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he di cronac

Solo chi ha fede in se stesso può essere fedele agli altri

Erich Fromm

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 14 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Presentata alla Camera la proposta centrista: parte del finanziamento alla formazione dei giovani

Partiti, ora cambiate tutto! Casini lancia la riforma: obbligatorie democrazia e trasparenza La Cassazione vigilerà sulle regole interne e la Corte dei Conti sui bilanci: altrimenti niente soldi pubblici. Il leader Udc: «Spero che Alfano e Bersani capiscano l’urgenza di una svolta» di Gualtiero Lami

La più brava, la più infelice

ROMA. Il primo passo? Essere

L’approvazione del piano spinge le Borse

Atene, il governo passa la mano. Voto anticipato a marzo

di Antonella Giuli

«Il sistema è in zona Cesarini» La riforma proposta dal leader centrista si deve tradurre in realtà, perché il Paese cambia e la politica deve seguirlo. Parlano D’Alimonte, Mannheimer e Pombeni Franco Insardà • pagina 4

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Parla il senatore Udc Gianpiero D’Alia

«Torniamo alle libere associazioni» «Lo Stato non può decidere chi può fare un partito e chi no. Può decidere a quali condizioni si può accedere ai fondi pubblici e controllare che queste vengano rispettate»

Francesco Pacifico • pagina 6

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n tanti la ricorderanno per lo più così: depressa, barcollante, disorientata, sfatta, drogata e alcolizzata. Neanche fosse giunta appena alla soglia dei trenta col vizio del successo e il lusso del male di vivere come Amy Winehouse. Di anni Whitney Houston ne aveva 48, ma la fine è stata più o meno la stessa: trovata morta nel privato di una stanza d’albergo a Beverly Hills, forse affogata nella vasca da bagno e lasciando nei paraggi un mix di alcol e droghe.

I

L’analisi dei politologi

Il Parlamento greco ha varato tagli per altri 3,3 miliardi e accede agli aiuti europei. Ma l’esecutivo annuncia: «Tra 90 giorni andiamo via»

a pagina 16

Marco Palombi • pagina 3

L’errore di prospettiva del segretario Pd

Perché il metodo Monti deve andare oltre il 2013

I documenti finiti in mano alla stampa sono veicoli di vendette meschine

di Errico Novi uò darsi che un effetto secondario, non voluto, della novità prodotta dal governo Monti consista in una sorta di deresponsabilizzazione dei partiti. È una conseguenza forse inevitabile. L’attuale esecutivo nasce in una cornice unitaria che da una parte realizza un miracolo proprio sul piano della coesione nazionale, ma dall’altra risparmia alle singole forze il peso di una responsabilità politica piena. Delle scelte di questi mesi difficili si fanno carico tutti, ma fino a un certo punto. Aleggia sempre il non detto secondo cui “se al governo ci fossimo solo noi sarebbe diverso”. a pagina 6

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EURO 1,00 (10,00

Whitney, la donna che morì due volte

trasparenti. «Tutti i partiti che hanno a cuore la chiarezza dovrebbero essere interessati a trovare una corsia preferenziale per questa legge, in modo da poterla approvare in tempo per le amministrative di primavera». Pier Ferdinando Casini aggiunge un tassello al processo di ricostruzione del sistema politico, importante quanto la legge elettorale e anche di più. Piena attuazione all’articolo 49. segue a pagina 2

CON I QUADERNI)

Dentro i veleni della Chiesa I dispetti e le ripicche all’origine delle ultime polemiche di Luigi Accattoli i nuovo volano i corvi a San Pietro e provocano la riaccensione in automatico dei riflettori dei media. Il 25 gennaio la trasmissione televisiva Gli Intoccabili de La7 aveva dato conto di due lettere riservate dell’arcivescovo Viganò che denunciavano malefatte amministrative nell’ambito del Governatorato, venerdì scorso Il Fatto quotidiano ha pubblicato un appunto transitato (e sconclusionato) per la Segreteria di Stato vaticana. a pagina 8

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• ANNO XVII •

NUMERO

30 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Dall’Udc una proposta di legge che dà piena attuazione all’articolo 49 della Carta. Allo Stato i beni delle forze disciolte come la Margherita

Oltre il fortino

Svolta di Casini sulle regole della politica: «Statuti vagliati dalla Cassazione, la Corte dei conti controlli i bilanci: chi sbaglia perde i rimborsi elettorali» di Gualtiero Lami segue dalla prima Una proposta di legge che dà attuazione piena a un passaggio della Carta finora rimasto quasi inosservato, quello in cui si stabilisce il diritto dei cittadini ad associarsi in partiti e a parteciparvi secondo regole democratiche. Un fronte sul quale negli anni scorsi c’è anche stato un qualche attivismo da parte di associazioni collaterali alla politica e che la stessa Udc aveva messo sul tavolo già all’inizio di questa legislatura, con un testo depositato da Gianpiero D’Alia. Adesso lo stesso capogruppo del partito a Palazzo Madama amplia la proposta e la aggiorna con clausole concepite per arginare casi degenerativi alla Luigi Lusi. Perché, come dice Casini in una conferenza stampa a cui partecipano anche D’Alia, Adornato, Carra, Galletti e Lusetti, «il modo migliore per garantire ai cittadini di determinare la politica nazionale è fare una legge che introduca il metodo democratico nella vita dei partiti e renda trasparenti il loro bilancio e il loro patrimonio».

Impossibile eludere la questione dei rimborsi elettorali, dopo le vicende postume della Margherita e i nuovi contenziosi instaurati attorno ai beni della vecchia An. Il leader dell’Udc

Il ddl stabilisce che il giudizio della Suprema Corte attribuisce personalità giuridica alle forze politiche

Sette articoli per una riforma: così cambieranno i partiti ROMA. Il leader Udc Pier Ferdinando Casini, dopo l’annuncio dato venerdì scorso, ha depositato alla Camera il suo disegno di legge sulla riforma dei partiti per dare piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione. Il testo, illustrato durante una conferenza con i capogruppo Udc a Montecitorio, Gianluca Galletti e al Senato, Gianpiero D’Alia, consta di sette articoli. Tra questi c’è anche una norma che potrebbe essere ribattezzata “anti-nuovi casi Lusi”. All’articolo 2 si stabilisce infatti che i partiti che cessano di vivere, ai fini dei rimborsi elettorali, se non presentano proprie liste alle elezioni politiche nazionali ed europee non sono tenuti al rimborso. In questo caso il loro patrimonio è acquisito dalla Stato ed è gestito da un commissario liquidatore secondo le regole del Codice civile. In pratica, con questa norma non si potrebbero ricreare i casi della Margherita, con l’ex tesoriere Luigi Lusi indagato per la gestione del patrimonio del partito, o della ex An dove un presunto ammanco di 26 milioni di euro sta causando frizioni tra Pdl e finiani.Vale a dire, non potrebbero sopravvivere tutti gli ex partiti che non si ripresentano alla competizione elettorale ma mantengono un loro “tesoretto”. In base al testo, inoltre, la cessazione delle attività del partito comporta la perdita del diritto sia ai rimborsi delle spese elettorali e referendarie, sia l’accesso ai contributi pubblici concessi ai quotidiani e pe-

riodici anche telematici o alle imprese radiofoniche che risultino essere organi di partito, previsti dalla legislazione vigente in materia. La proposta Casini, che sarà assegnata alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio - dove già giacciono da mesi altre sette proposte di legge sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione - prevede inoltre un doppio controllo per la trasparenza dei partiti: uno della Corte di Cassazione che omologa gli Statuti dei partiti che poi possono acquisire personalità giuridica; e un secondo tipo di controllo della Corte dei conti sui bilanci annuali per l’accesso ai soldi pubblici, ossia rimborsi elettorali e altre provvidenze dirette o indirette. «Non ci rassegnamo a poter fare le riforme sulle modifiche costituzionali, a cui deve seguire la legge elettorale. È importante concretizzare riforma del bicameralismo, taglio di cento parlamentari, revisione dello statuto dei partiti». Secondo lo stesso Casini «non vogliamo neanche prendere in considerazione l’ipotesi di non rifare la legge elettorale, ma poiché i tempi ci sono ampiamente per fare le riforme anche minimali della Costituzione, noi pensiamo che questo deve essere il primo passaggio». Sulla legge elettorale, torna poi a ripetere il leader centrista, «tutto quello che fanno Pd e Pdl per noi va bene, deleghiamo a loro la nostra rappresentanza, siamo incerti se a Bersani o ad Alfano».

non ha difficoltà ad ammettere che se si vuole promuovere un riavvicinamento degli elettori agli eletti non basta un sistema di voto meno insensato dell’attuale ed è indispensabile allontanare un sospetto: ovvero che i partiti si servano di rimborsi «riconosciuti per evitare che a far politica siano solo i ricchi» a fini più o meno personali. Va quindi impedito che la politica tratti come affare privato i beni pubblici messi a sua disposizione. Aporia insostenibile che si risolve nel passaggio più delicato della proposta di legge: «I partiti cessano di vivere, ai fini dei rimborsi elettorali, se non presentano proprie liste alle elezioni politiche nazionali ed europee», spiega ancora il leader dell’Udc, «in questo caso il loro patrimonio è acquisito dallo Stato ed è gestito da un commissario liquidatore secondo le regole del codice civile». Casi come quello del tesoriere della Margherita o delle diatribe su quel che resta di via della Scrofa non sarebbero dunque più contemplati: quanto concesso dallo Stato a forze politiche che non esistono più sul piano elettorale tornerebbe giustamente allo Stato. Chi ha diritto a ricevere ciò che resta dovrà fare i conti con un arbitro inappellabile.

Sgombrare il campo dai sospetti su forme più o meno esplicite di peculato è dunque il


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«Torniamo alle libere associazioni» I punti della proposta spiegati da D’Alia: «Democrazia interna, tutela delle minoranze, trasparenza» di Marco Palombi

ROMA. «Una democrazia senza partiti non può esistere, ma neanche una in cui i partiti non funzionano democraticamente». Potrebbe essere questo lo slogan del disegno di legge presentato in Senato da Gianpiero D’Alia, capogruppo dell’Udc a palazzo Madama. Tecnicamente, invece, si tratta di una “legge per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione”, poche neglette righe in cui si sancisce che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Finora infatti i partiti - ma il discorso vale anche per i sindacati - non hanno mai voluto darsi una veste legale e regole democratiche certe, stabilite per legge, soprattutto per quanto riguarda i loro bilanci: «È tanto vero che due anni fa, insieme ad altri, ripresentai pari pari una pdl di Sturzo degli anni 50. Diciamo che era una provocazione: il ddl di oggi, invece, è aggiornato per prevenire ogni possibile distorsione del sistema». Al partito carismatico e caudillista della Seconda Repubblica, insomma, si risponde tornando al partito come lo intende la Costituzione, l’unico modo in cui opporre resistenza al vento della sfiducia che spira nella società «e si aggrava ogni volta che scoppia un caso come quello di Lusi», l’ex tesoriere della Margherita accusato di aver distratto quasi 14 milioni dal bilancio del partito (che oggi, peraltro, esiste solo formalmente). Allora, l’Udc cosa propone? Intanto che i partiti siano come li definisce la Costituzione: libere associazioni. Lo Stato non può decidere chi può fare un partito e chi no, però può decidere a quali condizioni si può accedere al finanziamento pubblico e controllare che quelle condizioni siano rispettate e che quei soldi vengano spesi correttamente. In pratica, come si fa? In primo luogo lo Statuto dei partiti modo migliore per ricondurre gli italiani a un rapporto meno ostile con la politica, anzi fondato sulla partecipazione diretta. L’altro cardine della legge messa a punto da D’Alia consiste in effetti nell’obbligo di «dotarsi di statuti che recepiscono il metodo democratico». E sul rispetto di tale principio, la normativa proposta dall’Unione di centro chiama in causa la Cassazione. Alla Suprema Corte infatti «spetterà il compito di omologare gli statuti dei partiti». Solo dopo il felice esito di tale ratifica si potrà avere accesso ai rimborsi. Dopodiché il principio dell’apertura al contributo dei cittadini dovrà sostanziarsi anche con altre forme: «Con un vincolo a destinare almeno il 5 per cento dei rimborsi all’ingresso dei giovani, cioè alla formazione politica», spiega Casi-

va omologato dalla Cassazione secondo i principi stabiliti da questa legge: democrazia interna, tutela delle minoranze, trasparenza, formazione dei giovani e parità di genere. Se non c’è questo, non si può accedere ai rimborsi elettorali. E chi controlla i bilanci? È il secondo livello di controllo: la Corte dei Conti. Anche in questo caso, se i magistrati contabili non danno il via libera, niente soldi pubblici. E se uno ci marcia in un secondo momento? Prima mi faccia chiarire una cosa: questa legge prevede pure che quando l’attività di un partito cessa, cioè quel movimento non si presenta più alle elezioni, anche il diritto al finanziamento pubblico decade e tutto il patrimonio mobile e immobile passa allo Stato. Non le pare troppo? Mi scusi, se uno campa di finanziamento pubblico deve dare garanzie su come usa i soldi dei cittadini... Torniamo alle sanzioni: poniamo che si scopra che il bilancio è falso, com’è accaduto nel caso Lusi. Se la Corte dei Conti dice che il bilancio non va bene, vuol dire che quel partito ha frodato i cittadini e dunque perde il diritto al finanziamento e deve restituire quello già ottenuto. Parliamo dei contributi dei privati. Noi diciamo che ci deve esse-

re più trasparenza: le donazioni devono essere tracciabili a partire da cinquemila euro, non da 50mila com’è ora. E questo principio si applica su tutta questa materia. Cioè? I beni mobili e immobili devono essere intestati al partito: niente case comprate dalla società X o dal tesoriere Y. Se, per qualche motivo, un partito vuole investire la sua liquidità può farlo, ma solo in titoli di Stato italiani. Non in quelli della Tanzania come la Lega?

