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Se tutti gli economisti

he di cronac

confrontassero le loro teorie, non giungerebbero mai a una conclusione

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George Bernard Shaw di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 31 GENNAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Prima del vertice, un trilaterale Italia-Francia-Germania getta le basi per il nuovo «fiscal compact»

A Bruxelles vince l’Italia Monti convince Merkel e Sarkozy: rientro dal debito legato alla crescita Passa la linea italiana: regole più dure sul deficit e ripianamento morbido senza sanzioni automatiche. Poi 82 miliardi per lo sviluppo (8 all’Italia). Solo Praga e Varsavia dicono no MERCATO & SICUREZZA

Gli «indignados» contro il Capo dello Stato

Ora un bivio per gli Usa: con l’Europa o con Londra?

Napolitano insiste: riforme istituzionali Il presidente riceve la laurea ad honorem a Bologna e sprona i partiti a rimettersi al lavoro. Fischi, contestazioni e cariche fuori dall’università

di John R. Bolton opo gli ultimi incontri a livello europeo, convocati per risolvere la crisi economica e finanziaria del vecchio Continente - e in vista del vertice di ieri a Bruxelles - i mercati finanziari internazionali hanno reagito con cautela. E hanno fatto bene, va detto, dato che gli sforzi per salvare diverse nazioni dell’Eurozona dal collasso fiscale fin qui hanno prodotto risultati mediocri. Meno compresi dagli analisti sono gli effetti politici di questi summit: Londra ha rotto in maniera decisa con Germania e Francia. Questa rottura ha prodotto degli effetti che colpiranno in maniera drammatica sia l’Unione che la Nato, con enormi implicazioni per l’America. a pagina 4

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Passerella per il premier

Parla Leonardo Becchetti

La giornata del grande mediatore

Il garante dello sviluppo? È Mario Draghi

Nuovi fondi e garanzie per gli ex paesi dell’Est: così Roma è tornata protagonista in Europa

«L’autorevolezza del presidente della Bce ci salverà dalla mancata riforma della finanza»

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Francesco Pacifico • pagina 5

Errico Novi • pagina 6

Verso una nuova fumata nera al Consiglio di Sicurezza di oggi Una riduzione con «effetto immediato»

E i deputati si tagliano 1300 euro al mese di Marco Scotti entre il governo stringe sulla sulla riforma del lavoro (domani il ministro Fornero presenta la nuova bozza), la Camera approva una nuovo regolamento che, con effetto immediato taglia ai deputati 1300 euro lordi al mese: 700 netti. A questo, si dovrà aggiungere un ulteriore taglio del 10% per quei deputati che svolgono un ruolo ulteriore, come i presidenti di commissione. a pagina 6

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

Mosca salva ancora Assad No alla risoluzione Onu: «Vertice con gli oppositori» di Antonio Picasso

Le tesi dell’università di Al-Azhar

C’è una via egiziana alla democrazia

opo il fine settimana di sangue, ieri per un istante è sembrato che le sorti del presidente siriano Assad fossero già segnate. Nel pomeriggio alcune agenzie hanno diffuso la notizia di una sua fuga all’estero. Poi la smentita. L’unica certezza è che anche oggi l’Onu si spaccherà sulla condanna del dittatore.

ei giorni scorsi, l’università islamica di al-Azhar ha diffuso un Documento sulle libertà fondamentali, per offrire indicazioni all’Egitto dopo la “primavera araba”.

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• ANNO XVII •

NUMERO

20 •

WWW.LIBERAL.IT

di Samir Khalif Samir

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Al trilaterale passa la linea di Roma: rientro morbido dal debito, sanzioni non automatiche e nuovi fondi per la crescita

Da Merkozy a Merkontì

È il gioco di parole in voga a Bruxelles. Il premier: «La partita è ancora lunga, ma oggi abbiamo ottenuto un buon risultato» di Enrico Singer arà stato lo sciopero generale anti-austerità che ha bloccato l’aeroporto internazionale di Zaventem e ha costretto i capi di Stato e di governo della Ue ad arrivare al vertice di Bruxelles passando per il piccolo scalo militare di Beauchevain. Sarà stata la neve che ha reso ancora più gelido il clima di questa giornata, ma il summit straordinario della Ue di ieri ha mostrato, anche attraverso le immagini rilanciate da tutte le tv, la fase di estrema difficoltà che sta vivendo l’Europa a ventisette. Tra intese politiche molto promettenti per rimettere in carreggiata i bilanci e problemi che sembrano insormontabili, come quello del piano per salvare la Grecia dallo spettro del fallimento. Un intreccio di risultati positivi e di criticità ancora aperte che rende problematico il bilancio di questo Consiglio europeo. «È soltanto il primo tempo di una partita ben più lunga, ma per il momento abbiamo strappato un buon risultato», è stato il commento di Mario Monti che ha fotografato così il pomeriggio intenso di trattative cominciato proprio con quell’incontro a tre – Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e il nostro premier – che ha preceduto la plenaria e che è uno degli elementi più positivi del vertice. La conferma che l’Italia ha ormai ripreso il suo posto nel gruppo di testa dell’Unione. L’altro elemento positivo è l’intesa pressoché completa raggiunta sul fiscal compact, il nuovo Patto di bilancio che sarà formalizzato nel

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«La Grecia si salvi da sola o sarà commissariata»: ma è solo una sfida mediatica

Tra Atene e Berlino continua il braccio di ferro sui conti el maggio del 2010 Angela Merkel bloccò in maniera unilaterale le vendite allo scoperto sui titoli di Stato e minacciò di scaricare sui privati il salvataggio della Grecia. Con il risultato di scatenare pressioni spropositate sui debiti sovrani di Eurolandia, di dare il via a quella guerra mondiale sugli spread ancora in corso, che soltanto in Italia è costata 10miliardi di euro in più di servizio al debito e tre manovre da quasi 90 miliardi per centrare il pareggio di bilancio nel 2013. Nell’ultimo weekend, non contenta, ha fatto sapere che se Atene non si mette in riga e accetta di essere commissariata dall’Europa, non avrà più un euro di aiuto e andrà dritta verso il fallimento. E poco importa che tagliare la tredicesima o la quattordicesima nel settore pubblico può acuire una spirale recessiva già in atto e in termini meramente economici ha un impatto molto limitato.

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Ma anche questa volta la Cancelliera ha ottenuto gli effetti sperati: il primo ministro Lucas Papademos, ex vicepresidente della Bce e non certo immune alla moral suasion europea, ha alzato il tiro e ha legato il via libera all’accordo con i creditori privati sul haircut ai rendimenti dei titoli di Stato in circolazione allo stanziamento di un nuovo maxiprestito da parte di Ue, Bce e Fmi. Che non dovrà essere più di 130 miliardi, come concordato nei mesi scorsi, ma di 145 perché la generosità europea ha, finora, soltanto il merito di aver portato il Paese allo stremo. Per non parlare del fatto che è bastato che la Merkel e i suoi ministri rispolverassero lo spettro del commissariamento greco, ed ecco l’euro indebo-

lirsi, mentre è via via frenato l’alleggerimento delle pressioni sui titoli di Stato registrato nelle ultime settimane. A ben guardare, siamo di fronte a una guerra tutta mediatica, perché l’accordo tra il governo e le banche private è nelle cose. Lo vogliono le parti, visto che senza un’intesa Atene rischia di fallire già a marzo quando vanno in scadenza (e devono essere rinnovati) 14,4 miliardi di bond, mentre gli istituti rappresentati dall’Iif rischiano, con un default ellenico, di dover mettere a bilancio ulteriori perdite, che potrebbero aggravare le ricapitalizzazioni già imposte dall’Eba. Soprattutto lo vogliono gli Stati Uniti. Washington spinge perché i greci ottengano un taglio dei rendimenti sui titoli di Stato superiore al 50 per cento già concordato, ché i privati incassino un interesse più alto del 4 per cento sui nuovi bond che andranno a sostituire le vecchie emissioni, lasciando alla Bce (magari congelando le rendite sui 40 miliardi di titoli ellenici in suo possesso) e al Fondo Salva Stati l’onere di accollarsi la differenza tra lo sconto ottenuto dagli ellenici e le perdite degli istituti privati. Insomma, si va verso una soluzione dettata da motivazioni prettamente prosaiche, non certo dallo spirito moralizzatore della Merkel. Eppure la Germania finge di non accorgersene e reitera gli errori fatti (f.p.) negli anni della crisi.

prossimo Consiglio europeo già convocato per l’1 e il 2 marzo e che prenderà la forma di un trattato intergovernativo, aperto ai 17 Paesi di Eurolandia e a tutti gli altri che lo vorranno sottoscrivere, per dare regole e vincoli comuni ai conti pubblici nazionali e, quindi, dare forza all’euro. Perché, come hanno detto i leader della Ue, «bisogna fare di più per uscire dalla crisi».

Nella lista dei risultati positivi c’è, poi, l’impegno a “riorientare”, come dicono i tecnici, 82 miliardi di fondi strutturali esistenti nelle casse della Ue in direzione dell’occupazione e dello sviluppo. E di questi miliardi, almeno otto, quasi il 10 per cento, andranno all’Italia. È un altro successo di Monti. Che ha incassato anche il giudizio estremamente lusinghiero espresso dal presidente dell’Eurogruppo, il premier lussemburghese, Jean-Claude Juncker – «la politica italiana ha ritrovato il cammino della ragione» – e che ha fatto il suo ingresso nella grande sala delle riunioni del palazzo Justus Lipsius assieme ad Angela Merkel e a Nicolas Sarkozy al termine del colloquio trilaterale che è durato, come nelle previsioni, circa mezz’ora, ma che avrà un seguito molto più approfondito in un nuovo incontro a tre che


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La giornata del grande mediatore Tra mille dubbi sul Patto fiscale, Monti trova il compromesso per ricucire con Praga e Varsavia di Errico Novi e si vuole una misura del peso di Monti a Bruxelles si deve star dietro ai twit inseriti sui social network dagli inviati della grande stampa europea. Al principio della giornata che culmina nel Consiglio europeo qualche detrattore enfatizza il passo militare della Merkel destinato a schiacciare in un breve saluto il trilaterale con Monti e Sarkozy. «Durerà pochissimo», è la voce che circola intorno alle 14 e 40. Il sospetto è fondato: la cancelliera tedesca è appena arrivata a Palazzo Justus Lipsius, alle 15 cominciano i lavori del Consiglio, dunque resta pochissimo. Alla fine invece il vertice preliminare italofranco-tedesco acquista un valore così importante da costringere a benevola attesa il resto dei ventisette. Sono passate le 15 e 20 quando i tre reduci dal pre-summit entrano nella sala dove attendono gli altri capi di Stato e di governo.Van Rompuy dà inizio alla discussione solo allora.

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copyright è dell’Economist). Il punto è che nella super giornata europea ci sono due questioni calde, l’applicabilità delle sanzioni previste dal Fiscal compact e il nervosismo dei Paesi Ue noneuro come la Polonia: ebbene, il premier italiano finisce per veder prevalere la sua posizione su entrambi. Sul Patto fiscale c’è peraltro una più generale carenza di autorità competente. Non si capisce bene chi comanda, quale sia il margine d’intervento della Corte europea, con quale potere verrà fatto rispettare l’accordo. E non a caso, quando la Polonia alza la voce, la Com-

taggiosa per l’Italia nel calcolo dello sforamento del deficit e nei relativi criteri a cui vincolare le sanzioni “semiautomatiche” dell’articolo 7; viene così strenuamente difesa la linea del Piave tracciata nel ”Six pack”dal precedente governo, si terrà conto dei fattori atte-

Alle riunioni potranno partecipare anche i membri Ue “non-euro”, se il tema è la competitività: così il Professore riapre i giochi per far prevalere la crescita sul rigore

Cosa sarà mai un quarto d’ora in più o in meno? A Bruxelles i singoli minuti contano. Il trilaterale alla fine si protrae per una «mezzoretta», come conteggiato dalla compiaciuta delegazione italiana. Ed è tanto se a riempirli di contenuti stringenti, e utili alla causa di Roma, è un Monti che ruba la scena a Sarko e nei succitati twit si coniuga con la Merkel in un «Merkonti» che scalza il precedente «Merkozy» (il

sarà organizzato a Roma nella seconda metà di febbraio. È un rapporto che, a giudizio di molti commentatori di cose europee, ha mandato in soffitta la coppia Merkozy – come erano stati ribattezzati la Merkel e Sarkozy – e che sta inaugurando l’era Merkonti in cui è entrato a pieno titolo il presidente del Consiglio italiano. Ma, a parte i giochi di parole, quello che conta sono i risultati. Il diverso utilizzo dei miliardi ancora non spesi dei Fondi strutturali è stato proposto dal presidente della Commissione, José Manuel Barroso, che ha anche suggerito di creare in otto Stati membri un team congiunto di esperti dell’esecutivo Ue, delle amministrazioni nazionali e delle parti sociali con il compito di riprogrammare gli interventi e di concentrarli per l’occupazione.

