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he di cronac
Non si attribuisca a laude chi fa o non fa quelle cose, le quali se ometessi o facessi meriterebbe biasimo. Francesco Guicciardini
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 7 FEBBRAIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Secondo gli esponenti dell’opposizione, Damasco sta preparando una nuova, grande offensiva militare
Chi ferma i massacri di Assad? L’Onu è impotente. Obama chiude l’ambasciata. L’Europa discute... La Siria precipita: il regime bombarda perfino gli ospedali. Solo a Homs, ieri, i morti sono stati cinquanta. Anche Londra richiama i diplomatici. Ma tutto lascia pensare che nessuno farà niente Incidente al rigassificatore di Rovigo
Come cambiare il lavoro
L’Italia resta sotto zero: da giovedì gas a rischio
La ridicola querelle sul posto fisso
L’Eni garantisce le forniture industriali fino a domani. Trovato morto nel suo Tir un camionista intrappolato in mezzo alla neve in Abruzzo pagina 15
di Rocco Buttiglione
Parla John R. Bolton
IL KO DEL PALAZZO DI VETRO
Globalizzare i diritti, non solo gli affari
«È una guerra civile, il mondo ha già perso»
di Osvaldo Baldacci
Luisa Arezzo • pagina 3
a Siria è un Paese meraviglioso, uno dei più belli del mondo, e come uno scrigno racchiude in sé tesori inestimabili che percorrono tutta la storia dell’umanità, dagli albori ad oggi, con testimonianze delle maggiori civiltà e paesaggi bellissimi. a pagina 2
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«Iran e Siria sono due facce della stessa medaglia» *****
Un accademico siriano a Dubai
Vi spiego perché Putin salva il regime «Lo Zar teme di finire come l’uomo forte di Damasco»
iceva una volta Hegel che non si può dare una risposta intelligente ad una domanda sciocca. La domanda sulla quale si affaticano ormai da qualche tempo le menti migliori del paese, sia al bar dello sport che sui più seriosi quotidiani è: il posto fisso è bello o brutto? Io mi sono domandato come avrebbe risposto quel saggio di mons. De Lapalisse. Credo che, più o meno, se la sarebbe cavata così: è bello passare da un posto ad uno migliore, è brutto passare da un posto ad un altro peggiore. Bruttissimo poi è passare dal lavoro alla disoccupazione.
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Marwan Kabalan • pagina 4
Vertice con Sarkozy: «Non c’è più tempo per trattare sul debito» Il vero scandalo del Paese sotto la neve
Merkel minaccia la Grecia
Si muore di freddo ma anche di retorica «Non daremo altri aiuti se non rispetta gli impegni» di Riccardo Paradisi
di Enrico Singer
hi l’avrebbe mai detto che gli anni dieci del duemila avrebbero assomigliato così tanto agli anni dieci del novecento; quando ancora si moriva di freddo e di stenti, quando ancora si guardava al cielo come a una divinità capricciosa e feroce, quando s’attendeva l’arrivo della primavera come il ritorno d’una promessa di vita meno dura e viaggiare era un’avventura, arrivare una conquista. L’Italia avvolta da neve, ghiaccio e bufere è un paese paralizzato e spaventato. a pagina 14
è stata molta Europa e molta Grecia in particolare, ma c’è stata soprattutto molta campagna elettorale francese nell’incontro di ieri a Parigi tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Un bilaterale celebrato in grande pompa, come ai tempi migliori del direttorio Merkozy, che era in calendario da mesi – era il 14esimo consiglio dei ministri franco-tedesco – ma che non poteva arrivare in un momento più opportuno per trasformarsi in un caloroso endorsement da parte della Cancelliera nei confronti del capo dell’Eliseo. a pagina 6
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CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
Le violazioni di Mosca e Pechino
Basta giocare a scacchi con i diritti
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di Osvaldo Baldacci a Siria è un Paese meraviglioso, uno dei più belli del mondo, e come uno scrigno racchiude in sé tesori inestimabili che percorrono tutta la storia dell’umanità, dagli albori ad oggi, con testimonianze delle maggiori civiltà, paesaggi bellissimi e luoghi evocativi che sono stati testimoni di tanti passaggi decisivi. Questo tesoro non può essere lasciato in balia della guerra civile, né si può tollerare una repressione sanguinaria. E ancor meno si può permettere che questo gioiello e le vite di chi ci vive siano lasciati in mano a spregiudicati giocatori di scacchi. La Siria non è una pedina. Eppure così viene trattata sulla scena internazionale da troppi soggetti che pensano solo a trarre giovamento dalle disgrazie altrui.
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Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu Russia e Cina stanno giocando sporco. Stanno chiaramente utilizzando una crisi umanitaria per dare una prova di forza, magari per Mosca anche in chiave elettorale, per far tornare le lancette al tempo della Guerra Fredda e far pesare il loro diritto di veto per ricordare lo status di superpotenze. Chiaramente non hanno alcun interesse reale in Siria, se non quello di accreditarsi come i protettori di un certo mondo che è ancora diffuso e influente in Medio Oriente e soprattutto di porsi come contraltare al modello occidentale. Ma non sembrano davvero interessate a quello che sta succedendo in Siria. Anche perché è facilmente intuibile come la sanguinosa repressione in atto non serva a nessuno, nemmeno ad Assad. Arrivato al potere come un giovane riformista, il presidente siriano non è stato aiutato a far evolvere il suo Paese e le sue istituzioni, e tuttora non è aiutato. Sembra in balia di una certa vecchia guardia, schiacciato sotto l’ombra incombente della strategia regionale iraniana, usato da lontane potenze come strumento (forse poi sacrificabile?) per far valere il loro peso e poter chiedere qualcosa in cambio della sua testa. La scelta di Cina e Russia di porre il veto alla risoluzione Onu è grave. Si potrebbe capire se il veto fosse stato posto a un intervento militare, per quanto umanitario: quello è un tema sempre controverso e diplomaticamente scivoloso, con tanti fattori e interessi in gioco. Ma una condanna delle violenze in corso in Siria era il segnale minimo per fare in modo che la situazione andasse verso una soluzione, dopo il fallimento della missione della Lega Araba. Ora è il momento di riprendere in mano la diplomazia, visto che tutto sommato sembra ancora possibile. Un piano arabo esiste, e questo è un buon punto di partenza. Da parte di Assad potrebbe esserci tutto l’interesse a trovare una via di uscita, e l’Occidente non può permettere che si realizzi un massacro e una guerra civile alle porte dell’Europa.Tanto più dopo la crisi libica: allora sembrerebbe vero che ci si muove solo per il petrolio. Per non essere ingenui bisogna sapere ce non ci si può muovere ovunque negli stessi modi, con gli stessi tempi e con la stessa incisività. Ma la crisi siriana non sembra tale da costringere l’intero occidente più il mondo arabo allo stallo: anzi, proprio la convergenza di interessi dovrebbe costituire una forte spinta alla soluzione. A meno ch appunto non ci si mettano di mezzo giochi più alti che passano sopra le teste dei siriani. Forse è il caso che la comunità internazionale trovi il modo di essere convincente anche con Mosca e Pechino, e smetta di farsi ricattare. E con un occhio attento alla questione iraniana, che sembra precipitare: la Siria non diventi la pericolosa pedina anche di questo gioco.
Il regime soffoca la protesta con il terrore. Lavrov oggi a Damasco. Londra richiama l’ambasciatore
Inferno Siria, bombe su Homs
Ancora sangue nella città ribelle, i morti si contano a decine. Sotto attacco anche gli ospedali. Washington chiude l’ambasciata e la Ue valuta l’espulsione dei diplomatici di Luisa Arezzo l dado è tratto. Gli Stati Uniti hanno chiuso la loro ambasciata in Siria disponendo il ritiro di Robert Ford e di tutto il personale diplomatico dal momento che le autorità siriane hanno risposto picche alle richieste di Foggy Bottom di rafforzare le misure di sicurezza intorno alla sede diplomatica americana. La notizia era nell’aria già da qualche giorno, e dopo l’inasprirsi dei massacri di questi ultimi giorni e la crescente possibilità che gli uffici Usa diventassero un obiettivo più che sensibile per un attacco kamikaze, si è concretizzata. E presto, come annunciato ieri dal nostro ministro degli Esteri Terzi di Sant’Agata, la Ue potrebbe espellere tutti gli ambasciatori siriani dal suolo europeo. La richiesta ad agire in tal senso è stata caldeggiata anche dalla nobel per la pace yemenita Tawakul Karman, ieri alla Farnesina: «il minimo che si possa fare per sostenere la grande rivoluzione siriana e difendere il popolo siriano», ha detto l’attivista yemenita, che auspica anche il richiamo del corpo diplomatico europeo dal Paese. È chiaro, tuttavia, che se la Ue optasse per l’espulsione dei diplomatici siriani, la chiusura delle rispettive ambasciate a Damasco sarebbe praticamente consequenziale. Una cosa intanto è certa: mentre cinesi e russi fanno quadrato sul loro veto ad una risoluzione contro il regime siriano di Bashar al
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Assad all’Onu, con Pechino che taccia l’Occidente di «ipocrisia» e Mosca, per bocca del suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che lo accusa di aver avuto «una reazione isterica», ad Homs (e in molte altre zone del Paese) il massacro continua. E con grande impegno.
Visto che Assad, cercando di sfruttare al massimo la finestra temporale che Mosca e Pechino gli hanno aperto, sta tentando, in queste frenetiche ore di consultazione internazionale, di azzoppare più che può l’opposizione. La culla della protesta, Homs, ieri mattina alle 6 si è svegliata (ammesso che mai sia andata a dormire) sotto i bombardamenti dei carri armati, che hanno completamente circondato la città. E le vittime, dopo gli oltre 350 morti del fine settimana, sarebbero già più di cinquanta. «Quello che sta accadendo è terribile, va oltre qualsiasi immaginazione» ha detto Omar Shaker, un abitante di Homs, a dei giornalisti britannici del Telegraph. «Proiettili e bombe sono dappertutto ed a terra giacciono moltissimi martiri. È la prima volta che il regime ci attacca con questa violenza». I feriti, visto che gli ospedali sono presidiati dall’esercito fedele ad Assad, secondo le poche fonti disponibili vengono portati nelle moschee. Ed i medici, sempre secondo quest’ultime, sono dei morti che camminano, visto che l’ordine
«Guerra civile, il mondo ha già perso» John R. Bolton: «Iran e Siria sono un solo problema, anche se tutti fingono di non capirlo» ulla questione siriana John R. Bolton ha perso quasi tutte le sue speranze. E certo non per colpa del veto di Russia e Cina alla risoluzione del 4 febbraio al Consiglio di Sicurezza. Da ex ambasciatore Usa al Palazzo di Vetro è consapevole che quello è solo l’ultimo atto di una serie di politiche fallimentari contro Bashar al-Assad e il suo regime. Ambasciatore, si aspettava la rigida presa di posizione di Mosca e Pechino? Credo che il veto russo-cinese fosse assolutamente previdibile, così come prevedibile era il fallimento delle Nazioni Unite sulla questione siriana. Di fatto non riescono e non possono fare nulla. È una situazione, quella che abbiamo davanti, punto diversa da quella libica e non è possibile fare paragoni. Ci si dimentica che nella questione siriana è coinvolto in modo determinante anche l’Iran, che supporta drammaticamente Bashar al-Assad. E io ritengo che la questione non possa essere risolta se non si considerano entrambi i Paesi. L’Occidente, per aiutare il popolo siriano, dovrebbe agire su due fronti, ma io non vedo nessuno, né Obama in America, né qualcun altro in Europa o al di fuori degli Usa, che sia disposto ad agire in tal senso. Ecco perché la situazione in Siria è destinata a peggiorare ed a cadere nel ba-
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ratro della guerra civile. Gli Stati Uniti hanno chiuso l’ambasciata a Damasco e invitato i cittadini a lasciare il Paese. Non è un segnale forte da parte di Obama? È un segnale dovuto e legato a una questione di mera sicurezza, non destinato ad impressionare il regime. Non è la voce grossa dell’America, è piuttosto un meglio andarsene per evitare un attentato. L’Europa sta considerando l’ipotesi di espellere i diplomatici siriani dalle capitali Ue. Una risposta ai bombardamenti di Assad e un possibile gesto di orgoglio dopo il fallimento del vertice al Consiglio di Sicurezza. Cosa ne pensa? Io credo che sia qualcosa che debba essere fatto, ma anche qui non credo che possa portare a qualche risultato sulla politica siriana o fermare Assad dal continuare a bombardare il suo popolo. Lei sta forse dicendo che se la questione siriana non viene letta assieme a quella iraniana non c’è via di scampo per gli oppositori del regime? Non proprio. Ma credo che i due paesi siano le due facce della stessa medaglia e ritengo che Iran e Siria stiano lavorando assieme. Solo che
sul farli fuori sarebbe tassativo. La licenza di uccidere regalata ad Assad dal fallimentare Consiglio di Sicurezza del 4 febbraio, insomma, è stata presa molto seriamente. E nessuno si beve la versione ufficiale di Damasco secondo cui le violenze in atto a Homs sarebbero figlie di non meglio identificate “bande di terroristi armati” (evidente l’allusione ai gruppi di opposizione) che assalirebbero indiscriminatamente cittadini e membri delle forze di sicurezza, dandosi anche a furti e rapine.
