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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 3 MARZO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A Bruxelles via libera alle nuove norme di controllo: ora dovranno essere ratificate da almeno 12 stati
Europa ok, Val di Susa ko L’Ue firma per la crescita. I No-tav vorrebbero isolare l’Italia L’Unione vara il fiscal compact per difendersi dalla speculazione e aprire la stagione del rilancio. Ma il nostro governo deve ancora fare i conti con la rivolta contro l’integrazione delle infrastrutture UNA NUOVA IDEOLOGIA
Per la prima volta il premier è ottimista
Continuano le proteste in tutta Italia
Monti: «Dopo due anni si torna a parlare di sviluppo» Venticinque Paesi siglano il Patto di bilancio
Luca Abbà, il militante folgorato, è fuori pericolo. Polemica su Di Pietro che chiede una moratoria
Il dibattito sulla riforma
L’Italia è più grande del vecchio bipolarismo
L’accordo vincola gli aiuti a norme molto rigide sulle economie nazionali. Intanto l’Istat conferma la frenata del nostro Pil: nel 2011 è cresciuto solo dello 0,4%. Il rapporto con il debito al 3,9%
Ieri è stato il giorno delle battaglie politiche. È scontro tra l’ex pm e Cicchitto: «Sospendere i lavori sarebbe una resa per lo Stato» Il governo ribadisce: «La linea non deve cambiare»
Marco Scotti • pagina 2
Franco Insardà • pagina 4
n Europa non si discute più soltanto di crisi finanziaria e ritorna a far capolino l’argomento della crescita. Un tempo si diceva “sviluppo”, oggi si preferisce “crescita”. Ma non è una questione di parole.
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a pagina 4
TROPPE AMBIGUITÀ
Caro Bersani, il dialogo c’è già stato. Ora basta! di Enrico Cisnetto a vicenda Tav è molto più emblematica delle condizioni di salute di questa nostra Italia di quanto non si pensi. E a renderla tale non è solo il lato socio-economico bensì la dimensione politica.
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Putin, trionfo o vittoria di Pirro? Lo Zar deve contare i voti per sapere quanto potere gli rimane di Enrico Singer
otrebbe sembrare prematuro per un verso, o già datato per altro verso, un dibattito sulle strategie di fondo di una nuova legge elettorale. Sarebbe per un verso prematuro parlare di legge elettorale prima delle riforme costituzionali; sarebbe per altro verso già datato parlare ancora di un vecchio bipolarismo all’indomani della nascita del governo Monti che certamente bipolarista non è. a pagina 8
a pagina 20
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di Giancristiano Desiderio
La Russia alle urne. Il risultato è scontato, resta da capire la forza dell’opposizione
anca ancora un giorno al momento in cui saranno aperte le urne nella sterminata Federazione russa, ma tutti sanno molto bene quello che dovranno fare dopo, quando tra la notte di domenica e lunedì arriveranno i risultati delle elezioni con il loro verdetto scontato. Vladimir Putin ha già preparato il discorso della vittoria che lo consacrerà presidente per la terza volta, dopo i cinque anni passati a guidare il Paese nei panni di primo ministro in condominio con Dmitri Medvedev. L’opposizione ha prenotato la piazza Pushkin dove vorrebbe anche piantare una tendopoli per dare vita nel cuore di Mosca a una protesta a oltranza contro un sistema di potere che si è fatto regime. Le cancellerie occidentali hanno pronti i messaggi che intrecceranno le inevitabili congratulazioni all’invito a rispettare il dissenso, a indagare sugli eventuali brogli e a compiere passi concreti verso una democrazia politica che è ancora lontana.
di Francesco D’Onofrio
Il “notavismo”: malattia senile del provincialismo
M
EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
44 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
A Bruxelles Van Rompuy, riconfermato presidente, spiega che «la riforma è indispensabile per ristabilire la fiducia dei mercati»
«Ricominciamo a correre» L’Ue approva il Patto di bilancio. Al di là della soddisfazione di rito, per la prima volta torna l’ottimismo. Monti: «È tempo di sviluppo» di Marco Scotti vent’anni di distanza dai trattati di Maastricht, un nuovo accordo prova a mettere ordine nei conti dei paesi dell’Unione Europea. Ieri mattina a Bruxelles, 25 paesi su 27 hanno firmato il nuovo “Fiscal compact”, un documento nato dalla volontà di impedire un nuovo caso Grecia nel Vecchio Continente. I due paesi che hanno deciso di non aderire sono Repubblica Ceca e Gran Bretagna, cui si aggiunge l’Irlanda che vede l’adesione messa in dubbio dal referendum che verrà indetto a breve. Il “Fiscal compact” sarà vincolante non solo per i paesi che già fanno parte dell’Ue, ma anche di coloro che (è il caso della Serbia) vi entreranno in futuro.
A
Di che cosa si tratta? Prima di tutto, questo accordo prevede la necessità di una stretta importante sulla finanza pubblica, che dovrà raggiungere un rapporto tra il deficit e il pil dello 0,5% all’anno nel medio periodo – potranno derogare a arrivando questa soglia, all’1%, solo i paesi che abbiano un rapporto tra debito e pil del 60%. A ciò va aggiunta la
necessità di ridurre il debito pubblico fino al 60% della ricchezza prodotta (come già richiesto dai trattati di Maastricht) al ritmo di un ventesimo all’anno per la parte che eccede la quota. Obiettivo ambizioso non solo per la Grecia, che punta al 150% nei prossimi anni, ma anche per l’Italia, che, secondo i dati Istat diramati ieri, ha incrementato questo rapporto anche l’anno scorso, portandolo al 120,1%. Il mantenimento dei conti in ordine sarà condizione imprescindibile per accedere ai prestiti dell’Esm (il fondo di stabilità permanente che verrà a breve ratificato). Il presidente Van Rompuy, rieletto ieri all’unanimità per altri due anni e mezzo, si è detto fiducioso che questo meccanismo di maggiore severità getterà le basi per una rinascita dell’Europa che porterà in dote maggiore occupazione e crescita delle economie nazionali. In modo che gli investitori tornino, finalmente, a scommettere sul Vecchio Continente, ingenerando un circolo virtuoso tra mondo finanziario ed economie reali. Sarà la Corte di Giustizia
Europea che si impegnerà a comminare le sanzioni per quei paesi che non riescano a rispettare i parametri del “Fiscal compact”. «Chi firma que-
sto accordo – ha ricordato ieri Van Rompuy – si impegna a rispettarlo inserendo questi parametri nella propria Costituzione, in modo da renderlo vincolante indipendentemente dai governi».
Anche Mario Monti ha voluto esprimere piena soddisfazione per l’accordo raggiunto, facendo seguito alle dichiarazioni rese alla vigilia della ratifica dell’accordo, in cui si era detto ottimista per l’Italia e per l’Europa, guardando con favore anche al lessico impiegato nel consiglio di Bruxelles: per la prima volta sembra scomparsa dalla bocca dei leader continentali la parola “crisi” che ci accompagna ormai dal 2008. Dichiarazioni cui hanno fatto eco sia Nicolas Sarkozy, che ha elogiato ancora una volta il lavoro del premier italiano, sia Angela Merkel, che ha però ribadito come la situazione sia ancora pericolosa e che non si può dire che l’Europa sia fuori dal tunnel. Maggiore attenzione meritano le affermazio-
ni che Mario Monti ha reso nella conferenza stampa che si è tenuta al termine della ratifica dell’accordo sul “Fiscal compact”. Dopo aver espresso apprezzamento per il lavoro portato avanti da Van Rompuy, Monti ha dichiarato che «fa piacere che per la prima volta da due anni in qua il consiglio europeo non sia stato dominato dalla crisi finanziaria ma, finalmente, è stato dedicato alla crescita e all’occupazione». A chi gli faceva notare l’eccessivo “spread” (tanto per restare in tema) tra l’ottimismo mostrato dai leader europei e la situazione continentale, Monti ha risposto che «non abbiamo parlato con ottimismo, ma guardando in faccia i fenomeni come occupazione e posti di lavoro, senza impiegare sigle che sembrano esami medici». Non rinuncia, Monti, a quel suo humour che a volte si insinua fra le pieghe del suo rigore professorale. Un momento importante delle dichiarazioni del premier è stato dedicato all’evasione fiscale, tema caldo su cui il governo ha puntato parecchie fiche. Non è solo un problema italiano (anche se nel nostro paese il fenomeno si verifica in misura assai supe-
Valsusa, Europa
3 marzo 2012 • pagina 3
La frenata del Pil: il 2011 chiude a +0,4 La fotografia annuale dell’Istat: le famiglie spendono sempre di meno, lo Stato non investe di Francesco Lo Dico
ROMA. L’Europa dà via libera al fiscal compact, il nuovo patto di bilancio che vincola i Paesi dell’Unione a severe politiche di bilancio. Ma per ora l’Italia resta al palo. La fotografia scattata dall’Istat ritrae un Paese incapace di crescere, strangolato da un debito elevato, e con i conti in disordine a causa dei tassi d’interesse astronomici che è costretta a pagare sul disavanzo. Che oscurano quello che altrimenti rappresenterebbe un avanzo primario di oltre 15 miliardi di euro. Ma c’è di più. Perché in un Paese dove la pressione fiscale è al 42 per cento, e nuovo corposi balzelli e tagli sono appena stati introdotti, la nostra economia non soltanto non progredisce, ma ha anche innescato la retromarcia perché le famiglie non spendono e spenderanno sempre meno rispetto al 2011.
mercato è stato pari a 1.580.220 milioni di euro correnti, con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente, ma l’aumento dello stesso in volume è stata pari allo 0,4%. Un risultato molto inferiore a quello registrato dai maggiori Paesi industrializzati: il volume del Pil è aumentato nel Regno Unito dello 0,9 per cento, in Francia e negli Stati Uniti dell’1,7 e in Germania del 3 per cento. Ma come si diceva, grossa parte della mancata crescita dipende dalla spesa delle famiglie, salita
Lo scorso anno, il rapporto deficit- Pil ha registrato il 3,9 per cento rispetto al 4,6 del 2010. E anche l’amministrazione pubblica ha potuto contare su un avanzo primario dell’1 per cento del Pil, dopo il pareggio del 2010. Eppure l’Istat rileva che il rapporto debito-Pil è salito ancora, dal 118,7 per cento al 120,1: il dato più elevato dal 1996 a questa parte. A testimonianza di quanto rimorda la crisi e l’alta tassazione, basta osservare che nello 0,4 per cento di crescita del Pil 2011, ha inciso positivamente per 1,4 punti la domanda estera netta. Mentre la domanda nazionale segna un contributo negativo dello 0,4 per cento. L’istituto statistico nazionale annota inoltre che nel 2011 il Pil ai prezzi di
solo dello 0,2 per cento a fronte di quella della Pubblica amministrazione calata quasi di un punto percentuale. E sono calati bruscamente gli investimenti fissi lordi, scesi dell’1,9%, mentre gli oggetti di valore si sono attestati su un +1,1%, l’Export del 5,6%. In lieve crescita l’industria, +1,2%, e i servizi, +0,8%, mentre crollano le costruzioni con una flessione del 3,5 per cento e l’agricoltura che segna un meno 0,5%. E tuttavia il consumo di beni è diminuito dello 0,9 per cento, con un dato molto significativo per quanto riguarda i generi alimentari: in calo dell1,3 per cento. Sul fronte della pressione fiscale, i dati Istat dicono che nel 2011 è lievemente scesa, attestandosi al
riore rispetto ad altri paesi Ue), tanto che Monti sostiene la necessità di accrescere la lotta contro l’elusione in modo continentale, coinvolgendo di conseguenza anche la Svizzera, da sempre rifugio di enormi quantità di denaro. Infine, prima di ripartire alla volta di Roma, Monti non ha potuto fare a meno di notare come con il “Fiscal compact” siano stati fatti importanti passi in avanti relativamente alla governance economica europea. Le prospettive sembrano rosee, eppure ci sono alcune criticità che non sono ancora state del tutto chiarite.
Prima di tutto, proprio ieri sono stati diramati dall’Istat i conti 2011 del nostro Paese: a dispetto del cauto ottimismo che aleggia in questi giorni sull’Italia – con lo spread che sembra poter tornare final-
Il premio di consolazione arriva sul fronte dello spread che scende a quota 308,2 punti: superati i titoli spagnoli
mente sotto quota 300 e con l’indice della Borsa di Milano che ha nuovamente raggiunto la soglia dei 17.000 punti (livello sfiorato a ottobre prima della crisi che aveva portato alle dimissioni del governo Berlusconi) – i dati sono da allarme arancione, se non proprio rosso. Il pil, che era dato in aumento di uno 0,6%, è in realtà salito dello 0,4%; se bisogna guardare con favore alla diminuzione del rapporto tra deficit e pil (3,9%), non si può non essere allarmati dall’ennesimo incremento del rapporto tra ricchezza prodotta e debito: 120,1%, record dal 1996 (quando era al 120,2%). Con una disoccupazione in aumento al 9,2% (la più alta dal 2009) e i consumi sostanzialmente fermi, la prospettiva di ulteriori riduzioni della spesa pubblica (o aumento delle tasse) crea non poche preoccupazioni. Le
42,5 per cento del Pil rispetto al 42,6 che era stato registrato nel 2010. Inoltre le uscite complessive ammontano nel 2011 al 50,5% del Pil, rispetto al 51,2% dell’anno precedente, con le spese correnti al 47,5 del Prodotto interno lordo. Va annotato inoltre che sono cresciute del due per cento, calcola l’Istat, le imposte indirette a causa dell’aumento del gettito dell’Iva e delle imposte sugli oli minerali e gas metano. In risultato che rende irrilevante il calo dello 0,1 delle imposte dirette, generato dall’effetto della contrazione dell’Irpef.
Non a caso, il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha avvisato in conferenza stampa dopo la firma del fiscal compact, che «trovata l’intesa che questa mattina si è tradotta in 25 firme, oggi l’Europa si avvia a definire quello che potremmo chiamare un Economic Compact, un patto per le riforme economiche a beneficio dei cittadini europei». Tradotto: accontentata la Merkel, è ora di pensare a come affrontare concretamente il disastro sociale europeo, e italiano nella fattispecie «Siamo d’accordo», ha sottolineato il professore, «che la strategia responsabile e giusta combina il consolidamento di bilancio con riforme per aumentare il potenziale di crescita e di occupazione con l’attenzione speciale a quelle misure che possono avere un effetto più immediato a favore dei giovani e dell’occupazione femminile». La famosa fase due, annunciata anche in Italia. «Se vogliamo veramente avere un rafforzamento della governance dell’Unione economica
misure volte a diminuire il rapporto tra deficit e pil sono, per loro natura, recessive, proprio perché non intervengono sulla ricchezza prodotta. Mentre la necessità di ridurre il debito, rimasto sostanzialmente inalterato dal 1992 ad oggi nonostante la dismissione di patri-
e monetaria, non basta avere un rafforzamento degli aspetti di fiscalità», precisa il premier, «ma occorre avere anche un’adeguata governance dell’Unione economica in quanto tale al di là degli aspetti monetari e fiscali».
Di fronte all’intesa sul fiscal compact, i mercati europei sembrano rimanere tiepidi. Anche se per l’Italia arriva un piccolo premio di consolazione. In leggera controtendenza Piazza Affari segna un rialzo dello 0,5 per cento. Non in vena di festeggiamenti Londra e Francoforte, che perdono lo 0,2 per cento. Un po’ meglio Parigi che guadagna invece lo 0,2. Dopo una lieva risalita a 321 punti, arrivano buone notizie anche sul fronte del differenziale tra Btp e Bund, che si adagia a quota 308,2 punti e supera la performance dei titoli spagnoli (309,2), dopo un lungo periodo che aveva visto le nostre obbligazioni arrivare a una forbice massima di 150 punti di distacco dai buenos spagnoli. Poco gratificanti risultano invece le ultime performance tedesche, con le vendite al dettaglio che nel mese di gennaio perdono un secco 1,6% su base mensile. Un dato peggiore delle attese, quantificate in un declino dello 0,3%.
grava sulle casse dell’Erario per ulteriori 70 miliardi all’anno di interessi passivi. Ma se si sceglierà di perseguire solo la strada del rigore e del pareggio di bilancio, i rischi di un’Italia a crescita zero rimangono altissimi anche per il futuro a medio termine.
Il vero limite dell’accordo firmato ieri è che lascia in sospeso i meccanismi di sanzione da infliggere a chi dovesse non rispettare i patti: le «procedure di rimprovero» non bastano più monio pubblico, può essere raggiunto da un impegno continuo e costante di questo esecutivo (ma anche di quelli che lo seguiranno). Se, per esempio, si riuscissero a vendere i beni immobili che il Tesoro stima in circa 700 miliardi di euro, si potrebbe iniziare a diminuire l’entità del debito, che
Secondo problema: quali meccanismi sanzionatori verranno applicati per coloro che non dovessero rispettare il “Fiscal compact”pur avendolo ratificato? Impiegare ancora una volta l’inutile “moral suasion” – ovvero una sorta di “rimprovero” a livello comunitario – sarebbe un clamoroso auto goal,
che l’Europa pagherebbe a carissimo prezzo. È necessario quindi prevedere severe punizioni che tutelino i membri dell’Ue e inibiscano la possibilità di «vivere al di sopra delle proprie possibilità».
In fine, prendendo spunto dalle dichiarazioni di Van Rompuy, che ha definito il “Fiscal compact” la prova definitiva dell’irreversibilità dell’euro, siamo davvero sicuri che, senza un’unione politica oltre che economica, non si assisterà a nuove “scommesse” da parte dei mercati contro la sopravvivenza dell’euro? E la Germania riuscirà a “scendere dalla cattedra” e a sentirsi membro alla stessa stregua degli altri, o continuerà a sentirsi “professoressa d’Europa”? Domande dalla cui risposta dipende il futuro del continente unito.
pagina 4 • 3 marzo 2012
Valsusa, Europa
Il movimento che sta infiammando il Piemonte appare sempre più lontano dall’idea di “solidarietà” che l’Ue cerca di recuperare
Malinconia del Notavismo L’unico nostro destino positivo è l’Europa. Invece i No-Tav vogliono isolarci: la loro ideologia è la malattia senile del provincialismo di Giancristiano Desiderio n Europa non si discute più soltanto di crisi finanziaria e ritorna a far capolino l’argomento della crescita. Un tempo si diceva “sviluppo” mentre oggi si preferisce “crescita”. Ma non è una questione di parole - tutt’altro - e ci siamo intesi. Solo che, proprio quando si ritorna a parlare di crescita per poterla realizzare, dopo aver tanto penato per cercare di non colare a picco con la crisi finanziaria internazionale, ecco che in Italia si parla - e in verità si fa anche a botte intorno a questi temi - di “decrescita”. Il movimento No-Tav pur opponendosi all’Alta velocità si mostra velocissimo ad occupare strade, autostrade, stazioni ferroviarie e, soprattutto, a far precipitare il Paese in un clima anni Settanta, non solo per gli scontri con la polizia e l’odio mostrato verso lo Stato e chi lo rappresenta ma anche per gli argomenti ideologici che si usano contro, appunto, la crescita, il mercato, la tecnologia che sono visti tutti come strumenti diabolici nelle mani di chi - chi? - ha in mano la volontà di sopraffazione del capitalismo. Insomma, per fare sintesi: da una parte c’è l’Europa e dall’altra lo spirito antimoderno dei No -Tav.