Gli otto Paesi sono quelli che hanno i livelli più alti di disoccupazione giovanile: Italia, Spagna, Grecia, Slovacchia, Lituania, Portogallo, Irlanda e Lettonia. Ma la partita più importante era quella sul fiscal compact, fortemente voluto dalla Germania. E così è stato.

missione europea fa filtrare pieno appoggio alle preoccupazioni di Varsavia, che appunto sta nei ventisette ma non nei diciassette dell’eurozona.

Nel marasma, Monti si guadagna la luce del leader che sa far filtrare qualche barlume di chiarezza. Ci riesce con un gioco attentissimo che ha preliminari persino nell’incontro romano tra il ministro degli Esteri Terzi e l’omologo polacco Sikorsky, celebrato in mattinata alla Farnesina. Al trilaterale con Merkel e Sarkozy il presidente del Consiglio piazza quindi il doppio colpo decisivo. Da una parte, sul Fiscal compact, consolida la soluzione più van-

Il nuovo Patto per i vincoli di bilancio impegna i Paesi a inserire l’obbligo del pareggio dei conti pubblici nelle Costituzioni nazionali e a riportare il deficit entro il tetto del 3 per cento in rapporto al Pil – come già stabilito dal Patto di Stabilità – e la massa del debito entro la soglia del 60 per cento del prodotto nazionale lordo. All’Italia interessava che la riduzione del debito (il nostro è a quota 120 per cento) fosse graduale, senza sanzioni automatiche e con il calcolo di tutti i suoi diversi parametri. E ha ottenuto soddisfazione. Più complesso è stato il negoziato per convincere tutti i Paesi Ue a firmare il nuovo trattato intergovernativo. Il no della Gran Bretagna era stato già annunciato nel vertice dello scorso dicembre ed è stato confermato. Ma ieri si sono aggiunte le riserve della Polonia e della Repubblica ceca che, come la Gran Bretagna, non fanno parte della zona euro – ma vogliono entrarvi – e che condizionano la loro firma alla piena partecipazione alle fasi decisionali che, al contrario, sono riservate

nuanti prima di imporre il rientro al 60 per cento del rapporto debito/pil: questione di vera sopravvivenza per l’Italia. Dall’altra parte, Monti si fa promotore di una utile via compromissoria

ai 17 Paesi che hanno l’euro come loro moneta.Varsavia e Praga, ieri, hanno detto che alle condizioni attuali il fiscal compact è «inaccettabile». In realtà, il nuovo Patto di bilancio non doveva essere firmato nel Consiglio europeo di ieri – che, tra l’altro, era un vertice informale, cioè di sola discussione per raggiungere il consenso – ma dovrà essere ratificato come

sul nodo dei membri Ue non euro: potranno partecipare ai summit dell’eurozona non semplicemente una volta l’anno ma in ogni discussione che riguardi competitività e mercato interno.

E qui c’è il colpo d’ala risolutivo, probabilmente: perché così Monti si assicura non solo l’appoggio della nervosissima Polonia (che minaccia di non firmare il Patto), della Repubblica Ceca e di altri, ma di fatto costringe la Germania a un tavolo aperto permanente in cui i temi della crescita possano prevalere su quelli del rigore. Perché se il criterio per allargare i vertici è quello della competitività, passa il principio per cui è proprio questo il tema chiave, piuttosto che il risanamento dei conti. Non a caso i collaboratori di Monti ne fanno trapelare «l’ottimismo sulla versione definitiva del Fiscal compact» non appena si chiude il trilaterale. Nel quale il premier ottiene anche che a Roma, nella seconda metà di febbraio, ci sia un nuovo round con Merkel e Sarkozy. A proposito di prepararsi il terreno: mentre è a Bruxelles, Monti riesce a far pervenire a Fini e Schifani il decreto che fissa il tetto dei manager pubblici (e anche dei dipendenti delle Camere) a quello previsto per il primo presidente di Corte di Cassazione. Nel comunicato di Palazzo Chigi si sottolinea che si è fatto assai più in fretta dei novanta giorni previsti. Altra soddisfazione. A cui oggi si aggiungerà il premio di ”Europeo dell’anno” che Monti riceverà da Trombinoscope, super annuario francese.

legge al fiscal compact. È un’ipotesi-limite perché i tre Paesi che, per ora, hanno detto no all’accordo non fanno parte della zona euro. Iveta Radicova ha, comunque, precisato che chi non firmerà le nuove regole più severe per il controllo dei bilanci, non potrà chiedere l’assistenza del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) che dovrebbe entrare in vigore entro

pei, rischia il fallimento entro due mesi. Angela Merkel è arrivata a Bruxelles preceduta da una proposta-choc: commissariare il governo di Atene giudicato incapace di mettere in campo misure efficaci per contrastare il deficit pubblico. Una posizione estrema, certo, ma che prende alla lettera le dieci pagine del rapporto che Commissione europea, Fmi e Bce hanno appena consegnato a tutti i governi dei Paesi Ue. La relazione della “troika”dice che la Grecia non è riuscita a raggiungere gli obiettivi che si era prefissata d’accordo con Bruxelles, che sarebbe necessario cambiare i vertici dell’amministrazione tributaria e di gran parte dei dirigenti della funzione pubblica, che il debito ammonta al 160 per cento del Pil e che, nel 2011, il deficit è stato vicino al 10 per cento del prodotto interno lordo. Ieri l’unico passo avanti su questo fronte è stato un rinvio del problema a un vertice straordinario della Ue che si terrà l’8 febbraio e che Berlino vuole dedicato esclusivamente alla crisi greca.

In base alle regole europee sui trattati intergovernativi, potrebbe essere sufficiente la ratifica da parte di 12 dei 17 Paesi di Eurolandia per dare forza di legge al nuovo fiscal compact trattato intergovernativo rispettando tutte le procedure e i tempi del caso. Come dire che i no di Polonia e di Repubblica ceca sono ancora superabili. E che, in ogni caso, non bloccheranno l’entrata in vigore del fiscal compact.

Il primo ministro slovacco, Iveta Radicova, ha anche detto che, in base alle regole europee sui trattati intergovernativi, potrebbe essere sufficiente la ratifica da parte di 12 dei 17 Paesi di Eurolandia – la maggioranza qualificata – per dare forza di

il prossimo giugno prendendo il posto dell’attuale Fondo straordinario salva-Stati. Sull’Esm – e, soprattutto, sulla sua dotazione finanziaria – ieri non sono stati fatti passi avanti. La Germania rimane sulla sua posizione (500 miliardi di dotazione), mentre la maggioranza dei Paesi di Eurolandia, Italia compresa, sperano di poter aumentare la dote del nuovo strumento anti-crisi almeno a 750 miliardi. Ma il capitolo delle questioni irrisolte vede al primo posto il salvataggio della Grecia che, senza interventi euro-


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l’approfondimento

Il vertice di ieri segna un punto di non ritorno: anche la Nato finirà per risentire delle divisioni sulla moneta unica

Europa Anno Zero

Di qua i Paesi che pensano solo a difendere l’euro, di là quelli che pensano al mercato globale. Comunque vada, l’Unione è destinata a cambiare radicalmente: ora gli Usa devono decidere se puntare su Londra o su Bruxelles di John R. Bolton opo gli ultimi incontri a livello europeo, convocati per risolvere la crisi economica e finanziaria del vecchio Continente e in vista del vertice di ieri a Bruxelles - i mercati finanziari internazionali hanno reagito con cautela. E hanno fatto bene, va detto, dato che questi numerosi sforzi per salvare diverse nazioni dell’Eurozona dal collasso fiscale - e la stessa valuta comune dell’Unione - fin qui hanno prodotto risultati mediocri. Meno compresi dagli analisti sono gli effetti politici di questi summit: la Gran Bretagna ha rotto in maniera decisa con il duopolio continentale composto da Germania e Francia. Questa rottura ha prodotto degli effetti che colpiranno in maniera drammatica sia l’Unione europea che la Nato, con enormi implicazioni per l’America e per la sicurezza globale e dell’Occidente. Da un punto di vista geostrategico, l’Unione europea ha sempre “contato” meno della somma delle sue parti; così Wa-

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shington dovrebbe accogliere con favore quei cambiamenti che riportano in auge la sicurezza nazionale, in grado di opporsi alle minacce di sicurezza rivolte contro l’Occidente.

Bloccando il nuovo Trattato sull’euro, Londra ha aperto la possibilità di cambiare in maniera radicale - o persino di infrangere - la stessa Unione europea. I liberal-democratici, partner della coalizione di governo guidata da David Came-

ron, hanno criticato con forza questa posizione; ma se Cameron si tira indietro i suoi tory (euroscettici da sempre) potrebbero ribellarsi, minacciando l’esistenza stessa dell’esecutivo. Il pieno impatto della decisione britannica è ancora poco chiaro, ma la tendenza europea a “cercare una mediazione” è oramai quasi certamente storia. Al momento ci troviamo a un bivio fra due “soluzioni estreme”, con implicazioni enormi per il futuro stesso del-

Troppo spesso si dimentica che la crisi pesa anche sulla sicurezza

l’euro. Da una parte la moneta unica implode: la maggior parte dei membri dell’Eurozona torna alla valuta nazionale e quello che resta della valuta comune diventa un nuovo Deutschmark per la Germania e per i suoi satelliti economici.

Dall’altra parte, l’euro viene preservato, ma soltanto dopo che ci si sia accordati su un massiccio trasferimento di sovranità nazionale (parliamo della politica fiscale e moneta-

ria) dai membri dell’Eurozona alla burocrazia di Bruxelles. Che diverrebbe in questo modo la vera capitale di 17 ex Statinazione, oggi province dell’Eurozona. Il Regno Unito e le altre nazioni non appartenenti all’Eurozona potrebbero staccarsi del tutto e rompere con l’Unione europea, oppure mettere in atto una vastità di relazioni diverse con i nuovi Stati europei. Questa convergenza economica e politica di coloro che creano le politiche europee è centrale per quella teologia che predica l’euro al primo posto, ma le sue implicazioni finali sono state ben nascoste (oppure ignorate) fino all’esplosione della corrente crisi. Questo non è possibile più a lungo. La Gran Bretagna per come la conosciamo non accetterà mai di implementare politiche critiche decise prima dai membri dell’Eurozona e poi presentati a coloro che non sono membri dell’Unione semplicemente come fatti compiuti. I media hanno sottolineato con forza che


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L’economista analizza luci e ombre dell’ultima intesa Ue: «Mancano le riforme sulla finanza»

«È Draghi la vera garanzia per lo sviluppo di Eurolandia»

«Soltanto il governatore ha l’autorevolezza per occuparsi di crescita. I governi non fanno altro che indebitarsi», dice Leonardo Becchetti di Francesco Pacifico

ROMA. L’Europa si avvia verso l’ennesimo compromesso. I mercati riscoprono tensioni che parevano sopite. Ricette e risorse per lo sviluppo latitano. Un risultato, quello del vertice d’Europa di ieri, che non sembra sorprendere l’economista Leonardo Becchetti. «Sarà difficile risolvere i problemi dell’euro fino a quando non affronteremo quella che è in letteratura chiamiamo “trilemma dell’Europa”: cambi fissi, velocità diverse di sviluppo e perfetta circolazione dei capitali a breve», nota, a margine di un seminario organizzato dalle associazioni Visioni Contemporanee e la Rosa per l’Italia, l’ordinario di economia politica dell’università di Roma Tor Vergata. Soddisfatto professore? Non vedo riforme sul versante della finanza. Innanzitutto vieterei l’uso dei derivati di copertura, i Cds, quando non si posseggono i titoli di Stato corrispondenti. Questo perché considero il debito pubblico una cosa seria e la sua riassicurazione un’attività meritoria. Un’area a dir poco grigia. È un mercato in mano a poche banche. Finora si è intervenuto su tutto, tranne che sui conflitti d’interesse nel mercato finanziario. Eppure le cose da fare sono semplici e si ripetono da mesi: perché, come prevede la Volcker rule, non c’è una separazione tra banche commerciali e tradizionali? Altrimenti gli istituti continueranno a speculare piuttosto che a dare prestiti a imprese e famiglie. Altri “cose semplici”? Servono limiti alla leva finanziaria delle banche d’affari rispetto al capitale proprio. Eppoi una tassazione sulle transazioni finanziarie c’è già in Gran Bretagna – la Stamp duty tax – non capisco perché Cameron si opponga. La Ue si occupa di debito. Però ha dato un importante segnale, scegliendo di non accelerare sullo stock di debito, anche perché il deficit è un benchmark più che sufficiente per valutare la sostenibilità di un Paese. L’Italia ringrazia. Da noi, dove il debito tende a diminuire, si dimentica di ricordare che il costo sul passivo è al 4,4 per cento, mentre l’avanzo primario viaggia verso il 5. Non a caso veniamo studiati in tutto il mondo perché siamo uno di Paese che nonostante l’alto debito è sostenibile. E la crescita? Nel momento in cui è fortissima la speculazione è stato un bene mandare un segnale di sostenibilità al mercato, facendo intendere che è ormai un affare investire sui bond del Vecchio

continente. Adesso, però, bisogna passare alla crescita. Dia un consiglio a Monti. Intanto, ma soltanto a saldi immutati, ogni euro recuperato con la spending review sulla spesa e con la lotta all’evasione va restituito in termini fiscali. Eppoi vanno implementate quelle riforme funzionali ad aumentare la produttività e la competitività. Dopo aver dato un segnale di maggior rigore, adesso bisogna evitare tutto quello che possa rafforzare una spirale recessiva già in atto.

