-sistema, di emblema dell’anti-politica.

Detto questo, però, non va sottovalutato l’effetto disgregatore dei vecchi equilibri politici che quanto sta succedendo nel centro-destra – ma anche nel centro-sinistra, come vedremo dopo – sta producendo. Provate a fare la somma. Primo: la deflagrante crisi interna alla Lega, che contrappone chi (Maroni) vuole conquistare il partito offrendogli un percorso di deberlusconizzazione che gli consenta un ritorno alle origini, da cui si era progressivamente staccato per diventare ministeriale, a chi (Bossi e suoi accoliti) vuole tenersi stretta la leadership per pure ragioni di potere,

barcamenandosi dentro il solito schema del “partito di lotta e di governo”. Secondo: il progressivo distacco tra Lega e Pdl, che ormai va ben oltre l’essersi divisi sul governo Monti, pur con tutte le ambiguità di Bossi di cui abbiamo detto. D’altra parte, anche Maroni e Alfano hanno ormai davanti a loro strade divaricate, dopo aver perso la scorsa estate la clamorosa opportunità di fare un tratto di strada insieme quando, sotto la spinta dello spread e della caduta verticale della credibilità del Cavaliere, avrebbero potuto (e dovuto) allearsi per dare in

Nel partito del Cavaliere ormai è una guerra tutti contro tutti

un colpo solo il doppio benservito ai vecchietti “B&B”.Terzo: il “maldipancia” interno al Pdl. Meno visibile di quello leghista, è non meno potenzialmente deflagrante. Anche perché sono tante le linee interne, fatte di differenze politiche ma soprattutto di aggregazioni di potere, che tagliano a fette il partito. Finora la diarchia Berlusconi leader e Alfano segretario ha retto, ma a prezzo di un sostanziale immobilismo del partito, sia nella sua dimensione parlamentare sia, soprattutto, nell’articolazione locale e nella società civile. Quarto: la fortissima incertezza sul rinnovo dell’alleanza di centro-destra così come l’abbiamo conosciuta e la totale mancanza di idee alternative, sia in termini di nuove alleanze, sia ancor più in termini di un nuovo sistema politico da promuovere e di relativa legge elettorale da approvare prima della fine della legislatura. Fate la somma di tutto questo, e vedrete che non c’è bisogno di esserne ostili per arrivare alla conclusione che il vecchio polo di centro-destra, tendenzialmente maggioritario nel Paese

se conserva caratteristiche moderate, non esiste più, o comunque è destinato a non essere più praticabile alla prossima occasione elettorale. E questo a prescindere da qualunque valutazione sugli orientamenti dell’elettorato, e quindi dalla previsione se sia destinata a prevalere la tendenza alla condanna verso la classe dirigente che ha dominato l’ultimo decennio e ci ha portato sull’orlo del default, magari dentro un più generale quadro di rifiuto dell’intero ceto politico, o seppure la facile tendenza degli italiani a dimenticare sommata con la reazione negativa ai “sacrifici” imposti dal governo Monti finirà per ridare fiato al populismo berlusconiano e leghista.

Ma, paradossalmente, il fattore decisivo per far pendere la bilancia dalla parte della definitiva distruzione del polo di centro-destra potrebbe essere rappresentato da quanto sta accadendo sul fronte opposto. Bersani continua a guidare un Pd spaccato, e riesce a farlo perché evita di scegliere tra le diverse opzioni che ha di fronte. Adesso l’iniziativa congiunta di Vendola e Di Pietro


28 gennaio 2012 • pagina 7

L’esponente del Pdl nega ogni possibile rottura nel partito, «ma c’è un imbarazzo trasversale»

«Non siamo né maggioranza né opposizione: ecco il guaio» I rapporti con l’esecutivo, quelli con i leghisti e le divisioni tra ex-An e ex-Forza Italia: «Tutti siamo spiazzati dai tecnici», dice La Loggia di Osvaldo Baldacci

ROMA. Le linee di tensione che percorrono il Pdl sarebbero arrivate secondo Repubblica al punto che La Russa avrebbe minacciato in aula Cicchitto di costituire gruppi autonomi. Che la ricostruzione sia vera o falsa, resta il fatto che le posizioni molto diverse dentro il partito in merito al governo Monti e alle prossime scelte da fare (compreso se andare o no alle elezioni) continuano a dare titoli ai giornali sull’insofferenza specie di alcuni ex An. Non la pensa invece così il presidente della commissione bicamerale Enrico La Loggia , forzista dalla fondazione, che fa un discorso più articolato all’interno del quale si sfumano i margini delle contrapposizioni fra correnti. Presidente, alta tensione con gli ex An sul governo Monti? Non vedo una particolare tensione tra gli ex di An. Noto un obiettivo disagio per questa situazione ibrida in cui ci troviamo, un disagio che mi sembra diffuso ad esempio anche nel Pd e nell’Idv. Questa è una situazione senza precedenti: neanche il paragone con il governo Dini può valere, perché quell’esecutivo nacque in un contesto del tutto diverso. In molti siamo in difficoltà perché non siamo né nella maggioranza né nell’opposizione, e ciascuno ha proprie idee, propri progetti e propri obiettivi che però ha molte difficoltà a sostenere. Al di là dei meriti e dei demeriti di questo governo tecnico che fa bene molte cose ma potrebbe anche fare meglio, una differenziazione tra ex An e ex Fi non la noto, mi sembra che sia molto trasversale l’imbarazzo. Beh, però il presidente Berlusconi continua a dire che il governo va sostenuto. E invece si levano continue voci critiche contro il governo, e nei voti recenti ci sono stati molti assenti e anche qualche espressione contraria alle indicazioni di gruppo... Non c’è differenza nel senso responsabilità che nel Pdl è condiviso da tutti, con maggiore o minore sofferenza. C’è chi vive questo disagio in maniera più forte e vorrebbe un atteggiamento più duro, e tra questi mi iscrivo anch’io, nello spingere verso un maggiore protagonismo sulle proposte da correggere o sulle cose da aggiungere ai provvedimenti. Il Consiglio dei ministri sta prendendo molti provvedimenti che in gran parte erano già stati avviati da governo precedente, ma certo si può spingersi più avanti. Appunto, se c’è una qualche continuità con

«Quella in cui ci troviamo è una situazione ibrida che, onestamente, nel nostro Paese non ha precedenti»

i provvedimenti del precedente governo, com’è che alcuni invece remano contro? Non posso escludere qualche retropensiero. Il punto è che su liberalizzazioni e semplificazioni noi faremo proposte in Parlamento e ci aspettiamo ascolto. Ma non è paradossale che alcuni esponenti del PDL trovino invece più affinità con le ritrovate posizioni populiste della Lega che con quelle «popolari» (nel senso del Ppe) del governo? Più che fratture, semmai forse c’è anche la componente di una preoccupazione giustificata sulla necessaria competitività tra due forze simili sul territorio. Stando nella stessa alleanza tutto si sistema, mentre con le evidenti difficoltà tra i due partiti a livello nazionale si crea un evidente disagio aggiuntivo più diffuso a livello territoriale. E c’è un problema della comunicazione verso gli elettori che sono confusi e a disagio come noi. Ma siete tutti convinti della linea scelta oppure in molti si procede un passo avanti e uno indietro? Condividiamo tutti il senso di responsabilità, e richiamerei la bellissima espressione usata da Alfano di indossare la maglia della nazionale. Eppure, secondo i giornali alcuni sono talmente a disagio che vorrebbero invece mantenere la vecchia maglia o magari metterne un’altra. Questa ricostruzione dei giornali non mi risulta e comunque come ho detto non collocherei questo disagio nella parte ex An quanto piuttosto lo definirei diffuso. È una situazione ibrida, e bisogna ancora abituarsi a questa situazione per i mesi che durerà. Secondo lei quanto durerà? Difficile immaginare un percorso più breve della legislatura proprio per quel senso di responsabilità di cui abbiamo parlato. Va completato l’insieme di azioni di risanamento, e si deve approfittare di questo tempo per fare le riforme istituzionali e solo conseguentemente la riforma elettorale. Ma proprio sulle riforme sembrerebbe esserci un altro tema di divisione. E lei ha sposato la linea di finire la legislatura con Monti, mente nel suo partito c’è chi invoca elezioni anticipate. La medicina rispetto alla malattia dev’essere tale da curare il male, altrimenti è veleno. È vero che la malattia è questa anomala situazione della politica, ma la malattia più grave è situazione italiana: le elezioni sarebbero una medicina per nulla adatta.

ha riportato in auge l’ipotesi di alleanza solo a sinistra rappresentata dalla famosa fotografia di Vasto. Ma ieri, invece, prevaleva l’idea di un’apertura al centro, sulla base di tutt’altre suggestioni politiche. Tutto questo si riflette sulle scelte da fare in relazione all’azione del governo, come dimostra emblematicamente il dibattito sugli interventi per il mercato del lavoro: tra la linea Ichino, ma anche quella Nerozzi (ex Cgil), e la linea Fassina e fiancheggiatori della Fiom, ci corrono anni luce, con in mezzo il corpaccione dei mediatori stile Damiano. Un’articolazione che sarebbe fisiologica, e persino democraticamente virtuosa, se non portasse all’empasse, come su quasi tutti i temi di confronto. Empasse che deriva proprio dalla mancanza di chiarezza sulla linea politica di fondo. È chiaro che il vantaggio di cui il Pd e il vecchio centro-sinistra godono in tutti i sondaggi, rende più difficile fare scelte secche. Ma questo vantaggio rischia di rivelarsi ben presto effimero, sia perché l’onda lunga del rifiuto dei vecchi partiti può portarsi via il Pd senza nemmeno che Bersani se ne accorga – neppure Di Pietro riesce a cavalcare la tigre dell’anti-politica, figuriamoci lui – sia perché se anche vincesse e andasse al governo il centro-sinistra, nella medesima versione della coalizione che durò due anni tra il 2006 e il 2008, finirebbe per avere vita breve. Di ciò sono consapevoli in molti nel Pd (i riformisti), ma è difficile dire se questo porterà ad una spaccatura, ed eventualmente in che termini e con quali conseguenze.

Tuttavia una cosa è sicura: i processi disgregativi, nell’uno come nell’altro fronte, sono in corso, e sono destinati ad alimentarsi a vicenda. La vera incognita, invece, è dove portino. L’auspicio è duplice: che i partiti – vecchi, rifondati o nuovi che siano – abbandonino le caratteristiche plebiscitarie che hanno assunto in questi ultimi due decenni e tornino ad essere democratici, con leadership costruite sull’identità programmatica e non sul curriculum o la spendibilità mediatica delle persone; che il sistema politico, cui la legge elettorale deve fare da supporto e gli assetti istituzionali da quadro coerente, sia costruito in modo tale che a seconda delle necessità si possa imboccare senza traumi sia la strada della convergenza (grande coalizione tra moderati e riformisti) sia quella della concorrenza (alternanza tra poli ancorati al centro, l’uno senza l’apporto dei massimalisti e giustizialisti, l’altro senza quello dei populisti e secessionisti). D’altra parte, auspicare non costa… (www.enricocisnetto.it)


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economia

Merkel, Monti e Sarkozy sarebbero d’accordo almeno su un punto: niente rinvii nella definizione del documento comune

Aspettando lunedì

Nuove regole di bilancio e riforma del fondo salva-stati: a Bruxelles c’è ottimismo in vista del vertice decisivo per il destino dell’Europa uando Angela Merkel, Mario Monti e Nicolas Sarkozy s’incontreranno, poco prima dell’avvio ufficiale del Consiglio europeo di lunedì, dalle bozze dei due documenti che dovranno essere approvati nella notte – e che già circolano in forma riservata – saranno sparite anche le ultime parentesi quadre che indicano i punti ancora in discussione. Anzi, il prevertice a tre servirà proprio a definire una posizione comune tra Germania, Italia e Francia sui capitoli più contestati. Il trilaterale durerà mezzora – almeno questa è la previsione – ma sarà decisivo per lo sviluppo della trattativa nella convinzione che, questa volta, la Ue non può mancare l’appuntamento con il cambio di passo tanto atteso e, finora, sempre rinviato: il passaggio dall’emergenza della crisi, dalle risposte a colpi di fondi straordinari salva-Stati, alla costruzione di strumenti stabili per rafforzare la disciplina di bilancio e per rilanciare la crescita e l’occupazione. Ognuno, naturalmente, arriva a Bruxelles con le sue aspettative. La Merkel mette in cima alle priorità il fiscal compact, il nuovo Patto per vincolare le politiche dei conti pubblici nazionali agli interessi comuni dell’euro che considera preliminare a qualsiasi altra misura, ma non più esclusivo perché «bilanci solidi e crescita non sono in contrapposizione», come ha finalmente detto da Berlino. Monti si augura che l’Europa non solo riconosca – e lo già fatto – gli sforzi dell’Italia per rimettersi in carreggiata, ma ristabilisca quel “metodo comunitario”che è stato a lungo mortificato dal direttorio franco-tedesco che, al momento cruciale, ha mostrato tutti i suoi limiti. Sarkozy, a ottanta giorni dalle elezioni presidenziali – che, nei sondaggi, vedono sempre favorito lo sfidante socialista François Hollande – vuole ri-

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di Enrico Singer lanciare la sua immagine appannata in patria con un successo da protagonista sul palcoscenico dell’Unione. Sono interessi diversi, ma con un obiettivo convergente: arrivare a imprimere una svolta alla crisi dell’Europa. E nei corridoi del palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio a Burxelles, comincia a circolare un po’ di ottimismo.

Il documento più delicato da perfezionare è quello che fissa le regole del fiscal compact. L’ultima bozza, la quinta, uscita dall’Eurogruppo e dall’Ecofin dei gior-

che un comma aggiunto all’articolo 3 impone «che il meccanismo di correzione scatti automaticamente» in caso di scostamento dagli obiettivi virtuosi. Anche l’articolo 8 – quello che propone la Corte di Giustizia come sceriffo della regola aurea del pareggio di bilancio da iscrivere nella Costituzione di tutti i Paesi membri – non raccoglie l’unanimità dei consensi. In particolare alimenta i mal di pancia della Polonia che, per accettare le “ingerenze” del nuovo Patto nelle politiche di bilancio nazionali pretende di essere ammessa ai lavori dell’Eurogruppo

Tutte le attenzioni sono concentrare sul «fiscal compact» che dovrebbe garantire i tedeschi. Ma da Berlino è arrivato un indiretto via libera agli investimenti per lo sviluppo: «Bilanci solidi e crescita non sono in contrapposizione» ni scorsi ai quali ha partecipato anche Mario Monti nella sua veste di ministro dell’Economia ad interim, è di undici pagine ed è il risultato del lavoro certosino della “commissione dei 101” (tanti sono gli esperti che vi partecipano) sotto la guida del lussemburghese Georges Heinrich. Gli articoli sui quali ci sono ancora punti da chiarire sono cinque. Per l’Italia è molto importante il numero 7 che, nella sua versione iniziale, sanciva l’equivalenza di deficit e debito per far scattare le procedure di correzione. L’ultima bozza menziona soltanto il disavanzo, ma alcuni Paesi vorrebbero ancora inserire anche una procedura per debito eccessivo, mettendola sullo stesso piano dell’iter contro il deficit eccessivo. Con il nostro debito pubblico che è a quota 120 per cento del Pil, una simile interpretazione sarebbe penalizzante, tanto più

pur non facendo parte della zona euro. Il premier polacco, Donald Tusk, lo ha detto chiaramente: Varsavia non firmerà se non sarà accolta la sua richiesta. Con la Gran Bretagna che si è tirata fuori sin dall’inizio e con la Svezia che tentenna (l’opposizione socialdemocratica ha definito inaccettabile l’ultima versione del fiscal compact) il Patto di bilancio rischia di partire senza l’unanimità.

