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La famiglia è l’associazione istituita dalla natura per provvedere alle quotidiane necessità dell’uomo.

he di cronac

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Aristotele di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 21 FEBBRAIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Ieri a Roma, con il ministro Riccardi Buttiglione e Santolini hanno discusso di nuovo Welfare

Moderati, prove di unità Casini: «La responsabilità nazionale non può durare solo un anno» Il leader centrista, a un convegno sulla famiglia insiste: «Ci vuole un nuovo soggetto politico». E il democrat Fioroni gli risponde: «Il partito “montista” nascerà. Anche senza il premier» LA VERA SFIDA

Una lettera all’Eurogruppo che vara il prestito alla Grecia

Da qui può nascere un progetto per l’Italia

Monti guida dodici Paesi «Ora la crescita»

di Osvaldo Baldacci

Anche Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Spagna, Polonia e altri chiedono che la prossima riunione si occupi di sviluppo

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Vertice sulle tessere (e sulle strategie)

Se il Pdl riscopre il centro

Enrico Singer • pagina 6

Il Colle replica agli attacchi e chiede un nuovo Walfare

E Napolitano: «Non sono il presidente delle banche»

Ormai lo dicono tutti: «Dopo questo governo, nulla può più essere uguale a prima». Nel centrodestra si comincia a parlare di Grande coalizione Riccardo Paradisi • pagina 3

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Non è solo una questione politica

di Marco Palombi

ROMA. Altro giro, altra corsa, altri interrogativi. Mentre il presidente Napolitano chiede un nuovo Welfare e rispedisce al mittente le critiche di lo chiama «Presidente delle banche», continuano le riunionei tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. a pagina 7

osa può fare la politica per le famiglie italiane? Ha ancora un senso parlare di famiglia? Perché in un momento di crisi, tagli e sacrifici bisognerebbe avere un occhio di riguardo per la famiglia? È solo un discorso ideologico cattolico? Se ne è parlato ieri a Roma al Convegno «Famiglia e Politica: un binomio possibile?», organizzato da Luisa Santolini, aperto dal ministro Andrea Riccardi e al quale sono intervenuti tra gli altri Rocco Buttiglione, Pierferdinando Casini, Francesco Belletti e Stefano Zamagni. E la risposta alla domanda sembra ovvia in certi ambienti, ma in realtà è ormai da rispiegare in gran parte della società e degli ambienti politici anestetizzati rispetto a questo tema. segue a pagina 2

Un’emergenza culturale Natalità bassissima, nessuna strategia specifica per sostenere le coppie che si sposano o le madri con figli: adesso dobbiamo cambiare abitudini Luisa Santolini • pagina 4

Grave incidente per i militari italiani in Afghanistan

I militari fermati dagli indiani rischiano la morte

Il dramma del Lince Rivolta anti-italiana Si ribalta un blindato. Ancora tre morti Cortei e proteste a Dehli contro i marò di Pierre Chiartano

di Antonio Picasso

n Afghanistan si può morire anche per un incidente stradale. È successo a dei soldati italiani.Tre militari sono morti ieri mattina per annegamento a causa di un incidente avvenuto nell’area di Shindad, nella regione ovest dell’Afghanistan. Si tratta di tre uomini appartenenti al 66esimo Reggimento aeromobile «Trieste», di stanza a Forlì. a pagina 12

eri ha fatto il giro le mondo la foto dei due fucilieri del Battaglione San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che sono stati trasferiti dalla Guesthouse della polizia di Cochin, a Kollam. Lì saranno tenuti in stato di fermo, controllati dalle autorità locali, ma anche con la supervisione di un pool inviato dall’ambasciata italiana a Delhi. a pagina 10

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Una vera sfida per il governo e i partiti

Da qui può nascere un progetto per l’Italia

prima pagina

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di Osvaldo Baldacci segue dalla prima La risposta dice che la famiglia è laicamente il fulcro della società, è l’elemento costitutivo del nostro mondo, quello che crea rete sociale, capitale sociale, relazioni, la famiglia rappresenta il futuro per mezzo dei figli. E tutto questo non solo in termini morali, astratti, fideistici. No. Stiamo parlando di concreti vantaggi persino economici per tutta la società italiana. È sulla famiglia che si regge l’economia italiana. La famiglia è l’unico ammortizzatore sociale realmente funzionante. Ed è il miglior centro assistenziale e anche sanitario, costretta a farsi carico di tanti, troppi enormi problemi, sostenendo costi per il sistema sanitario che poi non rende quello che prende.

Di questi giorni poi sono indagini che mostrano come in Italia il lavoro si trovi soprattutto attraverso conoscenze familiari, altro che agenzie di collocamento. Ma la realtà è ancora un po’più profonda. I figli sono l’unica garanzia del funzionamento del futuro sistema previdenziale: la crisi del sistema delle pensioni è legata anche alla crisi demografica. E l’educazione dei figli è il punto centrale della costruzione dei cittadini di domani, anche questo non solo con importanti risvolti civici, ma anche con risvolti economici: infatti quanti costi deve sostenere la comunità in conseguenza di cattivi cittadini, di problemi di ogni genere che potrebbero essere limitati se la lotta al disaggio e al disadattamento potesse davvero cominciare in famiglia. Quale differenza di livello culturale e quindi anche lavorativo c’è tra un paese che si prende cura dei propri figli, li fa studiare (davvero, non di facciata), li motiva, e un Paese dove questo non avviene, anche perché le famiglie non hanno la possibilità (a sua volta culturale, economica, sociale) di far progredire i propri figli. Le statistiche dicono che sta crescendo una generazione di giovani disoccupati, e tra questi troppi sono quelli che né lavorano né studiano e si formano. Quanto in questo c’entra anche l’abbandono in cui la famiglia è relegata? Ecco gli infiniti motivi laici per cui bisogna ripartire dalla famiglia, e per i quali la politica ha il dovere di agire concretamente in favore della famiglia. Non si tratta di piccoli provvedimenti di facciata (meglio cominciare da qualcosa che da niente), si tratta di portare avanti una rivoluzione che metta la famiglia al centro delle politiche sociali del governo. Prima di tutto delle politiche fiscali, col quoziente familiare per i figli, ma andando ben oltre considerando in toto il nucleo familiare come referente dello Stato e su questo impostando tutto. Ci sarebbero anche grandi risparmi, basti pensare a una sanità più efficiente e più calda e sicuramente meno cara se le famiglie fossero aiutate direttamente ad affrontare tante questioni (le malattie, gli anziani, anche i bambini) invece che farli prendere in caro a un servizio sanitario cui costano molto di più e dove trovano inevitabilmente meno efficienza e infinitamente meno calore. Lo stesso si può dire per l’istruzione: checché se ne dica, le scuole paritarie fanno risparmiare allo Stato un sacco di soldi. Ecco, questi temi (è uno degli argomenti del convegno di ieri cui erano presenti esponenti importanti del PD e del PDL) sono un altro importante aspetto politico che può unire i moderati italiani al di là delle scorie delle faziosità che ormai ci stiamo lasciando alle spalle.

A Roma un convegno sulle strategie politiche verso un nuovo Welfare

La famiglia dei moderati

Casini rilancia la responsabilità nazionale: «Non può durare solo un anno. A destra e a sinistra ci sono troppi scricchiolii: per la politica è il momento di cambiare» di Franco Insardà

ROMA. Una famiglia, quella dei moderati, cerca di ritrovare attorno a un progetto unitario per il bene del Paese. Lo ha detto ieri, in più di un’occasione, Pier Ferdinando Casini e lo ha ribadito nella tavola rotonda che ha fatto seguito al convegno ”Famiglia e politica: un binomio possibile? Le provocazioni della “Familiaris Consortio” , presieduto da Rocco Buttiglione, al quale hanno partecipato il ministro con delega alla famiglia Andrea Riccardi, il professor Stefano Zamagni, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni e il presidente del Forum delle Associazioni Familiari Francesco Belletti. Con Casini si sono confrontati Giuseppe Fioroni e Maurizio Lupi, moderati da Luisa Santolini. Il leader dell’Udc su Twitter ha scritto: «Dopo Monti, addio alle vecchie alleanze, incapaci di governare il Paese. La politica deve reinventarsi». Intervenendo alla “Telefonata” con Maurizio Belpietro su Canale 5 ha dichiarato: «La stagione degli uomini della provvidenza è finita. Il presidente del Consiglio è senatore a vita e non ha bisogno di presentarsi, chi gli vuole bene è inutile che lo evochi come possibile candidato alle elezioni e poiché io lo sostengo con forza, non lo indebolisco con i gossip».

Con il leader dell’Udc si è detto d’accordo Fioroni: «Il partito di Monti si farà, con o senza Monti. L’esperienza del governo Monti porterà a nuovi equilibri politici e magari anche alla nascita di nuove formazioni. Dire di essere pro o contro Monti significa non aver capito che la Seconda Repubblica è finita. Significa ragionare ancora pro o contro Berlusconi».

Il problema per Casini è «che cosa si vuole fare: ci vogliono politici capaci di capire il momento, persone che vengono dalla società civile, magari qualcuno che attualmente è impegnato nel governo, ma non si può costruire un partito attorno a una persona, perché l’epoca dei partiti-persona, come si è ampiamente dimostrato, è finita nel fallimento. Penso che in più ci sia una grande antipolitica nel Paese, motivata dagli errori della politica e non da complotti. Credo che i partiti debbano profondamente capire che le vecchie formule del passato non sono in grado di convincere gli italiani. I partiti sono un mezzo e non un fine che deve essere il bene del Paese. Se si pensa che il partito sia il fine, allora si ha un senso alterato della politica. Se i partiti sopravvivono mi interessa poco, ma che facciano buona politica per l’interesse del Paese. Vorrei che gli italiani impegnati in politica si dessero da fare per evitare che l’Italia faccia la fine della Grecia».

Gli stessi argomenti sono stati affrontati nel pomeriggio da Casini, in un incontro alla Camera durato oltre due ore, con Gianfranco Fini e Francesco Rutelli. I tre, oltre ad aver parlato di amministrative e riforme, si sono detti convinti del fatto che in questo momento si debba lavorare per una nuova strategia politica caratterizzata dal governo Monti, che riguardi da un lato il Pdl, dall’altro il Pd, ma che deve portare il Terzo Polo a un’innovazione profonda. Le dichiarazioni di Casini della mattinata, però, Parole sono state interpretate in vario modo, tanto da giungere ad accusarlo di destabilizzare il quadro politico. Ma il leader dell’Udc ha chia-


Pdl, comincia la corsa verso il centro «Dopo Monti nulla sarà più come prima»: nel centrodestra si parla di grande coalizione di Riccardo Paradisi uesto governo sarà anche «una parentesi di brevissima durata» come assicura Mario Monti alla platea che lo ascolta a piazza Affari a Milano, garantendo che entro la primavera del prossimo anno ci sarà il ritorno pieno di governi animati in prima persona dalle forze politiche. Ma è certo che ”l’intercapedine” del suo governo un risultato l’ha già prodotto. Ha avviato cioè la mutazione della geometria politica italiana, ricombinando le alleanze e le prospettive dei principali partiti.

amministrative - nel corpo del Pdl s’agita un’inquietudine profonda. Da un lato generata dalla sensazione che al Cavaliere il destino della sua creatura non interessi poi più di tanto, dall’altra dal fatto che dopo Monti il quadro politico italiano non sarà più come prima. Il ledaer dell’Udc Casini ha messo il dito nella piaga: «I partiti non potranno più confidare sulle vecchie alleanze del passato, incapaci di governare il Paese. Mi sembra difficile - ribadisce il leader dell’Udc - che il Pdl si ripresenti con la Lega, così come

Insomma: dopo Monti la foto di Vasto - dell’alleanza a sinistra tra Pd, Idv e Sel - è un reperto ingiallito; l’alleanza tra Pdl e Lega archiviata – «Morta e sepolta» ha detto Calderoli; nel Pd s’é aperta una guerra di faglia sui temi del lavoro difficilmente componibile e nel Pdl emergono con forza le diverse prospettive strategiche sul futuro del partito. Una disputa quest’ultima che vede Berlusconi in una posizione sopraelevata, compreso nella parte del padre nobile che guarda la linea d’orizzonte prefigurando addirittura scenari di grande coalizione dopo il governo Monti da lui sostenuto. Considerato - parole sue - che «In questi sedici anni di scontro frontale tra centrodestra e centrosinistra poco o nulla si è combinato sul piano delle riforme necessarie al paese. Ma se Berlusconi si limita ad ascoltare malumori e garantire l’ordine dentro un partito in fibrillazione - attraversato da conflggenti ambizioni di leadership, problemi congressuali e preoccupazioni per sondaggi neri sulle