Lo Stato non può decidere chi può fare un partito e chi no, però può decidere a quali condizioni si può accedere al finanziamento e controllare che quelle condizioni siano rispettate

ni. Investire in titoli? Sarà ancora possibile, con un precisi vincolo: «Lo si può fare acquistando esclusivamente titoli di Stato italiani».Trasparenza vorrà dire anche pubblicità a tutte le donazioni che superano i 5mila euro.

Sui bilanci ci sarà una vigilanza ulteriore, quella della Corte dei conti: «Verificherà consunti-

rità. Difficile non vedere come una simile svolta sia necessaria quanto la rimozione del porcellum. Sul tema della riforma elettorale peraltro Casini pure interviene, ma per sdrammatizzare il negoziato («quello che decidono Pdl e Pd va bene anche per noi», ironizza) e ribadire che «bicameralismo perfetto e taglio di 100 parlamentari sono

Ecco, ad esempio. E poi c’è la norma sulle fondazioni e le società esterne... Spieghi. Se un partito dà un contributo superiore a cinquantamila euro a una Fondazione politica o a una società esterna, come può essere il caso dei giornali di partito, allora anche quei bilanci devono passare il vaglio della Corte dei Conti. Vogliamo evitare, detto in parole povere, che qualcuno pensi di portare i soldi fuori dal partito per aggirare gli obblighi di trasparenza. Nella sua proposta si dice che lo Statuto deve indicare come si scelgono le candidature. Pensa alle primarie? No, le giudico una scorciatoia. Se i partiti garantiscono la democrazia interna e la partecipazione degli iscritti alla scelta delle candidature non c’è alcun bisogno di primarie. Per me sono il fallimento dei partiti, almeno di quelli che, magari per difetto di democrazia interna, pensano di lavarsi la coscienza facendo selezionare ad altri la classe dirigente. È quel che è successo domenica a Genova? Beh, mi sembra paradossale che a scegliere il candidato del Partito democratico a sindaco di quella città siano stati gli elettori della sinistra radicale: un partito si deve assumere le sue responsabilità e fare le sue scelte e non lavarsene le mani come Ponzio Pilato. Lei che dice, questa legge la approverete? Casini ha inviato la nostra proposta sia a Bersani sia ad Alfano e mi pare che ci sia la volontà di intervenire su questa materia. Se tutto va come sembra, io penso possa esserci in Parlamento una corsia preferenziale per approvarla prima delle Amministrative di primavera. Sarebbe una risposta alla richiesta di trasparenza e correttezza che arriva dalla società.

afflitta ancora da involuzioni metafisiche. Anche sul mercato del lavoro, contesto per il quale Casini esorta a superare i tabù «da tutte e due le parti».

Una disquisizione priva di qualsiasi utilità è invece quella sulla eventuale candidatura di Mario Monti a premier dopo le Politiche: «Chi gli vuole bene

«È la risposta all’antipolitica», dice il leader centrista, «ma non vogliamo piantare bandierine: ho sottoposto il testo a Bersani e ad Alfano prima di renderlo pubblico, se siamo d’accordo possiamo licenziarlo in tempo per le Amministrative» vi e preventivi, controllerà anche associazioni e fondazioni a cui i partiti dovessero destinare cifre superiori ai 50mila euro». Niente intestazioni private, i partiti avranno personalità giuridica e tutto dovrà essere ricondotto alla loro esclusiva titola-

questioni da affrontare prima». Il Pdl, con Gasparri, se ne compiace. Nessuna particolare obiezione arriva alla legge che si propone di dare senso all’articolo 49. Quello dell’Udc è anche un modo per sollecitare concretezza in una discussione a volte

non lo tira in ballo», raccomanda il leader udc associandosi ad Alfano e assolvendo il“suo”Antonino De Poli, che invece si era sbilanciato sul Professore. I partiti si sbrighino a riformare se stessi, è dunque il messaggio che arriva dalla conferenza stampa centri-

sta. Nella quale si sgombra il campo da qualunque ombra di zelo moralista: «Con questa legge sui partiti non si vuole piantare alcuna bandierina.Tutti quelli che ne condividono i principi possono farla propria, che appoggino o non appoggino il governo». Non a caso, avverte Casini, «la prima cosa che ho fatto, prima di questa conferenza stampa, è stata sottoporre la proposta di legge a Bersani e Alfano». In attesa della riforma elettorale c’è dunque qualcosa di concreto a cui la maggioranza può dedicare energie. «In nessun Paese democratico ci sono alternative credibili, salvo quella dei partiti, per concorrere alla vita delle nazioni», ricorda Casini. Basta che anziché custodire il prezioso mandato, i partiti stessi non si cullino in un’autolesionistica immobilità.


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l’approfondimento

Potrebbe essere l’occasione per recuperare la fiducia dell’opinione pubblica sul ruolo dei partiti

«Siete in zona Cesarini» Tutti i politologi sono d’accordo: la proposta di riforma presentata dal leader centrista Casini va approvata subito, perché il tempo sta per finire. Il Paese cambia, la politica deve seguirlo. Parlano D’Alimonte, Mannheimer e Pombeni di Franco Insardà

ROMA. L’articolo 49 della Costituzione recita che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. A oltre cinquant’anni dalla sua promulgazione l’Udc prova ad attuare uno degli articoli più controversi della Carta. Quello che, per intenderci, voleva regolamentare il sistema di partiti e che poteva impedire degenerazioni come la partitocrazia o il berlusconismo. Ieri mattina Pier Ferdinando Casini ha illustrato i contenuti del disegno di legge depositato a Montecitorio sulla riforma dei partiti, per dare piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione che punta a stabilire un doppio controllo sullo statuto dei partiti da parte della Corte di Cassazione e sui conti da parte della Corte dei Conti. I beni immobili e mobili devono essere intestati ai partiti e le donazioni superiori ai 5.000 euro

devono essere rese pubbliche. I partiti poi che non presentano proprie liste alle elezioni politiche nazionali e europee non avranno rimborsi elettorali. Renato Mannheimer, presidente dell’Ispo (Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione) saluta il disegno di legge dell’Udc con favore: «Non è tardivo ed è molto opportuno. Penso che i cittadini possano accogliere positivamente queste iniziative, a patto che si traducano in fatti concreti».

Anche il commento a botta calda di Roberto D’Alimonte, professore di Scienza della politica all’università di Firenze, è: «Meglio tardi che mai». Secondo l’editorialista del Sole 24Ore bisognava «pensarci già parecchio tempo fa. Allo stesso modo è giusto ripensare al meccanismo del finanziamento pubblico dei partiti che non può limitarsi soltanto alla rendicontazione e, quindi, alla trasparenza nell’uso dei fondi. Si tratta di un aspetto importante,

ma va definito anche l’ammontare dei finanziamenti. A mio avviso è giusto prevedere un finanziamento pubblico, ma dovrebbe essere tale da incentivare i partiti a cercare anche dei fondi privati tra gli elettori, in modo da essere responsabilizzati sul loro utilizzo».

Se c o nd o P a o lo Po mbe n i , professore di Storia Contemporanea presso la facoltà di Scienze Politiche dell’università di Bologna, si tratta di un

La proposta dell’Udc non è tardiva ed è molto opportuna

modo per «affrontare seriamente un questione che si trascina dalla Costituzione repubblicana. Già in Costituente si voleva che i partiti fossero riconosciuti con rilevanza pubblica e, quindi, sottoposti a una serie di vincoli e controlli. Non lo si fece perché allora ci fu l’opposizione del Partito comunista che pensava sarebbe stato una sorta di “cavallo di Troia” delle forze capitalistiche contro il suo disegno politico e che avrebbe portato al suo

scioglimento, perché la sua organizzazione non era basata sulle regole democratica immaginate all’epoca. Da quel momento la questione è rimasta sospesa anche quando non esisteva più alcuna preoccupazione di quel genere. Se i partiti vogliono continuare ad avere un certo tipo di rilevanza e dei privilegi positivi, legati allo svolgimento di un servizio per la collettività, sarebbe opportuno che si prenda in considerazione seriamente l’idea di una regolamentazione, così come prevede l’articolo 49 della Costituzione. Oggi non c’è alcun motivo per opporsi a una normativa di questo tipo».

D’Alimonte pone l’accento su un altro aspetto che va modificato: «Quello relativo al finanziamento soltanto di partiti veri e che abbiano una certa consistenza e non, come prevede la legge attuale, a formazioni politiche inesistenti». La trasparenza dei bilanci dei partiti non è una novità per il


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Se fossero proposte costruttive, le diatribe sarebbero anche interessanti. Ma sono sterili

Lavoro e urne, l’Italia diventa il Paese delle “bozze da orbi”

Appena si profila all’orizzonte un cambiamento di qualche tipo, la politica (e la stampa) si esercitano per giorni a parlare di nulla di Osvaldo Baldacci n vasto e acceso dibattito precede ogni decisione. Fantastico modello esemplare. Fantastico, appunto, cioè di fantasia. Che l’Italia sia uno strano Paese lo sapevamo. E ogni tanto continuiamo a riscoprirlo. Con il governo Monti è cambiato un po’il clima politico e anche socio-culturale del Paese, e si cerca di imprimere una svolta anche alla comunicazione. Ma non è facile. Ed ecco che i vecchi vizi ritornano. Uno dei principali, soprattutto degli ultimi lustri, è quello di discutere accanitamente e anche violentemente, di annunci e bozze. La linea del governo Monti vorrebbe essere quella di fatti e non parole, di efficienza ed efficacia senza proclami. Ma quello che si muove intorno continua seguire i vecchi schemi di parlare di tutto per non dire niente. Che si tratti della riforma del lavoro o di quella elettorale, che si pensi alle prossime elezioni oppure come nel recente passato delle misure economiche e di quelle sulle liberalizzazioni, quello che prevale è il chiacchiericcio, la gara ad essere presenti nel gran polverone delle dichiarazioni sul tema del giorno, anche quando non c’è nulla di concreto su cui discutere. Quando ci sono solo bozze, o peggio solo indiscrezioni, supposizioni, anticipazioni vere o presunte. Si potrebbe dire: «Di che stiamo parlando?», eppure a volte il richiamo alla ragione sembra vano, perché per molti ciò che conta è parlare, non l’argomento e tanto meno la possibilità di dare un contributo valido al tema in esame. Questo problema non è secondario: al contrario mi sembra uno dei punti fondamentali e al contempo dolenti della nostra democrazia, per come si è degradata negli ultimi anni.

U

È un tema centrale: è la contesa tra apparenza e sostanza. La nostra cultura politica e quella collegata della comunicazione troppo a lungo si sono abituate a basarsi sull’effimero. Si è dimenticata e messa da parte l’importanza del merito, del contenuto, di quello che davvero c’è nelle carte. Bisogna recuperare anche in questo la sobrietà e la serietà di tornare alle carte, ai contenuti. Non deve essere importante comparire per spararla grossa anche sul nulla, o sul presunto che fa rumore, per potersi invece concentrare sul reale, su quello che davvero c’è da fare, e su come si può fare e migliorare. Ci vuole un bel dibattito sui temi caldi del Paese, ma un dibattito basato sui fatti e orientato alla soluzione dei

problemi, alla concretezza di progetti da realizzare.Tutto il contrario di quello che troppo spesso accade. Basti pensare alle mobilitazioni (scioperi annunciati compresi) che si sono verificate sui temi della riforma del lavoro e delle liberalizzazioni, molto prima che ci fossero proposte messe nero su bianco. E sull’articolo 18 e la riforma del lavoro? Un giro vorticoso di dichiarazioni e di risposte senza vedere proposte concrete. I veti preventivi sono solo un’altra forma di

riforma elettorale. In molti cercano di ritagliarsi un momento di notorietà, ma ancora di più in molti cercano di mettere uno zampino per guadagnare una rendita di posizione in merito a una legge che sia fatta conformemente ai propri interessi. Ma la legge elettorale non è una cosa su cui scherzare. È quella cosa che trasforma la volontà popolare in rappresentanza concreta perché possa operare le scelte politiche che determinano la distribuzione delle risorse e la direzione del Paese. Forse sarebbe piuttosto il caso di fare proposte concrete con studi attenti e approfonditi.

