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he di cronac

È difficile stabilire la linea che separa gli affari dal furto. Jean Luc Godard

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 16 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Probabilmente era tutto studiato per alzare l’audience. Ma questo non fa che aggravare il suo comportamento

Il Re degli arroganti Celentano come un vecchio politico: usa la tv per attacchi personali Il direttore generale della Rai “commissaria” Sanremo e invia Marano con “pieni poteri”. La Cei: «Vuoto e ignoranza, deve chiedere scusa». Mazza: «Però è brutto parlare di censure» La stoccata lanciata a Londra

Attesa la decisione dei giudici

«L’Europa vincerà unita». Trionfo di Monti a Strabsurgo

Caso Mills, la procura chiede 5 anni per Berlusconi

Standing ovation per il premier all’Europarlamento: «Siamo determinati a portare l’Italia fuori dalla zona grigia. Anche Parigi e Berlino hanno sbagliato»

di Osvaldo Baldacci

Le reazioni

METAMORFOSI

Solo un tribuno rissoso da Seconda Repubblica di Maurizio Stefanini

Italia in recessione, sul lavoro si tratta di Marco Palombi i diceva già da un po’, ma adesso è un fatto “tecnico”: l’Italia è in recessione visto che il suo Prodotto interno lordo decresce per il secondo trimestre di fila. In numeri il Pil ha segnato un risultato negativo per lo 0,7% rispetto ai tre mesi precedenti e dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2010: questo significa che il prodotto l’anno scorso è cresciuto di un misero 0,4%. a pagina 7

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

Dai vescovi alla politica, tutti contro l’intervento dell’ex Molleggiato Errico Novi • pagina 2

i sono violate, in maniera gravissima, tutte le regole del servizio pubblico… Ciò è avvenuto per iniziativa, certo, di un personaggio dello spettacolo scopertosi improvvisamente predicatore elettronico di un qualunquismo tanto rozzo, quanto pericoloso, ma, e questo è il punto di novità, per precise responsabilità dei gruppi dirigenti della prima rete e dell’azienda Rai. La ‘sparata’ di Celentano non era imprevista. A essa si era garantita una ridicola messa in scena di drammatizzazione… I responsabili della trasmissione sapevano che Celentano avrebbe fatto un nuovo comizio e l’hanno tollerato e costruito. Se poi dicono che non conoscevano i contenuti, o che la loro fiducia è stata tradita, ciò vuol dire che la Rai non è in grado di dirigere la più seguita trasmissione del servizio pubblico». Così parlò Walter Veltroni il 7 novembre 1987. segue a pagina 4

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Lunedì nuovo incontro delle parti sociali

E a difenderlo c’è solo Bondi

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Viale Mazzini

Caos alla Rai: la Lei rimane sola Il Consiglio d’amministrazione contro le decisioni prese dal dg Francesco Lo Dico • pagina 3

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Il Festival

La vera vittima è la musica Polemiche e scontri su tutto, e il contenuto della rassegna sparisce

esplosione non è più di quella di un petardo. La bolla si è sgonfiata. Arriva la requisitoria finale del pubblico ministero del processo Mills, e tutto sommato suscita scarso interesse. Così come è avvenuto nelle ultime settimane per la maggior parte delle udienze e dei processi dell’imputato Silvio Berlusconi. Ricordate le prime usci- I legali te pubblidell’ex che di pochi mesi fa, premier le presenze puntano in aula, le tutto sulla dichiaraprescrizione zioni, le claque contrapposte fuori del Palazzo di Giustizia. Macché. Si arriva allo scontro finale sul filo di lana, e cade nell’indifferenza quasi generale. Ieri il pm Fabio De Pasquale ha chiesto una condanna a 5 anni di reclusione per Silvio Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. E per combattere la quale la difesa userebbe carte false e comunque obsolete, perché superate dal processo a Mills.

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segue a pagina 16

Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 2 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Famiglia Cristiana liquida il cantante predicatore come un «piccolo attivista dell’ipocrisia». Formigoni: «Siamo al tramonto di un vecchio guru»

Anarchia in Riviera

Non solo i vertici della prima rete, ma persino la valletta è commissariata. Dalla politica reazioni dure a Celentano. I vescovi: «Le sue sono farneticazioni» di Errico Novi

ROMA. È un Sanremo commissariato a trecentosessanta gradi. Persino la valletta è commissariata: torcicollo o no, Ivana Mrazova detta da Morandi Ivanka è un fantasma e al momento di andare in stampa non siamo certi che si sia rimaterializzata. Belen e Canalis svolgono dunque il ruolo che nei comuni sciolti per camorra spetta ai prefetti. Valletta commissariata, direttore di Rai1, Mauro Mazza, commissariato da un vicedirettore generale, Antonio Marano, e in ultima analisi la stessa Rai commissaria se stessa. Perché la scelta di lasciare al Festival una forte autonomia era stata dell’azienda, che ora, con il direttore Lorenza Lei, si corregge e corre ai ripari.

Brucia l’impennata di Adriano Celentano che a casaccio se la prende con la Chiesa, i preti e in particolare i giornali cattolici Avvenire e Famiglia cristiana. Brucia anche il fatto che molti, i cantanti innanzitutto, afferrino di essere commissariati pure loro, ovviamente da Celentano. Il debordante sermone del superospite ha ridotto a fatto marginale la gara canora. Si rafforza dunque l’impressione che la ragione sociale del Festival tenda a ridimensionarsi, se non a dissolversi. E che dunque le sparate alla Celentano, di sicura efficacia in termini di ascolti (lo share di

I giurati hanno votato a mano alle 18.50. L’ira dei consumatori e degli spettatori, esclusi

Dopo il flop del televoto, è ripartita anche la gara di Vincenzo Faccioli Pintozzi on bastavano i controlli della Guardia di Finanza in città e il forfait di Ivana Mrazova (per non parlare del delirio di Adriano Celentano, durato quasi un’ora). A segnare il debutto del festival di Sanremo è un altro incidente: si inceppa il sistema tecnico di voto usato dalla giuria demoscopica dopo l’esibizione del secondo big, Samuele Bersani, e alla fine Rai1 e l’organizzazione del festival decidono di sospendere la gara, tra le contestazioni di pubblico e giurati.

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A dare l’annuncio è capitan Gianni Morandi a fine serata, nel momento in cui dovevano essere resi noti i nomi dei primi due artisti esclusi. «In deroga al regolamento del festival, Rai1 e la direzione artistica, preso atto del blocco del sistema di voto, hanno deciso di sospendere la gara di stasera, permettendo a tutti e 14 gli artisti di riesibirsi domani», dice il conduttore tra i «buuh» del pubblico e dei giurati che, dalla galleria, lanciano in aria le schede cartacee su cui stavano registrando i loro voti dopo lo stop al meccanismo elettronico. Il caos, ha spiegato la Rai, è stato determinato da un problema tecnico alla centralina del sistema della Ipr Marketing, la società demoscopica che si occupa del festival. In un primo momento i giurati sono stati invitati a votare su carta, in attesa del ripristino del sistema. Poi, per evitare qualsiasi tipo di conte-

stazione e garantire la regolarità della gara, si è deciso di sospenderla. Ieri sera tutti i big hanno avuto la possibilità di riesibirsi e a fine serata saranno eliminati in quattro.

Segno non troppo strano di una edizione nata in maniera particolare, con un occhio molto attento allo share - ovviamente si tratta del main business della Rai - e con poche attenzioni ai meccanismi interni a quella che dovrebbe essere salvo smentite una gara canora. E invece di musica non soltanto se ne è sentita poca per via del tantissimo tempo concesso a telepredicatori anzianotti e a battute stantie, ma non se ne è neanche parlato il giorno dopo. Ieri, complice il caos Celentano, se parlavi di Sanremo parlavi di interventi, di correttezza istituzionale, di sgarbi o di commissariamenti. Di musica no, neanche a parlarne. Di veline si è sentito qualcosa - la slava ricoverata, il recupero in extremis di Canalis e Rodriguez - ma di cantanti no. Se, come è altamente possibile, il format del festival della canzone non tira più nel campo della raccolta pubblicitaria, l’azienda di viale Mazzini ha una splendida possibilità davanti: pensionarlo e dare vita a un grande spettacolo alternativo. In cui, per carità, si possa parlare di tutto e di più. D’altra parte, al Colosseo non combattono più i gladiatori: ma non ci hanno messo neanche le squadre di calcio.

martedì sera ha sfondato il muro del 50 per cento di oltre 5 punti, con la precedente edizione morandiana ben staccata al 48,65), siano diventate l’unico motivo per cui quest’anno ci si è visti in Riviera. Lo conferma il fatto che il televoto è saltato, con gli artisti costretti a riesibirsi ieri. Va bene tutto, ma a questo punto non si capisce perché lo si debba chiamare ancora Festival della canzone italiana.

Morandi parla di «cattolico osservante», a proposito del Molleggiato. Ma dalla Sir, l’agenzia di stampa della Cei arriva una risposta molto dura: «I giudizi di Adriano Celentano su due testate cattoliche nazionali da lui accusate di ipocrisia, di parlare di politica e non di Dio, sono stati la prova di un vuoto che è anche dentro di lui» Difesa senza esitazioni dei due giornali, nella nota della Sir. In cui si rileva «l’ignoranza che prende il microfono per diffondere il suo messaggio». Il «vuoto di conoscenza» è riferito «a ciò che le testate cattoliche professionalmente sono» e al «servizio che esse svolgono per la crescita della società». Da Tv2000, emittente della Conferenza episcopale, parole anche più severe: «Quello di Celentano è stato un monologo, una sorta di predica fatta utilizzando il servizio pubblico per delle farneticazioni». Ma appunto è nell’anarchia il sen-


prima pagina

16 febbraio 2012 • pagina 3

La Cei si indigna, Lei commissaria Sanremo Il Sir all’attacco del Molleggiato: «Chieda scusa, è ignorante». E Marano piomba sul festival di Francesco Lo Dico

ROMA. L’ennesimo pasticciaccio brutto che coinvolge il servizio pubblico è andato in onda ieri con la decisione di paracadutare in riviera Antonio Marano.

Un breve comunicato stampa di viale Mazzini annuncia il commissariamento di Sanremo da parte di Lorenza Lei. «Vista la situazione che si è venuta a creare», recita la nota, si è deciso «di inviare il vice direttore per l’offerta, Antonio Marano, a coordinare con potere d’intervento il lavoro del Festival di Sanremo». Ma in attesa di capire a quali persone in particolare si riferisca la formula impersonale cui ricorre il dg Rai, entrata prepotentemente nel servizio pubblico in occasione del Giubileo 2000, la cosa chiara è che “si è deciso” di costringere il direttore di RaiUno, Mauro Mazza, a un fuori festival pieno di funambolismi. Così che in conferenza stampa, l’uomo deve giustificare così l’arrivo delle truppe cammellate sull’Ariston: «Nei compiti istituzionali di Marano c’è il coordinamento dell’offerta televisiva. Di fronte alla complessità della macchina, dell’apparato tecnico, anche ad alcune difficoltà riscontrate ieri sera viene a darci una mano, lo aspettiamo». Celentano, insomma, non c’entrerebbe una Mazza. Si tratterebbe solo di puro spirito di servizio del vice direttore in quota leghista: Marano ci dà una mano, un po’ come il metano. All’indomani dell’esplosiva performance del Re degli ignoranti a Sanremo, il Vaticano non ha porto l’altra guancia. Pri-

ma la Sir, agenzia di stampa della Conferenza episcopale italiana, bolla l’esibizione del Molleggiato come «ignoranza col microfono». Le parole di Celentano, chiosa la Cei, «nascono da un vuoto di conoscenza di ciò che le testate cattoliche professionalmente sono, del servizio che svolgono per la crescita umana, culturale e spirituale della società tutta. Un vuoto voluto, e quindi ancor più triste, perché a tutti è possibile conoscere e comprendere il ruolo laico dei media cattolici nel nostro Paese». «I giudizi di Adriano Celentano su due testate cattoliche nazionali da lui accusate di ipocrisia», prosegue l’organo di stampa dei vescovi, «di parlare di politica e non di Dio, sono stati la prova di un vuoto che è anche dentro di lui». Dura presa di posizione, che è culminata in una «richiesta di scuse». Molto

Africa, in Asia, in Sud America) e farle funzionare per un anno intero». Parole e musica, che rendono ancora più controverso lo spartito letto all’Ariston da Mauro Mazza.