La verità è che il veto sino-russo non solo ha inferto l’ennesimo colpo al ruolo giocato dalle Nazioni Unite a livello internazionale, ma ha gettato le basi di una veloce caduta della Siria nel baratro della guerra civile. A parlare, adesso, più che i diplomatici, saranno le armi, che nonostante l’appello di ieri della Lega Araba affinché cessi il loro commercio nel Paese, stanno drammaticamente arrivando, e copiose, a tutti gli attori siriani. Ufficiosamente all’opposizione e ufficialmente dalla Russia al regime (la scorsa settimana è stato siglato un contratto per la fornitura di 36 aerei russi Yakovlev Yak-130 a Damasco e all’inizio di gennaio la nave russa Chariot, dopo essere stata bloccata in un porto cipriota è riuscita a consegnare alla Siria 60 tonnellate di armi. Gli stessi Stati Uniti stanno valutando l’ipotesi di armare (ulteriormente) i ribelli, come ben scritto ieri dal NewYork Times. E Arabia Saudita, Qatar e Turchia non saranno certo da meno. Dunque la sempre più esile prospettiva di una soluzione alla tragedia siriana, con una transizione politica capace di portare alla fine delle violenze, è orami vicina al collasso totale. Ed è inutile illudersi su un ravvedimento di Assad, il presidente che dopo essersi venduto (ed essere stato creduto) come l’uomo delle riforme, si è trasformato nel principale aguzzino del suo popolo. Un uomo che ormai, qualsiasi sia la piega che prenderà questa triste e insanguinata pagina della storia siriana, mai più potrà essere riabilitato in seno alla comunità internazionale. Intanto il presidente Obama ieri si è detto convinto che «la strada da seguire per risolvere la crisi in Siria sia quella delle sanzioni, per fare pressione sul regime di Assad e favorire la costituzione di un governo di transizione». Dicendosi invece contrario a qualsiasi intervento militare. Uguale la posizione del britannico Cameron, che nonostante il Diamond Jubilee per i sessant’anni di
tutti fanno finta di non accorgersene e questo condanna la Siria alla guerra civile. Ma allora cosa dovrebbe fare Obama e cosa dovrebbe fare l’America? L’America di Obama non può far niente perché è incapace di negoziare sia con l’Iran al fine di fermare la sua corsa al nucleare, sia con il regime di Assad. Ambasciatore, ma se dall’America non possiamo aspettarci nulla, lei capisce che il principale attore dell’Occidente sta dichiarando la sua sconfitta su un tema internazionale che rischia di incendiare l’intero Medioriente... Purtroppo è così. Non ci sono state sanzioni adeguate e si è perso troppo tempo. Si è perso tantissimo tempo, su questo sono tutti d’accordo. Certamente l’impegno in Libia non ha facilitato le cose, ma soprattutto si è scelto di aspettare e di dare fiducia alla Lega araba, che però in questi mesi ha dimostrato tutta la sua debolezza. Sì, Sfortunatamente si è perso tempo e non posso che riaffermare la mia valutazione negativa sul presidente Obama, che non è mai stato capace di infliggere sanzioni in gra-
do di fermare il massacro dei civili né tantomeno mettere in campo una politica internazionale capace di portare alla caduta del regime. che Considerando Assad ha cominciato ad affogare la protesta nel sangue e che non si fermerà, lei crede che possa vincere e restare al potere? Io penso che lo scenario sia incerto, ma ci sono delle possibilità. E soprattutto penso che con l’atomica di Teheran in dirittura di arrivo, Assad potrà contare su un alleato formidabile capace di neutralizzare ogni tentativo di farlo cadere.
Il bilancio delle vittime da marzo 2011
Seimila morti tra cui 400 bambini. È una strage degli innocenti Almeno 6mila persone sono state uccise in Siria da metà marzo dello scorso anno, quando sono iniziate le proteste contro Assad. Il dato, destinato a salire con l’inasprirsi dei bombardamenti del regime di Damasco, conta anche la morte di almeno 400 bambini. A denunciarlo per primo è stato è l’Unicef: «Almeno 400 minori, per la maggioranza maschi, sono stati uccisi. Altri 380 bimbi sono stati arrestati, alcuni di età inferiore ai 14 anni», ha affermato Rima Salah, vicedirettore esecutivo dell’Unicef. A dicembre l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani aveva stimato che, nei 10 mesi di manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, fossero morti 307 minori. Dunque la repressione in questo inizio di 2010 è aumentata anche nei confronti dei più piccoli. Le cifre fornite dall’Alto commissariato Onu per i Diritti Umani danno l’ampiezza di un orrore a porte chiuse, ma non riescono a richiamare all’ordine la comunità internazionale. Senza contare le migliaia di persone arrestate, detenute, sparite e torturate. Le cifre in questo caso non sono verificabili. Anche la conta dei feriti cade nel vuoto, si parla di un numero imprecisato, ma nell’ordine delle decine di migliaia, e secondo Amnesty International sarebbero migliaia, forse diecimila, forse anche di più, le persone arrestate nelle retate delle forze di sicurezza del governo guidato dal presidente Bashar Assad. Non si sa invece quante siano le vittime nelle prigioni dove torture ed esecuzioni sommarie, sempre secondo Amnesty International, sono molto comuni. Come confermano anche gli attivisti e i pochi giornalisti che riescono ad entrare nel Paese. A quasi un anno dall’inizio delle proteste il bilancio è più che amaro. È tragico.
regno di Elisabetta II, ha confermato come la Gran Bretagna sia «alla ricerca di misure alternative per mettere sotto pressione il regime siriano attraverso le Nazioni Unite». La speranza, dunque, è che Mosca e Pechino, messe pubblicamente alla gogna mediatica internazionale, ci ripensino.
E a proposito di pressioni, ieri l’unione degli intellettuali arabi ha proposto un boicottaggio economico e culturale dei prodotti provenienti dalla Russia e dalla Cina dopo che i due Paesi hanno posto il veto sulla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Mentre i Fratelli musulmani siriani li hanno accusati (assieme all’Iran) di complicità nei massacri in Siria, e di sostegno politico e militare: «noi riteniamo Russia, Cina e Iran come complici diretti degli orribili massacri commessi contro il nostro popolo, non solamente sostenendo il regime, ma anche fornendo direttamente armi e attrezzature per massacrare il nostro popolo indifeso», si legge in un loro comunicato. In Siria, nel frattempo, i militari che hanno disertato dalle forze armate siriane per non essere coinvolti nella repressione delle proteste hanno annunciato ieri la creazione del Consiglio Superiore Rivoluzionario. Il compito del nuovo organismo, consisterà nel «rispondere alla richiesta di libertà del popolo per liberare la Siria da questa banda di criminali». Quest’organismo prenderà il posto del Libero Esercito Siriano e, al pari di quest’ultimo, sarà guidato dal ricercatissimo generale Mustafa Ahmed al-Sheikh, l’ufficiale di grado più elevato tra i disertori, che però gode della protezione turca. E con questo ennesimo tassello, dopo mesi di tentennamenti ed errori, la guerra civile può dirsi cominciata.
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l’approfondimento
L’opinione del preside della facoltà di Diplomazia all’università della capitale della Siria, ormai rifugiato a Dubai
L’asse Mosca-Damasco Putin ha paura di subire la stessa sorte del dittatore siriano: per questo ha posto il veto all’Onu. Un ricambio in Siria darebbe forza all’opposizione in Russia. E aprirebbe un nuovo fronte: quello con l’Asia e con il Medioriente di Marwan Kabalan er la seconda volta in quattro mesi, la Russia ha posto il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condanna l’approccio del regime siriano nei confronti del movimento di protesta. Ai primi di ottobre, Mosca aveva silurato un tentativo di punire il governo siriano per aver violato i diritti dell’uomo e commesso crimini contro l’umanità. La dura opposizione della Russia a qualsiasi tipo di azione contro Damasco è sconcertante per molti osservatori. Le ambigue motivazioni che si nascondono dietro la posizione russa sono il fattore chiave alla base di questa confusione.
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Durante la Guerra Fredda, ad esempio, il sostegno russo alla Siria era facile da comprendere. Esso era quasi esclusivamente motivato dalla grande rivalità di Mosca con gli Stati Uniti e coinvolgeva riconoscibili interessi nazionali. All’ombra del bipolarismo del-
la Guerra Fredda, sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti cercarono clienti regionali per rafforzare la propria posizione nei confronti dell’altro, in una lotta per la supremazia mondiale. In un simile clima, la caduta di uno Stato satellite era considerata una sconfitta per la potenza protettrice.
I motivi che stanno dietro l’attuale posizione russa, invece, non sono particolarmente chiari, e di conseguenza gli analisti sembrano tentennare quando viene chiesto loro di spiegare la politica russa. Sebbene la Guerra Fredda si sia conclusa più di due decenni fa e la situazione da allora sia cambiata radicalmente, la maggior parte degli analisti tende a spiegare la posizione russa riguardo alla crisi siriana in una prospettiva storica, e di conseguenza prevede un ritorno della spaccatura che esisteva ai tempi della Guerra Fredda. In realtà, se si eccettua l’arse-
nale nucleare del Cremlino e il fatto che Mosca è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza, la Russia manca oggi di alcune delle principali caratteristiche di una superpotenza. Il suo Pil, ad esempio, è solo un decimo di quello degli Stati Uniti – pari a circa 14.500 miliardi di dollari. Ma esso è molto indietro anche rispetto alla Cina – la seconda economia più grande del mondo con un Pil pari a circa 5.800 miliardi di dollari. La popolazione
Anche opporsi alle politiche occidentali è un modo (miope) per affermarsi
russa è in calo. Quando la Guerra Fredda si concluse nel 1991, la Russia aveva una popolazione di 163 milioni di persone. Oggi la sua popolazione è scesa a circa 147 milioni, ed è destinata a subire un ulteriore declino.
Sulla base di quanto detto fin qui, l’appoggio della Russia al regime siriano deve essere considerato in termini difensivi, piuttosto che come il risultato di una politica aggressiva.
La posizione della Russia sulla crisi siriana ha due aspetti: un aspetto interno ed uno esterno. Sul fronte interno, il governo russo teme la rapida ascesa del movimento di opposizione dopo le elezioni parlamentari dei primi di dicembre, che sono state segnate da frodi e brogli. Il primo ministro Vladimir Putin, che sta inseguendo un ritorno alla presidenza il mese prossimo, sembra essersi convinto che qualunque protesta popolare in qualsiasi parte del mondo, e specialmente in Medio Oriente, sia sostenuta dagli Stati Uniti, e possa avere un effetto domino e, quindi, essere di ispirazione alla sua opposizione interna.
Più egli si avvicina alle elezioni di marzo, quindi, più farà resistenza al fine di evitare una vittoria dell’opposizione in Siria. Putin in realtà sta difendendo se stesso, non il regime siriano. Sul fronte esterno, fin dal crollo dell’Unione Sovietica Mosca sta lottando per im-
Finora la protesta ha seguito lo schema canonico della guerriglia. Da domani si cambia
La strategia dei ribelli per resistere al regime Nasce l’Alto consiglio rivoluzionario, ovvero il braccio armato del Cns, comandato dal generale (disertore) Mustafa Ahmed al-Sheikh di Antonio Picasso el pieno della battaglia di Homs, l’Esercito siriano di liberazione annuncia la nascita di un Alto consiglio rivoluzionario interno, che sarà comandato dal generale Mustafa Ahmed al-Sheikh. Lo stesso, esattamente un mese fa, aveva annunciato la propria diserzione via tv e web. È un nuovo passo della strategia del ribelli. Mentre sul fronte politico, il Consiglio nazionale siriano (Cns) sta procedendo come una lobby ben inserita nei gangli della diplomazia internazionale, le forze in armi solo ora sembra che abbiamo assunto una struttura gerarchica più complessa. Il Cns vive in un certo senso di rendita, grazie alla costante pressione che l’opposizione a regime Baath ha mantenuto nel corso dei decenni. Oggi l’ottenuto riconoscimento da parte di molti governi occidentali e praticamente di tutti i membri della Lega araba ne fa un esecutivo provvisorio in attesa di assumere il potere. Gli uomini in armi, invece, hanno agito finora seguendo lo schema canonico della guerriglia. Scontri di piazza e utilizzo di armi leggere (i Kalashnikov Ak-47 e gli Rpg). Una strumentazione che si è rivelata assai debole rispetto alla force de frappe adottata dall’esercito regolare. I fedeli del presidente Assad, in particolare la Guardia repubblicana, non si è mai fatta scrupolo nel ricorrere all’artiglieria pesante. Homs in questi giorni torna a essere il bersaglio dei cannoni. I carri armati a loro volta sfilano per le strade del Paese e sparano ad alzo zero sulla folla. Ieri la Lega araba ha detto che il ricorso ad armi di maggiore potenza potrebbe degenerare in una guerra civile. È una dichiarazione che l’organizzazione del Cairo avrebbe dovuto rilasciare ormai quasi un anno fa.