«I partiti - dice Casini - non potranno più confidare sulle vecchie alleanze, incapaci di governare il Paese»

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mi sembra difficile che il Pd possa inseguire la foto di Vasto». Nel Pdl dunque, come nel Pd e nell’Udc, si ragiona su un diverso futuro quadro politico del paese. Avendo in mente un’ipotesi di scenario che tutti sanno essere la più probabile. Cosa succederebbe infatti se Monti, o uno dei suoi attuali ministri (magari con l’attuale premier al Quirinale), dovesse essere candidato alla guida d’un governo politico moderato anche dopo il 2013? Quali forze potrebbero sottrarsi al suo sostegno? Insomma quella che si fa strada è un’alleanza trasversale di forze moderate di centrodestra e centrosinistra che dopo la liquidazione delle vecchie alleanze strette per ottenere il premio di maggio-

rito: «Io lavoro per stabilizzare il quadro che si è determinato con il governo Monti e per stabilizzarlo bisogna prendere atto che la politica è indispensabile per il Paese e poiché lo è bisogna cambiarla profondamente. Se altri ritengono che vada tutto bene così, auguri. Io credo invece che ci sono troppi elementi di scricchiolio a destra e a sinistra per far finta di non vedere. A partire dalle polemiche di queste ore che non ho prodotto io con la mia malefica arte ma sono prodotte dalle cose e le cose hanno più valore e incidenza delle alchimie. Il governo Monti non è nato come un incidente della storia: è lì da quattro mesi e non credo che riuscirà a fare tutto il lavoro che si richiede per l’Italia in un anno. Se altri pensano che tra un anno le cose saranno già migliorate, vuol dire che sono più ottimisti di me. Spero di sbagliarmi». Casini è anche intervenuto sull’articolo 18: «Ci sono lavoratori troppo garantiti, giovani condannati al precariato permanente e 50enni che rischiano di non riuscire più a collocarsi. La riforma dell’articolo 18, allora, non deve essere un tabu, ma un tema sul quale confrontarsi da laici e non da integralisti».

ranza darebbero vita a una grande coalizione in grado di lavorare per le riforme e per archiviare la guerra civile ideologica che ha paralizzato il paese. Nel vertice di ieri a Villa Germetto Presenti i plenipotenziari del partito, tra cui il segretario Alfano, i coordinatori Bondi,Verdini, La Russa, i capigruppo Cicchitto e Gasparri più i loro vice, Corsaro e Quagliarello s’è parlato di questo scenario ipotetico oltre che della questione del ricorso alle liste civiche, dei candidati Pdl alle amministrative, della guerra delle tessere e di un possibile restyling dello stesso marchio del partito. La boa delle amministrative servirà del resto a capire meglio quale delle ipotesi in campo ha più possibilità di incarnarsi. Il Pdl, stando a recenti sondaggi, è sceso al 20 per cento il che spiega la tentazione a un massiccio ricorso alle liste civiche che potrebbero favorire convergenze con il Terzo Polo. Exit strategy grazie alla quale il partito non risentirebbe più di tanto di un’eventuale sconfitta elettorale.

Ma anche in questo caso non c’è piena sintonia sulla strategia da adottare. Il Pdl sembra infatti diviso tra pragmatici e portabandiera del simbolo. Alle amministrative secondo il capogruppo alla Camera Cicchitto è meglio seguire infatti un ragionevole pragmatismo, «l’adeguamento alle situazioni locali, è indispensabile». Per l’ex ministro Rotondi invece c’è un pericolo in questa tentazione mimetica: «Se i partiti lavorano alle amministrative come un giudizio divino per archiviare il Pdl, a Monti dico: attento alle idi di marzo». La Russa tenta di

intenzioni del governo Monti la famiglia potrebbe ritornare al centro delle politiche sociali, a partire da quelle fiscali con il quoziente familiare, a quelle sanitarie e dell’istruzione. In queste ore si registra attorno al tema della famiglia una condivisione da parte delle forze moderate che, già nelle scorse settimane, si sono ritrovate d’accordo su una serie di riforme istituzionali da realizzare nei prossimi mesi. L’intenzione del governo è stata espressa dal ministro Andrea Riccardi: «Quello del fattore familiare è un discorso importante e siamo pronti a fare politiche rapide

sdrammatizzare: «Le liste civiche le abbiamo sempre fatte, basta pensare a Moratti e Formigoni. Chi crede che scomparirà il simbolo Pdl, si sbaglia».

Tuttavia, oltre al cambiamento d’immagine richiesto da Berlusconi, La Russa crede che serva anche un impegno diverso sul territorio. «Si deve rafforzare quello che abbiamo, valorizzando quando c’è di buono all’interno dei congressi». È un modo, ancora timido, per dire che gli ex di An non hanno nessuna intenzione di smobilitare e che un rassemblamento tra Pdl e cattolici deve avvenire, se del caso, nel centrodestra: «Io non guardo con terrore ai movimenti di Casini, ma spero che si possa ricostituire l’alleanza». Diversa invece la prospettiva indicata dall’ex ministro degli esteri Franco Frattini: «Io sostengo la prospettiva della Costituente popolare. Questo è l’orizzonte strategico del partito. La sfida a Casini è sul suo stesso terreno: conquistare i moderati italiani. Ed è una sfida fondata su un dialogo competitivo, dato che condividiamo gli stessi ideali e in Europa siamo alleati nel Ppe». Sia come sia la corsa al centro è cominciata. zioni portatore di ulteriori aggravi per le famiglie italiane. Ma è il momento di fare di più, come da noi più volte richiesto. nella direzione di sviluppare un fisco amico delle famiglie, soprattutto quelle più numerose, un fisco giusto, un fisco che tenga conto del quoziente familiare. Sarà un vantaggio per tutto il Paese».

Riccardi ha anche voluto chiarire che il convegno di ieri non andava letto come «una“Todi 2”. Non credo che questo sia il convegno di fondazione del partito cattolico». Il ministro ha sottolineato come la riunione di Todi è stato «un momento importante in cui i cattolici hanno preso la loro responsabilità nei confronti della crisi italiana, ma non per questo ogni volta che i cattolici si riuniscono insieme per discutere di famiglia e società bisogna sempre pensare che nasca un partito dei cattolici». Sulla possibile alleanza dei moderati Riccardi ha spiegato: «Il quadro politico adesso è molto chiaro e i partiti politici dovranno pensare al dopo elezioni». Sugli stessi argomenti è stato sollecitato anche Buttiglione che ha chiarito: «Chi dice che Monti vuole rifondare la Democrazia Cristiana dice una sciocchezza. Monti pensa che bisogna salvare l’Italia dal baratro». Secondo Buttiglione «quella di Monti è la nostra politica, è la politica della concretezza: chi vuole entrare sul nostro percorso è benvenuto per rinnovare la vecchia politica. Ma nessuno vuole un blocco cattolico. I cattolici non devono stare da soli e contro gli altri, ma insieme con tutti e per salvare il Paese».

Beppe Fioroni accoglie la proposta del leader Udc: «Il partito dei montisti si farà. Anche senza il premier. Bisogna dire a viso aperto su quale progetto paese ci si impegna e non fare battaglie personalistiche sulla pelle della gente»

E così la “Familiaris consortio”, l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II sui compiti della famiglia nel mondo di oggi, può diventare una “provocazione”e spunto di discussione di un convegno su politica e famiglia. Negli ultimi decenni la politica ha trascurato i valori rappresentati dalla famiglia, sottovalutandone il contributo sia sul piano sociale che economico. Nelle

di sostegno alla famiglia e a chi decide di avere figli». Il ministro ha poi aggiunto: «La coesione sociale non vuol dire immobilismo. Bisogna rimodellare il welfare e la famiglia che è una delle grandi risorse del welfare». Rocco Buttiglione ha espresso la sua soddisfazione per le intenzione del governo di «utilizzare i proventi della lotta all’evasione fiscale per abbassare la pressione fiscale, come chiedono tutte le forze politiche e come richiesto da noi in Parlamento. È un fatto di giustizia distribuire più equamente la pressione fiscale tra gli italiani. In questo senso è anche assai apprezzabile lo sforzo del governo di prevenire l’entrata in vigore del taglio delle detra-


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l’approfondimento

L’Italia è vicina al limite di 1,3 figli per donna, al di sotto del quale - secondo i demografi - è a rischio una comunità nazionale

Rivoluzione familiare

Natalità bassissima, nessuna politica specifica per sostenere le coppie che si sposano o le madri con i figli. La disattenzione alla famiglia non è più solo un problema di governo: ora è una vera e propria emergenza culturale di Luisa Santolini l 30 Gennaio scorso è stato presentato il Libro bianco 2011 sulla salute dei bambini curato dall’ OsservaSalute dell’Università Cattolica e dalla Società Italiana di Pediatria, una pubblicazione che è passata sotto silenzio eppure avrebbe meritato maggiore attenzione, perché ha reso noti dati che ribadiscono quanto studiosi e tecnici dicono da sempre inascoltati. Il numero delle nascite è precipitato a livelli impensabili: in un secolo e mezzo la natalità si è ridotta dei tre quarti. La storia d’Italia Unita è caratterizzata da una drammatico fenomeno di crisi demografica, una lenta implosione che quasi tutti ignorano, una crisi silenziosa ma sotto gli occhi di tutti, censurata, dimenticata, con le dovute eccezioni che confermano la regola.Tra il 1871 e il 2009, la natalità si è crollata fino a registrare un calo del 74,25% con il rovesciamento della piramide anagrafica che riversa ora sui nonni l’onere di mantenere i nipoti senza lavoro. I nuovi nati sono appena 9,5 ogni mille abitanti rispetto ai 12,8 della Francia e del Regno Unito, i 12 della Svezia e della Germania.

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Più precisamente a partire dagli anni 70 la fecondità italiana è scesa a li-

velli inimmaginabili. Negli anni ’95, e il dato è essenzialmente stabile, il valore medio è di 1,18 figli per donna, cioè 118 figli per ogni 200 genitori. È il valore più basso mai registrato nella storia della umanità per una popolazione di grandi dimensioni; un declino annunciato perché 118 figli ogni 200 genitori comportano un declino della popolazione di circa il 40% a ogni intervallo generazionale, cioè circa ogni 30 anni. Calano i giovani, aumentano i vecchi anche per l’allungamento della vita media e così l’Italia oggi si trova con la più bassa proporzione al mondo di popolazione con meno di 15 anni (il 14% cioè 1 su 7), con la più alta proporzione al mondo di popolazione over 60 (il 24% cioè 1 su 4), con il più elevato rapporto al mondo tra anziani inattivi e forze di lavoro , quasi il 48%, valori destinati ad aumentare nel tempo. Tutto questo comporta una enorme rivoluzione in

tema di integrazione, di lavoro, di casa, di salute, di scuola, di mobilità sociale, di pace sociale. Un declino troppo marcato e rapido della popolazione porta gravissimi problemi per la società e l’economia, soprattutto in una situazione comparativa internazionale. Ebbene, io non credo che possiamo a lungo ignorare questi dati e la politica è interpellata direttamente per una risposta. È vero che non è solo responsabilità delle mancate politiche familiari; è vero che dietro a questi fenomeni ci sono aspetti culturali decisivi, che i giovani si sposano meno, si separano di più o convivono di più per una caduta di valori, per la mancanza di un progetto di vita, per una sorta di egoismo mescolato al “tutto e subito”, per una debolezza e per una sfiducia profonda che colpiscono i giovani, ma tutto questo non può rappresentare un alibi per la classe politica che è chiamata a fare la propria

La percentuale delle nascite, dal 1871 al 2009, è calata del 74,25%

parte e a dare risposte serie ad un fenomeno che è davvero allarmante.

Durante i giorni della crisi del Governo Berlusconi tutti erano preoccupati perché la spread dei nostri Bot rispetto a quelli tedeschi aveva superato i 500 punti, inoltre il tasso di interesse dei Bot superiore al 7% era considerato una sorta di punto di non ritorno oltre al quale c’era il default: ebbene i demografi indicano in 1,3 il valore minimo di numero di figli per donna a ridosso del quale si gioca la stessa esistenza della comunità nazionale nel giro di pochi decenni. Oggi l’Italia viaggia su 1,3 / 1,4 figli per donna e la media delle famiglie italiane è costituita da 2,4 persone, cioè meno di “mezzo figlio a coppia”. Come si fa a immaginare che cresca il Pil se siamo un Paese di anziani che da una parte sostengono i (pochi) nipoti che non hanno lavoro e dall’altra costeranno sempre di più a questi pochi nipoti a causa dell’allungamento della vita? Da tempo l’Italia oscilla attorno alla soglia del rischio ed è doveroso porsi e porre il problema per trovare insieme soluzioni condivise. La riforma delle pensioni del 1995 ha stabilito una riallocazione


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delle risorse per contributi al fondo pensioni lavoratori dipendenti, passando da una aliquota del 27,5% al 32,7%. Per non aumentare il costo del lavoro l’aliquota per gli assegno familiari passò dal 6,2% al 2,4%, quella per la maternità dall’ 1,23% allo 0,6%: una diminuzione in Euro di 4,6 miliardi per gli Assegni familiari, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili nido ed edilizia sociale. Scrive il libro Il cambiamento demografico, Laterza, che dal 1996 al 2010 la riallocazione delle risorse destinate alle famiglia ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, corrisponde ad un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di Euro!