L’Italia deve festeggiare per la decisione di non accelerare sulle politiche di rientro dal debito

Draghi docet. La sua manovra di rifinanziamento al tasso dell’1 per cento è stata una mossa decisiva per riportare la fiducia sui mercati. Eppoi va avanti nonostante le pressioni, da un lato, della Germania perché non trasformi la Banca centrale in prestatore di ultima istanza e le spinte, dall’altro, perché metta argini contro il credit crunch e aumenti gli acquisti di titoli di Stato di Italia, Spagna e Portogallo sul mercato secondario. Fa quello che non fa la politica. Sì, la sua sua è un’azione di supplenza. Ma in fondo non deve sorprendere: soltanto le banche centrali hanno le risorse e l’autorevolezza per realizzare grandi politiche espansive. I governi invece possono soltanto indebitarsi. Un valore aggiunto per l’Italia. In questo determinato momento storico ci sono due personalità, che più di altri si stanno dando fare per contrastare la crisi: uno è lui, l’altro è Mario Monti. Il premier ha dimostrato di sapersi districare benissimo nel contenimento delle finanze pubbliche e nella gestione del debito pubblico. Ora però deve lavorare più e meglio sulla crescita, perché non possiamo reggere più di tanto con una decrescita del 2,2 per cento, come prevedono le stime più pessimistiche. Oltre Draghi ci sono figure forti? Dopo le ultime riforme europee è difficile dire che comanda nel Vecchio Continente. Si è creata talmente confusione nella parcellizzazione di competenze tra Ecofin, Consiglio d’Europa e Corte europea, che abbiamo distrutto l’Europarlamento e la Commissione. A parte la banca centrale, non esiste più un’istituzione comunitaria autorevole. Così si torna al passato: comandano i capi di Stato dei due principali Paesi, mentre gli altri – come l’Italia con con Mario Monti – se hanno autorevolezza possono influire nel processo decisionale. Così si torna indietro? Nel 2004 Francia e Germania, con l’avallo dell’Italia presidente di turno della Ue, sforano dai vincoli di Maastricht e congelano il trattato. E siccome da allora non si sono state cessioni di sovranità, non c’è da meravigliarsi che sfruttando il momento eccezionale gli Stati nazione abbiano ripreso in mano le operazioni. Si rischia la paralisi? No, se si convince la Germania, che in passato si è accollata il futuro dell’Est europeo, di prendersi cura anche dell’area mediterranea. Di lanciare un piano Marshall dietro preciso garanzie che non aumenteranno più i debiti pubblici dei Piigs.

solo Londra si è opposta a un Trattato a livello europeo, impedendo di fatto alla burocrazia centrale europea di dominare la politica fiscale dell’intera Unione. Di fatto, poi, questo accordo ancora non esiste. I leader dell’Eurozona hanno bisogno ogni volta di dichiarare una vittoria politica, e quindi come è loro costume - hanno annunciato di aver trovato un accordo per soddisfare i mercati finanziari. Tuttavia, hanno lasciato le parti problematiche per dopo. I mercati hanno con il tempo capito sempre di più che persino i membri dell’Eurozona sono molto scettici riguardo la supposta vittoria, dato che persino loro si chiedono su cosa il summit si sia accordato.

Ma anche se il blocco dei dissidenti (all’interno ma anche all’esterno dell’Eurozona) consiste nella sola Gran Bretagna, questo potere importante avrà inevitabilmente un tipo di relazioni diverso con l’Unione europea. Decidendo di mantenere molta più sovranità e libertà di azione di quanto sia al momento possibile all’interno dell’Unione Europea, la Gran Bretagna si comporterà in maniera consequenziale. Avrà più potere negli affari mondiali, mentre l’Ue ne avrà di meno. Inoltre, una Unione europea che sia ristrutturata in maniera radicale potrebbe avere implicazioni di sicurezza molto significative. Anche la Nato potrebbe cambiare, a seconda di quale soluzione l’Unione scelga di adottare. Se i membri del Vecchio continente decidono di mantenere la propria sovranità, potrebbe ritornare un Patto atlantico molto più robusto. Potrebbe persino arrivare a divenire un Patto globale, data la volontà di ingresso di Giappone, Australia, Singapore e Israele: e questa è la ricetta che ha suggerito l’ex primo ministro spagnolo Josè Maria Aznar. Se invece, al contrario, i membri dell’Eurozona dovessero decidere di rinunciare a una maggiore disponibilità di sovranità si produrrebbe un blocco franco-tedesco che renderebbe di fatto meno efficace la Nato. Se la Germania dovesse continuare a insistere su un approccio da “piccola Europa” nei confronti degli affari internazionali, l’America dovrebbe iniziare a considerare la creazione di un’alleanza totalmente nuova fra membri della Nato non europei. Un gruppo che potrebbe decidere di rendere globali i propri partner, proprio sulla linea Aznar. Tutte queste possibilità sono ovviamente ancora nella linea teorica, ma questo summit europeo, intenzionalmente o meno, ha aperto la porta a conseguenze di questo tipo. Gli Stati Uniti devono iniziare a considerare quale strategia vogliono tenere, senza guardare in maniera passiva agli eventi.


politica

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Il presidente a Bologna contestato dagli «indignados»

Il Colle insiste: subito le riforme istituzionali Scontri e cariche prima della laurea a Napolitano. Che risponde «Sì alle critiche, no alla violenza» di Errico Novi

ROMA. Avrebbero dovuto ascoltarlo, forse. Al- sforzo appena intrapreso continui», all’opinione meno per riflettere sull’opzione nichilista a cui deliberatamente si consegnano. I ragazzi del “movimento indignato” bolognese perdono invece l’occasione di seguire la ”lectio magistralis”di Giorgio Napolitano. La perdono tra contestazioni e spray urticanti (avrebbe brandito anche quelli, secondo la questura), in un estenuante zig-zag di cortei e controcortei inutilmente approntati per un’irruzione nell’aula magna “Santa Lucia”. Il presidente della Repubblica alla fine si rifiuterà persino di commentare la contestazione. «Parlo del dissenso se motivato», dice ai cronisti. Qui invece ci si dovrebbe soffermare «sulle uova e sugli accendini». Scivolata che il capo dello Stato, dopo il densissimo intervento all’università, si guarda bene dal fare.

pubblica (compresa quella giovanile più “urticante”) perché non rifiuti i partiti («il passo verso il rifiuto della politica tout court non è lungo ed è fatale, giacché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà») e infine con l’appello più significativo, rivolto alle forze presenti in Parlamento perché trovino un’intesa sulle riforme.

Non è nuovo l’impegno del presidente su questo tema. È solo grazie alla sua paziente opera di stimolo se una parvenza di confronto tra i partiti è tuttora visibile. Ma certo l’occasione della lectio da “neolaureato” – in una città che quasi vive di università e forse per questo fibrilla dinanzi all’evento – avrà il suo peso.Verifichino, le forze politiche, almeno la «possibilità» di definire o «prospettare credibilmente revisioni della seconda A perderci qualcosa dunque sono soprattutto parte della Costituzione». Non disdegnino un tenquelle poche centinaia di agitatissimi ragazzi del- tativo di cambiare «le regole parlamentari ed eletl’ateneo felsineo arrivati a lanciare sacchi di im- torali», per «restituire ai cittadini elettori la voce mondizia contro le forze dell’ordine, con preghie- che ad essi spetta innanzitutto nella scelta dei lora di consegnarli al presidente. A loro non va giù ro rappresentanti». In questo modo i partiti «dache il rettore Ivano Dionigi consegni a Giorgio rebbero prova del loro senso di responsabilità». È Napolitano una laurea honoris causa in Reun invito che si accorda con il telazioni internazionali. Lui invece, Nama più generale su cui Napolipolitano, la prende con modestia ectano si sofferma: quello della cessiva («questa è una promozione politica in crisi di credibilità da praticante a scienziato della politie di capacità attrattiva. Insica»). Lo ascoltano, oltre agli accadegnito del titolo di“scienziato mici dell’Alma Mater, i ministri Candella politica”, il presidente cellieri, Profumo e Gnudi. La sua lunga della Repubblica le rende un esposizione è un condensato di idee e viomaggio non rituale. Dà una sioni per il presente e il futuro prossimo rappresentazione efficace deldella politica, non solo italiana. Con un la diffusa disaffezione di cui forte invito al governo Monti perché «lo la politica soffre presso l’opinione pubblica: «Assistiamo certamente da qualche tempo all’appannarsi di determinati

di Marco Scotti entre il governo stringe sulla sulla riforma del lavoro (domani il ministro Fornero presenta la nuova bozza), la Camera approva una nuovo regolamento che, con effetto immediato taglia ai deputati 1300 euro lordi al mese: 700 netti. A questo, si dovrà aggiungere un ulteriore taglio del 10% per quei deputati che svolgono un ruolo ulteriore, come i presidenti di commissione. «Si tratta di decisioni definitive e ad effetto immediato» ha spiegati il vicepresidente Rocco Buttiglione al termine della riunione. La norma, come è evidente, vale solo per i deputati ma è ragionevole supporre che a stretto giro anche i senatori prenderanno una decisione analoga. Forte di questa «presa di coscienza» dei deputati, il governo ha anche inviato ai parlamentari la bozza di regolamento per porre un tetto ai manager pubblici. Due i criteri: il trattamento massimo non potrà superare quello del primo Presidente della Corte di Cassazione; mentre i dipendenti fuori ruolo o in aspettativa, la retribuzione per l’incarico non potrà superare il 25% del trattamento economico fondamentale.

M

Intanto, domani riprende su nuove basi la trattativa per la riforma del lavoro: vediamo

che cosa prevede. Partiamo proprio da quest’ultima categoria, che ha senz’altro salutato con grande favore l’idea del Governo di agevolare la tassazione Irap per quelle aziende che assumano donne o giovani sotto i trentacinque anni. L’Irap, acronimo che sta ad indicare l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, da sola è stata in grado di finanziare il 40% della spesa sanitaria nazionale nel 2009. Un dato che fa comprendere immediatamente quanto gravosa possa essere per imprenditori e aziende. Per questo motivo incentivare l’assunzione di alcune categorie a rischio potrebbe essere un vantaggio per le imprese e, al contempo, permettere all’Italia di fare un balzo in avanti garantendo maggiore (e migliore) occupazione. Quanto all’articolo 18, attualmente, lo statuto dei lavoratori prevede che coloro che sono assunti in una azienda con più di 15 dipendenti non possono essere licenziati senza giusta causa. In caso ciò avvenisse, il lavoratore può rivolgersi a un giudice del lavoro che può disporne il reintegro (senza quindi la perdita dell’anzianità maturata) o la riassunzione. Gli imprenditori sostengono che è da imputare all’articolo 18 la loro riluttanza a siglare contratti a tempo indeterminato che rischiano di diventare gioghi da cui è quasi impossibile liberarsi. I lavoratori e i sindacati rispondono che non


politica

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moventi dell’impegno politico inteso come effettiva e durevole partecipazione, anche per effetto di una perdità di efficacia, persuasività e inclusività del sistema». E questa, spiega Napolitano, è «una crisi che richiede riforme».

Da qui si arriva all’appello che chiama in causa partiti assai smarriti. Di loro, avverte però il capo dello Stato, «non bisogna avere una visione demoniaca, ma razionale e realistica». Altrimenti il passo che porta al tramonto non solo dei partiti ma della democrazia e della libertà, appunto, è breve. Ma certo quelle stesse forze devono pur impegnarsi per riguadagnare fiducia: «L’apporto della politica resta decisivo anche dopo la nascita di un governo senza la partecipazione di personalità rappresentative dei partiti», ai quali spetta il compito di «creare le condizioni per il rilancio di una competizione non lacerante quando, al termine della legislatura, gli elettori saranno chiamati alle urne». A questo punto Napolitano disegna un vero e proprio modello di Terza

«La Rete aggrega ma non può sostituire i partiti», dice il capo dello Stato, «ma questi riconquistino la credibilità perduta con candidati dalla moralità trasparente» Repubblica: bisognerà avviare «una dialettica di alternanza non più inficiata da una conflittualità paralizzante e non chiusa alle convergenze politiche che le esigenze e l’interesse del Paese potranno richiedere».

