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he di cronac

Non c’è deserto peggiore che una vita senza amici Baltasar Gracián y Morales

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 10 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il premier arriva alla Casa Bianca: «Voglio cambiare il modo di vivere della popolazione italiana»

L’alleanza Monti-Obama

Luttwak: «La credibilità del governo vi farà risparmiare miliardi» Intesa tra i due leader: ci vuole un patto per la crescita che aiuti insieme l’Eurozona e gli Usa. A partire dalla trasparenza bancaria. Il Fondo Monetario: «L’Italia va verso il pareggio di bilancio» Il presidente della Bce: «Fiducioso nel futuro»

Draghi: «Ripresa ma con rischi». Lo spread scende L’accoglienza trionfale dei media Usa

IL PIANO

È più importante del viaggio di De Gasperi (stavolta anche loro hanno bisogno di noi)

E Time gli dà la copertina: «Può salvare l’Europa» I maggiori quotidiani a stelle e strisce accolgono con gioia il premier «che segna una rottura netta» *****

Martha Nunziata • pagina 2

di Errico Novi e gli Stati Uniti allestiscono una rete mondiale per intercettare i grandi evasori fiscali, non si sognano certo di tenere fuori l’Italia. A Washington si è discusso anche di questo, tra Obama e Monti, cioè di quanto sarà efficace il Facta, il sistema per catturare i capitali offshore recepito a livello internazionale. Ma in gioco c’è molto di più, nella rinnovata alleanza tra il presidente Usa e il suo omologo di Roma. segue a pagina 3

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Storia di un’amicizia dal dopoguerra a oggi

Gli italiani a Washington, i vertici che hanno fatto storia Il rapporto fra i nostri due Paesi è sempre stato solido, se escludiamo le gaffes degli ultimi 20 anni Antonio Picasso • pagina 4

Esclusivo. Incontro con John Allen, vice segretario generale Nato

Vi racconto la nuova Kabul «Guerra alla droga e democrazia: prima del ritiro, vinceremo» di Pierre Chiartano

BRUXELLES. L’atmosfera è quella rarefatta delle grandi occasioni, ma informale abbastanza per far sentire tutti a proprio agio. Siamo a Bruxelles, in una zona non lontana dal comando Nato e dall’aeroporto. Al secondo piano di un ristorante elegante c’è un piccolo convegno di giornalisti, militari e diplomatici. Il tema è l’Afghanistan in modalità off the record. Significa che chi scrive non può mettere virgolettati e che ogni argomento sarà una libera interpretazione di ciò che è stato detto tra l’antipasto e il dolce. I diplomatici sono due vice del segretario generale Rasmussen. a pagina 12 EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

28 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Sulla Grecia trovato l’accordo anti-default, i fondi saranno europei. Il differenziale arriva a 345 Francesco Lo Dico • pagina 6

Il Capo dello Stato ricorda le vittime delle foibe

Napolitano: «L’Ue fa da argine al razzismo» Nel Giorno del Ricordo, il Quirinale lancia un nuovo monito contro le violenze etniche Maurizio Stefanini • pagina 10 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Lo storico viaggio del premier «può essere un volano per l’economia mondiale. Monti conosce problemi e soluzioni»

«Un patto per la crescita» Luttwak interpreta l’alleanza: «L’Italia sta facendo bene. Obama lo sa, e vuole approfittarne. Ma la Merkel sarà un osso duro» di Pierre Chiartano ario Monti è sbarcato ieri in America. È arrivato con una borsa piena di successi sul fronte dei tagli e della politica di austerity e con qualche macchia sul ruolino di marcia. Monti «è un eccellente economista e conosce bene problemi e soluzioni alla crisi economica. Ma deve stare attento al progetto di eurobond (irrealizzabile) e al patto fiscale di due mesi fa». Almeno questo è ciò che pensa Edward Luttwak economista ed esperto, vicino alla Washington che conta. Sul piano della credibilità dunque il premier italiano non può fare che bene, su quello delle riforme e del rilancio, per Luttwak il lavoro del governo italiano è improntato a un’eccessiva «timidezza». La Casa Bianca si aspetta che l’Europa non affossi per l’ennesima volta l’accenno di ripresa statunitense. E non ci sono grandi speranze che Monti possa convincere la Bundeskanzlerin a usare il surplus tedesco per rimettere in moto i consumi e dare una spintarella anche al motore dell’economia Usa: «È la mentalità tedesca che non lo permetterà», sottolinea Luttwak. Raggiunto telefonicamente in Indonesia, l’esperto americano è spassionato nelle sue analisi e pur esprimendo un grande apprezzamento per la figura e il lavoro di Monti, non nasconde le difficoltà e gli errori che a suo parere continuano a fare in Europa. «Il problema Europa per Obama è che le politiche attuate dai Paesi dell’Unione stanno strangolando la domanda. Uno strangolamento che ha già colpito di rimbalzo l’economia cinese e quelle economie che vendono ai cinesi materie prime come rame, carbone eccetera. Parlo di brasiliani, australiani e via discorrendo. Anche gli americani vendono bulldozer, equipaggiamenti minerari e industriali a brasiliani ed australiani e qualcosa anche in Europa. Il problema per il presidente Obama è che se fra sei mesi va alle elezioni con una disoccupazione in aumento le perde». Con l’economia in ripresa invece il presidente potrebbe perdere solo se i repubblicani gli mettessero «una donna morta o un ragazzo vivo nel letto». «Negli ultimi mesi il calo d’occupazione provocato dai “casini” americani sta rientrando. L’occupazione sta aumentando. Ora Casa Bianca, Federal Reserve e il segretario al Tesoro sono terrorizzati che ci sia un possibile effetto negativo sull’America della politica di austerity europea». E sarebbe la terza volta in pochi anni che gli sforzi americani, per rimettere in moto sviluppo e consumi, vengono annullati sul nascere dal pantano europeo. «Monti è un eccellente economista ed è ben a conoscenza di questi problemi e del costo disastroso che producono. A dicembre Monti ha firmato l’unione fiscale, per cui l’Italia dovrebbe ridurre il debito del 4 per cento all’anno. Vuol dire che con 1.900 miliardi di euro di debito pubblico, l’Italia deve tagliare circa 70 miliardi all’anno. Anche gli interessi sul debito, anche se sono po’ calati, rimangono disastrosamente alti». Per Luttwak l’Europa ha una politica «disastrosa» in un passaggio molto delicato che sta attraversando l’economia globale. «Non puoi im-

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Accoglienza trionfale sui giornali e “Time” gli dedica la copertina

«Quest’uomo può salvare l’Ue» di Martha Nunziata uomo più importante in Europa: nelle sue mani c’è il destino dell’economia mondiale. Questa la presentazione riservata dal settimanale Time al presidente del Consiglio Mario Monti. Il volto di Monti appare sulla copertina dell’edizione asiatica del magazine, che si domanda: «Può quest’uomo salvare l’Europa?». Un cambio di rotta deciso e un taglio netto con il passato. È questo il clima generale con il quale i media statunitensi hanno accolto Mario Monti, alla vigilia della sua prima visita ufficiale negli States. Un viaggio cominciato bene fin da prima della partenza. «Quanta differenza può fare un volto nuovo!»: è stata del NewYork Times l’accoglienza più calorosa che la stampa americana ha riservato a Monti, nelle ore che hanno preceduto il primo incontro ufficiale tra il Primo Ministro italiano e il Presidente Obama. Helene Cooper, corrispondente dalla Casa Bianca del più prestigioso quotidiano statunitense, titola: «Obama dice CIAO al nuovo Primo Ministro italiano». E si sofferma soprattutto sulla differenza di atteggiamento di Obama: «Per tre anni il Presidente ha tenuto Silvio Berlusconi a debita distanza, trattando il fiammeggiante (proprio così, flamboyant, ndr) premier italiano quello delle feste a base di bunga bunga e degli exploit sessuali - con una sorta di gelido formalismo. Mentre Nicolas Sarkozy e signora vennero invitati ad una cena piuttosto intima dagli Obama, e in onore di Angela Merkel, in visita ufficiale, fu addirittura organizzato uno spettacolare party alla Casa Bianca, Mr. Berlusconi dovette accontentarsi di un incontro privato con il Presidente Obama nello Studio Ovale: e tutto ciò accadeva nel 2009, quando l’Italia era presidente di turno del G8, quindi evitare Berlusconi non era qualcosa che Obama avrebbe esattamente potuto fare. Adesso, però - ha continuato la Cooper l’Italia ha un nuovo Primo Ministro, ed è cambiato tutto. Mario Monti è molto apprezzato sulla scena internazionale, e, cosa più importante, non ha, a detta di tutti, scheletri nell’armadio. Ecco perché Washington lo aspetta a braccia aperte». Gli Stati Uniti, del resto, hanno mostrato da subito un’apertura di credito senza riserve nei confronti di Monti: la conferma nelle parole dell’Ambasciatore americano in Italia, David Thorne, che in un’intervista al Corriere della Sera e, soprattutto, nelle parole dello stesso Obama a La

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Stampa, in un’intervista nella quale il Presidente americano ha commentato con entusiasmo il nuovo corso italiano. «Sotto la leadership del Primo Ministro Monti - ha detto Obama - l’Italia sta facendo cose impressionanti per modernizzare l’economia, ridurre il deficit e riprendere il cammino verso la crescita». Un incontro che può determinare, secondo il politologo americano Charles Kupchan, guru del Council of Foreign Relations, «la possibilità per il premier italiano di diventare la persona di riferimento di Obama per le relazioni tra Europa e Stati Uniti».

Alla visita di Mario Monti il Washington Post ha dedicato l’apertura delle pagine economiche, sottolineando gli sforzi che sta compiendo per raddrizzare la nostra economia. La prima firma economica del Post, Howard Schneider, nel ricordare i passi già compiuti dalla “fase 1”della manovra economica italiana, ha sottolineato che «d’ora in poi non andrà lesinato alcuno sforzo per far ripartire un processo economico virtuoso nei paesi dell’Eurozona, perché senza crescita anche le riforme economiche più ardite sono destinate a fallire». Il Wall Street Journal, infine, ha messo in rilievo l’agenda di lavoro di Monti, che oggi incontrerà il Segretario Generale dell’ONU, Ban KiMoon ma, soprattutto, entrerà nel Palazzo della Borsa americana, il tempio dell’economia mondiale, «il suo habitat naturale - secondo il WSJ - nel quale si toglierà anche qualche sassolino dalle scarpe, nei confronti di chi indicava l’Italia come la prossima tessera di un default a catena in Europa. Il suo Paese, invece da possibile fonte della crisi è diventato uno degli attori principali nella soluzione. Dal suo arrivo a Palazzo Chigi, del resto, lo spread con i bund tedeschi è calato di oltre 200 punti».


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L’agenda americana

Scena simile ma anche diversa rispetto alla missione dello statista trentino

È più importante del viaggio di De Gasperi

Stavolta anche loro hanno bisogno di noi. Il Fondo monetario: «Il Belpaese verso il pareggio di bilancio» di Errico Novi segue dalla prima Si distinguono i contorni di uno scenario completamente nuovo, nel quale l’Italia assume un ruolo decisivo. Obama ha bisogno di Monti. Il premier italiano può giocare una partita determinante anche per la strategia di Washington. Con un peso e una credibilità che negli ultimi anni aveva via via smarrito, Roma è ora il cardine di un disegno fondato essenzialmente sulla crescita.Tocca al Professore chiamato ad acciuffare per i capelli un Paese in caduta libera, proseguire nella sua paziente moral suasion con i partner europei. In particolare con la Merkel. Anche gli Stati Uniti attendono con ansia che l’Europa imbocchi una strada diversa, che compia una netta inversione rispetto all’andamento del ciclo attuale. Se non è il Vecchio Continente a cambiare rotta, nemmeno gli Usa potranno rivedere al rialzo le stime sull’occupazione. E la possibilità di una svolta si regge sulla forza che altri Paesi, e l’Italia tra questi, avranno nello spingere la Germania verso soluzioni più coraggiose.

re una cosa: tutto è cambiato non solo in ordine alla credibilità del nuovo governo che, come dice Luttwak, fa risparmiare all’Italia una decina di miliardi. La novità da registrare attiene anche a considerazioni storiche. Il vertice di Washington evoca senza dubbio il viaggio di De Gasperi nel ’47, cioè una curva della nostra storia in cui abbiamo riconosciuto la necessità di un forte sostegno, e ripagato poi con un miracoloso slancio quegli aiuti. Stavolta appunto è anche l’America ad avere bisogno di noi. Senza l’Italia, e senza la nuova stagione di rapporti all’interno dell’Ue inaugurata da Monti con Merkel e Sarkozy, oltre che con Cameron, senza la spinta italiana per una Ue più aperta alla crescita, Obama dovrebbe studiare un piano B, di cui non esistono nemmeno versioni abbozzate.