È da decidere anche iI numero dei Paesi necessari perché il fiscal compact entri in vigore come Trattato intergovernativo. Potrebbero bastare i 17 di Eurolandia. Ma c’è anche chi sostiene che una maggioranza di dodici Paesi sarebbe sufficiente per vincolare gli altri. Essenziale, invece, il punto del collegamento fra il fiscal compact e l’accesso al nuovo Meccanismo di stabilità europeo che, dal pros-

simo giugno, prenderà il posto dell’attuale Fondo straordinario salva-Stati. La bozza prevede che si potranno rivolgere all’Esm soltanto i Paesi firmatari del Patto di bilancio e questa sembra la posizione che prevarrà. In ogni caso dal vertice di lunedì si attende la luce verde definitiva al fiscal compact che potrebbe essere calendarizzato per la firma vera e propria al Consiglio europeo di primavera che si terrà l’1 e il 2 marzo. Il varo dell’Esm , come le misure per rilanciare crescita e occupazione, invece, fanno parte del secondo documento in preparazione. Un documento politico, per ora, che dovrebbe però contenere impegni precisi sia sul fronte della ripresa economica che della lotta alla disoccupazione.

Nelle lettere che il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e quello della Commissione, Manuel Barroso, hanno inviato ai capi di Stato e di governo dei Ventisette c’è un invito esplicito in questa doppia direzione e nella bozza del comunicato finale del vertice – cinque pagine circolate ieri sera a Bruxelles – i punti-chiave d’intervento promessi sono l’occupazione, soprattutto dei più giovani, il rilancio del mercato interno, il sostegno dell’economia e in particolare delle piccole e medie imprese. E non è certo un caso se Angela Merkel, nei suoi ultimi interventi pubblici, abbia fatto riferimento ai 150 miliardi di fondi europei di coesione non spesi che potrebbero essere usati per creare posti di lavoro. Quando, in marzo, il prossimo Consiglio europeo dovrà affrontare il tema caldo della dotazione finanziaria dell’Esm – la Germania insiste su 500 miliardi, l’Italia e molti altri vorrebbero un aumento almeno a 750 – quei 150 miliardi di fondi non spesi potrebbero rivelarsi l’arma segreta di un buon compromesso.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“The Iron Lady”, con una superba Meryl Streep, ha il difetto di mettere troppo l’accento sul personale a discapito del gigantesco agire politico della Signora di ferro. Forse per evitare le controversie che circondano il personaggio…

l ritratto di Margaret Thatcher nel film The Iron Lady ha molti meriti, ma non rende giustizia alla statista-condottiera che ha preso per la collottola una nazione allo sbando e l’ha rimessa in piedi. La prima donna capo di governo della Gran Bretagna è figura polarizzante più di ogni altra della nostra epoca: eroina e leader coraggiosa, impareggiabile per i sostenitori, mostro abominevole per i detrattori. Tutti i critici (o quasi) hanno parole d’encomio per l’interpretazione di Meryl Streep, di mirabile immedesimazione. Solo qualche paleo liberal, irritato per la mancata demonizzazione dell’odiata nemica la taccia di caricatura, più che di verosimiglianza. La più inferocita è la brava e acida Stephanie Zacharek (Movieline.com): dopo aver fatto il biopic a pezzi perché accondiscendente con la Signora di Ferro, alla fine s’inchina anche lei davanti all’imponente tour de force della diva-attrice più premiata al mondo. Quando in seguito si rivede la vera Thatcher, sembra inautentica, tanto è magistrale e totalizzante la versione di Meryl. Il film è creato da tre donne; la star, la sceneggiatrice Abi Morgan (Shame e la miniserie inglese The Hour) e la regista Phyllida Lloyd.

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SUA MAESTÀ MARGARET THATCHER di Anselma Dell’Olio


sua maestà margaret

pagina 10 • 28 gennaio 2012

le idee, non le emozioni, l’esatto contrario di The Iron Lady, a dispetto del titolo. Più che alle vittorie elettorali, si dà spazio ai figli piccoli che inseguono la sua auto, implorandola di non andare via quando lei parte per il primo giorno da parlamentare. (Lei avrebbe battezzato wets le cineaste, suo soprannome spregiativo per i pusillanimi col ciglio sempre umido al momento di prendere decisioni dure). Seguono molti clip dai telegiornali d’allora, la decisione di sfidare Edward Heath per la leadership del partito, lo stimolo a candidarsi come primo ministro, l’entrata a Downing Street, la rovente battaglia vinta con i sindacati e i minatori, con uno sciopero durato un anno, la guerra delle Falkland, la rivolta interna che porta alle dimissioni dopo tre elezioni vinte da premier. L’annuncio che sfiderà Heath per la guida del partito, il grande balzo, è contrapposto a un rimprovero del marito, perché lo stesso giorno la figlia supera l’esame di guida e la mamma ha la testa altrove (ma va?). Il film in due ore copre un arco temporale lungo e denso di avvenimenti; vengono quasi le vertigini per la rapidità con cui si pattina su avvenimenti di grande portata: la guerra, le bombe dei terroristi irlandesi al congresso conservatore a Brighton, o il suo noto rapporto di affinità politica e personale con Ronald Reagan, qui sbrigato con un giro di valzer.

Il primo film di Lloyd, sempre con Streep, era il megasuccesso Mamma Mia!, musical tecnicamente rudimentale. Non che importasse al pubblico, in delirio al punto di ballare uscendo dalla sala. The Iron Lady è girato meglio ma ha i difetti classici dei film biografici. I pareri contrari riguardano l’aver messo al centro il «leone in inverno», fuori dal potere da anni, in preda alla demenza senile con momenti di lucidità. Si è detto che è «Re Lear per ragazze». I temi ci sono: follia, vecchiaia, amore materno, vuoto esistenziale; le questioni di Stato ci sono ma in sordina, superficiali. È un cliché dei film biografici iniziare dalla coda: il Potente in punto di morte rivolge lo sguardo agli anni di gloria. La differenza qui è che la Maggie anziana e malata è la chiave principale del racconto. I momenti nevralgici della carriera sono raccontati in ordine cronologico, ma dopo ogni Big Event sbrigativo torna la donna appesantita dal tempo, dalla malattia e dai ricordi. Parla con il marito morto come se fosse vivo, il suo amato Denis. In The Downing Street Years scrive: «Essere primo ministro è un lavoro solitario. In un certo senso è giusto, deve esserlo: non si può comandare dalla folla. Ma presente Denis non ero mai sola. Che uomo. Che marito. Che amico». La storia si srotola intorno all’incommensurabile perdita, la difficoltà di accettarla. La ricerca della «donna vera» sepolta in teoria sotto il personaggio pubblico, condiziona il racconto, insistendo su lei moglie e madre, a discapito di uno sguardo approfondito e articolato sul suo gigantesco, dibattuto agire politico. Gli autori hanno voluto restituirle lo status di femmina che si fa largo in un mondo politico dominato da maschi.

Margaret Hilda Roberts nasce nel 1925, figlia di un droghiere e politico locale a Grantham nel Lincolnshire. Si laurea a Oxford in chimica nel 1947, e inizia subito a lavorare e a fare politica. È sconfitta due volte in un collegio saldamente laburista. Nel 1951 incontra Denis Thatcher, uomo d’affari di successo e divorziato; il corteggiamento dura pochi mesi. Dopo il matrimonio si laurea in legge; subito dopo produce i gemelli Carol e Mark. Avvisa il marito: «Non passerò le mie giornate a lavare tazze da tè». Lui è d’accordo. Persone molto vicine alla Thatcher durante e dopo gli anni al potere, trovano autentico il ritratto del rapporto tra Maggie e Denis. Era un matrimonio d’amore e di mutuo soccorso, una fortuna sfacciata per una donna ambiziosa. L’eccellente Jim Broadbent (TopsyTurvy, Another Year, Il segreto di Vera Drake) dà una lettura fresca e scanzonata del principe consorte. Qualche volta lui mugugna con i figli per la disattenzione della moglie, ma è il partner ideale per una donna-cometa. È un uomo riuscito, mai in competizione con lei. È orgoglioso dei suoi successi, e pronto con iniezioni di fortitudine nelle difficoltà e nella caduta. Le copre le spalle. È meno preciso il rapporto con la figlia. Nel film sembra che Carol (Olivia Colman, Tyrannosaur) sia molto presente nella vita della madre, il contrario della verità. Però si capisce bene, grazie alla brava Colman, che non è semplice il rapporto con una madre spesso assente durante gli anni della crescita o distratta da affari di Stato; in più preferisce il figlio maschio, che nel film, giustamenanno V - numero 3 - pagina II

thatcher

te, non si vede mai. Mark vive con la famiglia in Sud Africa, e la madre, pur soffrendo, lo giustifica sempre quando rimanda di continuo il promesso viaggio a Londra per venire a trovarla, mentre Carol digrigna i denti. Thatcher afferma senza complessi di aver sempre preferito la compagnia dei maschi; è anche la preferenza materna. Il film insiste (banalizzandole un po’) sulle difficoltà di una donna intenta a onorare le proprie ambizioni negli anni Cinquanta, prima che la correttezza politica costringesse i maschi a dissimulare l’istintiva misoginia, intrisa di disprezzo/disistima automatici. I capi del partito, però, riconoscono subito le sue qualità e la promuovono; la gelosia e l’invidia dei colleghi seguono a ruota; i colpi bassi si sprecano. Molte donne, impreparate psicologicamente, sono «offese» dalle inevitabili aggressioni anche ad feminam dei rivali, e si ritirano presto dalla posizione di comando. Non è solo il «soffitto di vetro» a impedirne l’ascesa. Thatcher sa che, maschio o femmina, gli attacchi sono il prezzo da pagare per la scalata al potere. Le donne spesso non capiscono che se alzi la testa la sopra folla, qualcuno

cercherà di staccartela. Per umiliarla, avversari interni ed esterni al suo partito la chiamano di continuo «la figlia del droghiere», e usano spesso il secondo nome demotico Hilda per la stessa ragione. Lei tira dritto. Remarle contro le inietta acciaio nella spina dorsale.

È eletta al Parlamento per due mandati a Finchley, un collegio con una forte presenza ebraica. In lei era assente l’antisemitismo, endemico non solo nel suo paese e non solo tra i conservatori. Ha votato per decriminalizzare l’omosessualità, contro il divorzio facile e a favore dell’aborto e della pena capitale. Era fatta a modo suo; non imitava nessuno. Qualunque donna che punta in alto si riconoscerà nell’abitudine della Thatcher di prepararsi molto oltre il necessario. Nel film s’intuisce soltanto, ma sarebbe stato divertente vederla ammutolire il Parlamento con la sua schiacciante documentazione su temi complessi. Una volta ha detto a una collega politica: «Dobbiamo essere più bravi di loro». Eppure questa insistenza sulla pioniera femminista va contro gli interessi del film e del soggetto stesso. Lei ripete spesso che le interessano

Dal film si capisce poco sullo scontro nel partito, precipitato per il suo rifiuto di sottomettere la Gran Bretagna ai diktat di Bruxelles adottando l’euro (sembrava una pazzia; era un colpo da statista) e per l’insistenza sull’odiata poll tax - una specie di Ici uguale per tutti, ricchi e poveri. Con tanta enfasi sul privato, la rivolta intestina si condensa in un Consiglio dei ministri in cui il premier umilia platealmente il ministro dell’Interno Geoffrey Howe, suo ex alleato stretto. Chi non conosce la storia penserà che lei cada per una prepotenza scostumata; sono le inevitabili compressioni dei biopic. Le autrici sono tutte progressiste. Un film centrato sulle idee, sulla caratura politica, anziché sulle tribolazioni per il conflitto con ruoli di «cura» (all’apparenza una fissazione non solo delle femministe italiane) le avrebbe costrette a posizioni più nette e attaccabili sulle sue controverse politiche. Il personale è politico, ok, ma up to a point, ragazze. I sostenitori sono furiosi perché il film insiste su Maggie nella vecchiaia, smarrita, debole (mentre oggi nella fragilità, cammina sempre a testa alta). I detrattori sono iracondi perché la storia la umanizza (manco fosse la mamma di Portnoy). Solo un’epica alla Lawrence d’Arabia, pur con i difetti del caso, renderebbe giustizia alla sua storica, maestosa parabola, ma ci vogliono leonesse come lei per osarlo. Comunque è sempre meglio di niente. È arduo strutturare una vita, per natura priva di plot, con nodi allacciati e conti che tornano in finale. Le due Margaret del film restano inconciliabili. La statista di rango, la regina guerriera, lungimirante, che non esita a farsi trasformare look e voce per essere più autorevole, è schiacciata dal «caso umano», riconoscibile solo quando, con un colpo di reni, si libera degli abiti di Denis a otto anni dalla morte. Il doppiaggio è ottimo. Maria Pia Di Meo segue duttile i cambi di timbro della Streep nelle varie età. Da vedere malgrado tutto.


MobyDICK

moda

28 gennaio 2012 • pagina 11

Quei formidabili anni Venti di Roselina Salemi el gioco del gambero che è la nostalgia, eccoci tornati ancora più indietro, agli anni Venti. Sarà un caso che i due più celebrati film degli ultimi mesi, Midnight in Paris di Woody Allen e The Artist, vincitore ai Golden Globe e già in odore di Oscar, siano andati a ripescare gli occhi cerchiati di nero, le collane soutoir delle scandalose flapper, le frange, la bellezza eterea consacrata dal cinema muto. Sarà un caso, ma le passerelle si sono popolate all’improvviso di Louise Brooks e Zelde Fitzgerald, di ragazze nervose con la pelle diafana, quasi porcellanata, il rossetto-rosso, le ciglia lunghissime e la matita nera sotto l’occhio, le sopracciglia sottili o addirittura disegnate. Basta guardare Changeling con Angelina Jolie per farsi un’idea precisa del trucco. Ma nella moda bisogna sfogliare l’album di Madeleine Vionnet - Madonna, al Festival del Cinema di Venezia, è salita sul red carpet con una abito vintage in seta modificato per lei - e frugare tra le prime creazioni di Elsa Schiaparelli, quando disegnava per Paul Poiret. Formidabili, quegli anni. In America esplodeva la musica jazz, il cinema esplorava le nuove possibilità del sonoro, Charles Lindbergh sorvolava l’Oceano, Francis Scott Fitzgerald prendeva duemilacinquecento dollari per un racconto, Theodore Dreiser scriveva Una tragedia americana, Madamoiselle Coco inventava la fragranza Chanel numero cinque (era il 1921).

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Erano gli anni del charleston. Wallis Simpson, altro chiacchierato personaggio da revival, al centro del film WE. Il mio regno per una donna, lo ballava benissimo, tra il primo e il secondo marito. E il massimo della tendenza erano figure femminili spregiudicate e leggermente androgine, com’è oggi l’attrice Keira Knigthley che ha adottato subito uno degli stupefacenti abiti scintillanti di paillettes. Ci vuole il fisico, per poterseli permettere. Durante la New York Fashion Week, Marc Jacobs ha presentato la sua collezione al Lexington Avenue Armory trasformato per l’occasione in una sala da ballo «anni ruggenti» dove hanno sfilato abiti a vita bassa, gonne al ginocchio e camicette Vichy mentre Ralph Lauren si è sbizzarrito con pantaloni di seta e minidress da sera arricchiti da frange, collane di perle e boa di struzzo. Roberto Cavalli, Etro, Ralph Lauren, Gucci, Dior,

chi più chi meno, rubano dettagli d’epoca: gli orecchini chandelier, la cloche, allora indispensabile per non avere freddo sulle prime automobili, le pochette, i sandali gioiello, il taglio corto à la garçonne. Siamo già nel clima della premiatissima serie televisiva Hbo The Boardwalk Empire, saga malavitosa dedicata al proibizionismo e all’affascinante, nonché corrotta Atlantic City. Costumi meravigliosi, più moderni di quello che sembrano, da copiare. Siamo già nell’annunciato remake del Grande Gatsby diretto da Baz Luhrman con Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan, e ci aspettiamo un riassunto filologicamente corretto dell’epoca, saccheggiabile dalle fashioniste: decolletèes e con il cinturino alla caviglia, le tipiche Mary Jane, non troppo alte, i tessuti leggeri, le tuniche (la scoperta della celebre tomba di Tutankhamon, introduce un certo esotismo, oltre al timo-

La donna anni Venti secondo Ralph Laurent e (foto in basso) Marc Jacobs. A sinistra, la jazz age nei modelli visti alle ultime sfilate

Abiti a vita bassa, minidress frangiati, boa di struzzo e orecchini chandelier, taglio à la garçonne e scarpe Mary Jane. Gli stilisti ritrovano lo sfavillio del decennio ruggente, rimuovendo, con disicanto un po’ scaramantico, la crisi del ’29 re della maledizione), il lungo bocchino in cima al quale infilare con noncuranza una sigaretta. E per una volta, nel gioco dell’eterno ritorno, moda femminile e maschile vanno a braccetto, almeno nelle sfilate. Se la donna si veste da flapper, l’uomo, nella nuova collezione di Prada, incarna lo stile della nascente Unione Sovietica che sarebbe arrivata pochi mesi dopo la Rivoluzione d’ottobre. In passerella nove attori che rappresentano gli uomini di potere: Gary Oldman, visto nella Talpa tratto da Le Carrè, Emil Hirsh, Garret Hedlund, Willem Dafoe, Alexandre e Victor Carril, Adrien Brody che in Midnight in Paris è un perfetto Salvador Dalì, Jamie Bell. Cappotti sovrapposti, camicie,

colletti alti sopra il collo alto, decorazione sulle giacche, scarpe con le soprascarpe, gemelli ai polsi, molto nero e un tocco di rosso.

