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he di cronac
Nessun male sociale può superare la frustrazione che deriva dalla disoccupazione.
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Federico Caffè di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 13 MARZO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’unica riforma buona del mercato è quella che serve alla crescita
Cinque proposte a Monti sul lavoro Un video denuncia gli eccidi di Assad
Il ministro Fornero: «Chiudiamo entro il 23»
di Savino Pezzotta
Massacro di donne L e bambini a Homs. Ora l’Onu non può più stare ferma Orrore in Rete dove un filmato mostra i resti delle vittime civili di un attacco dei miliziani del regime. Il mondo intero si scandalizza (Hillary Clinton e Ban Ki-moon denunciano il cinismo di Assad) ma il Palazzo di vetro è ancora paralizzato dal veto dei russi e dei cinesi che finora sembra più forte dell’indignazione Luisa Arezzo • pagina 10
a situazione economica e sociale non ha bisogno di antagonismi, ma di forme cooperative che sappiano tutelare le persone più deboli, creare lavoro e innescare la crescita. La riforma del mercato del lavoro, per i modi con cui è stata condotta, per i problemi che stanno di fronte al Paese, per le tensioni sociali in essere e per gli elementi evocativi che pone, deve essere collocata nella cosiddetta “fase due” dell’iniziativa del governo per superare la crisi e ridare stabilità al nostro sistema economico. Sulla “fase due” grava il duplice compito di dare risposte innovative ai problemi che da troppi anni si trascinano e nello stesso tempo di neutralizzare gli effetti socialmente negativi generati dai necessari provvedimenti della manovra “salva Italia”. Eravamo tutti coscienti che arrivati sull’orlo del burrone occorreva uno sforzo per risalire la corrente e sappiamo che la “strategia del salmone” è faticosa e in molti casi dolorosa. Non avevamo altre scelte che fare quelle fatte.
«Dieci giorni per arrivare a un accordo con tutti» In agenda nuovi fondi per la cassa integrazione. Bonanni e Angeletti dicono no all’eventuale firma senza la Cgil *****
Franco Insardà • pagina 2
Sandro Bondi: subito i cambi istituzionali ed elettorali
«Èun’occasione d’oro, facciamo insieme le riforme» Parla l’ex coordinatore del Pdl: «Noi siamo pronti a rinunciare al nostro nome se ci sarà un’alleanza tra i moderati del Ppe» Errico Novi • pagina 6
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Il caso Lamolinara arriva al Copasir. Ieri, intanto, i funerali del tecnico ucciso in Nigeria
D’Alema attacca (e corregge) Londra «Non è stato un blitz ma una battaglia lunga un’ora e mezza» di Gualtiero Lami entre a Gattinara, nel vercellese, centiania di persone si commuovevano ai funerali di Franco Lamolinara, il tecnico italiano rapito in Nigeria e ucciso in seguito a un’operazione fallita da parte delle forze speciali inglesi, a Roma Massimo D’Alema, presidente del Copasir rinfocolava la polemica contro la Gran Bretagna. Lo ha fatto con parole dure e, soprattutto, rivelando nuovi partico-
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CON I QUADERNI)
lari sull’operazione. «Quella britannica in Nigeria è stata un’operazione irragionevole. Non un blitz ma una vera e propria battaglia di un’ora e mezza». E poi, quasi per difendere i servizi italiani sotto accusa, ha aggiunto: «Emerge con chiarezza la necessità di un ulteriore chiarimento da parte dell’autorità britannica a livello politico e di servizi». Insomma, la sfida italobritannica continua benché il ministro Terzi avesse cercato di sopirla.
ra ostaggi, pirati e sequestri in questi giorni non stiamo facendo una gran bella figura. L’agitazione sembra però fuori misura, come lo è l’andirivieni ed il presenzialismo di alcune Autorità. O, peggio, la loro sorpresa.
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• ANNO XVII •
NUMERO
50 •
WWW.LIBERAL.IT
Contro un vecchio luogo comune
E invece io vi dico che non è solo colpa degli inglesi! di Mario Arpino
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Al tavolo per il lavoro si discute di come rifinanziare la cassa integrazione: le novità saranno introdotte a partire dal 2015
Dieci giorni per la riforma Fornero: «Non c’è più tempo, serve un accordo entro il 23 marzo». Bonanni e Angeletti: «A un passo dal sì, ma niente firme separate» di Franco Insardà
ROMA L’importante è chiudere entro dieci giorni. E in quest’ottica diventano secondarie sia la firma della Cgil, sia l’assenza di risorse certe. Dopo aver giocato per settimane con il bastone e con la carota Elsa Fornero ha lanciato, a nome del governo, un nuovo ultimatum alle parti sociali: l’accordo sulla riforma del lavoro deve essere siglato entro venerdì 23 marzo. Queste la scadenza che il ministro del Lavoro ha portato all’incontro di ieri con le parti sociali al quale erano presenti i leader di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, mentre per le imprese Confindustria erano rappresentate dal presidente Emma Marcegaglia al centro del quale c’era proprio la riforma degli ammortizzatori sociali.
Il ministro Fornero ha sottolineato che «il governo ha sempre lavorato per un accordo con le parti sociali. Questo è l’obiettivo del governo. Per questa prospettiva lavoriamo in questa ultima fase». Sulla possibilità che si arrivi a un accordo separato secondo Luigi Angeletti al momento è da escludere: «Non credo che esista questa prospettiva». Giudizio condiviso dal leader della Cisl Raffaele Bonanni, per il quale si tratterebbe di una ipotesi alla quale «non è interessato nessuno, né il governo, né le parti sociali. Al punto in cui sia-
I dati dell’Istat relativi al quarto trimestre 2011 vanno male. Nel 2012 segnali di ripresa
Recessione: crollano i consumi ROMA. L’Italia è in recessione tecnica. La conferma arriva dall’Istat che però annuncia: «La crescita per l’intero 2011 è stata dello 0,5%” e non dello 0,4% stimato a febbraio.Tradotto: la situazione economica è peggiorata da giugno dello scorso anno, con lo scoppio della crisi internazionale, ma c’è spazio per sperare in una lieve ripresa nella seconda parte del 2012. La crescita acquisita per l’anno in corso, quella che si verificherebbe per il puro effetto trascinamento del 2011 se in tutti e quattro i trimestri dell’anno si registrasse crescita zero, è infatti ancora negativa e pari a -0,5%, in miglioramento, però, rispetto alla stima preliminare del 15 febbraio quando si era fermata a -0,6%. Nel dettaglio, nel 2011, il Pil è cresciuto dello 0,5%, in netta frenata rispetto al +1,8% registrato nel 2010. L’istituto di statistica precisa che si fa riferimento al Pil espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2005, corretto per effetti di calendari e destagionalizzato. Rispetto alla stima preliminare del 15 febbraio il congiunturale viene confermato menmo, in un’Italia che non ha più ossigeno, spero, credo che nessuno abbia voglia di non prendersi le proprie responsabilità. Per quanto riguarda noi, siamo qui per trovare le condizioni di garanzia per lavoratori, anziani e giovani. Non ho mai fatto accordi separati. Se qualcuno si separa all’ultimo momento è una cosa da chiedere solo a loro». E il segretario della Uil ha
tre il tendenziale viene rivisto in miglioramento. Quanto all’intero 2011 l’Istat ricorda che il dato grezzo diffuso il 2 marzo indica una crescita dello 0,4%. L’ultima previsione del governo stimava, invece, un Pil nel 2011 a +0,6%. Negli ultimi tre mesi dello scorso anno sono calate, su base congiunturale, tutte le componenti della domanda interna: le importazioni si sono ridotte del 2,5% e le esportazioni sono rimaste stazionarie. Di conseguenza, le famiglie italiane sono in grave difficoltà con il carrello della spesa: sul mercato nazionale i consumi di prodotti alimentari, bevande e tabacco hanno mostrato un calo dell’1,5% a prezzi costanti. Lo segnala un rapporto Intesa Sanpaolo, affermando che in termini di spesa pro capite il dato 2011 riporta i livelli indietro di quasi 30 anni. In particolare, si legge nel rapporto, «si tratta in parte di un trend strutturale legato al minore consumo di alcune voci, ma che segnala anche le evidenti difficoltà del consumatore italiano che riduce gli sprechi e modera anche gli acquisti alimentari».