Il direttore di RaiUno, ecumenico sì ma non troppo lineare, riesce ad abbozzare insieme la difesa di Celentano, («Una performance fantastica. Ha parlato, ha cantato. Ha avuto coraggio, cantando del bel rock: quanto alle ingiurie, ricordiamoci anche che cosa ha scritto Grasso») e la scomunica dello stesso («È un grande cantante, ma un pessimo telecomunicatore»), la difesa delle parti lese («La chiusura di un qualsiasi giornale non si invoca mai: sono cose brutte e ad ascoltarle si avvertono i brividi lungo la schiena»), e la difesa volenterosa del carnefice, («Sappiamo però chi ci mettiamo in casa: se si prende Celentano, lo si prende con il fiocco, tutto compreso»). E avvisa anche Marano, che verrà a dare una mano, nella costernazione sua e dell’organizzazione del festival. «Leggo nella nota che ha potere d’intervento, ma la direzione artistica ha un percorso già tracciato». Più netto il presidente della Rai, Paolo Garimberti. «La libertà è sacra ed è sacra anche quella di Adriano Celentano. La libertà però deve essere esercitata con responsabilità e rispetto. Auspicare la chiusura di un giornale è invocare la censura, una intollerabile censura. Non c’è altro modo di definirla. E sorprende che a buttarla lì sul tavolo, con inescusabile

Paolo Garimberti condanna il cantante: «La libertà è sacra ma deve essere esercitata con rispetto. Auspicare la fine di un giornale è invocare la censura»

so di questa avventurosa performance della tivù di Stato. Lo si capisce quando proprio il direttore di Rai1 Mauro Mazza, accompagnato in conferenza stampa dal quasi omologo direttore artistico del Festival Gianmarco Mazzi, definisce Celentano. «un grande cantante ma un pessimo telecomunicatore». Poi chiosa con una didascalia incredibile: «Sappiamo chi ci mettiamo in casa: se si prende Celentano lo si prende con il fiocco, tutto compreso». E se era già tutto calcolato, allora, come mai proprio Mazza viene opportunamente messo sotto tutela da Viale Mazzini?

Il presidente Garimberti osserva come «la Rai non può che dissociarsi». E con lui si schie-

veemente anche la reazione di Famiglia cristiana, che descrive l’ex ragazzo della via Gluck con queste parole: «È solo un piccolo attivista dell’ipocrisia, un finto esegeta della morale cristiana che sfrutta la tv per esercitare le sue vendette private». E Avvenire ricostruisce così la polemica aperta dallo stesso giornale sui compensi del Molleggiato: «Tutto questo, perché abbiamo scritto che con quel che costa lui alla Rai per una serata si potevano non chiudere le sedi giornalistiche Rai nel Sud del mondo (in

rano alcuni, se non tutti, i componenti del consiglio d’amministrazione. Da Giovanna Bianchi Clerici, quota Lega, che non può fare a meno di notare la «grande disorganizzazione» e come Celentano abbia «decisamente abusato del mezzo pubblico, cosa di gravità inaudita», con relative accuse a Mazza, al

due testate cattoliche che al Corriere della Sera, il cui critico televisivo Aldo Grasso pure è finito sotto i fulmini del cantante-predicatore. C’è chi si dispera fino a un certo punto come Di Pietro, che anzi ringrazia Adriano «per aver ricordato il nostro impegno referendario». Chi conserva un minimo

protervia, sia stato chi, per anni, ha lamentato di essere vittima dello stesso trattamento». Ma della vicenda, dice a liberal il critico televisivo Enrico Vaime, «c’è poco da dire, sono tutte “fregnacce”. A me Celentano non è dispiaciuto, si è trattato di buona satira con qualche sforamento nella politica. Era ora che questo Paese avesse una scossa dopo questo insopportabile clima di concordia».

Poco conciliante, nei confronti di Celentano, è anche il consigliere Rai, Giovanna Bianchi Clerici: «Ha decisamente abusato del mezzo pubblico. È di una gravità inaudita. Non c’è stato un sufficiente controllo editoriale. Non chiamerei però in causa i vertici aziendali, la responsabilità è di Raiuno». Che ieri però ha battuto un segnale di vita. La prima serata del festival di Sanremo, ha ottenuto nella prima parte14 milioni 378 mila telespettatori, pari al 48.51 per cento di share, tre punti in più dello scorso anno. Prima che questo giornale vada in stampa, fonti molto vicine all’entourage di Celentano fanno sapere che il performer non sarà sul palco dell’Ariston. Ma al di là di come finirà una cosa è certa: che sia Lui, Lei o l’Altro (il solito), è tempo che la Rai sia finalmente sganciata da partiti, correnti e teste di legno assortite. Per i numerosi e inediti liberali di questo Paese, dovrebbe trattarsi di uno sforzo minimo.

genza un intervento sulla gestione della Rai». Il ministro Andrea Riccardi sfodera ammirevole understatement e non si impegna in una «polemica effimera».

Toni misurati dal Pd, sia con il vicepresidente in Vigilanza Giorgio Merlo che con Beppe

Lupi definisce la filippica «una vergogna». Ma nel suo partito spunta un fan insospettato: Bondi parla di «un imprevedibile e soprendente discorso in difesa della fede, mai visto prima d’ora in uno spettacolo pubblico» centrista Rodolfo De Laurentiis: «La libertà di espressione non può trascendere nell’offesa gratuita o in ipotesi surreali come la chiusura di giornali che probabilmente Celentano conosce poco». Dai vertici Rai arrivano scuse formali sia alle

di misura come Arturo Parisi, coinvolto come il leader Idv nella disavventura del referendum, difende invece la Consulta, altro bersaglio della filippica sanremese. Il pidiellino vicepresidente della Camera Antonio Leone chiede «con ur-

Fioroni: «Spiace che Celentano non apprezzi il lavoro serio dei giornali cattolici», dice l’ex ministro dell’Istruzione. Famiglia cristiana è più perentoria: liquida il cantante di Yuppi Du come un «piccolo attivista dell’ipocrisia». Maurizio Lupi è

su una linea simile. «È una vergogna quello che è accaduto, forse le poche risorse della Rai bisognerebbe investirle in altro». Roberto Formigoni parla di «tramonto di un vecchio guru». Ma la vera sorpresa, nelle reazioni politiche, arriva da Sandro Bondi: «Al di là di certe sgradevoli provocazioni, l’apparizione di Celentano può essere letta come un imprevedibile e sorprendente discorso sulla fede, un discorso pieno di pietà religiosa sulla vita e sulla morte. Mai con uno spettacolo pubblico così popolare era stato elevato un grido così vibrante in difesa di una fede autentica». Lupi preferisce il Celentano cantante: c’è da associarsi e invocare il Bondi poeta, migliore del critico televisivo.


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C’era il ribelle della Prima Repubblica. Poi venne il predicatore della Seconda. Che oggi degenera negli attacchi personali. Ormai è entrato nella casta segue dalla prima Era la sera della famigerata puntata di Fantastico 8 in cui, nella sera del sabato dedicata alla “pausa di riflessione” alla vigilia di un turno di referendum, il “supermolleggiato” aveva espresso la sua irritazione per il fatto che la Corte Costituzionale avesse dichiarato non ammissibili i quesiti sulla caccia, prima mostrando alcuni scioccanti filmati di Greenpeace sulla caccia alle foche, poi invitando la gente a scrivere sulla scheda “la caccia è contro l’amore”. Salvo poi tornare subito in palcoscenico a dire che gli avevano appena spiegato come in quel modo si sarebbero

Abbuffato di soldi in un momento in cui l’intero Paese stringe la cinghia, il Supermolleggiato è diventato più un Supernoleggiato annullate le schede, e che quindi era meglio non farlo. 25 anni sono da allora passati. Un quarto di secolo in cui ha fatto in tempo non solo a morire la Prima Repubblica, ma anche a entrare in crisi ormai irreversibile la Seconda. Per non parlare di tutto quel po’ di cose sono accadute in giro per il mondo. Ma Celentano, stavolta a Sanremo, continua a fare della tv pubbli-

ca carne di porco. Abbuffato di soldi in un momento in cui l’intero Paese stringe la cinghia, e poco importa se poi li ha destinati a una chiassosa carità, il Supermolleggiato ormai trasformato dalle sue note spese in Supernoleggiato: invece di fare servizio pubblico mette lo spazio pubblico al servizio delle sue beghe neanche più ideologiche, ma teologiche e addirittura personali.

Anche se con un’aria generale o di non aver capito che pure la Seconda Repubblica sta passando, o di trovar più comodo il far finta di non capirlo. Reprimenda ai preti, perché non sanno regolare l’audio degli altoparlanti. Reprimenda a preti e frati, perché non parlano del Paradiso. Reprimenda a “giornali inutili come l’Avvenire, Famiglia Cristiana”, che “andrebbero chiusi definitivamente”, perché “si occupano di politica e delle beghe nel mondo”(ad esempio dei suoi cachet),“anziché parlare di Dio e dei suoi progetti” (sui quali, come è noto, il Supernoleggiato ritiene di avere l’anteprima). Reprimenda a Montezemolo che“ha fatto bene a fare il treno veloce, quello che... bello, confortevole: è giusto”, ma “bisogna bilanciare la velocità con qualche cosa di lento. E allora io ti dico, Montezemolo, che adesso devi fare subito un treno lento, che magari si chiama Lumaca, dove ti fa vedere le bellezze dell’Italia”.Reprimenda alla Consulta, o “se no bisogna cambiare il vocabolario”. Reprimenda alla direttrice della Rai Lei, che si chiama così “perché lei vuole mantenere le distanze. Hai visto anche con Michele Santoro l’ha distanziato mi-

Un impegno lungo una vita. Fatta di contraddizioni

Come un vecchio politico: metamorfosi di Adriano di Maurizio Stefanini


l’approfondimento

ca male”. Reprimenda a “un deficiente come Aldo Grasso” che “scrive delle idiozie sul Corriere della Sera”(= critica Celentano). Reprimenda a Monti: “apparentemente indipendente, facile però all’ossido dei partiti, lo dice il vocabolario”. E reprimenda a “Merkel e Sarkozy” che “impongono al governo greco l’acquisto delle loro armi”. Molti nemici, molto onore. Nel 1987 finì con 200 milioni di multa inflitti dalla Rai al telepredicatore; ma anche con 4636 lettere all’allora presidente della repubblica Francesco Cossiga con su scritto “sono il figlio della foca, non voglio che la mia mamma pianga”, seguendo un altro degli inviti che erano stati fatti; e con un bel po’ di schede referendarie effettivamente annullate. Giorgio Bocca definì il supermolleggiato“un cretino di talento”, il missionario terzomondista Padre Melandri un “cretino”tout court, Disegni e Caviglia riempirono vignette con un Celentano grugnente versacci incomprensibili. Ma verdi di partito ed ecologisti vari invece applaudirono, iniziando lo sdoganamento a sinistra di un personaggio che in passato era stato assimilato all’integralismo cattolico.

Mutatis mutandis, l’integrazione di Celentano a profeta in una sinistra ridotta al mero anti-berlusconismo ricorda parecchio il parallelo percorso di un altro vecchio integralista cattolico sia pure di ben altra statura politica come Oscar Luigi Scalfaro. E chissà se la stessa differenza rispetto a un Benigni che magari facendo il ruffiano ma a Sanremo riesce a unire l’Italia non sia dovuta invece nel fatto che nel toscanaccio resta invece un po’di quel togliattismo istituzionale tra Svolta di Salerno e assunzione dell’eredità della destra Storica, che una volta affondato il comunismo porta comunque al senso dello stato di Napolitano… Ma qua rischiamo veramente di confondere troppi piani.

Anche perché, comunque, un’attrazione un po’ rozza e confusionaria per la politica in Celentano risale già al 1966 con Il ragazzo della Via Gluck. Dunque, c’è qui la fotografia del boom edilizio che ha accompagnato quello economico. E c’è un disagio non solo in singolare controtendenza rispetto all’euforia dell’epoca, ma in anche anticipo di nove anni rispetto all’articolo giustamente considerato epocale di Pier Paolo Pasolini sulla scomparsa delle lucciole.