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Mario Monti che è tornato soddisfatto dal vertice europeo a Bruxelles, proprio perché è ritornato finalmente il tema della crescita e in qualche modo si è voltata pagina, dovrà tener conto inevitabilmente dell’antimodernità del “notavismo” che è un movimento anfibio e trasversale, che non ha origini solo a sinistra ma anche a destra, che pesca le sue “ragioni” non solo nello scasso e nelle rottamazioni dell’ideologia comunista sconfitta dalla Storia e un po’ da tutto ma anche nel tradizionalismo della destra e perfino nel leghismo. Che cos’è, infatti, quella retorica che si sviluppa intorno al “territorio” e alla sua “comunità” che è considerata la sola depositaria dei destini di una regione, di una valle, di una montagna, di una pianura? La maggioranza di
Vertice straordinario ieri a Palazzo Chigi sulla Torino-Lione. Fuori pericolo Luca Abbà, leader dei No Tav
In campo il governo: l’opera è fondamentale e si farà di Franco Insardà
ROMA. Pugno di ferro contro i violenti, dialogo con chi vuole difendere la propria terra. Mario Monti non a caso ha scelto Bruxelles per sostenere la bontà dell’Alta velocità e garantire che l’opera si farà. Al suo rientro a Roma il premier ha preso parte al vertice straordinario, convocato per affrontare i temi, anche sotto l’aspetto dell’ordine pubblico, legati alla costruzione della Tav in Val di Susa, insieme con i ministri dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, dell’Ambiente Corrado Clini e delle Infrastrutture, Corrado Passera. All’incontro era presente il presidente dell’Osservatorio sulla Torino-Lione Mario Virano. Ieri mattina il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri è stata chiarissima. «Margini non ce ne sono: l’opera è di valore fondamentale per il Paese, e non solo per il Piemonte e fa parte di impegni presi con il l’Europa. Non ci sono spazi. L’opera è stata meditata e partecipata. Ci sono stati incontri con la popolazione e fatte importanti modifiche al progetto: siamo ad un punto di non ritorno». Sulla stessa linea il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, che ha ribadito: «Il governo ha già preso una posizione e nel rigoroso rispetto dell’ambiente farà le infrastrutture che servono»
infrastrutturale, condannando l’Italia all’arretratezza economica e a rimanere fuori dalle vie di comunicazione europee. Senza infrastrutture come la Tav il Paese non può salvarsi e non servono a nulla, dunque, i sacrifici e le manovre economiche». Mentre Antonio Di Pietro lancia la proposta di una moratoria per la Tav che ha scatenato la reazione, tra gli altri, di Fabrizio Cicchitto: «È una proposta irresponsabile che cede agli estremisti e agli eversivi. Sarebbe una resa dello Stato. Bloccare tutto sarebbe una vittoria delle forze destabilizzanti, un modo per darla vinta a chi gioca al tanto peggio tanto meglio e sarebbe un altro segno di distacco dell’Italia dall’Europa».
L’importanza dell’opera è stata sottolineata dal segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ospite della rubrica “Un caffe con...” di SkyTg24, secondo il quale la Tav è «importantissima per l’Italia e per l’Europa, non possiamo permetterci di restare fuori. Sulla gestione delle proteste sosteniamo la linea che il governo sta portando avanti. Peraltro la gran parte della popolazione che vive in quella zona è favorevole all’opera. Ci sono frange estreme che si sono infiltrate nel movimento pacifico e che vanno isolate. Le leggi ci sono e vanno fatte rispettare». L’azione dei manifestanti è stata stigmatizzata da Mauro Libè, responsabile degli enti locali dell’Udc: «È intollerabile la presenza in giro per il territorio nazionale di una vera e propria banda di violenti provocatori, che blocca treni e stazioni e insulta le forze dell’ordine, a cui vanno il nostro ringraziamento e la nostra solidarietà. I no Tav sono i protagonisti di una protesta fuori dal tempo, che vorrebbe impedire lo sviluppo del nostro sistema
qualche mese potrà iniziare la riabilitazione. Dopo le proteste di tutta Italia della giornata precedente ieri c’è da registrare soltanto la breve occupazione dei binari nella stazione ferroviaria di Rogoredo, all’arrivo di un treno Frecciarossa proveniente da Torino e diretto a Roma. Mentre oggi Roma si prepara a un’altra giornata difficile con ben tre manifestazioni. Scendono, infatti, in piazza, in tre distinti cortei i lavoratori del settore delle costruzioni, il popolo della Destra di Storace e collettivi No Tav.
Di Pietro chiede una moratoria per discutere ancora. Cicchitto: «Sarebbe una resa per lo Stato»
Bu o n e n o t i z i e a r r i v a n o sullo stato di salute di Luca Abbà, il 37enne rimasto folgorato dopo essere salito per protesta su un traliccio dell’alta tensione. Sull’uomo, ancora ricoverato al Cto di Torino, il direttore del reparto di rianimazione, Maurizio Berardino, ha detto che è fuori pericolo di vita, anche se potrà avere inizialmente problemi motori e tra
un luogo avrebbe il diritto di fare o non fare, di acconsentire o di rifiutare e siccome ogni minoranza è una maggioranza in casa propria ne deriva che ogni discorso nazionale è bello e andato. Il “leghismo” coniugato con il “notavismo” segna la fine della politica nazionale e la fine della politica nazionale segna la fine dell’Europa che esiste solo se esistono le nazioni che la formano e compongono geograficamente, storicamente, economicamente. Questo “senso comune” o conformismo ideologico del movimento No Tav tocca il suo punto più alto proprio quando in Europa si firma il patto di bilancio e ci si avvia a passare dalla finanza all’economia. Se prima la crescita era una necessità, ora appare come una possibilità. Ma la ripresa dell’economia reale può avvenire solo con il vincolo del bilancio dell’Europa delle nazioni - chiamiamola così la Ue - visto che l’idea che ognuno faccia causa a sé, una volta che i destini e i bilanci e le monete sono state unificate, si è rivelata impraticabile e pericolosa. La novità consiste proprio in questo: nella corrispondenza che sempre più si deve cercare tra Europa e nazioni. Le due realtà non possono essere pensate divise e in contrasto: l’Europa non può esistere senza le nazioni e le nazioni non possono farcela senza l’Europa. La crisi finanziaria dalla quale stiamo uscendo forse da qui a un po’ ci apparirà come la crisi dell’Europa finanzia-
Due studiosi di sinistra riflettono sul “movimento”. Con giudizi opposti
«I profeti antimoderni e i germi dell’eversione» De Giovanni: «Sono chiusi anche nel linguaggio, perciò pericolosi». Ma Revelli: «Inevitabile che volino le pietre» di Errico Novi
ROMA. Chi è davvero fuori dalla realtà? Chi parla un linguaggio da loop spazio-temporale? Le opinioni sono diverse. C’è quella di un sociologo che ha studiato a lungo i processi di globalizzazione come Marco Revelli, peraltro fisicamente vicino al focolaio della Val di Susa in quanto torinese, convinto che sia la politica ad aver “perso il treno”. Perché, dice a liberal, «quel progetto della Tav è vecchio di vent’anni, proviene dal Novecento e da certe sue visioni ideologiche, quelle per cui deve esserci una crescita sempre esponenziale». Adesso, puntualizza Revelli, «i volumi di traffico sono precipitati rispetto ai dati di venti-trent’anni fa». La Tav dunque sarà pure un prodigio di tecnologia ma è anacronistica, dice lo studioso dell’università di Torino. C’è però chi, come Biagio de Giovanni, viene sì da sinistra ma non ha difficoltà nel riconoscere nella protesta e nel linguaggio stesso dei No-Tav la vera sfasatura: «Parliamo di movimenti che hanno soprattutto una natura conservativa. È come se la risposta alla globalizzazione avesse trovato forma nel no a tutti i prodotti della modernità, con grande enfasi su multinazionali, poteri tecnocratici e così via». E poiché, dice de Giovanni, a simili visioni corrisponde anche un linguaggio tipicamente conservativo, «si ha l’impressione generale di movimenti molto chiusi, assolutamente non dialogici, e quindi dotati di un potenziale eversivo davvero preoccupante».
ria e delle banche - della “finanzia creativa” - che dobbiamo imparare a superare nelle sue stesse istituzioni per ancorarla all’economia reale del “vecchio continente” e al suo spirito nazionale che nonostante tutto continua a esistere e ad avere un valore basilare.
Il “notavismo” rifiuta tanto la nazione quanto l’Unione europea. Ma non si ferma qui, perché dice no anche alla modernità, alla tecnica, alla crescita, al mercato e, poggiandosi sullo stesso benessere di cui tutti siamo figli, contempla un piccolo mondo antico o il mito di un’Arcadia in cui la natura non è una matrigna che distrugge i suoi stessi figli ma una tenera madre che dispensa latte e miele in abbondanza per i suoi “buoni selvaggi”. La civiltà, dicono questi ultimi nipotini di Rousseau, corrompe e distrugge quanto di bello c’è al mondo. La vera crescita per il l’uomo di No-Tav è la decrescita e se tutta la storia dell’umanità si può vedere come lo sforzo e il tentativo, sempre ricorrente, di uscire dalla Caverna, l’uomo di No Tav pensa che sia giunto il momento di invertire
la rotta e innestare la retromarcia per far ritorno nella Caverna o nella natura incontaminata senza le offese della tecnica. Anche la crisi finanziaria non è analizzata secondo i suoi principi e la sua storia ed è vista, invece, come una crisi del sistema che annuncia la sua fine o il suo “capovolgimento”. Sembra quasi di sentire Marx con la sua caduta tendenziale del saggio di profitto. Come se la storia non ci avesse insegnato, invece, che i problemi si ripresentano sempre nuovi e l’idea di dare un’interpretazione complessiva degli avvenimenti appartiene al campo delle teorie metafisiche e non certo ai buoni propositi che muovono le nostre azioni di ogni giorno e alla morale che è fatta di lotta, fatica e responsabilità singola e poi accada quel che accada visto che il Mondo - per una volta con la maiuscola - ne sa più di noi.
Con il popolo No Tav bisognerà discutere con parole di verità e a farlo dovrebbe essere la politica che, invece, posta dinanzi a problemi storici o di senso appare come disarmata e gaglioffa.
Non sono dunque solo parlamentari e giornali di centrodestra, o moderati, a sollevare l’allarme. Anche un filosofo dalla storia piuttosto ben incorniciata in quella del marxismo e del comunismo italiani, come de Giovanni, non sottovaluta i segnali provenienti dal fronte No-Tav: «Colpisce il segno conservativo riconoscibile anche negli stilemi. Colpisce dunque, in questi movimenti, l’atteggiamento di netta chiusura al dialogo. E l’impressione è che se si andasse oltre un certo limite, la degenerazione eversiva potrebbe assolutamente verificarsi». Da una parte, osserva il filosofo napoletano, che è stato rettore dell’università Orientale ed europarlamentare del Pci, «nelle fasi in cui le crisi si acutizzano, i movimenti conoscono processi di disgregazione. Le crisi – e qui de Giovanni incrocia sorprendentemente il pensiero di Tocqueville – disgregano anziché aggregare, perché spingono a difendere il proprio posto di lavoro, costringono a fare i conti con le difficoltà individuali. In effetti il movimento No-Global è fiorito quando la crisi ancora non c’era. Adesso che è scoppiata, c’è il riflesso di questo ripiegare nel soggettivo, di cui si diceva. C’è una fisiologia socio-politologica. Dall’altra parte la specificazione dei motivi di protesta soddisfa un ulteriore aspetto, ovvero la risposta antimoderna alla globalizzazione. Il movimento No-Global, negli anni, è andato in questa direzione. Non vogliono la Tav perché, come ho sentito dire a Latouche venuto a Napoli per un ciclo di conferenze, si confida nell’idea che la globalizzazione sia una patologia da cu-
rare con la decrescita». E per questo de Giovanni, che si definisce senza esitazioni «pro-Tav», teme che da Siviglia a Kiev si arriverà in linea diretta, «eccezion fatta per quei 12 chilometri di intercity a cui saremo costretti in Italia...».
Revelli invece vede il vecchio nei talk show in cui «si risponde che a chiederci la Tav è l’Europa». Non c’è alcun nostalgismo ideologico, secondo il sociologo di Torino, «ci sono invece persone che vivono in Val di Susa, casalinghe, agricoltori, che parlano non il linguaggio degli anni Settanta ma un idioma molto semplice, quello della terra, delle coltivazioni, della casa dei padri». Indietro tutta ci finiscono quei partiti «con le cooperative piene di appalti in Val di Susa» e quelle istituzioni, italiane ed europee, «incapaci di leggere i numeri: e i numeri», insiste Revelli, «raccontano di un
Il sociologo torinese trova i colpevoli nelle «istituzioni ostinate sul progetto nonostante il crollo dei traffici fra Italia e Francia: chi vive lì si sente preso in giro»
traffico merci crollato terribilmente rispetto all’epoca del progetto, ed è anche naturale che sia così. Ma chi davvero può credere che oggi gli scambi tra Italia e Francia siano ancora quelli del ferro e dell’acciaio? Chi è che ha ancora in mente l’economia delle ferriere? Non siamo nel tempo in cui gli scambi avvengono sul piano delle idee, della conoscenza? Non siamo nell’epoca delle reti?». Ma non c’è anche una curiosa risposta iperlocalista alla globalizzazione, almeno in quelle componenti dei No-Tav prive di legame con la Valle? «Se uno vede che da anni la Val di Susa è presa in giro si incazza, che sia spaesato o globalizzato. Certo, nel tempo della globalizzazione se sei Marchionne ti sposti in jet e vai a Detroit, se non sei Marchionne resti nel tuo lembo di terra e ti incazzi lì». Prevale il dato, secondo Revelli, di un’ostinazione anacronistica: «L’ultima volta che il Parlamento ha votato sulla Tav risale al 2002. Più che essere effetto dello spaesamento, la risposta deriva dall’assurdo. Ed è difficile stupirsi se, dopo vent’anni di prese in giro, vola qualche pietra». E il linguaggio degli anni Settanta? «Andate lì, vedrete che la cosa riguarda poche persone. Poi certo, c’è chi protesta per la Tav in quanto questa rinvia all’ideologia novecentesca dell crescita. essa sì tardiva». Ciascuno giudichi da sé chi è davvero fuori tempo.
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Valsusa, Europa
Anche il linguaggio ha il suo peso nel definire una ”battaglia” che sempre più chiaramente appare di retroguardia
I nipotini dell’Autonomia «La non violenza non paga; la nostra è una risposta alle truppe di occupazione; blocchiamo tutto, dappertutto»: sono alcuni degli slogan in voga nel movimento. Che ricordano molto da vicino i pericolosi anni Settanta di Maurizio Stefanini hiamiamoli i nipotini dell’Autonomia. Nel senso che c’è poco di nuovo nel linguaggio dei No-Tav duri e puri. La prova? Facciamo un rapido elenco del loro sciocchezzaio. «Rogliatti è un ottimo professionista, un testimone vero, correttissimo. Se tutte le aggressioni di questi giorni nei confronti della stampa sono una idiozia strategica, quella nei confronti di Stefano è una porcata umana. Spero che il movimento tutto faccia le scuse a Stefano per quanto è accaduto. Se i testimoni come lui abbandonano la valle, si è persa la lotta per la ragione, per la politica prima ancora che contro la Tav».
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In teoria, la presa di distanza della pagine Facebook del Movimento No Tav dall’aggressione all’operatore del Tg3 che stava riprendendo le proteste sulla A32 dovrebbe rassicurare. In pratica, no. E se Rogliatti fosse stato un pro Tav fazioso, allora: sarebbe stato giusto strappargli la telecamera con la forza? No, perché «è
un’idiozia strategica». Versione aggiornata di quel che disse Talleyrand sul Duca d’Enghien fatto fucilare da Napoleone: «È peggio di un delitto, è un errore». Certo, anche quello. Sarebbe magari anche utile deideologizzare lo scontro: tutti i governi di sinistra hanno portato avanti il progetto Tav; gli ultra-liberisti dell’Istituto Bruno Leoni, che pure vogliono l’energia nucleare, sono invece contrari perché ritengono che si tratti di uno spreco di soldi; e c’è un appello di professori a Monti per fermare i lavori sulla base di motivazioni puramente pragmatiche. Ma dopo aver fatto tutte le discussioni possibili, i processi decisionali democratici del Paese continuano a dire che la Tav va fatta: quegli stessi processi decisionali che hanno invece di nuovo bloccato il programma nucleare. E allora: chi fa cronaca non simpatizzando per il punto di vista No-Tav, a parte la perdita di immagine, ha il diritto di operare, o lo perde nel momento in cui si schiera con l’opzione “antipopolare”?
Questo è il punto di partenza. Lasciamo perdere coloro per i quali conta solo l’occasione per fare casino: «Stanno provando a spaventarci, sono delle carogne. A questo punto non dobbiamo più farci giudicare su quanto siamo pacifici o meno»; «I giornalisti sono delle merde. La non violenza non paga. Per fortuna la
C’è tanta confusione politica e storica nella testa dei manifestanti
Val di Susa è piena di pietre»; «Per me questi carabinieri non sono delle pecorelle, sono dei maiali»; «La nostra è una risposta sacrosanta alla violenza delle truppe di occupazione»; «No Tav no Stato no esercito»; «All cops are pecorelle»; e via farneticando. E continuiamo a riferire degli elementi evidentemente più responsabili dell’Area No-Tav. «Dialogo? Dal Governo finora sono arrivati solo diktat», obietta il sindaco di Venaus Nilo Durbiano. Sì. E che si deve fare, quando c’è una decisione politica formata con metodi democratici e c’è chi si oppone con metodi attivi alla sua realizzazione? C’è una legge dello stato sull’interruzione volontaria della gravidanza, contestata da molti cittadini che se medici o operatori della sanità hanno anche il diritto all’obiezione di coscienza. Ma se dall’obiezione di coscienza si passasse ai blocchi e alle sassate contro le strutture in cui questa legge viene applicata: sarebbe “diktat”l’azione delle forze dell’ordine che impediscono la violenza contro
queste strutture? Ovvio che “forze dell’ordine”significa poi utilizzo della forza per mantenere l’ordine. Ma addirittura un ex-vicesindaco, quello di Bardonecchia Silvio Durante, rivendica che poiché «la gente è stata picchiata brutalmente», allora «il nostro lancio di pietre è stata solo una risposta».
«Lo Stato siamo noi. Qui non c’è più democrazia», è un altro slogan. La democrazia sarebbe il diritto di veto di ogni singola comunità? «Siamo una minoranza, ma abbiamo ragione». Anche i sostenitori dell’energia nucleare la pensano allo stesso modo: ma non è che vanno a fabbricare centrali nucleari comunque, anche dopo che due referendum hanno manifestato l’ostilità della maggioranza a ogni ipotesi in quel senso. «Siamo sotto attacco militare. Non vogliamo le compensazioni, non vogliamo soldi. Non c’è via d’uscita. Pensavamo che almeno Caselli fosse dalla nostra parte, dato il suo impegno contro la mafia, invece anche
La decisione di costruire l’infrastruttura è stata presa al termine di un lungo percorso
Caro Bersani, basta ambiguità. Il dialogo c’è già stato La politica che vuole rigenerare se stessa sui No-Tav deve stare attenta a non confondere l’ascolto con il rispetto delle regole democratiche di Enrico Cisnetto a vicenda Tav è molto più emblematica delle condizioni di salute di questa nostra Italia di quanto non si pensi. E a renderla tale non è solo il lato socio-economico – c’è di mezzo lo sviluppo e la modernizzazione infrastrutturale del Paese – bensì è la dimensione della cultura politica, il suo essere termometro della civiltà democratica, a prevalere. Dopo gli ultimi fatti della Val di Susa, si è riaperto per l’ennesima volta un duplice stucchevole dibattito, quello relativo al merito dell’opera ferroviaria – utile o dannosa, investimento o spreco, rispettosa o violentatrice dell’ambiente – e quello relativo alla legittimità della decisione di realizzarla. Mostrando un tasso di ignoranza da far spavento, giornali, tv, politica e opinione pubblica hanno nuovamente preso a sovrapporre o confondere i due piani, che invece devono essere tenuti rigorosamente separati.