Con la leadership che si è conquistata nell’Unione europea, il Professore ha ribaltato il ruolo dell’Italia

Basta riportare anche solo per un istante lo sguardo verso il passato più recente, per avvertire la novità di un italiano, di un premier italiano, investito di un ruolo così rilevante. Non si tratta di casualità, o di un curioso contrappunto americano dopo il gelo tra Obama e Berlusconi. Monti è apprezzato da tutti gli interlocutori, innanzitutto all’interno dell’Ue. Sarkozy non nasconde di scorgere nel Professore un punto di riferimento. Non c’è primo ministro che lo ascolti senza dare grande peso alle sue osservazioni, alle sue proposte. Tutti insomma gli riconoscono bravura, lucidità, equilibrio, in una fase in cui simili virtù sono merce rara. In Europa e non solo. Si può parlare di una nuova leadership? O il senso di colpa che l’Italia ha maturato nelle settimane in cui era additata come la mina vagante dell’eurozona impedisce ora di riconoscere questa realtà capovolta? Si può nota-

De Gasperi ha rappresentato il volto di un’Italia piegata dal disastro bellico ma capace di rialzarsi, di non farsi schiacciare, umile e coraggiosa. Il vertice Obama-Monti disegna un quadro che ricorda la scena del ’47, ma solo in parte. L’Italia ha bisogno di essere sostenuta nel suo sforzo di risalire la china del debito, e quindi della fiducia. L’alleanza con gli Stati Uniti è carburante indispensabile per l’impresa, che dovrebbe portare al pareggio di bilancio e sulla quale ora l’Fmi avanza pronostici rassicuranti. Ma adesso a Roma si guarda come al vettore di una fase nuova per l’Europa. Sull’Italia, sulla sua capacità di esprimere con Monti una sorprendente e preziosa leadership, si fonda parte della fiducia americana nel superamento del ciclo recessivo in corso. In questo c’è un segno che proietta sull’Italia una luce nuova, e sull’alleanza tra Roma e Washington un significato diverso rispetto a quella stipulata da De Gasperi. Una novità a cui gli Stati Uniti come l’Europa guardano con speranze che, nel volgere di un tempo incredibilmente breve, hanno preso il posto della paura.

NEW YORK. Un’agenda piena di impegni, quella del premier Mario Monti in visita negli Stati Uniti. Dopo l’incontro con Barack Obama e il discorso al Peterson, nel primo pomeriggio di oggi (fine pomeriggio in Italia), Monti incontrerà ambienti economici e finanziari di Wall Street. Nel pomeriggio (in serata in Italia), il presidente del Consiglio incontra al Palazzo di Vetro il segretario generale dell’Onu Ban ki-Moon e successivamente il presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Nassir Abdulaziz al-Nasser. All’incirca nella nostra tarda serata, Monti incontra la stampa italiana presso la Rappresentanza italiana all’Onu e nella notte: il presidente del Consiglio incontra la comunità italiana al Consolato Generale d’Italia di New York. porre l’austerità in un momento di rallentamento dell’economia mondiale. Ci vorrebbe una politica anti-ciclica. Invece si attuano interventi pro-ciclici. È come se chi sta annegando si mettesse un peso intorno al collo. L’idea è quella di spendere soldi quando l’economia rallenta il proprio ciclo naturale. Quando invece c’è una crescita forte, allora viene il momento di frenare, aumentando ad esempio il costo del denaro. Stiamo facendo il contrario». Comunque sia Monti sta facendo un gran lavoro e tenendo conto che parliamo di un governo tecnico, senza troppi lacci politici, ma con la “debolezza” propria di chi non ha un consenso diretto, si muove come può nel campo minato delle politica nazionale ed europea. «Monti sta facendo bene e lo si vede dalle quotazioni giornaliere dello spread dei titoli di Stato».

«Ad esempio i titoli con scadenza 2037 sono stati venduti con un differenziale del 4 per cento rispetto a bund tedeschi. Siamo sempre a livelli disastrosi, perché sulle obbligazioni non puoi perdere quasi il 25 per cento del valore, ma stiamo risalendo rispetto ai dati di agosto. È una misura aritmetica del valore di Monti. È un governo coerente che non dice cretinate». L’unica macchia sul mantello del premier italiano riguarderebbe gli eurobond. «Nonostante la Corte costituzionale tedesca abbia già decretato l’impossibilità dell’utilizzo degli eurobond – cioè che i debiti li paghi Babbo Natale – se ne continua a parlare. È una fantasia, non è una soluzione fattibile. Non ci saranno mai i titoli di debito europei. L’altro fattore che fa temere il peggio è che Monti a dicembre 2011 ha firmato l’unione fiscale. Ora, ad appena due mesi da quella firma, si parla già dell’impossibilità di far fronte a uno dei parametri del trattato. Cioè mantenere quel 4 per cento di riduzione annua del debito pubblico. Hanno ragionissima a non voler mantenere un parametro così rigido. È comunque poco serio firmare qualcosa il 9 dicembre e poi chiedere una revisione dopo solo due mesi». Anche le speranze di Obama di poter utilizzare Monti per ammorbidire le posizioni della cancelliere tedesca, Angela Merkel, non avranno soddisfazione e Luttwak spiega perché. «L’idea di ammorbidire la Merkel è un’altra fantasia che circola nel Sud dell’Europa. Lo dicono greci, spagnoli e portoghesi. È una completa ca…ta. La Cancelliera ha perso sette elezioni regionali, una dopo l’altra. In termini germanici la Merkel è già stata fin troppo generosa. Dobbiamo ricordare che mentre gli italiani possiedono molti immobili, i tedeschi hanno depositi bancari. Per un tedesco la ricchezza è un deposito in banca, quindi la loro tolleranza verso l’inflazione è assai limitata. Gli americani hanno le azioni, come gli inglesi, gli italiani le case, i tedeschi invece hanno fiducia nella moneta. In termini politici tedeschi, la Merkel è andata già molto oltre il tollerabile. Non può essere assolutamente ammorbidita». Quindi le speranze che Berlino crei nuova domanda per aiutare gli accenni di ripresa americana, sarebbero una fantasia. «Appunto, perché la domanda la crei aumentando la spesa pubblica, che provoca a sua volta un innalzamento dell’inflazione. Il popolo tedesco non lo tollera, perché intacca i suoi risparmi. Gli americani sono azionisti e un po’ proprietari di immobili. Gli italiani non tengono più i soldi in banca, perché hanno paura che il governo glieli porti via». Il premier italiano non tornerà certo a mani vuote dal viaggio in America, e il coordinamento con l’unica economia che pensa ancora globalmente rimane un cardine strategico se si vuole uscire dal tunnel della crisi. «Sicuramente avrà una conferma della propria credibilità internazionale e del fatto che a Roma c’è un governo serio. Un fatto con ricadute concrete sui tassi d’interesse. Ci sono due modi per andare a Washington: per fare bella figura o per ottenere qualcosa di concreto. La credibilità significa risparmiare miliardi in interessi sul debito. Gli elementi di debolezza sono gli eurobond e l’affrettata firma del patto fiscale, che gli inglesi infatti non hanno voluto sottoscrivere, perché lo consideravano irrealistico».

«Ora il vero ostacolo è rappresentato da Frau Merkel, che molto difficilmente sarà ammorbidita o cambiata»


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a visita di Monti a Washington passerà alla storia. È la sua normalità a dirlo. Lasciamo alle cronache l’urgenza della crisi finanziaria. Di questo i posteri ne parleranno sì. Ma non sarà certo il summit in corso a farne da perno. La missione di questi giorni conferma la continuità della amicizia tra Italia e Stati Uniti. Non che ce ne fosse bisogno. Tuttavia, è sempre meglio ribadire anche quello che appare scontato. L’Italia repubblicana ha avuto 25 uomini che hanno ricoperto l’incarico di presidenti del consiglio. C’è chi l’ha fatto più volte. Altri invece sono sopravvissuti per pochi mesi. Tutti comunque sono stati chiamati a confrontarsi con l’influente alleato d’oltre

L

Nel 1947, il leader della Democrazia cristiana De Gasperi sbarcò a New York con un bagaglio culturale e di esperienza personale che non aveva pari presso l’intera classe politica europea Atlantico. È prassi infatti che, una volta entrato a Palazzo Chigi, il premier voli negli Usa in tempi brevi. Ovviamente previo invito. In caso contrario, i maligni sono sempre pronti a dubitare degli apprezzamenti che l’amministrazione statunitense di turno potrebbe nutrire nei confronti del nostro esecutivo. In tal senso, è positivo che, a neanche tre mesi da quando Monti è stato incaricato, Obama lo attenda con piacere e interesse. Almeno così ha dichiarato. E non si poteva pensare il contrario.

Lo spessore intellettuale del nostro presidente del consiglio è riconosciuto anche laggiù, in terra d’America. Una continuità quindi duplice. Primo perché questo viaggio è l’ultimo tassello di un trend dialogo costante. Tant’è che il ministro Terzi di Sant’Agata, prima di guidare la Farnesina, era a Washington come ambasciatore. Secondo perché la visita di Monti può essere fatta rientrare già tra quelle che avranno un’eco virtuosa sul lungo periodo. I precedenti sono significativi. La prima della lista è certo quella di De Gasperi nel 1947. L’Italia di allora esce dalla seconda guerra mondiale con le ossa rotte. C’è da ricostruirne sia l’immagine politica sia la stabilità economica. Il presidente del consiglio arriva a Washington dopo un anno di pre-

Tutti gli uomini di Mr. President Non solo Obama-Monti. Il rapporto fra il nostro Paese e gli Stati Uniti è costellato di vertici che hanno fatto storia. Viaggio tra le pieghe di un’amicizia, più che solida, dal dopoguerra a oggi (gaffes degli ultimi vent’anni a parte...) di Antonio Picasso parativi della missione. Sorprende come questi avvengano alla luce del sole. Pochi mesi prima, la rivista Time sostiene che De Gasperi potrebbe essere un ospite molto ascoltato nel dibattito sul dopoguerra, in corso presso circoli politici e atenei degli Usa. L’opinione pubblica si sente investita del nobile incarico di ricostruire l’Europa e salvarla dal comunismo. Il leader democristiano sbarca a New York con un bagaglio culturale e di esperienza personale che non ha pari presso l’intera classe politica europea.

La visita passa alla storia per il mai confermato cappotto rovesciato. Pare infatti che De Gasperi, anch’egli colpito dall’austerità post-bellica avesse a disposizione un guardaroba più che modesto. Altri tempi! Aneddoti (preziosi) a parte, il viaggio segna la fine

del nostro isolamento diplomatico. Il presidente del consiglio stringe la mano alle massime autorità federali, Truman in testa. Il vertice favorisce la definizione degli aiuti economici e alimentari di cui l’Italia ha tanto bisogno. Un prestito di 100 milioni di dollari della Export Import Bank e un rimborso di altri 50 milioni di dollari per le spese sostenute dal governo provvisorio per le truppe di occupazione americane. Gli Stati Uniti rinunciano inoltre alle riparazioni, alla cessione di unità della flotta italiana e ad altre disposizioni contenute nelle clausole economiche del trattato di pace. Washington dà quindi fiducia a Roma. Merito anche della nostra comunità di immigrati. All’Italia viene aperta la strada per l’ammissione nelle istituzioni internazionali: Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in particolare.

Per l’Onu si dovranno attendere ancora otto anni. Ma la strada è aperta. Lo stesso è per la Nato.