È vero pure che nel compianto del passato non manca una punta di ipocrisia, col compiacimento per il successo del selfmade man. Come confermato da una famosa battuta su Berlusconi.“È partito dal niente proprio come me, perciò penso che sia un perfetto Ragazzo della via Gluck”. Ma soprattutto c’è l’annuncio del futuro ecologismo, con tutto un filone anch’esso in anticipo rispetto alla denuncia pasoliniana. Viola, del 1970: “Vero come la campagna il nostro grande amor.../ la rugiada all’alba bagna i nostri corpi, uniti in un fior!”. L’albero di 30 piani, del 1972: “Per la tua mania di vivere in una città / guarda bene come ci ha conciati la metropoli./ Belli come noi ben pochi sai ce n’erano e dicevano quelli vengono dalla campagna. Ma ridevano si spanciavano già sapevano/ che saremmo ben presto anche noi diventati come loro./ Tutti grigi come grattacieli con la faccia di cera/ con la faccia di cera è la legge di questa atmosfera/ che sfuggire non puoi fino a quando tu vivi in città”. L’unica chance, del 1973: “la salute se ne va/ in compagnia del criminale/ che per qualche lira in più/ ci sofistica il mangiare”. Fino al profeta-scimmia interpretato nel 1982 al cinema in Bingo Bongo e, appunto, alle intemerate anti-caccia e antinucleari di Fantastico 8. Certo, se il Ragazzo è una delle tre canzoni di Celentano che Gianni Borgna considera degne di essere analizzate nella sua“Storia della canzone italiana”, un’altra è però Azzurro, che si colloca quasi agli antipodi. Anche lì la fuga dalla città, certo; ma non in chiave anticonsumistica, bensì come inno al grande rituale contemporaneo delle va-

canze al mare: “cerco l’estate tutto l’anno/ e all’improvviso eccola qua../ lei è partita per le spiaggie/ e sono solo quassù in città/… e allora/ io quasi quasi prendo il treno/ e vengo vengo da te”. C’entra che mentre del Ragazzo (e dell’Albero, e della Chance) Adriano è autore, in Azzurro è solo interprete della canzone di Paolo Conte? In effetti vuol dire poco: appena ne ebbe la possibilità Celentano mise su una casa discografica per conto suo proprio per potersi scegliere comunque i brani da interpretare, e comunque anche in Azzurro c’è qualche riferimento a infanzie in oratorio che il Supernolleggiato deve aver sentito come proprio. Si può però osservare che come il Ragazzo pone in dubbio il miracolo economico mentre è in auge, Azzurro invece lo celebra proprio in quell’anno 1968 che ne lancia la contestazione. Già da allora Celentano sembrava non accorgersi di quel che accadeva attorno a lui. Un Celentano “progressista” sembra pure quello di un secondo filone pacifista-

Ecologista, anti abortista, crumiro, ferocemente contrario al comunismo, estremista cattolico. Sono solo alcune delle tante anime del Re antinucleare, che esordisce nel 1966 con Il mondo in mi settima: “leggo che sulla terra sempre c’è una guerra, / ma però, per fortuna, stiamo arrivando sulla luna mentre qui c’è la fame, c’è la fame!/… Ogni atomica è una boccia/ e i birilli son l’umanità, / il capriccio di un capoccia/ ed il mondo in aria salterà/”. La sinistra dell’epoca, però, parlerà piuttosto di qualunquismo. In particolare, a interpretare gli umori antimoderni del celentanismo profondo in chiave tutt’altro che progressista è quel terzo filone che prende le mosse dal secondo posto a Sanremo del 1961 di Ventiquattromila baci. Il già citato Borgna lo definisce “un testo in cui l’amore (cronometrizzato, taylorizzato) viene ridotto a pura gestualità meccanica, e per ciò stesso completamen-

Da sinistra, in alto in senso orario: Adriano Celentano in Rai, una delle prime trasmissioni degli anni Settanta; in una foto degli esordi; con Mina; nei film “Serafino” e “Il Più”; con la moglie Claudia Mori; nella sua trasmissione; insieme a Benigni; in una puntata di Fantastico 8; a Sanremo 2005

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te demistificato”. Ma il femminismo è arrivato a parlare di “incitazione allo stupro”, e le accuse di maschilismo reazionario hanno spesso avuto l’occasione per essere ulteriormente reiterate con molte altre canzoni: dall’antidivorzista La coppia più bella del mondo nel 1967 (Il vero amore/ per sempre unito dal cielo, / nessuno in terra, anche se vuole, / può separarlo mai. L’ha detto lui!”), fino all’antiabortista Deus del 1981 (o che casino che è successo quaggiù/… vogliono distruggere le favole dei nonni/… ti ammazzano che stai ancora in pancia).

Nel mezzo va ricordata per lo meno “La tana del re”, del 1969:“io sono solo ma non credo che tu sei contenta/ certo stai piangendo. Ma piangi forte forte Che si senta/ Se tu non vuoi che un’altra stia con me e mi porti a letto il tuo caffè/ Devi capire che da quando è nato il mondo la donna non sta da pari all’uomo anche se vuole portare I pantaloni/ Il re della foresta sai chi è è un leone maschio come me”. Ma anche un’intervista-choc del 1981: “L’atto sessuale è per esempio sapere che se voglio, adesso, chiamo mia moglie in cucina e gli tiro giù le mutande, e la violento sul tavolo o davanti ai fornelli”. Né il Celentano di destra si limita a prendersela con le femministe. Del 1967 è ad esempio l’intemerata di Tre passi avanti contro i beat “che non si lavano, … scappano di casa,… si drogano e dimenticano Dio”. Del 1970 l’invito al crumiraggio anti-sindacale di Chi non lavora non fa l’amore. Del 1985 l’anticomunismo duro del film Joan Lui, con la direttrice di un emblematico Corriere dell’Est che sguinzaglia i suoi giornalisti e costruire dossier contro la reincarnazione del Cristo. Joan Lui ha anche un messaggio anti-partiti, sulla scia di quanto già gridato nel 1976 in Svalutation: “cambiano i governi niente cambia lassù/ c’è un buco nello Stato dove i soldi van giù”. Un umore che d’altra parte è già evoluto nel 1981 in un antifiscalismo dai toni addirittura pre-leghisti in L’artigiano: “Chi non paga le tasse è ingiusto/ questo dice la società/ ora che sono nel giusto/ sono senza una lira”.


politica

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Standing ovation dell’Europarlamento dopo l’intervento del premier. Che parla in inglese per lanciare una stoccata anche a Londra

«Usciremo dalla crisi»

«In Europa non ci sono buoni e cattivi, anche Parigi e Berlino hanno sbagliato. Sacrifici necessari, l’Italia si allontana dalla zona grigia» Il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, che ieri è intervenuto all’assemblea plenaria del Parlamento europeo riunito a Strasburgo portando a casa una standing ovation. In basso, il Cancelliere tedesco Angela Merkel. Nella pagina a fianco, in alto il ministro del Welfare Elsa Fornero, che sta portando avanti un tavolo di confronto con le parti sociali sulla riforma del lavoro e sull’articolo 18. In basso, la leader Cgil Susanna Camusso

di Vincenzo Faccioli Pintozzi na standing ovation fa sempre piacere. Che si tratti di un concerto - rock o classica, non importa di un evento sportivo o di un discorso. Ma se ad alzarsi in piedi è il Parlamento europeo riunito in seduta plenaria e l’applaudito è il premier di uno dei famigerati “Piigs” - poi retrocessi a “Pigs”, ma poco cambia - ecco che l’applauso assume un sapore nuovo e più gustoso. Mario Monti parla in inglese, attacca Londra, difende l’unità europea, mette in guardia dalle possibili discrepanze create dalla valuta unica. Non si tiene su alcun argo-

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venendo. L’Italia è impegnata in una complessa corsa uscire dall’emergenza: stiamo gradualmente riuscendo a togliere il nostro paese dalla zona d’ombra in cui in qualche momento è stato collocato come fonte, contagio o focolaio della crisi». Per Monti «la soluzione della crisi dell’eurozona è a portata di mano, ma bisogna recuperare lo spirito unitario di appartenenza all’Ue». «Adesso servono - sintetizza il premier italiano - rigore e crescita». Questi due fattori non sono concetti astrusi, e Roma è pronta a pagarne le

Monti si fa “prendere dalla passione” (parole sue) mentre parla di integrazione e passa dall’italiano all’inglese fluente: «Integrazione non significa volere un super Stato» dice, con riferimento all’euroscetticismo anglosassone mento. Ma la sua schiettezza conquistano una delle arene più rissose della storia continentale. Ovviamente, il presidente del Consiglio italiano parte dai problemi di casa: «I sacrifici chiesti agli italiani non sono imposti dall’Europa ma necessari per il miglioramento della vita economica, sociale e civile degli italiani e nell’interesse dei nostri figli». Mario Monti si presenta davanti al Parlamento Europeo per ribadire come l’impegno dell’Italia sia «indissociable dall’impegno verso l’Unione europea».

L’orizzonte appare più chiaro: «La strada da compiere è ancora molta ma sono incoraggiato da quello che sta av-

conseguenze con il passo indietro sulla candidatura olimpica, che avrebbe dovuto portare i Giochi nella nostra capitale: «Ho dovuto prendere una decisione difficile e non popolare ma penso che l’opinione pubblica abbia capito. Il momento lo impone».

E proprio l’Europa resta la stella polare dell’agire montiano: «Ho visto troppe volte, come commissario, i governi nazionali giocare il ruolo di accusatori delle istituzioni europee dopo aver partecipato a decisioni prese in Ue. Io mi sono ripromesso di non fare mai questo brutto scherzo all’Ue - continua Monti spiego sempre ai miei concittadini che i

sacrifici importanti e le riforme difficili a cui sono chiamati non sono imposti dall’Europa ma necessari per il miglioramento della vita economica, sociale e civile e nell’interesse dei nostri figli». Insomma in Europa «non ci sono buoni e cattivi». Parole che sono suonate come una carica, positiva, a chi - e sono molti - si sente sotto lo schiaffo forse troppo forte del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, e del suo sodale francese.

«Sono anche cose che l’Ue chiede di fare - sottolinea il premier - ma non possono essere imputate all’Ue. Sento la responsabilità di guidare un Paese che ha una materia prima sempre più rara e cioè una opinione pubblica favorevole alla coesione dell’unione. Sento di non dover dissipare questa materia prima ma di doverla coltivare con cura con argomenti di sostanza. In ogni occasione che ho, invito i miei colleghi a usare la stessa attenzione e riguardo verso la nostra costruzione comune». Il governo italiano, promette il premier, è «determinato ad andare rapidamente al riequilibrio dei conti pubblici» confermando l’obiettivo del pareggio di bilancio al 2013 e «compiere molto rapidamente le riforme strutturali necessarie». Certo, rispettare la scadenza del 2013 sarà duro: gli impegni presi dal nostro governo e i sacrifici sociali che già adesso si sentono sulla pelle della popolazione non sono come quelli greci, ma non sono neanche una passeggiata di salute.


politica

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Il governo: «I dati economici erano previsti, speriamo di ripartire subito» i diceva già da un po’, ma adesso è un fatto “tecnico”: l’Italia è in recessione visto che il suo Prodotto interno lordo decresce per il secondo trimestre di fila. In numeri il Pil ha segnato un risultato negativo per lo 0,7% rispetto ai tre mesi precedenti e dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2010: questo significa che il prodotto italiano l’anno scorso è cresciuto di un misero 0,4%. «Quanto registra l’Istat sulla recessione tecnica - ha spiegato il ministro per le Politiche agricole Mario Catania - è una situazione che già conoscevamo. Siamo al punto più basso della curva ed è un dato che ci aspettavamo. Speriamo però di risalire già nel prossimo trimestre». La situazione non è migliore se si considera la crescita sia nell’area dell’euro che nell’intera Unione europea: in entrambe il Pil decresce dello 0,3% rispetto al trimestre precedente. Questo ovviamente non può non avere effetto sui dati macroeconomici e infatti il Bollettino stati-

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Recessione italiana, sul lavoro si tratta La Fornero “rimanda” i sindacati a lunedì Ma i numeri condannano la nostra crescita di Marco Palombi nomica tedesca, la golden rule era quella che stabiliva che ci potesse essere un indebitamento dello Stato per investimenti pubblici, cioè che si potesse finanziare con il debito quella che è formazione di capitale». Forse, è l’auspicio di Monti, «un giorno l’Europa potrà permettersi di considerare in modo più freddo e pacato anche strumenti per la crescita come questi». Per il