Un’eleganza formale che, in versione spensierata troviamo anche nel film di Woody Allen, con Hemingway seduto a bere nelle brasserie e i Fitzgerald che ballano alla luce dei lampadari sfolgoranti, passano da una festa all’altra, incontrano un perplesso Luis Buñuel e una Gertrude Stein in vena di consigli. E, curioso, c’è una bellezza maschile di una perfezione levigata, teatralmente perfetta, quasi femminile, un po’ come in certi dei della passerella e della pubblicità migliorati dal photoshop.

Ma che cosa hanno di straordinario gli anni Venti? Facciamolo dire a Budd Schulberg nel romanzo I disincantati (Sellerio) uscito nel ’50. Manley Hallyday, nome sotto il quale l’autore nasconde un alcolizzato e infelice Francis Scott Fitzgerald, elenca il rimpianto per la musica meravigliosa, gli scrittori geniali, Eliot, Pound, Dos Passos, Lewis, Hemingway, le donne bellissime come Gloria Swanson, le maratone di ballo, la voglia di non dormire per non sprecare ore preziose: «Quei tempi avevano qualcosa di speciale - dice Schulnerg-Hallyday - la gente era più spiritosa e faceva meglio tutte le cose. E noi sapevamo dar loro la sensazione di essere più bravi di chiunque altro li avesse preceduti. E penso che anche i nostri divi del cinema fossero i migliori: Valentino era più bello, a suo modo, di tutti gli attori d’oggi». La gioia e l’incoscienza di vivere, la voglia di indebitarsi e correre incontro al mondo, la fretta di viaggiare conoscere, consumare, il primo accenno di femminismo, il primo assaggio di modernità, un pizzico di nevrosi. Gli anni Venti non sono un decennio come gli altri, bisogna affrontarli con un minimo di disincanto. Finiscono un anno prima, con il crollo di Wall Street, la crisi del ‘29. I suicidi, la bancarotta, Scott Fitzgerald a spremersi per un produttore hollywoodiano su banali copioni e il mondo che cambia, ancora una volta. Ma la moda resta così vitale, così sfavillante, così carica di energia, così allegra che per ora è meglio non pensarci.


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a colonna sonora, prima di tutto. Sì, perché una mostra come Da Bacon ai Beatles Nuove immagini in Europa negli anni del rock, fino al 12 febbraio al Museo della Permanente di Milano (catalogo Skira, 29,00 euro, testi critici di Enrico Crispolti, Chiara Gatti, Michele Tavola e Roberto Mutti) non può fare a meno dell’audioguida che diffonde That’s All Right, Mama di Elvis Presley, primo singolo registrato nel 1954 dal cantante di Tupelo per la Sun Records, l’addio dei Beatles datato ’70 con Let It Be e poi brani memorabili di Rolling Stones, Pink Floyd, Doors, Velvet Underground, Bob Dylan… Un mondo di suoni che hanno fatto epoca, mixati ai commenti sui quadri e sulle sculture in esposizione: settanta opere in totale, selezionate con rigore filologico da Chiara Gatti e Michele Tavola. E tutt’intorno, srotolate dai soffitti, le fotografie giganti che Renzo Chiesa scattò alle stelle del rock che venivano a suonare nel capoluogo lombardo: Jimi Hendrix al Piper, all’unisono con la sua chitarra elettrica; Mick Jagger al Palalido, catturato in una delle sue

L

il paginone

MobyDICK

La colonna sonora la fanno Elvis Presley, i Fab Four, i Rolling Stones, Dylan, i Pink Floyd e i Doors. E anche le opere (da Bacon ai Beatles) raccontano la ricerca di una nuova dimensione figurativa. In mostra alla Permanente di Milano la rivoluzione culturale dei mitici Sixties. Combattuta da musica e segno in cerca di un mondo nuovo scirà a dipingere il rumore di un petalo di rosa che cade su un pavimento di cristallo di un castello mai esistito», scrisse Jim Morrison cogliendo il senso d’un miracolo audiovisivo traboccante di colori, fisici e metaforici. Proprio lui, il Re Lucertola, che aveva abbandonato l’America hippy dei Doors per immedesimarsi con Parigi alla stregua d’un poeta maledetto. Ma fu un’illusione, quel miracolo, interrotta a muso duro dalla violenza del Sessantotto. Quegli anni, però, nessuno ce li potrà mai togliere dagli oc-

L’obiettivo era un miracolo audiovisivo che Jim Morrison vedeva in un pittore sordo, capace di dipingere il rumore di un petalo di rosa cadente adrenaliniche performance «stoniane»; Ian Anderson dei Jethro Tull al Teatro Smeraldo, immortalato in un attimo di pensosa quiete…

C’erano una volta, in Europa, gli anni a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta durante i quali l’arte e il rock solidarizzarono a tal punto da convincersi di poter cambiare per sempre il mondo. La grande rivoluzione sonora si mise a correre in parallelo con quella visiva plasmando l’essenza di una nuova cultura. «Smetterò di amarti solo quando un pittore sordo riu-

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chi e dal cuore. Nessuno potrà mai cancellare la rivoluzione artistica che partì dall’Europa e gettò le basi che fecero esplodere negli Stati Uniti la Pop Art globale. La ricerca di una nuova dimensione figurativa, racconta con precisione la mostra milanese, prende le mosse dalla lezione di Francis Bacon, Alberto Giacometti, Pierre Alechinsky, Karel Appel, Jean Dubuffet, Asger Jorn e Eduardo Paolozzi, che nel ’59 danno vita al MoMA di New York alla collettiva New Images of Man riconoscendosi in una frase emble-

matica stampata a chiare lettere sul catalogo: «Ogni periodo ha una sua peculiare immagine dell’uomo. Che emerge nelle poesie e nei romanzi, nella musica, nella filosofia, nelle commedie e nella danza; così come nella pittura e nella scultura». La figura umana, filiforme e visionaria, torna dunque protagonista sulla scena: debitrice dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto, in attesa che si consumi la fatidica svolta Pop. Se Bacon, creatore di volti e corpi claustrofobici (sintomatiche le due opere selezionate per l’occasione: The Man Of Military Cap e Three Figures In The Bathroom) dichiara di sentirsi «come una macchina macinatrice. Guardo ogni cosa, e ogni cosa viene poi triturata e mescolata per bene», dall’alto del suo dipingere gestuale Appel proclama che «la pittura, come la passione, è un’emozione piena di verità e risuona come un suono vivo, come il ruggito che viene dal petto del leone». E così via, passando dalle corrose, carnali silhouettes di Giacometti alle robotiche sculture di Paolozzi; dall’Art Brut di Dubuffet e Jorn, alle figurazioni allucinate di Alechinsky. Poi, battezzati quei Sixties che si riveleranno favolosi soprattutto nella Londra optical & psichedelica del fashion store Biba gestito dalla stilista polacca Barbara Hulanicki, delle minigonne inventate da Mary Quant, dell’Aston Martin guidata da Ja-

ARTE, RO e Madame U di Stefano Bianchi mes Bond, della rivalità fra Beatles e Rolling Stones e dalle baruffe a colpi di look fra Mods e Rockers, l’Europa si mette a declinare pitture che frullano nitide narrazioni e slanci emotivi.

Dall’Inghilterra, ecco le tante facce della Pop Art con l’inventore del movimento, Richard Hamilton (già matta-

tore, nel ’56, della collettiva This Is Tomorrow alla Whitechapel Gallery londinese con il collage Just what is it makes today’s homes so different, so appealing?) e poi David Hockney, coi suoi corpi gay immersi dentro assolate piscine borghesi, e Peter Blake. Quest’ultimo, nel ’67, stringe un patto di ferro col rock realizzando in collabo-


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ideando il concettuale immacolato del «beatlesiano» White Album e ritraendo in Swingeing London Mick Jagger e il mercante d’arte Robert Fraser, arrestati per possesso di droga e «paparazzati» a colpi di flash dentro un’auto della polizia.

In Francia, dopo aver mos-

OCK Utopia razione con Jann Haworth e su suggerimento di Paul McCartney l’affollatissima copertina dell’ellepì Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, risposta europea alla banana sbucciabile di Andy Warhol stampata sopra The Velvet Underground & Nico. Hamilton farà altrettanto (ma a tempo scaduto, nel ’68 e nel ’72),

Mick Jagger in una foto di Renzo Chiesa. “L’uomo dell’organizzazione” di Emilio Tadini. “Joan Baez” di Giuseppe Guerreschi. La copertina di “Sgt Pepper” di Peter Blake. “The man of military cap” di Francis Bacon. Sopra il titolo, “Swingeing London” di Richard Hamilton

so i primi passi alla Galleria Apollinaire di Milano, prende invece corpo il Nouveau Réalisme dell’accumulazione e dello scarto ideato da Pierre Restany e ben rappresentato in mostra dai manifesti lacerati (décollages) di Mimmo Rotella e dalle sculture da discarica di Cèsar, ottenute saldando rottami di ferro. Ancora dalla Francia, nel ’64 che vede la Pop Art americana trionfare alla Biennale di Venezia con Jim Dine, Claes Oldenburg e Jasper Johns, e il neo-dadaista Robert Rauschenberg meritarsi il Gran Premio, decolla al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris la Figuration Narrative che nella mostra intitolata Mythologies Quotidiennes impone lo stile condi sumistico/fumettistico Erró, l’enfasi visionaria di Eduardo Arroyo, gli scenari psichedelici di Samuel Buri, l’estremo rigore grafico di Peter Klasen, l’ingenuità di Cheval-Bertrand illuminata da cromatismi che sembrano rubati alla tavolozza di Henri Matisse e Pierre Bonnard. In perfetta sincronia, la «colonna sonora» di quell’anno insegue la British Invasion dei Beatles in America, che frutta ai Fab Four la vetta della classifica con I Want To Hold Your Hand, She Loves You e Can’t Buy Me Love; scandisce la pubblicazione del primo album dei Rolling Stones, dall’omonimo titolo; vede il battesimo dei Kinks e del loro successo più esplosivo, You Really Got Me. E la nuova arte italiana? Non è stata certo a guardare, mettendosi in mostra dal ’62 al ’68 al Castello Spagnolo dell’Aquila nella rassegna Alternative attuali, nonché al Premio Lissone confrontandosi spesso e volentieri con la Pop Art e il New Dada americani. Ben salda fra Bacon e i Beatles, legata a doppio filo a quella «musica ribelle» che (spediti in pensione Claudio Villa e Gino Latilla, metabolizzati i complessi beat che avevano portato al successo le covers di canzoni americane) fa scoprire alle nuove generazioni il rock con un orecchio alla radio (Bandiera gialla) e l’altro ai concerti (il Piper Club di Roma), si muove nell’ambito della Pop romana che frequenta il Caffè Rosati in Piazza del Popolo con l’enfant terrible Mario Schifano, il quale dipinge marchi

pubblicitari (Coca-Cola, Esso), omaggi ai Futuristi e palme sotto cieli traboccanti di stelle sottintendendo che «l’artista moderno lavora ed esprime un mondo più profondo, in altre parole l’energia, il movimento, le forze primitive», e puntualizzando: «Ho cercato di lavorare con la memoria sopra immagini che tutti vedono o avevano visto, maturandone e facendone emergere l’essenza». Franco Angeli, invece, gioca con i simboli del potere e della violenza effigiando aquile imperiali, dollari, svastiche, falci, martelli e lupe capitoline che sottolineano il tema della memoria, mentre Mario Ceroli ritaglia sagome nel legno parafrasando i lavori più cool del londinese Joe Tilson. L’arte Pop, ancora, viene declinata in varie forme da Bruno Di Bello che moltiplica l’emblematico volto del generale e politico israeliano Moshe Dayan alla maniera di Andy Warhol; Gianfranco Ferroni, che riempie le sue tele di oggetti e scarti del boom economico; Giuseppe Guerreschi, che ritrae psichedelicamente la cantante folk Joan Baez. A Milano, Emilio Tadini si muove in stile fumetto fra Pop Art e Metafisica, mentre Valerio Adami punta alla frammentazione e alle metamorfosi dell’essere umano che è «l’unico assoluto protagonista dei miei interessi», spiega. «Un uomo rappresentato nei suoi conflitti, nelle sue proiezioni future, nel martellare dei fatti, nella sua più sana energia, in una vita la cui essenza è la forza, con l’odio e l’amore per estremi».

Un punto di vista psicanalitico, dunque, che ritroviamo nelle avviluppanti figure organiche di Mino Ceretti e negli interni-esterni di Tino Vaglieri, entrambi devoti al surrealista Sebastián Matta; nel Realismo Esistenziale di Bepi Romagnoni e Antonio Recalcati; nei paesaggi compressi in una stanza di Leonardo Cremonini, stilisticamente vicini alla Figuration Narrative; nelle sculture polimateriche di Alik Cavaliere, che sembrano soffocare e annullare la figura umana; nelle «teste sospese» e nei bronzei «profili di caduta» scolpiti da Alberto Ghinzani. Il controcanto lo fa Enrico Baj, con la forza delle sue sarcastiche parate militari fatte di bottoni, medaglie e passamanerie che oscillano in moto perpetuo fra l’Ubu Roi, Kurt Schwitters e Francis Picabia. Il rock, intanto, ha continuato a girare intorno. E pensare che John Lennon l’aveva detto: «Non c’è niente di concettualmente superiore al rock’n’roll».

altre letture di Riccardo Paradisi

Il grande vecchio delle Br rticoli, saggi, inchieste giudiziarie, sentenze, testimonianze: abbondano analisi e ricostruzioni sulla più potente e sanguinaria organizzazione terroristica italiana, le Brigate rosse. Eppure sono ancora molte le lacune, i passaggi oscuri, i personaggi rimasti nell’ombra. Chi manovrava le Br, il libro inchiesta di Silvano De Prospo e Rosario Priore (Ponte alle grazie, 306 pagine, 14,60 euro) è un’indagine accurata sulla storia e i misteri dell’Hyperion, un centro di coordinamento dell’eversione internazionale che agiva dietro la maschera di una scuola di lingue straniere. Il libro, attraverso lo scandaglio d’una notevole mole di materiale, riesce a dare riscontro fondato all’ipotesi che le Br non agissero in autonomia ma che dietro all’organizzazione si muovesse un reticolo di interessi legato al terrorismo internazionale e ai servizi segreti.

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Alle radici della paura ove nasce la paura? Come cresce e si ingigantisce dentro di noi in tempi di feroce crisi come l’attuale? Danilo Zolo in Sulla paura. Fragilità, aggressività e potere (Feltrinelli, 125 pagine, 15,00 euro) analizza il rapporto che corre tra paura, aggressività e violenza. E si domanda se la lotta per l’esistenza debba sempre e per forza comportare scontro e conflittualità; qual è il posto occupato dalla politica nella gestione della paura e dell’insicurezza degli uomini e infine il ruolo della paura nel mondo globalizzato, con le sue guerre e la diffusione in ogni angolo della terra di una crescente precarietà e sopraffazione. Ma lo sguardo di Zolo non è di rassegnazione, di resa, bensì di pessimismo attivo: ci insegna cioè che fino all’ultimo non bisogna rinunciare a lottare contro l’universo sconfinato della follia umana.