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Dice il cosiddetto “popolo anti-Tav” che il governo ha deciso senza sentire il loro parere, e denunciando la mancanza di dialogo (sic) risponde con la “lotta” per impedire che siano eseguiti i lavori. Quando però sono chiamati a spiegare il perché, saltano sull’altro fronte, quello del merito dell’opera, e sciorinano – con l’uso anche di qualche professore esagitato che li affianca – tutti i motivi per cui l’alta velocità non s’ha da fare. Viceversa, quando uno cerca di spingerli ad entrare nel merito, si rifugiano nella denuncia delle decisioni “unilaterali”. Il problema è così fanno anche la gran parte dei mezzi di comunicazione e dei loro ospiti, in un’opera di diseducazione che contribuisce ad abbassare il già minimo senso della legalità e dello stato di diritto che ci contraddistingue. Bastava assistere allo show a senso unico di Santoro, giovedì sera, per rendersi conto di quanto sia perniciosa l’opera dei “cattivi maestri”che si sentono investiti dal sacro compito di aiutare i “buoni”e punire i “cattivi” (naturalmente, decidendo a loro insindacabile giudizio chi siano gli uni e gli altri). Non si tratta di faziosità, che quando è dichiarata può anche avere un suo perché, ma di subdola manipolazione delle coscienze. Perché è tale non solo far credere che il “movimento” sia non-violento – al massimo c’è qualcuno incazzato perché è stato provocato – e che sia rappresentativo di tutto il territorio, ma anche che abbia legittimità democratica. Un tranello in cui è caduto anche Bersani, nonostante abbia più volte tentato di chiarire che la legittimità sta dalla parte di chi applica e fa rispettare la legge. Perché quando si accetta di riaprire per la milionesima volta la questione – «parliamone, ci mancherebbe che manchi il dialogo» – si nega di fatto la liceità del percorso decisionale fin qui
adottato. Il quale se un difetto ha, è che è stato fin troppo lungo e farraginoso. Ma comunque è terminato da un pezzo.
Dopo dieci anni di “dibattito”, di riunioni infinite e di polemiche senza costrutto, mentre in Europa andava avanti il piano transazionale dei trasporti e gli altri paesi interessati ai vari “corridoi”avviavano i lavori infrastrutturali – anche a beneficio dei loro pil – alla fine anche la
Non c’è bisogno di alzare i toni o evocare le Brigate Rosse: bisogna attenersi alle norme “indecisionista”Italia ha fatto la sua scelta. Positiva: la Tav è da farsi. Decisione del governo, degli enti locali, della gran parte delle comunità locali interessate all’opera. Si può dire che la decisione sia sbagliata – ci mancherebbe altro – ma non si può tentare di impedirla. Anche se le forme di protesta fossero totalmen-
te pacifiche. Un conto sono le manifestazioni preventive, quando la decisione è ancora in pregiudicato: sono forme di pressione. Devono sempre essere legali e non interferenti con la libertà altrui, ma sono legittime. Quando però il provvedimento è preso, ed è figlio di un processo decisionale democratico, allora ogni impedimento alla sua realizzazione è antidemocratico. Tertium non datur. Non c’è dunque bisogno di evocare, come ha fatto Bersani ma anche molti osservatori critici nei confronti del movimento, il ritorno del terrorismo e lo spettro delle Brigate Rosse. Intanto perché non ci sembra di ravvisare questo pericolo, né diretto né indiretto. Ma soprattutto, perché ciò che sta accadendo è paradossalmente più grave, perché molto più capace di penetrare nelle coscienze, di un atto terroristico che sicuramente sarebbe ripudiato dai manifestanti della Val Susa. Occorre avere il coraggio di dire che un paese democratico non mette continuamente in discussione, con l’intento di bloccare l’esecuzione delle decisioni prese, ciò che è stato democraticamente deliberato. Pena il sovvertimento dello stato di diritto, perno su cui si regge la democrazia rappresentativa. Si può continuare a dire peste e corna della TorinoLione, ma non si può assediare i cantieri, aggredire (anche solo verbalmente) chi ci lavora e i poliziotti che lo presidiano (che sono lì a spese di tutti i cittadini italiani), bloccare strade e autostrade. Anche se il tutto avviene nella condizione più pacifica (cosa che nella fattispecie non è stata, salvo giustificare la provocazione e la violenza con il solo fatto che gli operai lavorano e le forze dell’ordine presidiano).
Ora, se la questione sta in questi termini, è chiaro che essa va ben al di là dello specifico Tav. E siccome la politica, fin qui maledettamente indecisionista e incline a lisciare il pelo anche al più sparuto gruppo portatore di interessi (e di voti), sta cercando di cambiare pelle e rigenerarsi, sarà bene che colga l’essenza del “caso Tav” per imporre a se stessa e al Paese un metro di comportamento diverso da quello del recente passato. Non si tratta di fari i duri, ma di mostrare fermezza nel difendere il principio democratico secondo cui nessuna minoranza ha il diritto di sovvertire le decisioni prese. Si può cambiare idea, non farsi imporre la paralisi. E su questo, senza alzare i toni o evocare le Brigate Rosse, bisogna che governo e forze politiche responsabili parlino una sola lingua. E che sia quella giusta. (www.enricocisnetto.it)
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lui...». Come dire: non chi è a favore della Tav, ma chi obietta l’uso di mezzi illegali nel manifestare un pur legittimo dissenso, è necessariamente un mafioso. Infatti il 28enne del “pecorella” al carabiniere ha spiegato: «È il mio modo di vincere la paura, quando facciamo i blocchi e mi trovo di fronte a centinaia di forze dell’ordine armate fino ai denti, mi viene spontaneo immedesimarmi nel mio idolo Peppino Impastato, divento provocatorio e canzonatorio e cerco di interagire con gli agenti». E all’obiezione che «Impastato se la prendeva con la mafia, lei con un rappresentate dello Stato», controbatte: «Il concetto è diverso ma le ditte che lavorano qui non sono così pulite».
«Siamo di fronte a uno Stato che non ha i soldi per curare i denti dei figli e si compra la Ferrari perché fa tanto fico. Ecco cos’è la Tav». Simile era l’obiezione della sinistra (e del Pri di Ugo La Malfa, va aggiunto) all’introduzione in Italia della tv a colori. Ci cadde anche un governo, su qualche timido esperimento fatto dalla Rai senza l’assenso dello stesso Pri. Non è che le infrastrutture di base italiane siano migliorate di tanto, ma in compenso quel ritardo ha distrutto l’industria elettronica italiana in un modo che ci ha tagliato le gambe in modo forse decisivo, al momento in cui è poi partita la New Economy.Tre anni fa Chiara Ingrao, figlia di un personaggio che rappresenta un pezzo importante di storia della sinistra italiana, scrisse un libro apposta per raccontare tre anni di storia delle operaie che lavoravano alla Voxson di Roma (Chiara Ingrao, Dita di dama, La tartaruga).Vi si parla di lotta di classe, di sfruttamento, ma anche della rabbia nei confronti di una scelta politica della propria parte politica di riferimento, che mise in crisi l’azienda. Ma nessuno andò a occupare la sede del Pci, come hanno fatto adesso i No-Tav per quella del Pd («Noi chiediamo la liberazione di tutti gli arrestati e siamo qui perché il Pd è il mandante della Tav», al che è stato risposto che «il progetto è stato sottoposto a tutti i passaggi previsti in democrazia, il contrario è fascismo»). Chi poteva si limitò a comprare tv straniere per guardarsi i programmi a colori di Tele Svizzera Italiana, Tele Monte Carlo e Tele Capodistria, fino a quando la Rai non fu costretta, troppo tardi, ad adeguarsi. «L’obiettivo vero è creare tante Val di Susa». Sì, come i 10, 100, 1000 Vietnam di Che Guevara… Tanto in Vietnam ci va ora il ministro Terzi a inaugurare stabilimenti Piaggio, che vi possono funzionare senza di mezzo la rottura di scatole dei sindacati. E infine: «Blocchiamo tutto, dappertutto». Come se in Italia le cose funzionassero speditamente anche senza i No-Tav di mezzo.
politica
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Nel 2008, il disegno condiviso da Pdl e Pd era spaccare in due il Paese: la realtà ha dimostrato che era un progetto impossibile
Il fantasma bipolare
La Seconda Repubblica è fallita: ormai lo ammettono tutti. Eppure nelle mente di qualcuno resta una forte resistenza al cambiamento Francesco D’Onofrio otrebbe sembrare prematuro per un verso, o già datato per altro verso, un dibattito sulle strategie di fondo di una nuova legge elettorale. Sarebbe per un verso prematuro parlare di legge elettorale prima delle riforme costituzionali; sarebbe per altro verso già datato parlare ancora di un vecchio bipolarismo all’indomani della nascita del governo Monti che certamente bipolarista non è.
P
È stato infatti del tutto preferibile aver posto una radicalmente nuova disciplina dei partiti politici a premessa di qualunque riforma elettorale, perché è di tutta evidenza che occorre in-
nanzitutto sapere quali partiti politici parteciperanno alla nuova campagna elettorale nazionale. Qualora infatti si guardi in retrospettiva alle elezioni politiche del 2008, si può rilevare che si trattò di una sorta di esito terminale della tentazione di trasformare il nostro sistema politico da sistema partitico-parlamentare (quale era stato il sistema della cosiddetta Prima Repubblica) in sistema populisticopresidenziale. In quelle elezioni si svolse infatti una vicenda caratterizzata sostanzialmente dalla pretesa di trasformare il sistema rappresentativo italiano in un sistema violentemente bipartitico nel senso di uno scontro anche radicale tra destra e sinistra. Questo tentativo fu sconfitto politicamente sia in Parlamento (dove risultò possibile formare il gruppo parlamentare dell’Udc, che si era significativamente tenuto fuori da quella contesa), sia nella società italiana, nella quale soggetti politici pur non presenti in Parlamento hanno dimostrato di poter tranquillamente svolgere attività politica significativa.
Nel corso dei quasi cinque anni trascorsi da allora, sono progressivamente venute meno anche le giustificazioni parlamentari di quel tentativo: da una par-
te vi è stata la dissidenza non solo personale di Gianfranco Fini; dall’altra parte vi è stata la dissidenza non solo personale di Francesco Rutelli. Quel bipolarismo risultava dunque non solo sconfitto alle elezioni, ma progressivamente perdente anche in parlamento, per non parlare di quel che accadeva nella società italiana al di fuori del parlamento stesso. Tutta la questione istituzionale si è venuta pertanto concentran-
che possono prendere corpo nel corso di una legislatura nazionale. Il premio di maggioranza si gioca infatti tutto nel giorno delle elezioni politiche, a prescindere da qualsiasi contenuto programmatico, sì che si è finito persino con l’affermare che una volta caduto il governo si debba tornare al voto. Non esiste esempio al mondo di un siffatto sistema politico-istituzionale, per la semplice ragione che in tutti i sistemi - pur nella loro differenza
Non c’è stato solo il successo dell’Udc, quattro anni fa, a rompere il fronte del bipartitismo: la stessa società civile ha mostrato più sfaccettature di quante non ce ne fossero in Parlamento do sulla affermata necessità di una nuova legge elettorale. Ma questa affermata necessità non si è ancora tradotta in decisioni operative proprio perché nel dibattito stesso che concerne la riforma elettorale nazionale sopravvive in qualche misura questo “fantasma”. La questione di fondo riguarda infatti il cosiddetto premio di maggioranza che non viene condizionato a nessuna intesa di programma, proprio perché questa intesa per sua natura deve necessariamente tenere conto anche degli avvenimenti - non solo italiani -
- è comunque compresa una qualche clausola di flessibilità, che consente appunto di tenere significativamente conto di quel che accade tra una elezione e l’altra.
Il “fantasma” non sembra avere più la forza di imporre una propria inaccettabile regola costituzionale, ma resiste e circola in qualche modo all’interno delle diverse proposte politico-elettorali che sono state poste all’attenzione del dibattito pubblico, mai come oggi necessario. L’aver pertanto posto la questione
della natura del partito politico a premessa della stessa legge elettorale significa di conseguenza ragionare proprio sul significato profondo della legge elettorale medesima. Ancora oggi la questione resta la medesima che fu affrontata nelle elezioni del 2008: allora sembrò prevalere in termini persino ossessivi l’invocazione al cosiddetto “voto utile”in nome di una sorta di vocazione maggioritaria che sembrava aver per oggetto del desiderio la conquista più larga possibile del potere governativo, nella disattenzione sempre più evidente verso i problemi che riguardano la vita della gente comune. Tutto il dibattito che si è venuto svolgendo in riferimento ai partiti politici sul tema della maggiore o minore “leggerezza” dei medesimi finisce pertanto con il condizionare il dibattito stesso sulla riforma elettorale. Il “fantasma” del vecchio bipolarismo ha infatti prodotto conseguenze anche devastanti proprio per l’idea stessa di partito politico che si ha: non si tratta infatti soltanto del potere degli elettori di concorrere alla scelta o dei candidati (attraverso le cosiddette primarie), o degli eletti (con le liste bloccate), perché si tratta del molto rilevante contenuto della democrazia che si ha in mente.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
L’aspra critica, provocatoria e a tratti apocalittica, di Marc Fumaroli alla modernità. Dall’elogio dell’otium alla condanna della Pop art, un raffinato viaggio culturale nel tempo e nello spazio, affidato alle pagine di “Parigi-New York e ritorno”
ATTENTA EUROPA, IL PROGRESSO È NEL PASSATO di Gabriella Mecucci
l fine del suo libro Marc Fumaroli lo scrive nelle ultime pagine, in quella che definisce una perorazione. È un invito al Vecchio Continente a riconquistare un ruolo: «L’Europa ha un compito da assolvere, non già, come credeva Jaques Chirac, fingendo di mettersi alla testa di un Terzo Mondo antiamericano, ma dandogli invece l’esempio di una riconciliazione con il passato che non sia consumo turistico, ma un insegnamento a vedere più chiaro nella natura umana e a trovarvi un principio di ritorno al passato, di prudenza e di amore della bellezza». ParigiNew York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini, edito Adelphi (48,00 euro), nelle oltre settecento pagine ricche di raffinata cultura - contiene una vibrata critica (ai limiti della condanna globale) dell’arte contemporanea, ma anche della modernità, del secolo americano, degli Usa. (Il libro verrà presentato martedì prossimo, 6 marzo, alle 19,30, a Roma, all’Accademia di Francia a Villa Medici - V.le Trinità dei Monti 1. Ne parleranno con l’autore Anna Ottani Cavina e Eric de Chassey, ndr).
I
attenta
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Lo fa citando, appena all’inizio, tre grandi europei. Il primo è un italiano, Giuseppe Verdi di cui ricorda, proprio sulla prima pagina, un motto: «Torniamo all’antico, sarà un progresso». Poi tocca a due grandi intellettuali francesi. Fumaroli usa come prefazione al suo saggio, la celebre pagina di Baudelaire contro la fotografia, contro l’industria dell’immagine che distruggerà l’arte anziché esserne un’umile ancella. Infine dà la parola a Paul Valery e a una delle più straordinarie invettive: «La pubblicità, uno dei mali più grandi di questo tempo, insulta i nostri sguardi, falsa tutti gli epiteti, rovina i paesaggi, corrompe ogni qualità e ogni critica». Sotto queste insegne l’autore parte per un viaggio nello spazio e nel tempo di cui è impossibile raccontare l’itinerario, ricostruire la trama, tanto è ricco e composito. Il bello sta nel gustare, pagina dopo pagina, questo vagabondaggio culturale di Fumaroli. E partiamo dunque da uno dei simboli più alti di ciò che può produrre l’inquinamento mentale e ambientale: Napoli. «Il più bel paesaggio portuale e costiero del Mediterraneo - scrive - che i Romani scelsero come scenario del loro otium, e che a partire dal Rinascimento ha affascinato la fantasia e la memoria degli europei, dopo essere stato deturpato dal cemento è diventato in queste ultime settimane, segno dei tempi, un’immensa discarica fetida… È l’eruzione del Vesuvio che noi ci siamo meritati». A questa immagine infernale fa da contrappunto la visita a Pompei, il viaggio dunque nella classicità. In particolare Fumaroli si concentra sugli affreschi della villa dei Misteri, dove si manifesta un culto privato del dio che riconosce, visita e santifica l’otium femminile.
E da qui si passa all’evocazione di un altro otium, quello rappresentato dalla festa di nozze cristiana fra sposi laici in cui si mescolano, nell’Italia del Rinascimento, la gioia vitale e profana legata al rinnovamento della specie e la gravità del giuramento irrevocabile di fedeltà. Sull’otium, Fumaroli scrive moltissime pagine e lo descrive in modo straordinariamente efficace: «È nell’intervallo dell’otium che si vede invece di intravedere, che si cerca invece di copiare, che si contempla invece di agitarsi, che si riconosce ciò che la polvere dell’impazienza, gli abbagli della fretta e il peso dello sforzo precipitoso nascondevano alla vista». Questa categoria oggi è scomparsa e la società americana è la più alta espressione del suo esatto contrario. All’inizio c’era il mito del lavoro e del danaro di origine puritana, ma oggi - sempre secondo Fumaroli - il riposo stesso è diventato in America oggetto dell’industria taylorizzata. Come non provare nostalgia per l’otium pompeiano quando si vedono folle impazzite che assaltano il anno V - numero 8 - pagina II
europa
il progresso è nel passato
Un affresco della villa dei Misteri a Pompei. Sotto, Marc Fumaroli, la copertina del suo libro (che verrà presentato a Roma, martedì prossimo 6 marzo alle 19,30, all’Accademia di Francia), Giuseppe Verdi e Paul Valery, due suoi punti di riferimento, insieme a Baudelaire, nella critica alla modernità sabato i centri commerciali? Ma c’è di più. Se si pensa che oggi si assiste più comodamente a un grande rito religioso guardandosi un dvd che stando dentro San Pietro o dentro Notre Dame, se si pensa che un photoshop qualunque permetterà a ciascuno di mettere i baffi alla Gioconda, se si pensa, dunque, che la copia può superare l’originale, allora si comprende che è finita la vecchia «superstizione dell’autentico sul quale lo sguardo può posarsi e scrutare senza distrarsi, che è finito il corpo a corpo voluttuoso del desiderio di bellezza con l’occhio che lo appaga… Addio all’otium». Dall’Europa dell’antichità, Fumaroli passa al cristianesimo. A come è stato snaturato dalla modernità. Il Cristo protestante diventato superstar, icona del popolo dei figli dei fiori: non l’immagine del Salvatore crocifisso, ma di «un giovane terapeuta glamour le cui braccia spalancate, il sorriso contagioso e le file di denti candidi promettono quaggiù salute, successo, felicità, una sorta di tele-evangelista del primo secolo». Ma a Fumaroli non va bene nemmeno la risposta cattolica ma sempre americana a questa immagine. Non piace affatto al grande intellettuale francese neanche il Cristo di Mel Gibson che rappresenta una sorta di «inverso muscoloso» del precedente. Non vede infatti né nell’uno né nell’altro il Cristo «segno di contraddizione», «paradosso di divinità e di umanità». Questa critica serrata (talora anche pregiudiziale) porta ad affermare che «l’America evangelista, non meno dell’America scientista, non è mai stata terremo fertile per le arti». E in questo ambito è acuta e dottissima la contrapposizione fra culto cattolico dell’immagine e l’iconoclastia protestante. A questo punto, però, Fumaroli assume un atteggiamento iperpolemico e anche ingeneroso che interpreta il fastidio insopportabile del Vecchio Mondo verso il Nuovo. E, ancor più, della Francia verso gli Stati Uniti. Mentre le pagine più appassionate e convincenti sono quelle che invei-
scono contro l’arte contemporanea e in particolare contro Andy Warhol. L’invettiva coinvolge tutta la Pop art «legittimata» purtroppo a opera del francese Duchamp. Errore questo - secondo Fumaroli - insopportabile, causato dall’ingenuità. Ma mentre gli artisti della nuova corrente si impegnavano nelle Gallerie con esiti non sempre trionfali, Warhol cercò e ottenne la sua affermazione nel disegno commerciale. Lo spingevano ad arricchirsi e a fare presto la condizione di povero e di emarginato. «Il suo universo immaginario e visivo - scrive l’autore di Parigi-New York era quello dei fumetti, delle riviste di successo, del cinema hollywoodiano e delle sue star, dell’immagine televisiva a colori…». E ancora: «Questo conte Dracula stanco e glaciale dell’arte come mercato è stato peraltro schiavo di un’attività di propagandista del bluff, con cui ha occupato tutte le vetrine: pubblicità commerciale, industria della moda e del look, pittura e scultura da galleria e da museo mercantilizzate, fotografia, cinema, televisione, musica-hall, stampa, locali notturni…». Mentre costruiva questo grande magazzino di sub cultura, Warhol - è ancora Fumaroli a giudicare - riuscì a compiere «il trasferimento del contenuto di un supermercato, al museo. E questa è certo una manifestazione del patriottismo americano, stanco di aver tremato troppo a lungo davanti al buon gusto aristocratico e contadino dell’Europa».