Intanto domani riprende la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro

Deputati: 1300 euro in meno La Camera decide un taglio mensile: «Avrà effetto immediato»

Il ministro Elsa Fornero domani presenterà il nuovo piano per il lavoro. In alto, le contestazioni al presidente Napolitano che ieri a Bologna ha ricevuto la laurea ad honorem

si può rinunciare a tutele acquisite nel corso degli anni, perché significherebbe riportare le lancette indietro di troppo tempo, ridando all’imprenditore un potere nettamente superiore a quello del lavoratore. In questo quadro confuso va detto che l’Italia è l’unico paese dell’Unione Europea in cui esista un articolo di questo tipo nello statuto dei lavoratori e la Bce, con la famosa lettera di agosto inviata al Governo Berlusconi, ha chiesto una revisione di questa norma. L’esecutivo sembra orientato ad ascoltare il monito di Francoforte, offrendo a lavoratori e aziende un compromesso che potrebbe accontentare molti (se non tutti): stante che chi già gode dell’articolo 18 non verrà coinvolto, il governo propone che i giovani precari o con contratto a termine che dovessero essere assunti a tempo indeterminato non possano godere del reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, ma debbano ottenere un risarcimento proporzionato all’anzianità di servizio. Questo consentirebbe alle aziende di essere meno ”spaventate” e, al

contempo, offrirebbe ai giovani una situazione più stabile. Sul fronte dei contratti, è necessario ridurne drasticamente il numero. C’è chi parla di un contratto unico, valido per i neo-assunti, della durata di tre anni, che abbia tutele crescenti, ma la questione rimane ancora aperta.

Altro tema caldo: gli ammortizzatori sociali. Lunedì scorso la disputa tra sindacati e governo ha raggiunto livelli da allarme rosso dopo l’annuncio dell’esecutivo di voler rivedere la cassa integrazione. Monti e la sua squadra da un lato non possono permettersi di abbandonare nessuno al suo destino, dall’altro vogliono diminuire le risorse ogni anno destinate a questa voce di spesa, spostandole in altri settori per incrementare la crescita. Se è vero che nel 2011 le ore di Cig autorizzate dall’Inps sono state nettamente in calo rispetto all’anno precedente, non si può salutare questo risultato con favore, dal momento che è dipeso anche dal crollo di alcune aziende schiacciate dalla crisi economica.

C’è dunque una difesa del modello Monti. la nascita del nuovo governo, non ha problemi a riconoscere Napolitano, è avvenuta fuori dagli «schemi ordinari». Ciononostante quelle larghe intese su cui l’esecutivo del Professore si regge, dice di fatto il capo dello Stato, sono una via che resta utile di fronte a situazioni particolari. E la stessa alternanza non dovrà più essere conflittuale. Questo può avvenire a condizione che i partiti propongano «candidati che presentino i necessari titoli di trasparenza morale e competenza». Chi vorrà, potrà interpretare il passaggio come una esaltazione di Monti: si tratta invece di un’esortazione fatta nell’interesse della politica stessa. La quale dovrebbe evitare di cedere a tentazioni populiste che pure, ricorda il capo dello Stato, serpeggiano pericolosamente in tutta Europa. Che tutta la sua lezione sia sostenuta da un sincero slancio a difesa della politica propriamente detta, d’altronde, è confermato da un’altra parte del discorso, quella in cui Napolitano definisce «un abbaglio» la pretesa di ovviare alla crisi dei partiti con le soluzioni offerte dalla rete: internet fornisce«accessi preziosi e stimoli all’aggregazione» che però «non sono sostitutivi dei partiti». «Non c’è partecipazione individuale e collettiva efficace alla formazione delle decisioni politiche nelle sedi istituzionali senza il tramite dei partiti». Diserbante più immediato contro l’antipolitica non si sarebbe potuto pretendere. Ce n’è anche per i ribellismi molecolari suscitati dalle riforme economiche: «Metto in guardia contro la pericolosità di reazioni a qualsiasi provvedimento che vadano al di là di richieste di ascolto e confronto per sfociare in violenze inammissibili». L’ammonimento vale di sicuro per chi si oppone alla modernizzazione del sistema Paese. Può valere anche per il futuro, e quindi per le trattative tra esecutivo e negoziati sulla riforma del lavoro, a cui Napolitano pare riferirsi quando parla del «corretto confronto» necessario tra esecutivo e parti sociali. E anche qui torna un presidente assai impegnato a difendere il valore anche europeo dell’esperienza Monti. Pur nella tensione per una crisi economica da cui «è lecito chiedersi se l’Italia uscirà impoverita», come dice il capo dello Stato. Può darsi che avvenga, ma guai se il Paese «ne uscisse impoverito anche spiritualmente e culturalmente».


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scar Luigi Scalfaro è stato il più “devoto” tra i nostri presidenti della Repubblica ma è stato anche quello che ne ha rivendicato la laicità davanti al Papa con parole decise, persino polemiche. A darci questo profilo mosso della sua figura cristiana sono due episodi che si collocano all’inizio e alla fine del settennato presidenziale: una preghiera da lui improvvisata a Palermo, durante il funerale di Paolo Borsellino nel luglio del 1992; e il saluto a Papa Wojtyla in visita al Quirinale nell’ottobre del 1998, avendo egli appena dato l’incarico di formare un nuovo governo a Massimo D’Alema e avendo ricevuto violente critiche per quella decisione dai media ecclesiastici. Due eventi a loro modo sorprendenti per un cronista dei fatti religiosi: non si era mai visto un presidente della Repubblica andare al microfono in una chiesa, durante la celebrazione di un funerale e pronunciare una preghiera come un cristiano comune, intervenendo appunto nella “preghiera dei fedeli”. Né si era mai ascoltato un Presidente reagire in presenza di un Papa a una censura che gli era arrivata anche dall’Osservatore Romano.

O

A Palermo, il 24 luglio 1992, nella chiesa di Santa Luisa di Marillac, Scalfaro è seduto – con la figlia Marianna – accanto alla famiglia del giudice Paolo Borsellino: la sposa Agnese, i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta. Appena entrato si era inginocchiato davanti all’altare e aveva baciato

il paginone la bara. Poi aveva abbracciato i famigliari dell’ucciso. Aveva ascoltato la prima lettura, fatta dalla sorella di Paolo, Rita Borsellino. E l’omelia del parroco, don Giuseppe Bucaro: «Ricordiamo con la forza del perdono Paolo Borsellino, cristiano di questa comunità: era un uomo giusto e vive per la sua fede, essendo morto per noi e per gli ingiusti». Alla preghiera dei fedeli, Scalfaro va al microfono e prega improvvisando e la gente che è fuori dalla chiesa riconosce la sua voce dagli altoparlanti e batte le mani: «Signore, chiediamo noi uomini dello Stato e di tutti i poteri dello Stato di non disperdere la sconfinata, umana e spirituale ricchezza che esce da questa somma di sacrificio e di sangue. Che domani, che doman l’altro, che ancora il domani che terminerà con il tramonto delle nostre giornate, non disperda nulla di questa ricchezza. Te lo chiediamo affinché noi, che incarniamo responsabilità dinanzi alla gente buona, alla gente che ama il lavoro, alla gente che ama la pace, alla gente che sa amare e non odiare, o Signore, non siamo mai motivo di vergogna o di scandalo. Per questo ti preghiamo».

Il momento era di grande dramma nazionale. Scalfaro era stato eletto al Quirinale due mesi prima, il 25 maggio 1992, all’indomani della strage di Capaci che aveva ucciso Giovanni Falcone ed eccolo a Palermo, appena insediato, al funerale di Paolo Borsellino. Al funerale di Falcone e a quello degli uomini della scorta di Borsellino – celebrato tre giorni prima di quello del magistrato – si erano avute grida della folla contro le autorità e contro lo stesso Scalfaro; e si erano udite “preghiere”che erano suo-

Dalla preghiera pronunciata come un comune cittadino ai funerali di Borsellino alla ”protesta” con Wojtyla dopo la nomina di D’Alema premier: due episodi inediti di Scalfaro Sotto a sinistra, Oscar Luigi Scalfaro con papa Wojtyla. Sopra, l’ex presidente al Quirinale e con la figlia Marianna. A destra, giovane dirigente dell’Azione Cattolica

Gli azzardi di u

di Luigi A

nate anch’esse come grida rivolte a Dio e agli uomini. In particolare aveva colpito il grido di Rosaria Costa Schifani al funerale del Vito, marito agente della scorta di Falcone, che si era rivolta ai mafiosi – “perché ci sono qua dentro” – con le parole di fuoco: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”. Era dunque altamente imprudente per il presidente della Repubblica neoeletto quell’andata al microfono. Ma stavolta la folla l’applaude perché avverte che non parla da Presidente della Repubblica – come a rivendicare un ruolo e una qualche forma di autorità, in quella confusione collettiva – ma da cre-

dente che nulla presume e soltanto invoca, quasi temendo la propria indegnità davanti a tanto sangue. Dopo quella messa, salutando i parroci don Giuseppe Bucaro e don Alessandro Manzone, delle chiese di Santa Luisa de Marillac (dove era avvenuta la celebrazione) e di Sant’Ernesto (dove Borsellino aveva commemorato Falcone, il 23

cio” e dieci altri motivi scatenanti. Infine l’incarico a D’Alema e stavolta è il mondo cattolico – o piuttosto ecclesiastico – a inalberarsi contro il Quirinale. Il fuoco era stato aperto da Avvenire e prolungato dal Sir e portato all’acme dall’Osservatore Romano. Avvenire aveva segnalato nella designazione di D’Alema uno «scarto di novità» e aveva so-

A Palermo, il 24 luglio 1992, l’allora neoeletto presidente prese la parola da semplice credente per chiedere a Dio di «non disperdere il patrimonio spirituale del magistrato ucciso» giugno 1992), Scalfaro dice, parlando stavolta da Presidente: «Vi ringrazio, a nome di tutti gli italiani, per la bellezza di questa liturgia, la forza dei testi, dei canti, delle vostre parole. L’Italia aveva bisogno di questa testimonianza».

Dallo Scalfaro “devoto” allo Scalfaro “laico”, sei anni e tre mesi più tardi, quando il settennato già volge al termine, strapieno di polemiche per il “non ci sto”, per il “passo indietro”chiesto a Berlusconi, per il “ribaltone” e la “par condi-

stenuto che «un governo di tipo istituzionale sarebbe un approdo assai più consono». Il Sir qualificava la scelta di D’Alema come una “ferita” al rapporto tra elettori ed eletti. Ma sarà soprattutto il titolo de quotidiano vaticano a indignare Scalfaro: «Il Capo dello Stato affida il preincarico a un uomo dell’apparato dell’ex Pci». Il titolo dell’Osservatore Romano è del 18 ottobre 1998 e la visita di Giovanni Paolo al Quirinale è del 20 ottobre e a Palazzo sono presenti il premier uscente Prodi e quello entrante D’Ale-


il paginone

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lento spostamento dalle posizioni della destra storica dc si era già avuto lungo gli anni Ottanta, quando ebbe a reggere per tanti anni il ministero dell’Interno. Ricordo il suo intervento nell’aprile del 1992 all’assemblea dell’Azione Cattolica, il giorno stesso dell’elezione a Presidente della Camera. L’applaudirono in piedi a non finire, mentre diceva: «Qui sono nato e da qui, grazie a Dio, non mi sono allontanato mai. Fu l’Azione Cattolica che ebbe la colpa di mandarmi all’Assemblea costituente». Ed era un’Azione Cattolica la cui dirigenza pendeva a sinistra: ne era presidente uscente Raffaele Cananzi, che sarà poi parlamentare dell’Ulivo.

un laico devoto

Accattoli

ma, i cardinali Ruini (responsabile ultimo del Sir e di Avvenire) e Sodano (responsabile dell’Osservatore Romano). Nel saluto all’ospite, Scalfaro ricorda – come hanno fatto prima e dopo di lui tutti i Presidenti della nostra Repubblica in visita in Vaticano o riceventi i Papi al Quirinale – «la laicità dello Stato» quale «presupposto di libertà» e specifica che «nella nostra diretta responsabilità sono le scelte politiche, l’amministrare la cosa pubblica, il compito di governare e di decidere»: e fin qui si era nel già affermato. Ma le parole forti vennero subito dopo, con questa diretta protesta nei confronti delle critiche che gli erano arrivate dai media della Chiesa: «Tante volte sentiamo la fatica della solitudine e dell’incomprensione nel nostro operare, anche se sappiamo che questo è il nostro dovere del quale dobbiamo rispondere noi soli».