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La nascita del consiglio rivoluzionario può essere vista come la creazione di uno Stato maggiore provvisorio. L’origine è dettata da necessità operative. Con l’aumento della violenza negli scontri, si richiede una crescente organizzazione dei vertici di comando. Tuttavia, la si può vedere anche legata al sempre più importante numero di disertori. Fino a qualche settimana fa, l’esercito di liberazione era costituito da soldati e ufficiali di basso e medio rango. A dicembre, gli osservatori israeliani parlavano di una forza ribelle costituita da 40mila unità circa. Di questi, circa il 40% erano ex soldati di Assad che avevano abbandonato le fila, portandosi con sé armi individuali in dotazione e qualche munizione. La loro
meta era la Turchia meridionale, facile da raggiungere e oltre la quale sarebbero stati assistiti e riaddestrati dallo stesso esercito turco, insieme a consulenti militari mandati dagli Usa. Si trattava comunque di un esercito di strada, comandato da Riad al-Asaad, un colonnello. E il fatto che la leadership non fosse tenuta da un generale la dice lunga su quanto poco pungente potesse essere l’intervento operativo di questi uomini. L’arrivo di al-Sheikh ha cambiato le co-
L’esercito regolare ha la sua santabarbara, ma gli attivisti devono ancora rafforzare i loro depositi se. Non è un caso che adesso Youtube pulluli dei messaggi di molti altri disertori – tutti graduati e pluridecorati – che hanno voluto seguire il suo esempio. La concentrazione di tante menti pensanti ha portato alla creazione del consiglio rivoluzionario. Da notare il nome! Nessuno parla di guerra civile. Come fa anche la Lega. Del resto già al-Asaad ci teneva a sottolineare che la resistenza fosse contro il regime ed essendo l’esercito di liberazione costituito anche elementi di etnia alawita, non si parlare di uno scontro confessionale. Sofisticherie, queste, e per giunta secondarie. Ciò che conta è Al-Sheikh sia un generale a tre stelle, del quale si può anche immaginare una qualche ambizione politica una volta che Assad sarà sconfitto. È il futuro Tantawi di Damasco? Non è da escludere. In tal caso saremmo
già di fronte alla contraddizione il nome che il consiglio si è voluto attribuire e i suoi reali intenti.
Quel che non è chiaro è come l’esercito di liberazione sia in grado di recuperare armi e munizione.Tracciato il solco della strategia politica, è la tattica militare a restare in sospeso. Il massacro di Homs è l’ultima dimostrazione che i ribelli non possono andare avanti a suon di guerriglia. E se dall’estero nessuno ha intenzione di intervenire, viene da chiedersi come potranno ancora resistere. Certo, le attività di mercato nero hanno subito un’impennata. Il Paese non è mai stato estraneo a questo smercio. A suo tempo le armi per i combattenti dell’Iraq contro gli americani passavano dalla Siria. E sempre da qui transitavano quelle per Hezbollah, i salafiti e i palestinesi in Libano. Plausibile che entrambe le direttrici abbiano subito un’inversione di marcia Due mesi fa, sempre gli israeliani denunciavano il rifornimento di armi chimiche ai fedeli del raìs da parte degli sciiti libanesi. Forse si è trattato di un’esagerazione.Visto che in tempi non sospetti Damasco era già stata accusata – dalla stessa fonte – di avere un proprio arsenale di armi non convenzionali. Se l’avesse avuto già allora – si era nel 2007 – perché avrebbe dovuto crearne adesso? Di fronte alle coste siriane c’è poi Cipro, mentre alle spalle il Kurdistan. Anch’essi punti di smistamento precipui. Il primo, in particolare, è passato alla storia come il centro di stoccaggio di armi e munizioni destinate a tutte le forze che combattevano la guerra in Libano (anni ’70, ’80 e ’90). Nel caso siriano si tratta semplicemente di aggiustare la rotta di pochi gradi a nord. Quel che resta un’incognita ancora da sciogliere è la fonte. L’esercito regolare ha la sua santabarbara, rimpinguata negli anni dall’Iran e dalla Russia. I ribelli invece come faranno a resistere?
7 febbraio 2012 • pagina 5 In basso, una scena del film “Lord of War”. A sinistra, attivisti travestiti da Putin e Assad manifestano davanti all’Onu pedire agli Stati Uniti di penetrare la sua cintura strategica nel Caucaso e in Asia centrale. Anche se la Russia ha mantenuto la propria influenza su gran parte delle repubbliche ex sovietiche che aveva in precedenza perso a vantaggio degli Stati Uniti, Mosca rimane assolutamente infastidita dall’espansione della Nato in gran parte dell’Europa dell’Est e verso le frontiere occidentali russe. Il dispiegamento dello scudo di difesa americano in Europa orientale e in Turchia è anch’esso una questione di grande preoccupazione per Mosca.
Opporsi alle politiche occidentali in Siria è un modo per denunciare le ingerenze occidentali nella sfera d’influenza della Russia e la scarsa considerazione dell’Occidente per i suoi interessi nazionali in molte altre parti del mondo – e ultimamente in Libia. Infine, Mosca sembra essere preoccupata per l’ascesa dell’influenza turca in Medio Oriente, nei Balcani, in Asia centrale e nel Caucaso. Con un terzo della propria popolazione che è di fede musulmana, la Russia considera le politiche della Turchia, specialmente sotto il governo di ispirazione islamica dell’Akp, con grande sospetto. La Turchia sta promuovendo se stessa come un modello di Islam liberale nel mondo islamico, e con l’ascesa delle forze islamiche in tutti i paesi arabi che finora hanno assistito a un cambiamento, la Turchia sta agendo o presentandosi come guida di queste forze. Tenendo conto dell’inimicizia storica tra l’Impero Ottomano musulmano sunnita e la Russia cristiana, Mosca è assolutamente preoccupata dell’ascesa della Turchia e della sua interpretazione dell’Islam. Se dovesse cadere anche il regime di Damasco, la Turchia, che ha apertamente sostenuto l’opposizione siriana, è destinata a trarne i maggiori benefici. Per Mosca, ciò cambierà radicalmente gli equilibri di potere in una regione che si estende dall’Asia centrale al Medio Oriente, e dai Balcani e dal Caucaso al Golfo.Visto che si indebolisce anche la posizione dell’Iran, la Russia, che tenta di presentarsi come un moderatore tra Teheran e l’Occidente, diventerà anch’essa irrilevante. La rinnovata assertività della Russia deve quindi essere compresa all’interno di questo contesto: l’appoggio russo al regime siriano, in effetti, ha più a che fare con la difesa degli interessi russi che non con il sostegno agli interessi di Damasco. © Medarabnews
economia
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E l’Eliseo loda il Belpaese: «L’esempio da seguire è il lavoro che sta facendo Mario Monti e i progressi spettacolari dell’Italia»
Ultimatum ad Atene Merkel e Sarkozy d’accordo: «Niente aiuti se la Grecia non rispetta i suoi impegni» di Enrico Singer è stata molta Europa e molta Grecia in particolare, ma c’è stata soprattutto molta Francia e molta campagna elettorale nell’incontro di ieri a Parigi tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Un bilaterale celebrato in grande pompa, come ai tempi migliori del direttorio Merkozy, che era in calendario da mesi – si trattava del 14esimo consiglio dei ministri franco-tedesco – ma che non poteva arrivare in un momento più opportuno per trasformarsi in un pubblico e caloroso endorsement da parte della Cancelliera nei confronti del capo dell’Eliseo che rischia di non conquistare il secondo mandato presidenziale nel doppio voto del 22 aprile e del 6 maggio prossimi. Così, ai timori per il default di Atene e alla promessa di armonizzare entro il 2013 le aliquote fiscali per le imprese nei due Paesi, si sono sovrapposti scambi di reciproco apprezzamento per quanto è stato fatto finora per salvare l’euro e di quanto si potrà fare in futuro se gli attuali equilibri politici a Parigi e a Berlino saranno confermati. Il sostegno della Merkel a Sarkozy era scontato ed era stato anche anticipato una settimana fa dal segretario generale della Cdu, Herman Groehe. Ma
C’
no i giochi di parole come pochi altri al mondo, hanno ribattezzato fiscal combat il Patto di bilancio uscito dal Consiglio europeo di Bruxelles prevedendo che sarà uno dei temi forti della battaglia presidenziale.
dopo il vertice europeo che ha tenuto a battesimo il fiscal compact tanto inseguito dalla Germania, era ancora più atteso perché nel programma elettorale del socialista François Hollande c’è l’impegno a rinegoziare
quell’accordo che lo sfidante di Sarkozy considera troppo sbilanciato in direzione del rigore e poco attento alla crescita. Una prospettiva che Angela Merkel vuole evitare con tutte le sue forze. I giornali francesi, che ama-
Che Nicolas Sarkozy, a giudicare dalle sue dichiarazioni di ieri fianco a fianco con la Merkel nel salone Napoleon III dell’Eliseo, vuole impostare in nome della stabilità politica e della continuità d’azione contro il pericolo di un salto nel buio e dell’isolamento in Europa che si verificherebbe nel caso di un cambio della guardia all’Eliseo.
La Cancelliera, naturalmente, ringrazia – «Io sostengo Sarkozy su tutti i piani» – e i complimenti e le cortesie si sprecano, ma non c’è la nostalgia di un ritorno al the way we were, al come eravamo quando il rapporto a due Parigi-Berlino dominava la Ue. Anzi, nella conferenza stampa congiunta il riferimento all’Italia arriva subito, proprio quando si parla del tema più delicato: il rischio di fallimento di Atene. La Grecia, dice Sarkozy, «ha preso degli impegni e deve rispettarli scrupolosamente. Non c’è scelta. So che il premier greco ha un incarico non facile, ma l’esempio da se-
Per il professore emerito di economia alla New York University il default di Atene può gettare nel baratro l’istituto
Attenti, ora è in pericolo anche la Bce a Banca centrale europea (Bce) è in pericolo, perché detiene quantità considerevoli di buoni del tesoro greci. Molti più di quello che immaginano i mercati o di quello che si è potuto leggere sulla stampa economica (probabilmente 100 miliardi di euro). La moneta di un paese che ha una banca centrale in difficoltà ha poche possibilità di sopravvivere.
L
Atene lo sa molto bene e ne approfitta. Ma per quale motivo l’Europa dovrebbe dare ai politici greci, che a quanto pare non hanno intenzione di adottare delle riforme degne di questo nome, un’arma che potrebbe ritorcersi contro di essa? Bisogna proteggere la
di Melvyn Krauss Banca centrale, e bisogna farlo adesso. Dare queste garanzie potrebbe significare esporre a un rischio maggiore i contribuenti, e ciòe spiega l’immobilismo dei dirigenti europei. Ma que-
greci si rendono conto che il loro tentativo non funziona, forse cambieranno tono e faranno dei veri sforzi per avviare delle riforme. In questo caso i contribuenti europei
“
Indipendentemente dalla possibilità che il Paese fallisca o meno, i tedeschi vogliono escluderlo dall’euro, e cercano di guadagnare tempo per sostenere l’Italia e la Spagna
sti devono rendersi conti che se tolgono questa minaccia dalle mani dei loro ricattatori, il rischio che si realizzi diminuisce. In altre parole, se i politici
”
avranno fatto un vero affare, perché la concessione di queste garanzie ridurrebbe il rischio di un costoso fallimento. Meglio prevenire che curare. Impe-
gnare delle somme più consistenti nel Meccanismo europeo di stabilità (Esm), il fondo di soccorso permanente (che entrerà in funzione il primo luglio prossimo), permetterà al contrario risparmiare del denaro.
E anche il ricorso a fondi più consistenti per proteggere la Banca centrale europea permetterebbe, sempre per le stesse ragioni, di risparmiare. La “promessa di aumentare le spese” non vuol dire necessariamente che delle somme saranno realmente spese. Indipendentemente dalla possibilità che la Grecia fallisca o meno, i tedeschi vogliono escluderla dall’euro, e cercano di guadagnare tempo per so-
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ieri da Eurostat, sono allarmanti: nel terzo trimestre del 2011 il debito greco è salito al 159,1 per cento del Pil. Nel trimestre precedente era a quota 154,7 per cento e questo vuol dire che, nonostante tutte le misure adottate già quando al governo c’era George Papandreou non è stata nemmeno invertita una tendenza che, purtroppo, si sta confermando anche con l’esecutivo guidato da Papademos che è, sì, un tecnico – è l’ex governatore della Banca di Grecia ed ex numero due della Bce – ma che ha le mani legate dai contrastanti interessi dei partiti che si sono divisi i ministeri-chiave.