Se Warhol viene liquidato così, non va meglio ad altri artisti quali Damien Hirst e Jeff Koons, salvati solo Anselm Kiefer e Lucien Freud. Ma non bastano a contenere l’affondo contro l’arte contemporanea che rappresenta la peggiore conseguenza - questa la tesi - del tentativo di una élite ristretta, mossa da uno smisurato orgoglio di sé, di esibire le proprie ricchezze. Accanto agli yacht e alle ville, questi super miliardari mettono anche le opere che acquistano a cifre irraggiungibili. È un’arte quella di cui s’im-
padroniscono che non ha nessun legame con la storia e la tradizione locale, ma che serve solo ad aumentare il loro prestigio, a essere simbolo e feticcio del loro successo. Questo non era mai avvenuto - secondo il nostro autore. Ben diverso infatti era l’approccio al capolavoro che ebbero i grandi mecenati italiani del Sedicesimo secolo. Fumaroli è di una durezza senza pari nella polemica. Perché, oltre che la crisi verticale dell’arte, intravede nell’organizzazione sociale e di potere contemporanee non solo l’esplosione nei luoghi della miseria di tanti «fanatismi identitari», ma anche di un nuovo «fondamentalismo», sbocciato nei cuori pulsanti della modernità. È caratterizzato da un iperindividualismo dove non hanno più spazio nozioni come il tempo (appiattito in Google), né l’istruzione, né la natura (di cui si parla solo nei dibattiti ecologici), né la società (sostituita dalla Rete). L’iperindividuo nuota in una cultura-mondo vuota e in un totale deserto simbolico. A questo nostro fondamentalismo, alla «mondializzazione felice», non possono che fare da contro altare altri fanatismi di tipo identitario: quelli tribali, quelli religiosi che rappresentano l’altra faccia della medaglia rispetto al nostro.
Fumaroli assume al termine del suo libro un linguaggio e un tono apocalittici. Eppure, pur tra discutibili iperboli, fra provocazioni di ogni tipo, il suo lungo e appassionato saggio contiene acute verità. Non quando eccede nel «demonizzare» l’America, ma quando sollecita l’Europa ad aver un ruolo. A recuperare se stessa. A imboccare la strada che porta alla riscoperta del suo patrimonio artistico, letterario, filosofico, grande risorsa in grado di compensare l’«anemia simbolica» generalizzata. A vedere nel cristianesimo, oltre a una straordinaria religione, il principio originario delle arti, delle lettere, della scienza. A ridare un ruolo allo Stato, umiliato e rinnegato dalla «cultura-mondo». La «Vecchia Europa» deve fare in modo secondo Fumaroli - che non si avveri la profezia di Tocqueville: «Quando il passato non illumina più l’avvenire, lo spirito si muove nelle tenebre». La conclusione del saggio è netta: «L’unico rimedio in profondità contro i fondamentalismi barbari è il rifiuto assoluto del fondamentalismo e dell’incultura ipermoderni». Un compito che spetta certamente all’Europa, che su questo piano è ben attrezzata, ma anche all’intero Occidente. Le domande che nascono da questa drammatica perorazione sono molteplici: è ancora possibile fare qualcosa? Non è troppo tardi quando ormai il baricentro del mondo si va spostando altrove? E chi, soprattutto, riuscirà a mettersi alla guida di questo processo? Dove sono le élite per condurlo? E dove il popolo che lo condivida?
MobyDICK
arti
ei pronto?». Il gallerista sta sul pianerottolo, in attesa. Quasi in gentile agguato, pantera addomesticata alla chilometricità del tempo. Sì, sul pianerottolo: tra casa e bottega. Sospeso, come un angelo nero caduto da un telero di Mattia Preti, nerofumo con sfumature di grigi, alla Saraceni. Un Attico a mezza scala, sospeso. Il gallerista è già sul pianerottolo, traghettatore trasognato. Come se quello fosse il suo regno intemporale, illocalizzato: «tra». (Tra immagine e parola. Tra artista e ospite - più che gallerista. Tra arte figurativa e teatro). «Sei pronto?». Scoppiano simultaneamente i telefonini, le arterie, il cervello: i sensi di colpa. Si deve cancellare tutto, con la gomma pane della sorpresa. Fare silenzio nella memoria, che non c’è in questo momento: ballonzola. Passare ad altro mondo: del paradiso. Buttare la contemporaneità alle spalle, come per scaramanzia. Una lunga, brevissima pausa di mondo.
«S
Il gallerista schiude la porta della sua casa-galleria, quasi fosse un Méliès, una magia (e non lo si dice per il mieloso Hugo Cabret di Scorsese). In quell’attimo porta sopra di sé come la nera neve protettiva d’un mantello da prestigiatore e una bacchetta immaginaria: il filo d’aria che collega l’esterno apolide con l’interno denso di attesa. Che stringe la sua trepidazione in tensione e lo sguardo (che scatta come una trappola) dell’avventizio catturato. Ha già acceso con cauta precauzione le candele, come per un rito immemorabile. Preparato la tensione come un piatto liturgico, una particola proibita: esca dolcemente esplosiva. E adesso porge il giusto piattino della ri-conoscenza, bevendosi la reazione.
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Rito e spettacolo a lume di candela di Marco Vallora Il rito-spettacolo è davvero incantatorio, rapisce, in un’accelerazione onirica che ha il battito dello sguardo sedotto. Due fiamme immobilmente rapinose, alla Bachelard, ti catturano, mentre dialogano e si consumano silenti tra di loro, specchiandosi nel silenzio della Storia. La candela, alla De La Tour, di Kounellis, gocciola luce vibrante su un’immagine frenata, dechirichiana, di trenino
La candela provocatoria e protestataria di Nam June Paik risponde con un battito diversissimo, ma adesso identico, fraterno: da dittico predestinato. Sta dentro una vecchia cornice di televisione svuotata, come un usurato cuore vacillante, entro la carcassa di un corpo -
cuore vuoto delle nostre comunicazioni, al cervello smagrito e perduto del nostro tempo. Irrigimentata pubblicità entropica e concettuale d’una pervasiva vanitas smemorata e trionfante. Cedevole trasmissione zitta d’una rumorosa realtà, rimasta senza messaggi. E così, nel matrimonio tra due opere che volevan esser concettualmente distanti e ideologicamente differenti, e che in-
spesso l’artista gutaj ci metteva al cospetto proiezioni video, riverberi sonori e visivi, combattimenti nudi di violoncelli in apnea, alla Bussotti. Qui niente invece: la purezza brulla d’una fiamma stenta ed esitante, entro una scatola di mogano anni ’60, che oggi ci allarma e disgusta, e ci fa riflettere così, con quella solitudine secolare, sull’attenti della lucina insulsa, al
vece si ritrovano così magicamente affratellate, come in un mantra visivo, ecco che pare scaturirne un’altra, per gemmazione. Questo dittico, così duplice e riflettente e simmetricamente perturbante potrebbe davvero essere un’opera nuova, firmata da Giulio Paolini (pensando alla sua ossessione del doppio, della Doublure, alla fascinazione di Raymond
la stiracchiandosi tra queste due candele, consumando il suo pretenzioso stoppino).
All’Attico di Roma, il “Montaggio delle attrazioni” messo in scena da Fabio Sargentini, un gallerista che usa le opere come fantasmi del desiderio. Da Kounellis a Paik a Ontani... in miniatura, addentato dalla morsa dell’acciaio, che azzanna la sua corsa immaginaria, divenuta fotogramma arreso siluro mortificato dalla bellezza. Malevitchiana devozione al nulla lussuoso dell’arte. Giocattolo metafisico. Corsa parmenidea. (Inutile infliggersi i soliti dilemmi storicistici della critica, se Parmiggiani sia arrivato prima o dopo. La Storia dondo-
Roussel e di Foucault). Ma ci vuole un vero gallerista-regista, come non ne esistono più, un amante vero del proprio mestiere (che non è mestiere, ma passione bruciante e assoluta, oggi che tutto si è come sfaldato) per «reinvetare» queste opere, e i suoi spazi, e non soltanto per esporle sbadatamente o farne mercato.
Usare le opere come fantasmi del desiderio, attori smarriti d’un teatro dell’aria, che fa della galleria luogo mentale, camera di decompressione dalla zavorra del mercantilismo d’oggi. Altro che accrochage museale! (e si è visto come i musei, con miopia burocratica, hanno celebrato, uccidendolo, l’anno-arte povera!). Fabio Sargentini crea le sue mostre come fossero spettacoli teatrali (o opere d’arte), grazie a un «montaggio delle attrazioni» ejzenstejano che le resuscita in vita e le reinventa. Se ormai l’Ontani delle Celebrazioni si può rivelare un po’ stanco e ripetitivo, ecco che sopraggiunge il cobra a spire lignee di Puxeddu, a reagire torbido agli incantamenti del truccato magister dei camuffamenti sciamanici. Se l’intemporale Di Stasio si risponde di stanza in stanza con effetti bi(n)oculari, e lo Stalin di del Giudice torna a vivere e sognare e morire, in un soprassalto di pittura, che ha un poco dei fotogrammi assopiti, accasciati, dei leoni del Potemkin, ecco, gli acefali, colanti ectoplasmi di Pizzi Cannella, schierati come spettatori muti, nel teatrino di casa. A evocare uno sfingeo spettacolo, «passato di qui» come un angelo, con la partecipazione straordinaria, spiritica del fantasma d’ombra di Jean Cocteau. Montaggio delle attrazioni Roma, Galleria L’Attico fino al 15 marzo
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a ricorrenza dei trecento anni dalla sua nascita è dunque arrivata (lo scorso 24 gennaio), e la Germania ricorda Federico il Grande, il re musicista e francofilo, con mostre, programmi televisivi e pubblicazioni. Tricorno, bastone, uniforme: il vecchio Fritz si è imposto anzitutto come uomo d’armi dedito alla guerra preventiva, poi come grande committente d’opere architettoniche, come illuminato teorico dello Stato, come raffinato mecenate. Con 46 anni, due mesi e 17 giorni di governo riuscì a giungere al massimo prestigio in Europa. Nel XIX secolo, in una voluminosa biografia, lo storico scozzese Carlyle lo celebrò come modello di grandezza eroica. Durante la seconda guerra mondiale, al contrario, il primo ministro inglese lo condannò come artefice del militarismo. Oggi si tenta una rilettura della sua politica, anche della sua cosiddetta «politica del sentimento» (così l’ha definita Ute Frevert), l’arma con la quale presumibilmente voleva conquistare i cuori dei sudditi, come accadde nel 1785, quando attraversando Berlino dalla Hallesches Tor fino a Kochstra\\\\u03B2e si tolse per ben duecento volte il cappello per salutare la folla.
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Il piccolo Fritz nacque, come si dice, con la camicia. Al momento della venuta al mondo il nonno era da undici anni il «primo re di Prus-
il paginone
MobyDICK
Poeta, storico, filosofo, musicista, mecenate, condottiero, illuminato statista. Governò per 46 anni, due mesi, 17 giorni e con lui la Prussia divenne una vera potenza. A tre secoli dalla nascita, la Germania celebra Federico il Grande con mostre, concerti e nuove biografie stramento. Il principe ereditario nel 1730 provò la fuga in Inghilterra, ma il tentativo fallì e l’amico che lo condivise con lui, Hans Hermann von Katte, venne condannato a morte e ucciso davanti ai suoi occhi. L’unica opportunità offerta a Federico per salvare la propria pelle fu la piena sottomissione. Per compiacere il re soldato sposò allora nel 1733 la principessa Christine von Braunschweig-Bayern, ma il matrimonio non venne mai consumato. È stato Norbert Leithold a sostenere che il principe ereditario e suo fratello più piccolo avevano una «predilezione per i paggi giovani e graziosi» e che si dimostravano maggiormente interessati a loro. Con Voltaire Federico intrattenne dal 1737 uno scambio intellettuale intenso. Prima di assumere le redini del governo redasse l’Antimachia-
Per la perseveranza nel pericolo e il coraggio nel rischio, Hitler vide in lui un modello. Gli sfuggirono due cose decisive: la grandezza spirituale e l’autocontrollo sia» e suo padre, Friedrich Wilhelm, lo seguì sul trono il 25 febbraio 1713. Il «re soldato» vessò quel rampollo, musico e intellettuale (lo considerava un «tipo effeminato»), con un rigido adde-
anno V - numero 8 - pagina IV
velli e disegnò il suo ideale di «buon governante». Il suonatore di flauto compose musica fino agli anni Cinquanta, compresa quella marcia regale che dedicò a Carlo III e che ancor oggi è
l’inno nazionale spagnolo. Era in grado di fare più o meno tutto, ma non di scrivere correttamente in tedesco. Come ricorda Leithold, «scriveva come parlava, seguendo la fonia, con spregio della prassi grammaticale e ortografica». Con i fratelli e con gli ospiti stranieri parlava regolarmente in francese.
Il 31 maggio 1740 giunse al vertice dello Stato degli Hohenzollern e il 20 luglio venne incoronato a Königsberg, nella Prussia orientale (oggi Kaliningrad). Sete di gloria e gusto dell’impresa contraddistinguevano il giovane re, che alla fine del 1740 invase la Slesia austriaca. Alla prima guerra slesiana ne seguì una seconda, ma contro Austria e Sassonia. Le vittorie conseguite a Hohenfriedberg, Soor e Kesselsdorf fondarono la sua gloria e gli valsero rapidamente l’attributo «il Grande». Nel decennio che seguì, il re si dedicò alla politica interna, concependo anzitutto se stesso come primo servitore dello Stato e pretendendo molto da tutti i servitori. Temendo lo spirito di rivincita degli Asburgo, che si erano legati ai Borboni e la loro alleanza con la Russia, la Svezia e la Sassonia, nel 1756 invase quest’ultima. Fu quello l’inizio della guerra dei sette anni. Ogni tanto Federico cadeva vittima della disperazione e per fare la «giravolta», cioè per evitare il suicidio, era solito fare uso di pasticche d’oppio. Tutto cambiò di colpo con la mor-
Il politic del sentim di Vito Punzi te della zarina nel 1761. Il nuovo zar era un ammiratore di Federico, così decise di ritirarsi dalla guerra. Una svolta che viene letta ancor oggi come un «miracolo» della casa Brandenburgo. Nel 1763 Federico ottenne in forma irrevocabile la Slesia e ciò segnò la nascita della Prussia intesa come grande potenza. L’alleanza prussiano-russa del 1764 formò la base per la proposta, avanzata da San Pietroburgo, di annettere insieme con Vienna e Berlino grandi parti della Polonia. Con la prima divisione della Polonia del 1772 Federico conseguì il legame tra i territori prussiani A destra, Federico il Grande raffigurato mentre suona il flauto. A sinistra, il re in un convivio insieme a Voltaire, e il ritratto di sua moglie Christine von Braunschweig Bayern. Sopra il titolo, la sua statua equestre a Berlino, davanti all’università di Humboldt
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ico mento centrali e quelli orientali: fu allora che divenne il «re di Prussia». Durante la guerra dei sette anni perse il dieci per cento della popolazione e il paese era in rovina. Nel processo di ricostruzione, come pure nella concessione della tolleranza religiosa, sullo sfondo ci fu il bene dello Stato.
Il 17 agosto 1786 il vecchio Fritz morì. Secondo il testamento il re che si considerava un filosofo voleva essere sepolto a cielo aperto, accanto ai suoi cani, sulla terrazza del castello di Sansouci. Ma a quella volontà s’oppose suo nipote, Federico Gugliel-
mo II: la cassa in piombo doveva essere collocata nella cripta reale della chiesa della Guarnigione a Potsdam, accanto al sarcofago del re soldato. Lì il 21 marzo 1933 ebbe luogo il «giorno di Potsdam», quando in presenza del presidente del Reich, Hindenburg, l’austriaco Hitler assunse la Prussia alla causa del nazionalsocialismo.Vennero realizzate allora cartoline che accostavano Friedrich, Bismarck, Hindenburg e Hitler. «A ciò che il re occupò il principe diede forma, poi il feldmaresciallo lo difese, infine il soldato lo salva e l’unifica». Hitler si tenne stretto al vecchio Fritz, il quale dalla fine della perduta prima guerra mondiale fino alla compensazione patriottica fece la sua apparizione nei cinema nella forma dell’attore Otto Gebühr. Theodor Schieder ha scritto una volta che Hitler avrebbe visto in Federico il modello per la perseveranza nel pericolo, il coraggio nel rischio, senza tenere conto che a lui mancava ciò che era decisivo, cioè la grandezza spirituale e l’autocontrollo. L’Occidente volle cogliere solo ciò che segnava la continuità tra il prussiano Fritz e il nazionalsocialista Adolf. Così alla fine della seconda guerra mondiale gli Alleati elevarono a obiettivo della pace la deprussianizzazione della Germania. Dal punto di vista territoriale la Prussia venne smantellata alla conferenza di Potsdam del 1945, mentre venne sciolta formalmente il 25 febbraio 1947. Curioso, ma non troppo, che quello Stato sia riemerso in qualche modo agli inizi degli anni Ottanta anzitutto nella Ddr, quando a Berlino est, lungo la Unter den Linden, venne riposizionato il monumento equestre di Federico il Grande. E pensare che con la Germania orientale, secondo il volere dei comunisti lì al potere, avrebbe dovuto interrompersi per sempre la storia prussiana, perché causa del «percorso sbagliato» intrapreso da un intero popolo. Nella Ddr, dopo decenni di silenzio, il titolo «il Grande» accostato a Federico riapparve nel 1978 sulla rivista Horizont e, fatto piuttosto significativo, non per mano di un tedesco membro della Sed, ma di un russo, l’ambasciatore sovietico a Berlino est,Valentin Falin. Pochi mesi dopo, nel 1979, il tabu venne rotto definitivamente con la pubblicazione della biografia federiciana scritta dalla storica tedesco-orientale Ingrid Mittenzwei. Il libro riuscì a centrare su di sé l’attenzione insoprattutto ternazionale, perché si sforzava di rappresentare Federico e la sua Prussia nelle loro grandezze
e nelle loro contraddizioni. Le critiche arrivarono allora in particolare dalla Polonia, perché era stato lui il protagonista della prima spartizione di quella nazione. Ma la questione venne risolta dal leader tedesco-orientale Erich Honecker in prima persona, quando, era il 1980, lo definì «il Grande»: ormai era ufficiale, il re aveva riacquisito il proprio titolo e dunque poteva tornare con il proprio monumento equestre a Berlino, davanti all’università Humboldt.