In tal senso, l’utilitarismo di Washington è palese. Non si può omettere il Mediterraneo dal sistema di difesa contro l’espansionismo sovietico. De Gasperi, del resto, non può che

Un altro grande protagonista delle relazioni italo-statunitensi fu Fanfani. Con Moro invece i rapporti divennero un po’ più delicati: al centro, la sua scelta di voler dialogare con il Pci


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Da sinistra a destra: Aldo Moro, che venne minacciato per i suoi rapporti con i comunisti italiani; Amintore Fanfani e John Fitzgerald Kennedy; Silvio Berlusconi e George W. Bush; Alcide De Gasperi con il presidente George Truman

essere d’accordo. Un altro grande protagonista delle relazioni italo-statunitensi è Amintore Fanfani. Nel 1961, quando il montanelliano “rieccolo” arriva alla Casa Bianca, John Kennedy gli confessa di aver scelto la strada della politica dopo aver letto Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, di cui Fanfani è autore.

Il saggio risale al 1934. Il presidente degli Stati Uniti, in quell’anno, era un diciassettenne della ricca lobby cattolica del Massachussets. Viene da chiedersi come un libro sovversivo per l’Italia fascista sia riuscito a sbarcare nel porto di Boston ed essere lì tradotto per il futuro leader democratico. Anche questo è un episodio piacevole da ricordare. Tuttavia, di Fanfani - cinque volte presidente del consiglio sono tre i viaggi negli Usa che meritano una segnalazione. Lo stesso del ’61 va associato a quello successivo di appena due anni perché è in queste occasioni che si decide l’installazione dei missili Polaris sul nostro territorio. Segue un’ulteriore missione nel 1987, quando Fanfani stringe la mano a un altro pezzo da novanta della popolarità made in Usa. Il presidente è Ronald Reagan. Siamo alla fine della guerra fredda e l’Italia sta per ospitare il G7 di Venezia. Fanfani porta a Washington l’Italia degli anni Ottanta: euforica tra le sue mille contraddizioni. La discontinuità politica fa a pugni con la ripresa economica, rispetto al decennio precedente. L’ottimismo generale pone in ombra il crollo della Prima repubblica che sarebbe giunto appena cinque anni dopo. Per una coincidenza temporale, nel dicembre dello stesso anno, a Washington viene firmato l’accordo bilaterale Usa-Urss per l’eliminazione dei missili a media gittata. Gli stessi per cui Fanfani aveva dato l’ok a nome dell’Italia. Un altro grande visitatore degli Usa è stato Aldo Moro. Nel caso del leader della Democrazia cristiana assassinato dalle Brigate rosse, la memoria storica è offuscata dallo stesso omicidio. Non solo. È la considerazione ideologica che Moro nutre verso oltre Atlantico che è diversa da tutti i suoi predecessori. La sua attenzione ver-

so altri quadranti - l’Europa settentrionale e Africa - fanno da spartiacque nelle relazioni tra i due Paesi. Moro, come Fanfani, è stato a Palazzo Chigi cinque volte. Come tale i rapporti con gli Usa si ricordano serrati. Tuttavia è la missione del 1976 a essere ricordata con maggiore impatto. Le testimonianze parlano di un episodio durante il quale il premier sarebbe stato avvicinato da un illustre esponente dell’amministrazione - le illazioni parlano addirittura di Kissinger - e letteralmente minacciato per le sue scelte di dialogo con il Partito comunista. La stessa vedova Eleonora Moro ha ricordato l’accaduto in sede di Commissione di inchiesta. «Onorevole, o la smette o la pagherà cara». Pare che al premier qualcuno si sia rivolto proprio in questa maniera. L’aneddoto è più sorprendente di un cappotto riciclato o di un saggio fanfaniano ritracciabile nella biblioteca personale di Kennedy. Ma, come questi, gode di maggiore memoria rispetto alle posizioni diplomatiche italiane negli anni Settanta. È vero, alla Washington di quegli anni non va a genio né il tentato compromesso storico né i rapporti preferenziali instaurati con il mondo arabo. Olp e Libia in particolar modo. Tuttavia, entrambe le posizioni si rivelano non efficaci. Bensì resiste l’alleanza. Ed è un’eccezione nella storia della politica estera italiana. Ci sia permesso il sarcasmo. Anche la vita della Seconda repubblica era cominciata con il piede giusto. Almeno nei rapporti transatlantici. E sempre all’insegna dell’austerità. Il premier Ciampi arriva nel Nuovo continente nel settembre 1993. Il periodo è uno dei più confusi per il nostro Paese. Trenta ore di viaggio, con una delegazione ridotta all’osso. Incontri lampo con Clinton e gli alti papaveri della sua amministrazione. Una missione (guarda caso) dagli evidenti obiettivi economici. Del resto, anche quello è un governo tecnico. La scelta di asciugare l’impegno al minimo indispensabile, però, non piace agli italo-americani. New York è ancora in fermento per le colombiani. Ciampi decide di lasciar fuori la Grande mela dal suo tour de force e di restare in zona Casa Bianca. Con il senno di poi non lo si può biasimare. Tanto più che il futuro Ca-

po dello Stato ha dimostrato di essere popolare quanto, ai tempi di Palazzo Chigi, era rigoroso.

Quello che segue è un alternarsi di vicende ancora poco metabolizzate dalla storia. La nascita dell’Ulivo e di Forza Italia segnano un cambiamento epocale nelle relazioni Roma-Washington. Non tanto per i contenuti, bensì per le modalità con cui si sviluppano i summit. Incontri informali non più in giacca e cravatta insieme a pacche sulle spalle scandiscono le cronache di questi ultimi diciotto anni. C’è da chiedersi se le generazioni future leggeranno di Berlusconi che rompe un leggio durante la cena di gala alla Casa Bianca. «Per amore del mio amico George», si giustifica mentre Bush sfoggia un sorriso di circostanza. È il 2008. Neanche due anni prima, Prodi è rimasto in attesa di ricevere un invito

La nascita dell’Ulivo e di Forza Italia segnano un cambiamento epocale. Prodi è rimasto in attesa di ricevere un invito. Quanto a Berlusconi, indimenticanbili le pacche sulle spalle e il suo «Mr. Obama!» dallo stesso presidente Usa circa dieci mesi dal suo insediamento alla presidenza del consiglio. Aneddoti anch’essi, sì. E per quanto ancora più secondari possano apparire, stupisce come siano ben chiari nella memoria. Non solo perché più prossimi a noi. Bensì perché fanno da cornice di summit sostanzialmente vuoti di contenuti. E questo non è colpa solo del nostro Paese. Gli Stati Uniti di Bush sono l’esempio di un unilateralismo nel quale lo spazio per Roma, sempre più incomprensibile, si è costantemente ridotto.

Di fronte agli avvenimenti più freschi, Monti ha già segnato una sua inversione di tendenza. Prima di ancora di raccogliere i frutti della visita, la Casa Bianca ha detto di attendere la delegazione italiana per un confronto pragmatico sulle questioni di priorità diplomatica e finanziaria. «Italia e Stati Uniti fianco a fianco per garantire più sicurezza e sviluppo alle prossime generazioni». È questo il post pubblicato sul suo profilo Twitter del ministro degli Esteri, Giulio Terzi. Dopo tanta storia, è giusto chiudere con una proiezione futura.


politica

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Il governo greco annuncia l’intesa prima del vertice dell’Eurogruppo: i mercati respirano, con lo spread che scende a 345

Atene, fuga dal default Papademos trova 300 milioni al fotofinish e vola a Bruxelles: aiuti Ue più vicini di Francesco Lo Dico

ROMA. Accordo alle 15, Eurogruppo alle 18. Atene vince la corsa contro il tempo al fotofinish. La svolta arriva nel primo pomeriggio di ieri, quando il presidente della Bce, Mario Draghi, conferma: «Ho ricevuto dal premier greco Papademos una chiamata che informava della notizia del raggiunto accordo». Governo greco e partiti politici hanno trovato dunque sul filo di lana l’intesa sulle misure di austerity che dovrebbe valere il via libera dell’Europa ad altri 130 miliardi di euro di aiuti internazionali per scongiurare il default. Poco prima di volare a Bruxelles dopo l’estenuante trattativa, il ministro delle Finanze greco, Evangelos Veni-

greco ha intrapreso azioni nella giusta direzione ma di più va fatto per affrontare i nodi chiave del debito e della disoccupazione», precisa poco dopo il portavoce del Fondo monetario, Gerry Rice. Ma poco prima della riunione dell’Eurogruppo, i vertici europei sembrano più cauti. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, lascia capire subito che difficilmente la decisione sugli aiuti alla Grecia sarebbe arrivata in serata. E il portavoce del commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn, Amadeu Altafaj Tardio, conferma l’impressione:la decisione slitta perché sul tavolo «ci sono molti elementi nuovi» da discutere. E anche il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude

Anche se ancora non circolano dettagli sulla nuova manovra, indiscrezioni parlano di un pacchetto completo di nuovi tagli al bilancio. Privatizzate tutte le principali aziende pubbliche zelos, esprime soddisfazione per l’accordo e auspica che l’Unione europea «prenda una decisione positiva sul nuovo piano di aiuti». E dalla troika arrivano avvisaglie di fumata bianca, con il direttore del Fmi, Christine Lagarde che parla di «segnali molto incoraggianti da Appena Atene». sbarcata a Bruxelles, Lagarde parla di «un buon inizio» anche se aggiunge che «resta ancora molto da fare». «Il governo

Juncker, avalla un rinvio, dicendo che l’eventuale ritardo “non è un disastro”, e potrà arrivare probabilmente la settimana prossima. Come che sia, i mercati tirano un sospiro di sollievo, con Londra che guadagna lo 0,6 per cento, Francoforte lo 0,9 e Parigi lo 0,8. Piazza Affari che guadagna lo 0,8 per cento, dopo una mattinata alquanto ondivaga. Ma le nottole in viaggio da Atene portano benefici anche al nostro spread. Il differenziale tra Btp e Bund tedeschi scende fino a quota 345 punti dopo aver aperto a 367 ed essere salito a un massimo di 372. E sulla buona performance, devono aver pesato anche le parole del governatore della Bce, Mario Draghi. A chi gli chiedeva se l’istituto possa vendere i suoi bond ai fondi di salvataggio europei allo stesso prezzo a cui li ha pagati, Draghi ha risposto positivamente, «ma dovrà versare gli eventuali profitti ai governi». «L’Efsf è dei governi», ha spiegato, «per cui, se la Bce dà soldi ai governi si tratta di finanziamento monetario», e cioè di un’operazione consentita. I governi potrebbero insomma decidere di versare questi profitti alla Grecia.

Atene ha concordato «un accordo generale sul contenuto del nuovo programma di misure economiche in Grecia», annuncia il comunicato ufficiale del governo greco. Ma come riferisce una fonte comunitaria prima, e poi il ministro delle Finanze greco, il governo ha trovato anche l’accordo sulla ristrutturazione del debito con i creditori privati. Il quotidiano Ekathimerini aveva raccontato ieri mattina che la trattativa su come reperire i 625 milioni di euro rimasti fuori dai tagli chiesti dalla troika aveva avuto una forte accelerata dopo l’incontro tra il premier e il leader di Nuova De-

saranno in grado di convincere i ministri dell’Eurogruppo e il Fondo monetario che la Grecia può farcela senza troppi affanni. Nei prossimi quattro anni, Atene conta di varare manovre per 13 miliardi di euro, invece dei sette previsti fino al mese scorso. La lettera di intenti che il ministro delle Finanze greco porta all’Ecofin, prevederebbe un taglio di almeno 150mila dipendenti pubblici entro il 2015. Proprio come intimato dalla troika, l’obiettivo è volto a ridurre la quota di occupati considerati superflui nella pubblica amministrazione, che costituisce il serbatoio di impiego più importante del paese.

La svolta arriva nel primo pomeriggio di ieri, quando il presidente della Bce, Mario Draghi, conferma: «Ho ricevuto una chiamata dal premier greco che mi ha informato dell’avvenuto accordo» mocrazia, Antonis Samaras. Decisi tagli alla spesa per la difesa per 325 milioni di euro, ne ballavano ancora sul tavolo 300, nonostante misure durissime come i tagli al salario minimo del 22 per cento, che scende a 450 euro, e il licenziamento di 15mila dipendenti pubblici. E anche se ancora non circolano molti dettagli sulla nuova manovra, indiscrezioni parlano di un pacchetto completo di nuovi tagli al bilancio e di riforme economiche che, negli auspici del governo,

E nel caso in cui la tabella di marcia sulla riduzione dei dipendenti pubblici non fosse rispettata, pare certo che il governo greco si impegna a congelare le assunzioni ”immediatamente”. Per quanto riguarda il taglio del deficit pubblico, Atene prevede per quest’anno misure di bilancio pari all’1,5% del pil che saliranno al cinque entro il 2015.