aggiunto: «Quando chiuderemo la trattativa, entro questa settimana, per molte persone sarà una delusione se avevano altre aspettative, perché si accorgeranno che le nuove regole del mercato del lavoro non avranno nulla di rivoluzionario». L’obiettivo che il governo si pone ha aggiunto il ministro Fornero è quello della «riduzione strutturale e stabile dei livelli
di disoccupazione portandola al 4-5%.Tassello essenziale per la crescita con un forte coinvolgimento per il Sud, perché non c’è crescita senza equilibrio tra Nord e Sud». Mentre sul versante dei contratti il ministro Fornero ha spiegato che non è previsto alcun contratto unico, ma un «contratto dominante» che privilegi la forma di ingresso dell’apprendistato a
tempo indeterminato. Per quello che riguarda invece il contratto a tempo determinato, il ministro avrebbe ribadito alle parti sociali che questa forma contrattuale «dovrà costare un po’ di più».
Una riforma che prevede tempi più rapidi, rispetto al 2017 del quale si era parlato nell’ultimo incontro tra governo e parti sociali: «Sarà accorciato il periodo di transizione della riforma e del cambio del sistema di ammortizzatori: cominciamo nel 2012 e andremo a regime nel 2015», ha assicurato il ministro. Quello degli ammortizzatori sociali è uno dei capitoli più spinosi della riforma e ha questo proposito il ministro ha garantito che le risorse «non verranno dal fondo sociale, ma saranno prese al di fuori dei capitoli della spesa sociale». E a proposito della cassa integrazione straordinaria, sulla quale c’era stata la levata di scudi dei sindacati, Elsa Fornero ha detto: «Resterà, non scompare. Si elimina solo la causale per cessazione attività». Il segretario della Cisl a proposito dei due miliardi annunciati dal governo ci ha tenuto a precisare che il governo «deve chiarire che i 2 miliardi sono la solita parte che da tre anni serve per coprire la cassa integrazione in deroga. Penso ci sia un equivoco perché riguardano la cassa in deroga e non vorrei
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Le mie proposte per crescita e lavoro Servono: redditi più alti, flessibilità, rilancio della cig e formazione. Senza toccare l’articolo 18 di Savino Pezzotta segue dalla prima Sicuramente gli interventi sulle pensioni, sui prezzi, sul fisco hanno provocato un cambiamento nei modi di vivere delle persone meno abbienti e forse innescato tensioni recessive. Ed è proprio partendo da queste considerazioni che ritengo che la fase che si avvia con il confronto tra le parti sociali richieda attenzioni più alte di quelle che abbiamo avuto fin ora. Una vera riforma del mercato del lavoro non può essere avulsa da un disegno chiaro su come operare per la cresciuta, né tanto meno non può non prendere in considerazione l’esigenza di accompagnarsi a un progetto di modernizzazione, d’innovazione e di riforme che investano la nostra base produttiva, dei servizi e della pubblica amministrazione.
All’Italia serve un nuovo paradigma culturale e tecnologico del fare impresa e della competitività e avere come cuore centrale, non l’Articolo 18 su cui si è perso solo tempo, ma il tema della produttività. In Germania, tra il 1998 e il 2008, la produttività è aumentata del 22%, in Francia del 18% e in Italia del 3%: questi pochi dati ci dicono che la questione vera sta qui. L’aumento della produttività non si ottiene comprimendo il valore del lavoro che in questi anni si è già troppo deprezzato a causa della precarietà, dei licenziamenti, della disoccupazione e da un troppo lungo periodo di stasi economica. L’Italia ha oggi bisogno di una fase di crescita che contenga elementi di equità, solidarietà. Di tutele e promozioni. Occorre salvaguardare il sistema sociale di Welfare anche attraverso le necessarie riforme che ne rilanci la dimensione egualitaria e universale, superando incrostazioni, sprechi, privilegi.
anni di flessibilità e poi ci siamo ritrovati con un’estensione di lavori precari, quando invece avevamo bisogno di una flessibilità vera e arricchente e ben pagata. Bisogna che veramente si separi il concetto di flessibilità da quello di precarietà. La flessibilità in entrata va certamente equilibrata con quella in uscita e pertanto andrebbero introdotte delle norme che introducano percorsi verso il tempo indeterminato, compensazioni per i lavori a tempo determinato. Non è detto che il cosiddetto “contratto unico” sia la strada migliore, come mi crea perplessità l’ipotesi delle tutele crescenti con l’anzianità, chi ci garantisce che si possa determinare un’azione per evitare il consolidarsi delle tutele crescenti. Certamente l’apprendistato andrebbe rafforzato sul terreno della formazione anche ricorrendo al sistema universitario, ma rappresenterebbe, per il suo legame con la formazione, comunque una possibilità maggiore di altre.
3) Di fronte ai processi di riorganizzazione, ristrutturazione e d’innovazione che necessariamente investiranno le nostre imprese, la Cassa integrazione resta ancora uno strumento importante e significativo, anche se occorre operare per uscire dalla logica dell’ammortizzatore per entrare in una dimensione più attiva che coinvolga il pubblico ma anche il sistema delle imprese.Va pensato e attuato un nuovo sistema di politiche attive del lavoro, una riforma dei servizi per l’impiego e forme nuove di tutela per i periodi di difficoltà lavorativa. 4) La formazione, la riqualificazione e il reimpiego dovrebbero essere gli assi portanti del nuovo modello. L’evoluzione tecnologica rischia di rendere obsolescenti in poco tempo i lavori, da qui la necessità di fare della conoscenza e della formazione permanente uno strumento di tutele e di difesa dei lavoratori. Non condivido l’idea del “reddito di cittadinanza”, il lavoro nella molteplicità dei suoi aspetti non ha valore solo economico, ma anche sociale e personale. Si deve invece operare perché a ognuno sia garantita l’opportunità, secondo le proprie capacità, di partecipare. Da più parti si è affermato che la “concertazione” e il “dialogo sociale” hanno fatto il loro tempo e sono superati. Forse è così. In una società plurale che vuole essere ordinata non credo si possa fare a meno di forme di partenariato socio-economico. Non tutto è riassu-
La querelle sui licenziamenti ormai ha un valore esclusivamente simbolico: meglio metterla da parte e pensare alle cose concrete da fare tutti insieme
A mio parere sarebbe utile tracciare cinque obiettivi di medio e lungo periodo. Vediamoli. 1) Partiamo dal sostegno ai redditi dei ceti meno abbienti e delle famiglie: non si diventa più competitivi comprimendo i redditi famigliari o quelli delle persone a bassa intensità reddituale. Anzi questa comprensione sta già creando problematicità sul terreno della domanda interna e crea tensioni recessive. Per sostenere la crescita sarebbe utile contenere le rendite, far crescere la domanda e la produttività. 2) Poi: si è molto parlato in questi che ci fossero eccessive aspettative nei confronti di un governo che ha già i guai e che ha con il compito principale di ridurre il deficit di bilancio».
naria: le attuali indennità di mobilità, incentivi di mobilità e disoccupazione per apprendisti, l’una tantum per i co.co.pro e altre indennità.