A Berlino ovest invece, con l’occasione della mostra Prussia - Tentativo di un bilancio, per i 200 anni dalla morte di Federico, l’allora presidente della Germania Federale, von Weizsäcker, si espresse fermamente contro l’identificazione tra prussianesimo e nazionalsocialismo. Cinque anni più tardi, il 17 agosto 1991, pochi mesi dopo la riunificazione tedesca, il sarcofago del vecchio Fritz, che era collocato vicino ad Heichingen, nel castello degli Hohenzollern, venne portato sulla terrazza di Sansouci, a Potsdam. Ed è lì che Federico ancora ora riposa. Ai tedeschi piace festeggiare le ricorrenze, dunque in queste settimane non si fanno mancare nulla: nuove biografie, mostre, concerti, il tutto dedicato al re che fece della Prussia una grande potenza. Nel ricordare che le ultime significative sue biografie apparse in Italia sono quelle di Gerhard Ritter (Federico il Grande, il Mulino) e Alessandro Barbero (Federico il Grande, Sellerio), tra le pubblicazioni apparse negli ultimi mesi in Germania la più interessante e piacevole da leggere è senz’altro quella curata da Frank Schumann (Allergnädigster Vater. Dokumente aus der Jugendzeit Friedrichs, Das Neue Berlin, Berlin 2011). Attraverso le lettere e i documenti qui raccolti ci si può sintonizzare con la vita del monarca. Tra le altre cose vi si può ritrovare l’intelligente e fredda risposta data dal principe ereditario quando fu accusato di alto tradimento per il suo tentativo di fuga del 1730. Alla domanda se per salvare la pelle fosse pronto a rinunciare a qualsiasi pretesa sul trono Federico rispose così, rivolgendosi al padre: «Non tengo così tanto alla mia vita, ma Sua Maestà non sarà così scortese». Salvò la vita e nel frattempo nella prigione di Küstin aveva iniziato a scrivere versi. E quella del poeta, insieme a quelle dello storico, del filosofo, del condottiero e del padre della patria resta una delle tante maschere della sua lunga vita.
altre letture di Riccardo Paradisi
Ma l’Occidente preferisce non vedere l criterio con cui si definisce uno Stato criminale dipende spesso dal potere e dal denaro di cui quello Stato dispone. Nel caso della Cina i crimini commessi dal regime comunista vengono semplicemente rimossi dalla coscienza dell’Occidente, pronto a scatenare guerre cosiddette umanitarie in nome dei sacri principi della democrazia. Per questo la Laogai Research Foundation ci ricorda in I Laogai cinesi (Fede e cultura edizioni, 116 pagine, 10,00 euro) che nei campi di concentramento cinesi sono costrette al lavoro forzato milioni di persone a vantaggio economico del regime comunista. Luoghi dove spariscono sacerdoti e vescovi cattolici, monaci tibetani, religiosi di ogni confessione, oppositori politici, uomini, donne e bambini colpevoli solo di essere parenti di qualche dissidente.
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E il teologo scomunicò la Lega i può essere al tempo stesso leghisti e cattolici? Votare per il Carroccio e rimanere dei buoni cristiani? Sembrerebbe una domanda assurda e provocatoria eppure a porsela e a darsi marzullianamente anche una risposta è Augusto Cavadi nel Dio dei leghisti (San Paolo edizioni, 191 pagine, 14,00 euro). Il quale nemmeno fosse il Papa o una qualche autorità ancora maggiore - afferma in sostanza che no, non è possibile. Una scomunica in piena regola. Ma a parte il fatto che se si dovessero giudicare i toni aggressivi usati in politica contro bersagli polemici di turno non rimarrebbe partito che un cristiano potrebbe votare, sarebbe comunque meglio se Cavadi lasciasse giudicare chi deve giudicare.
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Perché il patto generazionale s’è rotto li adulti di oggi accusano i giovani di mancanza di ideali e di valori, di indifferenza e di volubilità eppure sono gli stessi padri che sembrano avere miseramente fallito il passaggio di testimone alla generazione dei figli. Una rottura che segna un
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trauma profondo e storico, foriero cioè di nuove conseguenze. Infatti - come sostiene Francesco Stoppa nella Restituzione (Feltrinelli, 253 pagine, 20,00 euro) - il patto tra generazioni guarda lontano, a chi verrà dopo, distende lo sguardo nel lungo periodo. Sicché la domanda, drammatica, è questa: potrà la nuova generazione restituire ciò che non ha ricevuto o che le è stato trasmesso in forma ambigua, svogliata, saccente?
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Come nasce la cultura globale ll’Oriente manca l’organizzazione occidentale ma all’Occidente manca la capacità contemplativa dell’Oriente. Per questo in Occidente son dilagate le forme di meditazione orientale e per lo stesso motivo in Oriente sta dilagando la tecnologia occidentale. È come se questi due polmoni del mondo cominciassero a respirare insieme anche se il respiro è ancora poco sincronico. In Karma aperto (Moretti e Vitali, 186 pagine, 16,00 euro) Fabrizio Petri disegna un percorso vivo tra Oriente e Occidente che prende le mosse dalla Beat generation passando per l’India e la California e proseguendo nell’attuale società aperta di Internet, modello di contaminazione di generi e culture. Un’analisi avvincente di come nasce una cultura globale.
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Educare il genio dentro di noi osa è l’intuizione? Da dove proviene? Come fidarsi di essa? Come padroneggiarla sempre meglio? E come discriminare le idee sbagliate da quelle giuste che ci vengono in mente? Sembrano le classiche domande da centomila dollari, domande cioè senza risposta. Eppure secondo Swani Kriyananda, ricercatore spirituale discepolo ed erede di Yogananda, non solo esiste una guida interiore dentro ognuno di noi - come spiega nell’Intelligenza intuitiva (Ananda edizioni, 100 pagine, 9,50 euro) - ma è anche possibile riconoscerla cogliendo le intuizioni che ci invia. Nell’Intelligenza intuitiva Kriyananda espone tecniche e percorsi che consentono di sintonizzarsi e accedere al potere dell’intuizione, di capire quali sono le ispirazioni che dobbiamo seguire, in linea con il nostro destino.
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Narrativa
MobyDICK
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ella composizione di quest’ultimo estremo romanzo di Edoardo Albinati, Vita e morte di un ingegnere, deve essere prevalsa, sulla corda amara e espressiva del dato autobiografico, l’intimo desiderio di dedicare al padre oltre che nel tema, nella sua intima struttura, il libro. E così Vita e morte è composto in maniera binaria con una prima parte dedicata alla vita del padre e con una seconda solo e sempre focalizzata sulla fine, la scoperta della malattia, il dolore, le terribili analisi, l’«orografia del dolore», la clinica mangiasoldi, i medici come tipologie agghiaccianti, e i rantoli finali. La prima parte del romanzo comincia con la descrizione di un uomo duro e controllato, un severo uomo d’altri tempi compreso tutto in un lavoro di impresa edile che lo impegna in una maratona giornaliera defatigante: un lavoratore strenuo che non smette la sua maschera di efficenza nemmeno durante i giorni della malattia. «Mio padre non amava la musica. Anzi si può dire che la odiasse» è l’incipit della prima parte che descrive in poche parole un uomo diametralmente opposto al suo primo figlio, il figlio scrittore con il quale ingaggia un confronto fatto di pudori e di scontri, quel figlio che rifiuta di mantenere il tenore dell’alto borghese accettando invece la via della piccola borghesia con l’insegnamento. Un rapporto complesso tra padre e figlio ma sempre nella cornice dei due ruoli: l’ingegnere si sentirà sempre padre e responsabile persino di fronte alla morte, lo scrittore sarà sempre figlio, sospeso nelle proprie inadeguatezze, incapace di prendersi di cura del padre fino in fondo. Il
Edoardo Albinati VITA E MORTE DI UN INGEGNERE Mondadori, 150 pagine, 18,00 euro
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Riletture
libri
che non appartiene al suo mondo. Al mondo diverso da sé che in maniera ostinata sembra non voler riconoscere. Confronto serrato dal giorno in cui la malattia si rivela, attraverso la macchia che assedia i polmoni e che non dà scampo. «Mio padre si è ammalato ed è morto nel giro di nove mesi», comincia così la seconda parte dedicata alla morte dell’ingegnere. L’asprezza e il dolore, l’impreparazione e l’orrore del corpo, tutta la pratica della malattia nei nove mesi che arrivano fino alle fatali ore quando l’ingegnere muore tra i rantoli terribili che distinguono quasi ogni fine umana. Albinati, che si è sempre distinto per una scrittura non letteralmente di stampo narrativo, ma per l’uso ampiamente sperimentato del pastiche giocato fra documento, diario, intervento civile, saggio, ha probabilmente sofferto doppiamente una scrittura che appartiene alla propria biografia, provando a raffreddare una materia incandescente proprio con l’uso costante e continuo della citazione letteraria da Tolstoj a Gottfried Benn, infiltrando episodi frusti come la citazione di alcune pubblicità in voga, ricordando che «circa tre settimane prima di mio padre morì lo scrittore Alberto Moravia, cadde sul colpo mentre si stava sbarbando, nel bagno di casa sua». La morte dell’ingegnere non è come quella di Moravia (ogni morte si distingue anche quando può assomigliare ad altre), ma quello che colpisce in Moravia è la rapidità e la tonicità del corpo anziano che muore di colpo. Il corpo dell’ingegnere invece diviene fonte di sofferenze atroci, un luogo della sperimentazione dei medici, di dolore crudele per il paziente, di sofferenza muta per la famiglia. Il corpo logorato e abusato dal male e dalla vecchiaia, dalle analisi inutili e invasive, dalle medicine che divengono veleni.
Orografia
di un dolore È dedicato al padre il nuovo romanzo di Edoardo Albinati. Un confronto serrato che si impone in nove mesi di terribile malattia di Maria Pia Ammirati gioco sottile fra Edoardo e l’ingegnere non ha nemmeno la mediazione della madre e sembra in realtà divenire concreto solo con alcuni episodi legati alla fama di scrittore di Albinati. Solo di fronte allo scrittore premiato e riconosciuto pubblicamente l’ingegnere cede, cede per un attimo il passo al figlio famoso, all’arte
Guglielmo Petroni dall’occhio alla mente
sce finalmente una ristampa di un libro di Guglielmo Petroni, uno dei più singolari narratori del nostro Novecento. È stato scelto Il nome delle parole, una sorta di autobiografia giovanile dello scrittore significativamente ripubblicata nel 2011, anno del centenario della sua nascita. A Lucca, a Forte dei Marmi, a Firenze, a Roma si compie la formazione artistica e letteraria di Petroni. Fin dal principio del romanzo ci racconta quanta importanza abbia avuto per lui «l’occhio», cioè il guardare e approfondire lo sguardo. Cominciò come pittore e un suo quadro fu lodato da Soffici e da Carrà. Ma l’occhio, quello vero, si apre nella piazza lucchese dove sorge la stupenda luce della Chiesa di San Michele. Lì nella piazza, il padre che vendeva scarpe («mio padre l’ho conosciuto all’età di sei anni, tornava dalle Americhe dove era andato ancor prima che io nascessi») teneva un banchetto al quale per parecchio tempo lavorò anche il figlio. E così tutti i giorni la stupenda vista del San Michele abbacinava i suoi occhi. Più tardi Petroni prese confidenza con la grande pittura degli Impressionisti con particolare riguardo per Cézanne: «Sfogliavo un grande libro di riproduzioni, era arrivato da poco e quasi mi
E
di Leone Piccioni sconvolse: era la pittura di Cézanne… Come fui grato, parecchi anni dopo, a Giorgio Morandi. Cambiò per me la visione del mondo». Anche per lui la trafila letteraria toccata un po’a tutti gli scrittori toscani suoi coetanei: a Lucca l’incontro con Enrico Pea e poi spesso, d’estate, nella vicina Forte dei Marmi, al Quarto platano, il caffè dove si incontra con alcuni dei maggiori maestri del tempo e certamente con Longhi, De Robertis, Soffici, Carrà e altri. «Scrivevo poesia, dipingevo e mi sentivo infelice per il logorante lavoro di bottega»: povera fu la sua infanzia.Vere boccate d’aria dunque le gite a Forte dei Marmi e gli incontri del Quarto platano. Ma di lì a poco, sempre continuando la vita un passo dopo l’altro, viene Firenze e il caffè delle Giubbe rosse, raduno degli scrittori del tempo più incisivi e importanti. Conosce Montale, conosce Gadda, conosce Vittorini. Una sera Vittorini gli fa l’onore di invitarlo a cena a casa sua e poi via via, tutte le volte che Petroni poteva andare a Firenze rimediando qua e là qualche lira, si unisce spesso al gruppo degli scrittori che vanno insieme a cena magari all’Antico
Si ripubblica l’autobiografia giovanile di uno dei più singolari scrittori del nostro ’900
Fattore. La letteratura vera e propria, dopo tante letture di libri italiani e francesi con particolare riguardo a Leopardi, si apre con dei tentativi di poesia: «La letteratura restò segreto mio fintanto che, una sera, non proposi alcune poesie a un caro pittore». E finalmente Roma. Conosce Malaparte che gli procura un posto di redattore alla rivista Prospettive, pubblica su La Fiera Letteraria. Si fa strada in lui l’antifascismo. Prova una profonda delusione quando deve constatare che il «suo» Soffici è un fascista.Vince mille lire per una poesia pubblicata su La Cabala e si accorge che tra i giudici c’erano Bontempelli, Ungaretti, Marinetti e altri. È uno dei motivi del suo primo viaggio a Roma per cui si procura i soldi e un cappotto.Tutto questo gli capita prima della guerra, ma deve riconoscere che la sua città «gli aveva fornito le immagini che avevano avuto la forza di passare dall’occhio alla mente come messaggi rigeneratori». Subisce persecuzioni dai fascisti, è arrestato perché diffonde materiale di propaganda, è portato a via Tasso. È a un passo dalla morte ma se la cava. Nel ’64 vince il Premio Strega. E c’è un ricordo importante anche per me. Quando nel 1949 uscì Il mondo è una prigione (forse il libro più bello di Petroni), Emilio Cecchi curava l’inserto letterario dell’Illustrazione Italiana: chiamò me per la recensione.
Pop
MobyDICK
veva solo due anni, Lucien detto Lulu, quella sera parigina del 1988. Infilato nella salopette, col fragore degli applausi a tappargli le orecchie, vide suo padre in fondo al palcoscenico dello Zénith. Si mise a corrergli incontro. E papà, Serge Gainsbourg, lo prese fra le braccia per poi lasciarlo scappar via. A quel punto, intonò una canzone scritta apposta per lui: Hey Man, Amen.Tre anni dopo, papà volò via: nel paradiso degli artisti maledetti, portandosi appresso l’odore penetrante delle sue Gitanes, l’ebbrezza da whisky e l’ossessione erotica per le donne: da Brigitte Bardot a Jane Birkin, fino a Caroline Paulus, in arte Bambou, la mannequin che diede alla luce Lucien. E lui, che si ostina a farsi chiamare Lulu, dopo aver cominciato a suonare il pianoforte a cinque anni, essersi messo a studiare solfeggio al Conservatorio di Parigi, aver frequentato il Blackheath Conservatoire of Music and the Arts di Londra e il Berklee College of Music di Boston, ha avvertito il bisogno di omaggiare quel padre conosciuto per una manciata di volte; quel Gainsbourg che rivoluzionò la chanson francese a colpi di jazz, rock, reggae e perfino
A
spettacoli
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L’omaggio di Lulu a Monsieur Gainsbarre di Stefano Bianchi rap; quel Serge, sdrucito sessantenne, che sul palco dello Zénith riuscì a tranquillizzarlo, con quei suoi ruvidi modi da beatnik. «Mi rendo conto di quanto questo disco sia potenzialmente rischioso», ha dichiarato. «Per quei puristi che l’hanno recensito negativamente, sono colpevole d’aver commesso un sacrilegio. In realtà, non ho fatto altro che approcciare l’intoccabile repertorio di mio padre con un solo desiderio: dirgli grazie». Inciso a Parigi, New York e Los Angeles, From Gainsbourg To Lulu vede sfilare selezionatissimi musicisti, a partire dal chitarrista Mike Rathke, dal bassista Fernando Saunders e dal batterista Tony «Thunder» Smith che per un’eternità hanno accompagnato Lou Reed. Sono sedici i pezzi rivisitati: da L’eau à la bouche, a Couleur Café. Due in particolare, vedono Lulu Gainsbourg
Teatro
cantare con un accattivante fil di voce: succede nel ritmo tropicalista di L’eau à la bouche e nel valzer intimista di La noyée. La strafamosa, conturbante Bonnie and Clyde, vede invece compiersi il miracolo: Lulu si traveste da Serge, l’attrice Scarlett Johansson si trucca da Brigitte Bardot e fra i due s’innesca un botta-e-risposta vincente. Idem per la percussiva Requiem pour un con, interpretata insieme a Matthieu Chedid e improvvisamente funky nello stile di Lenny Kravitz; e nell’orecchiabile pop di Ne dis rien, intonato con Mélanie Thierry. Altrove, Lulu preferisce mettersi in disparte lasciando che siano altri a «indossare» i capolavori paterni: e allora sì, che Marianne Faithfull fa brillare nella notte Manon, strepitosa ballata; e Rufus Wainwright, con voce sublime, dà a Je suis venu te dire que je m’en vais un tono signorile, dai contorni cameristici. Iggy Pop, nella memorabile Initials BB, non fa che ricalcare la viziosità recitativa di Monsieur Gainsbarre (i sostenitori più devoti lo chiamavano così), mentre Shane MacGowan dei Pogues tramuta Sous le soleil exactement in un sordido folk, l’accoppiata Vanessa Paradis - Johnny Depp riveste la Ballade de Melody Nelson di world music e rock progressivo, Ayo tinteggia Couleur Café di ritmi afro e passaggi scat. Infine il jazz, amatissimo da papà: swingante e bebop (Intoxicated Man), bossanovista (Black Trombone), giostrato alla maniera di Django Reinhardt (Le poinçonneur des Lilas). E bravo Lulu, talentuoso (e non raccomandato) figlio d’arte. Lulu Gainsbourg, From Gainsbourg To Lulu, Fontana/Universal, 13,99 euro
Blanche, Stanley e Stella sul set dell’anima
l 21 gennaio 1949, al Teatro Eliseo di Roma, il Maestro Luchino Visconti allestisce per la prima volta in Italia Un tram che si chiama desiderio dell’americano Tennessee Williams, interpreti Rina Morelli, Vivi Gioi, Marcello Mastroianni e, nel ruolo del protagonista Stanley Kowalsky, Vittorio Gassman in mutande. Nonostante tale schieramento di eccellenze, la censura teatrale dell’epoca si arena di fronte alla presenza nel testo di alcune parolacce e decide di vietarlo ai minori di anni 16. Ora Antonio Latella lo ripropone con la produzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione. Due ore e 45 minuti di scelte forti, non certo per il turpiloquio. Un linguaggio teatrale in alcuni momenti esasperato, sempre pertinente, che tuttavia, va detto, potrebbe risultare per alcuni eccessivamente intrusivo, se non addirittura sgradito. Da subito: a fondo scena, fronte platea, un’americana collassa-
I
di Enrica Rosso ta - ad altezza pupilla per intenderci. Luci che abbagliano, infastidiscono, irritano la retina, costringono a continui aggiustamenti del capo per ripararsi all’ombra dello spettatore che ti sta davanti. In sala, luci accese per buona parte dello spettacolo. Sul palco una scena impavida - di Annelisa Zaccheria - che inventa un interno da set dell’anima in cui, dicevamo, le luci di Robert John Resteghini hanno un carattere proprio e sviluppano emozioni potenti con riflettori impiantati ovunque, annidati nelle lignee strutture, corrose e conseguentemente scheletriche, di un mobilio scabro, incompiuto, senza imbottiture - morbidezze - di sostegno. Mobili guida, prototipi trafitti dalla luce che indicano un luogo, ma non un tempo, semplicemente citano uno spazio incolore, infido. A fronte di tale quadro, maggiormente spicca e si
segnala la rassicurante quanto sobria postazione del medico curante di Mme Blanche Du Bois come isola di normalità. Il dottore - che nell’originale ha il compito di far ricoverare Blanche ormai folle ed entra in scena solo immediatamente prima della fine della pièce - è qui narratore dell’intera vicenda vissuta all’unisono con Blanche. Antonio Latella non fa sconti e affronta di petto il malessere dei personaggi, li espone con vertiginosa crudezza al loro destino rendendoli cristallini. Ci restituisce, per così dire, i fulcri nodali dei personaggi senza l’abbellimento dell’involucro. Laura Marinoni, Vinicio Marchionni, Elisabetta Valgoi, Giuseppe Lanino, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, egregiamente creano la loro verità svincolandosi da insidiosi clichès o da strade già percorse; ognuno con
scrupolosa generosità e totale dedizione. La traduzione di Masolino D’Amico, sempre straordinariamente vivida e folgorante per potenza evocativa, non è meno lucida dell’originale inglese di Tennessee Williams e ne rende in pieno le scelte. Per evitare qualsiasi confronto con chi li ha preceduti, il costumista Fabio Sonnino fa indossare a Blanche maglietta bianca basica e pantaloni neri - davvero poco seducente - concedendole solo sul finale un abito da bambola impazzita; a Stanley Kowalski un set di magliette con l’effige di Marlon Brando, mentre Stella entra in scena con il faccione di Marilyn Monroe sulla pancia e Mitch è vestito da dandy. Musiche a strappo, a destrutturare le scene scelte da Franco Visioli.