Ormai si fa a gara a essere presenti nel gran polverone delle dichiarazioni sul tema del giorno, ma si parla di nulla

Ma la colpa non è tutta della politica. Bisogna che anche il circuito della comunicazione faccia autocritica. La politica degli annunci e la comunicazione effimera hanno collaborato al trionfo dell’informazione dell’apparenza senza sostanza. Effimero viene dal greco “giornaliero”, qualcosa che si brucia nello spazio di una giornata. E la comunicazione ha imboccato esattamente questa direzione: legata alla vendita delle notizie (sottolineo: alla vendita delle notizie, non alla missione di informare), si è abituata a inseguire lo strillo del momento senza più curarsi di vedere cosa c’è dietro. Impigrita sulla sostanza, stressata sulla rincorsa al sensazionale, non fa più da filtro in base alla serietà e all’interesse reale di ciò che avviene e ancor più di ciò che viene detto da quelli che contano. Il nome noto (ripeto: noto, non illustre) conta più del pensiero espresso. Il pastone va riempito con tot righe o secondi da par condicio, senza stare a badare cosa viene detto. E se qualcosa non regge, è campato in aria, non ha sostanza o si basa sul nulla, non importa, domani sarà dimenticato o – meglio ancora – darà l’occasione per un contro commento, una smentita, un nuovo strillo.Tutto come un costante talk show dove il rumore vale molto più del ragionamento. In un gioco di boatos, di eco, di rimbalzi in cui l’unica vittima è il lavoro serio, costruttivo. Una droga cui tutta la società si è abituata, non solo la politica ma anche molte delle realtà sociali di ogni tipo, alla rincorsa di un momento di notorietà e di uno spazio sui mass media. E d’altro canto se non fai così resti fuori dal giro, non riesci a mettere in circolo neanche il lavoro serio che fai. È un paradosso che appare insolubile, e che penalizza sempre e comunque il merito delle questioni e il merito di chi lavora seriamente. Ecco, speriamo che la nuova era italiana di cui è simbolo il governo Monti incida anche su questo pessimo cortocircuito, altrimenti ogni altra riforma sarà minata alla base.

parlare a vanvera. Sembra talmente ovvio che qualunque miglioramento è una cosa positiva, mentre un peggioramento non lo è, eppure c’è chi si oppone ai cambiamenti a prescindere dal contenuto. Quante energie sprecate che potrebbero essere meglio impiegate sull’analisi dei contenuti. E lo stesso accade sulla

professor Pombeni: «Esisteva già nella Repubblica di Weimar, ma in quel caso non servì a impedire la nascita del partito nazista, partito come un’organizzazione democratica per diventare tutt’altro. L’applicazione di questa norma non sarà la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi, ma è una cosa assolutamente razionale. Mi sembra francamente il minimo rivedere i rimborsi elettorali. Non ha senso rimborsare i partiti semplicemente perché concorrono alle elezioni a prescindere dai risultato ottenuto. Se si vuole giustamente evitare la miriade dei partitini finti che sono delle sanguisughe bisogna andare verso un cambiamento e legare i rimborsi ai partiti che hanno un consenso significativo. Tra l’altro l’idea che un partito possa avere dei rimborsi elettorali quando non esiste più e ha perso il consenso dei cittadini mi sembra un atto di normale razionalità. La funzione pubblica dei partiti, cioè, va sostenuta fino a quando il gruppo politico esiste».

D’Alimonte e Pombeni concordano sulla necessità di una riforma organica del sistema, così come dichiarato dallo stesso Casini nella conferenza stampa di ieri. Per l’editorialista del Sole 24Ore: «L’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione va collegata a un disegno di legge complessivo e organico della riforma della legge elettorale e delle altre normative in materia». E il politologo bolognese aggiunge: «Una legge elettorale sospesa nel vuoto, senza cioè una revisione organica del quadro politico, perde i due terzi della sua efficacia, mentre potrebbe dare risultati migliori e avere una forza maggiore. Mi sembra che le intenzioni dell’onorevole Casini vadano in questa direzione. È fondamentale, cioè, che si metta mano a tutto il sistema e che non si creino alibi per non fare la riforma elettorale». Per il professor D’Alimonte la fiducia dei cittadini può «crescere a una condizione: che queste riforme vengano realmente attuate e non si limitino soltanto ad annunci da sbandierare. Purtroppo, per il passato, quando si passa dagli annunci all’applicazione è cascato l’asino. Al momento mi sento di sospendere il giudizio in attesa dei fatti». Sulla questione fiducia il professor Pombeni ritiene che si è «persa con decenni di cattivi comportamenti, pensare che la si possa restaurare in un attimo è un po’ utopistico, così come è altrettanto utopistico ritenere di non fare nulla. Bisogna, invece, convincere i cittadini della bontà di questa soluzione, con gli opportuni mezzi e il sostegno della parte migliore dell’opinione pubblica produrrà sicuramente degli effetti positivi».


economia

pagina 6 • 14 febbraio 2012

Dopo il voto di domenica notte del Parlamento ellenico l’Eurogruppo dovrebbe sbloccare entro domani sera il nuovo prestito da 130 miliardi di euro

In corsa verso la Fase 2 La Grecia, al voto in aprile, spinge Bruxelles (e la Germania) per un piano Marshall anticrisi di Francesco Pacifico

ROMA.

Le Borse esultano, Angela Merkel pretende ancora rigore mentre ad Atene si contano danni e feriti (120 soltanto 48 ore fa, dei quali tra 50 poliziotti e 70 manifestanti) dopo un weekend di rivolta urbana. Con il voto del Parlamento di domenica notte sui nuovi tagli arriva finalmente alle ultime battute il salvataggio della Grecia. E poco importa che non sia ancora chiaro chi si prenderà in carico la differenza tra quello che il governo ellenico riconoscerà davvero ai suoi creditori e il haircut del 50 per cento sulle emissioni in circolazioni e già accettato nei mesi scorsi da banche e fondi privati, con l’avallo delle autorità europee.

Quel che è certo è che domani l’Eurogruppo inizierà finalmente a discutere sul nuovo prestito da 130 miliardi. L’esito sembrerebbe scontato, anche se da Bruxelles – un po’ per darsi un tono di fronte alla prepotenza tedesca, un per non incentivare l’indolenza dei greci – hanno fatto sapere che i ministri finanziari dei 17 daranno il loro assenso agli aiuti soltanto se il governo Papademos dimostrerà di aver rispettato tutte le condizioni poste dai partner. Il che include anche l’accordo con i creditori privati sulle perdite da sostenere nello swap dei bond e il piano per recuperare altri 325 milioni di euro di tagli alle finanze pubbliche. Soldi che sotto il Partenone vogliono recuperare dalle spese per la difesa che rappresentano la spesa più alta in rapporto al pil dell’intera Ue (oltre il 3 per cento), anche perché legate alle commesse imposte nell’ultimo biennio da Francia e Germania. Altrimenti Atene sarà impossibilitata a tornare sul mercato il 20 marzo, quando verrano a scadenza titoli di Stato per 14,4 miliardi di euro. In attesa che il Fondo Salva Stati trovi il modo di erogare i 35 miliardi di euro attesi dai privati (gli stessi che Mario Draghi è impossibilitato a stanziare), ad Atene si vuole uscire al più presto dall’emergenza. Lo dimostra anche l’annuncio arrivato in mattinata che le elezioni anticipate si terranno nel prossimo aprile. «Questo governo ha ancora un mese, un mese e mezzo di lavoro davanti a se», ha fatto sapere il portavoce Pantelis Kapsis. Ma è facile pensare che dalle urne esca una maggioranza stabile. Soprattutto se la campagna elettorale sarà incetra-

ta sul vulnus subuto dalla sovranità del Paese e sugli ultimissimi e durissimi interventi di austerity. Quelli, per intenderci, che prevedono il taglio di 15.000 addetti nel settore pubblico, nuove privatizzazioni, la deregulation liberalizzazioni delle leggi sul lavoro fino al passaggio dello stipendio minimo da 751 a 600 euro al mese. Proprio per gettare acqua sul fuoco ed evitare nuove polemiche con gli europartner più riottosi, dal governo greco ieri mattina è stato anche annunciato che domani i leader politici del Paese sigleranno una lettera di intenti in cui si impegnano a implementare le riforme anche dopo le elezioni. «Si tratta di un impegno scritto esplicitamente richiesto dalla troika, oltre al voto parlamentare di domenica», ha aggiunto Kapsis. Eppure sono in molti a chiedersi quale sarà il costo dell’operazione per il Paese ellenico e per l’intera Europa. Non a caso il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in una conferenza stampa congiunta a Roma con il suo omologo tedesco Christian Wulff, ha scandito: «Nel superamento della crisi del debito non bisogna concentrarsi esclusivamente su misure di austerità. E anche la spesa pubblica va tagliata in modo selettivo e non alla cieca, in maniera da lasciare in piedi degli investimenti e le possibilità di impegno anche del bilancio pubblico per la crescita».

Il monito di Giorgio Napolitano: «Non concentriamoci esclusivamente su misure di austerità». I dubbi della Merkel

José Maria Barroso – convinto com’è che «le difficoltà siano ancora lontane dall’essere superate» – prova ad abbassare i toni, spiegando che «quello che l’Europa sta facendo soprattutto in questo ultimissimo periodo costituisce una base perché gli investitori tornino ad avere fiducia». Di rimando il vice presidente della Commissione Ue, Olli Rehn, aggiunge che Bruxelles «resta al fianco del governo e del popolo greco. Il voto di domenica è una tappa cruciale per il secondo programma». E pur condannando le violenze dei manifestanti – «non rappresentano la maggioranza di quel popolo» – conferma che non ci saranno defezioni. dall’area euro. Ma in Germania, partner che si è assunto l’onore di moralizzare usi e costumi ellenici, hanno altre idee in materie. Quando le è stato chiesto di un possibile piano Marshall per Atene, Angela Merkel ne ha approfittato per gelare le attese del resto dell’Europa: «La Gre-

Il premier greco Papademos. In apertura, un’immagine degli scontri che hanno sconvolto Atene dopo il voto. Nella pagina a fianco il presidente del Consiglio italiano, Mario Monti

Perché con la tempesta in atto è sbagliato il no a grandi coalizioni

Sfida già persa se non c’è unità di Errico Novi uò darsi che un effetto secondario, non voluto, della novità prodotta dal governo Monti consista in una sorta di deresponsabilizzazione dei partiti. È una conseguenza forse inevitabile. L’attuale esecutivo nasce in una cornice unitaria che da una parte realizza un miracolo proprio sul piano della coesione nazionale, ma dall’altra risparmia alle singole forze il peso di una responsabilità politica piena. Delle scelte di questi mesi difficili si fanno carico tutti, ma fino a un certo punto. Aleggia sempre il non detto secondo cui “se al governo ci fossimo solo noi sarebbe diverso”. A furia di coltivare tale ambivalenza si rischia però di rimuovere la gravità

P

della situazione. L’efficacia dell’azione di Monti risolve molte cose, la rapidità dei provvedimenti fa scivolare nell’oblio pregresse paralisi istituzionali: ma sarebbe paradossale se le forze della maggioranza si adagiassero sull’operosità dell’esecutivo fino a dimenticare quanto sia grave la crisi.