La riforma degli ammortizzatori sociali, ha chiarito ancora il ministro, sarà «incentrata sulla nascita della assicurazione sociale per l’impiego, la nuova forma di tutela e di sostegno al reimpiego». In pratica si prevede che l’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) sostituirà, tutto quanto oggi non rientra nella cassa integrazione ordi-
Si applicherà a tutti i lavoratori dipendenti privati e pubblici con contratti non a tempo indeterminato. I requisiti per accedervi, prevede la proposta del governo, sono due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio, la durata dell’assicurazione sarà di 12 mesi, 15 per i lavoratori sopra i 58 anni, e
avrà un importo medio di 1119 euro, con un meccanismo di decalage che porterà ad un abbattimento dell’indennità del 15% dopo i primi sei mesi e un altro 15% di abbattimento dopo altri sei mesi. L’aliquota contributiva sarà dell’1,3% incrementata dell’1,4% per i lavoratori non a tempo indeterminato. Su queste misure la Confprofessioni, firmataria dell’unico contratto nazionale di lavoro degli studi professionali, quale parte sociale maggiormente rappresentativa del comparto professionale, in un’audizione
mile nelle istituzioni e nella rappresentanza politica. C’è una rappresentanza sociale cui occorre garantire lo svolgimento del suo ruolo. In questa direzione vanno definite nuove forme della “governance sociale” per tendere a realizzare dei patti sociali e momenti di forte coesione sociale.
5) Infine, l’Articolo 18: è diventato un’ossessione e molte volte la polemica su questo tema è solo servita a nascondere altre responsabilità. È solo una questione simbolica, dagli scarsi effetti pratici. Come sappiamo l’Articolo 18 riguarda solo la possibilità che il lavoratore licenziato senza giusta causa, e pertanto per ragioni discriminatorie, possa ricorrere al giudice per essere reintegrato al suo posto di lavoro. Tutto qui. Si sa anche che le cause sull’articolo in questione sono molte poche. Sarebbe cosa saggia lasciarlo dove sta a meno che lo si voglia usare come simbolo di passaggio da una stagione all’altra, ma questo sarebbe poco saggio. Basterebbe per risolvere alcuni problemi una buona riforma del processo del lavoro o un rafforzamento dei collegi di conciliazione e arbitrato. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, al tavolo di ieri ha dato l’ultimautm alle parti sociali: «Il governo vuole un accordo sulla riforma entro il 23 marzo»
alla Camera sul decreto legge liberalizzazioni, ha lamentato l’ingiustificata convocazione da parte del governo al tavolo sul lavoro.
Si legge in una nota della Confprofessioni che «il riordino degli ammortizzatori sociali e le misure per il rilancio dell’occupazione (a cominciare dall’apprendistato) sono materie che investono a pieno titolo anche l’organizzazione e la gestione degli studi professionali». Anche la Confapi, la confede-
razione italiana della piccola e media industria privata, incontrando ieri mattina il ministro ha chiarito la sua posizione: «La riforma del mercato del lavoro deve tenere conto degli obiettivi di equità, partecipazione e responsabilità. L’equità va perseguita attraverso azioni di riequilibrio della fiscalità e del peso contributivo tra i diversi comparti. La partecipazione va tutelata con gli strumenti della bilateralità e la responsabilità si garantisce con la trasparenza degli interessi in gioco».
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l’approfondimento
La sfida di queste settimane tra il governo e i sindacati ha una storia lunga. Fatta di valori diversi, ma anche di malintesi
Il tormentone
Tutto iniziò con Cofferati che portò «tre milioni di persone» in piazza contro Berlusconi che voleva abrogare l’articolo 18. Da allora, la norma dello Statuto che regola il licenziamento senza giusta causa è diventata un simbolo. Ecco come di Maurizio Stefanini inora, sono state tre le grandi svolte nella storia del mercato del lavoro italiano. La prima, nel 1970, fu lo Statuto dei Lavoratori: tentativo di tradurre in termini di diritto positivo le richieste dell’Autunno Caldo in un momento in cui in tutto l’Occidente il modello vincente sembrava quello dell’economia concertata alla renana. Alla fine, la più grande conseguenza ne fu il boom della piccola e media impresa, per il fatto che non si applicava sotto i 15 dipendenti. Il 1993 col Decreto legislativo 29 si ebbe la seconda: la privatizzazione del diritto di lavoro pubblico. In armonia con una nuova epoca che vedeva anche la fine delle partecipazioni statali e le privatizzazioni.Terza tappa, la Legge Biagi del 14 febbraio 2003, che l’autore pagò con la vita: liberalizzazione del mercato del lavoro privato. Un filo di continuità tra le tre riforme in teoria divergenti è nella figura di Gino Giugni: autore dello Statuto del
F
1970; ministro del Lavoro nel 1993; incaricato da Prodi nel 1997 di studiare una riforma dei contratti collettivi, nell’ambito del movimento che nel 2003 porterà appunto alla Legge Biagi. Ma quest’ultima più che affrontare il nodo dello Statuto dei Lavoratori lo ha aggirato, con l’introduzione di tutta la pletora di contratti atipici che ha balcanizzato il mercato del lavoro. Insomma, è almeno da 10 anni, se non da 15, che il problema è sul tavolo. E non sono mancati gli scontri, anche durissimi. Come quando nel 2002 Sergio Cofferati, al Circo Massimo di Roma, davanti a tre milioni di persone attaccò Silvio Berlusconi che aveva parlato della possibilità di abolire l’articolo 18, quello che regolarizza i licenziamenti senza giusta causa.
Da lì in avanti, il problema si è come incancrenito. Non risolto dai governi Berlusconi tra 2001 e 2006, non risolto dal governo Prodi tra 2006 e 2008,
non risolto dal governo Berlusconi tra 2008 e 2011, è esattamente uno di quei temi per i quali proprio perché la politica non è mai riuscita ad aggredirlo è nato il governo Monti. E a novembre, infatti, il governo Monti parte annunciando un programma per aumentare l’inclusione delle donne e dei giovani. “Con il consenso delle parti sociali occorre superare il dualismo del mercato del lavoro, vale a dire l’eccesso di tutele per alcuni e la mancanza di
Sono anni che si parla (e si litiga) sulla riforma dello Statuto dei Lavoratori
tutele per quanti non hanno occupazione”. Ovvero: riforma degli ammortizzatori sociali, nel rispetto dei vincoli di bilancio, perché “è doveroso che le famiglie non siano prese dall’angoscia di fronte alle conseguenze della crisi”. Ma anche superamento della polarizzazione tra contratto a termine e contratto a tempo determinato, sia pure per il futuro. E Monti parla anche di contrattazione di prossimità. Ma quando il 18 dicembre il pur facile alla com-
mozione al pensiero dei sacrificio ministro del Lavoro Elsa Fornero prova a suggerire che «sull’articolo 18 non ci sono totem», le saltano subito addosso in tanti. «L’articolo 18 non si tocca» tuona la Cgil, mentre va in sciopero il pubblico impiego. «Forte con noi deboli e debole con i forti» è l’accusa del segretario della Cisl Bonanni. «Sì, è un argomento tabù, perché tocca la carne viva dei lavoratori», dice Vendola. «Ora facciamoci il Natale. E lasciamo stare l’articolo 18. Mi pare che c’è già da digerire qualcosa...», è il consiglio di Bersani. «Non si tratta di difendere un totem, ma un diritto sacrosanto conquistato con 40 anni di lotte dei lavoratori», è la posizione di Italia dei Valori. E già il 21 la Fornero fa marcia indietro: «non ho nulla in mente».