Religiosissimo, devoto della Madonna, conferenziere di parrocchia e di feste associative e patronali, da sempre iscritto all’Azione Cattolica, tenace esponente della destra Dc, oppositore dell’apertura ai socialisti e del Compromesso storico, al momento dell’elezione al Qui-

Durante la visita del Papa al Quirinale protestò perché “Avvenire” e “L’Osservatore Romano” avevano apertamente criticato la sua scelta di conferire l’incarico a un ex-comunista rinale Scalfaro era amato dalla base ecclesiale ma era guardato con sufficienza dall’intellettualità cattolica. Quasi il contrario della situazione in cui è venuto a trovarsi dopo il settennato: opposi-

tore di Berlusconi, difensore – alla Dossetti – della Costituzione, portabandiera degli ambienti della Fuci e dei Laureati cattolici, prima simpatizzante e poi aderente al Partito democratico. Ma un suo

Le pubblicazioni “spirituali”di Scalfaro – per lo più testi di conferenze – non hanno mai avuto la ribalta nazionale. Amen (Cantagalli 1982, riedito più volte) è una raccolta di meditazioni dove predominano i temi dell’Eucarestia e della Madonna di Fatima e lo stesso carattere hanno le “conversazioni» pubblicate dai Francescani di Assisi con il titolo: Oscar Luigi Scalfaro alla sala Francescana di San Damiano. Un suo contributo sul tema “La fedeltà”, presente nel volume Dieci ore di religione della Rizzoli, curato da Marco Garzonio (1986), aiuta a chiarire la questione se Scalfaro fosse allora laico o clericale: racconta la «fedeltà incredibile» che ha conosciuto in «persone che non credono», perché l’uomo «già con i suoi valori può dare testimonianza di fedeltà» e conclude che «il cristiano ha una forza in più, che però dipende da ciascuno riconoscere». Rivendica ai cattolici il «senso dello Stato», che definisce una sua «fissazione», ma si fa scrupolo a definire “cristiana” la Costituzione italiana per rispetto ai laici: «Essa ha l’uomo al centro, dunque è cristiana. Non lo dico solo per una ragione: perchè la Carta deve essere per tutti e quindi ognuno vi si deve riconoscere». Come ministro dell’Interno gli toccò (il 24 novembre 1986) rispondere a 11 interpellanze sull’Opus Dei “associazione segreta”: negò che lo fosse, avvalendosi di un rescritto – che aveva appositamente richiesto – della Congregazione vaticana per i vescovi. Solo i democristiani si dissero soddisfatti. Ammiratore di De Gasperi, «irraggiungibile statista», fu tra i promotori della sua causa di beatificazione. Lodava la «forza trascinante» di Papa Wojtyla, che una volta – inimicandosi i montiniani – lodò in paragone alla «discrezione» di Paolo VI, «che era anche quella una bella virtù, ma qualche volta sembrava farlo dubitare delle sue convinzioni». L’apprezzamento per lo Scalfaro conferenziere in ambienti cattolici – molto in voga prima dell’elezione alla Presidenza della Repubblica – può essere testimoniata anche da storie di conversione: per esempio quella di Idina Gardini, che si fece terziaria carmelitana dopo il suicidio del marito Raul nel luglio del 1993. In un’intervista Idina narrò di un pellegrinaggio con Raul a San Giovanni Rotondo, alla tomba di Padre Pio, durante il quale maturò la sua scelta religiosa: «Mi ricordo ancora che cosa leggemmo: la Via Crucis scritta da Oscar Luigi Scalfaro». www.luigiaccattoli.it


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la crisi in Medioriente

Ieri intanto Mosca ha salvato di nuovo il rais di Damasco dicendo no alla risoluzione dell’Onu e lavorando a un vertice con gli oppositori

Il mistero di Assad Una fuga di notizie dà il dittatore in esilio all’estero. Poi la smentita. Ecco tutte le ipotesi del risiko siriano di Antonio Picasso opo il fine settimana di sangue, ieri per un istante è sembrato che le sorti del presidente siriano, Bashar el-Assad, fossero già segnate. Nel primo pomeriggio alcune agenzie hanno diffuso infatti la notizia di una fuga all’estero della famiglia presidenziale e dello stesso rais. Sono seguite le smentite. Questo giornale va in stampa in attesa di una notte dagli esiti incerti per il regime di Damasco. La sua fine ha preso velocità. Quando si comincia a parlare di fughe ed esili, vuol dire che questi non sono lontani dalla concretizzazione. prossima Stabilito che è possibile che Assad cada già domani, cosa accadrà dopo? Chi gli succederà? Quale sarà la nuova Siria con cui si dovranno confrontare partner arabi, Iran e Occidente? Al momento la prima sta conducendo un’aspra battaglia diplomatica affinché il rais esca di scena il prima possibile. Il programma di quelli che un tempo erano gli alleati di Damasco è chiaro: far fuori Assad, sostituirlo con un esponente delle seconde linee del regime e iniziare la ricostruzione politica del Paese mediante un esecuti-

D

vo provvisorio, obbediente alle direttive degli emiri del Golfo. Una road map di agevole fattura. Assad lascerebbe il posto per andare in esilio a Gedda, oppure in Iran. Meglio il secondo. Gli verrebbe garantita l’incolumità e il suo destino si concluderebbe come quello di un facoltoso uomo d’affari mediorientale il cui passato di sangue verrà dimenticato col tempo.

La presidenza siriana vacante andrebbe o al suo vice, Farouk al-Shara, oppure a un altro esponente della minoranza alawita. Questi finora hanno tenuto le redini della Siria, peraltro già con Assad padre. Se la monarchia saudita, attraverso i sunniti siriani - la maggioranza della popolazione - e gli alleati libanesi del clan Hariri, riuscissero a cambiare tutto senza che nulli cambi, la costellazione di minoranza etniche, religiose e tribali di tutta la Siria cadrebbero sotto l’ombrello protettivo (e oppressivo) di Riyadh. Il tutto a spese dell’Iran. È proprio quest’ultimo il bersaglio degli arabi. La Lega vede nella risoluzione siriana la pragmatica opportunità per amputare a Teheran quella pericolosa ap-

pendice strategica che si butta nel Mediterraneo. Per gli iraniani Damasco ha significato finora un porto franco dove gli agenti della Vevak, l’intelligence estera, e i pasdaran possono incontrarsi senza problemi con gli uomini di Hamas e di Hezbollah. Caduta questa roccaforte, verrebbe a mancare il centro di smistamento più occidentale degli interessi economici e di tutte le attività sovversive ideate dalla teocrazia sciita. Il che tornerebbe a favore sia dell’Occidente sia degli arabi. Non è un caso che i palestinesi di Hamas, amici di Assad e finanziati dall’Iran, abbiamo già traslocato; e da mesi. È il Cairo oggi

A fianco, un’immagine della stretta di mano tra il presidente siriano Bashar al-Assad il leader iraniano Mahmud Ahmadinejad. In basso, uno scatto del segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che oggi interverrà alla sessione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dedicata alla Siria

Stabilito che è possibile che il presidente cada già domani, cosa accadrà dopo? Chi gli succederà? Quale sarà la nuova Siria con cui si dovranno confrontare i partner arabi, l’Iran e l’Occidente?

re libere elezioni nel Paese. Teheran ha lanciato la palla, ma poi ha messo le mani avanti. «Ci vorrà del tempo», ha dichiarato il ministro degli esteri iraniano, Ali Akbar Salehi.

il nuovo quartier generale del movimento. Non perché la capitale egiziana è più prossima alla Striscia di Gaza. Certo, il caos in cui versa l’Egitto è vantaggioso per realtà border line come Hamas. Tuttavia, Khaled Meshal si sentiva molto più

«Ma il popolo siriano ha il diritto di avere una sua costituzione e di scegliere liberamente tra le forze politiche candidate al governo». Quando mai Teheran avrebbe potuto fare uno sgarbo così doloroso ad Assad, se non per salvare il proprio particula-

tranquillo in quel di Siria invece che nella città che è sede ufficiale (guarda caso) della Lega araba e in quell’Egitto che, volenti o nolenti, resta il primo alleato arabo dell’Occidente. Allo stesso modo va interpretata l’opzione degli iraniani di indi-

Hillary Clinton oggi interviene al Consiglio di sicurezza Onu

Usa in pressing: «Unità nazionale» di Pierre Chiartano l segretario di Stato Usa Hillary Clinton partecipa oggi alla sessione del consiglio di sicurezza Onu dedicato alla Siria per evidenziare il sostegno al piano della Lega araba per la soluzione della crisi. È un ulteriore passo di Washington, dopo l’invio della portaerei Uss George H.W. Bush, la nave più avanzata nell’arsenale americano, ora nelle acque del Mediterraneo vicine alla Siria. Forse pronta

I

a dare un senso alle parole del presidente Usa Barack Obama sulla «violenza inaccettabile» del regime di Assad. La Clinton, molto probabilmente, chiederà al consiglio di sostenere la proposta araba, ovvero che il presidente Bashar Assad lasci il potere ad un governo di unità nazionale. Nel quadro della nuova politica americana per il grande Medioriente, ovvero, il passaggio dalla prima linea a compiti di supporto poli-


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coerenza. Nessuno, a questo punto nemmeno l’Iran, ha mantenuto così saldamente la barra dell’alleanza con i siriani come stanno facendo i russi in questi mesi. È la stessa proposta di ieri di ospitare al Cremlino un meeting di riconciliazione a confermarlo, e il governo di Damasco si sarebbe detto disponibile. Medvedev e Putin vogliono che Assad resti a ogni costo. Quello che è altrettanto importante sottolineare è come, all’interno dell’organizzazione, il dossier Siria stia tornando utile anche per la definizione dei nuovi assetti. Finché c’era Mubarak al potere in Egitto, la Lega altro non rap-

trambi i problemi non interessano a nessuno e sono finiti in ghiacciaia per chissà quanto tempo, la diplomazia in kefiah si può permettere di gestire la rivoluzione e dimostrare all’Occidente le proprie capacità. Chiudere la partita siriana senza che venga impegnato un solo soldato Nato - com’è stato invece per la Libia - sarebbe davvero uno show di forza.

Quella di Damasco, tuttavia, è la prima mossa di un’operazione sistematica e volta al lungo periodo. Su questo gli israeliani si esprimono scetticamente. Per quanto Israele non può

La Lega Araba vede nella risoluzione siriana la pragmatica opportunità per amputare al regime di Teheran quella pericolosa appendice strategica che si inserisce nel Mediterraneo

re? Gli Ayatollah, cacciati che saranno da Damasco, una volta che il rais avrà fatto le valigie, sperano di rientrare nel Paese, magari con un partito amico e da loro stessi sponsorizzato. Ma non sarà facile. Ci vorrà appunto del tempo e tanta scaltrezza nel superare le griglie che Onu e Lega Araba sapranno posizionare contro gli sciiti. Il regime degli Assad era decotto. E questo lo si diceva in tempi non sospetti. Tuttavia, restava un baluardo per quel mondo dei catti-

vi con cui né gli Usa né Israele sono mai riusciti a parlare. La sua fine sarà una vittoria per la Lega che si è accollata il lavoro sporco non riuscito ai governi di Washington e Gerusalemme. Se riuscirà, va detto che l’operazione avrà un successo su più fronti. Sarà uno smacco per l’Iran, ma anche la prova che la Lega è ben disposta a seguire le direttive d’oltre Atlantico. Ovviamente poi ci invierà un conto di questo intervento. Soprattutto perché, ancora una volta, le tre te-

tico-militare indiretto – il modello Libia per intenderci – la Sira è una spina nel fianco. Lo è per varie ragioni. Primo, è un brutto esempio di persistenza di un regime al potere, contro una parte consistente del proprio popolo e adesso anche contro il volere degli Stati arabi. Secondo, Damasco è un elemento cardine della politica mediorientale di Teheran. È la porta per il Libano, a uso degli iraniani, è anche il “bastone” che il regime dei mullah agita sotto il naso di molti governi del Golfo e di non pochi paesi arabi. La Siria rimette in gioco i sauditi che da sud aiutano la resistenza sannita e disillude la lobby americana che vorrebbe farla finita col casato «dei principi corrotti» della Penisola arabica.

La tradizionale tendenza della Siria a svolgere un ruolo da broker politico, cioè a produrre problemi che poi propone di risolvere, l’ha resa facile preda delle trame iraniane. Se cadesse il regime in Siria, la resa dei conti a Teheran – l’ormai lunga lotta di potere tra la gui-

ste dell’aquila occidentale - Washington, Bruxelles e Mosca non sono in grado di definire una linea di intervento comune.

Le prime due sono rimaste fin troppo tempo a guardare. Hanno assistito al tira e molla che la Siria faceva con la Lega, quando quest’ultima presentava risoluzioni e minacce di intervento armato, senza però fare nulla. Mosca, invece, ha scelto la strada della difesa del rais. E bisogna riconoscerle la palma della

da Suprema e il presidente – volgerebbe presto a un epilogo. Anche se è difficile pronosticare in quale direzione. Gli americani comunque in Iran non andrebbero oltre l’attacco aereo, il che la dice lunga sulla reale fattibilità di un attacco, mancando per il momento gli attori di un regime change necessario per un dopo attacco. La Siria diventa dunque un tassello critico dell’ormai fragile castello di Teheran. Ma chi accusa di «timidezza» la Casa Bianca, che

presentava che la proiezione della potenza cairota nella regione. La sede mantenuta nella capitale e la segreteria nelle mani di un ambasciatore della stazza Amr Mussa garantivano al faraone il monopolio della stessa. La Lega era in pratica l’espressione della potenza egiziana sui vicini. Il Medioriente però è cambiato da un anno a questa parte. E le ricche monarchie del Golfo sono testimoni della realizzazione del propri sogni. Da esclusivi esportatori di petrolio, gli emiri si stanno trasformando in astuti tessitori della politica regionale. L’Arabia Saudita, dopo aver soffiato per anni sul collo dell’Egitto, può dirsi ormai la prima potenza del quadrante. Ed è sorprendente che a tallonarla sia il piccolo Qatar. Riyadh e Doha, negli ultimi anni, hanno fatto a gara nel tentare di sbrogliare i più intricati gineprai del Medioriente: Libano e questione palestinese in primis. Ora che en-

appoggi internazionali di provata fede “democratica” come Russia e Cina. C’è la delicata posizione dei cristiani, in qualche misura integrati nel regime.