A 75 giorni dalle elezioni francesi, quello che più ha colpito, anche nel duetto televisivo trasmesso su France 2 e sulla tedesca Zdf, è stato l’esibito appoggio della Cancelliera al Presidente guire è il notevole lavoro che sta facendo Mario Monti e i progressi spettacolari dell’Italia». È l’ulteriore dimostrazione che la coppia Merkozy è, ormai, diventata una troika che sempre la stampa francese ha già definito Merkonti. Sulla Grecia la posizione di Francia e Germania è in sintonia completa. «Siamo entrambi
d’accordo nel volere che Atene rimanga nell’euro», ha detto Angela Merkel. «Tuttavia non ci potrà essere un nuovo programma di aiuti se non sarà trovato un accordo con Ue, Bce e Fmi sulle misure di politica economica da prendere». E Sarkozy: «Un’intesa non è stata mai così vicina, ma bisogna chiudere e il tempo stringe». In realtà, ad Atene, il
stenere l’Italia e la Spagna e dare loro la possibilità di affrontare le turbolenze provocate dall’uscita di Atene. Ma questo atteggiamento rischia di accelerare il rischio di default della Grecia,
premier Lucas Papademos non ha avuto il via libera dai tre principali partiti che lo sostengono e l’accordo con i negoziatori europei rimane sospeso in un limbo preoccupante perché domani a Bruxelles ci sarà la riunione dell’Eurogruppo che avrebbe potuto sbloccare gli aiuti, ma a questo punto è prevedibile un nuovo rinvio che non favorirà, certo, la tenuta dei titoli greci sui mercati internazionali. Secondo Sarkozy la Grecia dovrebbe lanciare almeno un segnale: per esempio creare un fondo speciale da usare per ripagare il debito pubblico ed evitare la bancarotta. Gli ultimi dati, resi pubblici
come un’ape che sul punto di morire infligge una puntura mortale. I leader politici europei non possono correre il rischio che la Grecia, sentendosi prossima alla sua esclusione dal-
Angela e Nicolas, invece, hanno annunciato un pieno accordo anche sugli altri temi che erano nell’agenda di questo bilaterale che ha impegnato nove ministri francesi, compreso il premier François Fillon, e otto ministri tedeschi. C’è stato accordo sulla sanguinosa crisi siriana, con l’annuncio della creazione di un gruppo di contatto degli «amici della Siria» e una telefonata di Sarkozy a Medvedev che continua a sostenere Bashir el Assad. E sono stati fatti passi avanti anche sul capitolo della «convergenza», come i francesi chiamano l’armonizzazione delle tasse sulle società nei due Paesi che dovrebbe scattare dal 2013 creando un ambiente comune per le imprese che dovrebbe essere di stimolo per l’estensione di un simile sistema al resto dell’Unione europea intaccando il tabù dell’autonomia dei regimi fiscali. Tutti punti senz’altro importanti. Ma a 75 giorni dalle elezioni presidenziali francesi, quello che più ha colpito – anche nel duetto televisivo trasmesso in serata in contemporanea su France 2 e sulla tedesca Zdf – è stato l’esibito appoggio della Merkel a Sarkozy. Un atteggiamento che ha suscitato anche dei malumori e qualche critica sulle due sponde del Reno.
l’euro, dichiari fallimento. Di conseguenza devono proteggere la Bce prima di subire una “puntura mortale”. In questa analisi bisognare prendere in considerazione anche il Fondo monetario internazionale: più l’Europa si protegge, minori sono le possibilità che il Fondo monetario internazionale intervenga versando un contributo supplementare al fondo di salvataggio. I leader europei esitano a chiedere un contributo più importante all’Fmi, ma per la Bce questo gioco è pericoloso. Se infatti l’Fmi decidesse di non fornire fondi complementari, la Bce si troverebbe completamente esposta in caso di fallimento. In questo caso è meglio prendere delle contromisure e lasciare che il Fondo monetario giochi le sue carte come preferisce. Il più immediato rischio di un fallimento della Grecia potrebbe essere la controversia sulle perdite in cui incorrerebbero i titolari delle obbligazioni greche se il fondo di soccorso per la Grecia dovesse essere utilizzato. Ma
Il leader liberale e ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, già prima della partenza da Berlino, aveva invitato la Cancelliera a «mantenere un certo riserbo» sulla corsa all’Eliseo e i socialisti francesi adesso si dividono tra l’ironia e l’irritazione. Nella conferenza stampa di ieri a Parigi, a chi le ha chiesto se avrebbe incontrato anche François Hollande, Angela Merkel non ha risposto, limitandosi a dire che trovava «del tutto naturale dare una mano all’amico Sarkozy». E sulla questione della ratifica del Trattato intergovernativo sul fiscal compact, il Presidente non ha esitato a definire anti-europeo l’atteggiamento del suo sfidante: «Ricordo a chi non lo sa o l’ha dimenticato che i trattati non sono proprietà privata di chi li firma, ma impegnano tutta la Nazione».
È la politica interna che si affaccia prepotente anche su un palcoscenico internazionale. Del resto l’appuntamento del 22 aprile (primo turno presidenziale) e del 6 maggio (ballottaggio) è troppo importante per rimanere dietro le quinte. Anche perché la lotta si annuncia serrata. Nell’ultimo sondaggio il socialista Hollande conferma il suo vantaggio, ma per la prima volta c’è il sorpasso del candidato centrista François Bayrou (31 per cento) nei confronti di Sarkozy (che è a quota 30). Due mesi e mezzo al voto sono ancora tanti e Sarkozy spera di recuperare. Del sondaggio, più che alle attuali intenzioni di voto, guarda alla classifica dei temi che interessano l’opinione pubblica: il 71 per cento ritiene che il prossimo Presidente dovrà risolvere il problema dell’occupazione, il 42 vuole salvare il suo potere d’acquisto, il 27 è preoccupato dal deficit pubblico, il 20 per cento chiede più sicurezza. E’ su queste emergenze che si giocherà l’Eliseo. Con o senza l’aiuto di Angela Merkel.
un accordo probabilmente non basterebbe a evitare il fallimento. Molto probabilmente l’haircut (overo la riduzione del debito) sarà così pesante che le agenzie di rating non potranno definirlo “volontario”, e di conseguenza parleranno di una forma camuffata di fallimento.
Nessuno sa cosa succederà (questa situazione potrebbe far scattare i meccanismi di risarcimento dei titolari del debito e la perdita delle garanzie della Bce per le banche). In questo clima di incertezza la priorità è proteggere la Banca centrale europea. Finora quasi tutti i tentativi dei leader europei sono falliti. Per questo la crisi non è ancora finita. Ma se i politici non dimostreranno più efficacia nel difendere la Bce, sarà troppo tardi per salvare l’istituzione e l’euro. La Bce deve poter utilizzare le entrate fiscali. Il momento di fornire delle garanzie alla Banca centrale è arrivato. © De Tijd
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iceva una volta Giorgio Guglielmo Federico Hegel che non si può dare una risposta intelligente ad una domanda sciocca. La domanda sulla quale si affaticano ormai da qualche tempo le menti migliori del paese, sia al bar dello sport che sui più seriosi quotidiani è: il posto fisso è bello o brutto? Io mi sono domandato come avrebbe risposto quel saggio di mons. De Lapalisse. Credo che, più o meno, se la sarebbe cavata così: è bello passare da un posto ad uno migliore, è brutto passare da un posto ad un altro peggiore. Bruttissimo poi è passare dal lavoro alla disoccupazione. Invece di discettare in astratto sulla bellezza del posto di lavoro fisso faremmo bene a cercare di capire cosa sta succedendo nel mercato del lavoro del nostro paese e cosa possiamo fare per aumentare la mobilità positiva (quella in cui si va a stare meglio) e diminuire la mobilità negativa (quella in cui si va a stare peggio).
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Cominciamo con una affermazione di principio: l’uomo non è una merce che si può liberamente vendere e comprare e che, se nessuno vuole il suo lavoro, può anche tranquillamente morire di fame. Il lavoro ha due lati. In quanto forza che trasforma la realtà (nel suo aspetto “oggettivo” direbbe Giovanni Paolo II) il lavoro può anche essere una merce ma il lavoro è anche espressione della persona del lavoratore (ha un lato “soggettivo” direbbe sempre Giovanni Paolo II) e come tale non è semplicemente una merce. Tutta la storia del movimento operaio è centrata sulla tutela del diritto alla dignità e del diritto al lavoro indissolubilmente congiunti. Per questo istintivamente ogni lavoratore si ribella alla idea che qualcuno abbia il diritto di licenziare in modo arbitrario, senza motivo. Molti politici non sanno quanto sia brutto essere disoccupati. Il mondo ti dice: non abbiamo bisogno di te, il tuo lavoro non ci serve e della tua vita non ci importa. È come la rottura di un rapporto di lealtà originario che lega l’uomo all’uomo e ci rende membri della stessa comunità. Dio ha creato la terra e la ha data agli uomini, a tutti gli uomini, perché da essa attraverso il loro lavoro potessero trarre il loro sostentamento. Attraverso il licenziamento è come se la società escludesse il disoccupato da questo dono originario di Dio, è come se gli dicesse: il dono della terra non è per te. Non bisogna sottovalutare la umiliazione e la insicurezza esistenziale che sperimenta il disoccupato, soprattutto il disoccupato di lunga durata. Il movimento dei lavoratori in tutte le sue varianti ha cercato di salvare l’uomo da questa condizione di irrilevanza, ha cercato di dare sicurezza e dignità. Nel cuore di ogni uomo c’è un fondo di insicurezza, di dubbio radicale su se stesso, sulla propria dignità e sul proprio valore. La disoccupazione sembra essere la conferma evidente di questo dubbio. Il movimento dei lavoratori, laico, socialista e cristiano, ha cercato di non lasciare solo l’uomo in questa situazione. Quando parliamo di mercato del lavoro dobbiamo sempre dire prima di tutto che facciamo nostra quella storia di solidarietà, che non intendiamo abbandonare nessuno. Se rivisitiamo i meccanismi di solidarietà che tutelano i lavoratori nella nostra società non lo facciamo per lasciare gli uomini soli ed abbandonati davanti al bisogno ma per migliorare la efficienza di quei meccanismi e, in definitiva, per fare in
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La manutenzione Le regole del mercato del lavoro vanno cambiate. La soluzione è riformare la cassa integrazione distinguendo tra le crisi momentanee e quelle di sistema di Rocco Buttiglione modo che gli uomini abbiano un lavoro più sicuro e migliore.
La questione della riforma del mercato del lavoro è stata affrontata dapprima come questione dell’art. 18. L’art. 18 dello statuto dei lavoratori tutela i lavoratori contro la possibilità di un licenziamento ingiustificato. Io sono andato a leggere quell’articolo e, per la verità, non ci ho trovato nulla di scandaloso. Chi può pensare che sia giusto che un giorno il lavoratore si senta dire: tu te ne vai, qui per te non c’è posto senza nessuna giustificazione e senza motivo alcuno. Si può privare un uomo del lavoro senza ragione? Gli imprenditori che vogliono abolire l’art. 18, d’altro canto, non sono tutti dei sadici che vogliono esercitare un potere arbitrario ed illimitato. Se parli con loro, ti raccontano storie di
Tutta la storia del movimento operaio è centrata sulla tutela del diritto alla dignità e del diritto al lavoro indissolubilmente congiunti operai condannati per furti, e per violenze, che non è stato possibile licenziare e che hanno reso irrespirabile l’atmosfera di interi reparti e paralizzato l’organizzazione del lavoro con il rischio reale di mandare in rovina l’impresa con rischio grave, alla fine, del lavoro di tutti. La verità è che ci sono state, nella magistratura del lavoro, tendenze interpretative dell’art. 18 convinte che non esista alcuna giusta causa per il licenziamento. Forse è necessario intervenire più sulla magistratura del lavoro (dove per la verità sembra che sia in corso una certa revisione delle tendenze prima dominanti) che sulla lettera della legge. Raffaele Bonanni ha detto che l’art. 18 ha bisogno di una buona manutenzione ma non può essere abolito. Forse ha ragione lui.