Dal lavoro si passa dunque alle liberalizzazioni, che peraltro e ovviamente provocano nuovi fuochi di sbarramento. Ma il 17 gennaio il sottosegre-
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Tutte le ipotesi al tavolo sul lavoro GOVERNO Modello tedesco per l’articolo 18: al giudice la scelta tra reintegro e indennizzo. Dal 2015 un sistema nel quale l’apprendistato sarà la forma contrattuale d’ingresso, il contratto di reinserimento lo strumento principale per il reimpiego. A carico dello Stato resterà la Cig ordinaria, mentre l’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) sostituirà, tutto quanto oggi non rientra nella cassa integrazione ordinaria. Aumento della contribuzione per i contratti di lavoro a termine e lotta alle partite Iva fittizie
CGIL La confederazione di Corso d’Italia non vuole che si tocchi il campo di applicazione dell’articolo 18. Per il resto le posizioni di Susanna Camusso sono meno distanti di quanto si possa pensare: ministro e segretario sono d’accordo su una razionalizzazione delle figure introdotte dalla Biagi per contrastare “la cattiva flessibilità” e sull’allargamento degli ammortizzatori sociali anche ai precari e alle piccole imprese. In prima linea con Cisl e Uil per il rafforzamento dell’apprendistato
CISL/UIL Nel fronte sindacale Bonanni e Angeletti sono gli unici pronti a rivedere l’articolo 18: via Po ha suggerito di riportare i licenziamenti collettivi sotto la 226, il mantenimento della Cig in deroga, il rafforzamento dell’apprendistato e il contratto di inserimento
RETE IMPRESE ITALIA Le pmi non vogliono l’allargamento degli ammortizzatori sociali, per non pagare strumenti destinati solo alle grandi imprese, chiedono maggiori risorse per l’apprendistato, per gli incentivi all’occupazione e soprattutto chiedono il mantenimento, senza aggravi, delle figure del lavoro flessibile introdotte dalla Biagi
CONFINDUSTRIA Con i sindacati c’è piena sintonia sul rafforzamento dell’apprendistato e del contratto di inserimento. Emma Marcegaglia si batte per limitare l’applicazione dell’articolo 18, con l’obiettivo di riportarlo nell’alveo originario: quello dei licenziamenti disciplinari. Dubbi, invece, sul progetto di estendere gli ammortizzatori sociali: secondo viale dell’Astronomia non sono sufficienti i fondi individuati dal governo (circa due miliardi), e non piace l’ipotesi di far pagare il grosso dei nuovi strumenti alle aziende.
tario Maria Cecilia Guerra spiega che «la riforma del lavoro va fatta nel suo complesso». E il 23 gennaio all’incontro con le parti sociali Monti avverte che alla riforma del lavoro servono “soluzioni strutturali”, anche se la discussione non può essere limitata alla questione dell’articolo 18. Per la verità, questo è ufficialmente ignorato. Ma Susanna Camusso commenta: «quelle presentate dal governo non sono linee guida su cui si può sviluppare il confronto: vuol dire che non sono state condivise». «È una riforma ambiziosa, ma non c’è alcuna pretesa di farla senza un largo consenso», cerca di rassicurare la Fornero. Il documento del governo prevede una revisione drastica del sistema della cassa integrazione con una stretta sull’attuale durata e la sostanziale limitazione alla cassa, e l’introduzione invece di «un sistema integrato su due pilastri»: cassa integrazione per le riduzioni temporanee di attività e sostegno al reddito per chi ha perso il lavoro, secondo lo schema del reddito minimo, anche se le risorse necessarie sono al momento “non individuabili”.
Il 30 gennaio, nel convocare i sindacati per il 2 febbraio, la Fornero indurisce i toni: «dialogo, ma l’accordo non è condizione necessaria. L’articolo 18 non sia un tabù, ma la precarietà si combatte con incentivi ai contratti lunghi». E comunque «la riforma va fatta entro marzo». Dopo l’incontro, i tempi si stringono addirittura: «la riforma si farà, con o senza dialogo. Dobbiamo chiudere in due, tre settimane». Ma all’incontro del 15 febbraio, in effetti, il ministro fa una concessione: «lasciamo per ultimo l’articolo 18». La discussione è invece sul riassetto delle tipologie contrattuali. Sull’idea che «l’apprendistato deve diventare la forma tipica per l’ingresso dei giovani» la Cgil si dichiara finalmente “soddisfatta”: «un negoziato partito con il piede giusto per dare risposte ai giovani». Anche sui licenziamenti i sindacati sono «disposti a discutere tempi e modi delle procedure». Sempre più a tamburo battente, il nuovo incontro è il 20 febbraio. Ma anche senza ancora arrivare all’articolo 18, basta la discussione sui nuovi ammortizzatori sociali per tornare a accendere gli animi. Il ministro illustra infatti un sistema di tutele su due pilastri: cassa integrazione guadagni, ricomprendendo credito, assicurazioni e commercio sotto i 50 dipendenti. E una forma di assicurazione, un sussidio per tutti i settori a sostituire la mobilità. Ma «non potranno venire prima dell’autunno del 2013». In questo confronto tra donne del tutto inedito nella storia italiana la Marcegaglia non ha «nulla in contrario se governo va avanti», ma la Camusso è
scettica: «è stata una discussione molto faticosa. Usciamo dall’incontro più interrogativi che certezze». Monti ribadisce: «riforma del lavoro anche senza parti sociali».
Sempre più serrato, il nuovo incontro è il 23, sugli ammortizzatori sociali. Il Ministero del Lavoro fa sapere che in Italia ci sarebbero ben 7 milioni di persone escluse dal sistema di copertura garantita dagli ammortizzatori sociali; la Camusso fa sapere che il governo ha assicurato come per la riforma degli ammortizzatori sociali ci sarà una «transazione di 5 anni, un lungo periodo». Ma a questo punto iniziano a agitarsi anche i partiti, visto che il 22 la Fornero ha avvertito che si andrà avanti anche senza di loro. Bersani offre lealtà fino al 2013 ma ricorda a Monti «la necessità di evitare una rottura con le parti sociali sul tema del lavoro», pur riconoscendo di
Per molti, il vero nodo ora è favorire gli investimenti. Anche da parte di aziende straniere non aver visto «da parte del ministro del lavoro aggressività o violenza». A proposito dell’approvazione della riforma, il cui si del Pd non sarebbe scontato, come aveva detto lo stesso Bersani qualche giorno fa, il segretario del Pd ha affermato: «il Pd ha la sua proposta, sarà consentito di valutare e dire la sua? Credo sia normale, non è mica una scandalo». Alfano dice che manterrebbe l’articolo 18, «avendo però la sicurezza che i giudici non obblighino il reintegro di chi fa furti nell’albergo in cui lavora». Italia dei Valori annuncia che andrà in piazza. «Si vuole far credere che la ragione per cui chiudono le aziende e la gente muore di fame sia l’articolo 18, ma la causa è la corruzione dilagante, la burocrazia esasperante e le istituzioni poco credibili», dice Di Pietro. Ma proprio all’articolo 18, alla fine, siamo arrivati. Ed è ora Angeletti della Uil a dire che «presumibilmente entro la settimana si chiuderà la trattativa». Quel che si sa è che i nuovi ammortizzatori sociali partiranno già quest’anno e andranno a regime nel 2015 e non nel 2017. E la cassa integrazione straordinaria, avrebbe sempre chiarito Fornero resterà: sarà eliminata solo la causale per cessazione attività.