Un tram che si chiama desiderio Roma, Teatro Argentina, fino all’11 marzo, tel. 06 684000311 www.teatrodiroma.net
MobyDICK
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sempre un evento un nuovo film di Carlo Verdone, decano della commedia d’autore italiana. Nella sensibilità è molto lontano da Woody Allen, ma con punti di contatto. Scrive una sceneggiatura ogni anno o quasi, intorno a un protagonista (sempre lui); ma promette di dedicarsi in futuro esclusivamente alla regia. È stato un sollievo quando Allen ha smesso di fare il nevrotico don Giovanni ormai incartapecorito che ammalia stupende ragazze poco più che adolescenti. In Posti in piedi in Paradiso, siamo in una Roma popolata da maschi spiaggiati alla Neil Simon (La strana coppia), lontana dall’universo amorale di Basta che funzioni. Woody è ancora il re delle battute e delle commedie a orologeria anche quando i contenuti latitano (Melinda e Melinda), ma Verdone ha più spessore: non nega l’esistenza dell’anima. Scrive copioni meno perfetti di quelli dell’americano nichilista, ma più luminosi. Posti in piedi racconta la dura vita di tre padri e mariti divorziati, ridotti in penuria dagli alimenti, con sempre maggiori difficoltà a versare «il mensile» dovuto. Sono precari in tutti i sensi, specie quello esistenziale.
È
Ulisse (Verdone) vive nello sgabuzzino dietro il suo negozio di vinili e oggettistica vintage, ultime vestigia di una bella carriera discografica alle spalle. Dopo aver prodotto per amore un disco fallimentare per la moglie Claire (Diane Fleri), cantante mediocre, è caduto in disgrazia. Stufo di lavarsi in un minilavandino con acqua corrente incerta, decide che è ora di trovarsi un giaciglio decente. Fulvio (Pierfrancesco Favino) da stimato critico cinematografico è ridotto a scrivere pezzi di gossip e colore per mantenere (male) se stesso, la figlia e Lorenza (Nicoletta Romanoff), ex moglie in depressione post parto, che dopo aver scoperto che lui la tradiva lo ha cacciato. Alloggia in un convento di suore dove deve rincasare in orari in conflitto con il rincorrere vip a feste e anteprime fino a tarda sera. Urge qualcosa di più laico. Domenico (Marco Giallini, che rubava la scena in Io, loro e Lara e pure qui) è un imprenditore fallito che fa l’immobiliarista; deve mantenere due ex con i rispettivi figli. Come unico tetto ha la barca di un amico, ma l’estate arriva e
cinema
Tre maschi allo sbaraglio
(e un inno alla vita) di Anselma Dell’Olio
deve sloggiare. I tre perfetti estranei si incontrano quando Fulvio e Ulisse arrivano insieme per vedere un appartamento gestito da Domenico. Quasi svenuti per il costo dell’affitto, i due sfigati confessano la semi indigenza. Folgorato, Domenico propone una convivenza a tre per dividere le spese. Così l’affitto è abbordabile, e se i cellulari prendono male e la metropolitana provoca un terremoto a ogni passaggio, è pur sempre un focolare migliore di quelli attuali. Lo spregiudicato immobiliarista serba un segreto: per arrotondare, si presta come escort a donne «di una certa età» (locuzione esilarante di suo). Di mezz’età pure lui, durante una presta-
del film, l’ingrediente che lo fa decollare. Le disavventure di questi maschi allo sbaraglio, che tentano persino un furto in casa di una facoltosa cliente di Domenico («Come Robin Hood: rubiamo ai ricchi per dare ai poveri - cioè noi»), sono altalenanti nella riuscita ma in media sono divertenti. È una rarità, ma il film migliora in dirittura d’arrivo, quando Agnese, la figlia diciasettenne di Ulisse che vive a Parigi, gli dice che è incinta. Ulisse e Claire si trovano finalmente in sintonia nell’insistere che l’adolescente deve assolutamente liberarsi dell’ingombro al più presto, pena «rovinarsi la vita». Il fidanzatino coetaneo di Agnese, felice come lei di acco-
Convince “Posti in piedi in Paradiso”, la nuova commedia di Carlo Verdone, un autore di spessore perché non nega l’esistenza dell’anima. “Gli sfiorati”, tratto dal romanzo che ha lanciato Sandro Veronesi, ha un primo tempo di inaspettata efficacia zione ha un malore per eccesso di Viagra, ingerito per non deludere le clienti. Il film ha uno scatto di vitalità con l’arrivo di una poco ortodossa cardiologa convocata d’urgenza. Gloria (Micaela Ramazzotti) è un medico in tutti gli stati perché scaricata dall’amante agé quando arriva la richiesta telefonica di un pronto intervento. La parte di una donna sexy, adorabile e in confusione sentimentale è fatta su misura per lei, ed è il ruolo meglio scritto e realizzato
gliere il bambino, è figlio di cassintegrati, e il futuro dei ragazzi è improponibile, secondo la più trita vulgata contemporanea. Le tre storie si risolvono in modo agrodolce, ma il caparbio inno alla vita di Agnese spinge in alto i cuori e si esce dal cinema in stato di grazia. E se in futuro l’autore lascerà che la prima attrice giovane si innamori di un protagonista più confacente e meno vicino all’età della pensione, gli saremo ancora più grati.
Gli sfiorati, dal romanzo scritto vent’anni fa che ha lanciato Sandro Veronesi, ha un primo tempo di straordinaria, inaspettata efficacia. Il titolo allude ai giovani che si lasciano vivere, «sfuggenti, distratti, schiumevoli» (dal risvolto di copertina del romanzo appena ripubblicato da Fandango libri). Mète (Andrea Bosca) è un giovane studioso di grafologia, un mestiere che l’autore intende forse come una metafora: decifrare alcune caratteristiche psicologiche di un individuo attraverso l’analisi della sua calligrafia. È un elemento non ben integrato nello svolgersi del racconto filmico, e può sembrare fumoso per chi non ha letto il romanzo. Mète ha due amici, Bruno (Claudio Santamaria), un altro maschio in crisi per una separazione, e Damiano (Michele Riondino), un libertino sempre a caccia di conquiste usa e getta. Sergio (Massimo Popolizio) è il padre di Mète, fuggito con una spagnola quando lui era piccolo, e con una figlia adolescente di secondo letto di nome Belinda (Miriam Giovanelli, sensuale e opaca). Nel romanzo la ragazza ha 15 anni, nel film qualcuno in più, forse per rendere più digeribile la svolta osée e moralmente neutra di un rapporto incestuoso. I fratellastri si conoscono poco; quando l’incasinata, apatica Belinda è spedita a casa di Mète, per toglierla di mezzo durante i preparativi per il matrimonio dei genitori (la madre di Mète è morta da poco), la storia invece di accelerare si smarrisce. Bosca è bravo, ma la regia non costruisce la centralità, l’ineluttabilità del rapporto proibito, punto di svolta del film; invece sembra esplodere all’improvviso. Dopo una prima ora sorprendente, la seconda sembra riassumibile nella vecchia boutade: Vice is nice, but incest is best. (Il vizio è bello, ma l’incesto è meglio).
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Magistratura onoraria: una riforma non più rinviabile RIFORMARE IL SISTEMA DI FINANZIAMENTO PUBBLICO AI PARTITI... PER CAMBIARE DAVVERO La necessità di riformare l’attuale sistema di finanziamento pubblici ai partiti, per abbattere la distanza tra politica e Paese reale: sarà questo l’oggetto dell’incontro pubblico che si terrà lunedì 5 marzo alle 18 presso la sala della Protomoteca in Campidoglio. Il convegno, organizzato dal Centro Studi “Riforme” dell’associazione cultura Cambiare Davvero, vuole fare il punto sulle prospettive di cambiamento sollecitando il dibattito con le forze politiche presenti: parteciperanno l'on. Esterino Montino (capogruppo Pd alla Regione Lazio), l'on. Giuseppe Consolo (docente Università Luiss “Guido Carli” di Roma, Deputato Futuro e Libertà, componente Commissione Finanze alla Camera dei Deputati), l'on. Pino Pisicchio (capogruppo ApI alla Camera dei Deputati, vicepresidente Giunta delle Elezioni) e l'On. Roberto Rao (Deputato Udc, Componente Commissione Giustizia alla camera dei Deputati). Alcuni recenti fatti di cronaca, come le speculazioni finanziarie della Lega Nord con i soldi pubblici dei rimborsi elettorali e le distorsioni emerse nel caso dell'ex tesoriere della Margherita, hanno chiaramente dimostrato che l'attuale sistema di finanziamento pubblico ai partiti necessita di un'urgente e incisiva riforma strutturale. Il punto di partenza di questa modifica non può che essere quindi la valorizzazione di un principio di trasparenza dell’origine, dell’entità e dell’utilizzo dei fondi pubblici che, attraverso i sacrifici dei contribuenti, il nostro Paese attribuisce ai partiti. Sarebbe inutile liquidare la questione con proposte unicamente demagogiche volte ad abrogare del tutto ogni contributo, anche perché il finanziamento/rimborso costituisce pur sempre una della maggiori conquiste della politica democratica. Il convegno di lunedì, quindi, sarà orientato a mettere sul tavolo del dibattito pubblico le proposte di Cambiare Davvero, dei rappresentati politici presenti e degli autorevoli esponenti della società civile (Associazione Open Polis, Fondazione Fare Futuro, Fondazione Astrid, Associazione Libera contro le Mafie, ed altri…) su come far operare in concreto meccanismi di trasparenza, di previsione di stringenti tetti di spesa prefissati, di rigidi meccanismi di controlli dello Stato, di pesanti obblighi di rendicontazione analitica, di destinazione di quota parte dei finanziamenti ricevuti, di partecipazione democratica alla vita del partito e di collegialità nelle scelte strategiche dello stesso. In altre parole, tutto ciò che ora manca nel nostro Paese e che servirebbe per Cambiare Davvero… Alessandro Onorato, C A P O G R U P P O UD C RO M A CA P I T A L E
LE VERITÀ NASCOSTE
Fra le tante e troppe emergenze del nostro Paese è passata nel dimenticatoio quella relativa alla riforma della magistratura onoraria che attende una definitiva ed organica regolamentazione sin dal periodo intercorrente fra la trasformazione delle preture mandamentali in sezioni e la istituzione degli uffici dei giudici di pace. La mancata riforma ha prodotto in passato enorme disparità di trattamento economico tra Goa (Giudici onorari aggregati), Got (Giudici onorari di tribunali), vice procuratori, e giudici di pace. Con l’esaurimento delle funzioni dei Goa la disparità di trattamento permane tra i giudici onorari di tribunali e i giudici di pace. E infatti mentre i primi sono retribuiti solo con il gettone di presenza per le udienze, per i giudici di pace è prevista, oltre al gettone per le udienze tenute,una indennità di carica e compensi variabili in relazione al lavoro svolto (sentenze, decreti ingiuntivi, conciliazioni e cancellazioni dal ruolo). La disparità di trattamento economico è un fatto che nuoce all’immagine della istituzione che merita di essere eliminata al più presto anche per un senso di giustizia. La crisi economica nazionale non può e non deve costituire un alibi per rimandare le riforme giuste e necessarie. E quella relativa alla magistratura onoraria merita di essere catalogata fra le priorità per evitare di perdere professionalità acquisite e per dare un riconoscimento a chi in questi anni ha speso tutte le energie nell’amministrazione della giustizia.
Luigi Celebre
LO STRANO DESTINO DELLA STATUA DI MAZZINI La notizia apparsa sul web del proposto trasferimento della statua di Mazzini ad Enna appare inverosimile non solo perché l’iniziativa è attribuita al locale Pd ma anche perché il trasferimento coincide con il 140esimo anniversario della morte dell’«ultimo dei grandi italiani antichi e il primo dei nuovi», come lo definì il vate Giosuè Carducci. Strano destino quello di Mazzini costretto a morire esule in Patria e sfrattato in morte, come è stato tentato di fare, lo scorso anno, con un altro monumento in quella che era la rossa Lunigiana. Evidentemente il comune di Enna è così ricco e non ha altri problemi, per cui in piena crisi economica nazionale può permettersi il lusso di affrontare le non poche e non irrilevanti spese necessarie per trasferire in altro sito la statua di Mazzini. Spostare una statua è come cancellare un pezzo di storia. Mortificare i sentimenti di coloro che l’hanno edificata, i valori e il messaggio politico e morale che intendevano tramandare ai posteri. Spostare una statua assomiglia alla furia iconoclasta dell’imperatore bizantino Leone III. Appare come la volontà di rompere i legami
ideologici col passato. Ed Enna, la vecchia Castrogiovanni, ha un passato glorioso e d’avanguardia in epoche in cui occorreva “fegato e carattere” per sostenere l’azione politica di uno dei suoi figli migliori: il mazziniano on. Napoleone Colajanni. Enna che nell’innalzare una statua ad Euno, capo della prima guerra servile contro Roma, volle identificare il carattere della sua popolazione con la capacità e il coraggio di andare anche contro corrente oggi pare si accinga, il dubbio è d’obbligo, a sfrattare l’artefice massimo dell’unità nazionale col quale, nell’edificare la statua,sentiva di avere in comune gli ideali repubblicani, il rigore morale e l’anelito di conseguire una migliore giustizia sociale fondata sul lavoro e sulla cooperazione.
L.C.
L’EMPATIA TRA MEDICO E PAZIENTE Un malato non è la rappresentazione della malattia che ha, per esempio un fibroma dell’utero (patologia benigna) o un tumore dell’ovaio (patologia maligna), ma è in primo luogo una persona e in secondo luogo portatore di una determinata malattia. Quando si fa attività di reparto bisogna cercare subito di entrare in una sinto-
L’IMMAGINE
Venerdì 9 - ore 11- Camera dei deputati Auletta dei Gruppi Parlamentari Via di Campo Marzio 78 - Roma
VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Un brasiliano di 41 anni, Ricardo Sergio Freire de Barros, è stato arrestato a Recife, nel nord-est del Brasile, mentre cercava di aprire un conto in banca usando la foto del popolare attore americano Jack Nicholson nel proprio documento di riconoscimento. Il ladro di identità aveva creato una serie di documentazioni false per riciclare denaro sporco, ma i dipendenti dell’agenzia bancaria si sono insospettiti quando hanno notato nella certificazione presentata allo sportello una foto, risalente al 2003, dell’attore premio Oscar, protagonista di innumerevoli film di successo tra cui Qualcuno volò sul nido del cuculo, Qualcosa è cambiato e Voglia di tenerezza. Per l’aspirante divo di Hollywood, quello brasiliano, non c’è stato scampo: la polizia lo ha arrestato in flagrante. Ad aggravare la scelta del criminale anche la dichiarazione della polizia brasiliana: «Non c’è alcuna somiglianza tra l’attore e il ladro». Ora dovrà rispondere per i reati di uso di documento falso e falsificazione di documento pubblico.
nia particolare con la persona che ci si trova davanti e capire come comunicarle la patologia che ha e tutti i rimedi possibili. Entrare appunto in empatia con il paziente, conoscerlo e sapere come affrontarlo, capire ed accettare le sue reazioni qualche volta aggressive, altre volte di sconforto e, perché no, anche euforiche quando si comunica una buona notizia. Solo così si riesce a rendere tranquilla la persona e a farle affrontare una degenza in ospedale in maniera serena. Spesso questo approccio manca e quando andiamo nei reparti sentiamo dire dai medici: «Oggi ho due fibromi dell’utero e un tumore dell’ovaio». La persona viene dimenticata.
Alessandro Bovicelli
FERMIAMO LO SCEMPIO SUL LUNGOMARE DI NAPOLI
APPUNTAMENTI MARZO
LECTIO MAGISTRALIS di Michael Novak “I diritti umani nell’era della globalizzazione”
Un truffatore senza arte né parte
Dal garage al binocolo Sembra la scultura di un museo, ma in realtà questo gigantesco binocolo è l’ingresso del Google Campus di Los Angeles. Anche per questi uffici, il sito più visitato al mondo (nato nel 1998 in un garage da un’idea di Larry Page e Sergey Brin dell’Università di Stanford) ha confermato la sua predilezione per i luoghi di lavoro non convenzionali, proprio come questo complesso realizzato dal famoso architetto Frank Gehry
In questi giorni si sta consumando l’ennesimo scempio a Napoli. Parlo dei lavori sul lungomare di via Caracciolo che non si comprende quale logica rispettino: quella del cittadino comune, che affidandosi al nuovo sindaco credeva nella rinascita della città, o quella di qualche imprenditore senza scrupoli. La scogliera di via Caracciolo, la spiaggia del lido Mappatella e il piazzale Diaz sono un vanto della città e meta di turisti di tutto il mondo. Perché stravolgere con dei lavori un siffatto pezzo d’arte, la sua storia, la sua bellezza paesaggistica? Tanto per cominciare l’allungamento della scogliera porterebbe ad un molto prevedibile danno ambientale, poiché impedendo il ricambio d’acqua, trasformerebbe la spiaggia e il mare che la bagna in uno sporco e puzzolente acquitrino. Senza contare l’ipotesi più pessimista, ovvero un’inaccettabile quanto mostruosa colata di cemento per trasformare la scogliera in uno squallido ed arido molo. Sicuro di riuscire a sensibilizzare l’animo di chi legge, lancio un appello affinché si impedisca che tali lavori assumano la dimensione che temo, rovinando per sempre l’ineguagliabile lungomare di Napoli.
Marco Scocchera
mondo
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Dissidenti, studenti, giornalisti, sindacalisti indipendenti e attivisti sono stati arrestati arbitrariamente nei mesi precedenti le elezioni che si sono tenute ieri in Iran. È impressionante la denuncia di Ihr
Il cappio di Teheran Il regime usa la pena di morte per terrorizzare la gente. Nel solo 2011 sono state condannate e uccise 676 persone di Osvaldo Baldacci l regime iraniano corre spensierato verso il record di pena di morte. Se nel mondo il fenomeno fortunatamente cala (persino nell’irraggiungibile Cina con le sue migliaia di esecuzioni), in Iran già secondo Paese al mondo per esecuzioni - la crescita è invece esponenziale. Ed è abbastanza evidente che la pena capitale, inserita in un più ampio contesto di repressione, è usata come strumento di terrore. Se grave è il problema della corsa al nucleare militare, la comunità internazionale dovrebbe avere la consapevolezza che ben più grave è il tema dei diritti umani, il rispetto dei quali è l’unica vera garanzia per un Paese. Della crescita esponenziale dell’uso della pena di morte in Iran se ne è discusso nei giorni scorsi al Senato in occasione della presentazione del Rapporto annuale 2011 sulla pena di morte in Iran presentato dall’associazione Iran Human Rights, protagonista anche di un’audizione nella Commissioni diritti umani del Senato. Iran Human Rights (Ihr) è un’organizzazione non governativa, apartitica e politicamente indipendente che ha sede a Oslo ed è attiva dal 2007 con soci in tutto il pianeta. Dallo scorso anno è stata aperta la sezione italiana composta da italiani e iraniani.