Di manutenzione l’art. 18 ha bisogno anche per un altro motivo. Esso è in realtà un privilegio dei dipendenti dello Stato e delle grandi aziende (intendendo per grandi quelle con più di 15 dipendenti). Nelle piccole imprese l’ art. 18 non vale. Si può licenziare liberamente
pagando una penale. Per di più esiste una moltitudine di contratti di lavoro atipici che non prevedono per i lavoratori nessuna protezione e nessuna garanzia. I giovani lavorano per lo più con questi contratti atipici. È stato Marco Biagi a inventarsi i contratti atipici. Lo ha fatto in un momento in cui la interpretazione prevalente dell’art. 18 era assolutamente rigida. Le aziende non assumevano perché non se la sentivano di prendersi in carico nuovi lavoratori se non in caso di assoluta necessità. I contratti atipici in parte risposero effettivamente alla emergenza di nuove forme di lavoro a metà strada fra il lavoro indipendente ed il lavoro dipendente. In parte (maggiore) permisero di assumere dei giovani facendo finta che si trattasse di lavoratori autonomi o di nuove professionalità mentre si trattava in realtà di lavoratori dipendenti “tradizionali” privi delle tutele cui in realtà avrebbero avuto diritto. È ovvio che quando c’è da licenziare è su questi lavoratori che cade il peso dei licenziamenti. Abbiamo dunque tre categorie principali di lavoratori: quelli delle grandi aziende e dello stato che hanno molti diritti e che sono praticamente illicenziabili, anche se non fanno il loro dovere; quelli delle piccole aziende che hanno un contratto a tempo indeterminato ma possono essere licenziati pagando una penale; gli atipici che non hanno nessun diritto e sono sottoposti anche ad alcune particolari vessazioni. Per mantenere la finzione che in questi casi si tratta di lavoratori indipendenti e non di lavoratori dipendenti essi devono periodicamente venire dismessi per qualche mese. Se questo non avvenisse essi potrebbero rivendicare davanti al giudice del lavoro un contratto a tempo indeterminato. Rimangono quindi periodicamente disoccupati per qualche mese. Naturalmente questi lavoratori non sviluppano un grande attaccamento alla azienda. Sono sempre alla ricerca di un lavoro stabile o comunque migliore. L’ azienda lo sa e non investe sulla loro formazione professionale. È questo il lavoro non fisso che i giovani non vogliono e davanti al quale il posto fisso diventa un sogno. L’ idea che si debba procedere verso una condizione di maggiore eguaglianza non è sbagliata. Il ministro Fornero sa benissimo cosa fare e non ha bisogno di consigli. A me comunque sem-
bra che si possa ragionevolmente chiarire il senso dell’art. 18, avvicinare le garanzie del lavoratore della grande e della piccola azienda, dare una protezione dei diritti ai giovani che oggi lavorano con contratti atipici. Si potrebbe pensare ad un contratto non unico ma prevalente (è giusto infatti salvaguardare tipologie contrattuali nuove quando esse corrispondono effettivamente a forme di lavoro nuove, a metà strada fra il lavoro dipendente e quello indipendente) con un periodo iniziale di apprendimento e prova. Al termine di questo periodo (per esempio tre anni) si può procedere con un contratto a tempo indeterminato protetto da un art. 18 ragionevolmente precisato e reinterpretato.
Il problema più grave, però, non è tanto l’art. 18 quanto la cassa integrazione. Quando c’ è la crisi, quando non riesce a vendere i suoi prodotti sul mercato, una azienda americana licenzia i lavoratori. Una azienda italiana li mette in cassa integrazione. In America il licenziamento mette in libertà da un lato i lavoratori (nel senso che diventano disoccupati) e dall’altro l’imprenditore e i suoi capitali. L’ imprenditore trova qualcosa di nuovo da fare, per cui c’è domanda sul mercato, investe e crea nuovi posti di lavoro. I licenziati trovano nuovi posti di lavoro nelle aziende nuove che si sono create. In Italia le cose vanno diversamente. L’azienda non licenzia ma mette il persona-
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e del posto fisso Cancellieri: «Basta con l’impiego vicino a mamma e papà» ROMA. «Questo governo è stato chiamato a fare scelte impopolari, il cui senso è restituire all’Italia una prospettiva di crescita, dove i beneficiari siano in primo luogo i giovani». Con queste parole il ministro del Lavoro Elsa Foriero è tornata sul tema della riforma del mercato del lavoro parlando agli studenti dell’Università di Torino. E ha aggiunto: «Noi non vogliamo che non esista la possibilità di licenziare, ma che chi è stato licenziato sia aiutato dalle istituzioni e dall’azienda di trovare in tempi ragionevoli una nuova occupazione». Sul tema del lavoro e del “posto fisso”è intervenuta anche il ministro dell’Interno Cancellieri che, parlando in tv, ha chiosato dicendo che «il mondo sta cambiando mentre molti italiani ancora pendsano al lavoro fisso vicino a casa di mamma e papà!»: un’affermazione che susciterà molto rumore. Di tutt’altro tono una dichiarazione di Susanna Camusso in risposta a Raffaele Bonanni che, parlando della possibilità di una «manutenzione dell’Articolo 18», aveva fatto una mezza apertura al governo. «Una manutenzione dell’articolo 18 intesa come diminuzione della sua efficacia non è giusta e nemmeno necessaria», ha detto la leader della Cgil.
Noi abbiamo una cassa integrazione ordinaria che è dimensionata solo sulle difficoltà congiunturali patite dalle aziende le in cassa integrazione. I dipendenti non lavorano ma ricevono l’ 80 per cento del salario e aspettano che alla ripresa della economia ci sia di nuovo per loro la possibilità di lavorare. Se la crisi è una crisi congiunturale il sistema (più o meno) funziona. Quando c’è la ripresa economica si riprende a produrre più o meno le stesse cose che si producevano prima. A volte però (soprattutto in questi ultimi anni) le crisi non sono congiunturali ma strutturali. Una causa delle crisi strutturali è la ricerca scientifica e la innovazione tecnologica. Immaginiamo che si realizzino nuove leghe in alluminio che sono più resistenti e meno costose di certi tipi di acciaio. Nel settore dell’ acciaio scompariranno molti posti di lavoro e non solo per un breve periodo congiunturale ma per sempre. Quei posti di lavoro non ci sono proprio più e nessuna lotta sindacale e nessuna politica industriale sarà in grado di farli rivivere. Altre crisi strutturali sono l’effetto del miglioramento dei mezzi di trasporto, della caduta delle barriere doganali e dell’ingresso nel mercato mondiale delle
nuove economie. Fino a qualche anno fa i cinesi erano rassegnati a morire di fame fuori del mercato mondiale e con un regime comunista. Adesso sono entrati nel mercato e ci fanno concorrenza usando il vantaggio competitivo di un numero enorme di lavoratori pronti a lavorare per salari irrisori. Navi enormi trasportano a basso costo grandissime quantità di merci dalla Cina all’Europa. I nostri settori che fanno le stesse cose dei cinesi non sono in grado di reggere la competizione e chiudono. Anche qui scompaiono posti di lavoro e scompaiono in via definitiva. Certo potremmo, come qualcuno propone, circondarci di barriere doganali, dire ai cinesi che non hanno il diritto di migliorare la loro condizione attraverso il lavoro ed il commercio. Essi trarranno allora giustamente la conclusione che l’unico modo di migliorare le loro condizioni di vita è farci la guerra... Forse è preferibile ristrutturare il nostro sistema produttivo ed imparare a fare cose che i cinesi (e gli indiani, i brasiliani, gli indonesiani ....) ancora non sanno fare.
Ma torniamo ai problemi del nostro mercato del lavoro. Noi abbiamo una cassa integrazione ordinaria che è dimensionata sulle crisi congiunturali. Abbiamo però anche una cassa integrazione straordinaria che tiene in vita artificialmente posti di lavoro che non esistono più e non torneranno in vita mai più.
I cassaintegrati spesso non se la cavano male. Trovano qualche lavoretto in nero per arrotondare e così se la cavano. Ma è giusto? È sensato? È morale ? Se paragoniamo l’ andamento della crisi in America e in Italia vediamo che le crisi in America all’inizio sono molto più severe che da noi. La disoccupazione cresce rapidamente ed altrettanto rapidamente diminuisce il Prodotto Interno Lordo (Pil). Le crisi però in America durano anche poco. Dopo un breve periodo inizia la ripresa. Il sistema si adatta rapidamente ai cambiamenti del mercato mondiale. In Italia invece è vero il contrario. La discesa del Pil e la crescita della disoccupazione sono frenate dalla cassa integrazione ma la ripresa è difficile e lenta. Troppe energie sono bloccate dalla difesa ostinata di posti di lavoro che in realtà non esistono più. Il sistema americano sembra più efficiente, quello italiano sembra più solidale, non abbandona la persona sola davanti alla disoccupazione. Ma c’è una terza via? Forse c’è. Per difendere il lavoratore il sistema italiano difende ostinatamente il posto di lavoro. In Germania (ma anche in altri paesi europei) hanno separato la difesa del lavoratore da quella del posto di lavoro. In caso di crisi congiunturale non c’ è la cassa integrazione ma ci sono i contratti di solidarietà per cui il numero ridotto di ore di lavoro viene diviso fra tutti i lavoratori. Quando però la crisi è strutturale non c’
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è nessuna cassa integrazione straordinaria. Le aziende licenziano e si ristrutturano senza perdere tempo passando a nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione. Il lavoratore licenziato, però, non viene abbandonato a se stesso. Egli riceve una indennità di disoccupazione di importo più o meno simile a quello della nostra cassa integrazione. Egli riceve inoltre una informazione sui nuovi posti di lavoro che si vanno creando ed una offerta formativa per essere messo in grado di occuparli.
Lo scopo è di accompagnare il lavoratore da posto di lavoro a posto di lavoro, trasformare il disoccupato in un lavoratore occupato nel miglioramento delle proprie capacità nello sforzo di fare in modo che la mobilità sia una mobilità positiva, cioè che alla fine il nuovo posto di lavoro sia migliore di quello vecchio. Il sistema tedesco chiede anche un cambiamento di mentalità ai lavoratori ed a questo si riferiva in realtà la battuta del presidente del consiglio sul fatto che il posto di lavoro fisso in realtà è un po’ noioso. Una volta un giovane, quando aveva raggiunto il famoso posto fisso, in quello si accomodava nella convinzione che lì sarebbe rimasto per tutta la sua vita lavorativa. Si studiava fino ad una certa età e poi si lavorava. Adesso non è più così. Il giovane lavoratore deve sapere che nel corso della sua vita lavorativa gli potrà capitare di doversi riqualificare anche più di una volta, talvolta rimanendo nella stessa azienda con mansioni diverse, talvolta cambiando azienda. Dovrà quindi curare sempre e migliorare la propria preparazione professionale, essere pronto a cambiare e magari anche andarsi a cercare lui nuove opportunità che corrispondono meglio alle sue aspirazioni ed ai suoi desideri. Riqualificare un lavoratore che negli ultimi trenta anni non ha aperto un libro e non ha frequentato nessun corso di aggiornamento professionale può essere molto difficile. Assai più facile è riqualificare qualcuno che in realtà non ha mai smesso di studiare, di aggiornarsi e di migliorare se stesso. Il sistema europeo mantiene un livello elevato di protezione del lavoratore ma, contemporaneamente, lascia libera l’azienda di fare il suo mestiere adattandosi alla domanda del mercato e creando nuove fonti di ricchezza. I sindacati italiani sbaglierebbero a guardare a questo nuovo sistema con diffidenza. Il vero problema è che il sistema nuovo costa probabilmente più della cassa integrazione. Chi paga? Le imprese sono pronte a pagare di più per avere maggiore flessibilità? Quali risorse può mettere in campo lo Stato? Ci sono meccanismi (ed eventualmente quali sono) che consentono un passaggio graduale dal vecchio al nuovo sistema? Senza una buona riforma del mercato del lavoro non riusciremo a compensare lo spread della produttività fra il nostro paese ed i nostri partners europei, spread che è più importante di quello fra i rendimenti dei nostri titoli di stato e quelli dei titoli tedeschi. La buona riforma deve però coniugare le ragioni della efficienza con quelle del rispetto della dignità del lavoratore e della solidarietà. Questo sarà possibile se si metteranno da parte gli ideologismi e ci si confronterà sui problemi reali e sulla base dei valori fondamentali.
politica
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Il regolamento prevede una decisione così drastica solo in caso di condanna definitiva, ma la richiesta di patteggiamento ha convinto il partito a forzare le regole
Lusi, cartellino rosso Espulsione dal Pd per l’ex tesoriere della Margherita. Ma le polemiche tra i vecchi dirigenti non si placano di Marco Palombi
ROMA. L’hanno espulso e nessuno avrebbe scommesso un euro su un esito d’altro genere. Il Comitato di garanzia del Pd, guidato da Luigi Berlinguer, ha deciso che l’altro Luigi, nel senso di Lusi, non poteva in alcun modo rimanere iscritto al
Partito democratico: «È incompatibile col Pd», hanno sostenuto i Garanti. Giudizio inappellabile, peraltro, ha spiegato Berlinguer. Il caso, come sanno anche i sassi, riguarda i 13 milioni di euro che l’ex tesoriere della Margherita (s’è dimesso il 25 gennaio, quando l’inchiesta della procura di Roma era già avviata e Francesco Rutelli era stato sentito da una settimana) avrebbe sottratto al conto del suo partito attraverso la bellezza di novanta bonifici bancari: Lusi, anche questo fatto noto, sta tentando - finora con scarso successo - di patteggiare la pena. E qui, per così dire, casca l’asino: lo statuto del Partito democratico, infatti, prevede l’espulsione dei suoi iscritti solo in caso di condanna di terzo grado, ovvero definitiva. Il fatto che il senatore-ex tesoriere
stia patteggiando la pena, però, è stato considerato come una sorta di ammissione di colpevolezza. Il Pd, d’altronde, ha bisogno di dissociare in maniera radicale la sua immagine da tutta questa vicenda: Lusi è sì un suo senatore, è sì l’uomo che ha gestito insieme al diessino Ugo Sposetti il matrimonio finanziario tra i due partiti fondatori, ma la sottrazione di fondi riguarda la Margherita, un partito defunto, e investe pesantemente il cointestatario del conto corrente incriminato, quel Francesco Rutelli, presidente ieri come oggi del parti-
Luigi Lusi ieri è stato espulso dal Partito democratico, anche se, ovviemente, resta senatore. Il Pd ha voluto forzare i tempi per non restare invischiato in alcuna polemica sui 13 milioni di euro sottratti dall’ex-tesoriere alla Margherita. Non si placano, comunque, le polemiche: Linda Lanzillotta ha parlato di «mancato controllo» da parte di Rutelli
Ancora una volta c’è un corto circuito che favorisce l’antipolitica
Cambiamo la legge, prima che sia troppo tardi Regole certe, tetto alla spesa e controlli sicuri sui conti: ecco ciò che si deve fare subito per ”salvare” la politica di Giancristiano Desiderio l “caso Lusi” - dal nome del tesoriere della Margherita che ha confessato di aver imboscato la bellezza di 13 milioni di euro mentre i vertici del partito guardavano chissà dove - riapre un altro caso che in realtà non è stato mai realmente chiuso: il finanziamento pubblico dei partiti. Tutto ruota intorno ai soldi che lo Stato versa ai partiti. A tutti i partiti. Anche a quei partiti che sarebbero contrari, almeno in linea teorica, al finanziamento pubblico ossia l’Italia dei valori che ha come suo leader Antonio Di Pietro, vale a dire - perché la storia ha un suo significato e quindi va citata - l’ex pubblico ministero di Mani Pulite che proprio sul finanziamento ai partiti fece leva per sollevare il sistema partitocratico della Prima repubblica e - particolare di assoluto rilievo per aprire la strada all’abolizione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti.