politica
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Intervista al senatore berlusconiano su governo e legge elettorale
«Riforme subito, occasione d’oro» Sandro Bondi: «Rinunceremo al nome se ci sarà un’alleanza tra le forze del Ppe» di Errico Novi
ROMA. Che il Pdl sia un cantiere aperto lo vedono tutti. Conseguenza anche delle molte questioni sospese, dai rapporti con le altre forze dell’attuale maggioranza alle alleanze future, allo stesso nome del partito. Sandro Bondi ne è consapevole, ma non traduce la lunga serie di incognite in inquietudine. E con liberal su un aspetto in particolare si mostra ottimista: «Siamo sempre stati favorevoli a un’alleanza tra le forze moderate che si riconoscono nel Ppe: il risultato va perseguito rispettando innanzitutto l’autonomia politica di ogni singolo partito, come l’Udc ha chiesto dopo il voto del 2008». E seppure secondo uno schema di «avvicinamento progressivo», dice Bondi, «auspico un’alleanza tra i moderati» e anzi una graduale e unitaria «costruzione politica». Tanto che se per ora il nome Popolo della libertà non è in dismissione, «nel futuro, se questo processo andrà a buon fine, novità saranno possibili». Anni fa proprio lei prefigurò con grande anticipo l’idea del governo di unità nazionale: ora c’è un’evidente impasse nei rapporti tra le forze dell’attuale maggioranza. Di che si tratta? Del “contraccolpo” per la rapidità della svolta del novembre scorso? Se in Italia fosse sorta una sinistra socialdemocratica, un esperimento di governo come quello che ha preso corpo in Germania fra Spd e Cdu sarebbe forse stato necessario per far fronte non solo all’attuale crisi economica, ma anche a una serie di questioni di carattere storico e strutturale, la cui soluzione richiederebbe un impegno riformatore radicale e prolungato. Poiché in Italia ancora non esiste una sinistra riformista e di governo, l’attuale soluzione non può che essere temporanea e limitata nel tempo e negli obiettivi. Eppure anche da un opinion maker del centrodestra come Giuliano Ferrara viene l’invito a prose-
Critico anche Casini: basta espedienti che danneggiano Monti
Bersani contro Alfano: «Non sia irresponsabile» ROMA. Mai stata così pesante, l’aria nella maggioranza, dalla nascita del governo Monti. Dopo le polemiche scatenate nei giorni scorsi dal Pdl e culminate nel no di Alfano al vertice con il premier, Casini e Bersani, è proprio il leader del Pd ha rivolgere un duro messaggio al segretario dei berlusconiani: «Non mi ero accorto di stare in campagna elettorale, non fino a quando Alfano ha sollevato temi polemici: ma è da irresponsabili accendere fuochi in un momento in cui bisogna comunque mandare avanti il governo. Se siamo in campagna elettorale ci avvisino, intendiamo partecipare». È un nuovo slittamento verso il basso dei rapporti nella coalizione. Da addebitare al curioso irrigidimento del Pdl.Situazione paradossale: una maggioranza, che, pur compatta nel sostenere l’esecutivo, ripiega in uno sdegnoso stop delle comunicazioni. La scelta è nella sostanza tutta dei berlusconiani, che tendono a drammatizzare la delicata partita delle frequenze e della governance diViale Mazzini. Sia il Pd che l’Udc continuano a chiedere che il Pdl scenda dall’aventino e torni a discutere. «La premessa per ogni intesa futura è sostenere questo governo, dargli forza e coraggio ed evitare piccoli espedienti per complicare la vita a Monti», dice Pier Ferdinando Casini. Secondo il leader centrista l’atteggiamento di Alfano e del Pdl in generale tende a riproporre schemi vecchi e incomprensibili per un’opinione pubblica «stanca della vecchia politica, di un teatrino che abbiamo vissuto per anni e di cui nessuno ha nostalgia». Concetto che Lorenzo Cesa integra con il richiamo all’alleato affinché «non torni al populismo di qualche mese fa e sostenga Monti senza incertezze». Impegno che va perseguito «con i fatti e non con gli slogan: sento dire da Alfano “lavoro, lavoro, lavoro, ma allora perché non se ne sono occupati in tutti questi anni in cui sono stati al governo?». Da Enrico Letta arriva una chiosa istantanea ma decisamente allarmata: «Se Monti non convoca più vertici chiarificatori tra i leader della maggioranza inizia la parabola discendente e rimane anche il Porcellum. Un incubo». Il pressing degli alleati su Alfano c’è e si sente. Con Bersani che, prima di attaccare Alfano, liquida così l’impasse: «Vedo che il Pdl ha dato il via a battaglie propagandistiche come sui gay: se ha problemi non li scarichi per cortesia su questa fase difficile di emergenza. Aggiusti i suoi problemi senza coinvolgere il sistema e in particolare il governo». Ma dal lato dei berlusconiani si registra solo qualche battuta, come quella rivolta da Rotondi a Enrico Letta: «Alfano e Berlusconi non sono disposti a diventare i vostri polli di Renzo». Marco Pannella ha l’abitudine di dire cose tremende con levità fanciullesca: «Il governo Monti? Un incidente di percorso positivo, che non era voluto dai partiti: i quali, non appena si sono ripresi e hanno capito che questa cosa potrebbe salvare l’Europa e l’Italia, impazziscono». Estremo come spesso capita al vecchio leader radicale, eppure il giudizio non pare così dissonante da quanto si vede nelle ultime ore, almeno in una parte della maggioranza.
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Attorno ad Alfano c’è fiducia, la sua leadership si completa con quella di Berlusconi. Con la Lega rottura non definitiva, ma d’ora in poi si starà insieme sulla base dei contenuti
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guire intanto lungo la via attuale, con l’obiettivo di dar vita in futuro a un’alleanza moderata il più ampia possibile. Io credo che sia giusto e necessario sostenere l’azione del governo Monti fino al termine della legislatura, al fine di completare l’azione intrapresa per affrontare gli effetti più acuti della crisi. Il Pdl non verrà meno a questo impegno, perché nella propria natura e nella propria vocazione c’è il perseguimento degli interessi nazionali. Un’altra questione è quella di dare vita per il futuro a una alleanza fra le forze politiche moderate che si riconoscono nel Ppe. Siamo sempre stati favorevoli a questa scelta. Credo che questa prospettiva possa essere perseguita rispettando innanzitutto l’autonomia politica di ogni singolo partito, come l’Udc ha giustamente rivendicato dopo le elezioni del 2008. Il raggiungimento dell’obiettivo di un’alleanza fra i partiti moderati dovrà prevedere un avvicinamento progressivo e una serie di tappe necessarie.