Nonostante il nostro debito pubblico sia sceso leggermente in termini assoluti (da 1.904 miliardi a 1.897 tra novembre e dicembre), il suo peso rispetto al Pil è in aumento del 2,98% (120%) stico di Bankitalia ieri registrava il dato: nonostante il debito pubblico italiano sia sceso leggermente in termini assoluti (da 1.904 miliardi a 1.897 tra novembre e dicembre), il suo peso rispetto al Pil è in aumento del 2,98% (120% il rapporto tra i due). Il problema, insomma, resta quello annoso di conciliare il rigore con la crescita, come ha ricordato anche ieri il presidente del Consiglio Mario Monti parlando al Parlamento europeo: «Benissimo che oggi nelle nostre Costituzioni si introduca la regola del pareggio di bilancio strutturalmente corretto ha scandito il premier - un po’ meno bene averla chiamata ‘golden rule’. Questa è una importante disciplina, ma una volta anche nella cultura eco-

momento, però, non se ne parla e dunque per liberare gli spiriti animali dell’economia il governo punta parecchio su liberalizzazioni e riforma dei contratti di lavoro. Su quest’ultimo argomento, proprio ieri, s’è svolto a palazzo Chigi l’ennesimo incontro tra le parti sociali e il ministro del Lavoro Elsa Fornero, che si è assunta per così dire la parte del poliziotto buono. Mentre martedì, infatti, Monti aveva messo a verbale che la riforma andava fatta comunque entro marzo («non potremmo fermarci anche se a quel tavolo non ci fosse accordo»), contemporaneamente mettendo in dubbio la reale rappresentatività dei sindacati («l’importante è lavorare nell’interesse di un interlocutore che

«L’impegno preso l’estate scorsa dal mio predecessore di portare il bilancio in pareggio già nel 2013, il mio governo l’ha mantenuto, non ha chiesto di modificarlo anche se è molto severo e comporterà un avanzo primario del 5 per cento del Prodotto interno lordo».

Ma le prospettive sono buone. Anche per la recuperata credibilità dell’Italia: «Stiamo portando con crescente intensità la voce della crescita proprio perchè si sente a posto e fa al proprio interno tutto il necessario per la disciplina di bilancio. C’è molto da dire e ancor più da fare sulla crescita». Come detto in apertura, però, non sono solo

non è seduto al tavolo: i giovani, oggi emarginati, spesso disperati»), ieri Fornero ha interpretato l’anima dialogante insieme al collega Corrado Passera e ai viceministri Martone e Grilli: «Non c’è nessun aut aut», ha premesso ai convenuti (sindacati, Confindustria e Rete imprese), discutiamo del progetto e lasciamo «per ultimo il tema della flessibilità in uscita», che in giornalistese si dice “articolo 18”. Il problema è che il progetto ancora non si vede quale sia: ieri, per dire, il governo ha assicurato che non procederà “con l’accetta”rispetto alle decine di forme contrattuali oggi esistenti (niente flexsecurity alla Ichino, insomma, né Contratto unico di inserimento alla Boeri). La ministro ha comunque voluto dare una carezza a Cgil, Cisl e Uil parlando dell’apprendistato e di controlli contro gli abusi: l’apprendistato, secondo Fornero, è infatti «la forma tipica per l’ingresso nel mercato del lavoro: è un veicolo di formazione, ma è stato usato come veicolo di flessibilità. Dobbiamo essere severissimi, non ci sarà nessuna tolleranza sull’uso improprio dell’apprendistato». E non solo: «Vogliamo

introdurre sanzioni e controlli per l’uso improprio delle forme di flessibilità e del lavoro autonomo in forme subordinate. Ci sono troppe partite Iva, ma occorre evitare discontinuità e che migliaia di lavoratori finiscano in nero». Parole queste che non devono essere piaciute alle imprese, che infatti hanno chiesto un supplemento di incontro riservato al termine del quale Emma Marcegaglia non è sembrata tranquillizzata: sulla cosiddetta “flessibilità buona” in entrata “siamo un po’ perplessi che ci possa essere un au-

rose e fiori. Il presidente del Consiglio ravvisa anche un rischio, ovvero quello che «l’euro diventi un fattore di disgregazione e separazione tra europei. Questo rischio c’è. La soluzione della crisi è a portata di mano, ma dobbiamo dedicare altrettanti sforzi al recupero di uno spirito unitario di appartenenza. La crisi dell’eurozona ha ricreato troppi stereotipi, ha diviso gli europei tra Stati centrali e periferici, classificazioni da rifiutare decisamente».

Continua Monti e, per usare le sue parole, si lascia “prendere dalla passione” mentre parla di integrazione è passa dall’inglese all’italiano. «Integrazione

mento dei costi. La cosa chiara è che non devono esserci aumenti del costo del lavoro, anzi dobbiamo andare in direzione opposta”. In sostanza, se è concesso tradurre le parole della presidente di Confindustria, gli imprenditori non solo vogliono meno burocrazia per l’apprendistato, ma anche che i contratti a termine o parasubordinati non costino più di oggi. Meno agitati i sindacati, su cui però continua ad aleggiare lo spettro dell’articolo 18 (“il tema è sul tavolo”, assicurano gli industriali) e pure lo sciopero generale indetto dalla Fiom che ha ristretto di parecchio le possibilità di trattativa per Susanna Camusso: «Abbiamo riconfermato al governo – ha spiegato la segretario della Cgil - che per noi non c’è il tema dell’articolo 18 e non c’è il tema del licenziamento discriminatorio. Ci sono semmai tempi e modi delle procedure su cui siamo disposti a discutere”. Il negoziato, comunque, «inizia bene».

Raffaele Bonanni, però, oltre che giusta, la strada la vede stretta: «Sappiamo che il governo vuole intervenire sull’articolo 18, speriamo ci sia ragionevolezza da parte di tutti e che saremo all’altezza, anche come sindacato, di offrire soluzioni perché se noi ci chiudiamo e diciamo che non ne vogliamo discutere allora ci pensa il governo, come con le pensioni». Fornero, d’altronde, non è stata reticente: «Deve essere chiaro – ha spiegato durante la riunione - che il tema del riordino dei contratti e delle flessibilità in entrata è subordinato al tema della flessibilità in uscita». Semplice e conciso. Prossima puntata lunedì al ministero del lavoro per discutere di ammortizzatori sociali: «Quelli nuovi non arriveranno prima di 18 mesi», ha già spiegato Fornero, non si può toccare la cassa integrazione durante un periodo di crisi.

non significa un super Stato», dice in inglese con riferimento all’euroscetticismo anglosassone.

Ed è qui che l’aula applaude. Poi Monti torna all’italiano e alla sua passione per l’Europa. Che passa anche per il sostegno agli eurobond che non sono da vedere «come strumenti di indisciplina di bilancio, ma di una maggiore integrazione dei mercati finanziari e, anzi potrebbero contribuire anche alla disciplina sui mercati finanziari». L’auspicio è che alla riforma della previdenza segua quella del lavoro. Lacrime e sangue sì, ma almeno si abbia una prospettiva di crescita per il Paese e per chi lo abita.


il paginone

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I quattro “band Dante, Leopardi, Foscolo e Pasolini, uniti dallo stesso destino che in epoche diverse si è abbattuto su di loro. Ma perché l’Italia ha voltato le spalle ai suoi figli maggiori? di Franco Ricordi a tempo, riflettendo sulle sorti del nostro Paese, siamo tormentati da un dubbio, una questione che riguarda quattro poeti, che potremmo senza molti problemi definire quattro poeti-filosofi, forse i più grandi nella storia d’Italia: Dante, Foscolo, Leopardi, Pasolini. Tutti e quattro, seppure in circostanze diverse, sono stati in qualche maniera banditi dal loro paese, dal nostro paese, banditi dall’Italia. E posto che nella vita di ognuno di noi nulla sia mai puramente casuale, ecco che il noDante, Pasolini, stro dubbio comincia giustamente a serFoscolo e Leopardi, peggiare. I quattro suddetti rappresenpoeti civili. Le loro tano una storia culturale e civile di non vicende poetiche indifferente entità per l’evolversi della infatti non si nazione italiana, per quella stessa unità possono disgiungere d’Italia di cui abbiamo appena celebradall’ambito politico to i 150 anni. E le loro vicende poetiche e sociale non si possono disgiungere dall’ambito in cui sono politico e sociale in cui sono vissuti. E vissuti inoltre c’è sicuramente una continuità fra di loro, nel senso che Leopardi ha recepito moltissimo, e anche incrementato, la lezione di Dante, soprattutto nei primissimi Canti, ma poi anche nella sua presa di posizione etica finale, di forte tensione politica e civile. Pasolini ha fatto altrettanto, attraverso una critica alla società che ricorda quella dell’Alighieri, e poi con la sua Divina Mimesis: senza dimenticare le forti suggestioni del capolavoro foscoliano, il carme Dei Sepolcri, per la stesura della sua più bella raccolta di poesie, appunto Le ceneri di Gramsci. Pertanto la poesia civile non è prerogativa del solo autore novecentesco, ov-

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viamente, ma al contrario è proprio lui che è divenuto tale di riflesso ai suoi maestri. Ma ritornando al dunque: come possiamo interpretare la sventura politico-sociale che ha colpito, così duramente, tutti e quattro i nostri più grandi poeti? Dovremo pensare a una Italia, sulla scia della ipotizzata (ma in tal senso autoritaria, come rilevato anche da Karl Popper) Repubblica di Platone, che si propone il deciso allontanamento dei poeti, quindi alla fine di tutti gli artisti dalla Città? Dante anzitutto: guelfo bianco, scacciato dalla sua Firenze, esule a Ravenna. Le sue peripezie non sono state indifferenti, e la forte e a tratti anche compiaciuta critica sociale - in modo particolare in certi grotteschi episodi della prima cantica della Commedia testimoniano una acredine e un vissuto di fortissima intensità. Nel Medioevo poi, come ha scritto Giorgio Agamben nel bel libro Homo sacer, la persona bandita era considerata al medesimo livello dell’animale, del lupo, e così poteva essere ucciso senza che l’assassino fosse ritenuto colpevole. È lo stesso motivo per il quale si dispera così tanto il

Per contrappasso, nella sua Commedia l’Alighieri si è vendicato di tutte le angherie subite, a cominciare dal traditore Bocca degli Abati Romeo shakespeariano, quando viene bandito dalla sua Verona, non concepisce l’dea di poter essere bandito, e grida appunto come «non ci sia mondo al di fuori delle mura di Verona». È questo un motivo di grande importanza, che come vedremo ritornerà nel nostro discorso: qual è il significato più profondo, che cosa comporta l’atto del “bandire una persona”?

Dante, in ogni caso, con la sua legge del contrappasso si è vendicato assai bene di tutte le angherie subite, a volte in maniera che può sembrare addirittura personalistica: si pensi allo splendido episodio del Canto XXX dell’Inferno, quando nel gelo di Cocito Dante scopre

l’anima del suo più acerrimo traditore, Bocca degli Abati, e comincia a strappargli i capelli dopo averlo «preso per la cuticagna»: è la prima e unica volta in cui Dante in qualche modo si ribella a Virgilio, ovvero gli intima di fermarsi un momento perché c’è qualcosa di troppo importante per lui; poi, gli dice, «mi farai fretta». Dante pagò a caro prezzo la sua posizione politica, e dovette subire l’onta dell’esilio con tutto il retaggio dei suoi tempi; ma per lo meno l’ha sublimato nelle memorabili terzine del suo avo, Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso: «Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/ che l’arco de lo esilio pria saetta./ Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». E tuttavia questa maledizione del bando medioevale sembra voler continuare in epoca moderna, per lo meno nei confronti dei poeti che, come Ugo Foscolo, hanno anche creduto in un ideale della patria. Proprio lui, che nel suo carme Dei Sepolcri, aveva per lo meno subli-


il paginone

diti” della poesia

Il poeta delle “Ceneri di Gramsci” fu espulso dalla società per la sua esplicita ricerca di una “diversità diversa” mato in stile fortemente neoclassico la civiltà umana, intesa proprio nella celebrazione del Campo Santo, in quel caso il cimitero di Santa Croce a Firenze, dove riposano le ossa di tanti illustri italiani. E in questa maniera aveva comunque lanciato una sorta di ultima speranza poetico-civile, la possibilità di una patria che si riconoscesse almeno nell’illustre comunione sepolcrale. Anch’egli, bandito dalla patria, finì esule e malato di idropisia in uno squallido sobborgo londinese. Foscolo fu in realtà bandito per tutta la vita, e forse la testimonianza più bella è rappresentata proprio dall’inizio del celebre sonetto In morte del fratello Giovanni: «Un dì s’io non andrò sempre fuggendo/ di gente in

gente, mi vedrai seduto/ su la tua pietra, o fratel mio, gemendo/ il fior dei tuoi gentil anni caduto». Per Foscolo, allora bandito a Milano, l’esilio fu una condizione perenne, quasi ontologica.