Atene e i suoi tumulti, il suo dramma, fanno da promemoria. Ci ricordano come il percorso d’uscita dell’Eurozona dall’incubo default sia difficile, impervio, ancora lontano dal far intravedere spiragli. Sul Vecchio Continente grava una cappa di angoscia: manca soprattutto un obiettivo, una speranza in funzione della quale sopportare i sacrifici.


economia

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cia ha ancora a disposizione molti mezzi dai fondi strutturali europei e da altre fonti, che potrebbero essere concessi in maniera molto più flessibile rispetto a prima. Per esempio per le piccole e medie imprese che hanno bisogno di capitale». Non contenta, ha anche aggiunto: «Tutti sanno che con piccole e medie imprese, ed è anche l’esperienza tedesca, si possono creare molti posti di lavoro. Per questo faremo di tutto per mettere a disposizione i fondi per la crescita. Ma questo denaro deve arrivare nei punti giusti ed essere anche speso nella maniera giusta». Ma conclusa la lezione di sana e buona gestione della cosa pubblica, la Cancelliera ha riproposto la maschera più feroce: «Il voto di domenica notte a favore delle nuove misure di austerity da parte del Parlamento greco segnala la buona volontà di Atene a intraprendere la strada di difficili riforme. Ma quel che per noi è molto importante è che la Grecia abbia una chance nel 2020 di arrivare a un rapporto debito/Pil del 120 per cento per poter tornare a finanziarsi sui mercati». Ergo, «un cambiamento del programma stabilito dal governo greco con la troika non potrà esserci e non ci sarà. Anzi, ora si tratta solamente di realizzare questo programma. Per questo, al consiglio dei capi di Stato e di governo di marzo, parleremo di come stimolare la crescita in Grecia».

In simili condizioni, possono davvero bastare le tradizionali formule politiche? Può cioè corrispondere alle vere urgenze di un Paese come l’Italia l’idea di Bersani secondo cui ci vuole una «maggioranza coerente per dare forza a un progetto di ricostruzione» ma non una «grande coalizione»? In un’intervista uscita ieri sul Quotidiano nazionale, il segretario del Pd sostiene che, dopo il voto del 2013, un esecutivo sostenuto da un fronte ampio, guidato ancora da Monti o comunque da una personalità di grande prestigio, non sia necessario all’Italia. Servono secondo lui un governo e una maggioranza di parte.Vuol dire appunto tornare a formule che nel recente passato hanno prodotto più fallimenti che successi. Non è tempo di grandi coalizioni? Tesi discutibile. Bisognerebbe sapere intanto con quale legge elettorale nascerà l’esecutivo del 2013. Se sarà un sistema ancora condizionato dal premio di maggioranza, difficilmente si eviterà un effetto analogo a quello delle ammucchiate prodiane o anche delle ultime fibrillazioni berlusconiane. La ricerca della vittoria a tutti i costi sulla coalizione avversaria produce sul quadro politico un’alternazione ormai ben nota: maggioranze condizionate dalle estreme, instabili, inconcludenti e con modesta aspettativa di vita.

Se si imponesse invece un’opzione proporzionalista – che peraltro il Pd

non disdegna nel confronto con gli altri partiti – tutto cambierebbe. A quel punto nascerebbe, è ovvio, un governo di coalizione ma sulla base dei programmi condivisi e non della sindrome da fotofinish. Tale prospettiva rende forse più chiara l’opportunità di puntare a una coalizione il più ampia possibile: le sfide e gli impegni da onorare sono così difficili da richiedere che il Paese continui a unire le forze, e si affidi a figure di alto profilo. L’esem-

Bersani ipotizza un ritorno a esecutivi di parte, che però sarebbero disarmati di fronte al travaglio europeo e alla missione equilibratrice che i partner affidano all’Italia pio greco – nel senso della sua drammaticità – va tenuto sempre in conto: le minacce per l’Europa come per l’Italia sono di ordine così elevato da trasferire il piano della sfida dalle contese nazionali a una specie di conflitto permanente tra i singoli Paesi, e la stessa Ue, da una parte, e le dinamiche che ne minacciano la sopravvivenza, dall’altra. Prima della “ricostruzione” di cui parla Bersani sarebbe, a dire la verità, ancora da completare il proces-

so di “liberazione”: dai vizi costitutivi attorno ai quali si avvita la costruzione europea, dalle insidie della speculazione finanziaria, ma anche dalle rigidità del sistema italiano che a quelle minacce rendono più esposti. Come fa una coalizione, un governo di parte, a fronteggiare un simile scenario?

Oltretutto nelle ore drammatiche del nuovo piano di austerità accettato da Atene si ripropone per l’Italia una precisa missione: continuare a svolgere un ruolo da soggetto equilibratore nel difficile travaglio europeo. Monti guadagna ogni giorno grandi meriti sul terreno delle relazioni internazionali. Se c’è un fattore virtuoso con cui l’Italia può bilanciare la zavorra del debito, questo è proprio nella sua vocazione a mediare tra visioni europee contrapposte, o distanti. Ora, immaginare che l’Italia possa continuare a interpretare questa delicatissima funzione con un governo di parte, in un clima teso dentro e fuori la maggioranza di governo, è previsione piuttosto impegnativa. E riportare l’analisi sul piano più realistico del destino della Ue e della exit strategy europea dalla crisi è forse la via maestra per sfuggire al minimalismo e alla nostalgia della vecchia politica.

Per capire da dove nasca nella Cancelliera tanta spregiudicatezza e tanta ostinazione, bisogna leggere le dichiarazioni dei suoi principali alleati domestici, che ambiscono a sostituirla sia alla guida del centrodestra sia del Paese. Il compagno di partito, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, ci ha tenuto a sottolineare che «tutte le misure su cui il governo di Atene e la troika si sono accordati non hanno l’intenzione di torturare nessuno, ma puntano ad aiutare la Grecia a diventare un’economia concorrenziale in grado di crescere». Meno diplomatico Il ministro dell’Economia e leader del partito liberale, Philipp Rösler. Il quale, anche per solleticare i peggiori istinti del suo elettorato (l’industria meccanica che fa dalla Germania la seconda economia esportatrice dopo la Cina), sostiene che «il voto di ieri del Parlamento greco è solo un passo avanti bella giusta direzione. Va bene che le leggi siano passate con una larga maggioranza ma quello che serve è l’implementazione delle riforme strutturali». Così, per registrare un po’ di ottimismo, bisogna affidarsi ai mercati: Milano, la peggiore, ha chiuso a +0,05 per cento, mentre Atene segna un boom inaspettato con la sua crescita del 6.


il paginone

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i nuovo volano i corvi a San Pietro e provocano la riaccensione in automatico dei riflettori dei media. Il 25 gennaio la trasmissione televisiva Gli Intoccabili de La7 aveva dato conto di due lettere riservate dell’arcivescovo Viganò che denunciavano malefatte amministrative nell’ambito del Governatorato, venerdì scorso Il Fatto quotidiano ha pubblicato un appunto transitato per la Segreteria di Stato vaticana nel quale si parla sconclusionatamente di salute del Papa, durata della sua vita, futuro Conclave e altre questioni scottanti.

D

Nel primo caso si tratta di documenti importanti, nel secondo di una chiacchiera bislacca ma il chiasso mediatico è stato comunque grande e nel secondo caso, che ne meritava di meno, esso è risultato ingigantito dalla sommatoria emotiva con il primo. Ci si è chiesti che cosa succeda in Vaticano e sono state tracciate le diagnosi più drammatiche. Prima di entrare nel dettaglio della seconda delle due performance dei corvi in talare – della prima avevo trattato in queste pagine martedì scorso – dico in quattro punti la mia interpretazione. Primo: è evidente l’intenzione di chi ha fatto “fuggire” l’appunto dagli uffici della Segreteria di Stato di danneggiare il cardinale Tarcisio Bertone e magari di provocarne la sostituzione come primo collaboratore del Papa, ma ritengo che questo obiettivo non verrà

Prima le lettere dell’arcivescovo Viganò, poi lo scoop sull’assassinio del Papa: le carte del Vaticano circolano sulla stampa al servizio di interessi meschini Nella foto grande, un concistoro. A sinistra, Papa Benedetto XVI. Gli echi di stampa mirano a screditare il suo rapporto con Bertone (a destra, nella foto)

Dacci oggi il nostro

di Luigi A raggiunto. Benedetto deve molto all’aiuto di Bertone e la loro collaborazione può considerarsi oggettivamente fortunata, stante la rispondenza complementare delle due personalità: a Papa riflessivo bene si adatta un Segretario di Stato estroverso. Secondo: è anche chiara l’intenzione – in chi ha redatto quel testo così originale, se non in chi l’ha fatto fuggire – di lanciare segnali in direzione del futuro Conclave. Si fa dire al cardinale di Palermo, Paolo Romeo, che la morte del Papa avverrà entro il 2012 e che Benedetto vorrebbe come suo successore il cardinale Scola. Ci vuol altro che queste chiacchiere da bar per influenzare un Conclave. L’unico a uscirne danneggiato sarà il cardinale Romeo se non potrà chiarire convincentemente la sua estraneità – che ha già dichiarato – alla ciarla che gli è stata attribuita. Terzo: concordo con la quasi unanimità dei vaticanisti nel ritenere che queste ripetute fughe di documenti riservati (e di notizie e di retroscena) stanno a segnalare che è in corso una lotta per fazioni nelle mille stanze vaticane. Una lotta che sempre vi è stata e che si ravviva in presenza di iniziative di riforma interna e con l’avanzare dell’età del Papa. La riforma in corso che provoca reazioni – forse anche disperate – riguarda il comparto economico e finanziario. Benedetto, poi, compirà 85 anni il 16 aprile e negli ultimi cent’anni nessun Papa ha superato questa età.

Quarto: contrariamente alla maggioranza dei commentatori non attribuisco importanza a tale lotta interna, né la riconduco a grandi cause (crisi della fede, incapacità dell’attuale leadership di riformare il governo curiale o di farlo funzionare, fronda contro Papa Benedetto), né ritengo che possa avere conseguenze di rilievo. La vedo come un’agitazione di livelli bassi della Curia, intesi a piccole vendette o piccoli guadagni. Un’agitazione che potrà solo danneggiare l’immagine mediatica della Curia Romana. Ecco dunque che un giornale pubblica un appunto riservato che il cardinale colombiano in

dinale Castrillòn da un amico tedesco che non era presente, e che ne aveva avuto qualche ragguaglio da qualcuno degli interlocutori di Romeo, che non vengono però indicati.Vi si parla anche di un ruolo di consiglieri ultimi per il Papa che sarebbe svolto dallo stesso Romeo e da Scola: e qui oltre che inverosimile la faccenda si fa ridicola. Già il povero Romeo fu vittima di corvi dal collo bianco nel 2006 quand’era nunzio in Italia e inviò una lettera a tutti i vescovi della penisola per avere nomi da trasmettere al Papa in vista della scelta del successore del cardinale Ruini alla presidenza della Cei: e quella lettera riser-

È evidente l’intenzione di chi ha fatto “fuggire” l’appunto dagli uffici della Segreteria di Stato di danneggiare il cardinale Tarcisio Bertone e magari di provocarne la sua sostituzione pensione Castrillòn Hoyos aveva inviato al Papa tramite la segreteria di Stato poco più di un mese addietro. All’origine vi sarebbe una conversazione del cardinale di Palermo con alcuni suoi ospiti cinesi e italiani durante un viaggio di cinque giorni in Cina effettuato il novembre scorso. In tale occasione Romeo avrebbe svolto sue considerazioni sulle aspettative di vita del Papa, su incomprensioni gravi tra il Papa e il cardinale Bertone, sul desiderio di Benedetto di indicare Scola a suo successore. Questo colloquio viene riferito al car-

vatissima finì sui giornali. Ma allora si era trattato di un documento vero e importante, l’appunto pechinese appare invece come un ben misero parto di un mestatore sprovveduto. Leggi, trasecoli e concludi – come ha fatto per esempio il commentatore dei fatti vaticani per la Stampa Andrea Tornielli – che «l’unica vera notizia sta nel fatto che un appunto – autentico, seppure così palesemente sconclusionato – inviato da un cardinale al Papa e transitato per la Segreteria di Stato, sia a disposizione dei media. Segno che la pubblica-


il paginone Giovanni Benelli, sostituto alla Segreteria di Stato con Paolo VI che diventa arcivescovo di Firenze nel 1977. Un secondo allentamento credo si sia avuto con la nomina a Segretario di Stato del cardinale Bertone (2006): egli non viene dalla scuola diplomatica ed ha minore pratica del governo degli uffici della Segreteria di Stato che sono come il rene che filtra tutta l’attività curiale e vaglia quanto viene indirizzato all’attenzione del Papa: ed è da quegli uffici – questo sembra certo – che sono uscite le ultime carte compromettenti. Ho visto che i colleghi del Fatto quotidiano lamentano che il loro scoop “bomba”– così lo qualificano – sia stato “minimizzato” dagli altri quotidiani per invidia e per “timore reverenziale” verso il Vaticano. Tranquilli, verrebbe voglia di dire: il vostro scoop ha avuto più attenzione di quella che meritava – e poi, veniamo al merito: che vanto può esserci in una tale colpo giornalistico? Essere scelti da un corvo nano della Curia per veicolare una polpetta avvelenata: sarebbe ragionevole aspettarsi dei conati di vomito. Il vomito a volte immunizza dal veleno.