Ma intanto cosa potrebbe aiutare a superare le tensioni di oggi? Accelerare sulla riforma elettorale, per esempio? Credo che i partiti non dovrebbero perdere l’occasione per approvare finalmente una riforma della Costituzione e successivamente della legge elettorale. Al di là dei diversi modelli in discussione, fra cui quello tedesco, l’importante da parte nostra è non rinunciare a quella democrazia decidente, per riprendere un concetto del professor Guzzetta, che può assicurare la governabilità e impedire un semplice ritorno al passato. Ma può esserci una maggioranza che sospende i vertici e non si confronta
politica
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La Lega è sempre più centralista e arroccata intorno al suo vecchio leader
Se Bossi leninista attacca Tosi autonomista C’è un vizio antico dietro all’anatema del senatùr contro il sindaco di Verona che vuole presentarsi “da solo” di Osvaldo Baldacci
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Rispettiamo l’autonomia chiesta nel 2008 dall’Udc, auspico un avvicinamento progressivo.Al di là dei vari sistemi di voto, tra cui c’è il tedesco, va preservata la democrazia decidente
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sulle scelte da fare? Ripeto: la missione di questo governo è quella di affrontare la crisi economica.Tutte le altre questioni attengono alla libera dialettica democratica fra le forze politiche, che si svolge nel Parlamento. Chi vuole bene a Monti, e desidera che lavori tranquillamente alla risoluzione della crisi, è bene che non cerchi di imporre nuovi compiti al governo. Il rapporto con la Lega peggiora di giorno in giorno: è un allontanamento irreversibile, come ha detto Schifani? Non credo che l’attuale situazione dei rapporti con la Lega sia irreversibile. Certo, oggi le posizioni sono distanti. Noi e la Lega abbiamo assunto posizioni diverse in relazione alla formazione del governo Monti, ma questo non dovrebbe impedire di cercare di ricostruire un’alleanza di governo per il cambiamento comprendente anche la Lega. Certo, io penso che anche la Lega dovrebbe condurre una seria riflessione sul perché siamo giunti a questa situazione e sulle ragioni che l’hanno portata ad opporsi a quelle riforme, compresa
quella delle pensioni, necessarie per la modernizzazione del nostro Paese. In sostanza, d’ora in avanti le alleanze dovranno misurarsi e giustificarsi sulla base dei contenuti e della coesione programmatica. Questo vale sia per un’eventuale alleanza dei moderati sia eventualmente con la Lega. Il Pdl “soffre” il passaggio dalla leadership carismatica di Berlusconi a quella più semplicemente politica di Alfano? In realtà in questo momento non c’è alcun passaggio dall’una all’altra. Possiamo invece godere di una feconda sinergia fra la leadership carismatica di Berlusconi, che resta indispensabile, con quella testimoniata dal segretario politico Angelino Alfano. Si tratta di una combinazione che darà molti frutti positivi, come già stiamo vedendo. Ma attorno ad Alfano ci sono la fiducia e la coesione necessarie? Mi sembra evidente. Una coesione e una fiducia che deriva sia dalla scelta compiuta dal presidente Berlusconi che dall’investitura di tutto il partito. Il Pdl arriverà alle elezioni del 2013 con questo nome? Questo dipenderà da ciò che accadrà nel frattempo. Ma appunto, anche nel caso di un’alleanza, che naturalmente auspico, fra i moderati, siccome prevedo una marcia di avvicinamento e una graduale costruzione politica che rispetti l’attuale autonomia di ciascuna forza, ritengo che anche noi manterremo l’attuale nome. Nel futuro poi, se questo processo avrà successo, altre novità potranno essere possibili.
e voci dicono da tempo che a Verona la Lista Tosi comunque ci sarà. Il leader della Lega Umberto Bossi ha tentato di stopparla in ogni modo ponendo il suo altolà dal palco, ma insieme al bastone («Se fa la sua lista Tosi è fuori dalla Lega») ha tirato fuori anche la carota («Tosi venga a parlare con me per spiegare cosa vuole fare»). Non è una questione locale di Verona, e non è neanche il caso di un rumoroso dissidente dentro un partito, come ne abbiamo visti decine in questi anni. Il caso di Tosi è più interessante, perché coinvolge più letture stratificate e che tramite la Lega vanno a incidere su tutto il sistema politico italiano. Ieri Tosi ha parlato alla televisione, e ha mostrato tutte le sue ragioni, facendo capire che non intende farsi intimidire. E in effetti tra i leghisti del giorno dopo, alla foto del sindaco mostrata da un militante con la scritta “traditore”si sono sostituiti toni più pacati e riflessivi che giustificano Tosi e spingono per una soluzione condivisa, da Maroni a Castelli a Salvini.Tosi ha ricordato alla Telefonata di Belpietro su Canale 5 che la sua lista civica «era già presente nel 2007, non è un’invenzione di adesso, tra l’altro fu quella che raccolse il maggior consenso di tutta la coalizione e servì per raccogliere i voti di chi, pur non essendo leghista, voleva votare Flavio Tosi come sindaco. Adesso, siccome la Lega corre da sola, ha ancora più senso cercare di raccogliere consensi di chi ha apprezzato l’amministrazione uscente pur non votando la Lega nord». Il congresso della Lega Nord, puntualizza Tosi, «è il congresso della Lega, mentre le elezioni di Verona sono per i veronesi e la città di Verona e - dice Tosi – c’è qualcuno che invece mette assieme le due cose sbagliando, perché è difficile spiegare ai cittadini veronesi che non si può fare una lista civica, che loro voterebbero volentieri, e dire loro che questo non è possibile perché qualcuno nel movimento non lo vuole per mettere in difficoltà il sindaco su questioni politiche interne. Sono cose da vecchia politica che non andrebbero fatte». Con Umberto Bossi - “tratta”Tosi - ci sarà «un confronto su come chiamare la lista, perché la lista è assolutamente indispensabile».
L
sta civica che intende coinvolgere la società civile apartitica senza che questo infici l’appartenenza del candidato al suo partito. Ma per la Lega questo non è uno stile apprezzato. Era appena tollerato prima, non è accettabile ora.
«Vecchia politica» sono le parole chiave della querelle. Intendendo con “vecchia politica” quello che intende la Lega con la sua retorica. Il punto è che ormai da tempo le liste civiche alle elezioni amministrative sono una consuetudine. Qualunque candidato sindaco o presidente di Provincia e Regione ha anche una sua li-
E questo apre una serie di domande e di riflessioni. Prima constatazione: la Lega è il partito più centralista di tutti, altro che federalismo! Tutto deve essere deciso da Bossi e da chi gli sta intorno, tutto deve essere accentrato sotto un unico cappello feudale senza alcuna autonomia locale. Questo già da un punto di vista territoriale e amministrativo, figuriamoci dal punto di vista politico. Perché questo è il secondo punto. L’ostilità a Tosi è tutta una questione di politica interna al partito. La Lega non tollera dissidenti. Non tollera contrasti. Non lo ha mai fatto, ha sempre vissuto di una immagine monolitica al seguito di Bossi. Anche qui, altro che autonomia, federalismo e tutti gli altri slogan cari solo alla propaganda. Tutto si regge su una rigida piramide. È già successo in passato che chi si differenziava dal potere assoluto faceva una brutta fine, figuriamoci ora. Ora che la Lega va sul territorio da sola per raccogliere il massimo di consensi in virtù della sua ostilità a Monti, cercando di far dimenticare anni e anni di politica romana senza risultati e passati in ubbidienza alle esigenze berlusconiane. Per questa operazione sostanzialmente di mistificazione non ci devono essere voci diverse che possano anche solo aprire spiragli per una visione diversa. Anche perché, terzo timore suscitato dalla Lista Tosi, il rischio più grave è che le elezioni amministrative si trasformino da una conta tra Lega e Pdl in una conta interna alle correnti leghiste, con i cosiddetti maroniani alla Tosi pronti a far vedere che raccolgono molti più consensi del “cerchio magico”. Questo per la dirigenza della Lega non è tollerabile: la Lega non ha una struttura tale da poter assorbire cambi di equilibri interni, scalate ai vertici e sfide di dissidenti e dissenzienti. Per questo i vertici leghisti non solo temono di perdere il controllo del timone, ma sanno anche che la barca si può sfasciare. Una conta elettorale può definitivamente innescare l’esplosione centrifuga che manda in pezzi definitivamente la Lega. Oggi più che mai che tornano a correre da soli con l’appello identitario i leghisti non possono permettersi sfumature di identità. Il conflitto latente prima o poi esploderà. Se sarà a Verona o sarà rimandato, lo vedremo.
Dura la replica dell’interessato: «La lista civica è indispensabile. Semmai, con Umberto discuteremo di come chiamarla...»