Poche certezze sulle pensioni, anche se pare ci sarebbe un impegno ad assicurare un ri-


politica

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Imprese e sindacati più vicini a un accordo sulla disciplina dei licenziamenti

Articolo 18, a piccoli passi verso la grande riforma Gli obiettivi sono limitare la giusta causa ai casi di allontamento discriminatorio e accorciare i processi di Francesco Pacifico

ROMA. Conti in ordine, crescita sostenibile e flessibilità i pilastri della nuova Europa. Perché, come ha ricordato Mario Draghi, «il mercato del lavoro dovrà vedere ridotte le rigidità». E tanto basta per capire che in Italia – soprattutto dopo le promesse del governo alla Ue e alla Bce di intervenire in questa direzione entro la fine di marzo – l’articolo 18 ha almeno nella forma attuale il futuro segnato.

sparmio annuale della spesa previdenziale pari allo 0,4% del pil. Sul fronte privatizzazioni sarebbe confermato l’impegno ad anticipare operazioni per 50 miliardi di euro, incluse quelle per ottenere 19 miliardi entro il 2015. Sarà definito un programma di vendite per la prima parte del 2012 che include società del gas, Hellenic Petroleum, società dell’acqua. E nella seconda metà del 2012 si avvieranno le pratiche per consegnare in mani private porti, aeroporti e società delle autostrade.

In apertura, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Sopra, l’Eurotower a Francoforte. Nella pagina a fianco, il premier greco Papademos. A sinistra, il ministro italiano del Welfare, Elsa Fornero, che ha lanciato un lungo tavolo di dialogo con i sindacati per trovare un accordo di riforma

Misure durissime, che producono subito strascichi. In disaccordo con l’intesa che impone ulteriori lacrime a lavoratori e pensionati, si è dimesso a inizio serata il vice ministro del Lavoro greco, Yiannis Koutsoukous, deputato del socialista Pasok ed ex sindacalista che in passato aveva rappresentato i dipendenti statali. Intanto i lavoratori greci rispondono con lo sciopero generale. I due maggiori sindacati del Paese, la Gsee (settore privato) e l’Adedy (settore pubblico), hanno proclamato uno sciopero generale di 48 ore venerdì 10 e sabato 11 febbraio, organizzando manifestazioni nella centralissima piazza di Syntagma di Atene, davanti al Parlamento, oggi e sabato alle ore 11, domenica alle 17.

Ieri si è insediato il tavolo tra le imprese e i sindacati deputato a stilare una piattaforma – «per un documento tecnico, non politico», ha spiegato Emma Marcegaglia – da presentare la prossima settimana al ministro Elsa Fornero. E al di là delle dichiarazioni di prammatica, tutte le parti in causa sanno che nelle prossime settimane dovranno chiudere un’intesa. Un accordo che forse non avrà impatti rilevanti sul breve termine (soprattutto sulla disoccupazione giovanile schizzata al 31 per cento), ma che potrebbe diventare la pietra miliare nella rivoluzione in corso per portare il Paese nella Terza Repubblica Non a caso Mario Monti, riferendosi proprio alla riforma del mondo del lavoro, ha ammesso con un pizzico d’enfasi che il suo governo sta tentando di realizzare un vero e proprio cambiamento culturale in Italia». Perché, ha aggiunto, «abbiamo bisogno di dare un senso di meritocrazia, di competizione». L’obiettivo da raggiungere è chiaro: superare quello che, secondo Confindustria e le autorità europee, è il maggiore freno alla nascita di una reale flessibilità in entrata in Italia. Più difficile capire come si arriverà a destinazione. Mercoledì, al vertice tra i sindacati confederali e Confindustria, le parti si sarebbero trovate vicine sull’idea che bisogna contingentare i tempi dei ricorsi davanti al giudice del lavoro e restringere gli effetti dell’articolo 18, legando il reintegro quanto è più possibile soltanto ai licenziamenti discriminatori. Con il risultato di traslare per alcune categorie la disciplina dei licenziamenti economici sotto l’ombrello della legge 223. Quella che, per la cronaca, oggi regola i licenziamenti collettivi. L’operazione, però, rischia di risultare piuttosto complessa. La 223 infatti prevede per il lavoratore licenziato la mobilità di due anni e un risarcimento di almeno sei mensilità: uno schema che per le aziende diventa troppo oneroso se spalmato su larga scala (oggi si applica alle realtà decotte e di solito a pagare è lo Stato). I sindacati chiedono uno sforzo in più sul versante dell’outplacement. Se si aggiunge che il ministro Fornero ha già fatto sapere che non ci sono risorse per creare quegli ammortizzatori universali che mancano al Paese, si comprende quanto è complesso il lavoro al tavolo tra imprese e sindacati. Non a caso Susanna Camusso sembra voler prendere tempo. I colleghi di Cisl, Uil e Ugl dicono che la leader della Cgil «non ha mostrato finora un atteggiamento barricadero». Così, in attesa di capire cosa metterà sul tavolo il governo, la leader di corso d’Italia si trincera dietro il solito mantra: «Non cambieremo opinione sull’articolo 18». La Camusso parrebbe infastidita dall’insistenza di viale dell’Astronomia su «una rivendicazione che secondo molte aziende non è il problema». Smentisce scambi tra licenziamenti e pensioni. Soprattutto non comprende l’atteggiamento di Bonanni e Angeletti, i primi ad ammettere che l’articolo 18 ne-

cessita una manutenzione. Il problema, infatti, è di metodo e di merito. «Non ci piace», spiega, «e riteniamo sbagliato anticipare tempi quando ancora bisogna capire se e come affrontiamo i nodi principali che sono la precarietà, gli ammortizzatori, le risorse. Parlare del resto significa continuare a non dare risposte». Sul resto, sui veri nodi della trattativa sul futuro assetto del mercato del lavoro, c’è poco da dire, perché non ci sono risorse necessarie per introdurre un sistema di ammortizzatori sociali sul modello della flex security scandinava. E non ci saranno soldi fino a quando l’istituto di tutela principale resterà la cassa integrazione. Strumento che aziende e sindacati, a differenza della Fornero, si guardano bene dal riformare con l’Italia in recessione.

Susanna Camusso richiama Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti: «Dobbiamo ancora capire come affrontare la precarietà e gli ammortizzatori» Di conseguenza tutto conferma le ipotesi dei giorni scorsi, che spingono a credere che si andrà verso un compromesso: accanto alla manutenzione dell’articolo 18 le parti dovrebbero concordare una sorta di moratoria per il prossimo biennio, lasciando intatti gli attuali ammortizzatori e istituti. Quindi, quando la crisi sarà passata, s’inizierà a discutere di sussidi, strumenti per l’outplacement e incentivi all’inclusione come il contratto unico d’ingresso studiato da Piero Ichino. Istituti da finanziare con le risorse oggi destinate alla Cig straordinaria.

Uno schema ben chiaro anche nelle dichiarazioni di Emma Marcegaglia, dopo aver incontrato ieri mattina il ministro Elsa Fornero. «Il confronto», ha spiegato, «è stato molto utile. Abbiamo spiegato al ministro quello che abbiamo definito con le altre associazioni delle imprese e con i sindacati. In particolare l’apprendistato, la riforma degli ammortizzatori con alcune cose da fare subito, mantenendo gli ammortizzatori che ci sono e pensando ad un’architettura diversa per il futuro».


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i è aperta ieri la 62esima edizione della Berlinale e stavolta non si può dire che il direttore Dieter Kosslick non si sia impegnato anche a portare un po’di glamour nella capitale tedesca. Il trio di star francesi Diane Kruger (che in realtà è nata in Germania, ma vive e lavora da sempre a Parigi), Léa Seydoux e Virginie Ledoyen aprirà la manifestazione con Les adieux à la reine, tratto dall’omonimo romanzo di Chantal Thomas sugli ultimi due giorni di vita di Maria Antonietta. Angelina Jolie presenterà il suo primo film da regista, il già discusso Nella terra del sangue e del miele ambientato durante la guerra dei Balcani. Anche il suo ex marito, ovvero Billy Bob Thorntorn, si è messo dietro la macchina da presa per raccontare Jayne Mansfield’s Car, saga familiare incentrata su tre veterani dela seconda guerra mondiale nel 1969. L’idolo delle ragazzine, Robert Pattinson, cercherà di scrollarsi di dosso il ruolo di vampiro con un altro personaggio controverso, quel Bel Ami inventato dalla penna di Guy de Maupassant nel 1885. Assieme a lui, nel cast e sul red carpet di Postdamer Platz ci saranno anche Uma Thurman e Cristina Ricci, mentre Michael Fassbender e Antonio Banderas sfileranno il giorno prima attorno alla star delle arti marziali Gina Carano, protagonista a sorpresa del nuovo film di Steven Soderbergh, Haywire. Sarà anche l’ennesima ma sempre piacevole occasione per rivedere dal vivo Meryl Streep che accompagnerà una speciale proiezione di The Iron Lady (ancora non distribuito in Germania), ruolo che recentemente le è valso la nomination all’Oscar come migliore attrice protagonista. Una candidatura mancata è invece quella di Charlize Theron, che molti davano come una delle favorite all’Academy e che invece arriverà a Berlino con il suo Young Adult (diretto da Jason Reitman) sperando almeno nel successo di pubblico. E poi, attesi, ma non ancora tutti confermati, sono i vari Keanu

S

il paginone Reeves, Salma Hayek, Max von Sydow, Clive Owen, Juliette Binoche, Jean Reno, i premi Oscar Javier Bardem, Christian Bale e Melissa Leo, la celebre giornalista Erin Brockovich (che presenta, da produttrice, il documentario Last call at the Oasis sugli sprechi dell’acqua) e il divo di Bollywood Shah Rukh Khan che già l’anno scorso, con la sua presenza, calamitò migliaia di spettatori attorno al palazzo principale del festival per un autografo.

Anche la composizione della giuria sembra voglia sottolineare la ricerca di un equilibrio tra cinema impegnato e mainstream, con il regista inglese Mike Leigh presidente di una commissione che vedrà al suo interno il glamour di attori come Jake Gyllenhaal e Charlotte Gainsbourg e l’autorevolezza di personaggi come il fotografo Anton Corbjin, il cineasta francese François Ozon, lo scrittore algerino Boualem Sansal e il vincitore della scorsa Berlinale, nonché grande favorito per l’Oscar per il migliore film straniero Asgahar Farhadi, autore di Una separazione. Sarà loro il compito di assegnare il prestigioso Orso d’oro la sera del 18 febbraio. Difficile fare previsioni, da sempre la Berlinale firma film che solo grazie al riconoscimento diventano pellicole attese e vendute nel resto del mondo. Di certo c’è molta curiosità intorno al The Flowers of the War di Zhang Ymou incentrata sul Massacro di Nanchino nella Cina del 1937 e con Christain Bale come protagonista nei panni di un impresario di pompe funebri travestitosi da prete per negoziare con l’esercito giapponese che sta assediando la città. Stessa attesa per il greco Metéora, girato negli omonimi e

Al via ieri la 62esima edizione del Festival di Berlino. E a sorpresa, dopo quattro anni di assenza, in concorso anche un film italiano: «Cesare deve morire» A fianco il regista inglese Mike Leigh, presidente della 62esima edizione del Festival del cinema di Berlino. In basso a sinistra, l’attrice statunitense Angelina Jolie, che esordisce come regista in “Nella terra del sangue e del miele”

E alla fine calò anc

di Andrea difficilmente accessibili monasteri della zona di Salonicco, oggigiorno metafora di una spiritualità a cui la Grecia cerca in qualche modo di fare ricorso per cercare una scappatoia, anche solo mentale, dalla crisi economica. Il rapporto tra il direttore della Berlinale e il cinema italiano non è mai stato di pace e amore, tra totale indifferenza reciproca e aspre polemiche (come quella di tre anni fa con Francesco Giro, all’epoca sottosegretario ai beni Culturali, che, rispondendo a Kosselick che definì il nostro cinema “all’80% culinario”rispose che neanche tutti i film tedeschi sono dei capolavori). Sarà che il vento politico è cambiato, ma quest’anno, dopo ben quattro anni di assenza (l’ultimo fu Caos Calmo nel 2008) avremo un film italiano in concorso. Si tratta di Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani, docufiction girata nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia con protagonisti gli stessi detenuti alle prese con le prove e la messa

in scena del Giulio Cesare di Shakespeare. Non nel cartellone principale, ma comunque presenti a Berlino sono il già discusso Diaz, Don’t clean up this blood di Daniele Vicari (con Elio Germano, Claudio Santamaria e Alessandro Roja) e The Summit (documentario di Franco Fracassi e Massimo Lauria) entrambi aventi il G8 di Genova del 2001 come tema portante. Qui a Berlino, dove nel maggio scorso nel quartiere di

tante scene violente che abbiamo avuto un po’ di dubbi prima di decidere se proiettarle o meno , viene davvero voglia di girare la testa da un’altra parte, ma dopo averci ragionato abbiamo pensato che fosse giusto mantenere la versione integrale». Un ampio spazio verrà dato anche alla Primavera Araba e ai cambiamenti politici che hanno caratterizzato parte del Nord Africa e del Medioriente. Una dozzina di film, soprat-

La pellicola di Paolo e Vittorio Taviani è una docufiction girata nel carcere di Rebibbia, con protagonisti alcuni detenuti alle prese con la messa in scena dell’opera di William Shakespeare Kreuzberg un gruppo di attivisti ha intitolato un parco a Carlo Giuliani, in maniera del tutto spontanea e senza autorizzazione comunale, si può star sicuri che le proieizioni dei due film italiani non diventeranno oggetto di polemiche solo italiane, ma verranno seguite con interesse e spirito critico dagli stessi berlinesi. Tra i due, è sicuramente The Summit quello atteso con maggiore curiosità, soprattutto dopo le parole del direttore della Berlinale: «È un film pieno di interviste, ma contiene anche così

tutto documentari, che spazieranno dall’Egitto al Libano, raccontando il presente, i rischi per il futuro e storie emblematiche del passato, di un’intera area ancora da stabilizzare.