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La legge del 1974, approvata da tutti i partiti dell’epoca con la sola eccezione del partito liberale, era una legge scriteriata che con la scusa di finanziare direttamente i partiti per evitare che percepissero finanziamenti occulti creò la corporazione dei partiti privilegiati perché inseriti in un ingranag-
gio di finanziamenti dal quale altri eventuali partiti venivano esclusi perché non presenti in Parlamento. La legge, come era facile prevedere e come fu invano previsto, diede di sé una pessima prova: i finanziamenti occulti non diminuirono ma aumentarono ed a questi si sommarono anche i soldi dello Stato. Con lo scoppio di Tangentopoli, che lo scomparso Giorgio Bocca volle chiamare con un bel po’ di enfasi “rivoluzione italiana”, ci fu il referendum che abolì la legge ma non il finanziamento. Infatti, la legge del 1974 accoglieva il principio maldestro e pernicioso del duplice finanziamento ossia del finanziamento per il rimborso delle spese e del finanziamento per l’attività funzionale dei partiti. Dopo il referendum la legge sul finanziamento pubblico è diventata la legge per il rimborso delle spese elettorali. Purtroppo, anche in quest’ultima versione la cosa non funziona. Ora, se il “caso Lusi” ha un senso, e uno bisogna acconciarsi a darglielo, bisogna mettere da banda peli e ipocrisie e riformare in modo più stringete il rimborso elettorale e in generale i finanziamenti pubblici dei partiti. Come? Evidentemente la legge va riformata su due punti: controllo e spesa.
politica
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to-zombie, nel frattempo uscito dalle fila democratiche per fondare l’Api, uno dei partiti del Terzo Polo. Questo è il motivo della scelta netta e proceduralmente insolita che il Pd ha preso ieri pomeriggio, anche se – al riparo dell’anonimato – non mancano voci critiche: «Così si crea un precedente», è l’obiezione. Oltre a Lusi, infatti, il solo Riccardo Villari è stato cacciato dal Pd. Motivo: essersi fatto eleggere dal Pdl a capo della Vigilanza Rai contro le decisioni del partito. Motivi politici o giù di lì, come si vede. Cacciando Lusi – per quanto in via di patteggiamento – si aprirebbe la via all’espulsione giudiziaria senza giudizio: «Basterebbe un’inchiesta per vedersi processare dal Comitato di garanzia: e se poi si viene assolti? Lusi, d’altronde, è stato già espulso dal gruppo a palazzo Madama e s’è autosospeso dal partito: che fretta c’era?».
“caso Lusi” sia perché è assurdo ciò che ci dice con candore il revisore contabile del lavoro di tesoreria di Lusi: una revisione fatta solo sulle voci previste dalla legge ma non sulle spese non ha alcun senso. I revisori dei conti non devono essere “un po’ anomali” ma normali e devono fare il loro lavoro, ossia far di conto e confrontare le voci con le spese perché sapere e dire con chiarezza dove vanno a finire i soldi pubblici e il primo compito della vita di un uomo politico che ha l’ambizione di amministrare lo Stato. Inoltre, chi svolge il ruolo di revisore deve essere effettivamente terzo rispetto ai partiti e rispetto al Parlamento o chi eroga i fondi: non è possibile che ci sia sovrapponibilità o contiguità o vicinanza di alcun genere tra il controllato e il controllore. Se si deve arrivare al punto che per avere bilanci seri ci deve essere un controllo della Guardia di Finanza, ebbene, che siano gli agenti della Finanza a svolgere il ruolo di revisori contabili. Non è detto che i controlli fiscali vadano fatti solo a Cortina, a Milano e al barista che non rilascia lo scontrino.
Sono passati vent’anni da Mani pulite, quando l’Italia scoprì in modo drammatico il nodo (mai del tutto sciolto) del finanziamento I partiti in generale percepiscono troppi soldi sui quali non c’è un adeguato controllo. Giovanni Castellani, il commercialista che ha svolto la funzione di revisore contabile dei bilanci della Margherita, ha detto testualmente: «I revisori dei partiti sono dei revisori un po’ anomali. Noi facciamo un controllo sul rispetto delle voci previste dalla legge, ma non sulle spese, altrimenti sarebbe un lavoro infinito che non possiamo fare». È evidente sia perché è scoppiato il
C’è poi il capitolo del quanto dare. È bene che il rimborso abbia un tetto oltre il quale non è né lecito né giusto andare. Troppo spesso nelle liti familiari dei partiti politici c’è di mezzo un vero e proprio tesoretto. Ancora una volta il “caso Lusi” lo dimostra in modo geometrico, matematico e finanziario: se possono sparire 13 milioni di euro senza lasciar traccia e senza colpo ferire, allora, da quanti soldi era costituito il patrimonio della Margherita e quanti soldi maneggiano i partiti senza lasciar traccia contabile? Insomma, tutto deve essere più chiaro, più certo, più piccolo. Ben sapendo, al contrario di quanto si possa far credere, che il finanziamento pubblico dei partiti non è un principio a garanzia della vita democratica. Ma se i partiti non lo sanno rendere trasparente con una giusta riforma ne stanno di fatto decretando la giusta abolizione.
Nessuno si espone, però, perché il clima dentro al Pd, o meglio tra gli ex Margherita dentro e fuori il Partito democratico, è tesissimo. Conviene, dunque, spiegare perché. Tutto inizia nel 2008.“Democrazia e Libertà”, la Margherita per gli amici, rassemblement assai eterogeneo nato per fare il centro del centro-sinistra, cessa di esistere politicamente diluendosi nel Partito democratico. Non finanziariamente però: Dl e Ds, i due partiti fondatori, rimangono ancora in vita come percettori dei rimborsi elettorali per le elezioni del 2006 (grazie ad una leggina, infatti, all’epoca i partiti percepivano i fondi per cinque anni anche in
la a Genzano (dove risiede) per 2,8 milioni, altri cinque se ne vanno in tasse e altri 3,5 milioni non si sa bene che fine abbiano fatto. O forse non è così? Questo è il sospetto di alcuni: risulterebbe infatti che per le case il nostro abbia acceso dei mutui, non utilizzando dunque i soldi della Margherita. E allora? Qui il giallo si mischia coi veleni del partito morto.
«Mi assumo la responsabilità per tutto e per tutti», avrebbe messo a verbale Lusi. Frase (non troppo) sibillina. In sostanza - è la teoria di chi sostiene “tutti colpevoli” - quei soldi che non si sa che fine abbiano fatto sono stati distribuiti tra le varie correnti della ex Margherita: rutelliani, ex Ppi (Fioroni), lettiani, franceschiniani e via dicendo. Lo testimonierebbe il fatto che i bilanci del partito in questi anni furono approvati senza che nessuno sollevasse dubbi. Quasi nessuno, per la verità: a protestare furono quelli tradizionalmente esclusi dalla gestione della cassa come i prodiani (Parisi), qualche cane sciolto (Castagnetti) e i fuoriusciti (i diniani, gli Udc Carra e Lusetti, altri), ma nessuno che avesse intuito un vero e proprio “furto” ai danni del partito. Luigi Neri - l’unico su 12 presenti nell’Assemblea di giugno ad aver votato contro i bilanci presentati da Lusi (con in più lo scandalo che il verbale riporta invece un voto a favore all’unanimità) - raccontò che alle sue contestazioni su alcune “uscite opache” il tesoriere rispose che quattro milioni erano stati impegnati per la campagna per le primarie di
Ancora una volta Lanzillotta, pur parlando solo di «mancato controllo» da parte di Rutelli, ha ripetuto che «chiaramente adesso al nostro interno si apre un problema politico» caso di interruzione anticipata della legislatura). Se, però, gli ex Pci-Pds-Ds, ricchi di storia, debiti e immobili, decidono di affidare il loro patrimonio a una galassia di fondazioni che salvaguardino il patrimonio storico-culturale del vecchio partito di classe, i Dl – che un’identità e il minimo sindacale di solidarietà politica non ce l’hanno avuta mai – scelgono di non scegliere: il tesoriere, Luigi Lusi appunto, e il presidente Francesco Rutelli, rimangono ai loro posti in attesa di capire come muoversi. Nel frattempo, percepiscono i contributi pubblici e pure l’affitto che il Pd versa per occupare la sede di via del Nazareno, di proprietà proprio della Margherita. È così che s’accumula il tesoretto di venti milioni di euro da cui l’avvocato ed ex boy scout Lusi sottrae i famosi 13 milioni: ci compra, dicono le cronache, una casa nel centro di Roma da 1,8 milioni, una vil-
Dario Franceschini. Quest’ultimo ha smentito seccamente e il suo staff ha fatto sapere che la spesa complessiva dell’ex segretario del Pd in quell’occasione fu 250mila euro, tutti certificati (cifra decisamente bassa, però, visto che vuol dire 12mila euro a regione). Pure il rottamatore Matteo Renzi ci ha tenuto a specificare di non aver ricevuto alcun finanziamento: Lusi si limitò a dichiarare il suo appoggio politico agli happening alla stazione Leopolda del sindaco di Firenze. Ci penseranno i magistrati, probabilmente, a sciogliere l’arcano ed è facile previsione: il paesaggio politico “moderato” dentro e fuori il Pd sarà parecchio diverso quando avranno finito. Linda Lanzillotta dell’Api, ad esempio, che pure imputa al suo leader Rutelli solo «il mancato controllo» su Lusi, sostiene che «chiaramente adesso al nostro interno si apre un problema politico».
società
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Due “questioni di governo” che impegnano il Pontefice: l’affaire Viganò e la trattativa per il rientro dei lefebvriani
Le spine di Benedetto La crisi della fede pesa più delle finanze e dell’interpretazione del Vaticano II di Luigi Accattoli overo Papa: è tutto concentrato sulla “crisi della fede” e deve invece occuparsi in queste settimane di questioni di governo grandi e piccole che sono per lui vere spine nella carne. Due in particolare: quella grande della trattativa per il rientro dei lefebvriani, che rischia di fallire; e quella piccola della lotta interna al Vaticano sulla gestione del denaro e degli appalti. Su questa seconda abbiamo avuto sabato 4 febbraio un comunicato che sconfessa duramente l’arcivescovo Viganò. Sulla prima c’era stato un rilancio da parte lefebvriana due giorni prima, in occasione della Candelora.