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il paginone
È da oggi in libreria “I dieci errori di Napoleone - Sconfitte, cadute e illusioni dell’uomo che voleva cambiare la storia” di Sergio Valzania (Mondadori, 240 pagine, 19,00 euro), un’antistoria di Bonaparte attraverso le sue sconfitte, da Mosca a Waterloo. Per gentile concessione dell’Autore e dell’editore, anticipiamo un brano tratto dal capitolo “35 giorni a Mosca”. proposito di quei giorni a Mosca il cameriere personale di Napoleone scrive: «Diventò taciturno; passavano ore intere senza che nessuno dei presenti dicesse una parola. L’imperatore, di solito molto sbrigativo durante i pasti, rimaneva a tavola a lungo. Ogni tanto, durante le giornate, di distendeva su un divano con un romanzo in mano e lo leggeva, o fingeva di leggerlo, come rapito da fantasticherie lontane». Queste parole sono così simili a quelle scritte da altri per raccontare lo stesso periodo che fanno nascere qualche sospetto di influenze reciproche. Esse hanno contribuito in modo significativo a creare l’immagine di un Napoleone a Mosca intontito dagli eventi, malato e invecchiato, consumato dalla stanchezza, non in grado di gestire la situazione in cui si trova e abbandonato a una passività fatalista.Tutto ciò risulta però contraddetto in modo plateale da quanto avviene nelle settimane e nei mesi successivi. Durante la ritirata da Mosca l’imperatore si dimostra molto presente e attivo. Marcia nella neve alla testa del suo stato maggiore, facendosi vedere dai soldati per sostenere il loro morale, alla Beresina dirige di persona i lavori per la costruzione dei ponti necessari all’attraversamento del fiume e comanda le truppe impegnate in combattimento con i contingenti russi che intendono approfittare dell’occasione offerta dall’ostacolo naturale per assestare all’esercito francese il colpo finale. È allora che i reparti della guardia tenuti fino a quel momento con cura di riserva e ancora relativamente efficienti, giocano un ruolo decisivo e aprono la strada del ritorno all’intera armata o per lo meno a quanto ne rimane. Napoleone è così soddisfatto di come si è svolta l’azione a livello tattico da dedicarle una delle sue battute divenute celebri: «Ecco come si attraversa un fiume sotto la barba del nemico».
A
Pochi giorni dopo, con l’arrivo dell’esercito francese in Lituania, l’imperatore giudica terminata la campagna. Ritiene allora indispensabile la sua presenza a Parigi, da dove giungono preoccupanti notizie di cedimenti del fronte interno. Lascia quindi l’armata e parte per la Francia su di una slitta, in compagnia di Caulaincourt, che ha affidato alle sue memorie un resoconto dettagliato di quelle giornate faticosissime, scomode e anche pericolose, vista la difficoltà di provvedere una scorta adeguata all’imperatore per uno spostamento compiuto alla massima velocità. Occorrono 14 giorni di slitta e di carrozza per raggiungere le Tuileries, dove la mattina successiva alla notte dell’arrivo l’imperatore è già al lavoro per costituire l’esercito francese con il quale combatterà la campagna di Germania del 1813. In questo periodo e per tutta la durata della guerra successiva, per settimane e per mesi, Napoleone non appare abulico, stanco, distante da quello che gli accade intorno. Gli manca la freschezza dei trent’anni, ma quanti lo circondano continuano a testimoniare stupore per la sua resistenza fisica, la sua capacità di lavorare e la sua determinazione ostinata nel portare a compimento i progetti intrapresi. È necessario quindi individuare una interpretazione diversa da quella abituale e in
fondo poco credibile, per spiegare i 35 giorni trascorsi a Mosca e l’impressione di attesa snervante per qualcosa che non accade, di tempi inutilmente dilatati che Constant descrive con toni prossimi al Deserto dei Tartari di Buzzati. Appare assurdo che l’impero napoleonico sia stato messo in ginocchio da un attacco di pigrizia del suo reggitore. Per avvicinarsi a una comprensione realistica di quanto accaduto durante il soggiorno di Napoleone al Cremlino credo ci si debba innanzitutto liberare dalla conoscenza di come la vicenda sia andata a finire, si tratta di un sapere che molte volte risulta accecante quando si volge lo sguardo ai fatti del passato. Anche Constant, o chi per lui, nel momento di scrivere ha gli occhi e la mente pieni delle immagini del disastro dell’impero, della sequenza quasi ininterrotta di rovesci che in appena un anno e mezzo accompagnano Napoleone dalla sua uscita da Mosca all’abdicazione di Fontainebleau. Dominato da questo punto di vista, chi racconta quello che giudica il momento della svolta, del riconoscimento della sconfitta, che per definizione un grande percepisce prima e con maggior lucidità di quanti lo circondano, vede quelle ore contrassegnate di necessità dalla tristezza, dal silenzio, dall’abbattimento, dalla svogliatezza rappresentata dalla lettura di romanzi fatta dall’imperatore abbandonato su di un divano. L’uomo celebre per il suo attivismo freneti-
Ecco i dieci errori che gli costarono l’Impero. Antistoria di Bonaparte attraverso le sue sconfitte in un libro di Sergio Valzania. Ne anticipiamo un brano...
Napoleone e il di Sergio
co si lascia vincere da un languore apatico. Perché dovrebbe avere fretta, Napoleone, di imboccare la china che, come lo scivolo di un acquapark, lo precipiterà due volte nella polvere? Se invece cancelliamo, o almeno mettiamo da parte, la nostra conoscenza del dopo e nello stesso tempo ci liberiamo dall’estetica romantica che vuole avvolgere di consapevole malinconia solitaria l’eroe prima della caduta, giungiamo a una considerazione diversa della tensione che esiste tra Mosca e San Pietroburgo nell’autunno del 1812. Napoleone, resosi conto che sul piano militare lo scontro è perduto, sta giocando il suo confronto definitivo con lo zar Alessandro sul doppio binario della capacità di tenuta politica dei due imperi e psicologica dei due imperatori. La sua esperienza della guerra gli dice che senza un accordo di natura armistiziale prima o poi i francesi devono comunque ritirarsi e nella situazione attuale lo possono fare solo esponendosi lungo centinaia di chilometri di strade fangose
all’insidia da una torma di cosacchi, lasciandosi dietro una scia di morti, feriti, malati e dispersi, indipendentemente da quale sia il clima nel quale si muoveranno. Di fronte a sé lo zar ha un esercito e un comandante che da una quindicina d’anni si aggirano per l’Europa uscendo vincitori da tutti i conflitti che affrontano e adesso hanno occupato la capitale storica del suo impero. L’esercito russo è stato sconfitto da pochi giorni nel disperato tentativo di salvare Mosca dalla conquista, è riuscito a evitare la distruzione solo ritirandosi rapidamente di alcune centinaia di chilometri. Lo stesso esercito era già stato sconfitto dai francesi ad Austerlitz nel 1805 e a Friedland nel 1807, mentre nei mesi precedenti alla Moskova non ha fatto altro che sfuggire a una battaglia che secondo i suoi comandanti non poteva concludersi che in un disastro. In questo momento quasi centomila francesi, o forse di più per quello che è in grado di sapere lo zar, sono accampati a Mosca, la
città santa della Russia, e potrebbero decidere di svernare lì, dato che non si è riusciti a svuotare o distruggere gli enormi magazzini della città dove si trovano quindi disponibili risorse sufficienti al mantenimento di un esercito intero per i mesi invernali. La sfida che Napoleone lancia improvvidamente ad Alessandro si svolge sul terreno della tenuta del sistema politico che li sostiene. Napoleone ha una comprensione della guerra istintiva, prima ancora che razionale. È un genio. Come ripete più volte nelle sue memorie, disorganiche perché dettate in modo irregolare a collaboratori diversi, sa che l’elemento decisivo del conflitto, il suo fine ultimo, consiste nell’indurre il nemico a dichiararsi sconfitto. Nel momento della verità, in una guerra combattuta fra monarchie assolute, il confronto è fra due uomini, uno dei quali cede di fronte alla forza o alla rappresentazione della forza che l’altro è capace di esibire. Non esistono altre vittorie, ma l’unica che c’è può essere colta
il paginone
La guerra in Russia non fu solo combattuta sul campo, fu soprattutto una questione di tenuta psicologica. L’imperatore dei francesi, ben comprendendo di essere stato battuto, voleva convincere lo zar di poter proseguire la guerra all’infinito Napoleone, la seconda restaurazione, la monarchia di luglio, la seconda repubblica, il secondo impero di Napoleone III e infine la terza repubblica, che si afferma in contemporanea con l’episodio della comune di Parigi e della sua sanguinosa repressione. Per la durata di un secolo intero la società francese dimostra una forte propensione al cambiamento di regime, a fronte della robustezza del sistema zarista, che attraversa quegli anni rimanendo quasi inalterato nella sua forma assolutista. A questo svantaggio si aggiunge per Napoleone la debolezza del suo sistema di alleanze, alcune delle quali, come quella prussiana, sono state imposte con la forza delle armi e da essa vengono mantenute in essere. Governare l’Europa da Parigi è difficile, da Mosca durante la stagione favorevole è difficilissimo, in inverno, quando la città russa è isolata e stretta in una morsa di ghiaccio, diventa impossibile. Perciò Napoleone, dopo aver protratto il duello psicologico con Alessandro a lungo quanto possibile, deve cedere, ammettere di essere stato battuto, anche se si guarda bene dal riconoscerlo
Napoleone è il primo a essere convinto che il ritorno in Francia sarà un’Odissea, ma rifiuta l’idea di essere stato battuto, anche se solo dalla dimensione dei luoghi e dalla determinazione dei russi a rifiutargli la battaglia decisiva.