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Che cosa è il fascismo el fascismo come prassi si è detto praticamente tutto. Ma alla teoria del fascismo, ai suoi miti, alle sue idee portanti s’è sempre fatta poca attenzione. Nel senso che al fascismo,

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spesso, s’è negato lo statuto d’una ideologia, ridotto a mero vitalismo o a semplice reazione. Emilio Gentile in un saggio dal titolo Le origini dell’ideologia fascista (Il Mulino, 508 pagine, 16,00 euro) dimostra che le cose stanno diversamente mettendo in luce il complesso di credenze, miti, programmi in cui l’ideologia fascista trovò compiuta espressione.

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Il denaro e la coscienza uanta coscienza può permettersi un manager? E quanta managerialità può permettersi un monaco? In altri termini è possibile conciliare etica ed economia? È possibile essere dei buoni cristiani trafficando talenti in un mondo sempre più soggetto alle leggi dell’economia? In Dio, i soldi e la coscienza (Edizioni Paoline, 316 pagine, 24,00 euro) il monaco benedettino Anselm Grun, economo dell’abbazia bavarese di Munsterschwarzach e Jochen Zeitz, top manager della Puma dialogano confrontandosi su temi fondamentali per il mondo contemporaneo: il successo e la responsabilità, l’economia e il benessere, la cultura e i valori. Un confronto da cui si individuano le possibili linee di azione produttive e sostenibili con l’ecologia del pianeta e soprattutto con l’ecologia umana.

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I peggiori anni della nostra vita Italia oggi appare su più fronti come un paese bloccato. Il welfare, la scuola, il mercato del lavoro, l’assetto istituzionale sono ancorati a schemi desueti e ogni tentativo di modernizzare la società deve scontrarsi con resistenze corporative fortissime. Ripercorrendo le vicende che hanno prodotto questo ritardo Anni 70, i peggiori della nostra vita (Marsilio, 204 pagine, 15,00 euro) mostra come l’origine dei nostri mali sia da cercare appunto negli anni Settanta, «il decennio lungo del secolo breve» del quale larga parte dell’opinione pubblica sembra essere ancora prigioniera. Un conformismo conservatore che si cela sotto le sembianze di un’ideologia progressista e che l’autocelebrazione costante della generazione del ’68 rivela. Nel libro introdotto da Maurizio Sacconi gli interventi tra gli altri di Giuliano Cazzola e Filippo Mazzotti.

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Narrativa

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Andrea Camilleri IL DIAVOLO, CERTAMENTE Mondadori, 169 pagine, 10,00 euro

li editori annusano i tempi di crisi, e facendone certo anche le spese e non solo per ragioni sensoriali, promuovono in molti nuove collane brevi, sperando che il tempo e il denaro misurati possano spingere la lettura e il desiderio di comprare. Libri brevi in una forma economica più elegante del solito come la nuova collana «Le libellule» di Mondadori inaugurata da un testo di Raffaele La Capria Esercizi superficiali, pensieri che strisciano sulla superficie del nostro tempo per saggiarne la consistenza e, più in profondità, gli umori. La collana che prende dunque il titolo da un componimento di La Capria, pubblica autori contemporanei italiani e stranieri; tra i primi titoli, Chiara Gamberale, Arnaud Rykner e Andrea Camilleri. Camilleri esce con Il diavolo, certamente, una raccolta di racconti brevi legati dal tema del tre: 33 racconti di tre pagine ciascuno. In questo indice ternario, che ha valenze certamente filosofiche e allusive alla centralità del numero tre, l’esercizio dello scrittore siciliano più che esercizio di stile è un equilibrismo di storie. In effetti più di una volta la coda del diavolo spunta dalle brevi e perfette scene rappresentate dai racconti, una coda con corredo di fastidioso sulfureo puzzo vista l’asprezza delle combinazioni umane. Perché di questo si tratta nei 33 percorsi di vita, e cioè di miserie e balletti umani. La lingua contorta e spessa così ben conosciuta di Camilleri, è tenuta a bada da un rigore e una pulizia linguistica e di stile che non sottrae spazio agli equilibri minuscoli, e ai passaggi repentini, che trasformano i personaggi dei vari racconti. Si tratta infatti di seguire vere e proprie trasformazioni, mutazioni genetiche delineate in breve, che d’improvviso cambiano i contorni dei personaggi e delle loro vite. Scritti in terza persona i racconti per lo più narrati sul versante dell’amore coniugale sono vere e proprie sferzate che aprono squarci di verità, visti attraverso le debolezze dei personaggi. O attraverso il codice dell’opportunismo o della paura o della necessità. Una chiave di straordinarietà e di fluidità di scrittura si trova di certo nella grande sintesi operata sulle vicende,

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libri

Personaggi

Se quel diavolo di

Camilleri ci mette la coda

Trentatré racconti di tre pagine l’uno usciti nelle mondadoriane “Libellule”. Dove vige l’asprezza delle combinazioni umane di Maria Pia Ammirati

che in un’estrema sollecitazione temporale dà la visione di scenari con tempi lunghi in rapidi mutamenti.Vediamo ad esempio la storia del bambino Tonino che, «dodicenne detesta la nonna paterna Ersilia nella cui casa è costretto a vivere assieme al papà e alla mamma». La nonna Ersilia è una vecchia detestabile dedita al gioco del lotto. La povertà dei genitori costringe Tonino alla convivenza forzata, alla scoperta del brutto che pervade ogni cosa nello squallore e nell’avidità praticata dalla nonna Ersilia. Quando Tonino resta solo con la nonna, i genitori sono in un certo senso fuggiti a cercar fortuna, s’affila l’odio e l’intelligenza del ragazzo.Tonino fa morire la nonna di crepacuore, giocando sulla passione del lotto. Il filone sicuramente più intrigante per scru-

tare la piccolezza umana e i suoi mille e imprevedibili risvolti è quello dell’amore (c’è anche quello della rivalità sul lavoro che non è da meno), in particolare l’amore coniugale. Storie di coppie giovani, di coppie più navigate, di incontri fortuiti. Nell’amore, soprattutto quello di routine, quello sicuro sigillato dal matrimonio, vale come regola l’evasione dalla noia, e il contrappasso più immediato resta sempre il tema del tradimento. Manlio protagonista del racconto numero 11 «non riusciva ad abituarsi al russare di Floriana», nella tensione che si crea nei notturni della coppia tra una personalità carnale come quella della moglie e una debolezza psichica e fisiologica come quella del marito, ha la meglio Floriana che appaga i sensi tra sonno e sesso senza farsi troppi scrupoli. Un po’come avviene nel racconto numero 21 dove un’altra coppia, Emma e Arturo, si affrontano sul tema delle corna. Così va il mondo quando il diavolo ci mette la coda.

In memoria di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore a storia di questo libro mi insegue da tempo. Il suo protagonista non c’è più e se ci fosse ancora non sarebbe - purtroppo - il protagonista di queste pagine. Prima che se ne andasse, a quel modo, non lo conoscevo. Forse, lo avrò anche visto in fotografia e mi sarà passata sotto il naso qualche sua intervista e delle dichiarazioni ma sono cose che non contano. Perché per l’Italia «il sindaco pescatore» ha iniziato a vivere quando è morto. Noi siamo il Paese della fortuna postuma.Vale per gli scrittori ma anche per i buoni amministratori. Da quando fu ucciso con sette proiettili calibro 9, mentre ritornava a casa, Angelo Vassallo mi insegue. Lo so, mi insegue. Il libro mi è giunto a casa una prima volta. Lo visto, l’ho sfogliato, poi l’ho lasciato sulla scrivania e giorno dopo giorno è stato nascosto dagli altri libri e dai giornali. Ma la storia di Angelo Vassallo ha continuato a inseguirmi. Un articolo, un ricordo, un’intervista e il nome e la storia del «sindaco pescatore» ritornavano a galla. Così ha fatto anche il libro che è giunto una seconda volta tramite il corriere postale. Un’altra copia che mi ha richiamato subito alla mente la prima copia. L’ho recuperata e, questa volta, ho letto il

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di Giancristiano Desiderio libro di Cosimo Cito: Assassinio di un sindaco perbene edito da Fuorionda con prefazione di Nando dalla Chiesa. La storia di Angelo Vassallo è semplice e come tutte le cose semplici ha qualcosa di eccezionale. Ci si chiede - come fa il giornalista Cosimo Cito e come fa anche Nando della Chiesa - chi era AngeloVassallo, ma è una domanda retorica anche quando è sincera. Sì, anche quando è sincera, anche quando si intende ricostruire la sua vicenda umana e politica, si vogliono raccogliere informazioni, capire perché fu ucciso il 5 settembre 2010. È involontariamente retorica perché una volta saputa la notizia dell’assassinio del sindaco perbene già si sa chi era: un uomo semplice che faceva il suo dovere. Un sindaco che fa il suo dovere può essere ucciso. Io ci sono stato da quelle parti. A Pollica, il comune amministrato con cura e rispetto dal “indaco pescatore, ad Acciaroli, frazione di Pollica, a Pioppi, altra frazione di Pollica che a sua volta è «frazione» del Cilento «passato alla storia patria come terra di utopie risorgimentali e car-

Cosimo Cito ricorda l’impegno (nel Cilento) che un uomo perbene ha pagato con la morte

bonare»: «Eran trecento, erano giovani e forti e sono morti». Da quelle parti Angelo Vassallo voleva fare, e la faceva, una politica che aveva uno scrupolo: la buona amministrazione che rispetta la legge e che mette a frutto le risorse naturali e storiche. Dunque, gestione oculata, niente spesa facile, niente cemento. Più manutenzione, meno costruzione. Più qualità, meno quantità. Un sindaco perbene deve saper dire no, deve sapersi opporre. Il pescatore che faceva il sindaco senza smettere di fare il pescatore diceva no perché - insieme con i suoi concittadini che gli avevano affidato per la quarta volta l’amministrazione del municipio - aveva scelto di investire sul mare, il cielo, l’aria, i pesci, il tempo. Io da quelle parti ci sono stato e perciò so per esperienza che può funzionare. Un sindaco perbene che dedica il suo lavoro a rendere tutto o la maggior parte delle cose «buone» - il mare, l’aria, la pesca, il tempo, la quiete, le strade, i palazzi - può fare grandi cose. La buona amministrazione è l’amministrazione delle piccole cose fatte con cura. Si può perfino fare bene il sindaco senza tanti, troppi soldi. E si corre il rischio di essere un ostacolo a chi dei tanti, troppi soldi facili ha fatto il senso di una vita sprecata. Angelo Vassallo mi insegue come la buona coscienza.


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spettacoli Jazz

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di Adriano Mazzoletti eah me, Talking to Ya significa grosso modo «Ascoltami, parliamone» oppure «Dammi retta, parliamo di questo». È il titolo di una famosa canzone che Louis Armstrong, con il suo complesso dei Savoy Ballroom Five, incise a Chicago il 12 dicembre 1928. A volte il titolo, su qualche edizione, era riportato come Hear Me Talking ToYa, ma il senso è sempre lo stesso, come si può anche facilmente dedurre dalla semplice frase che Armstrong, dice all’inizio del disco. Perché Armstrong dice con forza Heah Me Talking To Ya? Perché vuole che l’ascoltatore presti particolare attenzione ai tre magnifici assolo che nell’ordine sono quelli del pianista Earl Hines, del sassofonista Don Redman, il primo - in ordine temporale - fra grandi sassofonisti contralto della storia del jazz e di lui stesso. Perchè grande attenzione? Perché i musicisti del periodo classico del jazz erano solisti considerare i loro assolo come veri e propri discorsi con un significato profondo e una «storia da raccontare». Ma non è di questa splendida incisione che voglio parlare, bensì di un importante libro che nel 1955, ormai cinquantasei anni fa, Nat Shapiro e Nat Hentoff, pubblicarono negli Stati Uniti con il titolo appunto di Hear Me Talking to Ya e con il sottotitolo La storia del jazz raccontata dagli uomini che l’hanno fatta. Quel volume diventò in breve un best seller in ambito jazzistico, tanto che le edizioni Correa in Francia si affrettarono a pubblicarlo; e l’anno successivo, il 1956, il libro uscì con il titolo Ecoutez-moi ça. L’Histoire du Jazz racontée

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Classica

E Jelly Mezz fece la marmellata par ceux qui l’on faite. Ne uscirono diverse edizioni non solo in Francia, ma anche in altri paesi europei. Di cosa tratta il libro? Come dice chiaramente il sottotitolo è la storia del jazz, quella autentica, narrata dagli stessi protagonisti, che nel corso di molti anni e con un paziente lavoro, i due autori, hanno raccolto dalle voci stesse dei musicisti. È un racconto affascinante che da sempre gli appassionati e i cultori del jazz hanno letto in edizione originale. Ed è soprattutto un racconto senza quella mania di protagonismo che negli anni successivi, ha spesso caratterizzato il mondo dello show business. Nelle oltre 400 pagine delle edizioni americana e francese, sembra quasi ascoltare «le voci» dei grandi, meno grandi o sconosciuti musicisti le cui testimonianze sono raccolte. Si viene a sapere dalla «voce» di Mezz Mezzeow come è nato il termine jam session, pratica ormai in uso anche nel mondo del rock. «A Chicago nel 1924 c’era uno spaccio di alcolici dove erano soliti riunirsi i musicisti. Credo che il termine jam session sia nato proprio in quella cantina dove eravamo soliti suonare per divertimento. Ognuno prendeva un assolo sostenuto dagli altri. Spesso

qualcuno mi gridava: “Hey Jelly cosa stai facendo? Avevo quel soprannome. E io rispondevo, giocando sulle parole (fra gelatina e marmellata),“Jelly sta facendo una jam”. Credo che l’espressione jam session sia nata proprio in quel posto». E Duke Ellington: «Rammento che una volta scrissi un pezzo nel ricordo di quando ero bambi-

no, mentre ero a letto, ascoltavo un uomo fischiare fuori sulla strada e il rumore dei suoi passi che si allontanavano. Prendete il mio Harlem Air Shaft. Ci sono tante cose in un cortile ad Harlem. Attraverso l’aria puoi trovare la gente che litiga, il profumo di una cena, due persone che si amano. Ascolti il parlottio che fluttua, sento la radio del custode, il profumo del caffè. Un cortile vive di contrasti. Ho cercato di mettere tutto questo in Harlem Air Shaft». In questo libro splendido, i racconti delle centinaia di musicisti che «parlano» sono a volte allegri, a volte tristi, spesso drammatici. Un libro che finalmente dopo cinquantasei anni viene pubblicato in Italia con il titolo originale Hear me talking to ya e una bella foto di Armstrong in copertina. Le edizioni sono quella della Italic di Ancona. Le pagine sono 253, rispetto alle 400 dell’edizione francese, per la riduzione del corpo dei caratteri. La traduzione accurata e quasi priva di errori è di Massimo Tarabelli. Il costo di questo volume che raccomando vivamente e non solo agli appassionati di jazz, è di 18,00 euro.