La crisi è una crisi di tipo antropologico che sarà molto più difficile risolvere rispetto alla crisi finanziaria di questi anni: la soluzione non sta nelle ferree leggi del mercato e degli economisti, ma nella risposta che noi sapremo dare alla domanda : che tipo di società vogliamo per i nostri figli? Che tipo di Paese vogliamo costruire per il futuro a media scadenza e come ci regoleremo di conseguenza? Per ora se non cambiamo tendenza The Wall Street Journal nel 2011 ha scritto che nel 2050 il 60% degli italiani non avranno fratelli, sorelle, cugini, zii e zie. Se poi guardiamo quello che avviene nel resto dell’Europa la situazione dell’Italia è ancora più allarmante: lo stato francese assiste economicamente le madri sole e le giovani famiglie a basso reddito attraverso 123 Casse per i sussidi familiari: il contributo si chiama “ prestazione di accoglienza del neonato” e comprende un versamento di 1000 Euro alla nascita e un mensile di 178 Euro per i primi tre anni di vita del bambino, più due aiuti complementari a scelta, o per pagare la baby sitter in caso di madre lavoratrice o per compensare il mancato salario in caso di rinuncia al lavoro per assistere il nuovo arrivato. Ne hanno diritto tutti i genitori soli con un reddito inferiore ai 44.500 Euro l’anno e le coppie monoreddito con introiti inferiori a 33.700 Euro l’anno. In caso di altri figli le soglie di reddito aumentano in proporzione. Sono previsti inoltre integratori al reddito come assegni familiari per coppie con due figli o più, contributi per il pagamento dell’affitto, contributi erogati dall’assistenza sociale per redditi bassi. In Italia una donna su tre è “costretta” a non avere figli perché costano troppo, cioè più che non volere figli le donne italiani non se li possono permettere come rilevano tutti i sondaggi . Il Italia il costo di un bambino oscilla tra gli 8.000 e i 18.000 Euro nel solo primo anno di vita. Una donna su due ritarda l’arrivo di un figlio fino a 5 anni dopo il matrimonio. Il 57% delle donne ritiene responsabile lo Stato per le difficoltà della maternità perché non prende soluzioni adeguate per proteggere e promuovere la maternità. Le altre ritengono responsabile la cultura dominante che spinge alla carriera, ai soldi, al lavoro frenetico, oltre ad altre ragioni di tipo personale e psicologico. La situazione è certamente complessa e non è sufficiente prendersela con i Governi che si sono succeduti in Italia in tanti anni, Governi che comunque hanno pesanti responsabilità. Occorre individuare soluzioni condivise e occorre coinvolgere tanti soggetti della scena pubblica per agire sulla scorta di

In queste pagine, alcune illustrazioni relative al tema della natalità e alla famiglia. In alto, un quadro di Raffaello

un patto generazionale che può dare una svolta decisiva al futuro della famiglia in Italia. Chi sono gli attori del cambiamento? Istituzioni, imprese e sindacati, famiglie con le loro associazioni con ruoli diversi ma complementari, che possono lavorare insieme come sta accadendo in alcune città d’ Italia che fanno da battistrada e come stanno facendo in Germania da tempo. Il primo attore, dunque, è la stessa famiglia. Dalla sua consapevolezza, dalla sua capacità di servizio, dalla qualità della vita di relazione che sarà capace di instaurare al suo interno dipenderanno la salvaguardia e la promozione dei più alti valori di cui la famiglia è portatrice o la sostituzione di essa con forme le più diverse di precari, instabili e fluttuanti rapporti, secondo gli stili di vita cari alla cultura individualistica e radicale.

La famiglia è una realtà che precede e va oltre lo Stato: la famiglia, come la persona, non deve la sua «soggetti-

vità» allo Stato e non trova in esso la propria definizione. La famiglia è la prima e fondamentale forma di socialità e a partire da essa devono essere in qualche modo pensate e strutturate tutte le altre dimensioni della vita sociale. È questo uno dei pilastri dell’insegnamento della Chiesa, illustrato nella Familiaris consortio, dove, tra i quattro compiti fondamentali che competono alla famiglia, viene annoverato quello di partecipare allo sviluppo della società. Sembrano ormai maturi i tempi affinché le famiglie assumano il ruolo che compete loro nella vita sociale, rafforzando notevolmente la propria soggettività sociale attraverso l’associazionismo familiare che le rappresenta. La mobilitazione delle famiglie è la prima condizione per riportare al centro dell’attenzione sociale e del dibattito culturale e politico la necessità di affrontare la “questione famiglia”. Le famiglie infatti «devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia», diventando così protagoniste della «politica familiare» (Familiaris consortio n. 44). L’associazionismo familiare è un autentico soggetto politico e la società e le Istituzioni devono prenderne atto, dando ad esso piena cittadinanza e sostenendolo nella sua azione con tutte le risorse possibili. Proprio questa è la sfida dell’autonomia: sapranno le Istituzioni politiche fare un passo indietro ed accettare una nuova complementarietà con dei partner riconosciuti a pieno titolo nei vari ambiti delle politiche sociali? E sapranno le associazioni trovarsi preparate ad assumere nuovi compiti e nuove responsabilità ad affrontare tutti i rischi dell’autonomia? Le istituzioni e le politiche “family friendly”

Il secondo attore è rappresentato dalle istituzioni e dai pubblici poteri, in quanto produttori di legislazione, in quanto responsabili di scelte politiche che ricadono positivamente o negativamente sulle famiglie, sia infine come “produttori di cultura”. Si tratta di decidere se spingere ancora in direzione del riconoscimento dei veri o presunti diritti individuali o di farsi invece carico dei diritti sociali, a partire da quelli della famiglia. Dall’uno o dall’altro orientamento dipenderà l’avvio di atti legislativi, di interventi di politica sociale, di promozione della cultura che assumano come punto di riferimento i singoli individui o piuttosto il “soggetto-famiglia”. Nel secondo caso, per tutelare e promuovere la famiglia è fondamentale rispettare criteri corretti che vale la pena correttamente richiamare: 1) le politiche familiari non sono politiche di lotta alla povertà, pertanto, almeno come tendenza, non possono essere legate al reddito e non devono avere come scopo la ridistribuzione del reddito: esse sono per definizione universalistiche proprio perché ogni famiglia è un bene comune. 2) Le politiche familiari devono in ogni occasione e ad ogni livello essere applicate in chiave sussidiaria e non assistenziale. La solidarietà è fine dell’azione politica ma non può mai essere disgiunta dalla sussidiarietà. 3) Le politiche familiari non possono essere declinate in chiave individualistica, bensì devono sempre considerare la famiglia in quanto tale, tenendo conto dei carichi familiari. 4) Le politiche familiari non

devono essere indirette, bensì dirette: non una politica del lavoro, della casa, della sanità intesa in modo generico ma una politica della casa per la famiglia, del lavoro per la famiglia, della sanità per la famiglia. 5) Le politiche familiari non riguardano i singoli soggetti deboli della famiglia ma prendono in considerazione il nucleo familiare per se stesso e agendo di conseguenza perché esso non sia penalizzato, ma anzi sia oggetto di politiche eque e giuste. 6) Molte leggi e molti interventi delle Istituzioni impattano positivamente o negativamente sulla famiglia. Le politiche familiari non riguardano solo l’assistenza, la cura dei soggetti deboli, i servizi, bensì gli sgravi fiscali, la scuola, la bioetica, il lavoro, i mass media ecc. Come dice il Santo Padre, «la famiglia deve essere il prisma attraverso cui guardare l’intera società», altrimenti se lo Stato con una mano dà e con l’altra toglie, attuando politiche contraddittorie o contrastanti, la vittima di questo strabismo non sarà solo la famiglia, ma l’intera collettività.

Quanto alle imprese, per ora sono poche quelle che hanno assunto politiche aziendali family- friendly: non si può dire che l’attenzione alle famiglie sia molto elevata, anche nel campo della pubblica amministrazione e delle imprese gestite da enti statali, se è vero come è vero che una donna su tre lascia il lavoro all’arrivo del primo figlio. La compatibilità dei tempi della famiglia e dei tempi del lavoro è scarsissima e non essendoci servizi di supporto la mobilitazione dei nonni sta diventando un fatto sociale. Perché ai Tavoli della contrattazione tra sindacati e imprese non si affronta il problema? Bisogna riconoscere che esempi di buone pratiche in questo senso ci sono (ad esempio la Bracco a Milano) ma proprio perché si citano indicano una eccezione e non la regola. Ancora: molte aziende pubblicano ormai il bilancio sociale e non c’è azienda che non si vanti giustamente del proprio rendiconto di sostenibilità ambientale. Ottima iniziativa che mostra quanto una azienda sia “virtuosa” nei confronti dell’ambiente o delle condizioni lavorative dei propri dipendenti. Perché, però, non esiste un “bilancio familiare” in cui si diano informazioni rispetto alla maternità e alla paternità di quella impresa? Quanti sono i direttori del personale che considerano la maternità un problema? Credo sia la maggioranza e questo denuncia un fatto prima di tutto culturale a cui porre mano. Non c’è disapprovazione sociale nei confronti di cattive pratiche familiari, eppure le Aziende che hanno fatto della conciliazione dei tempi del lavoro e della famiglia un proprio must, affermano che ne hanno tratto enormi benefici in termini economici, in termini di fidelizzazione del personale, in termini di attrazione delle migliori risorse e delle migliori “teste” del Paese: infatti si contiene il turn over, si riducono le assenze per malattie, si evitano le sostituzioni, si motivano i dipendenti che si affezionano all’azienda, si attirano giovani capaci che scelgono Aziende che li rasserenano sul fronte del loro futuro familiare. Ecco, i concetti di responsabilità, di sostenibilità, di sviluppo non possono trascurare le questioni appena accennate e devono subire una urgente e necessaria ridefinizione.


economia

pagina 6 • 21 febbraio 2012

L’Eurogruppo affronta il nodo dell’ulteriore prestito alla Grecia, ma il tema politico è quello degli investimenti per la crescita

Monti sfida l’Europa Il premier guida dodici Paesi che chiedono alla Ue «nuove iniziative per lo sviluppo» di Enrico Singer Bruxelles li chiamano «accordi della venticinquesima ora». Quelli che arrivano oltre ogni scadenza prevista, anche oltre l’ultimo minuto di recupero. Ma arrivano. Ed evitano il disastro. La storia dell’Unione europea è piena di queste intese raggiunte quando tutto sembrava ormai compromesso: dalle maratone sui prezzi agricoli, alle grandi trattative sulla riforma istituzionale. Il salvataggio della Grecia dalla bancarotta ha seguito lo stesso copione. Mesi di rinvii, scontro aperto tra i sostenitori della linea dura e chi considera ancora la solidarietà europea un valore da difendere, speculazioni dei mercati internazionali e proteste di piazza. Adesso, anche se ci sono dei meccanismi ancora da definire, lo sblocco dei 130 miliardi della seconda tranche del maxi-prestito ad Atene – 110 miliardi erano stati già concessi nel maggio del 2010 – sembra mettere la parola fine a una brutta pagina fatta di polemiche tra Paesi virtuosi e Paesi in difficoltà e di paure sulla tenuta dell’euro. Ma, se è giusto tirare un sospiro di sollievo, sarebbe ingenuo credere che la crisi sia alle spalle. I miliardi dell’Europa e del Fondo monetario internazionale aiuteranno la Grecia a ridurre l’enorme massa del suo debito (che dal 160 per cento del Pil dovrebbe scendere al 120 per cento nel 2020), ma il risanamento dei conti pubblici da solo non basta. Per ripartire ci vuole che la Grecia e l’Europa tornino a crescere.