E infatti la Clinton qualche giorno fa aveva dichiarato che «rimuovere Assad non basta», incontrando a Ginevra alcuni rappresentanti dell’opposizione siriana. Il segretario di Stato Usa intendeva che occorre far avanzare anche «lo stato di diritto», giusta considera-

Sostegno della diplomazia americana al piano della Lega araba per la soluzione della crisi in Siria, nella sessione al Palazzo di vetro dedicata alla crisi nel paese mediorientale non avrebbe preso di petto la situazione siriana, forse non tiene conto della fragilità regionale di fronte ai cambiamenti. Gli Usa oggi, con le priorità nel Pacifico, non hanno alcuna voglia di trovarsi impantanati in un conflitto dagli esiti incerti e da un potenziale effetto domino dalle conseguenze imprevedibili. Il “casato”degli Assad poi gode di

zione per un concetto assai ben definito e radicato in America e assai fumoso e indefinibile in Medioriente. Da queste colonne qualche tempo fa Edward Luttwak, politologo statunitense ed esperto di politica internazionale, aveva sentenziato come il modello occidentale di democrazia, proposto dagli Usa in Medioriente avesse «fallito».

che essere soddisfatta dal vedere il rais andare via. Barry Rubin, del Gloria Center di Tel Aviv, pensa che «la Lega stia navigando a vista. In Siria la delegazione di osservatori è ancora a Damasco. Questo significa esitazione». Esitazione avuta prima nell’inviare gli osservatori e ribadita ora nel farli tornare a casa. Forse perché in sede Lega sapevano quel che sarebbero andati a scoprire e adesso non sanno come dirlo al mondo. In Siria è in corso un massacro. Ma le proporzioni chissà se mai le sapremo. Il fascicolo è al Cairo. D’altra parte, l’istinto di sopravvivenza porta gli arabi a sacrificare un loro confratello pur di evitare una seconda primavera come quella dello scorso anno. Il che fa pensare come a Riyadh e Doha non si nutra la percezione che, caduto Assad, potrebbe essere il turno della monarchia giordana. Da lì il passaggio verso la Penisola arabica è davvero breve.

Cioè trasformare i nemici in amici tramite un intervento armato, sotto la nuova coperta democratica, aveva funzionato solo in Europa e in Giappone con la seconda guerra mondiale. Intanto la missione degli osservatori arabi in Siria è stata sospesa «a causa della recrudescenza delle violenze».

Tutte considerazioni che rendono il percorso diplomatico della Clinton a dir poco complesso. Compreso l’utilizzo di Parigi come interfaccia con Damasco. Un fatto che ha ridato fiato alle velleità francesi sulla regione che, dai tempi delle prime crociate, considerano una specie zona d’influenza dell’Esagono. Una presenza che fa storcere il naso, si fa per dire, a tutto l’Islam moderato, che conosce bene l’approccio “ideologico”di Parigi su secolarismo e religione. Comunque Foggy Bottom, per voce del segretario di Stato, non ha mai mancato di personalizzare il problema siriano con la figura del presidente: «Cinico e agghiacciante», come i suoi discorsi.


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ei giorni scorsi, l’università islamica di al-Azhar ha diffuso un Documento sulle libertà fondamentali, per offrire indicazioni sulla nuova società egiziana nata dalla “primavera araba”. In esso si difende la libertà di religione, di opinione, di ricerca scientifica e di creatività artistica. Questo è il secondo documento presentato da al-Azhar alla nazione. Il primo è stato presentato l’11 giugno scorso e ha come titolo: “Raccomandazioni per il futuro dell’Egitto”. Tutto è nato dal nuovo rettore al-Tayyeb, che, come si sa, ha studiato a Parigi e alla Sorbona. Sta cercando di ridare all’università di alAzhar un po’ di indipendenza. Dai tempi di Nasser, cioè da quasi 60 anni, l’università è rimasta sotto il controllo del governo egiziano. Ora vuole tornare a essere il portavoce dell’islam mondiale un islam moderato. A tal proposito, il rettore ha scelto alcuni collaboratori,

N

Il lungo testo si articola così: libertà di fede, libertà d’opinione ed espressione, libertà della ricerca scientifica, e infine libertà della creazione sia artistica sia letteraria capeggiati Mahmud Azab, già professore di lingua araba e islamistica all’Istituto delle lingue orientali di Parigi che è giunto in Egitto un anno fa, incaricato del dialogo culturale e religioso. Dopo la primavera araba in Egitto, ha cercato le vie per dialogare con gli islamisti e con i laici, fino a creare un ponte fra le personalità religiose di al-Azhar e gli intellettuali laici o altro. L’11 giugno scorso essi hanno presentato il primo documento, le “Raccomandazioni per il futuro dell’Egitto” , riassunte in 11 punti.

Per il futuro dell’Egitto. Il primo punto esalta “Uno stato nazionale costituzionale e democratico; l’uguaglianza per tutti i cittadini; la sharia come una delle fonti della legislazione”. Da notare che nella traduzione ufficiale del documento, fatta dal governo, anziché “una delle fonti”, hanno messo che la sharia è “la fonte” del diritto. In tal senso, governo e militari sembrano essere più islamisti di al-Azhar. Il secondo punto è su “Suffragio universale e libertà di informazione”. Il terzo è “Libertà fondamentali del pensiero e dell’opinione; diritti dell’uomo, della donna, del bambino; pluralismo; cittadinanza, unico criterio di responsabilità nel seno della società”. Il quarto tratta dello “Spirito di dialogo e rispetto mutuo nella relazione fra le diverse componenti della nazione”. Il quinto è sul “Rispetto degli accordi internazionali (sottinteso: l’accordo con Israele e gli altri Paesi)”. Il sesto: “Rispetto della dignità della nazione egi-

ziana (contro gli abusi della polizia e dell’esercito)”. Il settimo è sul “Progresso nell’insegnamento e nella ricerca scientifica”. L’ottavo su “Priorità di sviluppo e giustizia sociale, contro la corruzione e la disoccupazione”. Il nono su “Legami solidi fra l’Egitto e i Paesi arabi”. Il decimo su “Indipendenza dell’istituzione dell’al-Azhar”. E infine l’undicesimo: “Al Azhar unica istanza competente negli affari islamici”. Con questo essi vogliono affermare non solo di essere indipendenti dal governo, ma anche di essere gli unici a poter parlare a nome dell’islam. Ormai nel mondo musulmano ogni gruppo afferma di essere il portavoce dell’islam creando confusione e conflitti nella Umma. Il governo ha apprezzato il documento, e una risposta positiva è venuta anche dai partiti liberali e islamisti: è un tentativo di imbastire un progetto comune per costruire il nuovo Egitto. Per la sua stesura erano stati invitati un certo numero di intellettuali, i copti ortodossi, i cattolici, gli anglicani e i luterani erano anche presenti. Occorrerà un po’ di tempo per misurare l’impatto che esso avrà, anche perché questo documento non ha avuto una grande risonanza.

Le libertà fondamentali. Anche il testo pubblicato la settimana scorsa, (Documento sulle libertà fondamentali) non è molto conosciuto. Pubblicato ufficialmente l’8 gennaio scorso, ma diffuso alcuni giorni dopo, è stato svolto da alAzhar, ma ha ottenuto anche l’approvazione delle Chiese cristiane, come pure dei vari gruppi islamici. Solo il gruppo cosiddetto dei “cristiani di Maspero”non l’ha approvato. Essi lo considerano un buon documento, ma vorrebbero che queste prospettive emergano da tutta la nazione e non dalla sola al-Azhar. In ogni caso, il documento ha un grande valore perché al-Azhar è un’autorità nell’islam. Essa è un’istituzione sunnita in un Paese - l’Egitto - che è al 90% sunnita: quando al-Azhar parla, tutti l’ascoltano. In passato al-Azhar era malvista dai laici. Ma questo documento, pur non rinnegando un fondo musulmano, rimane aperto alle spinte della modernità, per cui penso che riuscirà a coagulare un sentimento unanime all’interno del Paese. I cristiani da parte loro, hanno visto che questo documento è il meglio che si può ottenere nell’attuale situazione e per questo lo hanno approvato. Il lungo testo di questo secondo documento consta di 4 punti: 1) Libertà di fede; 2) Libertà d’opinione ed espressione; 3) Libertà della ricerca scientifica; 4) Libertà della creazione artistica e letteraria. L’islam a sostegno della ricerca scientifica e dell’arte. Nel terzo e quarto punto essi cercano di rivolgersi agli intellettuali. In particolare, nel terzo punto, ricordano che un tempo l’islam era all’avanguardia nella ricerca scientifica, mentre oggi è solo l’Occidente a essere

Egitto, democrazia in 4 punti Diffuso dall’università islamica di Al-Azhar, prestigiosa sede del pensiero sunnita, un documento sulle libertà fondamentali di Samir Khalil Samir creativo in questo campo, insieme a Giappone, Corea, Cina, India. Per questo è tempo che il mondo islamico si risvegli e contribuisca alla ricerca scientifica. Il quarto è per spingere di più alla creatività artistica nel mondo arabo, valorizzando l’uso della lingua. Si sottolinea l’importanza di lasciare libero ogni artista e intellettuale a esprimersi, mettendo come unico limite - citato qua e là - «purché non offenda la sensibilità religiosa del popolo». Dove per “sensibilità religiosa” si intendono la sensibilità dei membri delle “tre religioni rivelate”, cioè islam, cristianesimo, ebraismo. In questi due punti si vede una critica all’Occidente (l’affare delle caricature danesi contro Maometto è ancora vivo). Questo atteggiamento di critica alla religione non dovrebbe entrare nella libertà degli artisti. In ciò, la concezione della libertà

islamica è diversa da quella dell’occidente. Ma va apprezzato che in un Paese islamico si sottolinea il fatto che non vanno offese nemmeno le altre due religioni “rivelate” o “celesti”, cioè il cristianesimo e l’ebraismo. Naturalmente rimane il problema delle immagini del profeta Maometto. Secondo gli islamisti più puri, l’islam non dovrebbe ritrarre il profeta o l’uomo, anche se può raffigurare piante, animali, ecc.. In contrasto, diversi intellettuali musulmani ricordano che tutta la tradizione persiana, turca, o indiana raffigura esseri umani e lo stesso Maometto.

Introduzione: accordo fra sharia e diritti umani. La parte fondamentale del nuovo documento è nell’introduzione e nei primi due punti. Nell’introduzione, si afferma che è necessario «trovare un


la crisi in Medioriente

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Da sinistra: un’immagine evocativa della “primavera araba”; l’università di Al-Azhar in Egitto; altre tre immagini-simbolo della “primavera araba”; uno scatto dell’ex presidente egiziano Mubarak

relazione fra i principi globali della sharia islamica con le libertà fondamentali»: si è quindi alla ricerca di un’armonia fra i principi della sharia e i diritti umani fondamentali, «approvati da tutti gli accordi internazionali che rappresentano l’esperienza civilizzatrice del popolo egiziano». In pratica al-Azhar riconosce il valore della Carta dell’Onu sui diritti umani. È interessante notare che il documento parla sempre dei “principi della sharia” o di “scopi (maqâsid) della sharia”. I canonisti islamici del Medioevo distinguevano fra i “scopi” e le “decisioni della sharia”. Questa distinzione è molto importante perché salva dal letteralismo delle applicazioni e apre al principio dell’interpretazione. Al-Azhar afferma anche che non c’è contrapposizione fra sharia e democrazia. Anche questo è un punto molto sensibile. Il documento afferma anzi che è necessaria un’evoluzione in senso democratico della società per permettere alla nazione di vivere in pace e in armonia con Dio. L’introduzione si conclude con un attacco alle tendenze islamiste. Senza nominare alcun gruppo, si prendono di mira persone che col pretesto di fare ordine, utilizzano il criterio di «ordinare il bene, vietare il male» e limitano le libertà generali e particolari. Il che «non è conforme alla civiltà e all’evoluzione dell’Egitto moderno». Questa giustificazione è importantissima, perché oppone all’opinione degli islamista la civiltà, la modernità e parla di evoluzione della società. L’appunto mira a criticare le tendenze islamiste, i salafiti, i quali affermano di applicare il Corano e la legge islamica, usando proprio l’espressione «ordinare il bene e vietare il male». Ma facendo questo - dice al-Azhar - essi limitano le libertà della gente e ciò è contrario al pensiero moderno diffuso in Egitto. L’interpretazione giusta è invece data da chi segue «il giusto mezzo».