P
Partiamo dalla questione piccola riguardante l’iniquo mammona. I fari dei media tornano a esplorare la selva oscura delle finanze vaticane, stavolta quelle del Governatorato, il 25 gennaio con la trasmissione Gli intoccabili di Gianluigi Nuzzi su La7, che
dà conto di due lettere - ovviamente riservate - del nunzio a Washington Carlo Maria Viganò che l’anno scorso si appellava al Papa (il 27 marzo) e al Segretario di Stato Bertone (8 maggio) contro il suo “passaggio” da segretariato del Governatorato a nunzio negli Usa, affermando di essere vittima di una congiura che voleva allontanarlo da quell’incarico avendo egli contrastato una gestione con caratteristiche clientelari e omertose, responsabile di gravi abusi. Nonostante quei ricorsi al Papa e al cardinale Bertone l’ottobre scorso Viganò viene mandato nunzio a Washington. La sua presenza al Governatorato era durata due anni ed era stata caratterizzata da un drastico riordino di procedure e competenze con forte taglio di spese e rapido miglioramento del bilancio. Non conviene addentrarsi nelle accuse mosse da Viganò e nelle contestazioni a esse che sono venute dal comunicato di sabato. Teniamoci alla sostanza della vicenda. In risposta al clamore sollevato dalla trasmissione, il 26 gennaio il portavoce vaticano Lombardi aveva riconosciuto “aspetti molto positivi” alla gestione Viganò, pur invitando a una “valutazione più adeguata” delle circostanze che avevano favorito il “risanamento”; ma soprattutto conte-
Mons. Viganò e, al centro, Benedetto XVI. In basso, Mons. Fellay, superiore della Fraternita San Pio X, che ha recentemente dichiarato l’impossibilità di firmare il “preambolo dottrinale” proposto dalla Santa Sede stava - alla trasmissione e indirettamente a Viganò - la presentazione della gestione del Governatorato come caratterizzata “in profondità da liti, divisioni e lotte di interessi”. Importante era poi la conclusione: «Va riaffermato decisamente che l’affidamento del compito di nunzio negli Stati Uniti a mons. Viganò è prova di indubitabile stima e fiducia da parte del Papa». Il comunicato di sabato - invece - si presenta come una contestazione in sette punti delle
È probabile che la divulgazione delle lettere del nunzio a Washington, allora segretario del Governatorato, sia da attribuire a suoi avversari desiderosi di togliere autorevolezza al suo operato affermazioni contenute nelle due lettere di Viganò, nulla riconosce direttamente a costui e non accenna alla “fiducia” di cui egli gode come nunzio. C’è - tra i commentatori - chi tira la conclusione che quella fiducia non vi sia più. Non condivido questa lettura, né l’al-
tra - che pure è stata avanzata - di una revoca della “fiducia” attestata dal portavoce stante la maggiore autorità dei firmatari del comunicato. Non la condivido perché il portavoce parla a nome della Santa Sede - e dunque dietro le sue parole sulla “fiducia” dobbiamo ipotizzare l’avallo del Papa mentre i firmatari del comunicato parlano a nome proprio e dell’istituzione Governatorato di cui sono stati o sono responsabili. Si tratta infatti dei due cardinali, ex presidente e presidente, Giovanni Lajolo e Giuseppe Bertello, dell’attuale segretario Giuseppe Sciacca e dell’ex vicesegretario Giorgio Corbellini (che fu vice di Viganò, come Lajolo fu il suo superiore).
Pe r brevità la mia lettura degli eventi la sintetizzo in quattro punti. Primo: è vero che nella gestione del Governatorato vi sono stati abusi e zone oscure ed è altrettanto vero che il risanamento Viganò ha pestato i piedi a molti e creato - oggettivamente - una si-
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Fellay nel giorno della Candelora è una sua diretta formulazione dell’impossibilità di accettare i due punti riguardanti la libertà religiosa e l’ecumenismo, segnalati dal preambolo come decisivi: «I nostri interlocutori danno un altro significato [rispetto a noi] alla parola “tradizione” ed è per questo che siamo stati costretti a dire di no. Non firmeremo quel documento (…). Il problema è che in questo testo danno due esempi di cosa e come dobbiamo capire questi principi. Questi due esempi che ci forniscono sono l’ecumenismo e la libertà religiosa, come sono descritti nel nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, che sono esattamente i punti per i quali critichiamo il Concilio».
Che dobbiamo cavarne? Se non possono accettare quanto dice il Catechismo - che è stato elaborato sotto la direzione del cardinale Ratzinger e il cui Compendio è stato promulgato da Benedetto XVI poco dopo l’elezione - certo non potranno attendersi che venga accettata, da Papa Benedetto, la loro controproposta, così formulata da Fellay nell’omelia: «Se ci accettate così come siamo, senza cambiamenti, senza obbligarci ad accettare queste cose, allora siamo pronti. Ma se volete farci accettare queste cose, non lo siamo». “Così come sono” Roma non li può accettare - ciò è stato affermato da Paolo VI, da Giovanni Paolo II, da Bene-
Simposio alla Gregoriana
Vescovi a raccolta contro la pedofilia È iniaziato ieri alla Pontificia Università Gregoriana il primo simposio organizzato dal Vaticano dedicato alla pedofilia dei sacerdoti. Si intitola Verso la guarigione e il rinnovamento e riunirà fino al 9 febbraio trenta ordini religiosi e 110 delegati delle Conferenze episcopali di tutto il mondo pronti ad affrontare la piaga degli abusi sessuali sui minori all’interno della Chiesa e degli ordini religiosi in genere. Sul sito delle news del Vaticano c’è l’intervista a mons. Charles Scicluna, promotore di Giustizia presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, il quale fra le altre cose dichiara: «Parliamo di un fenomeno molto triste che non solo è peccato, ma anche delitto. In quanto delitto, c’è la giusta giurisdizione dello Stato e c’è il dovere di collaborare con questa giurisdizione penale statale».
tuazione di contrasto forse insostenibile. Secondo: lo spostamento di Viganò a Washington tendeva a rendere governabile quel contrasto, salvando il buono introdotto da Viganò (sia Lombardi sia i quattro affermano che si andrà avanti con “trasparenza e rigore”) e compensando il sacrificio di quest’ultimo con un’uscita onorevole. Terzo: il rilancio della querelle con la divulgazione delle due lettere di Vigano non credo sia da attribuire al nunzio - si tratterebbe di un gesto suicida - ma ai suoi avversari, non soddisfatti del compromesso di cui al secondo punto e desiderosi di togliere autorevolezza all’operato del Viganò. Quarto: la fiducia del Papa verso il nunzio Viganò può permanere nonostante il comunicato dei quattro perché costoro non hanno autorità su di lui, ma egli dovrà accettare il compromesso di cui al secondo punto che inizialmente aveva rifiutato, dando magari un segno pubblico di tale accettazione. Aggiungo due annotazioni. Una riguarda il “chi è” della fuga documentale: dico che non può essere Viganò perché sui fogli c’è il timbro con data “ricevuto il” della Segreteria di Stato: dunque non è il mit-
È prevedibile che la riconciliazione con la Fraternita San Pio X non ci sarà, data l’irriducibilità dei seguaci di Mons. Lefebvre su due punti essenziali: l’ecumenismo e la libertà religiosa tente che li fa fuggire, ma qualcuno dei riceventi. L’altra attiene al comunicato dei quattro: esso non aveva la finalità di determinare la sorte del nunzio Viganò, che ormai appartiene ad altra “amministrazione”, ma quella di ristabilire l’onorabilità dei vecchi e nuovi gestori del Governatorato.
E ora passiamo ai lefebvriani. Sapevamo già da interviste del “presidente della Fraternità San Pio X” e da indiscrezioni giornalistiche che il preambolo dottrinale che era stato consegnato loro dai rappresentanti della Congregazione per la dottrina della fede il 14 settembre scorso non aveva la loro “approvazione”: lo diceva con chiarezza il superiore della Fraternità, il vescovo Bernard Fellay, in un’intervista pubblicata il 27 novembre dal bollettino ufficiale online www.laportelatine.org) del distretto francese della Fraternità. Ciò che apprendiamo di nuovo dall’omelia dello stesso
detto XVI - e dunque dobbiamo cavare da quell’omelia un ulteriore argomento a favore di chi prevede che la riconciliazione non si avrà, almeno sotto questo Papa e con questa leadership della Fraternità. Ma conosciamo la pazienza e la prudenza del Papa. Io credo che non taglierà i ponti con il drammatizzante Viganò (credo cioè che favorirà, per quanto lo riguarda, la sua permanenza alla nunziatura di Washington) e credo che cercherà ancora una via d’uscita dall’impasse che si sta delineando con i lefebvriani. Ma non tanto per una sua fiducia nella soluzione in positivo delle due questioni ma per l’avvertenza che la vera questione è quella della fede: della possibilità o meno di credere oggi nel Dio di Gesù Cristo, al cui confronto la disputa sul governo delle finanze e persino quella sull’interpretazione del Vaticano II sono decisamente secondarie. www.luigiaccattoli.it
e di cronach
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Sono già una ventina le vittime del gelo e dell’indigenza E non rassicura lo scaricabarile di responsabilità delle istituzioni hi l’avrebbe mai detto che gli anni dieci del duemila avrebbero assomigliato così tanto agli anni dieci del novecento; quando ancora si moriva di freddo e di stenti, quando ancora si guardava al cielo come a una divinità capricciosa e feroce, quando s’attendeva l’arrivo della primavera come il ritorno d’una promessa di vita meno dura e viaggiare era un’avventura, arrivare una conquista. L’Italia avvolta da neve, ghiaccio e bufere è un paese paralizzato e spaventato, dove si muore di freddo, dove si resta in un treno fermo nella notte all’addiaccio per venti ore, dove il sistema su cui riponiamo le nostre sicurezze - quella filiera che va dalle amministrazioni comunali e provinciali all’esercito passando per la protezione civile e per la varie articola-
C
È in corso un rodeo, al limite della decenza, dove ognuno indica nell’altro lo Schettino su cui stornare l’indignazione generale zioni dello stato - va semplicemente in tilt, s’avvita su se stesso e come impazzito si esibisce in una rissa pubblica incrociando accuse, scaricando responsabilità: i comuni sulla protezione civile, le provincie sullo stato, i sindaci sull’esercito e le ferrovie. In un escalation di caos che conferma quella sensazione di stare vivendo tempi critici e di regresso civile, dove si è tornati a vivere lontano da quelle sicurezze psicologiche e materiali
apparentemente intaccabili che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra europeo ed occidentale. Cinquant’anni di relativa pace e benessere che sembravano dovessero essere una condizione definitiva della nostra vita e che invece cominciano ad apparire una felice parentesi della storia. Suggestioni? Certamente perché il pericolo percepito è maggiore di quello reale e sicuramente il rimbalzo mediatico dell’allarme e della polemica serve a moltiplicare la sensazione di insicurezza. D’altra parte che eventi atmosferici eccezionali producano eccezionali conseguenze è iscritto nella legge del mondo e non c’è prevenzione che tenga, non c’è efficienza che possa ovviare ai disagi di condizioni atmosferiche straordinarie. E che tali siano lo dimostra il fatto che nevica a Napoli, in Sicilia e persino in quella specie di paradiso terrestre che è l’isola di Ischia dove ieri era imbiancato il monte Epomeo. In questo senso le sicurezze che crediamo d’aver perduto sono anch’esse un’illusione ottica di fronte all’imprevedibilità della natura e all’impossibilità di esercitare su di essa un assoluto controllo. E però insomma c’è qualcosa che non torna, che non va, che produce angoscia giustificata. Non si può infatti rubricare nella normalità i numerosi casi di morti per freddo e per stenti.
MORIRE ASSIDERATI Muoiono i senza tetto e i clochard - ed è assurdo in un Paese che si dice civile e cristiano - ma muoiono assiderate anche persone che un tetto ce l’hanno ma la cui casa non è riscaldata perché gas e corrente non arrivano. Come la pensionata di 66 anni morta assiderata nella sua casa fatiscente a Palestrina vicino Roma o quel falegname bresciano, ucciso dagli
Il vero scandalo dell’emergenza-neve
C’è ancora un’Italia che muore di freddo di Riccardo Paradisi stenti e dal freddo nel suo box auto dove in seguito a rovesci economici e famigliari s’era ridotto a vivere. E che dire del camionista trovato morto all’interno del suo mezzo, in Abruzzo, lungo la strada statale Avezzano-Sora? Un panorama neo dickensiano che fino solo a dieci anni fa nemmeno l’ucronia più distopica e pessimista avrebbe previsto. E invece eccoci qui a tenere il rosario dei morti, dei dispersi, degli assiderati: una ventina di casi per ora, un bollettino di guerra, come si dice in questi casi. E a rassicurare certo non ci pensano la protezione civile o il polemico sindaco di turno o l’esercito. L’abbiamo detto: è l’intero sistema della prevenzione e dell’intervento a sembrare impazzito,
impegnato in un safari di caccia al capro espiatorio che lascia sconcertati, un rodeo al limite della decenza dove ognuno indica nell’altro lo Schettino di turno dove stornare l’indignazione generale. E così mentre il ministro dell’Interno Cancellieri addita nei sindaci i primi responsabili dei disagi questi replicano che piuttosto facessero mea culpa le istituzioni dello Stato, che li hanno lasciati soli. Sicché mentre il primo cittadino della capitale Alemanno definisce dei passacarte i vertici della protezione civile un sindaco del frosinate denuncia che l’esercito, alla sua richiesta d’aiuti, ha chiesto, prima di intervenire, chi avrebbe pagato le spese. Da ridere se non fosse una tragedia. Ma anche il presidente
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della provincia di Roma Zingaretti – a sua volta bersaglio di contestazioni e polemiche - chiede spiegazioni, rivolgendosi stavolta alle massime autorità dello stato e al governo: «È una vergogna inconcepibile che in un paese civile, a quattro giorni dalle prime nevicate, ci siano ancora molti comuni a pochi chilometri dalla capitale senza energia elettrica quindi senz’acqua, senza riscaldamento e telefonia. È importante che le massime autorità dello Stato intervengano al più presto anche perché in questo momento nessuno dà garanzie certe su quando questa vergogna terminerà». E a difendere i sindaci si schiera anche l’Anci: «Il Ministro dell’Interno ha ragione quando afferma che i sindaci sono i primi responsabili della protezione civile nelle situazioni di emergenza, ma questa funzione i sindaci la possono svolgere solo se possono disporre di risorse e, soprattutto, informazioni adeguate; informazioni che, per legge, devono essere fornite ai Comuni dal Dipartimento Nazionale di Protezione Civile e dalle Regioni. Oggi purtroppo non è così e quindi delle due l’una: o si garantiscono ai Sindaci queste condizioni, oppure si cambia la legge e noi lasciamo volentieri ad altri questa responsabilità». Dello stesso tenore le dichiarazioni di Trenitalia, della protezione civile e delle cosiddette massime cariche dello Stato: il drappo rosso della colpa è di qualche altro. Con chi prendersela dunque per la gravità eccezionale delle condizioni atmosferiche e i conseguenti disagi? Con Gianni Alemanno? Come fa il dipietrista Pedica, che specula come un disco rotto populista anche sui disagi della neve dicendo che le strade vicino a casa del sindaco sono spazzate? Con la protezione civile, come fa Alemanno? Con il meteo? Con il governo? A nessuno viene in mente che le responsabilità sono di tutti e di nessuno?