A

la crescita in Europa da discutere già nel vertice della Ue che si terrà l’1 e il 2 marzo a Bruxelles. La lettera s’intreccia a filo doppio al contestato capitolo degli aiuti alla Grecia. E’ la sollecitazione ad avviare una “fase due” anche a livello europeo che Monti ha spiegato così. L’Italia – ma il discorso vale a maggior ragione per la Grecia – non può crescere da sola, «l’Europa deve riconoscere il bisogno di crescita» e il motore principale dell’economia in Europa, che è la Germania, «va avvicinato alla consapevolezza della necessità di crescita vista

energia» proprio sulla ripresa. Anche la Francia – già piombata nel pieno della campagna presidenziale – non ha firmato il documento che è stato sottoscritto, oltre che dall’Italia, da Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia e Irlanda.

Dodici Paesi in tutto: sei che fanno parte della zona euro e sei che ne sono fuori, a riprova che la necessità di rilanciare la crescita è un’esigenza che unisce e che può anche ricucire lo strappo tra le due componenti dell’Europa che proprio la crisi dell’euro ha portato in rotta di collisione, come dimostra la decisione della Gran Bretagna di rimanere fuori dal fiscal compact. Monti ha parlato anche del nuovo Patto di bilancio: «Il fiscal compact, forse, non era strettissimamente indispensabile, è stato voluto soprattutto dalla Bce e dalla Germania e il primo marzo lo firmeremo», ha detto il presidente del Consiglio. Ed è, comunque, importante che sia stato concordato perché «aveva assorbito energie che ora l’Italia vuole siano destinate alle

Firmano Italia, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia e Irlanda

Ed è significativo che, a poche ore dall’inizio della riunione dell’Eurogruppo di ieri, proprio Mario Monti abbia annunciato che l’Italia, con un gruppo di Paesi di Eurolandia e non, ha inviato una lettera al presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, che sollecita «iniziative coraggiose» per

come compenso per il comportamento virtuoso dei singoli, delle famiglie e delle imprese». La Germania non è tra i firmatari della lettera, ma Monti ha detto di avere constatato in queste settimane una maggiore attenzione da parte di Angela Merkel ai temi della crescita e della lotta alla disoccupazione e si è augurato che nel prossimo Consiglio europeo «sarà posta più

politiche per la crescita». Nel documento inviato ai presidenti della Commissione e del Consiglio della Ue, l’Italia e gli altri undici Paesi definiscono «pericoloso il momento per l’economia europea» ed elencano otto punti da realizzare. E’ un vero e proprio piano con obiettivi e traguardi temporali per aumentare la competitività e correggere gli squilibri macroeconomici esistenti che nasce da un’iniziativa italo-britannico-olandese (i primi firmatari sono Mario Monti, David Cameron e Mark Rutte) e che propone innanzitutto di sviluppare il mercato interno europeo, in particolare nel settore dei servizi, e chiede poi di creare un vero mercato unico digitale entro il 2015 e di attuare l’impegno a realizzare un mercato unico dell’energia, effettivo ed efficace, entro il 2014. Il quarto punto riguarda la creazione di un’area europea della ricerca, il quinto pone

l’obiettivo di allargare al livello mondiale l’apertura del mercato attraverso accordi commerciali internazionali e il sesto punto propone di ridurre gli oneri amministrativi della regolamentazione Ue che pesano sulle imprese. Il settimo punto del piano prevede di «promuovere un mercato del lavoro ben funzionante» che crei opportunità d’impiego e livelli più alti di partecipazione per giovani, donne e lavoratori anziani. L’ottavo e ultimo punto, infine, prospetta la costruzione di «un settore finanziario robusto, dinamico e competitivo, che fornisca sostegno vitale ai cittadini e alle imprese».

In particolare, la lettera (con un chiaro riferimento alla situazione in Germania), propone di «ridurre le garanzie implicite destinate a salvare sempre le banche che distorcono il mercato unico». Il documento smarca l’Italia dall’asse francotedesco? «Il gioco nella Ue de-


economia

21 febbraio 2012 • pagina 7

Anche il premier rilancia sul lavoro: «Nuova legge anche senza accordo»

Napolitano: «Non sono presidente delle banche»

Il Colle risponde a chi lo contesta e chiede un nuovo Welfare. Mentre il governo stringe i tempi per la riforma di Marco Palombi

ROMA. Altro giro, altra corsa, altri interrogati-

ve essere più ampio, non sentiamo la necessita di tenerci stretti soltanto a questi due partner», è la risposta di Monti. Sul fronte del nuovo prestito alla Grecia, ieri l’Eurogruppo ha discusso a lungo alcuni dettagli tecnici – ma non meno importanti – della gestione degli aiuti. Trovato l’accordo di fondo sullo stanziamento dei 130 miliardi, è stato definito un sistema per mettere in sicurezza gli interessi sul debito di Atene attraverso un conto bloccato e sono stati anche previsti dei controlli su come il governo greco impiegherà gli aiuti. Qualche punto deve ancora essere precisato – il governo greco sta ancora finalizzando l’accordo con le banche private per rinegoziare il rimborso di una parte dei bond con un o sconto che potrebbe essere di cento miliardi – ma il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha definito «saggio, giudizioso e raccomandabile» il secondo piano per salvare la Grecia dal

default. L’alternativa, del resto, avrebbe avuto un prezzo politico altissimo – di fatto l’uscita di Atene da Eurolandia – ed anche un costo enorme per gli altri Paesi europei (Germania in testa) che hanno le loro banche piene di titoli greci, come ha ammesso il ministro austriaco delle Finanze, Maria Fekter. A rappresentare la Grecia a Bruxelles, con il ministro delle Finanze, Evangelos Venizelos, c’era anche il premier, Lucas Papademos, che ha avuto colloqui separati con il commissario agli Affari economici, Olli Rehn, per accelerare anche l’uso dei fondi strutturali della Ue per sostenere l’economia greca che è in ginocchio. Gli ultimi dati sull’andamento del Pil segnalano un calo del 7 per cento nel quarto trimestre 2011. Se la tendenza non sarà invertita, i 130 miliardi di aiuti non riusciranno a restituire stabilità e credibilità alla Grecia. Ed è questa la preoccupazione maggiore. Le nuove previsioni sui conti greci hanno messo in evidenza che i miliardi stanziati non sono sufficienti per portare il rapporto debito/Pil dal 160 per cento di oggi al 120 ipotizzato per il 2020. Le stime più realistiche indicano che il debito si collocherebbe al 129 per cento del Pil. Più di quanto, oggi, è il rapporto debito/Pil dell’Italia. La Grecia, insomma, sembra destinata a rimanere fanalino di coda della zona euro a meno di una generale ripresa della crescita che è, appunto, l’obiettivo proposto ieri da Monti.

vi. Mentre il presidente Napolitano chiede un nuovo Welfare («La coesione sociale è importante per la crescita del Paese e non significa immobilismo, ma mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso da quello che è stato creato in passato») e rispedisce al mittente le critiche di lo chiama «Presidente delle banche» («Io non rappresento le banche e il grande capitale finanziario come qualcuno umoristicamente crede o grida»), le ricorrenti riunioni tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro non sono diversi dai consueti riti concertativi del passato. Una cosa sola, a ben vedere, li differenzia da quelli: Mario Monti ha già fatto sapere da tempo – ed ha ribadito ieri in un simbolico incontro a Piazza Affari - che un disegno di legge del governo arriverà comunque “entro marzo”che ci sia o meno l’accordo di sindacati e Confindustria («noi speriamo con, ma non possiamo consentire poteri di blocco troppo paralizzanti»).

Questo, va detto, ad oggi è l’unico dato certo sulla questione: non si sa quale sia il testo su cui si muove il governo, quali siano le possibili aperture dei soggetti coinvolti e nemmeno in che direzione si voglia andare. Si sa, però, che tra le parti al tavolo del ministero del Lavoro si procede in ordine sparsissimo: su nuovi welfare e diritto del lavoro ogni sigla seduta davanti ad Elsa Fornero la pensa diversamente da quella che le sta accanto (e pure il ministro non è che sia d’accordissimo col resto dell’esecutivo). In ogni caso, la titolare del dicastero di via Veneto ieri ha ri-spiegato ai presenti che «la riforma degli ammortizzatori sociali non potrà partire prima dell’autunno 2013» (cori di “impossibile”, “è troppo presto”, sono arrivati da ogni parte del tavolo) perché «oggi dobbiamo affrontare la crisi con i mezzi che abbiamo». Il nuovo mondo di latte e miele, invece, partirà dal «riordino di Cassa integrazione guadagni e degli incentivi, dall’assicurazione per disoccupazione involontaria e rafforzamento degli strumenti di sostegno al reddito». Al posto di tutta questa roba, ha detto Fornero, avremo «due pilastri a carattere universale»: da un lato la «tutela del posto di lavoro con la Cassa integrazione, riportata alla sua funzione originale, ricomprendendo in questo settore il credito, le assicurazioni e il commercio sotto i 50 dipendenti» (escluse, dunque, fallimento e cessazione di attività); dall’altro ci sarà la nuova «tutela con sistema assicurativo attraverso una indennità per disoccupazione involontaria». In sostanza, lavoratori e imprese dovranno contribuire contro il rischio di perdita del posto di lavoro e sostituire con questo nuovo sussidio - probabilmente esteso a tutti, anche al settore agricolo e agli apprendisti - tutte le

indennità esistenti (disoccupazione ordinaria, speciale o con requisiti ridotti, più la mobilità).

Le parti sociali, dal canto loro, oscillano tra la disperazione e la paura. Susanna Camusso, finito l’incontro col governo, era più che perplessa: «È stata una discussione molto faticosa. Usciamo dall’incontro con molti più interrogativi che certezze. C’è ancora molto lavoro da fare». La segretario della Cgil - secondo cui è “ottimistico”fissare all’autunno 2013 il debutto dei nuovi ammortizzatori sociali - come i suoi colleghi di Cisl e Uil ha un problema più grosso degli altri, quello dei soldi: «Se vogliamo costruire un sistema di ammortizzatori sociali universale servono risorse: continuiamo ad avere il dubbio che, se non ci si mettono risorse, ci sarà una diminuzione e non un allargamento delle tutele». Basta sentire Bonanni e Angeletti per capire che su questo l’unità sindacale è totale: «Se non viene chiarito quanti soldi abbiamo e cosa vogliamo farne - spiegava il primo alla ministro - diventa tutto diventa più nebuloso: mi aspetto che su questi aspetti facciate una proposta dettagliata»; «la riforma può funzionare solo se si risolve il nodo delle risorse e se sarà possibile attivare meccanismi per trovare un altro posto di lavoro», ha messo a verbale il secondo. Confindustria invece - che ha l’unico problema di non voler mettere neanche un euro su questi benedetti ammortizzatori - si dichiara preoccupata da un lato («servono almeno due anni per mettere a regime la riforma e comunque senza aggravio di costi per le imprese») e dall’altro ha fatto capire che comunque si sente abbastanza sicura della futura proposta del governo: «È giusto sentire le parti sociali – ha spiegato Emma Marcegaglia - ma non abbiamo nulla in contrario che il governo vada avanti e faccia questa riforma da solo». I prossimi pour parler sono fissati per giovedì (si affronterà il tema della flessibilità e gli industriali hanno promesso di presentare una loro proposta) e per il 1 marzo: difficile che alla fine ci sarà un accordo e dunque la palla passerà al Parlamento, cioè alla politica. Non sarà un bello spettacolo, almeno a giudicare da quanto sta già accadendo nel Partito democratico: Veltroni che spara contro l’articolo 18 a fini anti-Bersani e propala sui giornali la favola di un fantomatico Partito di Monti per il 2013, gli old labour alla Stefano Fassina che si irritano e sfiorano toni da scomunica, il segretario che è costretto a intervenire nell’ennesimo parapiglia interno a poche settimane dalle elezioni amministrative. «Mi pare una discussione fuorviante – ha svicolato Bersani – La nostra priorità è la lotta alla precarietà e l’uscita dall’emergenza: meglio che il Pd si metta in sintonia col paese».

«Dovremo fare tutto con i fondi che abbiamo»: così Elsa Fornero gela i sindacati


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l Celentano di Sanremo è indifendibile ma quello che ha detto non è banale. Preciso: una parte di quello che ha detto è rara sulla scena pubblica italiana ed è unica nella grande audience televisiva. Quella parte è la sua professione di fede cristiana. Solo Benigni e Lucio Dalla – tra gli uomini di spettacolo – gli si sono avvicinati, ma lui ha detto più di tutti.