Louis Armstrong e, sopra il titolo, Duke Ellington. A sinistra la copertina del libro “Haer Me Talkin’ To Ya”

KZ Musik, i suoni dei lager per non dimenticare Z Musik. Musica concentrazionaria. Nel cinico burocratese del Terzo Reich, la sigla KZ designava i campi di concentramento. Un termine dal suono sinistro, oggi scelto volutamente come titolo di un’imponente operazione editoriale, che vede la luce in queste settimane, a ridosso della Giornata della Memoria. E il 6 febbraio sarà presentata nella sala delle colonne, alla Camera dei Deputati. Si tratta di musiche al 90%, e composte da musicisti di ogni nazionalità e religione, di ogni estrazione sociale, artistica, professionale: ebrei, cristiani, rom, baschi, quaccheri, sufi, comunisti, prigionieri militari e civili, omosessuali, disabili, etc. etc.. Musicisti rinchiusi fra il 1933 (apertura del KZ Dachau) e il 1945 (liberazione dei campi alla fine della guerra) nei campi di concentramento, prigionia, sterminio, lavori forzati, nei penitenziari militari, nei gulag istituiti sia dal nazismo sia dagli altri paesi belligeranti in Europa, Asia, Africa, Oceania. Pubblica-

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di Francesco Arturo Saponaro ta nell’etichetta Musikstrasse come frutto di anni di registrazioni, l’Enciclopedia discografica KZ Musik appare in un grande box di 24 cd-volumi (140 euro, info 06 3972818439728216). Ogni volume è costituito da un cd e da un libretto recante notizie su autori e opere, e, per la musica vocale e corale, i testi in lingua originale. Nel box è inoltre contenuto un libro di guida storica all’ascolto, realizzato dall’Assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia. La pubblicazione offre una scelta di 285 creazioni (provenienti da 52 campi) che spaziano attraverso tutti i ge-

neri e linguaggi musicali. Gli autori presentati sono 88, la metà circa ebrei. Quest’impresa ha un padre, che diede inizio alla sua ricerca oltre vent’anni fa, e che nell’ultimo decennio ha dato impulso anche all’attività di esecuzione e registrazione. Il maestro Francesco Lotoro, docente di pianoforte nel Conservatorio Umberto Giordano di Foggia, una ventina di anni fa si recò a Praga, alla ricerca di una composizione di Gideon Klein. Ma non immaginava di riportare alla luce una miniera. Era infatti partito con una valigia, e dovette comprarne un’altra. Da lì l’indagine è diventata passione feb-

brile, e si è aperta a livello internazionale, raccogliendo e catalogando la produzione musicale dei Lager, anche mettendo insieme e valorizzando il precedente lavoro musicologico di altri studiosi di vari paesi, o fissando le testimonianze, magari soltanto orali, di musicisti sopravvissuti e dei loro parenti. Risultato: un archivio di circa 4 mila spartiti, 15 mila documenti cartacei, centinaia di registrazioni fonografiche e microfilm. E se alle ore 19,15 di domani, domenica 29 gennaio, vi trovate nei pressi di Roma, nel santuario di San Gaspare in San Paolo [sic] ad Albano Laziale, ne avrete un significativo saggio dal Coro e Consort vocale Diapente, diretto da Lucio Ivaldi, che esegue la Messa di Kreuzburg, dal campo nell’Alta Slesia in cui nacque questa pagina. Pagina simbolo, perché composta in rito cattolico dal quacchero William Hilsley, musicista inglese, a beneficio dei suoi compagni di prigionia, seguaci dell’altra fede.


Babeliopolis

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ulla bara in frassino chiaro di Carlo Fruttero sono stati poggiati i suoi occhiali, una scatola di metallo delle sue Turmac e un pacchetto di fiammiferi da cucina. Magari avrebbero potuto poggiarci anche il primo numero di Urania a sua cura, quello del maggio 1962. Nella biblioteca civica di Castiglione della Pescaia (Grosseto), di cui era stato nominato cittadino onorario dalla precedente giunta nel 2010 e dove ormai viveva, non si respirava l’aria di camera ardente soprattutto per quella miriade di libri sparsi per ogni dove, anche sul pavimento come si può vedere nelle foto pubblicate dai giornali, decine e decine di volumi fra cui Pinocchio, I promessi sposi, le Fiabe italiane curate da Italo Calvino (accanto al quale si è voluto far seppellire nel cimitero del paese), addirittura, senza motivo, una biografia di Guevara, lui che comunista non era mai stato e che aveva snobbato gli inviti a iscriversi al Pci come tutti alla Einaudi. Chissà se c’erano anche le antologie di fantascienza che curò insieme all’inseparabile amico e collega Franco Lucentini (suicidatosi nel 2002, nello stesso modo di Primo Levi): i quotidiani non l’hanno riportato. In fondo alla sala una gigantografia in bianco e nero che lo immortala in spiaggia di fronte al mare con quel suo volto caratteristico, la piega naturale delle bocca che gli ha dato sempre un’aria un po’ sprezzante, un po’ disgustata…

S

Il fatto è che Carlo Fruttero, morto il 15 gennaio a 86 anni, fra le tantissime cose che ha fatto, si sarebbe dovuto ricordare in modo non approssimativo anche per un aspetto molto singolare e simbolico: quello di aver fatto accettare all’intellighenzia italiana (non diremo «sdoganato») la cosiddetta «letteratura di genere» (avventura, poliziesco, orrore, fantascienza) sia con la sua (e di Lucentini) attività di antologista e direttore di collane, sia come romanziere. Sì, esattamente quella intellighenzia impegnatissima e con la puzzetta sotto il naso che non amava molto la tanto vituperata «narrativa di evasione» che distoglieva dal «sociale» e sollecitava la dannatissima «fuga dalla realtà». E invece proprio lui, il torinese Fruttero ad appena 33 anni pubblicò quella che ancora oggi si può considerare una pietra miliare della fantascienza in Italia,

MobyDICK

ai confini della realtà

L’uomo

che sdoganò la fantascienza di Gianfranco de Turris l’antologia Le meraviglie del possibile (Einaudi, 1959). A soli sette anni dall’approdo ufficiale della science fiction in Italia con Urania (ottobre 1952), Fruttero effettuò una straordinaria operazione editoriale con l’etichetta più

dato dignità ai racconti dell’orrore, sia quelli classici all’inglese, sia presentando in Italia, praticamente per la prima volta, insieme a Bruno Tasso curatore di Un secolo di terrore (Sugar, 1960), H.P. Lovecraft. È stato evidentemente questo suo spe-

Carlo Fruttero va ricordato anche per aver portato sugli altari della cultura italiana la cosiddetta “letteratura di genere”. Una “missione” compiuta con l’amico Lucentini attraverso la cura di fondamentali antologie e della celebre collana Urania. Anche se non tutte le sue scelte sono condivisibili sofisticata e, appunto, «impegnata» dell’epoca facendosi approvare una scelta di racconti americani accompagnati da un saggio introduttivo di un grande critico e poeta, Sergio Solmi, che ancora oggi, checché qualcuno possa dire, è una delle cose più originali e profonde scritte in merito (a parte gli entusiasmi «astronautici») considerando la fantascienza non pura e semplice «avventura spaziale», ma di cui si andavano a rintracciare le radici mitiche e favolistiche definendola la «fiaba dell’era spaziale». In tal modo un genere considerato di «serie B» venne proposto in modo intelligente e accattivante alla nostra cultura che snobbava per principio certe cose, abbinandole nel suo disprezzo ai fumetti. Tre anni dopo, in coppia con Lucentini, rinnovò il successo con Il secondo libro della fantascienza (Einaudi, 1961) che, pur se non raggiungeva l’eccellenza dell’altra, restava sempre su un livello ragguardevole. E non bisogna dimenticare che un anno prima con Storie di fantasmi (Einaudi, 1960) Fruttero aveva

cifico interesse che lo portò all’attenzione della Mondadori che nel maggio 1962 lo scelse come curatore di Urania succedendo a Giorgio Monicelli che se ne era occupato dall’inizio sino al 1961. Nel giugno 1964 venne affiancato dall’inseparabile Lucentini e insieme ne hanno effettuato le scelte per oltre vent’anni sino al novembre 1985. Sempre insieme e sempre per Mondadori hanno poi curato varie antologie: Universo a sette incognite (1963), L’ombra del 2000 (1965), Il dio del 36° piano (1968), ma è senz’altro da citare anche I mostri all’angolo della strada (1966), con una strepitosa copertina di Karel Thole, l’illustratore di Urania, che fu, pur con grandi pecche organizzative e di traduzione, il primo tentativo di offrire in Italia una lettura organica della narrativa di Lovecraft.

Carlo Fruttero (con Franco Lucentini) aveva ovviamente una sua specifica visione della narrativa «di genere» che si può così sintetizzare: 1) la fantascienza è una forma letteraria e come tale il suo unico scopo è la «leggibilità»,

l’entertainment, non essendo portatrice di alcun «messaggio», di alcuna tesi; 2) di conseguenza è inutile approfondirla con discorsi troppo critici, troppo complicati: sono importanti le specifiche idee e come sono esposte, e quindi restando solo su un piano superficiale; 3) la fantascienza non ha confini precisi e quindi vi si può far entrare di tutto, anche il gotico, anche l’horror, anche il fantastico, anche Lovecraft, Machen, Hodgson. Il che potrebbe anche essere condivisibile, ma la scelta non è giustificata da alcun ragionamento critico, o grazie a una concezione complessiva della letteratura dell’Immaginario coerente e supportata da una analisi approfondita; 4) scarso o nessun rispetto per i testi in sé: le traduzioni possono essere tagliate, sunteggiate, adattate secondo i gusti dei due curatori se per loro gli originali sono noiosi, o mediocri, o troppo prolissi, o per qualunque altro motivo; 5) gli italiani non sanno scrivere fantascienza e quindi occorre indirizzarli opportunamente e in modo didascalico: per questo crearono in appendice a Urania la rubrica «Il marziano in cattedra» poi «FS italiana» che venne sospesa senza portare alcun frutto concreto, anche perché la collana non ospitò mai racconti in appendice o romanzi a firma italiana.

Nessuna apertura dunque agli autori italiani e alla fantascienza ambientata in Italia. Il che ha prodotto un ritardo enorme nello sviluppo di questa narrativa da noi: Urania ha aperto ai nostri scrittori sono nel 1990 con la creazione del Premio Urania, ma se avesse messo a loro disposizione le sue pagine trent’anni prima ci sarebbe stata una maturazione più a lungo termine, sarebbero nate prima importanti professionalità. Ed è assai singolare che fu proprio Fruttero insieme a Lucentini a dimostrare l’esatto contrario, che cioè gli italiani erano capaci di scrivere una «narrativa di genere» del tutto autonoma e originale con lo strepitoso successo di quei due gialli tipicamente italiani che sono stati La donna della domenica (1972) e A che punto è la notte (1979)!


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

16.822 FIRME PER CAMBIARE DAVVERO 16.822 sono le firme che, con l’associazione culturale Cambiare Davvero, abbiamo consegnato mercoledì 25 gennaio al Sindaco di Roma Gianni Alemanno. 16.822 sottoscrizioni di cittadini romani a sostegno della nostra proposta per l’istituzione dell’Anagrafe pubblica del Patrimonio immobiliare di Roma Capitale, ossia un archivio on line sul sito del Comune in cui siano elencati gli appartamenti, le case, i negozi, gli uffici e i locali gestiti dall’amministrazione capitolina con indirizzi, valori catastali, caratteristiche e canone annuale di affitto. Nell’anagrafe dovrà esserci anche una sezione dedicata ai beni sequestrati alla criminalità organizzata e affidati al Comune di Roma. Una misura di trasparenza semplice quanto necessaria che permetterebbe a tutti i romani di verificare com’è gestito il loro patrimonio e che presto diventerà realtà. Il Sindaco Alemanno ha infatti pubblicamente appoggiato la nostra proposta di delibera e ha garantito che sarà presto discussa in Aula Giulio Cesare, auspicando addirittura l’approvazione all’unanimità. Una grandissima soddisfazione per chi, quelle 16.822 firme, se le è sudate davvero: quelle centinaia di volontari, ragazzi e ragazze, ma anche madri e padri di famiglia, giovani e meno giovani che, per tre mesi, hanno organizzato 11 punti di raccolta in altrettanti quartieri della Capitale con una tenacia, una costanza e un entusiasmo che dimostrano che un modo diverso di fare politica è possibile. Una politica che non si limita alle critiche ma sceglie di fare proposte utili ai cittadini: l’Udc in Campidoglio l’ha fatto con il Quoziente familiare, introdotto nel 2010, e lo sta facendo con l’Anagrafe pubblica del patrimonio. Ma non solo: la nostra proposta per l’abolizione delle auto blu dell’amministrazione capitolina, sui cui altre 16mila firme sono state raccolte, ha anticipato le indicazioni del Governo Monti, che chiedono agli enti locali tagli significativi in questo campo. Dulcis in fundo, la campagna “3 firme per Cambiare Davvero”, partita da piazza del Popolo il 16 ottobre scorso e arrivata in Campidoglio il 25 gennaio, si chiude con un’adesione pesante: quella del Sindaco Alemanno, che ha deciso di sottoscrivere la proposta di legge di iniziativa popolare per la reintroduzione delle preferenze. Vogliamo cambiare davvero, e questo è solo l’inizio… Alessandro Onorato CAPOGRUPPO UD C I N CAMPIDOGLIO, T R A I FONDATORI D E LL’ ASSOCIAZIONE CULTURALE CAMBIARE DAVVERO

Bagnasco evidenzia la crisi dei valori: ora bisogna ripartire dalla famiglia Dalle parole del cardinale Bagnasco emerge in modo chiaro che la crisi che colpisce il nostro Paese non è soltanto economica ma riguarda anche i valori e le istituzioni. Ed è anche chiaro che nella ricerca del bene comune un ruolo fondamentale lo ha la famiglia che «resta il bene per eccellenza, giacché è il soggetto che per definizione lo moltiplica», ed è «il crogiolo formativo e centrale di irrorazione di gratuità e solidarietà». È per questo che, nella ricerca di nuovi modelli di welfare, di lavoro e di economia che consentano di uscire da questa crisi, non si può non ripartire proprio dalla famiglia. Il Forum tenta di farlo, proponendo strumenti (come il FattoreFamiglia) che portano il “modello famiglia”all’interno delle varie dimensioni della società rendendole più giuste e più eque. Il presidente della Conferenza episcopale si è soffermato anche sul rapporto tra famiglia, lavoro e festa che sarà al centro dell’incontro mondiale delle famiglie a Milano. «La domenica, che nella tradizione del nostro Paese è dedicata alla famiglia», afferma Bagnasco, «non può essere sacrificata all’economia, indebolendo anche in questo modo un istituto che sempre di più si conferma, insieme alla persona, come la prima risorsa di una società che voglia essere non una moltitudine di individui ma un popolo coeso e solidale. È già fin troppo evidente che, nell’ambito dei poteri globali, si vuole rompere le reti virtuose, e ridurre l’uomo in solitudine perché sia meglio manipolabile». Il rapporto tra famiglia e festa, che potrebbe sembrare marginale, diventa quindi di grande attualità e delicatezza e si inserisce a pieno titolo nelle grandi questioni che riguardano la famiglia e la società. Il Forum che da sempre è impegnato su questa lunghezza d’onda è pronto a ripartire insieme alle famiglie italiane sull’onda dello stimolo che verrà dall’evento milanese.

Daniele Nardi, forum delle associazioni familiari

NASSIRIYA: CATTURATI I VILI ASSASSINI Vorrei esprimere la mia grandissima soddisfazione per l’arresto dei vili macellai di al-Qaeda, colpevoli della strage di Nassiriya. Il grido di giustizia che si levò allora dalla voce degli italiani uniti è stato ascoltato. Complimenti alla professionalità del Ros e degli inquirenti. Penso che il nostro impegno nelle missioni umanitarie internazionali deve, quindi, continuare rafforzato dalla consapevolezza che nel mondo non può esserci pace senza giustizia.

Mariagrazia Bianchi

GETTONI DI PRESENZA Nel mentre siamo tutti chiamati a fare sacrifici nel tentativo di far ripartire l’economia, abbiamo appreso dell’entità dei gettoni di presenza dei consiglieri comunali. In particolare abbiamo scoperto che gli importi non sono legati al numero degli abitanti ma seguono criteri che sfuggono alla capacità di intendere di noi comuni mortali. Il gettone di presenza dei consiglieri comunali di Roma, che ha una popolazione di circa tre milioni di abitanti è di 72 euro, mentre quello dei consiglieri di Milano, con

oltre un milione di abitanti in meno, è di 120 euro. Lo stesso gettone a Palermo (700mila abitanti) è di 156 euro; a Treviso è di 92; a Milazzo è di 100 euro. Il più alto è quello dei consiglieri comunali di Verona che percepiscono 160 euro per ogni seduta. Senza volere imbarcarci in polemiche o speculazioni politiche, è di tutta evidenza che la legislazione che ha consentito queste grosse disparità e sproporzioni va modificata urgentemente, al fine di stabilire dei parametri uguali in tutto il territorio nazionale, legati in modo principale alla popolazione residente. Nell’occasione forse è bene legare la corresponsione del gettone di presenza alla partecipazione a tutta la seduta e a tutte le votazioni, al fine di evitare gli abusi e le furbizie di chi, dopo l’appello che fa scattare la corresponsione del gettone, si allontana e non partecipa ad alcuna votazione. Sappiamo bene che la riduzione dell’importo dei gettoni non risanerà le casse dei comuni ma costituisce comunque un segnale positivo che le persone si aspettano, perché bisogna dare l’esempio. E l’esempio deve venire dall’alto.