Leopardi, poi, il più penoso: in questo senso si comprende bene la definizione assai triste che di lui dette il Croce, un uomo dalla «vita strozzata». Ed è vero: Leopardi non fu mai bandito ufficialmente da nessuna parte, ma fu talmente disconosciuto durante la vita, che se ne andò a morire a Torre del Greco, lontano dalla sua terra, ma trattato in una maniera che davvero non meritava: soltanto il suo fedele amico Antonio Ranieri si rese conto della grandezza, anche politica e civile, della sua Ginestra o il fiore del deserto, e in questa maniera il poeta - che l’amico paragonava soltanto agli antichi greci - subì quello che lui stesso chiamò «l’oblio che preme chi troppo all’età propria increbbe». Leopardi fu di fatto allontanato, svilito, a lui furono anteposte personalità dell’epoca a dir poco mediocri (altro che racco-

mandazioni!), e anche la sua scarsa avvenenza fisica giocò un ruolo non indifferente nel suo insuccesso a livello di società; per tutti questi motivi quel gigante letterario, poetico e filosofico, si trovò a essere in qualche maniera rifiutato, e alla fine espulso dalla sua epoca. Lo si avverte assai bene non soltanto nella suddetta Ginestra, ma anche in altre opere della maturità, come la poco conosciuta Palinodia al Marchese Gino Capponi. Un’opera geniale, dove Leopardi si scaglia contro quelle pretese della “politica economica” e ancor più dei suoi sponsor, le “gazzette”, considerati come una sorta di Paradiso sceso in terra nel secolo XIX, ma che in realtà

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non fa altro che nascondere la miseria e la finitezza della vita umana. Che pensarne oggi? E infine Pasolini, il suo tragico destino (che se vogliamo fu anche ricercato e annunciato, a scorno di chi ancora afferma superficialmente che il “Potere” l’abbia ucciso), ma che comunque si può considerare un “bandito della diversità”, un uomo che evidentemente ricercava una dimensione di libertà e anche di democrazia che probabilmente sono ancora ben lungi dall’essere concepite dalla società italiana. Pasolini, al contrario di Leopardi, ha conosciuto il successo e l’affermazione, anche se li considerava come l’altra faccia della disperazione. Questo per dire che il “bando” non è necessariamente questione di successo o insuccesso in società. Ma il caso di Pasolini lascia ancor più riflettere, e certamente rappresenta lo stesso punto di arrivo di questi quattro grandi poeti italiani: Pasolini è stato realmente ucciso. Ora, lo diciamo subito, abbiamo sempre rifiutato l’idea sinistroide che a tratti viene fuori anche in certi film a lui dedicati, per la quale il poeta alla fine sia stato vittima di un potere democristiano che, sebbene non l’abbia ucciso direttamente, sia comunque il mandante oscuro di tale assassinio. Le cose non stanno così: sarebbe troppo comodo, troppo superficiale, e non terrebbe conto, per l’appunto, di una storia italiana che non risale al fascismo o alla Dc, ma a qualcosa che ha radici antiche, fino ai tempi di Dante, poi di Foscolo e di Leopardi.

Pasolini è stato l’ultimo poeta bandito e, come tale, è stato ucciso. Non che Pino Pelosi o gli altri che potranno essere sotto accusa non siano o non saranno stati perseguiti dalla legge; e tuttavia quel “delitto italiano” non è soltanto un delitto politico del XX secolo, ma il compimento di una vicenda italica che, come abbiamo visto metastoricamente, mette al bando la grande poesia civile, e insieme a essa il suo pensiero, e di cui nessuna politica di parte potrà mai arrogarsi la rappresentanza. Questa è la realtà e la più profonda verità che va riconosciuta. La politica italiana non ha mai fatto nulla per tutelare i suoi grandi poeti e filosofi, li ha semmai utilizzati, per poi lasciarli morire, spesso se non quasi sempre banditi. E Pasolini è divenuto il vero capro espiatorio di cui si sono servite la società e la politica italiane: «Ma perché costringermi ad odiare io/ che quasi grato al mondo per il mio male/ il mio essere diverso, e per questo odiato/ pure non so che amare, fedele e accorato?». Pasolini sapeva che prima o poi sarebbe stato ucciso, ma proprio in questa sua condizione di “intellettuale diverso” ritorna il motivo del “bando medioevale”: la sua diversità, la sua esplicita ricerca di una “diversità diversa”, non omologata, richiama le ragioni dell’espulsione dalla società e nei confronti della quale la politica intera - di destra, come di centro e anche di sinistra - è di fatto responsabile. «È stata uccisa la poesia», disse a caldo Bernardo Bertolucci di fronte al cadavere di Pasolini. Siamo d’accordo. Al patto che non si voglia riconoscere tale poesia soltanto come prerogativa politica di una sinistra che fa capo in ogni caso agli epigoni di Gramsci; ma che voglia invece, ancor più drammaticamente, interrogarsi sul “perché i poeti?”in una Italia che li bandisce, e quindi li uccide.


il caso iran

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Giallo sull’eventuale stop all’export petrolifero verso sei Stati Ue autori delle sanzioni. Prima l’annuncio e poi la smentita

Il balzo di Teheran 4 nuovi reattori e 3mila centrifughe in più. Ecco l’ordine di Ahmadinejad di Antonio Picasso uello iraniano è un dossier da aggiornare in maniera incostante e senza che si possa trarre mai un bilancio parziale. Dall’inizio dell’anno, la corsa al nucleare da parte degli ayatollah ha ricevuto accelerazioni importanti. Già a novembre 2011, il governo di Teheran aveva reso noto di avere almeno 70 kg di uranio arricchito al 20%. Utili per finalità mediche e di produzione agricola. A gennaio è stato annunciato l’avvio del nuovo impianto di Fordow per l’arricchimento al 3,5%, al 4% e al 20% di uranio.

Q

glio nazionale. Un valore che per la Persia del Terzo millennio ha ancora un peso. Di fronte ai nemici occidentali, agli avversari arabi e agli stessi mistificanti interlocutori dell’Estremo oriente, travestiti da sostenitori, Teheran insiste nel voler figurare come una potenza regionale. In realtà, il successo reclamizzato ieri va ricalibrato. La produzione dei centri di ricerca non basta perché il regime possa davvero cantare vittoria. In teoria una centrifuga più efficiente dovrebbe anticipare l’attuazione del programma. La pratica però è cadenza-

L’Iran esporta verso l’Unione europea circa 450mila barili di greggio al giorno, 180mila dei quali sono diretti verso l’Italia. Secondo l’Eia vende all’Europa il 18% delle sue esportazioni Di ieri il passo più concreto. L’utilizzo di combustibile made in Iran per l’alimentazione del reattore di ricerca nella capitale segna una svolta importante. A due anni dal collasso delle centrifughe azionate con barre di uranio prodotte all’estero, il regime ha voluto pubblicizzare l’evento in pompa magna. L’Organizzazione iraniana per l’energia atomica (Aeoi) ha spiegato che le barre di combustibile caricate nel reattore di Teheran sono state prodotte interamente negli impianti di Isfahan e trasferite al reattore della capitale sotto la supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Il caricamento delle barre è avvenuto nel corso di una cerimonia a cui hanno preso parte il ministro degli Esteri, Ali Akbar Salehi, e il capo dell’Aeoi, Fereydoun Abbasi.

Gli analisti inglesi parlano di un risultato significativo. Soprattutto perché nucleare per l’Iran significa autonomia energetica. Il Paese infatti esporta greggio, ma ne importa i derivati. E ancor più vuol dire orgo-

silenzio della rappresentante Ue per la politica estera suggerisce che Khamenei e Ahmadinejad restino sulle loro posizioni. Niente più sanzioni e avanti con le ricerche. Questa è la linea.Tanto valeva non rispondere. La si osservi come si preferisce, ma trattasi di beffa per tutto il 5+1, il gruppo di confronto con l’Iran, costituito dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza all’Onu, con l’aggiunta della Germania.

Teheran ha rispettato le scadenze. Ma senza prendere alcun impegno. Perché mai dovrebbe farlo? Il regime è sicuro di poter avere la sua energia nucleare. Magari non riesce a prevederne il quando. Ma è certo della vittoria. Un po’ perché tutti i regimi della fattura di quello iraniano sono mossi da non intende bloccare le esportazioni di greggio verso il mercato europeo. Con lui c’erano i rappresentanti di Francia, Grecia, Olanda, Portogallo e Spagna. La decisione fa tirare il fiato alle industrie europee. Il 20% del greggio che noi importiamo viene dall’Iran. Noi italiani siamo al 10%. L’apertura di Teheran, o meglio la sua non chiusura mette in condizioni ancora

ta da imprevisti. Sanzioni in primis, come pure incidenti tecnici. Per esempio la scomparsa di molti, troppi ingegneri addetti ai lavori. Il Mossad resta il primo indiziato di questi sequestri e omicidi mirati. Almeno così dicono a Teheran. Ma al suo fianco ci potrebbero essere attivisti e sovversivi di varia origino che si sanno mimetizzare agevolmente nelle città della Persia. Ben più fluida la situazione in sede politica. Gli ayatollah si erano riservati di diritto di replicare a Lady Ashton in merito a un’eventuale ripresa del confronto diplomatico. La risposta è giunta. Dei contenuti però non ci è dato sapere. Tuttavia, il

un marmoreo ottimismo ideologizzato. Un po’ perché l’appoggio di Cina e Russia offre la garanzia concreta a queste ambizioni. In tal senso l’eventualità di un attacco israeliano o statunitense che sia non scalfisce le certezze. Anzi, se guerra sarà, tanto meglio per i falchi sciiti. Intorno ai quali farà coorte l’opinione pubblica nazionale. Del resto, in Occidente il tira e molla è evidente. I timori del blocco di Hormuz erano sfumati già lo scorso mese. Ieri si è avuta la conferma definitiva. L’ambasciatore italiano a Teheran, Stefano Bradanini, è stato convocato al ministero degli Esteri iraniano per ricevere la notizia ufficiale che il regime

cile. Il vice presidente Xi Jinping e il premier Hu Jintao sono in visita rispettivamente negli Usa e nell’Ue.