I

Qui spiego in che senso l’insieme dei monologhi di martedì 14 e sabato 18 febbraio sia indifendibile, che cosa in-

il paginone vece di essi voglio mettere in onore e in che senso – quel qualcosa – lo considero importante. Sono un giornalista e ritengo inaccettabile che uno che ha la fortuna di parlare in pubblico voglia cacciare altri da questa possibilità, o possa bollare come indegno di essa un qualunque altro comunicatore. Ha insultato il collega del Corriere della Sera Aldo Grasso e ha detto che Avvenire e Famiglia Cristiana andrebbero chiusi. E ha parlato così perché Grasso, Avvenire e Famiglia l’avevano criticato. Su questo non lo difendo. Ma ha pure detto che i cristiani dovrebbero parlare innanzitutto della incomparabile felicità che si attendono dalla vita futura: e questo era giusto. Il direttore artistico Gianmarco Mazzi ha provato a difendere se stesso e Celentano argomentando che «deficiente non è un’offesa, viene dal latino ‘deficere’: vuol dire che si è privi di qualcosa». No Gianmarco, è un’offesa: la più immediata che l’italiano comune si trovi a portata di lessico. E Celentano è permaloso e vendicativo, egocentrico fino a non cogliere il rischio che correva lanciando quell’insulto. Mi pare non ci sia altro da dire. Su Avvenire e Famiglia Cristiana l’Adriano nazionale si è difeso da solo, la seconda delle due serate, protestando che lui non aveva detto che le due testate “vanno chiuse” ma che “andrebbero chiuse”. Dubito che Celentano possa convincere molte persone sulle valenze riposte del modo condizio-

Le polemiche sui sermoni di Celentano hanno dimenticato l’aspetto più importante: i cristiani dovrebbero parlare innanzitutto della felicità che s’aspettano dalla vita futura

Metti il Paradiso

di Luigi A nale dei verbi italiani. «Siamo in democrazia e io ho espresso un mio desiderio», ha detto dopo la divagazione sui “modi” dei verbi. Appunto Adriano: tu hai espresso un tuo desiderio e chi non lo condivide, o lo trova aggressivo, magari aggressivo verso se stesso, protesta. Di che ti lamenterai se non di te stesso?

Ha detto anche che le due testate e i preti e i frati in generale «non parlano mai del Paradiso». Anche questa era un’aggressione in quanto non è vero. Lo dico perché leggo tutti i giorni e tutte le settimane quei due giornali e vado in giro per le chiese sia come cristiano sia come giornalista. «Avrò girato mille chiese» dice Celentano: e io duemila. Non difendo dunque le aggressioni di Celentano né lo stile supponente, ex machina, dall’alto, della sua predicazione. Certo che siamo in democrazia, ma è contraria allo spirito della democrazia la sopraffazione che può venire da chi è più forte, più ricco, più famoso, più

bravo (anche) a conquistare un microfono della grande audience e pretende di gestirlo contro gli altri. Non dubito che Celentano a Sanremo, in ambedue le serate, abbia esercitato una sopraffazione.

Ora che ho messo le mani avanti dico il mio apprezzamento per il cristiano Celentano che si è espresso all’incirca in un terzo delle parole che ha detto nelle due serate. Frammista alle aggressioni, in esse vi era la perla del-

mino verso il traguardo, quel traguardo che segna non la fine di un’esistenza, ma l’inizio di una nuova vita. Insomma, i preti, i frati non parlano mai del Paradiso. Perché? Quasi come a dare l’impressione che l’uomo sia nato soltanto per morire. Ma le cose non stanno così. Noi non siamo nati per morire. Noi siamo nati per vivere».

Anche Papa Ratzinger insiste sul fatto che «siamo stati creati per la vita». E richiama in continuità i preti e i

Certo che siamo in democrazia, ma non è democratica la sopraffazione che può venire da chi è più forte, più ricco, più famoso e più bravo (anche) a conquistare un microfono l’affermazione della fede cristiana, perla rara e dunque preziosa e che io vorrei onorare ovunque mi appaia. Si tratti pure di un letamaio. Riporto le parole di Celentano che ho trovato più significative e che le cronache generalmente hanno omesso per concentrarsi – com’è inevitabile – sui passaggi polemici. Prima citazione dalla serata di martedì 14: «Non parlano mai [preti e frati] della cosa più importante, cioè del motivo per cui siamo nati. Quel motivo nel quale è insito il cam-

frati – e tutti i cristiani – al dovere di annunciare la speranza nella vita eterna, per esempio con l’enciclica Spe Salvi del 2007: «Siamo salvi in forza della speranza”. Ma se lo dice Celentano a Sanremo è diverso, arriva. Con il Papa è cosa risaputa, con il molleggiato è stupore. E oggi abbiamo bisogno di stupore.

Seconda citazione di martedì 14: «Voi preti siete obbligati a parlare del Paradiso, altrimenti la gente pensa che


il paginone

21 febbraio 2012 • pagina 9

“mondo che verrà”, come dice il Credo. Ma quasi mai questa attesa è proposta in termini di meraviglia e sorpresa e gaudio come giustamente ha fatto Celentano, che ha pure ricordato il Giudizio: «Certo non mancherà il Giudizio di Dio».

Quarta citazione di martedì 14: «Ma soprattutto Gesù è venuto al mondo per dimostrarci che la morte non esiste (…). La morte è soltanto un ultimo gradino prima del grande inizio. Ed è per questo che noi… ed è su questo inizio che noi dobbiamo concentrare i nostri pensieri». Raro e giustissimo anche questo richiamo alla proporzione, anzi alla sproporzione tra ciò che il cristiano si attende e ciò che si trova a soffrire nell’attesa.

o in prima serata

Accattoli la vita sia quella che stiamo vivendo adesso. Ma che cazzo di vita è questa qua? Lo spread, l’economia, le guerre. Giornali inutili come l’Avvenire, Famiglia Cristiana: andrebbero chiusi definitivamente. Si occupano di politica e delle beghe nel mondo, anziché parlare di Dio e dei suoi progetti e non hanno la più pallida idea di quanto invece può essere confortante per i malati leggere di ciò che Dio ci ha promesso. Senza contare, poi, i malati terminali, che anche se non lo dicono, loro sono consapevoli di ciò a cui stanno andando incontro». Due sono qui le provocazioni che vengono da Adriano: quando dice «che cazzo di vita è questa» e quando convoca, evoca, nomina i malati terminali. I malati terminali sul palco dell’Ariston: sono contento di aver visto questo. Dunque si può parlare della “vita eterna” con il gergo della vita quotidiana. Uno può dire «ma che cazzo di vita è questa» senza che si perda l’aggancio a quel messaggio. Confesso che anche questo aspettavo di vederlo. C’è troppo perbenismo, manierismo, linguaggio ad intra nella predicazione cristiana. Adriano invita a venirne fuori.

Terza citazione di martedì 14: «Ma questa, di vita, è soltanto la prima… la prossima approderemo in un mondo

che neanche lontanamente possiamo immaginare quanto è meraviglioso. Lì non ci saranno distinzioni di popoli: neri, bianchi; saremo tutti uguali. Eternamente giovani e belli, in compagnia di cristiani e musulmani, mentre ballano il tango della felicità, in un abbraccio d’amore senza fine». Era scontato che il paradiso di Celentano somigliasse a un samba o a una cumbia. La cumbia di chi cambia è stato il bel canto con cui sabato ha risposto ai fischi che gli arrivavano dalla platea. Ma non è qui il punto. Il punto è nell’attesa della “meraviglia” inimmaginabile annunciata dalla fede cristiana. A suo modo Celentano l’ha detta. Osservavo sopra che non è vero quello che il menestrello ha affermato a tutto tondo a Sanremo: che nessuno oggi – nelle chiese e nei giornali ecclesiali – parli dei “novissimi”: morte giu-

Raro e davvero giustissimo è stato il richiamo alla proporzione, anzi alla sproporzione tra ciò che il cristiano si attende e ciò che egli si trova a soffrire nell’attesa dizio inferno paradiso. Conosco la questione. Nel mio piccolo già nel 1988 pubblicavo un libretto intitolato La speranza di non morire che è tra i

tanti che invitavano a parlare meglio e di più della promessa della vita eterna. Rispetto ad allora la predicazione attuale è più attenta all’attesa del

Quinta e ultima citazione di sabato 18 febbraio: «Io sono venuto qui a fare quattro chiacchere con quei 16 milioni di persone che hanno visto il Festival di Morandi, e per parlare del significato della vita, della morte, ma soprattutto per quello che viene dopo. E quindi per parlare della straripante fortuna, che voi, noi, tutti quanti insieme abbiamo avuto per essere nati. E dunque divertirci a fantasticare sul dove e come sarà il paradiso. È chiaro che per quanto possa essere elevata la nostra fantasia non riusciremo mai ad immaginare la grandiosità di ciò che ci aspetta. Tutto quello che desideriamo, qui sulla terra, non è che una misera microscopica particella in confronto a ciò che il Padre Nostro ci ha preparato». “Straripante fortuna”, “grandiosità di ciò che ci aspetta”: è lo stesso linguaggio usato da Roberto Benigni nel proporre Dante in televisione e sulle piazze. Se c’è da apprendere qualcosa, come lingua cristiana, dagli uomini dello spettacolo è l’avvertenza di questa meraviglia per ciò che «il Padre Nostro ci ha preparato». Ho fatto il paragone con Benigni e sopra avevo nominato Lucio Dalla. Il 5 settembre 2007 in morte di Luciano Pavarotti così Lucio Dalla aveva parlato in una conferenza stampa: «La sua sarà una momentanea assenza perchè considero la morte come la fine del primo tempo della vita di un individuo». Gli aveva fatto eco – si direbbe – proprio Celentano due anni dopo, in morte di Mike Buongiorno, salutando così il vecchio amico l’8 settembre 2009: «La tua allegria, quella vera, è appena cominciata. E non avrà fine». Gli uomini dello spettacolo hanno il dono di trovare parole nuove per dire la fede cristiana nella vita che è mutata ma non è tolta. Più di recente una parola simile era venuta anche da Benigni, che l’8 novembre 2010 commentava così le minacce di morte a Roberto Saviano durante la trasmissione Vieni via con me: «È stata una sorpresa la vita, lo sarà anche la morte». Tra i cristiani d’Italia Benigni non ha buona stampa perché di sinistra e neanche Dante l’ha sdoganato. Dalla è guardato con sospetto perché gay e folletto. Celentano vorrebbe (condizionale) chiudere le meglio testate cattoliche e dice che «neanche i vescovi hanno capito». Ma io dico: attenzione, questi sono cristiani parlanti e da loro si può apprendere qualcosa per l’aggiornamento della lingua cristiana. www.luigiaccattoli.it


mondo

pagina 10 • 21 febbraio 2012

Sempre più delicata la situazione dei due militari che hanno attaccato un peschereccio credendolo una barca di pirati

La rivolta indiana

Polemiche e cortei anti-italiani a Dehli dopo la crisi diplomatica. I due marò fermati dalla polizia adesso rischiano la pena di morte di Antonio Picasso eri in mattinata ha fatto il giro le mondo la foto dei due fucilieri del Battaglione San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che sono stati trasferiti dalla Guesthouse della polizia di Cochin, a Kollam. Lì saranno tenuti in stato di fermo, controllati dalle autorità locali, ma anche con la supervisione di un pool inviato dall’ambasciata italiana a Delhi. Nel frattempo, si è tenuto il primo confronto con il giudice. I due militari sono stati ascoltati per due ore da un magistrato locale. Bisognerà attendere però il 5 marzo perché il tribunale di Kollam faccia un ulteriore passo avanti. Girone e Latorre restano quindi agli arresti. I tempi indiani, per chi non ne è avvezzo, possono apparire esasperanti. Ed è questo il caso.