Parallelamente alle proiezioni, diverse conferenze e interviste con il pubblico daranno modo ai berlinesi di confrontarsi direttamente con cineasti, produttori e attori che quelle storie le hanno vissute, e le stanno vivendo tuttora, in prima persona. Sempre sulla stessa


il paginone

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già da tempo e non mancheranno di dare i propri frutti. In un’epoca di crisi, investire oculatamente sul lungo periodo è l’unico modo per resistere davvero. * * *

che il cine-spread

a D’Addio falsariga è la scelta di ospitare il documentario Indignados del francese Tony Gatlif, tratto dall’omonimo libro dell’ex “Ambiasciatore di Francia” Stéphane Hessel, atteso anche lui a Berlino nonostante i suoi novantaquattro anni. Sempre politici saranno i film di Brillante Mendoza con Isabelle Huppert, Captive, storia vera del sequestro di una missionaria francese nelle Filippine nel 2004 da parte del gruppo di estrremisti islamici Abu Sayyaf e, il grottesco film di fantascienza Iron Sky, su di un gruppo di nazisti rifugiatisi per anni sulla Luna e ora pronti a tornare sulla terra per riconquistarla e dare vita finalmente al Quarto Reich. Questa edizione della Berlinale coincide anche con il centenario dei celebri studi cinematografici di Babelsberg. Era il 1912 quando fu girato il primo film della storia degli studios tedeschi, Dance of the Dead con la star dell’epoca Asta Nielsen, a cui nel giro di qualche anno seguirono capolavori come Metropolis (1926) e tanti altri, compresa quella cinematografia nazista che tra il 1922 e il 1945 produsse circa mille pellicole di propaganda più o meno esplicita. Per celebrare l’anniversario, la Berlinale ha messo a punto uno speciale programma

dal titolo “Happy Birthday, Studio Babelsberg” con dieci film, uno per ogni decennio, dall’ultima risata di Murnau al recente The Reader, passando per capolavori come l’Angelo Azzurro con Marlene Dietricht, Goya di Konrad Wolf e Il pianista di Roman Polanski.

A differenza di quanto accade da noi con Cinecittà, ormai sempre più al centro di progetti televisivi di fiction e reality show, le amministrazioni del Brandeburgo e di Berlino da anni lavorano per una riaffermazione mondiale della centralità dei propri studi, tanto che qui Tarantino ha girato il suo Bastardi senza gloria e ormai da sei anni a questa parte vi si svolgono dalle 3 alle 5 produzioni di film americani. Efficienza, funzionalità, bassi costi (rispetto agli Stati

Non mancano ovviamente le polemiche, stavolta provocate dall’esordio dietro la macchina da presa di Angelina Jolie. Che racconta la storia d’amore tra due serbi durante la guerra dei Balcani Uniti), un’ottima scuola di cinema accanto che offre professionale manovalanza e facilità nell’ottenere autoirzzazioni. Se è vero quanto si dice del festi-

val di Roma, ovvero che è nato perché è a Roma che si produce la maggior parte del cinema nazionale, le basi per un futuro roseo della Berlinale sono gettate

Ma il Festival del cinema di Berlino non si risparmia nemmeno in materia di polemiche. Questa volta a essere protagonista delle querelle è Angelina Jolie che, al suo esordio dietro la macchina da presa ha infatti deciso di portare sul grande schermo una storia, scritta di suo pugno, su una tormentata e ambigua storia d’amore tra un soldato serbo e una prigioniera serba durante la guerra dei Balcani. Contesto storico vero (e recente) per una vicenda di completa fantasia o quasi. Impossibile dunque evitare le polemiche. Poco prima che cominciassero le riprese la Bosnia aveva revocato le autorizzazioni a girare nei propri confini spiegando che «la documentazione mancava della sceneggiatura completa» e il ministro della Cultura Gavrilo Grahovac affermò di essere «preoccupato riguardo i reali contenuti della stessa». Durante la realizzazione del film, con il set ormai spostatosi ormai in Ungheria, anche il presidente dell’associazione delle donne vittime della guerra, Bakira Hasecic parlò nell’ottobre del 2010 di “distorsioni della verità” riguardo alle torture e alle violenze carnali che molte donne mussulmani subirono tra il 1992 e il 1995 e solo una lettera della Jolie che assicurò a tutti che sarebbe stata un’ottima “ambasciatrice” nel veicolare le vere sofferenze della guerra, nonché che si sarebbe recata in Bosnia per incontrare di persona i rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni in questione (promessa mantenuta nel luglio del 2011 quando a sorpresa si presentò assieme a Brad Pitt al festival di Sarajevo) riuscì a contenere il dibattito.

Anche i serbi non accolsero con entusiasmo l’idea del film della Jolie. Nel luglio del 2010 il magnate Zeljko Mitrovic negò l’utilizzo dei suoi studi di Simanovic spiegando: «Apprezzo la Jolie, ma è piena di pregiudizi contro i serbi: non voglio essere parte di qualcosa che per l’ennesima volta ritrae i serbi come i cattivi della situazione». Ora che il film è stato già presentato alla stampa nordamericana e a quella serba, i timori di Mitrovic sembrano confermati e il film sta raccogliendo critiche sia da Belgrado sia dai critici puri, che lamentano la pretestuosità di una storia d’amore all’interno di un contesto così drammatico. «Ero piuttosto curiosa di vedere il risultato di questo film, nonostante nutrissi il dubbio che lei lo avesse realizzato senza pensare agli effetti che avrebbe avuto sul pubblico locale. Poi l’ho visto. Non mi sbagliavo», scrive la critica americana di origini bosniache Lela Savic: «Pensa forse che dovremmo esserle grati per avere aggiunto la guerra in Bosnia alla sua lista di opere umanitarie?». Secondo Imdb, il sito americano più importante nel raccogliere le recensioni degli spettatori, il film ha una misera media di 3.2/10 con circa 14mila votanti. A questo punto la parola passa ai critici europei. L’appuntamento è per domani al Palazzo della Berlinale. Riuscirà la bellezza dell’attrice, forse accompagnata sul red carpet da Brad Pitt, a far passare in secondo piano qualsiasi altro discorso?


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società

Il presidente della Repubblica invita all’unità, ma in diversi comuni italiani si continua a litigare sul valore della ricorrenza

«Quella storia non può tornare» Napolitano: «Basta massacri etnici come le foibe. La visione europea faccia superare ogni tentazione di deriva nazionalistica» di Maurizio Stefanini la visione europea che ci permette di superare ogni tentazione di derive nazionalistiche, di far convivere etnie, lingue, culture e di guardare insieme con fiducia al futuro». È l’ottava Giornata del Ricordo, da quando la legge numero 92 del 30 marzo 2004 istituì la ricorrenza che ogni 10 febbraio commemora le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; e la sesta celebrata da Giorgio Napolitano. «Fu una barbarie basata su un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri connotati di una pulizia etnica», aveva detto in occasione della sua prima volta, il 10 febbraio del 2007. Primo capo dello Stato proveniente da quel Pci che sulla vicenda a suo tempo aveva avuto nell’armadio non solo qualche scheletro ma addirittura interi ossari monumentali, proprio per questo motivo aveva evidentemente voluto togliere di mezzo ogni dubbio: anche al costo di fare una dichiarazione di una durezza tale, da evocare quasi certi toni di propaganda nazionalista che ai suoi tempi di giovane eletto del Pci avrebbe sicuramente confutato con sdegno.

un recente libro di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti (Il Mulino, pp.660, Euro 33) ha appunto compiuto uno sforzo notevole per ricostruire quella tragedia in tutte le sue sfaccettature: ricordando anche come l’oblio sulle Foibe non fu realtà tanto il frutto di diktat del Pci, che comunque un certo peso lo ebbero in materia di storiografia; ma soprattutto di scelte diplomatiche. Far entrare anche le Foibe nella generale compensazione per cui furono cancellati i crimini di guerra tedeschi in Italia e quelli compiuti dai militari italiani tra la stessa Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, l’Urss e l’Etiopia; contribuire al recupero di Tito alla strategia occidentale di contenimento anti-sovietico.

«È

Ma la Storia procede, è venuto il tempo del pentimento, è venuto il tempo che lo sdegno fosse dedicato non ai denunciatori del massacro ma ai massacratori, a questo punto è venuto anche il tempo di ricordare la necessità di guardare in avanti. Con la Slovenia già nell’Unio-

«Si è posto fine a ogni residua congiura del silenzio, a ogni forma di rimozione diplomatica o di ingiustificabile dimenticanza rispetto a così tragiche esperienze». Per Riccardi «la fine della Guerra fredda ci ha aiutati a ritrovare la verità» ne Europea e la Croazia che ha deciso di aggiunger visi, «le diverse memorie di frontiera cominciano a conoscersi e a rispettarsi, nella loro insopprimibile soggettività». In Croazia fanno ormai convegni sulla Fiume di D’Annunzio; in Slovenia si fanno dibattiti sulle foibe in cui gli storici chiedono solo di puntualizzare che non si trattò solo di pulizia

etnica contro gli italiani ma di una più generale violenza del regime comunista contro ogni tipo di oppositori, da inquadrare comunque in un contesto in cui dai cetnici serbi agli ustascia croati passando per gli occupanti tedeschi e italiani di ferocia ne era stata sparsa a piene mani un po’ da tutti. Una guerra a parte I militari italiani nei Balcani 1940-1945,

«Si salda una frattura storica, ci si incontra nel comune destino europeo», ha ancora ricordato Napolitano a proposito della “parabola drammatica dell’italianità adriatica”. Ha sottolineato come «serve ricordare anche per ripensare a tutti i fatali errori al fine di non ripeterli mai più». Ed ha ricordato che è in Europa che «dobbiamo trovare nuovi stimoli, facendo leva anche sulle minoranze che risiedono all’interno dei nostri paesi e che costituiscono nello stesso tempo una ricchezza da tutelare, un’opportunità da comprendere e cogliere fino in fondo. Lo dobbiamo tanto alle generazioni che hanno sofferto nel passato quanto alle nuove, cui siamo in grado di prospettare società più giuste e più soli-


società

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La pulizia etnica venne “dimenticata” per decenni dal nostro Paese iovanni Bartoli, l’exsindaco di Trieste che nel 1959 dedicò alla questione il primo studio storico particolareggiato, disse che erano state 4122 le vittime della pulizia etnica commemorata dal Giorno del Ricordo. Nel 1983 il giornalista Antonio Pitamitz pubblicò un nuovo elenco con 4361 nomi. Lo storico inglese Richard Lamb nel suo libro del 1996 La guerra in Italia 1943-1945 scrisse: «Non appena liberata Trieste, Tito aveva cominciato ad ammassare truppe nella zona comprendente la stessa Trieste, Monfalcone, Gorizia, Gemona e Cividale, instaurandovi un governo tutto jugoslavo. Tra il primo maggio e il 12 giugno le formazioni militari titine presero in consegna nella regione 4678 civili italiani, i quali scomparvero senza lasciar traccia, quasi tutti fucilati nottetempo». In questa stima sono però esclusi i militari; e le vittime del resto dell’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia; e le vittime del periodo compreso tra l’8 settembre ed il primo maggio 1945. Il Centro Studi Adriatici ha contato dunque 10.137 nomi. Giampaolo Pansa nel suo Sangue dei vinti ha stimato 15.000 vittime. E non manca chi arriva a 30.000 morti.