I
«Abbiamo cominciato a dedicarci a questa causa – spiega il presidente Marco Curatolo – quando ci siamo resi conto che in Iran venivano perseguitati giovani, studenti, giornalisti, difensori dei diritti umani proprio come noi. Potevamo essere noi. E quindi non potevamo far finta di niente». La sezione italiana rispetto alla casa madre ama allargare il tema più ampiamente ai diritti umani, mentre il focus di Ihr internazionale è tutto concentrato sulla pena di morte. Anzi, per scelta l’associazione è totalmente apartitica, non vuole cioè prendere posizione ufficiale neanche contro il regime in quanto tale: si limita a raccogliere puntigliosamente tutti i dati sulle esecuzioni in Iran e a mostrare la pura realtà nuda e cruda, per gran parte con dati forniti dalle stes-
se autorità iraniane, che vengono così messe di fronte a quello che esse stesse comunicano e soprattutto fanno. Non è un lavoro facile, non è un lavoro da poco e soprattutto non è un lavoro di per sé neutrale, come ogni ricerca della verità che in quanto tale sbugiarda la menzogna del potere. E infatti si fa presto a scoprire l’universo di male che si nasconde dietro le condanne a morte che per di più in Iran sono tutt’altro che asettiche. Primo elemento, la crescita enorme delle condanne e delle esecuzioni proprio a partire dalle contestate elezioni presidenziali del 2009, quelle a seguito delle quali è cominciata l’onda verde, le contestazioni contro il presidente Ahmadinejad e la guida suprema Alì Khamenei, che in realtà da allora sono entrati in contrasto anche fra loro. E probabilmente non a caso da allora sono aumentate le esecuzioni pubbliche a scopo intimidatorio e deterrente e anche le condanne a morte in contesti sempre meno trasparenti. «Non ci sono dubbi - ha affermato Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce internazionale di Iran Human Rights - che le autorità iraniane usino la pena di morte come strumento politico. La pena di morte in generale e le esecuzioni pubbliche in particolare sono lo strumento più importante usato dal regime iraniano per suscitare paura all’interno della società». Questo in un contesto in cui migliaia di dissidenti, studenti, giornalisti, sindacalisti indipendenti, attivisti e difensori dei diritti umani sono stati arrestati arbitrariamente senza avere la possibilità di rivolgersi a un avvocato. Molti sono stati condannati a severe pene detentive dopo processi iniqui. «I difensori per i diritti umani e gli avvocati che difendono i prigionieri politici e i condannati a morte finiscono a loro volta in prigione, come nel caso di Nasrin Sotoudeh, oppure sono spinti all’esilio – elenca Mahmood Amiry-Moghaddam.
Artisti e registi come Jafar Panahi, portatori di una voce di dissenso, vengono costretti al silenzio. Esponenti di minoranze etniche sono vittime di per-
I difensori dei diritti umani e gli avvocati che tutelano i prigionieri politici e i condannati alla pena capitale finiscono a loro volta in prigione (come Nasrin Sotoudeh), oppure sono spinti all’esilio secuzioni e discriminazione. Viene impedita l’attività dei sindacalisti indipendenti. Vengono arrestate le attiviste per la parità delle donne, come le esponenti della campagna “One Million Signatures”, che chiedono l’abolizione delle norme discriminatorie contro le donne. E non possiamo dimenticare, ad elezioni parlamentari appena concluse, che i due candidati dell’opposizione alle presidenziali del 2009, Mir Hossein
Mousavi e Mehdi Karoubi, cosi come la moglie di Mousavi, Zahra Rahnavard, si trovano da oltre un anno agli arresti domiciliari”. In generale negli ultimi tempi le autorità hanno rafforzato le restrizioni alla libertà di espressione e manifestazione. Venendo nello specifico alla pena di morte, come dicevamo l’Iran è il secondo Paese al mondo per numero di condanne eseguite. Secondo l’ultimo rapporto della sezione centrale di IHR
sulla pena di morte, nel 2011 almeno 676 persone sono state vittime di esecuzioni. Tra loro, almeno 4 erano rei minorenni e 16 donne. Nel 2011 in Iran si è quindi registrato il numero più alto di persone messe a morte dagli anni Novanta ad oggi: erano state 165 nel 2000, 75 nel 2001, 316 nel 2002, 154 nel 2003, 108 nel 2004, 94 nel 2005, 177 nel 2006, 317 nel 2007 (fin qui dati di Amnesty International); nel 2008, anno in cui la raccolta dati di Iran Human Rights si affianca a quella di Amnesty, le esecuzioni sono state 350 per Ihr e 346 per Amnesty International, nel 2009 rispettivamente 402 e 388 e 546 nel 2010 (poi aggiornato in 646). Delle 676 vittime registrate nel 2011, Ihr ne ha ricavate 416 da fonti ufficiali e 260 da fonti non ufficiali. A questo proposito va però segnalato che le verifiche sono rigorosissime, e nel dubbio le esecuzioni non confermate da almeno due fonti indipendenti non vengono conteggiate. Più di altre 70 esecuzioni di cui Ihr ha ricevuto notizia non sono state incluse nel rapporto annuale a causa delle difficoltà di confermare con certezza alcuni dettagli. Inoltre Ihr ha ricevuto notizie di esecuzioni segrete o “non rese note” in più di 15 diverse prigioni iraniane. Negli ultimi due anni, le stesse autorità hanno anche introdotto nuove leggi e fatto cambiamenti a quelle esistenti per rendere
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A sinistra, la nobel per la pace Shirin Ebadi manifesta per il rilascio di Nasrin Sotoudeh. A destra, Zahra Rahnavar e suo marito Mir Hossein Mousavi. In basso, il regista Jafar Panahi l’uso palese e almeno formalmente trasparente in un numero assai limitato di casi. Per questo motivo - e dal momento che si tratta di persone processate da tribunali rivoluzionari a porte chiuse -, in molti casi di condanne per narcotraffico non è stato possibile avere conferma delle accuse.
la pena di morte applicabile ad un più ampio numero di reati. Di recente è stata fatta anche circolare la notizia dell’abolizione dell’esecuzione per lapidazione, ma persino questa affermazione non è corretta: la lapidazione è stata tolta dal codice penale, ma parallelamente il nuovo Codice penale islamico iraniano (approvato recentemente dal Consiglio dei Guardiani) rende più facile per i giudici il ricorso all’uso della Sharia, la legge islamica tradizionale, nella quale la lapidazione è prevista. Ciò significa anche, per esempio, che sarà più semplice per i giudici condannare a morte chi si converte dall’Islam. Numerosi cristiani convertiti iraniani sono stati di recente arrestati e potrebbero essere condannati a morte.
L’uso della pena di morte come strumento di terrore e deterrenza è mostrato chiaramente anche da un altro elemento: è aumentato drasticamente il numero di esecuzioni in pubblico, 65, un dato di oltre tre volte superiore alla media degli ultimi anni. Venendo ora al dettaglio dei dati sulle esecuzioni compiute in Iran nel 2011, limitatamente alle 416 esecuzioni rese note dalle autorità iraniane, i reati che hanno motivato le condanne a morte sono stati il traffico di droga nel 71% dei casi, stupro e violenza sessuale nel 13%, omicidio nel 7%,
Moharebeh (inimicizia con Dio) nel 4%, rapina a mano armata 1%, sodomia 1%, sequestro di persona 1%, apostasia 0%, altri 2%. Da segnalare in particolare che almeno 4 rei minorenni sono stati messi a morte, così come almeno 16 donne, sebbene l’esecuzione di 13 di queste donne non sia stata resa nota dalle autorità iraniane. Ihr segnala inoltre che 3 giovani sono stati messi a morte per l’accusa di sodomia, un uomo è stato messo a morte per l’accusa di “apostasia” (non compare tra le condanne ufficialmente rese pubbliche). Come negli anni passati, il narcotraffico è stata l’accusa per cui più frequentemente le autorità iraniane hanno messo a morte le persone. L’81% delle vittime di esecuzione nel 2011 in Iran erano state riconosciute colpevoli di traffico di stupefacenti e condannate a morte dai tribunali rivoluzionari. Però è senz’altro da notare che l’80% delle persone messe a morte per traffico di droga non sono state identificate con il nome completo. Questo vuol dire che più della metà delle persone uccise secondo le fonti ufficiali è comunque non identificata o almeno non formalmente, dato che si aggiunge alle esecuzioni confermate da Ihr ma non rese note dalle autorità. In pratica le autorità iraniane pur facendo ampio e manifesto ricorso alla pena di morte ne ammettono
L’associazione inoltre ha notizie di processi iniqui e di confessioni estorte sotto tortura. Ihr perciò spiega che, per quanto la droga sia effettivamente una piaga molto grave in Iran, non si può escludere l’eventualità che possano esserci, tra i condannati, persone che avevano partecipato a manifestazioni di protesta, dissidenti, o membri dell’opposizione. «Sappiamo infatti – ribadisce Mahmood Amiry-Moghaddam - che far trovare false prove o condannare gli imputati sulla base di false confessioni è prassi comune in Iran. Particolarmente significativo è il caso di Zahra Bahrami, cittadina iraniana e olandese, arrestata all’indomani delle proteste di massa del dicembre 2009, condannata a morte per il reato di moharebeh (inimicizia con Dio) a causa dei suoi legami con un gruppo di opposizione bandito dalle leggi del Paese, ma poi messa a morte con l’accusa di traffico di droga. L’accusa di moharebeh è stata usata spesso nel 2011 per mettere a morte chi era ritenuto colpevole, in prima persona, di essere coinvolto nella lotta armata contro le autorità o chi aveva anche solo qualche legame con
Iran. Come sviluppatore di software, aveva messo a punto un programma per caricare immagini su siti web. Lo stesso programma è stato utilizzato in un sito di contenuti per adulti. In seguito Malekpour è stato ritenuto colpevole di aver gestito quel sito definito “osceno”, ed è stato condannato a morte. La sua condanna è stata recentemente confermata dalla Corte Suprema. Alcune notizie riferiscono che la sentenza è stata inoltrata alla sezione incaricata dell’applicazione delle condanne e che Malekpour potrebbe essere messo a morte in qualsiasi momento. La pena di morte contro progettatori di siti web e sviluppatori di software s’inserisce nel contesto della campagna del regime contro l’uso di Internet da parte dei giovani iraniani. «Va sottolineato - aggiunge il presidente di Iran Human Rights Italia Marco Curatolo - che i dati agghiaccianti sulla pena di morte vanno aggiunti a quelli sulla soppressione della libertà di espressione e a quelli sugli arresti arbitrari, i processi sommari e le condanne subite da
I due candidati dell’opposizione alle presidenziali del 2009, Karoubi e Mousavi (ma anche sua moglie Zahra Rahnavard) ormai da oltre un anno sono agli arresti domiciliari gruppi di questo genere. Il 4% delle esecuzioni sono state motivate con questo tipo di accusa, ma come abbiamo appena visto l’accusa è entrata in gioco in molti più casi anche se poi è risultato più “accettabile” procedere alla condanna per accuse apparentemente meno controverse. Le autorità iraniane hanno anche condannato a morte quattro progettatori di siti web, giudicati colpevoli di diffondere la “corruzione sulla terra”, un’espressione che nel sistema giudiziario iraniano non indica una accusa precisa ma lascia al giudice del tribunale rivoluzionario la piena facoltà di decidere, e che implica appunto la condanna a morte. Uno di questi condannati è Saeed Malekpour, un residente in Canada che fu arrestato nel 2008 in
dissidenti, giornalisti, studenti attivisti, difensori dei diritti umani, nonché da esponenti di minoranze politiche, etniche e religiose». «L’Iran - continua Curatolo - è di nuovo, come spesso è accaduto in questi ultimi anni, la più grande prigione al mondo per blogger e giornalisti. Le restrizioni sull’uso di Internet e dei social network e l’annunciata chiusura al traffico web internazionale fanno pensare a un Paese che il regime vuole sempre più isolato dal mondo e sempre meno libero». Gli studenti attivisti vengono espulsi dalle università, privati del diritto a proseguire gli studi, arrestati e condannati a pene severissime. Tornando alle esecuzioni, nonostante l’Iran abbia ratificato la “Convenzione internazionale ONU sui diritti dell’infanzia”
che vieta la pena di morte per i reati commessi sotto i 18 anni di età, il Codice penale islamico dell’Iran fissa a 19 anni per le ragazze e a 15 per i ragazzi l’età minima per essere penalmente incriminati e condannati. Secondo i dati riportati nel rapporto di Iran Human Rights sono almeno 4 i minori messi a morte nel 2011. In realtà in molti casi viene lasciata al giudice la facoltà di stabilire se l’accusato, anche se minorenne, sia “maturo” e come tale passibile di pena di morte.
Un altro caso che mostra l’attenzione del regime per poter continuare a svolgere la sua repressione nel minor clamore possibile è quello delle donne. Le donne messe a morte sono almeno 16, ma solo nel caso di tre di loro c’è la conferma ufficiale da parte delle autorità iraniane. La tendenza a non rendere note queste esecuzioni in Iran potrebbe essere dettata dalla maggiore sensibilità dell’opinione pubblica internazionale al tema della pena di morte applicata contro le donne. È in questo clima che l’Iran è andato alle urne, le prime elezioni da quel 2009 in cui fu riconfermato Ahmadinejad e scoppiò la protesta nel Paese. A queste elezioni si è arrivati in un clima internazionale sempre più teso e con uno scontro durissimo tra le due anime del regime, quella legata al presidente e quella che fa riferimento alla Guida Suprema Alì Khamenei, contrapposte ma unite nella repressione. Infatti alle elezioni non sarà presente la componente riformista, con Kharrubi e Mousavi ancora gli arresti, mentre l’opposizione e la dissidenza dell’onda verde ha invitato a boicottare le urne. In conclusione, Iran Human Rights Italia chiede con forza che i governi dei paesi democratici considerino con maggiore attenzione l’Iran non solo sotto la prospettiva della minaccia nucleare, ma anche o soprattutto sotto quella delle gravissime violazioni dei diritti umani che il popolo iraniano subisce ogni giorno, e rafforzino l’assedio al regime in una prospettiva rigorosamente non violenta e non bellica.
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grandangolo La sua attuale forza nasce dalla debolezza degli avversari
Putin III, un vero trionfo o una vittoria di Pirro?
Russia al voto, domani, per scegliere il suo presidente.Vladimir Putin, stragrande favorito, corre per il suo terzo mandato al Cremlino e conferma il tandem con Dmitri Medvedev, pronto a traslocare alla Casa Bianca. «Torneremo a essere una grande potenza» tuona lo Zar, ma la sua vittoria potrebbe essere azzoppata dall’opposizione. Che punta a crescere di Enrico Singer anca ancora un giorno al momento in cui saranno aperte le urne nella sterminata Federazione russa, ma tutti sanno molto bene quello che dovranno fare dopo, quando tra la notte di domenica e lunedì arriveranno i risultati delle elezioni con il loro verdetto scontato.Vladimir Vladimirovic Putin ha già preparato il discorso della vittoria che lo consacrerà presidente per la terza volta, dopo i cinque anni passati a guidare il Paese nei panni di primo ministro in condominio con Dmitri Medvedev. L’opposizione ha prenotato la piazza Pushkin dove vorrebbe anche piantare una tendopoli per dare vita nel cuore di Mosca a una protesta a oltranza contro un sistema di potere che si è fatto regime. Le cancellerie occidentali hanno pronti i messaggi che intrecceranno le inevitabili congratulazioni all’invito a rispettare il dissenso, a indagare sugli eventuali brogli e a compiere passi concreti verso una democrazia politica che è ancora lontana. Come in un grande gioco delle parti dove ogni ruolo è assegnato e dove, soprattutto, ogni mezzo è lecito per raggiungere l’obiettivo finale. A partire dalla disinformatija, specialità in cui è molto abile anche la Russia postsovietica. Così, alla vigilia del voto, i gruppi degli oppositori più radicali, quelli che affidano le loro contestazioni al web, sono stati addirittura accusati di avere filmato in anticipo delle finte frodi elettorali che dovevano poi essere trasmettesse
M
via internet per delegittimare le presidenziali. Un’accusa lanciata per fare confusione e prevenire le denunce che verranno, con la speranza di ridurne la credibilità. Non è stata trascurata nemmeno una dose di drammatizzazione con l’annuncio della scoperta di un complotto di terroristi ceceni per uccidere Putin. Un modo per far capire chi è che combatte davvero il terrorismo e, al tempo stesso, quanto sono efficienti i servizi segreti di cui Putin, nel 1998, per decisione di Boris Eltsin, divenne capo iniziando la sua scalata al Cremlino. L’unica incertezza, oggi, è la percentua-
L’unica incertezza è la percentuale che otterrà la nuova maggioranza. Nel 2004, per il secondo mandato, fu del 71,9 % le che otterrà la nuova maggioranza presidenziale. Nel 2004, al momento del secondo mandato, fu del 71,9 per cento. Questa volta dovrebbe scendere attorno al 60 per cento che sarebbe già un risultato molto buono per Vladimir Putin se
si considera che, appena tre mesi fa, nelle elezioni per la Duma del 4 dicembre 2011, il partito del presidente – Russia Unita – è precipitata al 49 per cento dei voti e, soltanto grazie al meccanismo del premio di maggioranza, ha mantenuto comunque il controllo assoluto del Parlamento.
Proprio l’esito di quelle elezioni, per di più accompagnato da una lunga coda polemica sulla regolarità del voto, in particolare nelle regioni asiatiche della Federazione e nelle due metropoli di Mosca e San Pietroburgo, ha dimostrato che qualcosa all’interno della società russa è cambiato. Che la spinta a un rinnovamento effettivo del vertice politico è diventata più forte, alimentata anche dall’insofferenza per la corruzione che dilaga nell’amministrazione pubblica e che lo stesso Putin è stato costretto ad ammettere e, almeno a parole, a combattere: meta che sembra irraggiungibile in Russia se si pensa che proprio la glasnost, la trasparenza appunto, era stata il cavallo di battaglia di Gorbaciov alla fine degli anni ’80. Ma la vittoria annunciata di Putin, più che alle sue promesse o ai possibili brogli – che ci saranno se ce ne sarà bisogno – sarà frutto della oggettiva mancanza di una reale alternativa all’uomo che comanda al Cremlino da dodici anni e che vuole rimanerci per altri dodici. L’interprete del nuovo non è, certo, il comunista Ghennady Zyuganov che ha riportato in
piazza le bandiere rosse salvate dalle bancarelle del mercatino di Ismailovo, dove erano finiti tutti i cimeli dell’Urss, e che può contare su un 18 per cento dei voti che sembrano tanti ma che sono poco più della metà di quel 29,21 per cento che ottenne nel marzo del 2000 quando, per la prima volta, sfidò Putin nelle presidenziali. Il nuovo non è nemmeno l’ultranazionalista Vladimir Volfovich Zhirinovsky, il leader dell’altro partito – il liberaldemocratico – nato quando ancora esisteva l’Urss e che galleggia da sempre tra il 10 e il 13 per cento dei consensi. La grande forza di Putin nasce dalla debolezza dei suoi avversari. Nemmeno l’unico outsider di questa corsa presidenziale, il miliardario Mikhail Prokhorov, che dichiara di non essere «né rivoluzionario né populista», sembra capace di conquistare il consenso popolare che sarebbe necessario per realizzare il primo, vero, strappo nella vita politica della Russia postsovietica. Prokhorov è, a sua volta, un oligarca che dalle varie trasformazioni del regime – nel suo caso la privatizzazione delle miniere di metalli nobili – ha tratto fortuna e che, anagrafe a parte (è nato il 3 maggio del 1965), poco ha a che vedere con il settore più innovativo dell’opposizione a Putin che, tuttavia, ha soltanto lui come candidato possibile. Prokhorov potrebbe piazzarsi al secondo posto nelle presidenziali. E se davvero riuscisse a superare Zyuganov e Zhirinovsky sareb-
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e di cronach
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be già un segnale importante nell’attesa che dalla nuova società russa, che naviga su internet e sa come funziona la politica in Occidente, emergano finalmente dei nuovi aspiranti leader.