I

La situazione è decisamente complessa. Le indiscrezioni paventano addirittura che Girone e Latorre possano essere condannati a morte. Forse la previsione è eccessiva. Almeno lo auspichiamo. Tuttavia, stando al ministro indiano per la navigazione, «i colpevoli devono essere puniti». Vasan si è detto anche sicuro che i due militari italiani abbiano commesso un crimine imperdonabile. La sezione 302 del Codice penale dell’Unione è inequivocabile. In caso di omicidio è prevista la pena capitale, oppure il carcere a vita. Le indagini sono ancora all’inizio. Ma sembra che classe politica nazionale e opinione pubblica abbiano già emesso un loro verdetto. Il problema è capire se la Lexie fosse davvero in acque territoriali indiane, oppure in quelle internazionali. Lo ha specificato il nostro ministro della giustizia, Paola Severino, la quale ai suoi omologhi di Delhi ha restituito pan per focaccia, in termini di fermezza. «Il governo italiano è cosciente delle carenze di giurisdizione indiana», ha commentato il Guardasigilli. «I rilevamenti satellitari provano che la nostra nave era in acque internazionali. Tutto quello che viene detto è basato su idee, ma la prova sullo svolgimento dei fatti, versione differente tra le due parti, ancora non c’è stata». In aggiunta, secondo alcune informazioni fornite dal-

l’International Chamber of Commerce, il giorno dell’incidente è stato attaccato anche un mercantile battente bandiera greca, che si trovava alla fonda. La nave, che porta il nome di Olympic Flair, è simile alla Enrica Lexie. Idee chiare,

dal Partito del congresso, sarà anch’esso chiamato alle urne. Intanto, i fatti hanno scatenato un’ondata compulsiva di nazionalismo e proteste. Lo ha ammesso il ministro degli Esteri Giulio Terzi. «Sono convinto comunque che verrà effettuata

dei nostri osservatori si stanno librando in voli di interpretazione giuridica e di giustificazioni che valgono il tempo concesso dai quotidiani. Sembra che l’opinione pubblica italiana abbia scoperto che c’è un’India che non è solo Taj Mahal e pollo al curry. Il subcontinente indiano ha mostrato i muscoli. E noi ne stiamo subendo le conseguenze. Delhi non è magnanima verso chi si atteggia con presunzione a casa sua. Le sue istituzioni, soprattutto quelle locali, sono spesso influenzate

Bisognerà attendere però il 5 marzo perché il tribunale di Kollam faccia un ulteriore passo avanti. Girone e Latorre restano quindi agli arresti. I tempi indiani possono essere esasperanti. E questo è uno di quei casi ma elementi discordanti. Come appunto hanno sottolineato da via Arenula. L’incidente è avvenuto alla vigilia di una serie di consultazioni elettorali per le quali nessuno, né a Delhi né presso i governi federati, ha intenzione di sacrificarsi in nome della partnership commerciale con l’Italia. Il Kerala, uno degli Stati più poveri e lontani

un’indagine corretta e strettamente scrupolosa delle norme dello Stato di diritto di cui questa grande democrazia indiana è esempio da tantissimi anni». Nella trappola del pathos collettivo indiano, l’Italia vi è caduta pie’ pari. Suo malgrado. Mentre la Farnesina mantiene un atteggiamento di aplomb, per fortuna dei due marò, molti

da una sindrome di post-colonialismo, per cui gli occidentali che sgarrano vengono puniti con la massima severità. Le manifestazioni che si sono svolte fuori dalla Casa del magistrato, mentre era in corso l’interrogatorio ieri, vanno viste proprio sotto questa luce. Furenti per l’uccisione di due pescatori, varie organizzazioni

ittiche del Kerala hanno chiesto l’arresto immediato anche del capitano della petroliera italiana. «Il fermo del comandante della Lexie è un must e la nave non deve essere assolutamente rilasciata», hanno detto i rappresentanti dei pescatori locali, i quali hanno anche proposto un adeguato compenso per le famiglie delle due vittime. Intransigenza, quindi. Al di là di tutti i buoni legami che intercorrono tra noi e loro. Per inciso: il fatto che Sonia Gandhi, la donna più potente di tutta l’India, vanti natali piemontesi non ha alcun significato. Anzi. Oggi è la stessa signora Gandhi a non dar peso alle sue origini. Un po’ per evitare che il suo clan ne risenta. Un po’ per reazione alla totale indifferenza dell’Italia. Fino a ieri il nostro Paese snobbava - in termini commerciali - questo potenziale rapporto privilegiato a livello personale. Non basta un incidente in mare quindi far cambiare idea alla Lady di ferro dell’Asia. Al contrario, se la Gandhi si intromettesse, potrebbe anche essere peggio. Ne risentirebbero la sua famiglia e il Congresso, in termini di immagine di fronte all’elettorato. E noi non ne guadagneremmo nulla. La stampa del subcontinente preferisce posizionare la faccenda in seconda pagina. Sminuendola di fatto. Girone e Latorre su Hindustan times e Times of India vengono ridotti al rango di “guardiani delle imbarcazioni”. La traduzione non aiuta. Tuttavia, è amaro osservare come venga declassato il San Marco.

Fibrillazione sregolata invece in Italia. Perché appunto, solo ora ci si accorge di aver a che fare con un governo dai nervi saldi e che sostanzialmente ha il coltello dalla parte del manico. È lunga la moltitudine di politici che pretendono di dire la propria, sfoderando una sorprendente conoscenza del codice militare in tempo di pace. C’è chiedersi quanti di loro abbiano messo piede su suolo indiano. E quanti abbiano una pur minima conoscenza della giustizia nel subcontinente. La nostra Legge 131/11 prevede «l’immunità funzionale dei nostri soldati e, quindi, ove avessero commesso dei reati, la competenza a giudicarli è dei tribunali italiani». Perfetto. Lecito chiedersi se gli indiani sia-


mondo

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In queste pagine: un’immagine della Enrica Lexie, il mercantile italiano con a bordo il personale del Reggimento San Marco e, subito sotto, uno scatto di alcuni marò. A destra, due fucilieri del Battaglione San Marco, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che sono stati trasferiti dalla Guesthouse della polizia indiana di Cochin, a Kollam

«Ma forse non siamo stati noi a ucciderli» Una fonte ci dice: «Troppe incongruenze. La nave che ha sparato potrebbe essere un’altra» ROMA. Tre giorni di fermo di polizia fino al 23 febbraio per i fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò del reggimento San Marco, accusati di aver ucciso per sbaglio due pescatori indiani, scambiati per pirati. Lo ha deciso il magistrato del distretto di Kollam, nello Stato di Kerala, a conclusione di un lungo interrogatorio condotto dal giudice K.O Joy. Lo scenario, già complicato, è reso ancora più ingarbugliato dalle elezioni politiche e amministrative in corso nel Paese, che potrebbero influire sull’indagine e sulle autorità giudicanti. Intanto, però, il governo italiano fa pressing: il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha ribadito che esistono «considerevoli divergenze» sulla versione dell’incidente, tra cui «il fatto che gli incidenti sono stati almeno due in quella zona di mare ad orari diversi». Secondo una fonte anonima della marina militare, infatti, si ritiene che «alle 21:50 ora locale indiana i riporti dei pescatori apparsi sull’agenzia online dicevano di essere stati colpiti da spari a circa 2 miglia nautiche dalla costa. Questa è davvero una coincidenza strana - dice a liberal - che lascia pensare che forse i pescatori avevano ragione ma che la nave in questione da cui sarebbero partiti gli spari era un’altra. Guardia Costiera Indiana e Autorità coordinatrice del Search and Rescue la Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre) Mumbai erano state informate dallo stesso mercantile Olympic Flair ma nessuno di questi due enti istitu-

di Martha Nunziata zionali indiani ha comunicato nulla alla stampa». «Per noi - continua - il fatto è successo a 33 miglia dalla costa, quindi in piene acque territoriali, mentre per loro, almeno nella ricostruzione dei primi momenti, è accaduto a 14 miglia: è chiaro che già questo è un punto importante, che determina una delle più grosse incongruenze». Altro problema, invece, è quello relativo alle regole d’ingaggio: «Sono ferree per tutti i militari. Secondo la nostra ricostruzione l’imbarcazione si è avvicinata al mercantile, le è stato intimato di cambiare rotta, ma è stato ottenuto un netto rifiuto, con l’interruzione di qualsiasi comunicazione via radio. L’escalation dell’ingaggio, a

quando è stata chiamata dalla guardia costiera indiana era già in acque internazionali». Molte rimangono le incongruenze rilevate tra la versione fornita dai militari italiani e quella delle autorità indiane e si aggiunge poi anche il mistero sul perché la nave sia entrata in acque territoriali e perché, nonostante la Marina avesse ordinato di non assecondare le richieste delle autorità indiane, i militari siano scesi a terra.

Natalino Ronzitti, esperto di diritto internazionale e docente all’Università Luiss di Roma, sottolinea a liberal: «I satelliti militari che controllano quel tratto di Oceano Indiano, potranno dirci con esattezza la posizione della nave al momento dell’esplosione dei colpi e ovviamente sono dettagli molto importanti, anzi, fondamentali, perché in base ai risultati le conseguenze giuridicamente cambiano». Uno dei punti da accertare, in effetti, è proprio quello relativo alla posizione del mercantile: ma è un elemento, secondo Ronzitti, che potrebbe diventare addirittura secondario: «Anche se la nave - sostiene - si trovasse in acque territoriali indiane, esiste sempre il diritto di legittima difesa. Questa nave, poi, era in posizione di “passaggio inoffensivo”(cioè l’attraversamento di aree marine in modo continuo e spedito che non pregiudichi la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero, secondo la Convenzione dell’Onu sul

E il professor Ronzitti: «Nel caso in cui fosse dimostrato che la nostra nave era in acque internazionali, si prospetta una violazione del diritto internazionale»

no d’accordo. Perché la giustizia indiana è altrettanto schietta.Tanto più che non si tratta di un contenzioso di giurisprudenza, ma di una distonia nello stabilire dove sia accaduto il fatto. In tal senso brilla l’agitazione del europarlamentare

questo punto, prevede il cosiddetto warning shot, il colpo d’avvertimento, in pratica una serie di spari per attrarre l’attenzione, che si esplodono in acqua, prima dello scontro armato vero e proprio, che, ovviamente, è l’ultima delle opzioni a nostra disposizione. Prima e dopo lo scontro a fuoco - conclude - i nostri, che sono un nucleo militare di protezione, hanno visto questi individui con le armi, poi questa imbarcazione si è allontanata. Anche la nave su cui erano imbarcati i nostri militari ha continuato il suo tragitto,

della Lega Borghezio, il quale ha chiesto l’intervento di Schulzt, in qualità di presidente dell’emiciclo Ue. L’idea avrebbe ragion d’essere, se solo l’India e l’Ue non avessero un rapporto commerciale a prova di bomba. Per l’Italia si

tratta di un dramma da risolvere il prima possibile. Ma la fretta provoca la fuga di indiscrezioni. Intervistato dall’emittente pugliese Telenorba, il cognato di Girone diceva di aver parlato al cellulare con il marò. Questi gli avrebbe espresso il

diritto del mare, ndr) e il diritto di legittima difesa è un diritto naturale che può essere sempre esercitato». C’è poi un punto fondamentale, secondo Ronzitti, che riguarda lo status dei due marò: «Questi militari sono organi dello Stato italiano e quindi godono dell’immunità funzionale; non possono, perciò, essere sottoposti a giurisdizione di un altro Stato. Se, e sottolineo se, fosse stato commesso un illecito, questo deve essere riparato dallo Stato italiano, ma non può essere imputato ai militari. E nel caso in cui fosse dimostrato che la nave era in acque internazionali si prospetta una violazione del diritto internazionale». Come si ripara a un illecito del genere? «Con un risarcimento nei confronti delle vittime: le uccisioni, questo è fuori di dubbio, si sono verificate e quindi bisogna corrispondere agli aventi diritto un risarcimento congruo. Ma deve essere lo Stato a erogarlo».

Nel caso in cui fallisca la diplomazia, poi, si entrerebbe in una controversia internazionale, che potrebbe coinvolgere il tribunale internazionale: «La situazione - conclude Ronzitti - è molto complicata e potrebbe anche finire nelle competenze di tribunali internazionali, della Corte internazionale di Giustizia, che potrebbe adottare misure provvisorie per salvaguardare i diritti delle parti e per i due militari fermati, anche se resta il dubbio che la Corte internazionale abbia giurisdizione in materia. A meno che il tribunale indiano non ritenga di avere esso stesso giurisdizione in merito, e allora la questione potrebbe diventare seria».

sospetto di essere stato coinvolto in un complotto. Domanda: è il caso di far trapelare una considerazione del genere, quando i nostri due militari sono in attesa di un giudizio? Cautela quindi. Per rispetto dei due marò che in questo momento

non se la stanno passando bene. Ma cautela anche perché è necessario restare in linea con il ministero degli Esteri. Il solo, al momento, sul quale si può puntare per quanto riguarda la consapevolezza che con l’India non si scherza.


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grandangolo Terribile incidente in Afghanistan nei pressi di Shindand

Maledizione del Lince. Ancora tre morti nel blindato

Un mezzo si ribalta mentre attraversa un fiume e tre militari restano imprigionati dentro. Le vittime sono: il caporal maggiore capo Francesco Currò, di Messina; il primo caporal maggiore Francesco Paolo Messineo, di Palermo; il primo caporal maggiore Luca Valente, originario della provincia di Lecce. Non è la prima volta che la sorte si accanisce contro i nostri soldati alle prese con questo veicolo corazzato che è diventato quasi il simbolo (drammatico) della nostra spedizione di Pierre Chiartano

ROMA. In Afghanistan si può morire anche per un incidente stradale. È successo a dei soldati italiani. Tre militari sono morti ieri mattina per annegamento a causa di un incidente avvenuto nell’area di Shindad, nella regione ovest dell’Afghanistan. Si tratta di tre uomini appartenenti al 66esimo Reggimento aeromobile «Trieste», di stanza a Forlì, al comando del colonnello Francesco Randacio.