G

Non tutte le vittime furono però infoibate. Mario Pacor, storico triestino che era stato partigiano comunista e giornalista dell’Unità e che morì nel 1984, basandosi su documenti dei Vigili del Fuoco di Pola sostenne che nelle foibe istriane erano finite dopo l’armistizio dell’8 settembre tra le 400 e le 500 persone, mentre altri 4000 italiani erano stati deportati, in gran parte uccisi in procedimenti sommari e in seguito finiti in gran parte in foibe anch’essi. Ma sono i dati del solo 1943. La Commissione storica italo-slovena che su iniziativa dei due ministeri degli Esteri ha esaminato i rapporti tra i due Paesi tra il 1880 e il 1956, ha stimato i morti

Le fosse di Tito e l’oblio dell’Italia Gli italiani trucidati sono rimasti senza nome fino al 2007, anno in cui nasce la Giornata di Mauro Frasca nell’ordine delle “centinaia”: ma limitandosi alle sole esecuzioni sommarie, e senza considerare l’attuale territorio croato. Raoul Pupo, docente di Storia Contemporanea a Trieste e considerato uno dei massimi esperti del tema, parla di 5000 morti. Il goriziano Guido Rumici parla di 6000 vittime, che diventano 11.000 considerando anche i desaparecidos nei lager jugoslavi. Anche autori a volte tacciati di “negazionismo” come Giacomo Scotti o Claudia Cernigoi non negano il fatto che della gente sia stata “infoibata”. Sostengono però che la propaganda ha gonfiato le cifre, e che comunque gli eccessi vanno spiegati con la politica di snazionalizzazione forzata praticata dal fascismo in Venezia Giulia e Istria: una linea fatta propria anche dalla anticomunista Croazia post-titina. I dati oggettivi sono che su una popolazione complessiva di 773. 119 persone durante la Seconda Guerra Mondiale i morti giuliani, istriani e dalmati furono 23. 735, cioè il 3, 07%. Ciò, in rapporto a una media nazionale dell’1%. E più di 380. 000 persone abbandonarono le loro case e le loro terre. Dei 66. 000 abitanti di Fiume ne partirono 58. 000. Dei 40.000 di Pola se ne andarono 36.000. Dei 21.000 di Zara, 15. 000. Tra questi profughi c’erano anche 50.000 di etnia croata, dei quali 10.000 decisero

dali, capaci di autentica coesione perché nutrite di senso della storia, ricche di un’intensa esperienza di riconciliazione e di un nuovo impegno di reciproco riconoscimento». «Impegnarsi a coltivare la memoria e a ristabilire la verità storica è stato giusto e importante. Si è posto fine a ogni residua congiura del silenzio, a ogni forma di rimozione diplomatica o di ingiustificabile dimenticanza rispetto a così tragiche esperienze». Forse c’è un filo di retorica ormai inconsueta: ma meglio la retorica sui valori alti, che non la crassa invettiva qualunquista in cui troppo spesso rischia ormai di naufragare il dibattito politico italiano, a sinistra come a destra. Semmai, forse un difetto di Napolitano è l’eccesso di ottimismo. A parte

Esemplare la violenza simbolica con cui le vittime venivano colpite, avendo cura che si sapessero i macabri particolari. Don Tarticchio fu ucciso con una corona di spine in testa comunque di mantenere la cittadinanza italiana. E dal punto di vista sociale tra gli esuli c’era un 7,7% di proprietari, un 5,7% di liberi professionisti, un 17,6% di dirigenti ed impiegati, un 47, 6% di operai e un 23, 4% di anziani ed inabili. Insomma, non è solo una questione di odi etnici o di lotta di classe. E neanche di antifascismo, visto il lungo elenco di antifascisti e partigiani infoibati. Tra essi, tre membri del Cln di Trieste; due di quello di Fiume; Vinicio Lago, ufficiale di collegamento della Brigata Osoppo; Enrico Giannini, del Corpo Italiano di Li-

che la crisi sta risvegliando in Europa giusto quel tipo di nazionalismo estremista già alla radice delle tragedie del ‘900: purtroppo non è che la nozione di un Giorno del Ricordo condiviso da tutti al di là delle ideologie, possibilmente da considerare assieme all’altro Giorno della Memoria che invece ricorda la Shoà, sia ancora del tutto passata, come si vede dal tipo di polemiche e incidenti che a ogni 10 febbraio continuano a esserci. Al Consiglio Provinciale di Firenze, ad esempio, quest’anno Pd e Pdl sono riusciti a presentare sul tema due mozioni largamente convergenti.

Mentre nella vicina Pistoia è stato invece il Pdl a scendere in campo contro la decisione del sindaco Renzo Ber-

berazione. Angelo Adam, ebreo e repubblicano storico, finì infoibato dopo essere stato confinato a Ventotene ed essere scampato anche al lager di Dachau: sua moglie e sua figlia minorenne, arrestate per essere andate a chiedere informazioni sulla sua sorte, furono fatte scomparire a loro volta. Teobaldo Licurgo Olivi, membro socialista del Cln di Gorizia, fu arrestato dagli jugoslavi il 5 maggio 1945 e fucilato a Lubiana il 31 dicembre successivo. Di Augusto Sverzutti, membro dello stesso Cln per il Partito d’Azione e arrestato assieme a lui, si sa che

ti di distribuire alle scuole nel Giorno del Ricordo Dossier Foibe: un libro di Giacomo Scotti accusato a sua volta di “negazionismo”, ovviamente in senso opposto a quello inteso dai Centri Sociali; sebbene lo stesso Berti insista che non si tratta affatto di un testo che vuole negare la tragedia, ma semplicemente di un lavoro che cerca di inquadrarla in un contesto più generale. Scotti in effetti è un vecchio comunista campano che nel 1947 andò in Jugoslavia proprio nella zona da cui gli italiani erano stati espulsi, per partecipare alla “costruzione del socialismo”. Divenuto scrittore e poeta in croato, per tanti anni ha scritto testi filo-titoisti; è però vero che nel 1991 dopo la fine del regime comunista scrisse un libro cla-

era ancora vivo e detenuto nel 1949. Poi, il mistero. Rocco Cali, un partigiano della Brigata Garibaldi Natisone, era addirittura comunista. Ma fu assassinato a Rovigno d’Istria nel maggio 1945 perché, anche dopo la decisione del Pci di far passare l’unità alle dipendenza del IX Corpus sloveno, aveva rifiutato di togliere la coccarda tricolore che sempre portava accanto alla bandiera rossa.

Furono sterminati anche i lader del Partito Autonomista Fiumano, che sognavano uno Stato indipendente sia dall’Italia che dalla Jugoslavia: Mario Blasich, strangolato nel suo letto di paralitico; Giuseppe Sincich; Mario Skull; Giovanni Baucer; Mario De Hajnal; Giovanni Rubinich... E furono anche uccisi un bel po’ di slavi non comunisti: Ivo Bric, antifascista cattolico; Vera Lesten, poetessa e antifascista cattolica; i quattro membri della famiglia Brecelj; i sacerdoti don Alojzij Obit, don Lado Piscanc, don Ludvik Sluga, don Anton Pisk, don Filip Tercelj, don Izidor Zavadlav di Vertoiba... Andrej Ursic era stato addirittura un membro del Tigr: gruppo armato che dagli anni ’20 aveva iniziato una lotta terrorista contro le autorità italiane, contro l’annessione all’Italia di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (le cui iniziali in lingua slava costuituivano l’acronimo del nome della belva richiamata nel nome). Ma fu sequestrato dalla polizia segreta jugoslava il 31 agosto del 1947, sottoposto a sevizie, probabilmente ucciso nell’autunno del 1948, e il suo cadavere gettato in una delle foibe della Selva di Tarnova. Esemplare fu anche la violenza simbolica con cui le vittime venivano colpite, avendo cura che si sapessero i macabri particolari. Don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, fu gettato nella foiba con i genitali in bocca ed una corona di spine sulla testa.

moroso su quell’isola di Goli Otok dove Tito aveva costruito il gulag per i suoi nemici politici.

Polemica anche in Liguria, tra il sindaco di Genova Marta Vincenzi che a sua volta ha invitato a “contestualizzare” le foibe “nel contesto delle guerra, dopo gli anni di vero e proprio razzismo etnico portato avanti dal fascismo”; e il presidente della Provincia di Savona Angelo Vaccarezza, che la taccia di “pregiudizio politico e ideologico”. E ricordiamo il viaggio di Schifani a Basovizza, che ha anche una funzione di simbolica riparazione per l’atto dei vandali che un anno fa ne avevano sfregiato il monumento. Ma forse le polemiche sono comunque meglio dell’oblio.


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Corruzione, traffico di droga, istituzioni democratiche: sono questi gli obiettivi a breve termine di Isaf prima del ritiro

Goodbye, Kabul Il generale Allen racconta la vita sul campo di un esercito pronto a lasciare l’Afghanistan di Pierre Chiartano

BRUXELLES. L’atmosfera è quella rarefatta delle grandi occasioni, ma informale abbastanza per far sentire tutti a proprio agio. Siamo a Bruxelles, in una zona non lontana dal comando Nato e dall’aeroporto. Al secondo piano di un ristorante elegante c’è un piccolo convegno di giornalisti, militari e diplomatici. Il tema è l’Afghanistan in modalità off the record. Significa che chi scrive non può mettere virgolettati e che ogni argomento sarà una libera interpretazione di ciò che è stato detto tra l’antipasto e il dolce. I diplomatici sono due vice del segretario generale Anders Fogh Rasmussen, responsabili per l’Afghanistan e la public diplomacy. Il militare in abiti civili è il generale John R. Allen, co-

Le operazioni militari stanno funzionando. Taliban, insurgent, bande criminali e signori della droga non sono in grado di resistere a lungo mandante in capo di Isaf, la missione militare nel Paese centrasiatico che dovrebbe concludersi nel 2014. Ha un attendente, un maggiore dei Marines che mi racconta quanto siano dure le prime due settimane di addestramento a Quantico. Sembra

la controfigura di Obama ed è un campione di tatto e diplomazia. I media sono ben rappresentati da esperti e vertici del Times, Figaro, Le Monde e la tv pubblica nipponica Nhk. Naturalmente era già scoppiata la piccola mina mediatica delle dichiarazioni di Leon Panetta, segretario alla Difesa Usa che durante il volo verso la capitale belga aveva anticipato le mosse del ritiro e del cessate il fuoco, creando qualche imbarazzo a Rasmussen il giorno dopo.

Ma dobbiamo ammettere che a parte qualche sottolineatura della stampa, la questione era puramente formale. Il presidente Barack Obama, ancora una volta, ha voluto mantenere una promessa fatta in campagna elettorale: via dall’Iraq, via dall’Afghanistan as soon as possible (prima possibile). L’interesse americano è ora assorbito dal confronto con la Cina e dallo scenario Pacifico. Ciò che invece è assai interessante è l’analisi che ne scaturisce dell’intervento in Afghanistan, «una guerra inutile e costosa» secondo l’esperto americano e consulente del Pentagono, Edward Luttwak.