Nessuno dei due si è dichiarato disponibile ad arretrare sul fronte Iran. Pechino non vuole e non può mettere in discussione gli interessi economici e la domanda energetica di casa propria. Il gigante asiatico mantiene con Teheran un legame di import-export petrolifero che si è intensificato del 30% nel corso del 2011, con le importazioni di greggio ammontate a 27,76 milioni di tonnellate metriche, per un interscambio giornaliero intorno ai 557mila barili. Tutta-

Per la prima volta inserite nel reattore di ricerca barre di combustibile nucleare, arricchito al 20 per cento e totalmente autoprodotto: evento celebrato con una pubblica cerimonia trasmessa in tv più imbarazzanti le singole cancellerie. Perché una volta che gli Usa torneranno a pressare sulle sanzioni, gli europei non potranno dimenticarsi che gli ayatollah sono stati magnanimi nel tenere aperti i rubinetti. Bruxelles e le altre capitali del Vecchio continente restano quindi vittime delle alleanze transatlantiche e di coercizioni dal retrogusto un po’ troppo ricattatorio. In questo la strada dei cinesi è più fa-

via i cinesi sono un popolo serio e quando prendono «un impegno lo rispettano scrupolosamente». Parola del ministro degli Esteri, Cui Tiankai, anch’egli negli Usa, mentre parlava delle sanzioni Onu contro l’Iran. Sulla faccenda, a Washington si è respirato un vento di nervosismo. La Cina fa un distinguo tra le decisioni del Palazzo di vetro e le scelte dei singoli governi. «Abbiamo votato per le risoluzioni del Consiglio di Si-


il caso iran

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Il ministro degli Esteri sulle opportunità per il nostro Paese

Il Mediterraneo secondo Terzi

E sulla Siria: «No a un intervento militare, ci vuole una soluzione politica» di Laura Giannone o visitato Tunisi, il Cairo e Tripoli e c’è la consapevolezza che i nuovi leader hanno ben compreso la portata della sfida e le loro responsabilità. Lo stesso vale per il Marocco. Se queste transizioni avranno successo sarà possibile creare un nuovo modello. Occorre agire in fretta per favorire queste transizioni e l’Italia può e deve svolgere un ruolo di primo piano, perché da tutti questi paesi c’è stata una forte domanda di Italia, soprattutto perché siamo il paese che può focalizzare l’attenzione dell’Ue verso il Mediterraneo». Giulio Terzi di Sant’Agata, il nostro ministro degli Esteri, non ha dubbi sulle opportunità che si aprono per l’Italia nel nuovo mondo arabo ridisegnato dalla Primavera. Parlando dei recenti sviluppi nella regione mediterranea nel corso di un’audizione presso le Commissioni riunite degli Affari esteri di Camera e Senato, il ministro ha ribadito come il Belpaese debba svolgere un ruolo di primo piano nell’area, sia sul piano politico che economico. «Dobbiamo condurre intensi contatti a livello governativo ed è essenziale che i nostri imprenditori siano rassicurati sugli investimenti nelle diverse società colpite dalla Primavera araba», ha detto. «Il 21 febbraio incontrerò a Roma il mio collega egiziano (Mohammed Kamel Amr, ndr.) per fare il punto sulla situazione e affronterò con lui la questione della tutela dell’investimento italiano nel paese».

«H

sad, «ferita dai terroristi» è stato abbastanza eclatante. E comunque si sa che Mosca vuol bene a quella teocrazia che le permetterebbe di raggiungere l’Oceano indiano senza tanti problemi.

Sopra, manifestanti all’Onu travestiti da Putin e Assad. In apertura, la protesta silenziosa a Londra dei profughi di Camp Ashraf. A sinistra, l’ayatollah Khamenei, Ahmadinejad e l’ayatollah Hashemi. A destra, il ministro degli Esteri Terzi

curezza, ma abbiamo delle riserve sulle sanzioni unilaterali. Ma non è una novità», ha commentato lo stesso Xi dopo un incontro un po’ freddo con il suo omologo Usa, Jo Biden. Insomma, a Pechino non piace vedere Khamenei e Ahmadinejad che scherzano con il fuoco. Ma, se per farli smettere bisogna metter mano al portafoglio, allora non è cosa. La Russia al momento non si espone. Il suo ruggito per la Siria di As-

Resta da chiedersi quanto gioverebbe al Cremlino dover gestire una potenza nucleare – la quarta per l’Asia – instabile e imprevedibile com’è già ora Teheran. Gestire e soprattutto confrontarsi. Da qui la domanda: ci sarà la guerra? Dopo che il Pentagono, per voce del suo responsabile Leon Panetta, l’aveva valutata come un rischio reale, la diplomazia mondiale si è mossa per prevenirla. Da notare la maniera squisitamente vellutata. Come si addice appunto agli ambasciatori. Israele potrebbe colpire tra aprile e luglio. Così diceva Washington un mese fa circa. Bene, il mondo politico si è mobilitato. Non solo per evitare l’escalation. Ma soprattutto in soccorso di un’economia globale che proprio in questo momento non può permettersi un’impennata di costi militari ed energetici. La guerra non ci sarà perché non ci sono soldi? Non si può dirlo. Pensiamo piuttosto che la fluidità del momento imponga a tutti – israeliani compresi – di navigare a vista. Questo non risolve nulla, ma rimanda tutto. A quando non si sa.

c’è una nuova società civile che oggi non è possibile ignorare». Come quella siriana, anche se al momento è preclusa ogni azione di tipo interventista. «Il regime di Bashar al-Assad non può più avere la sua legittimità, ma non ci sono le condizioni per un intervento militare nel Paese. Piuttosto, è fondamentale per la comunità internazionale «lavorare diplomaticamente al fine di inasprire il pacchetto di sanzioni» contro Damasco. «La scorsa settimana insieme al Segretario di Stato americano Hillary Clinton abbiamo sollecitato Mosca su una posizione più costruttiva. La comunità internazionale ha il dovere politico di rispondere a questa crisi umanitaria, oramai inaccettabile», ha aggiunto Terzi. E in tal senso la Turchia resta un partner cruciale.

«L’italia sostiene una missione di pace congiunta Lega ArabaOnu in Siria. Sono stato invitato alla conferenza “Amici della Siria” che si terrà a Tunisi il prossimo 24 febbraio ha aggiunto Terzi - e le relazioni instaurate con il Cns dall’inviato Speciale per il Mediterraneo, Maurizio Massari, ci stanno permettendo di stringere i rapporti con l’opposizione siriana». Giulio Terzi è anche intervenuto sull’ipotesi dello stop alle esportazioni di petrolio verso l’Italia e altri cinque paesi Ue ventilata ieri dal regime di Teheran. Smentendola. «So solo che ho appreso dall’ambasciatore a Teheran Alberto Bradanini, che la notizia è stata smentita» si è limitato a dichiarare Terzi. Il titolare della Farnesina ha comunque «confermato» ai cronisti che gli ambasciatori dei sei paesi Ue - tra cui Bradanini - sono stati«invitati» dal ministero degli Esteri di Teheran proprio per discutere della decisione europea di imporre un nuovo pacchetto di sanzioni alla Repubblica Islamica.

«Le rivolte non hanno solo determinato cambi di regime ma hanno denunciato una crisi sociale e morale»

Per i processi di transizione democratica è certo che il mediterraneo è alla ribalta in modo più prepotente rispetto agli ultimi 10 anni. «Le rivolte - ha aggiunto Terzi non hanno solo determinato cambi di regime ma hanno denunciato una crisi sociale e morale. Hanno fatto emergere che in quei Paesi


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Dopo il veto di Mosca e Pechino al Palazzo di Vetro nulla sarà più come prima. Israele lo ha capito ed è pronta a correre da sola

Sta vincendo Assad? Dai massacri di Homs alla conquista dell’atomica di Teheran. Gli Usa non fermano più nessuno di John R. Bolton oco più di una settimana fa Russia e Cina hanno bloccato la politica dell’Amministrazione Obama in merito alla questione siriana ponendo il loro veto alla risoluzione contro il regime di Assad sostenuta da Lega Araba, Gran Bretagna, Francia e Usa al Consiglio di Sicurezza. Questa dolorosa sconfitta, che ha prodotto delle conseguenze immediate in Siria, può senza dubbio solo peggiorare gli sforzi fin qui fatti per evitare che l’Iran raggiunga il suo obiettivo atomico. Obama, infatti, sembra non avere ancora pienamente compreso nè quali siano le ragioni del “no”sino-russo, nè quale siano le vere minacce poste da Teheran e Damasco. Facciamo un passo indietro. Prima della risoluzione 1973/2011 del Consiglio di Sicurezza con la quale si è autorizzato l’uso della forza contro il regime sanguinario di Muammar Gheddafi, Russia e Cina si sono fastidiosamente e pervicacemente opposte con cavilli procedurali e verbali al fine di rallentare la decisione. D’altronde, anche prima di supportare le sanzioni economiche contro l’Iran e la Corea del Nord, Mosca e Pechino hanno prima rigettato tutta una serie di misure volte a mettere i bastoni fra le ruote ai programmi nucleari dei due stati canaglia.

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Imprevedibilmente, però, sulla Libia hanno abbassato la guardia. Credendo probabilmente che la Nato avrebbe imposto la No fly zone solo sulle città sotto scacco, come Bengasi, piuttosto che cercare di rovesciare Gheddafi (l’unica vera soluzione ”umanitaria”), Russia e Cina si sono astenute (con l’India, il Brasile e la Germania) piuttosto che porre il veto. Considerando che l’a-

stensione di un membro permanente di fatto equivale a votare “sì”, e che c’erano nove voti favorevoli, la risoluzione 1973 è passata. E così, nel momento in cui la missione Nato si è trasformata in una campagna contro il raìs, Russia e Cina non hanno potuto fare altro che mostrare la loro insoddisfazione. Mosca non prendeva una cantonata di questo tenore dal 1950, quando l’allora Urss boicottò il Consiglio di Sicurezza per protestare contro i nazionalisti cinesi che avevano preso la poltrona di Pechino al posto dei comunisti, dando così il via libera all’azione militare Usa volta a rintuzzare l’invasione nordcoreana della Corea del Sud. Evidentemente preoccupati di non ripetere l’errore, Mosca e Pechino erano questa volta pienamente consapevoli delle sfide dei loro Stati/clienti. La Siria è stato il

A destra, milizie del regime trincerate dietro i sacchi per le strade di Homs, la citta ribelle. In basso, il presidente Assad e un supporter della squadra di calcio siriana che si è dipinto i colori della rivolta sulla testa e sulle mani. L’esercito ieri ha violentemente attaccato anche la cittadina di Hama

Accolta con favore dal Cremlino, bocciata come «ridicola» dagli Usa

Come prendere tempo e continuare la strage Il regime indice un referendum costitituzionale per il 26 febbraio. Ma la nuova Carta è una presa in giro di Luisa Arezzo entre il massacro nella città di Homs continua, il regime degli Assad apre al colpo di scena e indice per il 26 febbraio un referendum costituzionale su una bozza elaborata da una commissione ad hoc. Se approvata, la nuova Carta consentirà di programmare le elezioni dopo 90 giorni dal referendum. Bashar al-Assad dunque rilancia, subito dopo aver fatto sapere al mondo, grazie alla voce del’ambasciatore russo a Damasco, di non aver aluna intenzione di lasciare il potere e di essere totalmente e fermamente contrario all’invio di caschi blu dell’Onu sul suolo siriano, ipotesi ventilata un paio di giorni dopo la timida (e probabilmente “di facciata”) apertura di Mosca sul tema. Il testo della nuova Costituzione, o almeno quello che è stato fatto circolare dai canali ufficiali del regime, è tutt’altro che accattivante e distensivo. Forse il mondo preferirà credere che Assad si sia convinto ad aprire alle richieste dei manifestanti, ma bozza alla mano, le cose non sembrano destinate a cambiare di molto. Piuttosto consentiranno al governo di Damasco di prendere ancora un po’ di tempo, e magari di evitare la condanna (simbolica, oltretutto) di domani all’Onu sulla sua gestione sanguinaria del paese. Oltre a ribadire «la piena sovranità del-

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la repubblica araba siriana, repubblica che non accetta ingerenze su parte del suo territorio e del suo popolo», il testo redatto dalla commissione ad hoc (di cui non si conosce la composizione), precisa che «la religione del presidente della Republica è l’Islam e il diritto musulmano è la fonte principale della legge e lo Stato rispetta tutte le religioni che si possono professare liberamente».

Dunque la shari’a resterà la fonte del diritto e le altre religioni saranno perseguitate come sempre, dato che la legge islamica non prevede la tolleranza. Non solo: nel testo si afferma che «il sistema politico è pluralista e si basa sul sistema democratico di elezione dei partiti e dei raggruppamenti che partecipano alla vita politica», salvo poi aggiungere che «non è ammessa alcuna attività politica o la formazione di partiti che abbiano basi religiose o settarie». Un avvertimento chiaro ai Fratelli musulmani (fuori legge già adesso, ma numerosissimi nel paese, esattamente come in Egitto, in Libia e in Tunisia). La parte del leone, però, la fa l’articolo relativo alla nomina del presidente: «il presidente verrà eletto dal popolo per 7 anni a partire dalle prossime elezioni e sarà possibile eleggerlo al massimo per un secondo manda-


il caso siria

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banco di prova di questa tesi, e infatti la risoluzione ha ottenuto il doppio veto. La debacle siriana ha inoltre rivelato quanto sia debole la politica dell’Amministrazione Obama nei riguardi della dittatura degli Assad. Dopo aver cercato di stringere delle forti relazioni con il partito Baath, Obama ha tardivamente compreso che la Siria è uno dei grandi nodi del Medioriente e non certo parte della soluzione del risiko regionale.