Due dei tre militari morti erano siciliani: il caporalmaggiore Francesco Paolo Messineo, 29 anni, di Termini Imerese (Palermo) e il caporalmaggiore Francesco Currò, di Messina, che avrebbe compiuto 33 anni il prossimo 27 febbraio. La terza vittima era pugliese, si chiamava Luca Valente ed aveva 29 anni: era partito per l’Afghanistan a settembre e a metà del mese prossimo avrebbe ultimato i sei mesi di trasferta. Secondo quanto si è appreso, i militari si stavano recando in soccorso a commilitoni rimasti bloccati in un’area remota. Il mezzo coinvolto è il famoso Lince che tante vite ha salvato in precedenza, grazie a una blindatura eccezionale posta sul pianale del mezzo e a tanti accorgimenti che ne hanno fatto uno dei “gipponi” blindati più sicuri sui teatri di guerra. Ma le

stesse ragioni che ne fanno un mezzo adatto per difendersi dagli ordigni i famigerati Ied improvvisati, (Improvised explosive device), sono la causa di alcuni difetti che ne hanno minato la stabilità in marcia. Non conosciamo ancora la dinamica precisa

Per danneggiare seriamente uno di questi mezzi c’erano voluti 150 chilogrammi di esplosivo e due kamikaze nel settembre del 2009 a Kabul dell’incidente, diventa dunque prematuro esprimere qualsiasi giudizio. Ma rimane il fatto che parlando di sicurezza di un mezzo si deve sempre mediare. Se un veicolo viene progettato per avere un certo peso e dopo

queste caratteristiche cambiano – per giuste esigenze di sicurezza – può succedere che diventi meno stabile e facile ai ribaltamenti. L’incidente avrebbe avuto luogo a seguito del cedimento del terreno a causa della pioggia. Il terreno sarebbe franato, il mezzo si sarebbe capovolto finendo nel letto del fiume che stava attraversando e i militari sarebbero rimasti all’interno per ore. La morte dei tre sarebbe avvenuta per annegamento. Il ferito è stato trasferito in ospedale nella base di Herat in ipotermia, ma non è in pericolo di vita. Naturalmente sono state subito attivate «tutte le attività possibili per informare le famiglie dei militari».

Dal Colle è giunto il cordoglio del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha espresso «i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari dei caduti, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese». Anche il presidente del Consiglio, Mario Monti, che «ha appreso con dolore il grave incidente in Afghanistan nel quale hanno perso la vita tre militari italiani ed esprime il suo cordoglio alle famiglie, partecipando con commozione al loro lutto». «Profondo cordoglio» anche

dal ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola. Le tre vittime sono le prime del 2012 in Afghanistan. L’anno scorso, invece, ne erano morti 10, mentre dal 2004, quando iniziò la missione Isaf nel Paese, l’esercito ha perso complessivamente 48 uomini. Chi scrive ha viaggiato diverse volte sul Vtlm (Veicolo tattico leggero multiruolo) Lince. È un mezzo che dà sicurezza e che ha salvato molte vite umane, grazie alla potente corazzatura sotto il pianale e nelle fiancate. È un veicolo massiccio, può trasportare fino a due tonnellate di equipaggiamento e abbastanza veloce, può raggiungere una velocità massima di 130 chilometri orari, ma sulle strade afgane già viaggiare a 80 chilometri orari è una velocità folle, vista la condizione delle vie carrabile e l’attenzione con cui ci si deve muovere per evitare imboscate e harassment, gli ingaggi a fuoco. L’evoluzione continua delle trappole esplosive ha costretto progettisti e operatori dei mezzi a una gara continua per mantenere la sicurezza del mezzo e degli uomini a bordo.

Mezzi attivi come i jammer, disturbatori elettronici delle frequenze elettriche che spengono ogni tipo di circuito elettrico in un certo raggio dal


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e di cronach

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Dall’altro, le tre vittime dell’incidente di ieri in Afghanistan: Francesco Currò, Francesco Paolo Messineo e Luca Valente

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mezzo, compresi i comandi d’innesco di una bomba, hanno visto una risposta sul fronte degli insorgenti. I congegni d’innesco posti fuori raggio dei jammer tramite delle prolunghe. L’aumento continuo della potenza delle cariche esplosive poste ai bordi delle strade ha costretto a dotare i mezzi di corazzature sempre più potenti e pesanti. Un fatto che giocoforza ha alzato il baricentro del mezzo rendendo un po’ meno stabile durante la marcia e con una certa tendenza al ribaltamento, che prima non aveva. Non sappiamo se ci sia un collegamento con l’incidente di ieri e stando alle prime notizie non sembrerebbe, ma il difetto rimane. Il Lince è molto largo, circa 2 metri e venti, questo gli ha conferito una grande adattabilità sui terreni sconnessi. All’interno gli operatori sono assicurati a cinghie e cinture come nell’abitacolo di un aereo da caccia, la testa è ben protetta contro i colpi laterali e l’obbligo dell’elmetto conferisce una ulteriore protezione alla scatola cranica. Le portiere, oltre i vetri corazzati hanno delle piastre molto pesanti che conferiscono agli sportelli un peso notevole. La sensazione di sicurezza, viaggiando su uno di questi Vtlm, è molto forte. E ripetiamo, hanno salvato tantissime vite fino ad oggi. Quando però si spinge sull’acceleratore la sensazione

è un po’ quella di pattinare sul terreno, specie durante una curva.

Ricordiamo che per danneggiare seriamente uno di questi mezzi c’era voluta una carica esplosiva enorme e due kamikaze. Il 17 settembre 2009, a Kabul, sulla strada che porta dal centro all’aeroporto, nei pressi della rotonda Massud, due Lince in servizio

Il Colle ha subito espresso «solidale partecipazione al dolore dei famigliari dei caduti, interpretando il cordoglio di tutto il Paese» di scorta Isaf-Nato erano stati coinvolti in un attacco compiuto da due attentatori suicidi su un’auto-bomba, una Toyota bianca, carica di circa 150 chilogrammi d’esplosivo. Sei paraca-

dutisti italiani (del 186º Reggimento paracadutisti Folgore) erano rimasti uccisi e 4 feriti, oltre 10 civili morti e 55 feriti. I morti c’erano stati sul primo mezzo investito in pieno dalla micidiale carica e sul secondo era deceduto il militare in ralla, che operava praticamente allo scoperto sul tetto del mezzo. L’incidente di ieri sarebbe avvenuto durante il guado di un fiume una ventina di chilometri a sudovest di Shinddand la grande base sede del task Group center, dove, tra l’altro, vengono addestrati i piloti delle nuova aeronautica afgana. A sud-est c’è il Gulistan, una delle zone calde della provincia di Herat in quanto confina con l’Helmand dove gli americani fanno la guerra vera a insorgenti e talebani e non è lontano il confine col Pakistan. L’incidente non deve neanche far dimenticare l’ottimo lavoro svolto fino ad oggi dalle nostre truppe nell’area occidentale del paese, la prima ad essere investita dalla fase di transizione e quella a cui tutti guardano per un eventuale successo nel processo «l’Afghanistan agli afgani».

E dove gli italiani sono riusciti a giocare un ruolo decisivo sia nelle operazioni militari, che hanno tenuto sotto pressione talebani, insorgenti bande criminali e signori della droga, sia nel passaggio di testimone per il controllo del territorio alle forze di sicurezza locali. Un successo recentemente ratificato anche dalla visita alla base italiana di Camp Arena ad Herat del comandante supremo militare della Nato (Saceur), l’ammiraglio americano James Stavridis avvenuta il 9 febbraio scorso.

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cultura

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L’homo tecnologicus Auto, computer, smartphone, tablet, navigatori Gps. Pensare alla nostra quotidianità senza l’aiuto della tecnica è ormai impossibile. Ma cosa succede quando è lei a “dominare” su di noi? di Giancristiano Desiderio

uomo è antiquato» diceva Gunther Anders (pseudonimo di Gunther Stern) nell’opera della sua vita intitolata proprio così: L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale pubblicato per la prima volta nel 1956, mentre nel 1980 uscì il secondo volume sull’antiquariato umano con il sottotitolo: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale. Nei suoi libri e nella sua “filosofia d’occasione” - forse l’unico vero modo per fare sul serio filosofia, lo sosteneva anche il mio Croce Anders analizzava la «vergogna prometeica» cioè la subalternità dell’uomo, novello Prometeo, al mondo delle macchine da lui stesso creato.

«L’

Quando Anders scriveva, la subalternità dell’uomo alla macchina non era ancora realizzata. Certo, due guerre mondiali non erano passate invano e la potenza della bomba atomica mostrava la capacità dell’uomo di distruggere se stesso con la propria intelligenza. Tuttavia, tra la metà del Novecento e oggi c’è pur sempre una bella differenza: sono tante le macchine che oggi ci sono e ieri non esistevano. Le nuove in-

venzioni e “diavolerie”della tecnica e della scienza hanno aumentato la subalternità e la dipendenza dell’uomo dalle sue invenzioni.

E, come diceva Anders, hanno aumentato il «dislivello» tra l’uomo e i suoi prodotti meccanici ed elettronici che oltrepassano l’umano facendo dell’uomo qualcosa, appunto, di anti-

Lo scorso anno il traffico dati mobile è cresciuto del 133%, più che raddoppiato rispetto al 2010. E per il 2012 è previsto un bis

quato. La profezia di Anders si è completamente realizzata. Leggo da la Repubblica: «Più dispositivi elettronici che esseri umani». Tra i tanti dati che emergono dal Global Mobile Data Traffic Forecast di Cisco, questo è uno dei più emblematici. E si aggiungono a quelli che vedono uscire dai negozi più smartphone che personal computer. Il mondo digitale si sposta insomma dalle scrivanie alle tasche. Con grande soddisfazione di Apple, certificata da Gartner come primo produttore al mondo di smartphone dopo il sorpasso a Samsung. E i suoi 100 milioni di utenti iCloud, con l’ad Tim Cook che dice: «I tablet toglieranno terreno ai Pc».

Non c’erano smartphone né tablet ai tempi di Gunther Anders, ma il mondo si avviava ad essere una Grande Macchina e l’uomo cominciava ad essere qualcosa di antico, vecchio, antiquato, superabile. «Siamo quindi in uno scenario da Terminator, con le macchine che controllano il mondo?» ci si chiede nell’articolo del quotidiano romano. Non proprio ma i numeri sono impressionanti. Parlando con BusinessWeek, il vicepresidente di Cisco Suraj Shetty ha detto: «Il traffico mobile continuerà

ad esplodere, e non si vede all’orizzonte un calo dell’espansione». Ma - aggiungiamo non è solo una questione di mercato o di nuovi mercati. Non riguarda solo i clienti, gli acquirenti, i consumatori.

Riguarda prima di tutto le macchine che hanno la “capacità” di riprodursi. Anche questo aveva previsto Anders: la macchina è ripetibile, standardizzata, riproducibile in esemplari sempre identici e possiede una specie di eternità che invece l’uomo non ha. È un dato di fatto che gli oggetti che “possediamo”sopravvivono a noi stessi. La loro “vita”è più lunga della nostra. Loro sono eterni mentre noi siamo mortali. E conta poco l’osservazione che l’innovazione produce sempre nuovi oggetti e nuove macchine che fanno invecchiare in un colpo solo gli oggetti precedenti e le macchine di ieri perché ciò che conta per davvero è proprio la innovazione continua che è frutto essa stessa della Grande Macchina nella quale viviamo illudendoci di comandarla mentre ne siamo comandati. Ancora, come si usa dire in questi casi, un dato: «Secondo Cisco, nel 2011 il traffico dati mobile è cresciuto del 133 per cento, più che raddoppiato rispetto al 2010. Per quest’anno

è previsto un bis di questa tendenza, e nel 2016 si prevede che sarà 18 volte più grande, con Europa occidentale e Asia orientale a generare metà del traffico, e come principali motori Africa e Medioriente, zone in cui il traffico aumenterà di 36 volte». L’uomo, anzi, gli uomini sono al completo servizio del Marchingegno Mondiale e non ne possono fare a meno. Ancora: «Cisco vede all’origine della crescita la diffusione in aumento esponenziale dei dispositivi mobili. In cinque anni, secondo il report, il 15 per cento degli utenti di dispositivi mobili avrà almeno un apparecchio connesso alla Rete, e il 9 per cento ne avrà addirittura tre o più. Inoltre, se nel 2011 solo lo 0,5 per cento dell’utenza ha utilizzato più di un gigabyte di banda mobile, Cisco prevede che in cinque anni la percentuale salirà al 60 per cento, per un totale di 100 milioni di persone nel 2012. L’associazione per la promozione del wireless Ctia ha certificato che negli Usa, nel 2012 i contratti mobili stipulati hanno superato la popolazione. Un numero che può essere ritenuto un valido tornasole per un trend mondiale».