NEVICA, GOVERNO LADRO Non va bene lo scambio di accuse. Qualcosa di più poteva essere fatto, certo. Ma
Eni: forse saranno ridotte le forniture alle industrie
Guasto a Rovigo: da giovedì gas a rischio otrebbe andare peggio di così? Certo: potrebbe mancare il gas per esempio. Ed è quanto si teme possa accadere da giovedì prossimo. Quando, a causa del picco eccezionale dei consumi per il freddo e del taglio di Gazprom, potrebbero arrivare le prime interruzioni nelle forniture a partire dai cosiddetti clienti interrompibili, aziende o uffici i cui proprietari accettano stop temporanei in cambio di alleggerimenti della bolletta. L’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni dà questa spiegazione «fino a mercoledì non ci saranno problemi. Poi l’Eni potrebbe essere coinvolta nelle misure che deciderà il ministero dello Sviluppo. Ci attendiamo momenti difficili». Per i cittadini e le loro abitazioni però, assicura Scaroni «non ci saranno problemi». L’ipotesi peggiore insomma sembra, per ora, la sospensione temporanea dei contratti con le aziende ma come seconda misura di emergenza con l’assenso del governo si potrebbe bruciare per una settimana olio combustibile anziché metano nelle centrali termoelettriche. Misura che è stata approvata dal comitato per l’emergenza gas del ministero. Eni da parte sua ha aumentato le importazioni dall’Algeria e dal Nord Europa per far fronte al taglio delle forniture gazprom. Intanto Il rigassificatore di Rovigo sta funzionando a capacità ridotta a causa del maltempo come rende noto la società Adriatic Lng, responsabile del terminale posizionato nell`alto Mare Adriatico.
P
insomma il grosso della polemica mediatico-politica che imperversa assieme alle bufere che spazzano il Paese è davvero speciosa. Quanto sta accadendo è una cosa diversa rispetto agli smottamenti in Liguria dello scorso ottobre dove esisteva un problema di speculazione edilizia e di manutenzione mancata del terreno; l’incidenza del fattore umano nel caso della massa di neve caduta in Italia è nulla. E non è vero che solo in Italia si registrano disagi così alti. Londra sotto la neve si blocca come Roma e Roma è meno abituata alla neve e al gelo rispetto a Londra. O a Ginevra. Nell’efficientissima Svizzera. Dove nei pressi del Giardino inglese il gelo ha fatto saltare una condotta dell’acqua che è fuoriuscita allagando diverse strade mandando in tilt l’intera zona, mentre le temperature polari rendono difficile l’intervento per le riparazioni. Insomma al netto di responsabilità
Esistono responsabilità per scarsa prevenzione ma esiste una quota di imprevedibilità e fatalità con cui sarebbe bene imparare a convivere precise, da circoscrivere e individuare, esiste una quota di imprevedibilità e fatalità con cui sarebbe bene imparare e convivere. Forse quindici anni di leaderismo scatenato hanno convinto gli italiani che esistono uomini della provvidenza su cui proiettare illusioni e speranze o al contrario scaricare le frustrazioni. Non è così per fortuna e purtroppo: la provvidenza se c’è non è umana. Gli uomini vivono sotto il cielo. E il meteo non basta. «Il problema grosso è sapere cosa succederà stanotte – dice Alemanno allargando le braccia – perché ancora la Protezione civile non ci ha detto con chiarezza quali sono le previsioni meteo per stanotte. Si parla di altre precipitazioni nevose di 1-2 centimetri». Anche la Protezione civile di Roma Capitale mette le mani avanti con una lettera al Centro funzionale centrale del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile richiedendo una previsione meteo puntuale e particolareggiata per In queste pagine, alcune immagini delle forti nevicate in Italia in questi giorni. Al di là delle polemiche (inutili quanto roventi), ha colpito l’immagine di un Paese che non sa nemmeno più che cosa sia la solidarietà
7 febbraio 2012 • pagina 15
le prossime 24 - 48 ore. «La richiesta è diretta all’adozione di provvedimenti aventi carattere emergenziale finalizzati alla tutela della pubblica e privata incolumità».
È TORNATO DICKENS? Sarà un caso che ricorra in questi giorni il bicentenario di Charles Dickens, lo scrittore che ha costruito un’epica sulle contraddizioni e il dolore dell’Inghilterra ottocentesca, percorsa dalle tensioni della rivoluzione industriale, piagata dall’ingiustizia sociale e da un classismo feroce e razzista. Un’altra suggestione certo, ma intanto è un dato che in Italia e in Europa s’è tornati a morire di freddo e di stenti. O a soffrire per mancanza di beni primari: pensionati, disoccupati, giovani soli, hanno difficoltà a consumare due pasti al giorno, a scaldarsi, a lavarsi con acqua calda, a ricorrere a cure mediche e dentistiche. È tornato il fantasma della povertà e dell’indigenza e basta dare un’occhiata agli ultimi dati della Caritas per rendersi conto che i centri d’assistenza sono più affollati di anno in anno. È una crisi dura che ti mette sempre più a contatto col disagio e a cui è sufficiente l’aggravarsi di qualche variabile, come il tempo atmosferico per esempio, per venirti a bussare fino alla porta di casa e farti vedere il suo volto. Avvicinandoti a quelli che la buona coscienza borghese, e poco cristiana, aveva sempre percepito come ”gli altri”: gli outsider, i clochard. Il prossimo da amare quando è lontano. È un caso limite, simbolico ma significativo quello di Cuneo, dove un palazzo è stato evacuato a causa di crepe ai muri causati da infiltrazioni d’acqua e dal gelo. Una quarantina i condomini che sono stati ospitati nella vicina stazione ferroviaria e all’istituto salesiano. La sensazione che vengano giù certe certezze, s’aprano dei muri. Eppure una cosa positiva c’è in questo progressivo ritorno alla durezza della vita. Un ridimensionamento della presunzione e dell’autosufficienza diffusa, un ritorno della solidarietà naturale, che è un istinto primario quanto l’egoismo e la sopraffazione, ma è un istinto buono. L’idea che l’altro, il prossimo, non sia un competitor ma un uomo come noi su cui possiamo contare. La neve e la crisi se non altro hanno seppellito le nostre fantasie di onnipotenza e di controllo.
ULTIMAPAGINA Il ciclista spagnolo Contador squalificato per doping: la vittoria nella corsa dell’anno scorso passa a Scarponi
Il Giro d’Italia vinto a sua di Marco Scotti hissà se la vittoria al Giro d’Italia di Michele Scarponi, assaporata un anno dopo, ha lo stesso profumo e dà la medesima euforia. 365 giorni più tardi non ci saranno giornalisti pronti a tutto pur di ottenere un’intervista, né contratti di sponsorizzazione a sei zeri ad attendere il “vincitore ex post”. Stiamo parlando di ciclismo, attorno a cui ruotano il doping, una squalifica tardiva, una vittoria altrettanto tardiva e due nomi: il primo, osannato dalla critica, è quello di Alberto Contador, vincitore (fino a ieri) di tre Tour de France e di due Giri d’Italia; l’altro, meno conosciuto, è quello di Michele Scarponi, onesto passista che ha d’improvviso conquistato la ribalta. Contador, infatti, è stato squalificato ieri per due anni retroattivamente, perdendo gli allori conquistati al Tour de France 2010 e al Giro 2011. Un episodio simile, anche se con modalità diverse, era accaduto il 6 aprile del 2003 a Giancarlo Fisichella, che per un errore nel conteggio dei giri era stato privato della sua prima vittoria in carriera, salvo poi vedersi riconosciuto quanto dovuto quasi un mese dopo.
C
Brevemente i fatti. Dopo l’addio al ciclismo di Lance Armstrong, il più forte aveva un nome e un cognome: Alberto Contador, spagnolo classe 1982, in grado di centrare dal 2007 in poi almeno una vittoria finale in una delle tre grandi corse a tappe ciclistiche (Tour de France, Giro d’Italia,Vuelta). Impresa riuscita solo ai grandissimi – Merckx, Anquetil o Hinault – ma che già dalla fine del 2010 ha evidenziato qualche ombra. In un controllo a sorpresa durante il Tour de France di quell’anno (che lo vedrà vincitore) – i cui risultati, però, saranno resi noti solo qualche mese dopo – Contador viene sorpreso positivo al clenbuterolo, un anabolizzante che ne avrebbe migliorato le performance. L’atleta e il suo staff si di-
INSAPUTA del Giro 2011, che è stata data d’ufficio a Michele Scarponi.
La giustizia sportiva internazionale ha cancellato anche i due trionfi al Tour dell’astro nascente del ciclismo. E quest’anno niente corse a tappe né Olimpiadi chiarano estranei all’accaduto, sostenendo che il tutto sia colpa di una bistecca contaminata. Sarà, ma la spiegazione non convince granché, e da più parti si inizia a temere che Contador sia grande anche grazie a qualche aiutino illecito. All’inizio del 2011 il ciclista spagnolo viene assolto dalla commissione antidoping del suo Paese: nonostante il ricorso al Tas da parte della Wada (rispettivamente Tribunal Arbitral du Sport e World Anti Doping Agency), Contador partecipa al Giro, che vince con estrema facilità.
Ma ieri, dopo un anno e mezzo di dibattiti e discussioni, la situazione cambia e arriva la squalifica – retroattiva – di due anni: così, l’ennesima storia di ciclismo “eroico”, su cui fiumi d’inchiostro si sono versati, si rivela frutto di imbrogli e truffe. E la discussione su uno sport che prevede sforzi al limite del di-
sumano dai propri atleti, che sempre più spesso ricorrono al doping per migliorare le proprie prestazioni, si riapre senza riuscire a trovare una risposta. Perché se perfino il più grande bara, che sport stiamo guardando? Il risultato della sentenza del Tas è che Contador potrà tornare a correre ai primi di agosto, ma perderà la vittoria finale del Tour 2010 (assegnata ad Andy Schleck) e quella Qui sopra, Alberto Contador, squalificato per doping. In alto, Michele Scarponi: il Giro d’Italia del 2011 sarà assegnato a lui
Protagonista di una vittoria inattesa – e certamente meno gustosa – Scarponi ha preferito mantenere un profilo basso, senza esternazioni di sorta se non un laconico “mi dispiace per Contador”. In effetti, essere privati della passerella conclusiva a Milano, non aver potuto festeggiare a dovere con compagni di squadra e amici il proprio trionfo, dev’essere difficile da digerire. Anche perché Scarponi, prima del secondo posto dell’anno scorso al Giro era stato un ottimo interprete di corse nostrane ma senza quell’acuto che al ciclismo italiano manca dai tempi di Marco Pantani. Né può essere considerato una giovane promessa, visto che a settembre compirà 33 anni. Insomma, un onesto interprete di questo sport. Eppure, proprio per questo, a Michele Scarponi vanno tutta la nostra simpatia e ammirazione: non riempirà le pagine della storia del ciclismo, né sarà ricoperto d’oro come accaduto a Contador. Non potrà neanche contare su un talento cristallino come quello dello spagnolo che, nonostante il doping, avrebbe mezzi straordinari per stracciare i propri avversari. Ma almeno, quando parleremo della– a questo punto meritatissima – vittoria al Giro d’Italia di Scarponi, non potremo che ricordare con orgoglio che, al contrario di tanti altri, ha vinto sportivamente. Parola che nel ciclismo ha sempre meno valore.