Perché una cosa è chiara a tutti gli operatori dei media che abbiano anche solo occasionalmente messo il naso inVaticano: sia le vere lettere di Viganò al Papa e al Segretario di Stato, sia l’inverosimile resoconto in tedesco delle previsioni forse fatte in Cina dal cardinale di Palermo non so-

corvo quotidiano

Accattoli zione delle lettere di monsignor Viganò al Papa e al cardinale Bertone, come pure gli appunti e i ‘memo’ sullo Ior e altri documenti dei quali si è discusso in questi giorni, fanno parte di una strategia e s’inseriscono in una evidente lotta interna al Vaticano, dagli esiti incerti e comunque devastanti. Una lotta che ha sullo sfondo non soltanto la successione al cardinale Bertone, ma anche il Conclave».

Concordo su tutto tranne sul punto degli esiti “devastanti”, come ho già detto. Fughe di notizie riservate, anticipo di nomine, divulgazioni di retroscena dal Vaticano e dai suoi luoghi più “segreti”ci sono sempre stati. Dall’epistolario del giovane Gioacchino Pecci (il futuro Leone XIII) apprendiamo che nella prima metà dell’Ottocento era normale venire a conoscere il risultato degli scrutini dei Conclavi giorno per giorno, prima della loro conclusione. Decisioni delicatissime di Pio IX in ordine agli eventi dell’unità d’Italia furono intralciate da fughe di notizie e ve ne furono al tempo dello scandalo della Banca Romana e della lotta al modernismo e delle trattative per la Conciliazione, e insomma sempre. Ciò che è sempre avvenuto oggi avviene di più perché più forte è la presa dei media su ogni centro decisionale – e il Vaticano è a suo modo un centro decisionale – mentre più debole è la disciplina del segreto dentro quelle mura. Un’esperienza

quasi quarantennale di cronista delle cose papali mi dice che il Vaticano non è più quella patria del segreto che era un tempo. I canoni prescrivono un giuramento che impegna alla “totale riservatezza”ma esso viene violato di frequente e nessuno – che lo violi – si sente oggi “spergiuro”, benchè in alcuni casi siano vigenti le sanzioni della scomunica e della perdita del posto. Sotto il segreto pontificio “cadono” le nomine dei vescovi e quelle dei cardinali, le inchieste dell’ex Sant’Ufficio sulle opere dei teologi, la preparazione di documenti papali: ma tutti sappiamo con quanta frequenza i media anticipino le encicliche, i nomi dei nuovi cardinali alla vigilia dei concistori e un po’ tutte le nomine papali di primo piano. La chiamata dei cardinali Tettamanzi e Scola a Milano, quella dell’arcivescovo Bagnasco alla presidenza della Cei, quella dell’arcivescovo Betori a Firenze, quella del vescovo Moraglia a patriarca di Venezia erano sui giornali setti-

no state scoperte da talpe laboriose e creative, ma sono state consegnate ai due terminali giornalistici da curiali non certo disinteressati. L’esperienza mi dice che i destinatari di tali consegne vengono scelti secondo criteri di immediato usufrutto: scambio di favori, insospettabilità del contatto, comprovata disponibilità a un uso acritico dell’involto. Ho letto – di questo nuovo svolo di corvi vaticani – che esso starebbe a segnalare un particolare attivismo della lobby gay presente in Vaticano, o di quella massonica, o del “comitato di affari”là operante in combutta con la P4 di Bisignani, o della “vecchia cricca”dello Ior, o della resa dei conti tra sodaniani e bertoniani. Dell’andata di Romeo a Pechino ho ascoltato interpretazioni surreali: era là per “preparare un possibile viaggio del Papa in Cina”, ovvero per esplorare nuove piazze finanziarie per lo Ior. Quanto sarebbe bello se i giornalisti re-

Già il povero Romeo fu vittima di spie dal collo bianco nel 2006, quando inviò una lettera a tutti i vescovi della penisola in vista della scelta del successore di Ruini mane e mesi prima della pubblicazione. Si può stimare che l’attuale crisi della severa disciplina curiale del segreto inizi con l’uscita dalla Curia dell’arcivescovo

stassero fedeli al principio di realtà e avvistata una patacca la riconoscessero come una patacca. www.luigiaccattoli.it

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Per il ministro Balduzzi «si tratta di una sentenza storica per la nostra giurisprudenza»

Eternit “all’amianto”, giustizia è stata fatta Il miliardario svizzero Schmidheiny e il barone belga De Cartier condannati a 16 anni. Vittime in lacrime di Antonio Picasso il più grande processo al mondo e nella storia in materia di sicurezza sul lavoro», ha commentato il procuratore capo di Torino, Raffaele Guariniello. La riflessione del giudice che non si limita alla sentenza del caso Eternit, bensì fa riflettere su come potrà cambiare il rapporto società-dipendente in termini di protezione fisica che la prima deve garantire al secondo. Le parole di Guariniello hanno fatto poi da traino a tante dichiarazioni simili, sia da parte del mondo politico italiano sia presso l’opinione pubblica. In ogni caso, si è trattato del caso più grande della storia processuale italiana.

«È

Per voce del giudice Giuseppe Casalbore, il Tribunale di Torino ha condannato a 16 anni di carcere ciascuno il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier. La procura chiedeva 20 anni per i due imputati un tempo a capo della multinazionale Eternit, che come tali rispondevano di disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche. «Si tratta di una sentenza storica», come ha sottolineato in una nota il ministro della Salute Renato Balduzzi, che ha aggiunto: «Ma la battaglia contro l’amianto non si chiude con una sentenza, sia essa una esemplare». «È una pronuncia che ha sancito la colpevolezza dei responsabili ed è un monito di grandissima rilevanza, in questo momento di difficoltà finanziarie: ci dice che il dato economico è importante, ma che la vita umana lo è di più», ha dichiarato Bruno Pesce, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto. Il giudice Casalbore ha disposto anche diversi risarcimenti provvisionali. In particolare, per l’associazione Medicina democratica e il Wwf, a entrambi saranno versati 70mila euro. Altri 100mila euro saranno destinati all’Associazione nazionale esposti amianto, 4 milioni di euro dovranno poi essere sborsati in favore del comune di Cava-

gnolo e altri 15 milioni per l’Inail. Sono stati inoltre decretati risarcimenti mediamente di 100mila euro per ciascuna delle sigle sindacali, che si erano costituite parti civili nel processo. Al comune di Casale Monferrato dovranno essere destinati 25 milioni di euro. Mentre agli ammalati e ai congiunti delle vittime sono stati disposti rispettivamente 35mila e 30mila euro di copertura danni.

seguire in diretta gli ultimi attimi di questo caso. Al palazzo di giustizia sono arrivati 26 pullman, non solo da Casale Monferrato e Cavagnolo, i due paesi del Piemonte dove si è registrato il maggior numero di persone colpite dal mesotelioma pleurico o dall’asbestosi.

colpevoli per quanto riguarda Casale Monferrato (Alessandria) e Cavagnolo (Torino), mentre il reato sarebbe estinto per prescrizione per gli stabilimenti di Rubiera, in Emilia Romagna, e Bagnoli, in Campania.

Molto sono giunti dal resto dell’Italia, ma anche dalla Francia e da altre parti del mondo. Le parti civili sono 6.392 e la loro semplice citazione, ieri durante la lettura della sentenza, ha suscitato un’ondata di commozione collettiva. Dolore nell’ascoltare i nomi dei deceduti e di chi lotta ancora contro il fibroma. Sono almeno 2.300 i casi complessivi italiani, dal 1952 a oggi, che si sono registrati negli stabilimenti del nostro Paese. Solo a Casale si sono avuti 1.500 morti, nella fabbrica chiusa ormai dal 1986. Con 62 udienze, che si sono tenute dal 2009 a oggi, il pool dell’accusa, composto da Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli, ha dimostrato come i vertici della Eternit palesemente avessero ignorato i rischi, mantenendo operative le fabbriche per fare profitto. Hanno inoltre omesso di far usare le necessarie precauzioni onde evitare che migliaia di persone si ammalassero di tumore al polmone o di absestosi. Durante l’arringa finale, Guariniello aveva chiesto 20 anni per ognuno dei due imputati, Schmidheiny e de Cartier, che non si sono mai presentati al processo. La loro difesa, rappresentata dagli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva per Stephan Schmidheiny, e da Cesare Zaccone per Louis De Cartier, sosteneva che entrambi fossero innocenti, visto che all’epoca dei fatti non si sapeva quanto fosse nocivo l’eternit e che, infine, troppi anni sarebbero passati da allora affinché oggi si possa preparare una difesa equa.

La lettura della sentenza era attesa da tempo. Ieri erano state preparate tre aule del Tribunale torinese affinché rappresentanti delle parti civili, patenti delle vittime e gli stessi malati potessero

A loro giudizio, mancherebbero i documenti e le testimonianze. Il gruppo svizzero della famiglia Schmidheiny è stata ai vertici della Eternit dal 1972 al giugno del 1986. Nei vent’anni prece-

Il sistema di risarcimento fa però distinzione tra gli stabilimenti italiani:

Le udienze in totale sono state 62, per dimostrare che i vertici aziendali hanno palesemente ignorato i rischi, mantenendo operative le fabbriche per fare profitto

denti, le redini erano in mano all’altro imputato, che guidava il gruppo della famiglia Emsens. La magistratura non ha avuto fatto eccezione di fronte all’età avanzata dei due. In particolar modo per i 91 anni di de Cartier. Unanimi le reazioni dell’opinione pubblica. Giancarlo Caselli, procuratore capo di Torino e del quale Guariniello è vicario, ha salutato la sentenza con un apprezzamento nei confronti del pool di magistrati, che hanno dimostrato «forza e coraggio nel condurre le indagini».

Il presidente dell’Udc Piemonte, Terenzio Delfini, ha sottolineato la storicità della decisione, «che premia tutti coloro che hanno chiesto giustizia allo Stato. Nella sicurezza dei luoghi di lavoro si misura il grado di civiltà di un Paese. Se fare impresa è fondamentale per lo sviluppo della nostra economia, ciò non deve mai avvenire passando sulla pelle dei lavoratori, dei cittadini e dell’ambiente». Il deputato ha poi aggiunto che «da questa decisione deriva anche la necessità che istituzioni ed enti locali contribuiscano concretamente a garantire la tutela della salute a 360 gradi». Dello stesso tenore, le dichiarazioni del presidente di Futuro e Libertà, Fabio Granata. «È venuto a crearsi un precedente importantissimo per la giurisprudenza. Finalmente è stata fatta giustizia su una questione che si trascinava da anni: la sicurezza sul lavoro é un tema fondamentale e la decisione presa questa mattina può e deve essere un segna-


società

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L’aula del tribunale di Torino, dove ieri è stata letta la sentenza di condanna contro i vertici Eternit. In basso il proprietario, Schmidheiny

e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak

ni di metri cubi di pietrisco di scarto contaminato presso la miniera di Balangero (Torino), passando per i 90mila metri cubi di fibra, in varie forme, contenuti nello stabilimento produttivo di cemento amianto a Bari, fino ad arrivare ai 40mila big bags in termini di rifiuti d’amianto prodotti fino ad oggi con la bonifica di Bagnoli a Napoli. C’è poi l’amianto domestico, sparso tra abitazioni, scuole o edifici pubblici.

le positivo. Bisogna cogliere il significato di questa pronuncia storica e tutte le forze del Parlamento devono impegnarsi appieno sulle politiche della sicurezza sul lavoro e sulla tutela dell’ambiente e del territorio».

Anche nel mondo ambientalista, quel che si è voluto rimarcare è la forza di legge assunta da questa sentenza. Non si è trattato infatti solo del riconoscimento in sede di tribunale degli elementi nocivi propri dell’amianto. «Ci sono voluti trent’anni e in futuro questo non potrà essere messo in dubbio», dice il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. Quel che più importa è che da ieri il diritto alla salute e alla sicurezza ha compiuto una svolta epocale. «Si faccia giurisprudenza nel mondo», ha aggiunto Cogliati Dezza. «Soprattutto nei Paesi dove l’amianto continua ad essere estratto e lavorato e continua silenziosamente a mietere vittime». Nel mirino dell’organizzazione ambientalista, ci sono altre aziende pericolose per la salute umana: la Fibronit a Bari e Broni (Pavia), o la Sacelit in provincia di Messina. «L’Italia si dovrà occupare anche di queste».