Primo punto: la libertà religiosa (senza conversione). Il primo punto afferma che «la libertà religiosa è la pietra d’angolo della costruzione della società moderna e su di essa è basato il concetto di cittadinanza perfetta, stabilito sull’uguaglianza assoluta fra tutti, nei doveri e nei diritti. Questo è confermato dai testi religiosi evidenti, come pure dai principi della costituzione e del diritto». Per rivendicare questa armonia fra i diritti umani e il Corano sulla libertà religiosa, essi citano due versetti molto noti: «Non c’è costrizione nella religione. La retta via ben si distingue dall’errore». E anche: «Di’: La verità [proviene] dal vostro Signore: creda chi vuole e chi vuole neghi». Di conseguenza, essi affermano che «è un crimine ogni manifestazione di intolleranza nella religione, o di persecuzione, o di distinzione fra persone in nome della religione». «Tutte le persone nella società hanno diritto di avere l’opinione che vogliono, purché non tocchino il diritto della società di preserva-

re le religioni celesti, perché le religioni divine hanno un carattere sacrale». Questa parte è tipicamente islamica, ma è anche accettabile dai cristiani. In pratica si segue il pensiero molto comune in Egitto, secondo cui le questioni religiose non si toccano. Per esperienza tutti si accorgono che se si toccano questioni religiose, vi è il rischio di conflitti e di morti. Fra l’altro, il documento afferma che tutte le religioni celesti sono nate nel mondo arabo (s’intende ovviamente in Palestina e Arabia).

Il testo pubblicato è interessante, ma di fatto evita un problema fondamentale: quello della conversione da una religione all’altra. In astratto si afferma che in materia di religione chiunque ha diritto alla sua opinione, ma ponendo il limite nel principio che «non va offesa la sensibilità religiosa», non si capisce fin dove si può arrivare. Il senso è «non bisogna provocare i sentimenti comuni». Perciò, se uno si converte in privato, va bene, ma se fa del proselitismo, se rende pubblica la sua scelta, se fa pubblicità, non va bene e rischia persino la morte. Ho spesso discusso con i miei amici musulmani dicendo che questo principio è applicato in modo parziale. Infatti, quando un cristiano noto si converte all’islam, la cosa è pubblicizzata nei giornali, nei libri, alla televisione, e via così. E fanno del proselitismo. Ma questo essi lo giustificano col fatto che l’islam «è l’unica religione autentica». Sarebbe bene che ci fosse una discussione più profonda su questo punto perché è necessaria chiarezza sull’elemento “conversione”. In compenso, il documento sottolinea che l’essere cristiano o musulmano non dovrebbe incidere sulle scelte di lavoro, sulle assunzioni, le carriere, eccetera, cosa che purtroppo avviene attualmente di continuo. Il testo dice anche che bisogna rifiutare «chi utilizza l’anatema» (takfîr), cioè di chiamare e considerare l’altro kâfir. Qui ci si riferisce ancora ai salafiti che con facilità bollano gruppi e persone come “kâfir”, Queste empi. condanne sono molto diffuse fra i gruppi islamici, da sunniti contro sciiti, da gruppi minoritari contro altri... Da tempo le autorità islamiche mondiali domandano che si fermi questo uso di sconfessare l’altro all’interno dell’islam, ma inutilmente. Per giustificare tale

posizione, al-Azhar cita l’imam Malek, cioè Mâlik Ibn Anas (711-795), creatore della scuola giuridica sunnita (malekita), prevalente in Africa del Nord, l’Egitto seguendo la scuola shafeita dell’imam shafei (767-820). La citazione dice: «Se qualcuno dice un’opinione che potrebbe essere interpretata come empietà da 100 punti di vista, ma che si può interpretare come un pensiero credente almeno per un solo aspetto, allora è necessario accoglierlo sotto l’aspetto della fede e non è permesso interpretarlo come empietà». È una cosa molto simile al principio che s. Ignazio di Loyola dà all’inizio dei suoi Esercizi Spirituali (n. 22), in cui chiede di interpretare sempre le parole dell’altro nel modo più positivo possibile, dicendo: «È da presupporre che un buon cristia-

L’elaborato, pubblicato ufficialmente l’8 gennaio, è importante ma evita un problema fondamentale: quello della conversione da una religione all’altra no deve essere propenso a difendere piuttosto che a condannare l’affermazione di un altro». Questa è la base del rispetto reciproco. Un’altra citazione di Malek dice: «Se c’è conflitto fra la ragione e la tradizione, si deve preferire la ragione e interpretare la tradizione secondo la ragione». Anche questo è un principio eccezionale e importante che ritroviamo in Averroé. Purtroppo nel mondo islamico attuale non è molto applicato in pratica.

Secondo punto: libertà di opinione. Al-Azhar insiste che questa è la madre di tutte le libertà, e si manifesta «con l’esprimere le opinioni in modo libero con tutti i mezzi di espressione: scrittura, arte, internet... Ciò permette la libertà della società: i partiti, la società civile, la televisione. Esso implica anche la libertà ad accedere alle fonti di informazioni per formarsi un’opinione. Questa libertà deve essere garantita da un testo costituzionale per passare nel diritto quotidiano». In Egitto - afferma il documento - è garantita anche la li-

bertà di criticare, anche con espressioni forti, purché la critica sia costruttiva. Ma il limite è di «non offendere l’altro». E si introduce ancora il principio di rispettare il credo delle tre religioni divine, dei loro riti e costumi. Se non si fa questo, «si rischia di rompere il tessuto sociale e la saldezza della nazione». «Non è diritto di nessuno - si ribatte provocare tensioni confessionali in nome della libertà di espressione». Si afferma poi che la libertà di opinione e di espressione «è il luogo della verifica della democrazia» e si chiede, soprattutto ai media, di educare i giovani a questa dimensione «con tolleranza e larghezza di orizzonti».

Conclusione. Per comprendere questo documento, occorre ricordare che nel contesto egiziano attuale e nel contesto islamico globale, l’intolleranza e il fanatismo religiosi sono prevalenti. Nelle scorse settimane a Tunisi, i salafiti hanno bloccato l’università Manouba della capitale, perché volevano obbligare le studentesse a vestire il niqab, il velo integrale (in Tunisia è vietato perfino il velo ordinario). In questo contesto, un documento come quello di al-Azhar è un grande passo in avanti, soprattutto perché viene dalla più alta autorità islamica in Egitto, rispettata da tutto l’Islam sunnita mondiale. Se si potrà mettere in pratica questi criteri, vi sarà un profondo cambiamento: il governo del Cairo sarà islamico, ma per lo meno garantirà la tolleranza e il rispetto delle religioni. Se esso diventa ispirazione per il nuovo governo, sarà un passo nuovo non solo per l’Egitto, ma anche per gli altri Paesi islamici. Infatti, bisogna ricordare che il fondamentalismo è nato proprio in Egitto, finanziato dall’Arabia saudita nel recente passato e oggi dal Qatar. Il rispetto per l’altro. Dietro tutto questo al-Azhar afferma la democrazia come espressione e garanzia di libertà, e sottolinea che il limite è il rispetto dell’altro. Anche l’Occidente ha bisogno di riscoprire il rispetto per l’altro. Talvolta in occidente le democrazie - soprattutto dopo il Sessantotto - sono divenute l’occasione per accusare e distruggere il pensiero dell’altro, senza alcun rispetto, per cui il dialogo è divenuto violenza. Mi ricordo di aver partecipato a Parigi alla contestazione, dove si predicava che «è vietato vietare» (“Il est interdit d’interdire!”) e quindi si affermava una libertà assoluta contro tutto e contro tutti. Questo elimina il rispetto delle religioni, delle tradizioni, degli anziani, degli antenati: insomma tutto ciò su cui si basano intere società e popolazioni in Asia, Africa e anche in Occidente. Questi documenti firmati da al-Azhar sono dunque un passo avanti, anche se proprio il responsabile di questi bei testi, Mahmud Azab, è quello che ha suggerito di tagliare i rapporti fra al-Azhar e il Vaticano all’inizio dell’anno 2011.


cultura

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Il cineasta, del quale quest’anno ricorrono i trent’anni dalla morte, fu senza dubbio una delle figure più atipiche nel panorama del Dopoguerra

Petri non va in paradiso Ancora troppo poco rivalutata l’opera «Le mani sporche» del regista italiano, mai del tutto capito dalla critica di Orio Caldiron ono stati rivalutati tutti. Non c’è regista o attore bersagliato dalla critica che non abbia trovato qualcuno disposto a capovolgere le inappellabili condanne di ieri in altrettante assoluzioni.

S

L’unico che non sembra aver beneficiato della prova d’appello, inevitabile in un Paese come il nostro, sensibile alle oscillazioni del gusto e agli stagionali cambi di guardaroba, è Elio Petri, di cui ricorre quest’anno il trentennale della morte. La rimozione del regista romano contestato a suo tempo come il campione del contestatissimo cinema politico non è affatto caduta in prescrizione. Nella polemica c’è qualcosa di maramaldesco se tocca i momenti di massima virulenza nei confronti di campioni d’incasso come A ciascuno il suo (1967), Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in paradiso (1971), che hanno riempito le sale. Naturalmente l’invidia non c’entra nulla, ma vi ha certo la sua parte il pregiudizio secondo cui il cineasta che ha un grande successo di pubblico non può non essere totalmente succube delle leggi di mercato, vittima della più bieca commercializzazione. Bocciato a sinistra per insufficienza ideologica, gli esami di marxismo-leninismo non finiscono mai, viene iscritto d’ufficio nella Serie Zeta dai cinefili patiti della messinscena con l’imputazione di abuso dello zoom. Il regista amato dagli spettatori ma preso a pesci in faccia dai critici è indubbia-

mente una figura atipica nel panorama del dopoguerra. Non solo per l’estrazione proletaria, la formazione culturale da autodidatta piena di estrose curiosità e di interessi tenaci, di letture onnivore e di aperture inconsuete, ma anche sul piano delle scelte estetiche. Se il nuovo cinema italiano degli anni Sessanta risente delle poetiche della Nouvelle Vague, il cinema all’americana di Elio Petri lavora all’interno del sistema nell’utopia che l’accettazione delle strategie produttive gli consenta di sdoganare le accensioni esplosive del sottotesto se non addirittura le maschere dello stile. Si mette dalla parte del pubblico, convinto di coniugare ricerca e spettacolo, dramma e commedia, denuncia e erotismo, ma non rinuncia alle ambizioni della scrittura cinematografica che tra turgori visionari e impennate grottesche si coagula nella forza suggestiva della metafora. L’approdo televisivo non sorprende più di tanto dopo il flop clamoroso di La proprietà non è più un furto (1973), sbilanciato grottesco similbrechtiano che verrebbe da definire marxista-mandrakista come il ragionier Total di Flavio Bucci che nella sua stanza tiene il ritratto di Karl Marx accanto al manifesto di Mandrake. Le cose andranno ancora peggio con il discutibilissimo ma ben più interessante Todo modo (1976), che carnevalizza il libro di Sciascia nella apocalisse del potere democristiano, una sorta di fosca discesa agli inferi squilibrata e intemperante ma a tratti ferocemente beffarda che suscita l’unanime lavata di scudi della critica cattolica. Quando

nel 1978 è a Milano negli studi di via delle Forze Armate per iniziare il suo lavoro per la Rete Uno della Rai, che gli ha proposto di mettere in scena Le mani sporche di Jean-Paul Sartre, il primo impatto con il sistema televisivo è negativo, tra insofferenza e rifiuto. Ma non molla. Non si lascia sfuggire l’occasione di riflettere sul nuovo mezzo, sulla rivoluzione antropologica implicita nell’esperienza televisiva che vede tutta al negativo da apocalittico di stretta osservanza francofortese. Ma allora perché fare Le mani sporche per la tv? Scritto e rappresentato trent’anni prima nel clima avvelenato della guerra fredda, il dramma contrappone Hoederer - il capo del partito proletario di un Paese mitteleuropeo, probabilmente l’Ungheria, in guerra con l’Unione Sovietica a Hugo, il giovane e irrequieto intellettuale che si butta alle spalle l’origine borghese per scegliere la dura disciplina del partito costretto alla clandestinità. Smanioso di agire, Hugo si

Ha coniugato ricerca e spettacolo, dramma e commedia, denuncia e erotismo, sempre attento alle ambizioni della scrittura fa strumentalizzare dall’ala intransigente che gli affida il compito di introdursi come segretario nella casa di Hoederer e di ucciderlo per stroncare sul nascere la politica di alleanze con le forze conservatrici da lui auspicata. Ma l’incontro con il leader manda in frantumi le fragili convinzioni del giovane adepto. Non riesce più a sopprimerlo per le ragioni ideologiche di partenza, ma quando vede la moglie Jessica tra le sue braccia, allora farà fuoco. Solo quando esce di prigione, scopre che Hoederer è stato rivalutato assieme alla sua strategia. Il testo teatrale s’ispira all’uccisione di Trotzij, orchestrata da Mosca attraverso un killer che si fa assumere come segretario e vive

I film “Il maestro di Vigevano”, “La decima vittima”, La classe operaia va in paradiso”, “Todo modo”, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”; un fotogramma e un’immagine sul set del film con il regista, Florinda Bolkan e Gian Maria Volonté; Elio Petri con Alberto Sordi per qualche tempo accanto alla sua vittima nella casa strettamente sorvegliata di Coyoacan vicino a Città del Messico. Attaccato pesantemente dagli intellettuali di area comunista, Le mani sporche solleva un polverone di polemiche imbarazzanti e di equivoci consensi che consigliano Sartre di vietarne la rappresentazione fino all’inizio degli anni Sessanta, quando i fatti d’Ungheria hanno trasformato l’antico compagno di strada, definitivamente lontano dal Partito Comunista Francese, in uno dei critici più severi della politica dell’Urss. Nel dramma politico dello scrittore, il regista vede non solo l’occasione di affrontare il nodo tutt’altro che archiviato dello stalinismo, ma anche la spinta a rivivere la sua intera esperienza di giovanissimo militante comunista all’indomani della fine del fascismo. L’incontro con il Partito Comunista Italiano avviene tra i diciassette e i diciotto anni nella Sezione Trionfale: «Era una grande gioia tra il ’46 e il ’47 svegliarsi la mattina, di domenica salire sui camioncini traballanti, andare verso la provincia, in paesi freddi, ostili. E cercare di smuovere delle situazioni che da secoli erano rimaste lì nella pietra, proprio scritte come un destino inamovibile».