Le operazioni militari stanno funzionando. Taliban, insurgent, bande criminali e signori della droga non sono in grado di sopportare a lungo una costante pressione. Avere costantemente il fiato sul collo porta a

Sopra, John R. Allen. In apertura, soldati americani in Afghanistan. In basso, la sede della Nato a Bruxelles. A destra, l’esercito afghano commettere errori e gli affari politici ed economici ne soffrono troppo. E il passaggio di consegne all’esercito afgano sta procedendo bene: sono ormai in grado di articolare operazioni congiunte complesse sul campo e a livello di pianificazione. Il primo punto era costituito dal controllo delle vie di comunicazione, elemento chiave in un Paese scarsamente popolato e costituito da altopiani desertici e da valli montuose, a volte inaccessibili. Ciò che preoccupa a prima vista un osservatore è lo squilibrio tra lo stato d’avanzamento delle operazioni militari della cosiddetta transizione - che è stata divisa in quattro fasi e la cui seconda

fase è ancora in atto - e la transizione politica.

Basta prendere un elicottero da Herat e girare nelle Fob (le basi avanzate di Isaf) a sud e a nord della provincia occidentale – quella che confina con l’Iran – per avere l’impressione di viaggiare non su un mezzo aereo, ma su di una macchina del tempo. Si passa dall’era moderna al Medioevo, fino a un tempo dove i Flintstones si troverebbero a loro agio. Chi è Karzai? Dov’è Kabul? Cos’è l’Afghanistan? Sono domande che puoi sentirti fare dagli abitanti di valli che sono l’alfa e l’omega, l’intero universo per la gente che vi abita. Allen è un pragmatico, umile, prepara-

to, mai arrogante, sempre misurato e attento nelle risposte, quasi politico senza esserlo veramente. È il prodotto, come la maggior parte degli uomini in divisa statunitensi, di un concetto molto radicato: quello dei cittadini in divisa.

Grande rispetto per i media che significa per la società civile. Pronto ad affrontare. Non sono una casta, pur gestendo molto potere. Sono obbedienti al potere politico ma non sottomessi, quando c’è da criticare alcune scelte di Washington lo fanno fuori dai denti. E un predecessore di Allen lo ha fatto. Ti danno subito la percezione di quanto la cultura democratica possa inci-


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ranger Usa, incaricati di addestrare le forze di polizia locali agiscono in modo diverso.

Quando i capi di un villaggio, stanchi della perenne insicurezza causata dai traffici di talebani e signori della droga, chiedono che venga istituita una cellula di polizia locale, i ranger si trasferiscono in loco. Mangiano e dormono con gli afgani che addestrano. Creano un forte cameratismo e senso di condivisione. Un metodo sicuramente vincente che rompe gli automatismi sociali e antropologici, spezza i legami psicologici e crea un nuovo senso di appartenenza. Dopo questo tipo d’addestramento, aver respirato gli stessi odori e mangiato dalla stessa gavetta, le forze di polizia danno veramente filo da torcere a criminali e talebani. Il discorso sulle guardie di frontiera è in parte differente. Lì c’è l’interesse dei drug lord a non avere un corpo di sicurezza che controlli veramente i confini e possa dunque creare problemi ai loro loschi traffici. I punti di transito con l’Iran sono porosi, specie vicino a Mashhad, storico centro persiano poco distante dalla provincia di Herat. Capitale della regione del Razavi Khorasan è anche diventata la capitale della droga dei pasdaran. Da tempo in quella provincia sono

dere sul comportamento. Gli americani fanno la guerra vera e spesso non vanno per il sottile, ma imparano dai loro errori. Oggi sono molto più propensi a delegare funzioni e competenze agli alleati che dimostrino di saper fare bene. A volte meglio di un ufficiale della Guardia nazionale, catapultato da Cape Girardeau nel Midwest all’Helmand. Ora l’imbalance tra operazioni militari che funzionano e lo state building che potrebbe dare risultati nell’arco di un secolo, non è una preoccupazione per il comando americano. Del resto i Balcani insegnano, il Kosovo anche. Servono tempi storici, ma ciò non vuol dire che la strada intrapresa non possa funzionare. La strada giusta potrebbe essere un modello di stato federale e l’Iraq ne è un buon esempio, anche se non sappiamo ancora quanto funzionerà.

Ora si dialoga con i talebani dopo averli sfiancati militarmente. Sono degli interlocutori affidabili? Se faceste la domanda a un mujahid vi guarderebbe male. Già durante la guerra all’esercito sovietico durante l’occupazione, i talebani erano famosi. Forse meglio sarebbe dire famigerati tra i combattenti afgani. Non finivano mai una battaglia al fianco di coloro con i quali l’avevano cominciata. Dopo le prime raffiche cominciavano le contrattazioni e non era raro trovarsi una pallottola nella schiena, sparata dall’amico talebano. Sull’affidabilità degli studenti

coranici nessuno mette la mano sul fuoco: siamo solo all’inizio di una trattativa. Sul fronte militare non sono neanche tutte rose quelle che si vedono sul terreno. Se le forze armate locali sono vicine al completamento numerico e all’efficienza necessaria per raccogliere il testimone da Isaf, non altrettanto si può affermare per le forze di polizia e per le guardie di frontiera.

I Balcani e il Kosovo insegnano: per creare uno Stato servono tempi storici, ma ciò non vuol dire che la strada intrapresa non possa funzionare

Ma la risposta è semplice quanto ovvia: una cosa alla volta. La priorità era l’esercito. Ora nell’agenda di Isaf c’è la costruzione di forze di polizia affidabile non solo dal punto di vista operativo. Serve combattere la corruzione interna e le vecchie strutture feudali. Spesso dopo il periodo d’addestramento i poliziotti, con le divise nuove e le armi scintillanti, tornavano al reparto, che fosse una stazione di polizia o un posto di frontiera

sperduto. Dopo qualche settimana si erano venduti divisa, armi ed equipaggiamento e potevi vederli pascolare i greggi. Ma soprattutto prendevano ordini dagli elder locali. Lo stesso dicasi per le “diserzioni”. Se un afgano in divisa deve tornare al suo villaggio per un matrimonio, per tosare le pecore o per badare ai fatti suoi, lo fa senza chiedere il permesso a nessuno. Anche in questo caso la lezione è stata imparata. Ora i Berretti verdi dei

attive sette piste semipreparate dove ad ogni stagione del raccolto d’oppio decine di Antonov caricano i pani che vengono poi smistati una parte su Teheran un’altra verso Bratislava.

Il traffico sarebbe gestito da una branca autonoma delle Guardie della rivoluzione che curano che ad ogni passaggio di un carico di stupefacenti le guardie di frontiera iraniane e afghane si eclissino. Isaf sarebbe a conoscenza di una parte del problema, ma non avrebbe ancora raggiunto evidenze tali da poter puntare il dito su dei colpevoli. C’è da notare però che Allen ha alle spalle una certa esperienza acquisita nella giungla colombiana, come responsabile delle operazioni d’addestramento dei reparti antinarcos locali. Non sarà stato certamente un caso che sia stato messo al comando di Isaf in un paese che

è il primo produttore al mondo di oppio. E l’oppio oltre ad essere illegale e un mezzo per finanziare in fretta qualsiasi iniziativa e non è da escludere che all’interno delle Gdr sia in atto una faida in cui il traffico sarebbe solo uno dei tanti aspetti della guerra interna al regime.

Ad ogni modo, il prossimo obiettivo di Isaf è raggiungere un buon livello d’affidabilità per quanto il corpo di militari frontiera che è a sua volta suddiviso in due branche: coloro che pattugliano le aree di confine e le guardie doganali sui valichi. Parte di questo lavoro è anche svolto dalla Task force Grifo a responsabilità delle Fiamme gialle italiane ad Herat. Non bisogna nascondere un altro problema la conoscenza della lingua inglese, una difficoltà risolta per gli alti gradi ma ancora un problema se si scende nella catena di comando. Ad esempio a Shindand dove vengono addestrati dagli istruttori dell’Aeronautica italiana i piloti della costituenda aviazione afgana. Lavorano sui grandi elicotteri Mi 17 di fabbricazione russa, dove è presente un traduttore durante le lezioni di volo. Si fa notare però che sono state appena brevettate le prime donne pilota. E in un Paese islamico tradizionalista come l’Afghanistan non è cosa da poco. Comunque sia, le difficoltà non si nascondono, ma vista l’enormità dell’impresa, portare a standard accettabili uno dei paesi più poveri e arretrati del mondo, i militari possono essere soddisfatti del lavoro svolto sul campo. Lo stesso Segretario di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, in una recente dichiarazione, aveva affermato quanto «non fosse facile» lavorare con gli alleati «afghani e pakistani». Ma la responsabile di Foggy bottom è l’unica a potersi permettere critiche agli “alleati”: per tutti gli altri, militari compresi, la parola d’ordine è non offendere o criticare gli afghani. E dopo qualche giorno in quel Paese comprendi meglio anche perché. Allen ha un curriculum sterminato che va dalle responsabilità prettamente militari a quelle dell’insegnamento e della direzione di varie accademie, è stato persino membro del prestigioso Council on foreign relations. Rimane un militare che difficilmente si fa mettere nel sacco, anche dal giornalista più preparato e cinico. Durante tutta la cena ha toccato appena il cibo, ha bevuto pochissimo e ha alternato l’approccio serio di chi ti spiega il punto di vista di Isaf a quello più rilassato di chi non si tira indietro di fronte a una battuta. Non ha bisogno di cercare argomenti particolari per dare un senso a più di dieci anni di guerra. Non è come «Giovanni Drogo», l’ufficiale del romanzo di Dino Buzzati in perenne attesa degli eventi, Allen gli gestisce e li domina gli eventi. E con i «tartari» ha a che fare ogni giorno.


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grandangolo L’analisi del più grande dissidente cinese

«Vi racconto come è stata rubata la terra ai contadini della Cina»

Mentre il Paese corre dal punto di vista industriale, le campagne sono sottosviluppate. Non si tratta di errori tecnologici o di incapacità dei coltivatori: la colpa è del Partito, che sfrutta la proprietà dei terreni per ottenere enormi ricavi e non cede la proprietà degli appezzamenti. Ma soltanto se divengono privati possono ricominciare a fruttare. Lo provano le fattorie degli Usa di Wei Jingsheng entre il Paese corre dal punto di vista industriale, le campagne sono povere e sotto-sviluppate. Non si tratta di errori tecnologici o di incapacità dei contadini: la colpa è del Partito, che sfrutta la proprietà dei terreni per ottenere enormi ricavi e non cede la proprietà pubblica degli appezzamenti. Che soltanto se divengono privati possono ricominciare a fruttare.

M

Se parliamo della stagnazione dell’economia rurale e della povertà diffusa fra i contadini, qualcuno continuerà a trovare delle scuse per questa situazione. Queste persone diranno che questi fattori sono dovuti alla bassa produzione, alla scarsa qualità della popolazione, alla mancanza di terreni ecc… Queste scuse sono tutte senza senso, se usiamo la verità per guardarle. Il contro-esempio favorito da queste persone sono gli Stati Uniti: campi aperti e tecnologie avanzate, fra cui contadini che hanno conseguito un master, ecc… In effetti, questi elementi sono tutti veri.

Ma anche la Cina ha molta terra, e una volta anche gli Stati Uniti dipendevano da un’agricoltura su piccola scala. Perché la Cina non ha operazioni di larga scala? A causa della sua politica dei terreni. Il Partito comunista cinese ha sempre insistito, sin dai suoi primi giorni, sul fatto che la proprietà della terra è pubblica. Alcuni pensano che questa

insistenza sia dovuta a ragioni ideologiche. Ma perché quasi tutte le altre cose possono essere privatizzate e la terra no? Se guardiamo con attenzione ai “principini” che diventano ricchi smerciando terreno e compiendo demolizioni, avremo la nostra risposta.

La popolazione odia questi “principini” non tanto per una questione ideologica, ma a causa degli enormi profitti e delle atrocità che commettono. I cinesi adulti con molta esperienza sanno che i concetti tradizionali del popolo cinese

Mao Zedong ha preso il potere giurando di voler ridare prosperità ai campagnoli. Ma proprio loro sono stati traditi sono ancora influenti, e quindi considerano “eroi i figli degli eroi”, così come il figlio dell’imperatore è un imperatore. Quindi per tradizione la popolazione ha un atteggiamento più tollerante nei confronti dei figli dei dirigenti comunisti, che sono divenuti i nuovi dirigenti.

Tuttavia, quando vengono violati gli interessi vitali e la sicurezza della popolazione, la questione cambia.