Luigi Celebre

L’IMMAGINE

VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

La scatola nera... anzi arancione La scatola nera è stata sviluppata dal chimico australiano David Warren (1925-2010). Le moderne scatole nere sugli aerei sono composte da tre unità. La prima registra le conversazioni tra i piloti; la seconda acquisisce i dati tecnici (altitudine, velocità, temperature, turbolenze ecc.), mentre la terza è il dispositivo dove vengono immagazzinate le informazioni raccolte dalle prime due unità. L’uso della scatola nera è consolidato nel trasporto aereo, ma la sua presenza sulle navi è diventata obbligatoria in Italia soltanto dal 2008, con l’entrata in vigore del decreto 196/2005, per le navi passeggeri e per tutte le navi di stazza superiore a 3000 tonnellate che fanno scalo in un porto nazionale. Il dispositivo in questo caso si chiama Voyage data recorder (Vdr) ed è collegato ai sensori posizionati sul ponte di comando e nelle zone sensibili della nave. La Vdr, resistente agli urti, al fuoco e all’alta pressione, raccoglie informazioni sulla posizione della nave, sulla sua velocità e accelerazione, sulle operazioni effettuate sul timone, sullo stato delle porte ignifughe e su quelle a tenuta stagna. Inoltre, registra le conversazioni che avvengono sul ponte di comando e via radio dalla nave verso l’esterno. Una curiosità: la scatola nera è in effetti arancione per renderla più facile da trovare tra i resti di un aereo o di una nave.

SANITÀ E INFORMAZIONE Mi occupo ormai da tanti anni di oncologia e sono stato per un lungo periodo negli Stati Uniti. Il rapporto medico-paziente oltreoceano è differente dal nostro. Di fronte ad una malattia oncologica, il medico statunitense espone il caso al paziente con estrema franchezza, circostanziando la diagnosi, indicando tutte le possibili terapie e la conseguente aspettativa di vita. È chiaro che l’impatto emotivo sul paziente è forte. Resistere e combattere dipende dalla propria energia e dall’ambiente che ti circonda che ti può sostenere. In Italia non c’è un approccio codificato e in questo caso lo si può leggere come un bene oppure come un male. Il paziente volendo può non conoscere la sua situazione e continuare la sua vita, senza dover sopportare il peso di una realtà talvolta drammatica. Chi è vicino al malato se ne fa carico. Se la malattia è superabile si evitano sofferenze psicologiche inutili. Se non è superabile, si soffre alla fine per qualche mese con una consapevolezza minore. È difficile dire quale dei due approcci, lo statunitense o il nostro, sia più giusto in assoluto.

Alessandro Bovicelli

NISIDA COME ALCATRAZ

APPUNTAMENTI FEBBRAIO Venerdì 10 - ore 11 - Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

LE VERITÀ NASCOSTE

Cuore (e latte) di mamma Amore per gli animali, istinto materno, credo indù per il quale le mucche sono animali sacri? Questa è la storia singolare di Chouthi Bai, una donna indiana, che vive nel villaggio di Kilchu nel Rajasthan. Alla morte della sua mucca, tre giorni dopo il parto, la signora si è presa cura del vitellino accudendolo e allattandolo tre o quattro volte al giorno, proprio come un neonato

Sono anni che sentiamo discorsi triti e ritriti sulla possibilità di sfruttare il turismo al sud come risorsa attiva per il futuro del Paese. Ma poi ciò che si potrebbe fare, non si pensa nemmeno di attuarlo. Un esempio è Nisida, l’ameno isolotto vicino Napoli e Bagnoli, ancora penitenziario giovanile per pochi sfortunati. Orbene, mi chiedo perché Alcatraz dopo la chiusura è diventato un gioiello di visite turistiche d’oltreoceano, mentre Nisida, che gioiello lo è sempre stato, debba restare l’emblema dell’inefficienza del Mezzogiorno commissariato.

Bruno Russo


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il personaggio della settimana In vista delle primarie in Florida di martedì prossimo, il candidato del Gop attacca e offusca Newt Gingrich

The Mormon factor

John Fitzgerald Kennedy fu il primo presidente cattolico. Barack Obama, il primo afro-americano a conquistare la Casa Bianca. E adesso Mitt Romney vuole un record anche per i mormoni di Maurizio Stefanini el 1844 Joseph Smith, fondatore di quella Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni i cui adepti sono popolarmente definiti mormoni e sindaco di quella città di Nauvoo che lui stesso aveva fondato al confine tra Illinois e Iowa, si candidò alla presidenza degli Stati Uniti. Ne seguì una reazione popolare in base alla quale lui stesso, il 27 giugno fu linciato in una sommossa, assieme al fratello e successore designato Hyrum. Nel 1968 George Romney, un mormone che dopo essere stato tra 1954 e 1962 amministratore delegato della General Motors era diventato nel 1963 governatore del Michigan, si presentò alle primarie repubblicane, e partì pure in testa. Quasi nessuno rilevò che si trattava del primo mormone a candidarsi alla presidenza Usa dai tempi di Smith, e piuttosto qualche dibattito ci fu sul fatto se, essendo nato in territorio messicano, potesse applicarsi a lui la dicitura della Costituzione secondo cui il capo dello Stato deve essere natural-born citizen. Prima che dovesse scendere in campo a chiarire il dubbio la Corte Suprema, ci pensò però lui a risolvere il problema, con lo squalificarsi a colpi di gaffes. Insomma, alla Convention repubblicana di Miami del 5-8 agosto si presentò con appena 50 delegati. Ottenne la nomination Nixon, che comunque una volta alla Casa Bianca lo fece per quattro anni Segretario, cioè ministro, all’Edilizia e allo Sviluppo Urbano. Nel 2000 il mormone Orrin Grant Hatch, dal 1977 senatore di quello Stato dello Utah dove i mormoni rappresentano il 68% della popolazione, si candidò alle primarie repubblicane. Ma il 24 gennaio prese solo il 4% in Alaska e l’1% nello Iowa, e si ritirò. Nel 2008 il mormone Mitt Romney, figlio di George e tra il 2003 e 2007 governatore del Massachussets, si candidò alle primarie repubblicane. Vinse 11 Stati, arrivò secondo in altri e terzo in 9, e conquistò 271 delegati. Ma arrivò solo terzo. Nel 2012, di nuovo Mitt Romney è sceso in campo, per essere designato come il repubblicano che dovrà cercare la rivincita contro Obama. E stavolta sembra lui l’uomo da battere, anche se dopo i primi successi la sua corsa si è improvvisamente complicata. Un suo problema, è una certa opacità delle sue finanze personali, con tanto di conto nel paradiso fiscale di Cayman. Ma l’altro problema, è che di nuovo sembra emergere una questione mormone. Un dubbio se gli Stati Uniti

N

sono pronti per avere il loro primo presidente mormone, in gran parte simile a quello che si ebbe nel 1960 su John Fitzgerald Kennedy primo presidente cattolico e a quello che si è avuto anche nel 2008 su Barack Obama primo presidente nero. A sinistra, i mormoni non riscuotono troppo appeal. Abbiamo visto che dopo Smith tutti i loro candidati alla presidenza sono stati repubblicani, oggi almeno i due terzi dei mormoni votano repubblicano, e lo stesso Reagan, pur presbiteriano e di padre cattolico, aveva poi indicato il modello di “economia familiare” della comunità mormonica come esempio di approccio non statalista ai problemi del Welfare. È vero che nel 1998 la stessa dirigenza della Chiesa ha ritenuto opportuno ribadire che non appoggia ufficialmente nessun partito, e che si può essere tranquillamente mormoni e democratici. Ma effettivamente i mormoni democratici come il delegato al Congresso per le Samopa Americane Eni F.H. Faleomavaega, il rappresentante dell’Utah Jim Matheson, il senatore del Nevada e excapogruppo democratico al senato Harry Reid o il senatore del New Mexico Tom Udall tendono ad essere mosche bianche. Ancorchè autorevoli.

Ma se la destra evangelica gradisce molto l’alleanza dei mormoni sui temi morali e dello stato minimo, quando poi si tratta di mandarne uno alla Casa Bianca i dubbi emergono. Come ha mostrato Robert Jeffress: popolare pastore di quella First Baptist Church di Dallas che è una delle più influenti istituzioni battiste di tutti gli Usa, e che nel presentare il governatore del Texas Rick Perry a un meeting ha appunto invitato a non votare per Romney proprio sull’assunto che «i mormoni sono una setta non cristiana». In realtà almeno i due terzi degli americani ritengono che i mormoni sono cristiani, ma i tre quarti dei teologi è di parere opposto, e i sondaggi hanno dimostrato che almeno il 20% degli americani «non voterebbe mai un mormone». Con concentrazioni abbastanza alte proprio in alcune zone della Bible Belt tradizionalmente più filo-repubblicane. In effetti i mormoni si autodefiniscono “cristiani” con fervore, e si risentono quando qualcuno mette in dubbio questa loro qualifica. Ma non stanno in nessun movimento ecumenico, e li altri cristiani li mettono in massa assieme ai non cristiani nel mazzo dei “gentili”. Pure in stile Antico Testamento i mormoni

chiamano Zion quella città che per i “gentili” è Salt Lake City, centro mondiale della loro fede. Sion La città celeste, dove Gesù Cristo dovrà tornare alla fine dei tempi, per instaurarvi il Suo Regno sulla Terra. L’idea di Joseph Smith che «il Padre ha un corpo di carne e ossa, tangibile come quello dell’uomo: come pure il Figlio, mentre lo Spirito Santo non ha un corpo di carne ed ossa, ma è una persona spirituale» è considerata dalla gran parte dei teologi al di fuori di ogni ortodossia trinitaria: ma anche gli unitariani sono antitrinitari, e nessuno lega il loro cristianesimo. Il fatto però è che oltre a Vecchio e Nuovo Testamento hanno anche un Libro di Mormon, che sarebbe stato consegnato nel 1827 «da un angelo di nome Moroni» all’allora 22enne Joseph Smith: all’epoca residente nello Stato di New York, e indeciso tra le dottrine presbiteriana, battista e metodista. Anzi, vi aggiungono anche i due libri Perla di gran prezzo e Dottrine e alleanze, nei quali Smith oltre a esporre le sue dottrine parla della sua vita e racconta delle visioni in cui gli sarebbero comparsi prima di Moroni Dio stesso con Gesù; e in seguito Giovanni il Battista, Pietro, Giacomo, Giovanni, Mosè e Elia. Insomma, secondo la maggior parte dei teologi basta questa aggiunta di testi a rendere il mormonismo una religione diversa rispetto al cristianesimo. C’è poi il contenuto del Libro d Mormon, che per chi non è di fede mormonica evoca una puntata di Voyager o un fumetto di Martin Mystère. In estrema sintesi, parla un gruppo di ebrei che emigrò nelle Americhe in tempi antichissimi, fu visitato dallo stesso Gesù Cristo nell’intervallo tra morte e resurrezione, e si divise tra i popoli rivali dei lamaniti e nefiti. I lamaniti, divenuti pagani, avrebbero alla fine sterminato i nefiti, venendo puniti da Dio con la trasformazione della pelle da bianca in rossa: gli antenati degli indiani! Si dice abitualmente che gran parte dell’ostilità suscitata dai mormoni risalga a quando Smith disse di aver ricevuto da Dio l’ordine di restaurare la poligamia biblica, ma gli storici oggi sottolineano piuttosto la sua visione di tipo politico. Che mirava a organizzare i seguaci in una comunità fortemente coesa, votata alla prosperità attraverso il culto del lavoro e regole di vita ultrapuritane, e spesso anche aggressiva nei confronti dei Gentili. Quando Smith, fu linciato era chiuso in un carcere sotto l’accusa di aver ordinato una spedizione squadrista contro un giornale anti-mormone. Alla sua


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e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

morte la comunità si divise, tra i seguaci dei vari aspiranti alla successione. La maggior parte seguì Bringham Young, che per evitare nuovi problemi con i “gentili” li guidò attraverso un’epica marcia attraverso il West, fino ad arrivare nel 1847 nell’attuale Utah, allora in territorio messicano.

L’anno dopo scoppiò la guerra tra Usa e Messico, dove un battaglione mormone combatté con l’esercito federale. La vittoria americana li riportò così in territorio Usa, ma proprio la questione della poligamia bloccò l’ammissione agli Stati Uniti di quello che Young aveva organizzato come “Stato di Deseret”, e che divenne invece un territorio. Grazie alla loro laboriosità i mormoni seppero trasformare il deserto in un giardino, e a onta delle loro idee apparentemente bizzarre organizzarono anche la prima Università di tutto il West. Ma con la corsa all’oro in California il passaggio di masse di

Oltre che a quello di astenersi da alcool, fumo, droghe, tè, caffè e coca cola, i mormoni hanno anche l’obbligo di passare una parte della loro vita come missionari. Per questo ci sono oggi al mondo 14 milioni di mormoni: 6 negli Stati Uniti, e 1,8 nello Utah, dove come già ricordato sono il 68% della popolazione. Negli Usa nel loro complesso sono invece l’1,96%, con altre punte massime in Idaho (26,2%), Wyoming (11,1%), Nevada (6,47%), Arizona (5,96%), Hawai (5,06%). In cifre assolute dopo quella Usa le comunità più forti sono quella messicana (1.197.000, 1,04%), brasiliana (1.102.000, 0.53%), filippina (632.000, 0,63%), cilena (562.000, 3,34%), peruviana (481.000, 1,56%) e argentina (381.000, 0,91%). In cifre relative sono quelle delle Tonga (45,22% della popolazione), Samoa (30,51%), Samoa Americane (22,46%), Niue (19,17%), Cook (15,45%), Kiribati (11,94%). In Italia sono 23.000. Pienamente inseriti nella vita politica e economica degli Stati Uniti

Oltre ad astenersi da alcool, fumo, droghe, coca cola, tè e caffè, devono fare per un po’ i missionari “gentili” creò tensioni a catena, al punto che tra 1857 e 1858 scoppiò una vera e propria guerra con l’esercito federale. Solo quando nel 1890 la “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni” ebbe infine la “Rivelazione” che proibì la poligamia di nuovo, il governo di Washington fece infine partire la trattativa per cui nel 1896 l’Utah divenne finalmente uno Stato dell’Unione. Non senza la protesta di alcuni poligami ostinati che se ne andarono in Canada e in Messico. In una colonia poligama rimpatriata dopo la Rivoluzione Messicana era in effetti nato Romney padre.

come lobby influente, appunto nel 2011 avevano lanciato la grande campagna pubblicitaria “I’am Mormon!”, approfittando di una straordinaria esplosioni di talenti mormoni in vari campi. Il musical Il libro di Mormon, ad esempio, ha battuto Spiderman a Broadway ed ha vinto nove premi Tony.

Il solitamente perfido South Park ha riconosciuto che «i mormoni credono in stupidaggini, però sono simpatici». La mormone Katherine Heigl è diventata una delle dive più acclamate di Hollywood. La mormone Stephenie Meyer

ha sbancato i botteghini librari con la sua sagra di Twilight. Il mormone Stephen Covey ha venduto a sua volta milioni dei suoi manuali di auto-aiuto. E una famiglia mormone poligama è protagonista del serial di successo Big Love. Nel 2007, però, era pure uscito il film September Dawn: “Alba di Settembre”. Argomento, il massacro di Mountain Meadow: località dell’Utah del Sud in cui l’11 settembre del 1857 120 membri di una carovana di pionieri dell’Arkansas in marcia verso la California furono sterminati da un gruppo di mormoni e indiani Paiute. Terence Stamp, l’attore inglese che in Italia negli anni ’60 girò con Fellini un episodio di Tre passi nel delirio e con Pasolini Teorema, vi fa BrighamYoung. Jon Voight, il padre di Angelina Jolie, è Jacob Samuelson: vescovo mormone della zona del massacro, il cui figlio vive con la figlia del pastore della carovana una immaginaria love story che fa da contrappunto alla vicenda storica. «Chi ha ordinato il massacro e perché è stato protetto in una cappa di silenzio e cospirazione?», chiede polemicamente la locandina del film. «E la reputazione di una delle figure religiose più potenti della nazione è stata preservata e protetta. Fino a oggi». La faccia di Terence Stamp-Bringham Young sullo sfondo non lasciava troppi dubbi su chi fosse il bersaglio della rivelazione, e il fatto che anche quell’evento fosse avvenuto un 11 settembre dava una carica ulteriore.