A questo punto è chiaro: c’è una inversione tra i mezzi e i


cultura fini. Cosa di cui oggi parla un filosofo italiano come Emanuele Severino - tra poco lo introduciamo - ma che l’irregolare Anders aveva previsto già nel suo primo libro: non siamo noi a servirci dei mezzi ma sono i mezzi che si servono di noi. Ci illudiamo di utilizzare i mezzi prodotti per raggiungere degli scopi ma sono invece gli scopi che sono diventati i mezzi per il raggiungimento e l’accrescimento dei mezzi. La Grande Macchina ne sa più di noi e ci illudiamo anche quando pensiamo che la nostra capacità di immaginare sia infinita e più grande di tutto perché invece è vero il contrario: la nostra immaginazione è limitata e finita là dove la capacità dei mezzi di produrre se stessi è più potente e infinita. Il “dislivello” tra la macchina e l’umano è più profondo di quanto non si pensi e immagini. C’è un “salto”. L’uomo appartiene ad un’altra “epoca”. È antiquato.

La Apple supera Samsung. Poi magari Samsung supererà Apple. La casa della mela bianca è il primo produttore al mondo di smartphone e il terzo vendor, passando dal 15.8 per cento del mercato al 23.8 per cento in un anno, 35.46 milioni di smartphone venduti in tre mesi fino a dicembre 2011, Samsung ne ha venduti 34 milioni. Questa è la fotografia scattata da Gartner sul mercato degli smartphone, un testa a testa tra California e Corea, che vede vincere la mela bianca. Il mondo umano è globalmente al servizio dei “suoi” mezzi. «Nell’ultimo quarto del 2011 sono stati venduti 149 milioni di smartphone, il 47.3 in più rispetto all’anno precedente. Il 50.9 per cento sono dispositivi Android, cresciuti del 30.5 per cento. Il terzo incomodo nel mercato è Nokia, appena scesa in campo con i suoi dispositivi Windows Phone, per ora all’1,9 per cento. Ma con la dismissione di Symbian e la riconversione all’Os Microsoft, e un numero di smartphone nuovi in fase di lancio, la situazione evolverà senza dubbio». Certo che evolverà, ma forse noi non siamo più in grado di capire come evolverà. Forse non lo possiamo capire se non facciamo ricorso all’intelligenza delle stesse macchine. Ormai il vero soggetto della storia è la Macchina. Emanuele Severino direbbe che l’organizzazione scientifico-tecnologica del mondo è il nuovo Leviatano che tutti servono nell’illusione di servirsene. Le forze che guidano il mondo dopo il 1989, anno della fine del comunismo sovietico, sono il capitalismo, la democrazia,

21 febbraio 2012 • pagina 15

In queste pagine, alcuni moderni strumenti tecnologici ormai divenuti essenziali per la vita dell’uomo: automobile, computer, smartphone, tablet e navigatori Gps. L’utilizzo della tecnica da parte dell’uomo apre una questione (già ampiamente dibattuta dai filosofi della modernità) se oggi non sia piuttosto la tecnica a dominare l’umanità

la cristianità, l’islam e un misto di capitalismo e comunismo come è venuto fuori in Cina. Su questi temi Severino interviene spesso non solo con libri ma anche con articoli sul Corriere della Sera. L’ultimo “pezzo” intitolato “La decadenza del capitalismo ridotto come una foglia secca” è uscito proprio sabato scorso. Il senso dell’articolo di Severino, che riprende in piccolo il suo pensiero filosofico - anche se Severino sarebbe dell’idea di dire che il “suo” pensiero filosofico in fondo non è “suo”ma è la voce stessa dell’Essere o la «tendenza fondamentale del nostro tempo» - è questo: il capitalismo, vittorioso sul comunismo, vorrebbe dominare il mondo ma è a sua volta sottomesso alla tecnica. E ciò che vale per il capitalismo - tra le “forze” citate la più forte - vale per tutti: «Queste forze si ser-

vono della tecnica; ossia la tecnica è ciò che più serve per realizzare gli scopi, peraltro tra loro contrastanti, che esse intendono realizzare. Nella maggior parte dei Paesi economicamente avanzati, quel che oggi serve per uscire dalla crisi ha lo scopo di rimettere in sesto la forma capitalistica della produzione della ricchezza (una forma che è il quadro, o il contenitore, in cui ricevono senso anche le varie istanze di “rigore”, “equità”,“crescita”). La tecnica

Ci illudiamo di usare i mezzi prodotti per raggiungere degli scopi, ma sono gli stessi mezzi a usare noi. Severino lo dice da anni è ciò che più serve per perpetuare tale forma».

Nessuno può fare a meno della potenza tecnica ma questa necessità di avere dalla propria parte la potenza tecnica genera l’inversione tra mezzi e fini: così sia l’Occidente sia l’Islam pur avendo

fini diversi sono accomunati dalla medesima necessità di appropriarsi della tecnica per poter prevalere sull’altro.

L’inversione tra mezzi e fini, però, non può essere senza conseguenze sugli stessi fini. Il risultato è che il capitalismo non è più capitalismo, l’Islam non è più Islam e tutto diventa qualcosa di diverso da ciò che vorrebbe essere, mentre su tutto e tutti domina la potenza della Tecnica o della Grande Macchina. Se questo è vero in grande, sarà ancora più vero in piccolo. Anche le nostre vite sono trasformate dall’inversione che c’è tra i mezzi, di cui pen-

siamo di essere i padroni e gli “utilizzatori finali”, e i fini della nostra esistenza: la nostra vita ha bisogno per raggiungere i fini che ci prefiggiamo di dotarsi di una serie di mezzi, macchine, innovazioni che più sono indispensabili e più influiscono sugli scopi della vita modificandoli. Pensare la nostra vita - non la vita in generale, ma la nostra quotidianità - senza la tecnica di cui ci serviamo non è più possibile. Abbiamo bisogno dell’auto, del computer, del telefonino e di tutto ciò che c’è nel computer e dall’altra parte del capo del telefonino per continuare a vivere secondo i nostri desideri, i nostri bisogni, le nostre aspettative. Se uno di questi “aggeggi”, per un motivo o per un altro, non funziona, ci troviamo in difficoltà fino a perdere tranquillità, sicurezza, sonno.

Tuttavia, chiediamoci: ma non è stato sempre così? Pensare che il fine del mondo non è ciò che noi illusoriamente riteniamo tale ma il mondo stesso non è, forse, la cosa più vecchia della storia umana? La differenza risiede nella convinzione fallace della modernità ossia che l’uomo possa essere totalmente autonomo e artefice assoluto del proprio destino. Una convinzione che era un mito e che ritenuta vera si “rovesciata” in un altro mito: dalla totale autonomia alla totale schiavitù. Ma mentre picchietto i tasti del mio computer portatile e mi appresto a spedire con una “chiavetta” il “pezzo” al giornale, là fuori, in quel mondo chiamato “realtà”piove come piove da sempre e poi uscirà il sole che da sempre brilla sulle sciagure e gioie umane, qualunque sia il Leviatano che le domina o il Dio che le illumina.


ULTIMAPAGINA

Renato Dulbecco, premio Nobel per la medicina nel 1975, è scomparso ieri. Domani avrebbe compiuto 98 anni

Addio al padre del genoma di Antonella Giuli domani avrebbe compiuto 98 anni. Invece Renato Dulbecco è morto ieri, a Genova, a causa di un attacco cardiaco. A lui, premio Nobel per la Medicina nel 1975, dobbiamo alcune tra le più significative scoperte scientifiche del secolo scorso. Soprattutto in materia di tumori e di genoma umano. Nato a Catanzaro il 22 febbraio del 1914, era figlio di padre ligure impegnato nel Genio Civile. Fin da ragazzino si abitua a girare in lungo e in largo per l’Italia, per lo più al Nord: approdando a Cuneo prima, poi a Torino e infine a Imperia, dove frequenta il liceo De Amicis, la spiaggia e un piccolo osservatorio.

D

Si avvicina così alla scienza, spinto da una grande e irrefrenabile passione soprattutto per la fisica, la chimica e la matematica. Ma il suo obiettivo vero è lei: la medicina. Si iscrive alla facoltà di Torino senza pensarci un secondo di troppo, scegliendo i corsi dell’anatomista Giuseppe Levi. Tra i suoi compagni di corso, nientemeno che Rita Levi Montalcini e Salvador Luria. E la laurea, neanche a dirlo, è con la lode. Due anni dopo, siamo nel 1936, inizia il servizio militare e nel 1939 viene richiamato alle armi, inviato prima in Francia e poi in Urss, sul Don, da dove torna dopo alcuni mesi di ospedale militare. Rientrato in Italia, nel dopoguerra torna a Torino. Divenuto nel frattempo membro del Comitato di liberazione

Suo è il merito di aver capito l’origine di alcune forme di tumore: in contrasto con le idee scientifiche dell’epoca, intuì per primo che erano scatenate da un difetto del dna nazionale della città, entra anche nella giunta popolare guidata dal sindaco Giovanni Roveda. Ma è nel 1947 che la sua vita prende una piega improvvisa quanto proficua: la coraggiosa decisione di trasferirsi negli Stati Uniti d’America lo conduce al gruppo di Luria, che si era trasferito lì sette anni prima. Un viaggio, raccontò lui stesso cinquant’anni dopo, iniziato «con una grande sorpresa»: «Senza saperlo», si ritrovò sulla setssa nave insieme con la ex collega universitaria Rita Levi Montalcini.

UMANO «Facevamo lunghe passeggiate sul ponte parlando del futuro, delle cose che volevamo fare: lei alle sue idee sullo sviluppo embrionale e io alle cellule in vitro per fare un mucchio di cose in fisiologia e medicina». Sono le strade che entrambi vogliono seguire negli Stati Uniti e che portano Dulbecco dritto al California Institute of Technology (CalTech), dove ottiene una cattedra iniziando a occuparsi di biologia a tempo pieno. Ed è proprio qui, nel 1955, che riesce ad isolare il primo mutante del virus della poliomelite, realizzando una scoperta che sarà fondamentale per gli studi di Sabin sul vaccino. Comincia successivamente ad approfondire gli studi oncologici, analizzando virus animali che provocavano forme di alterazione nelle cellule, arrivando a dimostrare che il dna del virus viene incorporato nel materiale genetico cellulare, per cui la cellula subisce una alterazione permanente.

Nel 1960, la scoperta che quindici anni dopo lo porterà a vincere il premio Nobel per la medicina (condiviso con David Baltimore e Howard Temin): dopo meticolose ricerche e studi attentissimi, Dulbecco osserva che i tumori sono indotti da una famiglia di virus che in seguito chiamerà “oncogeni”. Dimostra in

sostanza come questi virus riescano a trasformare una cellula sana in una cellula tumorale. E proprio alle basi genetiche dei tumori, in particolare quelli che colpiscono il seno, Dulbecco dedica gli ultimi anni delle sue ricerche. In quest’ottica partecipa direttamente al Progetto Genoma Umano, il programma internazionale che ha permesso al mondo intero di ottenere la mappa completa del dna dell’uomo.

È infatti per seguire il progetto in prima persona che il Nobel torna in Italia, nel 1987: coordina i 29 gruppi di ricerca impiegati nella parte italiana dell’impresa, lavorando presso l’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche a Milano. L’obiettivo è quello di identificare tutti i geni delle cellule umane e il loro ruolo, in modo da comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro. Ma il progetto, purtroppo, si arena nel 1995 per mancanza di fondi pubblici. La qual cosa spinge Dulbecco a rientrare negli Stati Uniti. In Italia, però, tornerà quattro anni dopo in una veste insolita e ironica: a sorpresa, accetta di presentare il Festival di Sanremo insieme con Fabio Fazio e Laetitia Casta. Ottantacinquenne, arriva sul palco dell’Ariston con una frase di Galileo Galilei: «Sono venuto qui per fare esperienze».


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