Sin da quando si è verificato l’episodio di “mio padre è Li Gang, il più alto dirigente locale”, la popolazione potrebbe picchiare questi “figli” in maniera indiscriminata, se qualcuno che crea incidenti dovesse ancora dire cose come “mio padre è questo e quello”. Questa nuova mentalità è il frutto dei numerosi casi di bullismo da parte di questi “principini”che si sono accumulati contro la popolazione. Dalla vita che conducono ogni giorno, i dirigenti comunisti di seconda generazione hanno capito che le ricchezze del governo sono una loro proprietà privata. Di conseguenza è difficile per loro non essere arroganti: “I nostri genitori hanno usurpato i terreni e le proprietà degli altri, mentre noi ci limitiamo a picchiare la gente per strada e creare altri piccoli incidenti”. Essere trattati in maniera violenta dalla popolazione li fa sentire sbagliati, pensano di essere i capri espiatori dei loro genitori. Il fatto che la proprietà della terra in Cina sia materia non chiara ha creato l’opportunità, per questi ufficiali corrotti, di ottenere veloci profitti dalla questione. L’effetto collaterale è che la concessione delle terre è bloccato e, quando avviene, è sempre su piccola scala. Si guadagna molto poco dalla terra. I

giovani contadini tendono in maniera naturale a lasciar perdere l’agricoltura e migrare nelle città per diventare operai. Molto ridotta è anche la probabilità di utilizzare tecnologia avanzata su un piccolo pezzo di terra. Accoppiato tutto questo con la corruzione autoritaria, si riduce lo spazio per uno sviluppo dell’economia rurale, e questo a sua volta produce povertà nelle campagne.

Quindi, per risolvere il problema a collo di bottiglia dello sviluppo economico rurale in Cina, la prima cosa che si deve risolvere è la dittatura comunista al livello della base. Non si deve sconfiggere soltanto la corruzione ma, cosa più importante, si devono liberare i contadini e ridare loro la libertà che hanno per tradizione sempre avuto. Il secondo fattore importante è la privatizzazione delle terre. Questa non porta soltanto all’annessione dei terreni per lo sviluppo di un’agricoltura su larga scala; infatti, anche su piccola scala si può sviluppare un’agricoltura moderna. L’agricoltura in Giappone, a Taiwan e in Europa è portata avanti su piccoli appezzamenti con un altissimo tasso di efficienza. Tuttavia non importa quanta agricoltura su larga o piccola scala sia avanzata da un punto di vista tecnologico: l’atteggiamento della popolazione è il fattore vitale, direi decisivo. Negli Stati Uniti, in Giappone o in Europa la


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e di cronach

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ragione alla base di una buona gestione delle terre è che i contadini sono i proprietari dei terreni. Alcune persone compiono un errore profondo sulle grandi fattorie americane, e pensano che siano dovute all’acquisizione delle terre. Non è così. In effetti alcune fattorie e alcuni ranch sono molto ampi, almeno quanto ai tempi dei pionieri. Tuttavia, come nell’antica Cina, con la divisione dovuta ad acquisti e vendite, le porzioni di terra si sono ridotte sempre più. Tranne quei pochi contadini che hanno la capacità di gestire piccoli lotti, gli altri hanno affittato la loro terra o assunto delle persone per coltivarle. Questa riconfigurazione assomiglia molto all’antico sistema delle terre in Cina. Per esempio, la mia terra non è coltivata: così, la affitto al mio vicino. La maggior parte del salario del mio vicino proviene dal suo lavoro esterno come impiegato. Lui unisce la sua terra con quella dei vicini, inclusa la mia, e prende altri contadini per coltivarla. E’ simile all’antico sistema dei signori delle terre. Il contadino che coltiva un piccolo pezzo non ha molta terra, ma ottiene il suo denaro coltivando questa terra più ampia (resa ampia dalla collettivizzazione). Ai miei occhi il mio vicino è molto simile a un povero, mentre il contadino che lui ha assunto sembra molto più benestante.

È in questo modo che arriviamo alla formazione della moderna agricoltura su larga scala, con un’efficienza che supera di molto la coltivazione dei piccoli lotti. Il grano che mietono viene venduto a basso prezzo e spesso non si ottiene il giusto ricavo, ma possono chiedere ad altri di comprarlo o sono costretti a lasciarlo lì. Negli Stati Uniti vediamo spesso grandi appezzamenti lasciati senza coltivazione. Negli Usa questo accade perché non si riesce a vendere il grano a un prezzo giusto, mentre in Cina accade perché non si capisce di chi

sia la proprietà della terra, persino se il cibo non basta per la richiesta interna. La ragione principale per questa errata gestione della terra in Cina è dovuta alla mancanza di chiarezza sulla proprietà dei terreni. Nominalmente si tratta di terre di proprietà dello Stato, eppure ogni livello di burocrati ha una qualche forma di controllo su di esse. In particolar modo i tiranni rurali hanno il diritto di modificare l’uso delle terre in ogni modo, in qualunque momento.

È naturale che i contadini non abbiano alcun incentivo per investire nei terreni. Il mio contratto di affitto contiene delle clausole su come devo usare e

La storia ha provato che la proprietà pubblica dei terreni agricoli è un passo indietro, un ritorno all’era feudale e alle carestie mantenere la fertilità del suolo ecc… Questo perché i proprietari dei terreni sono molto accurati nella protezione dei loro beni, che divengono una forma di ricchezza.

I contadini cinesi non proteggeranno così tanto la terra, perché non è loro. Non c’è molto bisogno di curare una cosa che non ti appartiene: è la natura umana. Allo stesso modo, l’instabilità dei diritti sui terreni diventano un’importante fonte di autorità per i dirigenti comunisti rurali, che ora modificano i diritti di proprietà delle terre che divengono la loro maggiore fonte di red-

dito. Al contrario, a causa di questa instabilità, l’investimento che un contadino fa nella terra diventa profitto per un altro. Quindi si verifica un declino generale nella fertilità del suolo e una riduzione della produzione. La terra, questa importante proprietà, viene deprezzata a causa di una legge irragionevole del governo comunista sulla proprietà dei terreni.

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Eppure in Cina l’uso di grandi mac-

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chinari agricoli è attuato allo stesso modo che negli Usa. Questo dimostra che i contadini cinesi possono gestire bene l’agricoltura moderna senza altri che li costringano a “migliorare la loro qualità”. Questo avviene perché la proprietà dei macchinari è relativamente chiara, mentre la terra non ha un proprietario definito in maniera chiara. Tutti gli altri avanzamenti non sono sufficienti a cambiare in maniera completa la situazione agricola della Cina. Soltanto quando la terra sarà privatizzata, allora l’agricoltura moderna potrà stabilizzarsi in Cina. Altrimenti sarà una mera variante della collettivizzazione agricola dell’ex Unione Sovietica.

La storia ha provato che la proprietà pubblica dei terreni agricoli è un passo indietro all’era feudale. Ha provocato enormi carestie, in Cina e in Unione Sovietica. Anche con l’uso della tecnologia moderna non si possono evitare. Anche se abbiamo imparato per molti decenni questa lezione, perché le riforme si sono fermate dopo il mezzo passo in avanti compiuto 30 anni fa? La natura avida dei capitalisti burocrati e la domanda di lavoro a basso costo da parte del capitale internazionale sono le cause principali che provocano un lento sviluppo economico rurale in Cina.

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La stupefacente faccia tosta dell’ex terrorista Cesare Battisti, che sfilerà sui carri in Brasile con tanto di costume a pois

Il Carnevale del “Rio” di Gabriella Mecucci ondannato per ben quattro omicidi con sentenze passate in giudicato, sfilerà sorridente e tranquillo con tanto di costume a pois al carnevale di Rio. Non è una delle tante notizie di malagiustizia italiana. Questa volta, nella storia di Cesare Battisti, l’Italia non ha colpe. Da noi l’ex terrorista è stato condannato con sentenze passate in giudicato per quattro omicidi (commessi in concorso) e sarebbe finito in carcere. Ma la Francia e il Brasile hanno consentito e consentono a questo assasino di spassarsela. Quando evase dalle galere nostrane finì a Parigi. E lì, protetto dalla “dottrina Mitterrand”, diventò uno scrittore di successo. Gli intellettuali transalpini si convinsero non solo che era innocente, ma che fosse un perseguitato politico. Sembra che fra i suoi difensori ci sia stata persino la moglie dell’inquilino dell’Eliseo. Madame Carlà per fortuna ha smentito, ma di protettori Cesare ne ha parecchi e altolocati: dall’ex presidente brasiliano Lula, alla compagnia di giro di Porto Alegre, ameno rifugio di ideologi no global e ex terroristi non pentiti. E poi ci sono filosofi e scrittori suoi attivi sodali: da Bernard Henri Levy a Daniel Pennac, da Gabriel Garcia Marquez all’iper legalitario Roberto Saviano (per fortuna ha poi ritirato la sua firma di solidarietà). Fra un libro e un altro, un party e un altro, una sfilata di carri e un’altra, Battisti concede anche numerose interviste. L’ultima l’ha fatta alle Iene alle quali ha spiegato

C

che il presidente italiano Giorgio Napolitano è un vetero stalinista e non è certo un tipo che possa dire all’Italia“Giriamo pagina”. E siccome non c’è limite al peggio, ha anche chiesto di avere finalmente un processo in cui sia messo in condizione di difendersi. Roba da non crederci, a questo viveur dal grilletto facile, non basta spassarsela, vuole anche dare lezioni. E, prima i nostri cugini francesi poi gli amici brasiliani, lo hanno acclamato. E a poco serve spiegare loro

“graziato” delle sue malefatte, avesse almeno il tatto di vivere con sobrietà, senza cercare la ribalta per pavoneggiarsi. E per insultare le più alte istituzioni del suo Paese. C’è un uomo in Italia che rappresenta l’opposto di Cesare Battisti. Uno è il polo negativo, l’altro il positivo. Uno è il nero, l’altro è il bianco. Si tratta di Adriano Sofri, che proprio qualche giorno fa ha finito di scontare la sua pena. Ha sempre proclamato la sua innocenza, ma non è scappato

CONFESSO Non gli basta la protezione di chi gli ha dato e gli dà ancora gentile ospitalità. Ma avesse almeno il tatto di vivere con sobrietà, senza cercare la ribalta per pavoneggiarsi

che Battisti non solo ha ucciso delle persone inermi, ma non se n’è nemmeno pentito. Ed è anche reo di evasione dal carcere. Per loro è un perseguitato a cui riconoscere i diritti del rifugiato politico. Come se non avesse avuto regolari processi. Come se con lui i giudici si fossero comportati alla maniera di Torquemada. Si tratta di un’offesa pesantissima alla giustizia italiana e al dolore dei parenti delle vittime.

Certa intellighenzia e certa sinistra, che hanno esaltato sui giornali di tutto il mondo i nostri magistrati quando hanno processato Craxi, Forlani e Berlusconi, dovrebbero avere la decenza di spiegarci perché i medesimi magistrati si siano trasformati in veri e propri persecutori per Cesare Battisti. Ma tant’è, costoro sono garantisti a corrente alternata. Quanto a lui, all’ex terrorista mai pentito, dopo che è stato

davanti alla condanna a 22 anni. Ha subìto nove processi che hanno avuto sentenze contraddittorie: colpevole, innocente, colpevole. Alla fine, dopo l’ultimo pronunciamento della Cassazione, è andato in carcere. Prima di finire in galera in modo definitivo, aveva più volte riconosciuto i propri errori politici: cosa non comune né in Italia né altrove. Aveva aiutato - non senza rischio - il dissenso dell’Est. Era stato a lungo a Sarajevo da dove la sua voce si era alzata in difesa di una popolazione massacrata dai bombardamenti e dai cecchini serbi. Riuscì, insieme ad altri intellettuali, a smuovere l’opinione pubblica mondiale sino ad arrivare all’intervento armato americano che salvò la città dalla distruzione e i musulmani bosniaci dall’olocausto. Strinse durante l’assedio di Sarajevo straordinarie amicizie: uomini e donne che sopravvissero grazie al suo aiuto. Poi tornò in Italia, venne raggiunto dall’ultima sentenza di condanna e finì dietro le sbarre. Da lì ha scritto libri, partecipato al dibattito politico e culturale attraverso i suoi articoli. Non ha mai chiesto la grazia perché - ha spiegato - non chiede la grazia chi è innocente. Ha scontato tutta la pena sino all’ultimo giorno e ora dà una mano a sistemare la biblioteca della Normale di Pisa. Mentre Battisti balla la samba brasilera del povero rifugiato politico.


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