È vero che c’era comunque di mezzo il 150esimo anniversario: ma sembrò a molti che la coincidenza con la candidatura di Romney non fosse del tutto casuale. La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni parlò di “agenda anti-mormonica”, e ricordò come all’epoca aveva preso le distanze dai fatti, attribuendoli all’iniziativa di teste calde che avevano agito per conto proprio. John Lee, l’unico responsabile individuato, prima di essere fucilato nel 1877 sul luogo stesso dell’eccidio fu anche scomunicato, anche se sulla base delle sue pretese di innocenza nel 1961 è stato poi riabilitato alla memoria. Gli autori dissero che avevano voluto l’accostamento di due massacri a 150 di distanza l’uno dall’altro proprio per far riflettere sul fanatismo religioso, ma non mancò chi obiettò che così si relativizzava tutto. Suggerendo che, chissà, magari tra 150 anni anche un seguace di Al Qaida concorrerà per la presidenza degli Stati Uniti.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo

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grandangolo Non si può decidere a tavolino la sorte di un regime

Perché i dittatori cadono o restano a galla?

«In Siria è in corso uno scontro aperto e qualcuno lo vincerà. Se vogliamo che non sia Assad, come ha dichiarato Obama, dovremmo sostenere i suoi avversari». Michael Leeden torna a polemizzare con l’Occidente, che fa la voce grossa e temporeggia all’infinto deludendo le speranze di chi prova a rovesciare le dittature. Come quelle di Damasco e di Teheran di Michael Ledeen osa definisce il destino dei dittatori? Nessuno lo sa veramente, e sono così tante le incognite che è impossibile quantificarle. Colpi di Stato e omicidi, rivoluzioni e sconfitte in guerra, addirittura improvvisi crolli, sono tutti da ricercare nei testi, antichi e moderni. Anche chi fra noi ha predetto la caduta delle tirannie – come il sottoscritto nel caso dell’impero sovietico – rimane sorpreso quando si verificano davvero. In effetti, non si riesce a prevederle. A ben guardare, quella iniziale potrebbe passare come una domanda sbagliata. Esistono talmente tante variabili e, visto che un tiranno potrebbe sopravvivere a una crisi che invece potrebbe far crollare un altro dittatore, dovremmo formulare interrogativi specifici su ciascun tiranno e ricorrere a esempi storici di situazioni simili per aiutarci nella comprensione. Alcuni anni fa, quando lavoravo con Walter Laqueur, gli chiesi cosa stesse leggendo. Mi rispose qualcosa come: «Principalmente biografie». Fu una bella lezione.

C

Alcuni dittatori andranno in crisi, mentre altri diventeranno più forti e determinati. Con quale delle due categorie abbiamo a che fare in ogni specifica situazione? La domanda, quindi, non è cosa fa cadere in generale le dittature, ma “che probabilità di caduta ci sono per un determinato dittatore?”Dobbiamo osservare attentamente le singolari caratteristiche di un regime ed evitare l’inutile ricerca di regole.

Infine, non dimenticate che l’Onnipotente ci ha posto sulla terra per valore di intrattenimento. La maggior parte delle volte, con molta probabilità, ci è dato sbagliare. Quanti di noi si sarebbero aspettati una battaglia all’ultimo sangue per Gheddafi? Quanti avrebbero previsto che Gorbachev e il suo impero sovietico sarebbero implosi senza alcun conflitto? Di solito non siamo abbastanza svegli per prevedere queste cose. Ecco perché il naso, non il cervello, è il più

Non ci sono regole, ma solo probabilità. Però la “transizione” può essere aiutata. Basta volerlo grande strumento di percezione sul rischio crollo di un regime. Perchè rileva le prime tracce di marcio, che generalmente accompagnano un imminente fallimento di volontà da parte del governante. Quindi, dobbiamo prestare particolare attenzione agli odori degli stessi tiranni e alla natura delle loro strutture governative. Non esistono regole generali appunto. Ci sono alcuni modelli che potrebbero aiutarci a rispondere – o a scovare – le domande giuste. Trovo sempre molto intrigante quando qualcuno crede di po-

ter predire con sicurezza che un tiranno stia per crollare, come se si trattasse di applicare vecchie regole da manuale. È da mesi che seguo con interesse come esperti su esperti non facciano che dirci che Bashar Assad sta per cadere. Proprio qualche giorno fa, niente meno che Dennis Ross, recentemente uscito dall’Amministrazione Obama, ci ha rese note le sue certezze in merito. A giudizio di Ross quello che abbiamo davanti è un regime che dipende completamente dalla coercizione. E questa sta fallendo. Ora, quando un regime totalmente dipendente dalla coercizione perde il proprio punto di forza, è chiaro che non avrà vita lunga. Lo spero proprio anch’io!

Prendiamo allora due contro-esempi vicini a Damasco e che entrambi hanno l’Iran come proscenio. Nel 1953, il premier Mohammed Mossadeq manda lo scià in esilio all’estero e milioni di persone scendono nelle strade di Teheran e delle altre città del Paese per festeggiare la vittoria di Mossadeq. Il sovrano però torna in presto dall’esilio e il primo ministro viene rimosso. Di nuovo, milioni di persone festeggiano l’evento, proprio come pochi giorni prima si erano espressi a favore di Mossadeq. È evidente: ogni regime può crollare come pure rialzarsi. Venendo più ai giorni nostri, nell’estate del 2009, milioni di iraniani si oppongono ai brogli elettorali che hanno permesso ad Ahmadinejad di restare presidente. Il regime ha dato via alla sua repres-

sione, ma le proteste sono andate avanti. Proprio come oggi in Siria. La coercizione non ha funzionato. Al contrario, ha generato sfide ancora maggiori per la legittimità del regime. Le violenze del regime sono state ancora più dure, i dissidenti sono stati arrestati, torturati e massacrati. Il regime così è sopravvissuto per un periodo più meno lungo. C’è poi una lunga serie di esempi, che include la Primavera di Praga nel 1968, in cui la repressione è risultata inizialmente fallimentare, per poi invece arrivare al successo. E altri, quali le cosiddette rivoluzioni colorate nelle repubbliche dell’ex Urss, in cui è sembrato che la dittatura sarebbe stata sconfitta e poi invece è tornata. Chiedete a Putin e a Medvedev come sono andate le cose. Ma anche ai libanesi, oppure agli egiziani. Noi non sappiamo, non possiamo sapere come finirà in Siria, Libia o in Tunisia. Non sappiamo e probabilmente non sapremo mai per quanto tempo Bashr alAssad andrà avanti a massacrare il suo popolo. Al momento, non c’è ragione di pensare che il livello di violenza possa essere ridotto. Come del resto, non abbiamo idea e non ci è dato calcolare quanti ufficiali siriani di alto rango potrebbero disertare. Del resto, non abbiamo un quadro esaustivo delle capacità strategiche dei comandanti del Free Syrian Army che, con circa 700mila uomini, stanno fronteggiando il raìs. Ancora più importante, non possiamo valutare se e in che maniera l’opposizione siriana


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Dall’inizio dei disordini uccisi 384 bambini. Ieri almeno altre 30 vittime

L’Onu tentenna, ma i sauditi riconoscono i ribelli di Antonio Picasso

Gheddafi non sarebbe mai capitolato senza un deciso aiuto esterno riuscirà a ottenere un valido appoggio straniero, elemento fondamentale per il destino di Assad. Il mio cuore sobbalza quando sento un uomo dalle doti politiche di Dennis Ross che è alla ricerca di una linea di comunicazione, piuttosto che di intervento in loco. Quando si auspica una condanna di Assad, lo sento dichiarare «che non dobbiamo preoccuparci e che non possiamo fare nulla».

Siamo di fronte a un errore intellettuale che sovverte il concetto di buona politica. In Siria è in corso uno scontro aperto e qualcuno lo vincerà. Se vogliamo che non sia Assad, come ha dichiarato Obama, ci conviene appoggiare i suoi avversari. È inverosimile che l’opposizione siriana possa vincere da sola, così come gli oppositori di Gheddafi non ce l’avrebbero fatta senza il sostegno delle forze occidentali. Di nuovo: sono gli esempi passati a dirci come sarà il futuro. Un supporto vigoroso dell’Onda Verde, nel biennio 2009-2010, avrebbe portato al potere Moussavi e i suoi a Teheran.Tuttavia, i go-

verni occidentali, presidente Obama compreso, hanno preferito sostenere il regime dei mullah e così non è cambiato nulla. Questo ha incoraggiato sicuramente gli iraniani da un lato e la cricca degli Assad dall’altro a resistere ancora più tenacemente alla crisi. Convincendoli che Obama non farà nulla per decretarne la loro caduta. Io non sarei, quindi, così sicuro che il destino di Assad sia segnato. Né del resto mi sbilancerei a dire che il regime iraniano abbia ormai prevalso. Le crisi sono determinate dalla tenacia dei popoli nel sopravvivere. È una questione di volontà, nervi saldi e fortuna, ma anche di leadership e imprevisti. Pensiamo ai terremoti, per esempio, i quali sono apparsi alle volte essenziali per la caduta di un tiranno. È il caso del nicaraguese Anastasio Somoza. Proprio come gli assassini siriani, che vanno di pari passo con i criminali iraniani, credono di poter seguire i più recenti esempi storici, così l’opinione pubblica a Teheran sta osservando con molta attenzione i fatti in Siria. Se qui l’opposizione vincesse, specie nel caso di un intervento occidentale, quella iraniana riprenderebbe coraggio. Se al contrario dovessimo continuare a tradire la libertà siriana, gli iraniani di ambo le parti – Ayatollah e loro avversari – arriverebbero alla conclusione che la lezione della storia è stata ben metabolizzata. E questa non dice: ride bene chi ride ultimo. Invece di leggere nei fondi di caffé, i nostri leader farebbero meglio a tentare di vincere. Senza troppi timori.

l destino della Siria è appeso a un filo, alla fine quale potrebbe esserci un nodo scorsoio, pronto per il collo del presidente Assad. Alle nove di ieri sera, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite si è riunito a porte chiuse per discutere di un eventuale documento ufficiale contro Damasco. Il risultato della sessione è da attendersi nella settimana entrante, forse lunedì.Tuttavia, è esclusa una risoluzione. La Russia ha confermato che porrà il veto contro qualsiasi iniziativa che preveda ulteriori sanzioni. Non vuole che il leader del partito Baath esca di scena. Anzi, pretende che le colpe dei massacri vengano spartite equamente tra governo e ribelli. Inimmaginabile, viste le notizie che filtrano dal Paese. L’Unicef è tornata a dire che, dall’inizio della guerra civile, sarebbero stati uccisi 380 bambini circa. È un dato che da solo basterebbe a suscitare lo sconcerto in seno a tutti i big del Palazzo di vetro. I governi occidentali pretendono che in un testo risolutivo sia fatta esplicita «condanna delle diffuse e brutali violazioni dei diritti umani». Condanna che dovrebbe correre a senso unico e colpire Assad e i suoi. Ma è proprio questo che non vogliono i russi. E con loro i cinesi.

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riri, finanziato e protetto dagli emiri del Golfo, ha concluso le consultazioni bilaterali con gli inviati del Cns. Fuori dai confini territoriali, è già la nuova Siria a vivere.

Nuove sanzioni e dimissioni di Assad, in favore del suo vice, Farouk alShara, coadiuvato da esecutivo provvisorio. Il tutto entro quindici giorni. In caso contrario, scatterebbe la molla militare. Questa sarebbe la road map di Stati Uniti, Unione Europea e della Lega Araba, la quale però nel consesso Onu – rinnovato a inizio anno – è rappresentato solo dal Marocco. Il dubbio da sciogliere è quale esercito sarebbe disposto ad armarsi e partire. Poco prima della fine del 2011, si pensava a quello turco. Oggi, sembra che Ankara abbia lievemente fatto un passo indietro.Washington e Bruxelles sono ben lieti di confrontarsi con sauditi, egiziani e tutti gli altri ex amici di Assad. La Lega è determinata a togliere l’appoggio strategico che l’Iran trova sulle coste mediterranee della Siria. Ieri Riyad ha confermato l’intenzione di riconoscere il Consiglio nazionale siriano (Cns), organo di riferimento dell’opposizione ad Assad, come rappresentante ufficiale del Paese. È decisamente un passo importante e che conferma un segnale premonitore altrettanto significativo. Negli scorsi giorni a Beirut l’ex premier libanese Saad Ha-

Sempre lunedì poi, è previsto l’arrivo a NewYork del segretario generale della Lega araba, Nabil al-Arabi, e del primo ministro del Qatar, lo sceicco Hamad bin Jassem al-Thani. Magari non otterranno nulla sul momento. Tuttavia, sarà una forma di inequivocabile pressione su tutto l’Onu affinché il capitolo siriano venga chiuso nel più breve tempo possibile. Senza che ad Assad e alla sua famiglia venga concessa alcuna possibilità di appello. In certe situazioni, la presenza fisica potrebbe rivelarsi determinante. Così mentre Putin non sarà al Palazzo di vetro, gli emiri del Golfo saranno lì. Nella coppia a interessare di più è il secondo. La piccola Doha conferma le proprie ambizioni diplomatiche, che oggi si rivelano essere perfino in concorrenza con la linea dell’Arabia. Il che potrebbe tornare favorevole a Damasco. Non tanto per sopravvivere, quanto per ottenere una proroga in questa dolorosa morte assistita. Nel frattempo restano avvolte dal mistero le notizie che arrivano dal Paese. La Siria non si smentisce nemmeno quando fa la rivoluzione. La guerra civile è in corso e questo è un dato di fatto. Ma la gravità della situazione non è calcolabile in maniera netta. Il sudanese Mohamed el-Dabi alla guida della delegazione della Lega araba sul posto, ha prorogato la sua presenza a Damasco. Possibile che dopo un mese dall’inizio della missione non si sia ancora in grado di fornire un numero abbastanza attendibile di morti e feriti? I fatti di ieri sono un’ultima iniezione di torbido. Nella capitale sarebbero stati uccisi cinque ufficiali iraniani. La presenza degli uomini di Teheran non sorprende. Se questi poi fossero agenti della Vevak, l’intelligence esterna iraniana, oppure pasdaran, non lo sapremo mai. In chiusura i morti: almeno 12 negli scontri tra Damasco, Homs, Hama, e la cittadina di Idil. Qui pare sia esplosa un’autobomba. Strumento di terrore già noto alle piazze siriane, ma poco utilizzato nei precedenti della Primavera araba. È un’idea dei salafiti che ne approfittano per farsi vedere?


parola chiave ONESTÀ

La Veritas, per i Romani, era la madre di tutte le virtù. E dare la propria parola, una volta, permetteva di siglare un accordo senza aver preventivamente firmato un contratto. Oggi non è più così e la bugia diventa non solo accettata, ma uno stile di vita. Perché i furbetti fanno strada. E perché la menzogna, dalla politica, al business e ai media, non è più un tabù. Però uccide la democrazia

Sopra, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nella pagina a destra, l’ex presidente Bill Clinton assieme a Monica Lewinsky. Clinton per molto tempo negò di avere avuto una relazione con la ragazza

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La vittoria di Pinocchio di William Damon er svariati motivi, la gente non sempre dice la verità quando parla. Alcune giustificazioni a questa spiacevole pratica sono accettabili, come una certa sensibilità umana o una particolare forma di tatto utile ad evitare uno choc. Rassicurare un adolscente sul fatto che è davvero un bel tipo, a dispetto del fatto che magari non è un adone, è non solo accettato, ma anche consigliato per non generare traumi inutili in una fase delicata della crescita. Mentire, come molti fecero in epoca nazista, su dove fossero nascosti degli ebrei al fine di evitare che venissero uccisi, è un gesto considerato non solo meritorio, ma coraggioso. L’onestà non fa parte di quelle virtù morali per le quali non è prevista alcuna eccezione. Perché alcune volte, per compassione, diplomazia o semplicemente per alcune particolari circostanze dellla vita, è necessario allontanarsi dalla schiet-

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tezza più rigorosa. Alcune professioni, poi, sembrano aver bisogno di qualche deroga alla verità per brillare (o sopravvivere). Ai politici, per esempio, viene continuamente chiesto di dire il vero. E questo non sempre è possibile. Forse perché, come George Orwell una volta osservò, il vero scopo di un discorso politico è quello di dissimulare, addolcire o distorcere le verità più scomode.