È infatti una pesante eredità quella della produzione d’amianto nel nostro Paese, che va da un milione di metri quadrati delle coperture di edifici privati di Casale Monferrato, ai 45milio-

«Su questo non ci sono ancora dati certi ma le ultime stime del Cnr e dell’Ispesl – riferisce Legambiente – parlano di oltre 32 milioni di tonnellate presenti sul territorio nazionale, ma i numeri totali potrebbero essere molto maggiori». A questo punto, stando alle osservazioni giunte dai sindacati – Cisl e Uil soprattutto –la prossima tappa potrebbe essere proprio la Puglia. In particolare a Bari. Fulvio Giacomassi, della prima tra le due sigle di lavoratori, ha chiesto al governo di riaprire il cosiddetto Tavolo Amianto «per affrontare concretamente i problemi che ci si presentano tutti i giorni: sorveglianza sanitaria, fondo di solidarietà per le vittime e bonifica in sicurezza». Soddisfazione anche in sede internazionale. «Speriamo che questa sentenza ispiri anche i giudici del Brasile», ha commentato tra lacrime di commozione, Fernanda Giannasi, 54 anni, attivista di San Paolo e giunta a Torino per seguire la fine del processo Eternit. «È da trent’anni che combattiamo l’amianto. Adesso ci auguriamo che anche da noi si possa ripetere quello che Guariniello ha fatto da voi. Tutti gli Stati brasiliani devono vietarne la produzione. Le vittime vanno risarcite. E i colpevoli devono andare in prigione». Il Brasile, dove Eternit ha avuto una delle sue sedi più importanti, ancora oggi è uno dei maggiori produttori, esportatori e utilizzatori di amianto al mondo. Laconico infine il commento della difesa. «La prima battaglia l’abbiamo persa, sicuramente ci appelleremo», ha detto l’avvocato Di Amato. Mentre il suo collega Zaccone si è dichiarato sorpreso. «È una sentenza che non ci aspettavamo». I tempi di una nuova impugnazione del caso, ma soprattutto la suscettibilità del’opinione pubblica, non possono lasciar ben sperare i due condannati. Tornando al ruolo svolto dalla magistratura, sempre Caselli non si è risparmiato dal sostenere che «se fosse entrata in vigore la legge sulla responsabilità civile dei giudici, non so quanti altri nostri colleghi avrebbero rischiato tanto». La perplessità non era rivolta a Guariniello, il cui comportamento non è stato oggetto di critica dal procuratore. L’osservazione era relativa al pericolo che i magistrati, in seguito alle nuove norme, si trovino moralmente vincolati nell’assolvere il proprio dovere.

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mondo Xi Jinping, vice presidente cinese e vice segretario del Partito comunista, dovrebbe essere incoronato il prossimo marzo alla guida della “Quinta generazione” dei leader dell’Impero di Mezzo. In basso, manifestazioni maoiste che avvengono in questi mesi a Chongqing, guidata da Bo Xilai. Nella pagina a fianco, la ribellione del villaggio di Wukan e (nella foto piccola), la monaca Tenzin Choedron

Oggi il vice presidente cinese Xi Jinping, prossimo leader nazionale, inizia il viaggio negli Stati Uniti. Cercando partner affidabili

Un liberale ci salverà

La Cina non ha soltanto repressione: esiste un’ala moderata del Pcc che guarda a Occidente. E vuole una riforma copernicana del sistema di Willy Wo-lap Lam a Cina sembra essere entrata in un inverno profondo, nel quale sono coinvolti sia la riforma politica che i diritti umani. Mentre la leadership del Partito comunista cinese sembra aver eliminato ogni ostacolo sulla strada dell’imbavagliamento dei dissidenti, gli intellettuali sia interni che esterni al Partito stanno spingendo verso un ideale di liberalizzazione. In un articolo recente – apparso sul Seeking Truth, il giornale di teoretica del Partito – il Segretario generale Hu Jintao ha reiterato l’imperativo di “continuare senza scossoni sulla strada del socialismo con le caratteristiche cinesi”: nei fatti, un allontanamento dal sentiero deviante delle norme politiche in stile occidentale. «Le forze nemiche nell’arena internazionale stanno preparando e portando avanti delle cospirazioni per ‘occidentalizzarci’ e dividerci – ha scritto il presidente – e per questo il Partito deve ‘suonare sempre la campana d’allarme contro le infiltrazioni dall’Ovest» [v. Qiushi, 1 gennaio]. Negli ultimi due mesi, tre dissidenti noti per i loro articoli apparsi su internet riguardo la liberalizzazione politica non violenta – Chen Wei, Chen Xi e Li Tie – sono stati condannati a nove o dieci anni di galera per “aver incitato alla sovversione contro il potere statale” [v. New York Times, 20 gennaio; Ming Pao, 20 gennaio].

L

Lo scorso mese Yu Jie, scrittore noto in tutto il mondo e riformista moderato conosciuto per il suo lavoro a sostegno dei valori universali e dei diritti democratici e civili, è stato costretto a lascia-

re la nazione dopo essere stato torturato in galera. In un articolo pubblicato dopo il suo arrivo negli Stati Uniti,Yu ha citato uno dei suoi carcerieri che avrebbe detto: “Per quanto possiamo dire noi [il dipartimento di sicurezza statale], non ci sono più di 200 intellettuali che nel Paese si oppongono al Partito comunista e abbiano una qualche influenza”. “Se le autorità centrali pensano che il loro dominio stia affrontando una crisi – ha avvertito la guardia – possono prenderli tutti in una notte e bruciarli vivi” [Human Rights in China, 18 gennaio; Los Angeles Times, 18 gennaio]. Ma è vero che sono solo poche centinaia, i membri dei circoli accademici e intellet-

Web e i due giornali semi-ufficiali China Economic Structure Reform Monthly e l’Economic Observer – hanno organizzato diversi “saloni” per discutere nuove direzioni per la riforma politica. Fra le figure note che hanno operato come patroni di queste sessioni di lavoro ci sono Hu Deping, figlio maggiore di Hu Yaobang, e Jiang Ping, noto giurista ed ex rettore dell’Università cinese di politica e legge. Hu Doping, ex vice-direttore del Dipartimento del Fronte unito del Pcc, è membro della Commissione permanente della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Forse a causa dello status di queste figure pubbliche, queste conferenze sono sembrate libere dall’in-

La battaglia infuria. L’attuale presidente Hu Jintao scrive: «Le forze internazionali nemiche stanno preparando e portando avanti delle cospirazioni per ‘occidentalizzarci’ e dividerci» tuali che sfidano il Pcc con le loro idee, che sembrano al presidente Hu pericolose e sovversive? È un fatto accertato che dopo la repressione di piazza Tiananmen – e l’allontanamento dalle scene di icone come gli ex Segretari generali Hu Yaobang (1915 – 1989) e Zhao Ziyang (1919 – 2005) – l’influenza degli intellettuali riformisti è come svanita. Eppure è significativo che rimangano dei liberali sia dentro che fuori al Partito, e che siano riusciti negli ultimi mesi a organizzare una campagna vigorosa per mantenere viva la fiamma delle rigore. Un pugno di organizzazioni in qualche modo tollerate dalle autorità – come lo Hu Yaobang Historical Data

terferenza della polizia o degli ufficiali di sicurezza statale [Ming Pao, 19 gennaio; Radio Free Asia, 19 gennaio].

Prendiamo ad esempio l’incontro organizzato proprio poco prima dell’Anno lunare, convocato per ricordare il 20esimo anniversario del nanxun, il viaggio nella Cina meridionale fatto da Deng Xiaoping. Agli inizi del 1992 il defunto patriarca fece del suo meglio per ravvivare le liberalizzazioni economiche e ideologiche, pronunciando la famosa frase: “Senza riforme, l’unica strada è la perdizione”. All’evento, organizzato a Pechino, hanno preso parte più di 200 intellettuali anziani o di mezza età: fra questi, molti membri del Partito. Nel discorso d’apertura, Hu Deping ha chiesto agli intellettuali della nazione di “sviluppare ancora di più lo spirito del nanxun”. Riferendosi alle politiche dialogiche delle autorità del Guangdong nei confronti della protesta dei contadini del villaggio di Wukan, Hu ha detto: “Soltanto quando i diritti dei contadini sono sostenuti si potrà sostenere anche la stabilità politica delle campagne” [Chinatimes.com, 20 gennaio; Caixin.com, 29 gennaio; China Brief, 6 gennaio]. Gli altri partecipanti si sono accodati, chiedendo l’introduzione su larga scala in Cina degli ideali politici internazionali. Ad esempio l’economista Han Zhiguo, che ha poco più di 50 anni, ha proposto un sistema multi-partitico a suffragio universali, la libertà dei media e persino la “nazionalizzazione”delle forze militari: “Senza il sistema elettorale ‘una testa, un voto’, la popola-


mondo zione cinese non può avere il senso della dignità. Il governo degli Stati Uniti non ha paura di nessuno, se non del suo stesso popolo. Le autorità cinesi hanno paura di tutti, tranne che dei loro cittadini”. Zi Zongjun, accademica di lunga ed esperta di politica estera, ha aggiunto: “Taiwan ha battuto la Cina” nel campo delle politiche democratiche. “La Cina continentale deve ancora compiere questa transizione. Invece si vedono persino dei segnali di retrocessione” [Ming Pao, 19 gennaio; Voice of America, 19 gennaio].

In un altro incontro molto notato che si è svolto lo scorso autunno, questi coraggiosi intellettuali si sono scagliati contro i tentativi dei dirigenti di sinistra – come il Segretario del Partito di Chongqing, Bo Xilai – di far rivivere il maoismo. Il seminario è stato tenuto per ricordare il 20esimo anniversario del passaggio della “Risoluzione su alcune questioni nella storia del nostro Partito” (da allora nota come “La risoluzione”): un testo che chiarì la posizione di Deng sulla Rivoluzione culturale e sul ruolo del Presidente Mao nella politica cinese. Hu Deping ha fatto un velato attacco agli sforzi ultra-conservatori per reinstaurare i precetti di Mao: «Alcune persone fanno delle cose per commemorare la Rivoluzione culturale e questo è un passo indietro. Noi non ci siamo criticati abbastanza, nella ‘Risoluzione’ di 30 anni fa. Ma la linea finale del testo, la negazione della Rivoluzione culturale, non può essere infranta. Eppure recentemente si vedono persone che ne vorrebbero un’altra». Jiang Ping, anche lui intervenuto a questa conferenza, ha affrontato i tentativi della leadership di Hu Jintao di usare la “stabilità” come scusa per imporre un dominio autoritario. Il famoso giurista ha chiarito due falle nelle politiche cinesi: l’idea che “la stabilità supera per importanza ogni altra cosa”e la dichiarazione secondo la quale “la Cina è un caso speciale”. Per Jiang “sulla base di questi concetti, rimane la domanda su chi debba determinare cosa costituisce la stabilità. Questo concetto, che prevede una stabilità forzata, è contrario al principio dello stato di diritto. Sottolineare troppo l’unicità della Cina significa ignorare i credi e i valori comuni a tutta l’umanità. Le idee universali sul governo costituzionale, il sistema legale e i diritti umani sono molto importanti” [Ming Pao, 28 agosto 2011; Liane Zaobao, 28 agosto 2011]. Il fatto che le attività e i discorsi di intellettuali come Hu Deping e Han Zhiguo non vengano riportati dai media ufficiali non vuol dire che la loro voce rimanga silente. Grazie alla crescita esponenziale di internet, i curiosi fra i 450 milioni di utenti della Rete in Cina hanno accesso alle trascrizioni di questi saloni di avanguardia. Mentre i vari dipartimenti di sicurezza impongono pesanti sentenze su dissidenti come Chen Wei e Chen Xi, per avvertire gli altri dissidenti di non diffondere idee “destabilizzanti” o “anti-socialiste” su internet, l’autostrada dell’informazione viene riempita da materiali politicamente scorretti. Ad esempio, durante il seminario dello scorso mese per commemorare il nanxun di Deng, centinaia di utenti internet hanno mandato messaggi di testo

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Una monaca è la 23esima vittima

Intanto in Tibet si continua a morire entre a Pechino si discute sul futuro politico ed economico della nazione, in Tibet si continua a morire contro la repressione del governo comunista. Tenzin Choedron, una monaca buddista tibetana che si è data fuoco per protestare contro il dominio cinese in Tibet, è morta durante la corsa verso l’ospedale di Ngaba, nel Sichuan. A riferirlo sono ieri i media cinesi, che puntano di nuovo il dito contro «la cricca del Dalai Lama, colpevole di fomentare questi atti». Dal febbraio del 2009, sono oramai 23 i religiosi che si sono dati fuoco per chiedere libertà religiosa e il ritorno del loro leader spirituale in patria.