Forse uno di questi è Alexei Navalny, il blogger più famoso del Paese. Navalny è un giovane avvocato trentacinquenne che chiama Russia Unita «il partito dei ladri e dei malfattori» e che ha fatto della lotta alla corruzione il suo credo.Tutto quello che riesce a scoprire lo pubblica sul suo blog Live Journal, organizzando
Prokhorov potrebbe arrivare secondo. E se superasse Zyuganov e Zhirinovsky sarebbe già un segnale importante campagne o petizioni e il quotidiano finanziario Vedomosti lo ha addirittura nominato “Persona dell’anno” già nel 2009, ma non è riuscito ancora a creare un movimento politico che fosse in grado di lanciarlo nella corsa al Cremlino. Navalny non fa nemmeno mistero delle sue posizioni nazionaliste che lo isolano dalla parte più liberale dell’opposizione. È su tutto questo groviglio di contraddizioni che Vladimir Putin costruisce la sua forza. In fondo, l’unico uomo che avrebbe potuto sfidarlo spaccando davvero l’opinione pubblica russa è Dmitri Medvedev che fa parte, sì, dell’establishment, ma che ne rappresenta l’ala moderata e innovatrice. Con Medvedev, però, Putin ha rinnovato il patto di coabitazione che ha funzionato finora e che, da lunedì, continuerà per sei anni a parti invertite. Una nuova diarchia: Putin presidente e Medvedev primo ministro. Si potrebbe
concludere che nulla è cambiato a Mosca e che nulla cambierà. Ma sarebbe una semplificazione sbrigativa. Prima di tutto perché è sempre in agguato l’incognita delle proteste anti-brogli che cominceranno in piazza Pushkin per contestare la vittoria di Putin e che nessuno sa come e quando finiranno. Una parte degli organizzatori della tendopoli spera di ripetere l’esperienza della rivoluzione arancione a Kiev, se non quella di piazza Tahrir al Cairo. La gestione delle proteste sarà il primo banco di prova per la terza presidenza di Putin. Ma anche se – come è molto più verosimile – le manifestazioni non diventeranno rivolta, l’uomo forte del Cremlino si troverà di fronte a una grande sfida: tenere fede alle tante promesse elettorali che lui stesso ha fatto per mantenere il suo potere.
La più semplice da realizzare sarà quella di abolire la decisione di Medvedev di mantenere l’ora legale anche d’inverno che ha scontentato milioni di persone costrette ad alzarsi al buio. Ma tutto il resto sarà molto difficile, e molto costoso, da realizzare: l’ultimo calcolo fatto dalla stampa economica russa parla di 120 miliardi di euro in spese sociali e di un bilancio pubblico che, per mantenersi in parità, dovrebbe contare su un prezzo del petrolio a 150 dollari il barile. Putin ha promesso di non alzare l’età pensionabile (oggi a 55 anni per le donne e a 60 anni per gli uomini) e di continuare ad aumentare le pensioni già in aprile, dopo il più 7 per cento concesso a gennaio. Promesse difficili da mantenere Putin ne ha fatte anche agli investitori stranieri che vuole attirare in Russia. La sua roadmap verso una nuova economia prevede tassi di crescita del 6-7 per cento (per il 2012 siamo a un più modesto 3,5 per cento) e passa attraverso privatizzazioni e lotta alla corruzione per realizzare un clima più affidabile per il business. Ma molti pensano che, nonostante Putin abbia intitolato Nuova economia l’articolo in cui ha esposto le sue idee sullo sviluppo del Paese, sia illusorio aspettarsi un ridimensionamento del sistema del capi-
talismo di Stato su cui ha sempre fondato il suo potere.
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E nessuno crede che la crociata di moralizzazione colpirà i veri intoccabili, i siloviki, gli uomini su cui si regge il regime tanto a Mosca che nelle Repubbliche e nei Territori autonomi (ben 89 realtà istituzionali) che compongono la sterminata Federazione russa. E che lo sostengono in cambio di posizioni di forza e di fonti di guadagno. Si tratta della tentacolare rete dei funzionari pubblici di ogni ordine e grado che dipendono direttamente dal Cremlino e che al Cremlino direttamente rispondono. L’unica concessione politica che Putin sembra disposto a fare è il ritorno all’elezione dei governatori che aveva abolito sostituendola con la nomina presidenziale in modo di poter controllare dal centro, in modo ancora più sistematico, tutte le realtà locali. Il disegno di legge per restituire ai cittadini almeno la scelta dei loro governatori è l’ultimo atto firmato da Medvedev come presidente e Putin sarebbe pronto a sostenerlo riaprendo, così, ai partiti uno spazio che potrebbe anche favorire la nascita di nuove formazioni che, dalla periferia, potrebbero col tempo cambiare anche il panorama politico del centro. Ma sarà un processo lungo e dagli esiti ancora incerti. Di sicuro c’è che la partecipazione dei russi alla politica non è stata mai così bassa. Alle elezioni per la Duma del dicembre scorso l’affluenza alle urne ha toccato il minimo storico del 60 per cento. E il dato più significativo del voto di domani sarà proprio l’astensione che darà – brogli a parte – la dimensione reale del consenso popolare per Putin che, se dovesse ottenere il 60 per cento dei voti espressi con un’astensione al 40 per cento, non avrebbe comunque la fiducia della maggioranza dei russi. E di questo nel suo terzo mandato che sta per cominciare, dovrà tenere conto.
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parola chiave AUSTERITÀ
Non è una svolta economica, è una rivoluzione interiore Non va confusa con la recessione. La sobrietà è cosa diversa dalla povertà. Ma è certo che i tempi di crisi decretano la fine dei bisogni non essenziali a cui siamo tutti assuefatti. È un’occasione da non perdere per riscoprire la semplicità
di Gennaro Malgieri a crisi economica ci ha costretti a fare i conti con ciò che è essenziale e con ciò che non lo è. È pur vero che alcune rinunce sono state, e sempre più lo saranno, dolorose in termini di appagamento individuale e di gratificazione collettiva. Ma pensarci come fruitori e non più soltanto come consumatori, non è detto che sia un male. Beninteso, nessuno è talmente folle da scambiare la sobrietà con la povertà: chi intende muoversi su questa strada si esercita in una ignobile demagogia i cui effetti non è difficile individuare in una depressione generale con l’inevitabile conseguenza di far regredire la società a uno stadio quasi barbaro. È possibile muoversi, però, in tempi di magra lungo il percorso dell’austerità dei costumi e dei consumi, dello stile di vita insomma, dopo aver a lungo indugiato attorno a un narcisistico compiacimento di se stessi nutrito dalla certezza di
L
poter contare su inesauribili risorse, fosse pure a scapito dell’ambiente e dei rapporti umani. Sono quasi tutti concordi economisti, sociologi, studiosi dei mutamenti sociali e individuali, osservatori delle ten-
denze - che il consumismo e gli effetti a esso legati siano da considerarsi relegati in un’epoca che difficilmente rivivrà. Aggiungono che è bene attrezzarsi psicologicamente, soprattutto, ai tempi nuovi se non si vuole restare prigionieri di un passato che, a dirla con un minimo di onestà intellettuale, è stato attraversato più da ombre che da luci. E, forse, proprio per questo siamo finiti così male.
C’è un dato che mi ha colpito nelle analisi sugli effetti della crisi: quello alimentare. Dal 2007 il 13% del cibo che finiva nel carrello della spesa e intasava il frigorifero veniva puntualmente gettato nel secchio dell’immondizia. Nel 2011 la percentuale si è ridotta al 4%. Effetto della necessaria autoregolamentazione? Non vedo altra spiegazione. E lo stesso dicasi per ciò che concerne l’abbiglia-
mento, i gadget elettronici, i prodotti di bellezza e via seguitando. La materialità, insomma, ha subito una contrazione le cui conseguenze sul piano della resistenza delle abitudini è da essere accertato con il passare del tempo. Infatti, è giusto porsi domande «cruciali» al riguardo. Può, per esempio, non essere un bene in termini macroeconomici soprattutto per le ricadute sull’occupazione, ma questo problema potrebbe essere affrontato e magari risolto immaginando l’avviamento a mestieri desueti per giovani che attendono un primo impiego, per esempio nell’agricoltura o nella cura del paesaggio o nell’incentivazione dell’artigianato che in Italia è praticamente morto. Sicuramente non è un male se l’eccesso di materialismo pratico, rappresentato dal consumismo compulsivo, ci mette davanti al nostro destino di sperperatori di risorse e di avidi distruttori della natura e della nostra stessa anima in rapporto con la bellezza, la cultura, la riflessione sul tempo, la caducità di ciò che come surro-
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hanno detto Osho Per me, austerità è una vita semplice, una vita di comprensione. Comprendi solo che più il tuo corpo e la tua mente sono semplici e alleggeriti, più puoi penetrare nell’esistenza. Qual è il problema con l’uomo? Il problema è che crede che, per poter provare gioia, sia necessario che prima siano soddisfatte certe condizioni. (...) In effetti, per godersi la vita, non dev’essere soddisfatta alcuna condizione: è un invito senza condizioni. Un uomo austero arriva a capire che la felicità è la natura stessa della vita. (...) Puoi essere felice semplicemente perché sei vivo! La vita è felicità, la vita è beatitudine; ma questo è possibile solo per un uomo austero. Un uomo che accumula cose, pensa sempre che diventerà felice grazie a queste cose. Palazzi, soldi, aggeggi vari - pensa che grazie a queste cose diventerà felice. Un uomo austero arriva a capire che la vita è così semplice che, qualunque cosa possegga, può essere felice. Non ha bisogno di aspettare qualcos’altro.
gato dovrebbe riempire le nostre esistenze non avendo altro a cui rivolgersi se non alla devastante abbondanza del superfluo tanto per immergerci in qualcosa che dia un senso a questo attraversamento che chiamiamo vita. Indipendentemente dalle considerazioni che pur sarebbero (e sono) legittime sul divario insanabile tra aree del Pianeta ricchissime e altre (assai più vaste) poverissime, immagino che sia venuto il tempo di regolare i conti con noi stessi riscoprendo il piacere di vivere senza strafare e di non morire ricoperti delle inutilità agghiaccianti di cui sono ricolmi i nostri armadi e le nostre case che lungi dall’essere oggettivamente belle e confortevoli, sono perlopiù magazzini in cui ammassiamo di tutto soltanto perché sollecitati da un impulso insano al possesso.
Non è detto che la riscoperta del piacere delle piccole cose, delle cose cioè che danno gioia autentica, non contribuisca a riconnetterci a una visione austera, ma non per questo grigia o mortifera, della vita. Ritengo, consapevole di far parte di una minoranza e di attirarmi le critiche degli «sviluppisti», che la cultura del condizionamento abbia devastato individui, famiglie e comunità. L’invidia sociale, ampiamente analizzata anche dai morfologi della storia del secolo scorso, ha il suo fondamento nella corruzione del sentimento di solidarietà che è stato a fondamento della civiltà occidentale almeno fino all’avvento
Dal 2007 il 13% del cibo che entrava nel carrello della spesa veniva gettato nell’immondizia. Nel 2011 la percentuale si è ridotta al 4%. Siamo sicuri che sia un male e non una liberazione da un devastante condizionamento?
della rivoluzione industriale. Da essa sono scaturite le guerricciole che, assumendo dimensioni imponenti, hanno legittimato teorie come quelle formulate da Marx e dai suoi epigoni. Ma questo è un altro discorso. Ciò che preme mettere in evidenza nelle circostanze attuali è lo smarrimento di fronte alle oscene cattedrali del consumo dove si trova di tutto e si scopre, tornando a casa, che si è acquistato l’irrilevante, l’inutile, l’inessenziale. La gioia di poter finalmente scegliere, limitandosi a incursioni dove si sa che cosa trovare, e non essere scelti dall’ammiccante offerta, dovrebbe rendere il consumatore nuovamente arbitro di se stesso, responsabile dei suoi gusti e delle sue tendenze, protagonista di un mercato che nessuno dovrebbe condizionare e soprattutto invogliarlo a preferire la qualità piuttosto che la quantità. Tutti abbiamo provato a girovagare nei freddi ipermercati dove dagli scaffali vengono sollecitazioni che muovono la mano dell’acquirente quasi mai cosciente del gesto compiuto. Che cosa si porta via se non un’illusione di abbondanza il più delle volte non necessaria? Non vorrei che si confondesse la recessione con l’austerità, naturalmente. La prima, incide non soltanto sui consumi superflui, ma soprattutto sulla vita pubblica di ciascuno di noi e sulla mercede di cui abbiamo bisogno oltre che sui servizi essenziali e irrinunciabili. La seconda è uno stile di vita che, per quanto imposta dalle con-
tingenze, non soltanto non fa male, ma produce una piccola rivoluzione interiore che se coincide con la decrescita delle illusioni consumistiche non credo sia un male. L’austerità, in altri termini, se correttamente intesa, ci fa riscoprire la semplicità delle piccole cose e ci immette in una dimensione più naturale e comunitaria, dove perfino la lentezza diventa un valore mentre finora è stata vista come un handicap. E, soprattutto, lo spreco delle risorse spirituali dovrebbe essere limitato a vantaggio di una maggiore consapevolezza di se stessi nell’ambito di un universo complesso che è stato maledettamente ingiusto e crudele ridurre a una semplice «cosa» da cui suggere il massimo del piacere effimero, cedendo alle lusinghe delle agenzie di consumo e alle culture della materialità e del relativismo per le quali il massimo delle passioni a cui votarsi dovrebbe essere l’accaparramento dei beni.
Dalla produzione di avidità a quella di prodigalità e di frugalità il passo è indubbiamente molto lungo. Ma non è detto che non lo si possa fare. Se non si è capito, dalla crisi si esce con una rivoluzione sottile destinata a durare e a cambiare il nostro modo di vita che nessuno può immaginare peggiore di quello che abbiamo conosciuto, venerato, santificato negli ultimi trent’anni. Il solo fatto di riappropriarci del nostro destino è un fattore di crescita. La sola crescita alla quale dovremmo essere sensibili.
ULTIMAPAGINA Scoperta una partitura per piano del grande compositore austriaco. Sarà suonata il 23 marzo a Salisburgo
Quando l’inedito è firmato di Luisa Arezzo dettagli della scoperta non sono ancora stati rivelati. Di certo c’è solo il comunicato stringato della Fondazione Mozart, che ieri ha annunciato la scoperta di una partitura per piano di “Amadeus” assolutamente sconosciuta fino ad oggi. Ritrovata in Tirolo dalla musicologa austriaca Hildegard Herrmann-Schneider durante alcune ricerche per il Repertorio internazionale delle fonti musicali, la partitura (di cui ancora non si conosce la lunghezza) risalirebbe al 1780 ed è esplicitamente attribuita al grande genio di Salisburgo. Verrà eseguita per la prima volta il 23 marzo nella sala da ballo della casa natale di Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart, e sul suo pianoforte, da parte del pianista austriaco Florian Birsak, impareggiabile virtuoso di clavicordo, clavicembalo e fortepiano. A 220 anni dalla morte del compositore (sulla cui causa è ancora mistero, con ben 118 ipotesi formulate, dalle più attendibili alle più stravaganti), sorprende davvero che da qualche archivio o sperduta libreria spunti ancora qualche partitura sconosciuta. È vero che il grande genio in soli 35 anni (nacque nel 1756, morì nel 1791) ha (per fortuna) lasciato in eredità al mondo una produzione sterminata, ma è altrettanto certo che sulla sue note si sono avventurati migliaia di musicologi nella speranza di rintracciare e riportare alla luce un suo lavoro inedito.
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Lo scorso anno un raro spartito in stampa venne ritrovato dal titolare di un charity shop di Reading, nel sud dell’Inghilterra. Che nell’aprire una scatola piena di partiture si trovò davanti alcune sonatine brevi per clavicembalo stampate nel 1765, quando il genio di Salisburgo aveva 8 anni ed era in visita a Londra. Immediatamente compresa l’importanza della sua scoperta, il negoziante si affidò al talento di Sotheby’s per trasformare le preziose sonatine in sonanti monete.
Lo spartito, che risale al 1780, è stato trovato dalla musicologa Hildegard Herrmann-Schneider in Tirolo. Verrà eseguito nella sala da ballo della casa natale dell’artista Nel 2009, invece, riemersero dal buio due composizioni giovanili: un concerto di quattro minuti e un preludio di un minuto. E appena un anno prima da un archivio sperduto nel sud della Francia era uscita un’altra preziosa partitura. È proprio la sua sterminata produzione (d’altronde cominciò a comporre a 5 anni) a rendere possibili queti piccoli miracoli musicali e al contempo a rendere infernale la vita di chi deve catalogare la sua opera. E per farlo, infatti, nel 1862 è stato approntato il Catalogo Köchel (da Ludwig Ritter von Köchel). Sua l’idea di numerare le opere in ordine progressivo di data di composizione, in modo tale che si potesse individuare se un’opera fosse più antica di un’altra semplicemente confrontando i numeri di catalogo, preceduti dall’abbreviazione K o Kv (Köchel Verzeichnis). L’opera, assai ambiziosa, era però destinata a scontrarsi con le difficoltà oggettive che spesso si presentano quando si cerca di datare opere di
MOZART cui si hanno notizie da fonti diverse, talvolta contraddittorie, incerte e frammentarie (manoscritti autografi e non, prime edizioni a stampa, abbozzi, testimonianze, lettere) e per questo motivo, a causa di errori di datazione delle singole opere e di varie altre lacune, il catalogo originario risultò inadeguato. Tanto da rendere necessarie altre cinque edizioni (l’ultima, di Franz Giegling, Alexander Weinmann e Gerd Sievers è del 1964) per non stravolgere il sistema ed inserire le scoperte di opere non catalogate, proprio come quest’ultima. L’idea, sembra di Alfred Einstein, fu quella di aggiungere una lettera minuscola (e poi eventualmente maiuscola) a mò di indice. Come le targhe, si perdoni la digressione da codice del-
la strada, per capirci. D’altronde, in Mozart le doti musicali si rivelarono a tre anni, quando appunto nacque il mito dell’«enfant prodige», poi florido nell’Ottocento, con gli artisti in erba (anche Paganini) che si levavano mediamente due anni per risultare ancora più incredibilmente prodigiosi.
Il precoce bimbetto, assoggettato alla severa scuola del padre Leopold, didatta, violinista e compositore il cui capolavoro si chiama appunto Volfango, compose il suo primo lavoro, un Minuetto, a 5 anni. Per poi partire per una serie di viaggi (e concerti) che dal 1762 al 1775 vedranno padre e figlio lontani da Salisburgo per un totale di sette anni. Nel fuggire dalla «città prigione», tali viaggi (Monaco,Vienna, Parigi, Londra, l’Italia) hanno lo scopo di far conoscere al mondo civile - le capitali d’Europa - questo prodigio d’un ragazzo in vista di un «posto fisso», che come sappiamo non verrà mai. Sono anche viaggi di studio, che gli aprono orizzonti di sapere impensabili. Così, più avanti negli anni Mozart potrà dire a un suo interlocutore: «Sbaglia di grosso chi crede che l’arte mi fosse facile. Sia ben certo, amico mio, nessuno ha fatto come me tanta fatica nella composizione. Non è facile trovare nella musica un maestro famoso che io non abbia studiato a fondo e attentamente più volte».