Nel clima successivo alla morte di Stalin, con il suo rapporto al XX Congresso del Pcus Chruscëv inaugura nel 1956 il processo di revisione della politica staliniana, ma poco dopo non esita a inviare in Ungheria i carri armati per reprimere le istanze innovatrici sorte nel

Paese. Sul piano internazionale ci si avvia al disgelo, ma la rivolta ungherese rimbalza in Italia nel Manifesto dei Centouno, firmato anche da Petri, in cui sono apertamente criticati i metodi dello stalinismo. Nei mesi successivi Petri partecipa alla fondazione di Città aperta, la rivista di cultura che chiude nell’estate del 1958, dopo aver tentato di aprire un dibattito che la nomenklatura non ha alcuna intenzione di mantenere in vita. Se il direttore Tommaso Chiaretti viene radiato, i redattori più coinvolti non rinnovano la tessera. Elio vive la rottura con il partito come un trauma che segna la fine delle illusioni di poco più di un decennio di militanza e insieme gli conferma per sempre l’assoluta necessità del dibattito più libero possibile, sganciato dal dogmatismo aprioristico degli schemi ideologici. Non sorprende che veda in Le mani sporche la possibilità di riprendere il discorso interrotto di vent’anni prima, quando proprio Sartre era il punto di riferimento dei giovani eretici. Non


cultura

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i che d crona

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

cerca affatto l’attualità esteriore a cui si rifanno subito i giornali, come il leader in vena di alleanze non rimanda a Berlinguer, né il giovane assassino alle Brigate Rosse.

L’idea centrale è di affrontare finalmente lo scheletro nell’armadio dello stalinismo. Quanto ai collegamenti con il caso Moro, il film viene girato a Milano dal 10 marzo alla fine di maggio. Il rapimento è avvenuto il 16 marzo. Quando il 9 maggio stanno girando la scena in cui Hugo spara a Hoederer arriva la tragica notizia che Moro è stato ammazzato. Ma è solo una coincidenza. La struttura drammaturgica del testo d’avvio, il macchinoso repertorio dei colpi di scena e delle “stregonerie del teatro”vengono svelate fin dall’inizio per quello che sono, artifici e maschere della finzione attraverso cui passa il sottile gioco di apparenze di un’opera che sarà in qualche modo “vera”soltanto nell’essere più teatrale possibile. La messinscena accentua la teatralità della rappresentazione incorniciandola con un inizio e un finale che non ci sono nel testo originario. Si sottrae alle convenzioni del feuilleton televisivo, presentandosi esplicitamente come la ripresa di un evento nel piccolo Teatro Girolamo di Milano con tanto di pubblico in sala. Qualcuno prende posto nel palchetto reale, è un vecchio, con un grande paio di baffi, una giacca militare bianca da parata, una medaglia, le spalline dorate. Somiglia a Stalin. È il fantasma di Stalin? Se l’autore ha scritto la pièce - in cui ognuno recita

Nel dramma, il regista vede la spinta a rivivere l’esperienza di giovane militante comunista all’indomani della fine del fascismo quello che non è, sono tutti in malafede - mettendosi continuamente dentro e fuori i personaggi e le situazioni, il regista si propone di assicurare allo spettatore la stessa possibilità, di entrare e uscire dalla rappresentazione, di vivere dall’interno la finzione scenica, senza mai dimenticare che si sta svolgendo in teatro, chiamato a essere la metafora del mondo. Solo così sarà possibile fare esplodere tra le pieghe del vecchio testo le tormentate inquietudini e gli angosciosi interrogativi che trent’anni non sono bastati a fare uscire definitivamente di scena. Sul set la lucida partecipazione di Petri rie-

sce a creare un forte clima emotivo, del tutto insolito nella routine delle troupe televisive tanto che nel giro di qualche settimana tecnici e cameraman vanno in giro con il testo di Sartre in mano. Nello spazio chiuso, claustrofobico della casa del capo, l’astratto, rigido intellettualismo di Hugo si scontra con la progettualità, insieme compromissoria e lucidissima, di Hoederer. L’apparente “purezza” del giovane borghese - immaturo, distruttivo e autodistruttivo - nasconde la soggettività incapace di scelte di chi si affaccia sul nulla. La “sporcizia” di Hoederer è trasparente fino al punto di coincidere con la ragion pratica del proprio disegno politico. Ma nel corpo a corpo dei personaggi in cui ognuno recita la sua parte, i ruoli rimbalzano tra loro, le ragioni degli uni si confondono con quelle degli altri, affiorano altre suggestioni, s’intravedono altri conflitti come quelli tra padri e figli, in una struttura a vertigine che in un abile gioco di specchi si allarga indefinitamente per ritornare sempre su se stessa. L’appuntamento con la malafede è inevitabile? Se ogni messinscena mette in gioco se stessa come lettura privilegiata del testo, si vince la scommessa solo se la freddezza della scrittura di avvio si capovolge nel calore della passione intellettuale dell’adattamento. Il lavoro con gli attori è decisivo. Giovanni Visentin è un Hugo dalla capziosa esagitazione verbale e Giuliana De Sio si identifica nella disponibile, vuota, morbosa innocenza di Jessica. Ma la scelta più importante è quella di Mar-

cello Matroianni per la sua attitudine a far vita - con il suo corpo d’attore, la sua stazza da uomo del popolo, i segni sul volto vissuto, lo sguardo partecipe un singolare effetto-realtà senza tradire le consegne teatrali della regia che si riverberano nella voglia di ritornare sul palcoscenico dopo tanto cinema. Anzi è proprio il suo ironico distacco che fa lievitare la vibrante energia di Hoederer, uno dei personaggi più complessi e intensi della sua carriera. Quello tra Petri e Mastroianni è un rapporto che viene da lontano, un’amicizia che resiste nel tempo. Avevano simpatizzato sul set di Giorni d’amore (1954) di Giuseppe De Santiis. Negli anni successivi c’erano stati l’innocente-colpevole di L’assassino (1961), di cui Marcello trova il manifesto in casa di Martin Scorsese tra i grandi film italiani dell’epoca, il futuribile, irridente, inseguito-inseguitore nella grande caccia di La decima vittima (1965) fino al pretaccio inquietante, tremendo, diabolico di Todo modo: una piccola galleria d’immagini in chiaroscuro attraversata dall’ambiguità che lavora negli angoli bui, dall’eccesso trattenuto, dosato, fino a quando non viene in primo piano, s’installa sopra le righe dominando il fotogramma.

La sicurezza con cui in Le mani sporche s’impadronisce del personaggio di Hoederer contribuisce a sfumare le contrapposizioni troppo nette, a diminuire la distanza che lo separa da Hugo, a recitare al meglio - ma anche narcisisticamente a guardarsi recitare - il ruolo del grande incompreso che sta dalla parte giusta, aggiungendovi il compiacimento dell’abile, insinuante manipolatore.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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ULTIMAPAGINA

Lo Stato oggi al voto per le primarie repubblicane. A duellare (a suon di colpi bassi) Mitt Romney e Newt Gingrich

Florida, ultimo “fango” a di Martha Nunziata uello di oggi è l’appuntamento più importante per i Repubblicani, almeno finora. Si vota in Florida, nello Stato più grande in cui arrivano le primarie da quando sono iniziate, meno di un mese fa. Quattro i candidati che si contendono la candidatura a sfidante di Obama alle prossime elezioni presidenziali di novembre: Mitt Romney, Newt Gingrich, Ron Paul e Rick Santorum. E tutti inseguono il voto della comunità latinoamericana (20% della popolazione). Fino ad ora si è votato in Iowa, in New Hampshire e in South Carolina, dove hanno vinto rispettivamente Santorum, il candidato della destra religiosa e della working class conservatrice, Romney, quello moderato, tecnocratico e dell’establishment, e Gingrich, l’alfiere della destra e dei ribelli dei Tea Party. È la prima volta che in tre primarie negli Usa vi siano tre diversi vincitori.

Q

La Florida, tra l’altro, rappresenta il più importante banco di prova per i candidati del Gop da qui fino al “super martedì” di aprile, il 24, quando si concentreranno le primarie in ben cinque stati: Pennsylvania, Connecticut, Rhode Island, Delaware e, soprattutto New York, che rischia di essere decisivo, come 12 anni fa, ai tempi del duello tra John McCain e George W. Bush. Ecco perché il voto di oggi è atteso come un test fondamentale sulla forza dei candidati repubblicani negli Stati più grandi e popolosi, quelli che a novembre attribuiranno più grandi elettori e che quindi conteranno di più nella corsa alla Casa Bianca. La sfida di oggi, però, è ormai riservata ai due principali candidati alla nomination repubblicana, Romney e Gingrich, che in questa partita si giocano quasi tutta la campagna elettorale. Romney ha esplicitamente detto di non voler regolarizzare i cittadini clandestini, una presa di posizione che, in uno Stato caratterizzato da una popolazione in gran parte latina, non aiuta certo il moderato repubblicano. Gingrich, invece, ha già auspicato di voler lottare per la loro regolarizzazione. Posizioni diverse come quelle della dichiarazione dei redditi: Romney ha dovuto presentare pubblicamente la sua dichiarazione, dove è risultato un introito annuale di più di 20 milioni di dollari. Confermandosi così uno dei can-

Un test sulla forza dei candidati del Gop negli Stati che conteranno di più nella sfida a Barack Obama

piena di intrighi di potere che mettono in luce gli inganni e le verità nascoste. Dunque nulla è come sembra. Come scrive il NY Times, infatti, ci sarebbero altre risorse economiche, dietro al candidato Gingrich, ovvero ci sarebbe un uomo che potrebbe fare la differenza: Sheldon Adelson, tycoon dei casino di Las Vegas, la cui attrazione principale è «il Venetian, un monumento esuberante con canali, gondolieri canterini, e una distesa di slot machine». Secondo il Times, Gingrich ha ricevuto 17 milioni di dollari di contributi politici da Adelson e sua moglie, Miriam, negli ultimi anni, ma 10 milioni solo nelle ultime settimane. Un magnate che vanta l’amicizia personale del re Abdullah II di Giordania.

MIAMI didati più ricchi nella storia delle presidenziali americane. Il paragone con il suo rivale è impietoso: Gingrich e la moglie avrebbero guadagnato nel 2010 “solo” 3,1 milioni di dollari. Ma, allora, qual è il criterio per vincere in Florida? La vittoria, secondo gli analisti potrebbe essere garantita a uno dei due candidati dal fattore monetario: una battente campagna elettorale, con spot televisivi e pubblicità; e i soldi, se per Gingrich sono un problema, per Romney risulterebbero più che ben spesi in caso di una vittoria. Romney ha ricavato 32,6 milioni di dollari, soprattutto dal settore finanziario, assicurativo e dell’immobiliare (alcuni finanziatori: Goldman Sachs 367mila dollari; Credit Suisse 203mila dollari; Morgan Stanley 199mila dollari). Per Gingrich le cose non sono andate altrettanto bene, nei suoi confronti ci sarebbe un interesse lobbistico scarso, i suoi tre finanziatori sono: Rock-Tenn Co 27mila dollari; Poet LLC 20mila dollari; Pull-A-Part Inc 15mila dollari. E ad aggravare la situazione, Gingrich si ritrova con soli 400mila dollari da spendere per la sua campagna elettorale, mentre Romney vanta ancora 15 milioni di dollari.

La derivazione geografica dei fondi per le due campagne elettorali sembra riportare un altro chiaro indizio sul vantaggio di Romney in Florida. Ma come nel film, le Idi di Marzo, che porta la firma di George Clooney, la realtà che circonda la campagna elettorale americana è

La generosità di Adelson verso l’ex portavoce della Camera è sorta spontanea nella campagna elettorale: le persone che lo conoscono sostengono che la sua affinità a Gingrich derivi da una devozione a Israele e anche dall’onestà verso un vecchio amico. Gingrich, infatti, è un fervente sionista contrario a qualsiasi compromesso territoriale in favore di uno Stato palestinese. Orientamento politico volto, soprattutto, a garantirsi l’appoggio del fortissimo, e numeroso, elettorato conservatore di origine ebraica. Il “portafoglio” di Newt Gingrich, Sheldon Adelson condurrà alla vittoria? Forse. Gingrich durante il discorso seguito alla sua vittoria in South Carolina aveva detto che «il potere della gente con le idee giuste sconfigge i grandi capitali». Sarà vero? O sono i capitali a determinare le vittorie e a manipolare le idee? Oggi lo vedremo.


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