M

Secondo quanto riferito ieri dal governo tibetano in esilio, la giovane 18enne - che proveniva dal monastero di Mamae Dechen Choekhorling - si è data fuoco ad un incrocio stradale pronunciando slogan contro il governo cinese. Le forze di sicurezza l’hanno immediatamente portata via e hanno chiuso il monastero: la monaca non è morta sul colpo, ma è stata portata via in luogo sconosciuto dagli agenti della polizia cinese. Ngaba si conferma l’epicentro di questa forma di protesta: qui si sono verificate 14 autoimmolazioni, delle quali cinque dall’inizio di febbraio. Il Dalai Lama e tutte le altre personalità spirituali del buddismo hanno più volte chiesto ai loro fedeli di non compiere questi atti e di pensare sul lungo periodo, ma hanno ammesso che le privazioni a cui sono costretti i tibetani in Tibet sono terribili e aumentano di anno in anno. La polizia, su ordine del governo centrale comunista, invece di cercare il dialogo e frenare le morti, continua a tenere sotto strettissimo controllo le regioni dove vivono i tibetani, bloccando le strade e impedendo i collegamenti anche telefonici. Il segretario regionale tibetano del Partito comunista cinese ha invitato i suoi funzionari alla “guerra contro i secessionisti del Dalai Lama”, minacciando i funzionari che non si adoperano di cacciarli. Lobsang Sangay, premier del governo tibetano in esilio, dice ad AsiaNews: «Siamo addolorati e increduli per il continuo aumento delle auto-immolazioni. Inoltre siamo molto preoccupati per l’invio di migliaia di soldati in Tibet e dal bando imposto da Pechino ai media stranieri nella provincia. Apprezziamo le dichiarazioni di molte nazioni, ma chiediamo alla comunità internazionale di fare un’azione concreta: mandate le delegazioni a investigare sulla verità».

agli organizzatori per commemorare il settimo anniversario della morte del Segretario generale Zhao: “Dovremmo tenere alta la torcia delle riforme alzata per la prima volta da Zhao”, ha scritto uno [v. Ming Pao, 20 gennaio; Apple Daily, 20 gennaio].

Il fatto poi che le notizie sulle recenti elezioni presidenziali a Taiwan siano circolate per tutta la Cina dimostra che i circa 50mila funzionari di sicurezza della Rete possono soltanto rallentare le idee liberali che circolano sulle piattaforme telematiche, come la versione cinese di Facebook e Twitter. Le elezioni di Taiwan, inclusi video sulle corrette ed efficienti procedure di conteggio dei voti, hanno avuto un’enorme copertura sui siti semi-ufficiali. Un portale molto popolare ha persino condotto un sondaggio fra gli utenti sui candidati. Anche se il vincitore – il presidente nazionalista in carica Ma Ying-jeou – si è assicurato la maggioranza dell’urna virtuale, il suo sfidante – la candidata del Partito democratico progressista pro-indipendenza, Tsai Ing-wen – ha raggiunto un sorprendente 20 %. Inoltre il video con cui Tsai

popolazione”. Tornato in Cina, il premier ha rilanciato: «Non ci servono soltanto riforme nel campo delle strutture economiche; abbiamo bisogno di una riforma commisurata della struttura politica» [v. China News Service, 11 gennaio; Ming Pao, 12 gennaio]. Anche il capo del Partito del Guangdong Wang Yang, che ha ottenuto le lodi dei media nazionali per la sua gestione conciliatoria delle dimostrazioni di Wukan, si è impegnato a espandere le iniziative riformiste iniziate proprio nella sua provincia dal defunto Deng: «La riforma è la radice e l’anima del Guangdong», dice spesso Wang. Usando un linguaggio che sembra rimandare alle istruzioni di Deng, qualche tempo ga Wang ha detto che «la cosa peggiore che possa accadere a una riforma è la stagnazione. Invece di perdere tempo in dibattiti, perché non diamo una possibilità alle cose nuove?». Anche se è vero che Wang ha parlato più spesso di riforme economiche piuttosto che politiche, poco tempo ha approvato un regolamento che rende più facile per le Organizzazioni non governative cinesi registrarsi nel Guangdong. Inoltre, i giornali e i siti provincia-

La nuova classe politica ha dalla sua Internet, dove operano 450 milioni di cinesi che fanno circolare e commentano notizie di ispirazione democratica: la censura ha fallito ha ammesso la sconfitta – in cui cita “l’importanza di un corretto partito d’opposizione – ha avuto una grande distribuzione quanto meno fra gli utenti con la miglior istruzione nelle città [v. Sina.com, 14 gennaio; The Economist, 21 gennaio; Apple Dailu, 16 gennaio]. La grande domanda è se le richieste per una strada più veloce di democratizzazione avanzata sia da noti intellettuali che da anonimi utenti di internet abbiano un impatto significativo sulle politiche del Pcc, in particolare in un momento in cui il Partito sembra avviarsi verso gli ultra-conservatori. È da sottolineare il fatto che due membri del Politburo, il premier Wen Jiabao e il Segretario del Guangdong Wang Yang, sembrano aver risposto alla richiesta pubblica di riforme. Molto è stato scritto sul fatto che Wen sia stato l’unico membro della Commissione permanente del Politburo che abbia parlato in maniera ripetuta dell’importanza delle riforme politiche. Durante il suo giro in Medio Oriente, compiuto lo scorso mese, il premier ha discusso con i suoi ospiti dei movimenti democratici che si sono diffusi in Nord Africa e Medio Oriente. Wen ha dichiarato che “ogni governo ha la responsabilità di operare per il bene della propria

li sono divenuti i più provocatori e coraggiosi di tutto il Paese [v. New York Times, 31 dicembre 2011; Southern Metropolitan News, 23 novembre 2011].

Per l’ex vice-direttore del People’s Daily, Zhou Ruijin, la riforma in Cina “ha incontrato strati su strati di contraddizioni e ostacoli”. In un articolo sul nanxun di Deng, molto diffuso su internet, Zhou ha scritto: “La riforma in Cina ha raggiunto ancora una volta il momento più importante. Soltanto la riforma può sollevare le nostre ansie”. Zhou ha poi aggiunto che tali riforme devono essere ora incentrate “sulla politica, dato che senza di questa le riforme sociali ed economiche non possono andare più in profondità” [v. Caijing, 15 gennaio; BBC News, 24 gennaio]. Anche se la Cina ha ottenuto lo status di “quasi superpotenza”, la leadership del Partito sembra essere disturbata dalla possibilità di contraddizioni sociali profonde – così come dalla “pacifica evoluzione”che viene da Occidente – che oscurino il cielo. Il rumore fatto dai liberali, interni ed esterni al Partito, non sembra così forte da poter influenzare la fazione principale, ma la leadership del Partito ne ignora le richieste a suo pericolo.


spettacoli

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“The show must go off” della Dandini si è rivelato un flop, in un’annata televisiva che, da Chiambretti alla Bignardi, conferma la crisi del varietà

Nessuno parla con lei Finto nuovismo, solito repertorio, lo stesso divanetto: Serena è uguale a se stessa e ha stancato il pubblico di Giancristiano Desiderio l sabato sera non è più quello di una volta. Proprio come le torte delle nonne, le scuole elementari e le automobili. Il Varietà, con la maiuscola, non è cosa facile da definire e, forse, non si sa bene neanche se esista per davvero, un po’ come l’araba fenice. Non era facile da capire cosa fosse nella sua epoca, figurarsi ora che siamo in un’altra epoca della storia dello spirito della televisione. Prendete un “mostricciatolo sacro” come Fiorello. Che cosa ha fatto? Dovendo ritornare in video dopo essere stato per un po’ di tempo in radio ha pensato bene di non ritornare il sabato sera ma il lunedì. Su RaiUno. È stato un gran successo. Fiorello - lo dicono tutti, volete che non diciamo anche noi? - è bravo ma lui o chi per lui è stato ancora più bravo nella scelta del giorno giusto per il suo spettacolo a cui ha dato un titolo ironico e furbo: Il più grande spettacolo dopo il week end. Risultato: un successo di tutto. Pubblico, critica, pubblicità, partecipazioni, varie ed eventuali.

- che, almeno nelle aspettative, “avrebbero dovuto portare un po’ di aria fresca”. Invece di aria fresca in televisione ce n’è poca. Il pubblico se n’è reso conto da tempo e cambia canale, cerca cose nuove, diverse, non particolarmente eleganti ma, almeno, non già viste.Tuttavia, in questa ripetizione all’infinito del “già visto” la Dandini con il suo divanetto e il suo ennesimo “parla con me” non era partita male, almeno in termini di ascolti. Il quasi 6 per cento di share, al di sopra della media di rete, “contiene anche pubblico di qualità, per età e istruzione” diceva Grasso, e c’era da esser contenti perché era appunto tutto “grasso che cola”.

I

Cambiamo canale. Andiamo a La7. Chi c’è? Serena Dandini. Anche lei non è più quella di una volta. Ma solo per l’anagrafe. Proprio Rosario Fiorello la chiama amabilmente “la vecchia”. Per il resto è sempre la stessa torta. Eppure, nel passaggio da RaiTre a La7 la Dandini ha pensato di poter fare una cosa innovativa: l’invenzione del sabato sera. Esattamente la cosa opposta del programma di Fiorello. Persino nel nome: The show must go off che significa “lo spettacolo si deve fermare“. E così è stato. Perché qui tutto era sbagliato: la scelta del giorno, la conduttrice, i comici, i cantanti, gli ospiti. E quel titolo è la summa della presunzione: fintamente ironico, snob, con la puzza sotto il naso, vittimistico giacché allude in modo neanche velato alla sua “defenestrazione” dalla Rai, neanche avesse avuto in Rai un “posto fisso”. Insomma, una vero dramma. Perché il sabato sera o sai essere nazionalpopolare con stile, legge-

Quel titolo è troppo presuntuoso, snob e falsamente ironico: allude in modo troppo vittimistico alla cacciata dalla Rai rezza, intelligenza non ostentata ma naturale - come lo stile dell’anatra, direbbe Raffaele La Capria - o è meglio che te ne stai a casa tua o, se proprio vuoi fare televisione per campare (bene), allora è bene che te ne stia in seconda e terza serata in cui con il tuo pubblico che ti segue e sopporta te la canti e te la suoni, tu, Vergassola, l’amaro Cynar e lo scrittore siciliano. E pensare che tutto sembrava in discesa. Aldo Grasso, il critico di color che sanno di televisione, aveva parlato della morale delle tre proposte del fine settimana - Le invasioni barbariche, The show must go off, Chiambretti Sunday Show

Il difetto, però, era già visibile nel manico. Sentite la critica del critico: “Difficile tratteggiare il suo nuovo show: non è certo un varietà classico, sembra piuttosto un talk con uso di spettacolo, dove il peso è tutto su Elio e le Storie Tese (niente male Elio travestito da Bruno Canfora). Per il resto, a parte qualche imitatore non particolarmente incisivo e la solita inconcludenza di Lillo & Greg (la presunzione artistica di Greg è pari solo alla sua velleità; Lillo, nella sua semplicità, è un po’ meglio), siamo in pieno Parla con me, con tanto di Dario Vergassola al seguito. Meglio l’intervista con Tiziano Ferro che quella con Andrea Camilleri, trattato ormai come un’icona vivente, cui è stato chiesto di ripetere sempre la stessa aneddotica, come da repertorio frusto. Bravo Diego Bianchi: Tolleranza Zoro riesce ormai a imporsi anche senza la Signora”. Appunto, il classico film già visto. Sarebbe stato meglio mandare in onda direttamente delle repliche. Anzi, le repliche in televisione vanno quasi sempre bene, proprio perché il pubblico sa che sono repliche e non si attende nulla di nuovo, così può felicemente rimasticare. Ma è quanto dice Aldo Grasso qui nelle prossime righe che va preso ben sul serio

Nella foto grande, il cast di “The show must go off”, varietà di La7 in crisi di ascolti condotto da Serena Dandini. A sinistra, Daria Bignardi, conduttrice de “Le invasioni barbariche”. Sotto, Fiorello, unica eccezione al flop del varietà con “Il più grande spettacolo dopo il week-end” Nella pagina a fianco, Piero Chiambretti, conduttore di “Chiambretti Sunday show” perché è il cuore - vero - della critica - giusta - alla signora Serena: “Dandini è rimasta ferma agli anni 80, alla Tv delle ragazze, non ha più inventa-

to nulla, la sua bravura sta nel coinvolgere alcuni artisti bravi come Corrado Guzzanti (ma quando non ci sono...). Insomma, se l’intenzione è di insegnare agli italiani a «ballare sul baratro», la strada è lunga e impervia e a noi resta la frustrazione di non potere mai segnalare un personaggio nuovo, un comico che sappia far ridere, una novità in tutti i sensi”.