«Il linguaggio politico - scriveva Orwell - e questo vale per tutti, dagli anarchici ai conservatori, deve rendere credibili le menzogne e rispettabile l’omicidio, ed essere in grado di dare un’apparenza di solidità al suono del vento». Benché le sue parole non possano essere condivise in toto è fuori discussione che non siano peregrine. Sarebbe naïf (o cinico) chiunque agisse, nel mondo di oggi, in maniera sconsiderata solo per dire subito tutta la verità. Mentre per i normali cittadini, è una

prassi ormai cercare di leggere quotidianamente fra le righe, le parole di questo o quel politico per capire cosa davvero voglia dire. Questo non significa però che un personaggio pubblico possa mentire impunemente. Perché seppur invisibile, il confine fra bugia tollerabile e menzogna intollerabile (o raggiro) esiste. E qualsiasi forma di civiltà lo riconosce. Nessuna società è capace di accettare la disonestà senza mettere in discussione il rapporto di mutua fiducia. Tutte le relazioni umane sono costruite sull’assunto che per essere considerate tali devono essere limpide. Sull’onestà si costruiscono e si cementificano i rapporti e quando questa viene meno non c’è modo di riaggiustarle. Tutte le relazioni, da quelle familiari a quelle amichevoli e di lavoro, si incrinano se sottoposte alla pressione della bugia. Il ruolo vitale dell’onestà nella società è stato celebrato nel corso di tutta la storia. Per i ro-


William Damon e l’educazione William Damon insegna Educazione alla Stanford University e dirige il dipartimento di adolescenza. È inoltre senior fellow all’Hoover Institution. Ha scritto moltissimi libri sullo sviluppo del carattere nelle varie fasi della vita, fra cui How young people find their calling in life e The moral advantage: how to succeed in business by doing the right thing. È inoltre il direttore di The Handbook of child psychology, membro dell’Accademia Nazionale sull’Educazione e dell’American Educational Association.

mani, la madre di tutte le virtù era la Veritas ; Confucio definiva l’onestà la fonte primaria ed essenziale dell’amore e uno dei dieci comandamenti impone di non dire falsa testimonianza. Due dei presidenti americani più amati, George Washington e Abramo Lincoln, hanno fatto dell’onestà la loro principale fonte di legittimazione. Gordon Linckley, presidente della chiesa mormone (morto nel 2008, ndt.) ha scritto: «dove c’è l’onestà, tutte le altre virtù fioriscono», incardinando, esattamente come fecero i romani, questa virtù al centro della vita.

Eppure, c’è la netta percezione che oggi in alcune aree chiave della vita - dal business alla politica e al mondo giuridico la sincerità sia un atteggiamento naïf e anche un po’sfigato, da perdenti. E questa percezione “sdogana” la menzogna e la rende particabile da chiunque, compromettendo ogni relazione umana. Quando non si parte più dall’assunto che chi ci sta di fronte almeno tenta di dirci la verità, il nostro comportamento è compromesso e la nostra relazione diventa esclusivamente strumentale. Gli obblighi morali svaniscono mentre riemerge la legge della giungla. Abbiamo davanti a noi un problema serio, e non è solo che la gente mente con gran facilità. Ho già avuto modo di spiegare che per una ragione o per l’altra nel corso di tutta la storia umana la menzogna ha avuto un ruolo. Il vero problema è che oggi l’obbligo morale alla sincerità non sembra più essere un valore. E questo annuncia un pericolo ben più grande, capace di far scricchiolare le fondamenta di ogni società democratica. Perché non esiste democrazia senza la mutua fiducia nel prossimo, sia che questo sia il politico di turno che il coniuge. Quali sono i segni di questo “declino” nella nostra società?

Una volta, sia in ambito di mercato che professionale, la parola data equivaleva a un impegno scritto e permetteva di fidarsi e di siglare un accordo ancor prima che esso fosse firmato. Oggi quel tempo è finito. Nel mondo dei media, stampa, tv, internet che sia, il giornalismo ha perso gran parte della sua credibilità per la sua incapacità di presentare la realtà dei fatti e di piegarla sempre più allo scoop o alla politica. Nella vita pubblica, i discorsi dei politici non sono più la fonte primaria e genuina a cui attingere. E oggi sembra normale pensare che un leader faccia un discorso piuttosto che un altro solo per un preciso tornaconto personale e non per mettersi veramente in gioco o suscitare un dibattito genuino. In questo modo, però, i fatti possono essere manipolati e servire degli interessi particolari. Impedendo a chiunque di capire dove sia il giusto e quale sia la verità. Senza considerare che l’esempio dato dall’uomo pubblico inquina l’intera società.

Ancor più grave è che ormai l’onestà non sia più il baricentro dell’educazione giovanile. Il futuro di qualsiasi società dipende dai valori trasmessi alle nuove generazioni. È nei primi anni di vita - o meglio nei primi vent’anni - che le virtù forgiano il carattere e diventano parte integrante della persona. Benché la gente possa imparare, crescere e cambiare a qualsiasi età, è nell’infanzia e nell’adolescenza che si forgia e si solidifica il carattere. L’onestà è il primo esempio di una virtù che se praticata diventa abituale, e lo stesso, purtroppo, può dirsi per il suo contrario: la disonestà. L’onestà è la virtù più strettamente collegata a qualsiasi missione accademica. L’integrità della scuola è ciò a cui ogni istituzione dovrebbe tendere. Ma purtroppo non è così. Imbrogliare a scuola è non eti-

La sincerità è orami considerata naïf e anche un po’ da sfigati. A scuola, raggirare i professori è una prassi. Ma là dove svanisce l’obbligo morale impera la legge della giungla. E la disonestà co per almeno quattro motivi: 1) offre agli studenti che fanno i furbi un vantaggio su quelli che non lo fanno; 2) è un atto di disonestà che pregiudica la vera conoscenza; 3) è una violazione del tacito patto di fiducia fra studenti ed insegnanti; 4) non rispetta il codice di condotta e l’ordine sociale della scuola. Davanti a tanti ed evidenti argomenti, sarebbe logico aspettarsi che gli educatori si impegnassero contro questa pratica sponsorizzando standard effettivi di onestà, integrità, fiducia e correttezza. E invece non è così. Ricerche specifiche condotte soprattutto nelle scuole e università americane rivelano che almeno tre quarti degli studenti - su loro ammissione - hanno imbrogliato professori o compagni almeno una volta nella loro carriera scolastica. Donald McCabe, il più importante ricercatore contemporaneo su questo fenomeno, ha scritto: «Imbrogliare è una prassi, e questa prassi è drammaticamente aumentata negli ultimi 30 anni». Molti professori, al fine di evitare ricorsi o azioni legali, preferiscono guardare dall’altra parte mentre i loro studenti copiano il compito in classe o sbirciano dai libri. Alcuni insegnati, poi, giustificano in qualche modo i loro ragazzi se stanno zitti e non “denunciano” il furbetto/compagno di turno, ascrivendo questo atteggiamento sotto un sano spirito di corpo. Altri ancora, simpatizzano addirittura con il bugiar-

dello di turno, trovandolo simpatico, capace di darsi da fare e di stare al mondo e in fondo perdonandolo per non essere stato in grado di svolgere un compito magari difficile. Quante volte capita che insegnanti (ma anche genitoria) abbiano da ridire su un compito particolarmente difficoltoso dato agli studenti?

Non solo! Alcuni professori incoraggiano gli studenti ad imbrogliare mentre altri imbrogliano a loro volta i voti in sede di scrutinio. Un grande scandalo è scoppiato lo scorso anno in un istituto di Atlanta, in Georgia. Dove nel corso di alcuni anni ben 178 insegnati avevano aiutato gli studenti a imbrogliare in sede di esame. Non è un incidente isolato, purtroppo. Recentemente la Cbs ha mandato in onda un reportage sulle scuole di New York, scoprendo che molti insegnati aiutano i ragazzi ad imbrogliare durante gli esami, addirittura fotocopiandogli le risposte esatte dei test. Di fronte a tutto questo, uno si aspetterebbe che venissero incentivate campagne di sensibilizzazione nelle scuole, accompagnate da solide campagne a favore del valore dell’onestà. Ma anche qui, le nostre attese sono disilluse e quello che dovrebe essere un obbligo è lasciato alla discrezionalità del singolo istituto o del singolo insegnante. È praticamente impossibile trovare una scuola che tratti l’integrità accademica alla stregua di un

diktat morale, e che metta fuori dalla porta gli insegnanti incapaci, se non addirittura conniventi, di far rispettare le regole. Nell’ambito dei miei studi di settore, è evidente che l’interesse di professori e direzioni scolastiche e accademiche è praticamente nullo riguardo all’argomento.

Fino a non troppi decenni fa l’argomento non era nemmeno messo in discussione. Alcune regole dovevano essere rispettate ed era essenziale che valori come l’onestà fossero fondamentali all’educazione di ogni singolo studente. Oggi, invece, assistiamo a un impoverimento morale promosso con pervicacia e superficialità dal corpo insegnante. Che non a caso, come molte persone non necessariamente addette ai lavori, irridono i vecchi manuali educativi di inizio secolo, come fossero demodè e antiquati. In parte lo sono, ma non per quanto riguarda la trasmissione dei valori e delle virtù. Che oggi sono trattati in maniera ambigua, con troppe concessioni e manica larga. È un comportamento senza scuse e giustificazioni. Perché una cosa deve essere chiara a tutti: se l’imbroglio viene accettato e considerato normale, se il vivere furbescamente viene accolto con simpatia e permesso al fine di ”sfangare” e superare un compito troppo difficile, la nostra società mette a rischio il suo futuro. La rottura di un argine morale, il declino dell’onestà e di tutte le virtù figlie di quest’ultima - proprio come dicevano i romani - non possono che portare alla sconfitta della democrazia. I Padri fondatori degli Stati Uniti avevano messo in guardia il popolo americano affermando che nel caso i cittadini si fossero dimenticati di coltivare le virtù e trasmetterle ai propri figli, la democrazia sarebbe presto implosa. E questo vale per tutti. Americani e non.


ULTIMAPAGINA Clamoroso caso di cronaca in Israele: un neonato ha staccato la testa a un rettile con un morso

Il bambino che mordeva i mai tregua all’eroe, nel quale vedeva il simbolo del tradimento di Giove) anche l’Idra di Lerna, un drago mostruoso con cinque, sette o cento teste. L’eroe fu costretto ad affrontarla nella seconda delle dodici fatiche, dopo aver sconfitto il Leone di Nemea. Dopo essersi coperto il volto con un panno per proteggersi dal veleno e aver attirato l’attenzione della creatura lanciando delle frecce infuocate nella sua tana, Ercole affrontò l’Idra armato, secondo le versioni, con una falce, una spada o la sua ben nota clava. Purtroppo per lui scoprì ben presto che ogni volta che una testa dell’Idra veniva tagliata altre due crescevano a prenderne il posto,

di Martha Nunziata icordate la storia mitologica del piccolo Ercole che uccide in culla i due serpenti con la sua straordinaria forza sovrannaturale? La cronaca di ieri dimostra che quella che sembrava solo un mito può essere superato dalla realtà. Ebbene sì. La storia che arriva da Shfaram, nella provincia di al-Karak, nel nord di Israele, cittadina famosa finora solo per ospitare la più antica Sinagoga del paese, la cui data di costruzione risale al 1845, è infatti talmente incredibile da sembrare inventata, oppure ispirata alla mitologia greca: eppure è vera.

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I protagonisti dell’incredibile storia, infatti, sono un bambino israeliano di 13 mesi, Imad Gadir, la sua mamma e un serpente di 40 centimetri. Secondo quanto raccontano le cronache israeliane Imad è stato scoperto dalla madre mentre stava tranquillamente finendo di staccare a morsi la testa del serpente che si era in qualche modo intrufolato nella culla del bambino, entrando evidentemente da qualche finestra aperta della casa. Possiamo solo immaginare l’orrore della donna alla scoperta del“fuori pasto”del suo piccolo, il quale, peraltro, è stato poi trasportato in ospedale per essere sottoposto a tutti i controlli del caso che, comunque, hanno dato esito negativo. Anche perché il serpente non era velenoso (nemmeno a mangiarselo…). Pare, adesso, che il papà del piccolo Imad vada in giro per tutta Shfaram, un paese a maggioranza araba in

SERPENTI Galilea, a magnificare le lodi del suo piccolo, definendolo “un eroe”. Definizione che calza a pennello addosso al piccolo “baby Ercole”Imad, perché l’impresa di cui si è reso protagonista rimanda direttamente ai libri di storia, anzi, alle leggende contenute nei testi di mitologia classica. Secondo il mito greco, infatti, quando era ancora nella culla Ercole (o Eracle, secondo la dizione classica utilizzata dai greci), strozzò a mani nude due grossi serpenti, che avrebbero dovuto ucciderlo. Gli animali erano stati mandati da Era, la

A Tel Aviv tutti già chiamano il piccolo protagonista «Ercole della Galilea»: la sua storia ha fatto il giro del mondo anche perché rinnova un mito classico moglie di Giove, per vendicarsi del bambino, che il marito, Giove, plurifedifrago padre degli dei, aveva generato con Alcmena, moglie di Anfitrione, della quale si era invaghito e che aveva ingannato assumendo proprio le sembianze del marito. Un rapporto, quello tra l’eroe e i serpenti, che proseguì anche dopo l’episodio della culla: Ercole dovette affrontare, nel corso delle leggendarie dodici fatiche, che gli vennero imposte dal re Euristeo di Tirinto per espiare la colpa di aver ucciso i suoi figli in un impeto di follia causata da Era (che durante tutta la vita non diede

rendendo il mostro ancora più pericoloso.Trovatosi di fronte a un problema apparentemente irrisolvibile, Ercole decise di chiamare in suo aiuto il nipote Iolao. Questi escogitò un sistema per sconfiggere l’idra, cauterizzando con il fuoco le ferite inflitte dall’eroe e impedendo così alle teste di ricrescere.

Ma la notizia di ieri, del piccolo Imad ed il serpente che aveva deciso di fargli visita nella culla, riportata da tutti i media nazionali di Israele e che sta facendo il giro del mondo, ha suscitato molto interesse sul web, dove alcuni cultori della scienza ermeneutica vedono in questa storia il trionfo del bene sul male. Ma il serpente è sempre stato l’animale più rappresentato nella simbologia di tutti i tempi. In moltissime culture, nelle leggende, nei miti e nell’iconografia. È protagonista assoluto di molte storie della sfera dell’occulto, con molti significati esoterici e ancestrali. Il serpente anche nella religione cristiana rappresenta il male, il diavolo, satana. È simbolo della conoscenza, e per questo può anche essere pericoloso, come recita il mito cristiano della Genesi, del peccato originale. Per altre religioni il serpente originario rappresenta l’Alfa e l’Omega: evocato, adorato o temuto da molti popoli in Africa, in India, in Indonesia o in Estremo Oriente. A Tel Aviv, invece, il serpente è stato considerato solo un “piacevole spuntino”, per il bambino israeliano di soli 13 mesi, Imad Gadir, che ieri con un morso, e via, è diventato il novello “Ercole della Galilea”.


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