Anche quando ha scelto di agire a favore del popolo siriano, Obama ha pensato di farlo attraverso le Nazioni Unite, pensando che il Palazzo di Vetro potesse giocare un ruolo essenziale per riportare un po’ di luce e speranza nel Paese. Ma la dura risoluzione immaginata contro il regime - che imponeva sanzioni economiche pesantissime, un parziale embargo delle armi e una più o meno velata chiamata all’uscita di scena di Bashar al-Assad - venne fermamente rigettata in contumacia dall’assenza russo-cinese. Da quel momento tanto è stato fatto che il testo finale pervenuto il 4 febbraio sul tavolo del Consiglio altro non era che una ridicola e svuotata parodia della risoluzione originaria, e ciò nonostante si è anche rivelata un buco nell’acqua grazie al doppio veto. L’Amministrazione Obama è rimasta scioccata, scioccata dal fatto che cose simili potessero accadere. «Che cosa potremmo adesso cercare di fare per agire con determinazione in seno al Consiglio di Sicurezza?» ha domandato Hillary Clinton intervenendo sulla sconfitta. Mentre l’ambasciatrice Usa all’Onu Susan Rice si diceva «disgustata». Tanto dalle Nazioni Unite quanto dal falso reset button nelle relazioni fra Mosca e Washington. Quello che emergerà dalla fallimentare politica di Obama verso Damasco è ancora incerto». Considerando che Assad non è stato eletto dal popolo ma è succeduto al padre, è prevedibile che la clausola possa tenerlo al potere ancora per 14 anni. L’unica vera novità è quela relativa al partito Baath, visto che la bozza redatta elimina la clausola (in vigore dal 1973) del primato in Siria del partito, mettendo così fine al suo monopolio da quasi 50 anni. Detto questo, poiché tutte le posizioni chiave e l’elite siriana sono di origine Baath, ce ne vorrà di tem-

si», ha sottolineato, con riferimento all’inizio della rivolta contro Assad alla metà del marzo 2011, un portavoce del Consiglio Nazionale Siriano, principale cartello delle forze politiche oppositrici che ha sede a Istanbul. «La verità è che Assad ha soltanto aumentato gli omicidi e le carneficine nel nostro Paese. Ha perso la sua legittimità», ha rincarato il portavoce, Melhem al-Droubi, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, «e noi non siamo interessati alle sue putride Costituzioni, vecchie o nuove che siano». Comunque sia, Nato e Onu fanno intanto grandi passi indietro: il segretario generale della Nato, Andres Fogh Rasmussen, ha fatto sapere ieri che l’Alleanza non parteciperà a un’eventuale missione di pace ed umanitaria. «Non abbiamo alcuna intenzione di intevenire in Siria», ha detto il Segretario, esprimendo «grande apprezzamento» per gli sforzi della Lega Araba che ha chiesto al consiglio di sicurezza Onu di inviare una missione di pace Onu-Lega Araba. Ipotesi che Bashar al-Assad ha già dichiarato come «impossibile». Lo stallo dunque continua, ma è proprio questa impasse a dare forza al regime. Assad lo ha capito, ma l’Occidente?

Ancora sangue sul campo e ancora diplomazia in movimento. Domani l’Assemblea generale dell’Onu dovrebbe votare una risoluzione, voluta dai sauditi e dal Qatar, contro la repressione po prima che queste possano essere scalzate dal potere. Cauti i commenti internazionali fino a questo momento, tranne quello russo del minsitro degli Esteri Lavrov, che parla entusiasticamente di un «deciso passo avanti», augurandosi che venga presto adottata. Decisa invece la risposta degli oppositori del regime, che hanno subito rimandato al mittente la bozza della nuova Costituzione. «Questo progetto è arrivato con un ritardo di undici me-

riesce a fare pressione nè sul regime nè sui governi russo-cinesi, l’Iran continua a lavorare alla sua arma nucleare, riuscendo anche a far cadere tutti nella trappola che il vero pericolo è adesso l’eventuale attacco israeliano ai loro siti. Mosca e Pechino continuano a non essere impressionati dall’arsenale atomico iraniano, mentre le sanzioni unilaterali Usa alla banca centrale di Teheran e le nuove sanzioni europee sul petrolio non hanno alcuna chance di essere sostenute dal Consiglio di Sicurezza. Nulla è al momento più in grado di fermare l’obiettivo dei mullah di fare dell’Iran un paese nucleare. Nell’incredibilmente sottovalutata testimonianza al Senato Usa sul programma nucleare iraniano del 31 gennaio scorso, James Clapper, direttore dell’intelligence nazionale, ha ambiguamente rivelato: « Le sanzioni tardivamente imposte non hanno mutato di una virgola nè il loro comportamento nè la loro politica». Leon Panetta, il segretario alla Difesa, ha più volte rimarcato che Teheran concluderà il suo programma atomico entro la fine dell’anno (anche se gli eventi ci stanno dicendo che ci riusciranno ben prima).

Ancora più incredibilmente, Panetta due settimane fa ha anche dichiarato che Israele sarebbe pronta ad attaccare i siti sensibili iraniani fra aprile e giugno di quest’anno. Perché Panetta ha parlato così apertamente dei potenziali piani d’attacco israeliani? Perché l’Amministrazione crede di non poter riuscire a fare pressioni su Israele per via diplomatica e dunque l’unica carta che le resta a disposizione è quella di giocare sporco e allertare tutti gli altri attori. Resta adesso da capire quale sarà la prossima rivelazione del team di Obama: forse i piani di volo di Tsahal

Quello che emergerà dalla fallimentare politica di Obama verso Damasco è ancora incerto, ma Russia e Cina hanno dimostrato che l’Onu non potrà fare nulla che vada contro i loro interessi to, ma Russia e Cina hanno dimostrato che l’Onu non potrà giocare alcun ruolo che vada contro i loro interessi. Obama ci ha messo troppo tempo per comprendere quanto fosse stretto il legame fra il regime degli Assad e Teheran e il cordone protettivo girato attorno ai due paesi da Mosca e Pechino. Cosa ancora più grave, non ha compreso che qualunque sia l’esito finale di queste Primavere arabe - buono o cattivo, ottimista o pessimista - la crisi siriana è radicalmente diversa dalle altre rivolte: perché può contare sulla maligna presenza dell’Iran. E così, mentre i civili siriani continuano a morire a frotte grazie all’indecisione Onu e la Lega Araba non

per bombardare i siti iraniani? Comunque sia, è chiaro che il veto russo cinese al Consiglio di Sicurezza, congiunto alla debolezza politica della casa Bianca, ha rappresentato un poderoso via libera alla proliferazione nucleare. E grazie alle dichiarazioni di Panetta la maschera del Presidente è caduta: Obama teme di più l’attacco israeliano dell’atomica di Teheran. Questo 2012 è sempre più fosco, sospeso com’è fra un Iran dotato di armi nucleari e la possibilità che qualcuno decida di attaccarlo per scongiurare questa possibilità. D’altronde, in assenza della leadership americana, è evidente che Davide sia costretto a contare solo sulle sue decisioni e sulle sue forze.


cultura

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Come Hitler e Mussolini, anche l’uomo forte di Madrid ebbe un debole per la celluloide. Con risultati altalenanti e pericolosi

L’ultima crociata di Franco Dall’agiografia al documentario-verità, il Caudillo torna (nei film) di Orio Caldiron i è tornato a parlare recentemente dei misfatti della censura franchista pronta a cancellare il sesso, anche il più innocente, nella stampa e nei rotocalchi, mentre nessuno ha ricordato i trascorsi cinematografici del Generalissimo Francisco Franco. Nello scenario del totalitarismo novecentesco, se Germania e Unione Sovietica considerano il cinema lo strumento privilegiato della persuasione occulta, la cassa di risonanza dei rituali illusionistici in cui le dittature si mettono in posa, Spagna e Italia sembrano aver fatto un uso meno clamoroso dell’“arma più forte”. Nel cinema franchista i film di propaganda sono pochissimi, così come avviene nell’ideologicamente vicino regime fascista, che diffida della fiction politica ma può contare sul bombardamento capillare dei cinegiornali Luce. Le cineattività spagno-

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omonimo di Jaime de Andrade, pubblicato nel 1941 e subito portato sullo schermo.

Non ci sarebbe nulla di eccezionale se il nome dell’autore – all’epoca non lo sapeva quasi nessuno, oggi è di pubblico dominio – non fosse lo pseudonimo di Francisco Franco. Il prodotto narrativo assai modesto, a metà tra romanzo e sceneggiatura, non rivela soltanto le mediocri qualità letterarie del dittatore ma fa capire che sin dall’inizio il progetto era stato pensato con una destinazione cinematografica. Nella saga familiare di Raza si ritrovano gli stereotipi dell’onore e le rivalità fratricide di uno dei film preferiti di Franco, Beau geste (1939) di William A. Wellman, dove i tre fratelli Geste, Beau (Gary Cooper), John (Ray Milland) e Digby (Robert Preston) si arruolano nella Legione straniera per evitare di essere accu-

Il titolo più importante del periodo è “Raza” (1942) di José Luis Sáenz de Heredia, tratto da un romanzo di Jaime de Andrade. Che altri non è che il generalissimo, sotto pseudonimo le, i Noticiarios y Documentales Cinematográficos che tutti chiamano No-Do, svolgono una funzione analoga. Ma reprimere dev’essere stato sempre più importante che promuovere, se all’indomani della guerra civile le autorità franchiste si preoccupano soprattutto di insediare le commissioni di censura, destinate a farsi la fama di irriducibile severità.

Nello stesso periodo riprende però anche la produzione di lungometraggi realizzando un gran numero di commedie e di melodrammi. Il titolo più importante del periodo è Raza (1942) di José Luis Sáenz de Heredia, una sorta di manifesto del franchismo che a dispetto dell’enorme risonanza non fa scuola e resta un’eccezione irripetibile, un discusso classico del cinema di propaganda a cui si affida l’immagine retorica della guerra civile vista dalla parte dei vincitori. Il film è tratto dal libro

sati del furto di uno zaffiro di grande valore. Qualcosa dello stile artificioso e solenne del vecchio film hollywoodiano sembra rimasto nel libro del Generalissimo che non avrebbe certo apprezzato Io, Beau Geste e la legione straniera (1977), la dissacrante parodia di Marty Feldman di quasi quarant’anni dopo con l’irresistibile scena del fortino difeso dai cadaveri. All’indomani della morte del dittatore, avvenuta nel 1975 non è mancato chi ha visto nella storia della nobile famiglia Churruca, dalla fine dell’Ottocento agli anni infuocati della guerra civile, una sorta di transfert autobiografico di Francisco Franco, figlio di un oscuro funzionario navale, impegnato in una fantasia di sublimazione autonobilitante. La frustrazione della modesta famiglia di provenienza si capovolgerebbe nella irresistibile volontà di promozione, secondo il modello psicologico per

cui il complesso d’inferiorità, ribadito dalle frequenti umiliazioni e nelle imbarazzanti timidezze, si ribalterebbe nell’ipertrofia dell’io, deciso a imporsi in una forma esasperata e abnorme sul mondo circostante.

Se l’essere nato nel 1892 a El Ferrai, un piccolo porto decentrato della Galizia, nel periodo che precede la dissoluzione dell’impero coloniale spagnolo, non può che predisporre il giovane Franco a sognare come tanti coetanei l’avventura marinara quale trampolino di lancio per la sua realizzazione personale, il carattere del padre donnaiolo e ubriacone accentua la drammatica crisi familiare e apre più di uno spiraglio sulla personalità del futuro generale fedele alla rigida disciplina del dovere militare. Ma gli spettatori dell’epoca ignorano il ruolo di Franco nella realizzazione del film, in cui vedono la rievocazione della guerra civile spagnola, momento di fondazione del regime franchista, secondo una prospettiva di legittimazione che ne fa il compimento millenario del destino della razza spagnola. Nel corso della guerra, il tema era stato al centro della propaganda nazio-

nalista, ma la trovata del film consiste nell’inserire gli avvenimenti recenti nello scenario più ampio della storia patria. Scomparso l’ammiraglio Churruca nella guerra con gli Stati Uniti che segna il collasso dell’impero coloniale spagnolo, il modello familiare è al centro del film con le figure contrapposte di José, il figlio buono, e di Pedro, il figlio cattivo. Il primo è il protagonista, l’eroe positivo che riprende la tradizione dell’almogavar, il soldato coraggioso a cui il simbolo della croce che si delinea sul muro assicura l’investitura politicoreligiosa dell’eletto pronto a morire per la patria, nel momento in cui esercito e altare sono più che mai solidali. Pedro, il figlio-cattivo, è l’antagonista che rinnega la tradizione, destinato a trovare posto tra i politicanti del Fronte Popolare mossi soltanto dall’ambizione personale. Quando nel 1936 scoppia la guerra civile, José è un ufficiale dell’esercito franchista, mentre Pedro continua a rappresentare l’avversario che si schiera in campo repubblicano. Ma la contrapposizione assoluta s’incrina, quando accusato di tradimento dai suoi vecchi compagni – una sorta di corte dei miracoli di brutti e cattivi –

Pedro pronuncia in primo piano un lungo discorso in cui ammette il suo errore. Solo allora può convertirsi e redimersi, morendo fuori campo dopo avere preannunciato la vittoria franchista, evocata in un rapido montaggio di documenti d’epoca.