È proprio così: la Dandini è uno di quei personaggi televisivi che visto una volta hai visto per sempre. Perché fa sempre le stesse cose, dice sempre le stesse, ha sempre le stesse movenze, lo stesso sorriso, la stessa spocchia. Non c’è mai un’invenzione, una luce, un lampo. In televisione come in teatro in una serata a presentare un libro, un autore, un


spettacoli

musicista. La Dandini è monocolore, monotematica, monoteista. L’esatto contrario del Varietà che è vario, articolato, colorato. Anche Daria Bignardi fa flop. Gli ascolti sono appena appena soddisfacenti, nonostante Roberto Saviano e Jovanotti. L’autore di Gomorra è affetto da “dandinismo”: se parla d’altro non è interessante. “Il fenomeno comincia a ridimensionarsi? - si chiede Grasso -. Lui è interessante quando parla delle cose che conosce (l’universo della criminalità organizzata, in particolare la camorra), quando esce dal seminato, quando ribadisce il suo status di scrittore, quando Saviano parla di Saviano diventa poco interessante”. Diciamo pure che è noioso. Monotematico. Monocolore. Persino triste. È un valore degli scrittori e degli uomini sapere quali siano i loro limiti, quando incantano e quando stancano. Qualcuno lo dovrebbe dire anche a Saviano.

L’esempio dovrebbe essere quello di Piero Chiambretti. Se anche uno come Pierino perde colpi, se anche uno come Chiambretti che è sempre frizzante anche quando è ripetitivo non è più così interessante e non si lascia più seguire, allora, come dice il suo stesso spettacolo “la musica sta cambiando” solo che pro-

prio loro, i musicanti, non l’hanno capito. Il critico, sempre lui, ha parlato di Pierino come “della delusione più grossa. In tempi di tagli ai budget (e, a quanto pare, alla creatività), Chiambretti ha tentato di portare nella prima serata di Italia 1 i temi e i linguaggi di una seconda serata che ormai praticamente non esiste più. Quello che avrebbe dovuto essere il suo “Muzik Show“, il grande ritorno della musica in televisione, dopo il semi-insuccesso dello speciale di dicembre con la Pausini si è trasformato nel consueto salotto di freak e ballerine. Ma ogni cosa ha i suoi tempi (e fa il suo tempo), e le atmosfere da night club poco si addicono al prime time della domenica. La lunga intervista a Peter Dinklage, attore della serie Game of Thrones trasmessa da Sky Cinema e recente vincitore di Emmy e Golden Globe, ha ridefinito i termini dell’imbarazzo della star americana alla tv italiana, già ampiamente descritti da Sofia Coppola in Somewhere: domande pruriginose e inconcludenti, con insi-

stenza morbosa sul nanismo dell’attore e sulle sue conquiste amorose (sul set e nella vita), continuamente interrotte da una varia umanità di danzatrici e “fotografe“ seducenti. Con la costante dello sguardo dell’attore, ora incredulo ora rassegnato.

Il “governo tecnico”, parata serissima di giornalisti e professionisti vari, dopo la sorpresa per la trovata risulta presto stucchevole (si salva, come al solito, Costantino della Gherardesca). Così, a quanto pare, non bastano gli insi-

14 febbraio 2012 • pagina 15

stiti riferimenti al sesso e alle belle donne, o la ricchezza confusa di stimoli diversissimi tra loro, a fare un programma di successo: ci vuole qualche idea, e quella mancava”. Non saprei aggiungere di meglio. Anzi, no: per la prima volta Chiambretti è noioso, lento e ha dovuto far ricorso alle donne nude, alle tette, ai culetti e al sesso senza ironia proprio perché quell’idea del “governo tecnico” era inconsistente. Perché? Semplice: perché il governo Monti non si muove su canoni televisivi e dell’immagine e la televisione e l’immagine che cercano di ricondurli allo stile televisivo del berlusconismo sono goffi e restano al di sotto del loro bersaglio satirico. L’effetto raggiunto è il contrario: invece della parodia altrui si riesce a fare una grottesca e involontaria parodia propria. Il “dandinismo”, ossia la finta innovazione, in realtà una rimasticatura, è la malattia dell’attuale televisione che per riprendersi ha bisogno della cosa più naturale del mondo: volti nuovi e possibilmente talenti. I numeri, severinianamente incontrovertibili, sono senza pietà: per la Serena senza più serenità solo il 3,38 per cento di share: 860mila telespettatori. “Per me non è un

strada. La mia risposta è: non faremo modifiche per inseguire gli show nazionalpopolari del sabato sera. The show must go off ci piace così, è pieno di cose nuove, originali, ci vuole tempo per far arrivare il pubblico. Ma se girate su Youtube vedrete quante cose nostre circolano”. La filosofia dandiniana è questa: chi si contenta gode. Roberto Gervaso diceva: chi non si contenta gode di più. Ma qui chi non gode, cioè non gradisce, è il pubblico. Non possiamo dargli torto. Fare il varietà del sabato sera del villaggio globale è anacronistico. Nessuno sa bene come sia possibile rifarlo, figurarsi la Dandini. Il papà del genere, il grande Antonello Falqui, che da tempo si è ritirato dalle scene, non ha mai voluto rivelare il segreto del suo successo che ebbe a ripetizione: da Canzonissima a Studio Uno a Mille luci. Perché? Si è sempre spiegato il mistero con la gelosia e la ritrosia di Falqui a parlare del suo lavoro e delle sue intuizioni.

flop - ha spiegato irrealisticamente la Dandini in una intervista per la Repubblica -. E non sono delusa, perché la mia sfida è in corso, non è detta l’ultima parola. Illuminare il sabato sera a La7 è come far luce in una caverna: lì finora c’era il nulla, l’uno per cento degli ascolti. Io faccio il 3-4 per cento degli ascolti del sabato sera, gli spettatori sono pochi, ma la rete mi sostiene. Non è la prima serata di RaiUno, non si può avere tutto e subito”. E ancora: “Voi dite che abbiamo fatto flop, in verità stiamo aprendo una nuova

protagonisti, né al di là né al di qua dello schermo. I suoi protagonisti e il loro pubblico sono nell’aldilà. Capita per lo spettacolo televisivo quanto accade per il resto della storia e della sua varia umanità: mutano i tempi e cambiano le esperienze degli uomini su cui si fonda il mondo e il senso comune nel quale siamo immersi. A rendersi conto della fine dei tempi non sono mai i loro protagonisti che ambiscono a restare sulla scena anche quando è arrivato il momento di fermare per davvero il loro spettacolo.

In realtà, il segreto del varietà del sabato sera è il classico segreto di Pulcinella che tutti conoscono: il varietà è morto o finito perché non ci sono più i suoi interpreti e


ULTIMAPAGINA Storia triste di una stella infelice che aveva deciso di arrendersi già molti anni fa

Omaggio (con critica) a Whitney Houston, la donna che morì di Antonella Giuli n tanti la ricorderanno per lo più così: depressa, barcollante, disorientata, sfatta, drogata e alcolizzata. Neanche fosse giunta appena alla soglia dei trenta col vizio del successo e il lusso del male di vivere come Amy Winehouse. Di anni Whitney Houston ne aveva 48, ma la fine è stata più o meno la stessa: trovata morta nel privato di una stanza d’albergo a Beverly Hills, forse affogata nella vasca da bagno e, proprio come per la ventisettenne israeliana, lasciando nei paraggi quel mix di alcol e droghe a dare indizi sulla possibile causa del decesso. Il dubbio per il momento resterà, il corpo della cantante è arrivato sul lettino autoptico di un medico legale ma sui risultati c’è il segreto istruttorio perché così ieri ha stabilito la sua famiglia. Whitney Houston era depressa da molti, moltissimi anni. Una causa legale contro il padre John e un matrimonio (“il” matrimonio) celebrato con Bobby Brown nel 1992, tutto fatto di passione, botte e tradimenti e naufragato quindici anni dopo, hanno precipitato la stella del pop in un baratro infelice e sempre più oscuro. Nemmeno nella figlia Bobbi Cristina (da due giorni sotto choc per l’improvvisa perdita della madre) Whitney ha saputo scovare una banale spinta, una qualunque ragione per andare avanti. Eppure, e questo sì che è banale da dire, sono milioni le donne e gli uomini a dover affrontare una separazione o un divorzio faticosi da gestire, ma senza per questo decidere di rannicchiarsi in un angolo a piangersi addosso fino ad autodistruggersi.

I

Dunque, poche scuse. La voce più fluida e vellutata del pop internazionale, la pantera nera che ha fatto innamorare milioni di fan grazie anche a una straordinaria performance sul grande schermo Bodyguard, (The 1992), di fronte al bivio dove ciò che si vuole fare raramente coincide con ciò che è giusto fare, ha scelto il sen-

tiero facile facile dello stordimento e dell’abbandono di sé. Difficile quindi avvicinarsi alla condotta degli ultimi anni della sua vita (e alla sua tragica fine) equipaggiati solo di commiserazione o di troppa indulgenza. Più giusto semmai è ricordare quelle virtù che decenni fa l’hanno spedita meritatamente all’apice di un consenso planetario e che l’hanno sostenuta fino a quando sono incappate nella forza delle sue debolezze.

Whitney Houston aveva la musica nel dna. Nata il 9 agosto del 1963 nella periferia a Newark, città del New Jersey, sua madre Cissy era una cantante gospel e sua cugina la pop star Dionne Warwick. Ma è soprattutto grazie

nella carriera della Houston fino a quel momento). La definitiva consacrazione alla fama arriva però nel 1992 con un album che è una perla nel suo genere e che ha fatto da colonna sonora alla pellicola interpretata insieme alla “guardia del corpo” Kevin Kostner: ben 45 milioni di copie vendute con I Will Always Love You. Nello stesso anno, dopo un lungo fidanza-

DUE VOLTE mento, sposa Bobby Brown. L’unione è benedetta dall’arrivo della piccola Bobbi Kristina Houston Brown, nel 1993. La corsa di Whitney al successo e alla notorietà sembra a questo punto inarrestabile: nel 1994 si esibisce alla Casa Bianca in onore del neoeletto presidente sudafricano Nelson Mandela. Seguono poi altri album, altri tour mondiali, altre apparizioni cinematografiche. Pubblico e critica sono ai suoi piedi. Ma contestualmente cominciano anche l’uso di cocaina e marijuana, l’abuso di alcol, il rapido declino del matrimonio e della sua stessa vita.

Di fronte al bivio dove ciò che si vuole fare raramente coincide con ciò che è giusto fare, la voce più bella del pop aveva scelto il sentiero facile dello stordimento e dell’abbandono di sé. Peccato al suo straordinario e inconfondibile timbro di voce che la giovane Whitney scala la vetta delle classifiche rimanendoci per settimane intere (7 singoli consecutivi piazzati al primo posto della “Billboard Hot 100”, un primato che neanche Diana Ross e i Beatles) e che nel 1986, ad appena 23 anni, la porta a vincere il Grammy con Saving All My Love For You. L’anno successivo arriva un altro grande successo: il singolo I Wanna Dance With Somebody (il brano diventa un vero e proprio hit in tutto il mondo, senz’altro il più grande Una sorridente Whitney Houston all’apice del successo; la pellicola che la consacrò alla fama: “The Bodyguard”; uno scatto recente della star, già provata dalla depressione

In quel difficilissimo periodo la Houston rilascia numerose interviste alla stampa cercando di spiegare, di farsi capire. E i suoi fan non la tradiscono (controllare le cifre di biglietti venduti durante le tournée, alcune delle quali annullate all’ultimo istante per evidente incapacità di starsene in piedi). Un omaggio significativo le è stato quindi dedicato due giorni fa, all’indomani della scomparsa, durante la cerimonia dei Grammy Awards. Il conduttore LL Cool J ha voluto iniziare la serata così: «Anche se ci hai lasciato troppo presto, ci consideriamo benedetti per aver toccato il tuo splendido spirito». Epitaffi e commemorazioni a parte, pur doverosi che possano essere, è comunque giusto ricordare anche cosa Whitney Houston diceva di Whitney Houston: «Nessuno mi fa fare niente che io non voglia. È una mia decisione. Sono il mio più grande diavolo. Il mio miglior amico e il mio peggior nemico». Parole di una artista unica e infelice, che ha venduto oltre 190 milioni di dischi in tutto il mondo.


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