La rappresentazione del fratello-nemico, lo spagnolo che ha combattuto dall’altra parte, quella dei comunisti venuti da lontano per farli precipitare nella barbarie, è fondamentale nella strategia di riconciliazione nazionale che il regime riserva agli oppositori pronti a redimersi con la conversione. Il paradigma religioso è anche qui esplicito nel sottolineare il meccanismo attraverso cui il regime, che si distinguerà per la feroce repressione fisica degli avversari, mostra sullo schermo di tendere la mano ai vinti nel momento in cui, ammettendo esplicitamente il proprio errore, sembrano pronti a superare le distinzioni risolvendosi nell’unità nazionale. Il sinistro paradosso è che, nell’intreccio politico-religioso alla base del franchismo, la redenzione più efficace passa per l’abiura e la morte. La sfilata


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nel contesto internazionale. Certo, tutto comincia con il 1892, l’anno della nascita del dittatore, ma in realtà la fine dell’impero coloniale è il vero scenario di partenza della rievocazione agiografica, impegnata non a svelare ”l’enigma Franco”, ma piuttosto a delineare la formazione del mito.

della vittoria del 19 maggio 1939 conclude il film saldando insieme la realtà storica e l’affabulazione romanzesca. Mentre le truppe vincitrici sfilano trionfanti per le strade di Madrid, riappaiono per un momento i protagonisti della saga familiare per dire alle nuove generazioni: «È lo spirito di una razza».

chiede di sfumare il rozzo impianto ideologico nella versione più corta intitolata Espíritu de una raza. Non sorprende che più tardi ci si rivolga ancora a lui per realizzare il documentario su Franco per la manifestazione dedicata ai venticinque anni di pace. Il cortometraggio cresce per strada perché nel visionare il sovrabbon-

La prima di Raza avviene il 5

Il flm documenta l’assoluta mancanza di carisma del protagonista nella lunga cavalcata attraverso la storia del passato recente. Un uomo che a sessantasei anni sembra vecchio e solo

gennaio 1942 al Palacio de la Mùsica, la sala più importante di Madrid, con enorme successo. Salutato come il monumento cinematografico della nuova Spagna, è riproposto in numerose occasioni pubbliche prima di essere distribuito all’estero. Si era pensato sin dall’inizio a José Luis Sàenz de Heredia, il regista dall’ineccepibile professionalità che offriva la garanzia politica di essere cugino di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange, e la garanzia cinematografica di avere lavorato con il repubblicano ma prestigioso Luis Buñuel ai tempi della Filmofono. Nel ventennio successivo prosegue brillantemente la sua carriera di autore superpremiato dall’ufficialità a cui nel ’50 si

dante materiale d’archivio, il regista comincia a pensare a un lungometraggio in cui il capo di Stato spagnolo non sia rappresentato nell’immagine consueta di militare e di stratega, ma sia visto soprattutto come uomo. Se il dittatore è onnipresente nella vita degli spagnoli, la sua immagine privata è sempre rimasta in ombra. Franco, ese hombre (1964), presentato il 12 novembre 1964 al Palacio de la Mùsica come il precedente, è un altro film-scommessa in cui il nome del regista si associa a quello del Caudillo, non

più come ispiratore segreto di un’affabulazione allegorica, ma come protagonista di una ricostruzione biografica, incaricata di svolgere un ruolo importante nella autorappresentazione del regime e della sua massima autorità. Nella tradizione del film di montaggio, brani di cineattualità, filmati televisivi, fotografie, pagine di

giornali, si alternano a interviste e sequenze girate per l’occasione, mentre la voce off scandisce l’arco narrativo. Se la visione di Madrid – colta in cinemascope e in technicolor nei suoi aspetti di grande città moderna – apre il film, l’apparizione del capo dello Stato intervistato dallo stesso regista lo conclude. La guerra civile è accennata solo di sfuggita per intrattenersi invece sui momenti fondamentali della biografia del Caudillo, intrecciandoli e alternandoli allo scenario più vasto della storia della Spagna

Non si entra nel merito degli avvenimenti cruciali della guerra civile, quasi a unificare a posteriori i milioni di spagnoli che sono morti da una parte e dall’altra. Se la reticente rappresentazione della guerra, privata di ogni contenuto politico, annulla le differenze e cancella le atrocità del conflitto e le repressioni del dopo-conflitto, le sequenze dedicate alla seconda guerra mondiale affrontano il problema centrale della neutralità spagnola, della costante oscillazione tra la gratitudine nei confronti della Germania e dell’Italia, le potenze dell’Asse che con il loro intervento hanno contribuito all’affermazione del franchismo, e le avance nei confronti degli alleati, tese a assicurarsi un posto nel nuovo assetto europeo. Nessun accenno all’apparato militare e poliziesco su cui si fonda lo stato spagnolo, che proprio negli anni Sessanta delega l’economia alla lobby dei tecnocrati che assecondano la crescente industrializzazione, forse l’aspetto più moderno di una società arcaica e confessionale impegnata a contrastare le rivendicazioni autonomistiche della Catalogna e dei Paesi Baschi. L’intervista conclusiva con Franco sottolinea a più riprese le motivazioni della crociata, che avrebbe contribuito a salvare la Spagna dallo spettro del comunismo, facendola diventare un Paese moderno accanto agli altri Stati europei e consegnando alle nuove generazioni la rinnovata consapevolezza del popolo spagnolo, finalmente considerato nel mondo all’altezza delle sue qualità. Ma l’appuntamento fondamentale rischia paradossalmente di mancare il bersaglio. Nell’economia del film dovrebbe rappresentare il momento di più esplicita rivelazione dell’umanità promessa dal titolo. In realtà, non solo il messaggio resta generico, ma documenta l’assoluta mancanza di carisma del protagonista della lunga cavalcata attraverso la storia del passato recente, un uomo che a sessantasei anni sembra più vecchio della sua età, solo e impacciato nel grande spazio vuoto della sala di proiezione di El Pardo. Il cinema, spietata macchina della verità, sembra farci dubitare, al di là delle parole altisonanti del commento, che il futuro della Spagna possa poggiare sulle deboli spalle di un uomo di cui, dopo quasi cento minuti di immagini e di documenti, non sappiamo quasi nulla.

e di cronach

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ULTIMAPAGINA Caso Mills, il pm chiede cinque anni per reato di corruzione. Con il tour de force del tribunale si potrebbe arrivare a sentenza

E se Berlusconi venisse di Osvaldo Baldacci segue dalla prima Non una cosa da poco. Ma soprattutto il pm si è adoperato affinché questo processo possa arrivare a una conclusione. Per il pm il reato di corruzione in atti giudiziari si prescrive in un periodo compreso tra il 3 maggio e metà luglio di quest’anno, un conteggio fatto sulla base della data di commissione del reato e di tutte le sospensioni subite dal procedimento per la legge sul legittimo impedimento e per gli impedimenti istituzionali dell’ex premier. Quindi con il tour de force del tribunale si potrebbe arrivare a sentenza.Tour de force duramente contestato dalla difesa di Berlusconi, che denuncia un atteggiamento pregiudiziale della corte e pregiudizievole nei confronti dei diritti della difesa. Fatto sta che siamo alle battute finali di una situazione importante, eppure tutto e cambiato. A guardare oggi la situazione giudiziaria di Berlusconi, coi processi Mills, Ruby e simili, appare remota. Certo, c’è stata la fiera levata di scudi di qualche pidiellino contro il “processo politico”, ma è sembrato un atto dovuto dei soliti noti. Lo stesso Berlusconi sembra più interessato a portare alla fine la prescrizione piuttosto che a dare battaglia sulle singole vicende e sui passaggi più o meno accesi e polemici. Sulle homepage dei siti di informazione, anche quelli che più hanno cavalcato la via giudiziaria, il tutto è relegato in spazi minori, secondari. Sembra preistoria il tempo in cui l’intero Paese era paralizzato dallo scontro tra le procure e il capo del governo.

Il Parlamento non riusciva ad occuparsi d’altro, costretto a disquisire costantemente sulla nipote di Mubarak e sulle leggi ad personam vere o presunte. I mezzi di informazione erano occupati militarmente dall’una o dall’altra fazione. Gli eserciti erano costantemente in campo, l’un contro l’altro armato, monopolizzando l’interesse (presunto) dell’opinione pubblica. L’Italia bipolare era divisa dogmaticamente tra i berlusconiani e gli antiberlusconiani di professione, non c’era spazio per un’idea autonoma, si doveva stare pro o contro. Berlusconi era il figlio di Dio oppure l’anticristo. Tertium non datur. Non era lecito pensare che fosse un uomo, un politico, che aveva un grande consenso e molti competitor, che faceva e diceva coste giuste

CONDANNATO? Cosa aspettarsi dal futuro del Pdl è già ora un’incognita, figuriamoci se il Cavaliere dovesse subire duri colpi. Ma questo sentiero è inevitabile e anche cose sbagliate. Non era lecito pensare che i magistrati dovessero fare il loro dovere ma senza un accanimento che qualche volta è stato sospetto. Guai a dire che qualche procura esagerava, oppure che forse in fondo qualcosa sulla coscienza il cavaliere forse ce l’aveva pure. Ma che comunque non era compito della politica occuparsi dei procedimenti giudiziari, ma piuttosto era suo dovere occuparsi della politica che invece veniva trascurata a vantaggio del reality Berlusconi.

Non era lecito avere questa posizione autonoma, critica, ma per fortuna qualcuno ce l’ha avuto lo stesso, l’ha tenuta anche quando tutto sembrava perso, e ora questi sono gli stessi che ritengono inutile e di cattivo gusto accanirsi a posteriori, e perpetuare quella furia bipolare superata dalla storia. Perché qualche volta il tempo è galantuomo, e i tempi cambiano. E si vede: nel nuovo clima di serietà e sobrietà, di

rigore e di competenza che è seguito al fallimento di quella politica troppo basata sulle aule di tribunale, anche le questioni giudiziarie passano in secondo piano. Si sta anzi dimostrando che ci si può occupare di temi della giustizia con grande efficacia ed efficienza, nell’interesse dei cittadini, sgombrando il campo da ogni strumentalizzazione dell’una parte o dell’altra. Le parole di bocca ce le ha tolte proprio ieri il presidente Napolitano: «Credo ci fosse bisogno di un rasserenamento dopo l’estrema politicizzazione del settore della giustizia: abbiamo navigato tra pregiudiziali, resistenze e chiusure, e siamo quasi finiti in vicolo cieco». Bene, il rasserenamento c’è stato, il vicolo cieco è stato lasciato alle spalle. Ora la giustizia faccia il suo corso e si guardi avanti. Certo, un’eventuale condanna del principale leader politico degli ultimi anni avrebbe delle conseguenze politiche. Ma che eventualmente si potranno verificare empiricamente in un contesto nuovo e più normale. Cosa aspettarsi del futuro del Pdl è già ora un’incognita, figuriamoci se Berlusconi dovesse subire duri colpi. Ma è altrettanto vero che questo sentiero è inevitabile: il Pdl già adesso deve guardare al proprio futuro con occhi nuovi, emanciparsi dalla pesante eredità della storia più recente, e ripensarsi. Condanne o meno, questo processo è ineludibile.


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