Napoleone punta a ribaltare la situazione, a conseguire una vittoria di carattere e di prestigio, dopo aver mancato quella sul campo, che si è dimostrata del tutto fuori dalla portata degli strumenti di cui dispone. Avrebbe potuto darsi piuttosto l’obbiettivo strategico meno ambizioso ma più conseguibile di gestire la sconfitta di proporzioni gravi, ma accettabili, che ha subito. Riuscendo in questo si garantirebbe almeno il mantenimento del controllo sull’Europa occidentale, forte in questo dell’alleanza matrimoniale con l’Austria e della fedeltà dei governi di una buona parte dell’area italo-tedesca su cui può contare fino a quando le sue armate non vengono sconfitte. L’imperatore si impegna invece nell’impresa disperata di convincere lo zar di essere in grado di proseguire la guerra all’infinito, o almeno
l bluff di Mosca Valzania
con qualunque sistema dato che consiste nell’imposizione di una convinzione, di un trionfo della volontà, alla quale molta della filosofia dell’Ottocento attribuisce un ruolo fondamentale nella visione del mondo che costruisce. In questa prospettiva il prevalere delle armi non è la sola e a ben vedere neppure la più importante delle strade che conducono alla vittoria. Sotto questo profilo Napoleone è più prossimo al volontarismo romantico che al razionalismo illuministico. Sa che la verità del confronto bellico è molto spesso collegata all’emozione e solo raramente al freddo calcolo.
La realtà sta nel fatto che il sistema politico russo è molto più solido di quanto lo sia quello francese. Per trovare uno sconvolgimento profondo della società russa dopo l’epopea napoleonica occorre aspettare la rivoluzione, peraltro fallita, del 1905. Nel frattempo in Francia si sono susseguiti la restaurazione di Luigi XVIII, i 100 giorni di
pubblicamente o renderne partecipi i suoi collaboratori. Leggere romanzi sdraiato sul divano, evitare le conversazioni troppo frivole o impegnative, trattenersi a tavola molto più a lungo del solito non sono i segnali di una crisi psicofisica, dell’invecchiamento o della minor capacità di sopportare la fatica. Piuttosto è il modo di Napoleone per sostenere il grande sforzo al quale si sottopone: resistere a un’attesa snervante sapendo bene quanto sia difficile il contesto in cui si trova e quali siano le conseguenze di ogni ulteriore ritardo. Tutte le testimonianze concordano nel riferire la frequenza e l’impazienza con le quali l’imperatore chiede notizie relative all’arrivo di messaggi da parte dello zar, in questo non dimostra traccia di indolenza. È la sua unica preoccupazione e, come gli capita di solito, si tratta di quella giusta. L’errore sta altrove, nel non essere capace di accettare la sconfitta insita nella posizione strategica nella quale ha trascinato il suo esercito.
per parecchi anni, come sta facendo contro di lui l’Inghilterra da quasi un decennio. È con un bluff che Napoleone intende far cedere Alessandro, ma sbaglia completamente nei suoi calcoli. Della prossimità di un cedimento dello zar o della corte di San Pietroburgo non abbiamo alcun segnale. Oltre che in senso patriottico la società russa interpreta la guerra come legalitaria, religiosa e legittimista. Per Napoleone si tratta di sentimenti difficili da comprendere, anche se si è già scontrato con durezza contro di essi in Spagna. Gli sfuggono in toto le dinamiche di fedeltà per il proprio capo che scattano nella società russa nel momento del pericolo comune e fanno sì che l’invasione francese rafforzi il potere dello zar, anziché indebolirlo. Da questo deriva il grossolano errore di calcolo che induce l’imperatore a ritardare la partenza da Mosca così a lungo da obbligare l’esercito francese a effettuare la ritirata di Russia in pieno inverno.
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mondo
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illary Clinton: «L’Onu non può restare in silenzio davanti al massacro del suo popolo». Ban KiMoon: «Il governo sta usando la sua forza in modo sproporzionato». Alain Juppé: «I leader di Damasco devono venire giudicati dalla Corte internazionale». Kofi Annan: «La morte di civili deve fermarsi adesso». La risposta del mondo alle immagini riprese con dei telefonini dagli attivisti anti-siriani e poi fatte circolare su internet dell’orribile massacro di Homs, in cui si vedono i corpi senza vita di donne e bambini, non si è fatta attendere. Certo, in parte era anche dovuta, ma nulla toglie che quei video ”non consigliati alle persone sensibili”, muti testimoni di corpicini dilianati e donne freddate con precisione dal cecchino, siano uno choc. E adesso è orrore, in Siria e in buona parte del pianeta, per il nuovo massacro scoperto ieri mattina nella terza città del paese, dove le forze anti regime hanno trovato una cinquantina di corpi mutilati e di fatto sommariamente giustiziati dalle milizie lealiste.
H
Donne e bambini, poco prima scampati, secondo le testimonianze raccolte sul posto, al bombardamento compiuto per tutta la notte fra domenica e lunedì dall’artiglieria governativa su Karm az Zeitun e Adawi (a maggioranza sunnita), rioni vicini a Nuzha, quartiere a maggioranza alawita, comunità sciita a cui appartengono anche i clan al potere da 40 anni. In uno dei filmati finiti su internet, un attivista, identificato con lo pseudonimo di Omar al Homsi, mostra i corpi di donne e bambini. Molti presentano il cranio spaccato, altri hanno ancora gli occhi aperti, oppure un’occhio solo, mentre dall’altro è fuoriu-
Sul Web il video del massacro di civili a Homs
La Rete smaschera gli orrori di Assad Strage di donne e bambini nella città vittima del regime: ci sono oltre cinquanta morti di Luisa Arezzo scita materia celebrale. Alcuni cadaveri presentano segni di bruciature estese, altri hanno tagli alla gola o fori di pallottole in fronte. Il regime conferma implicitamente la notizia dell’ecidio affidando al ministero dell’informazione un comunicato, diffuso dall’agenzia ufficiale Sana, nel quale si accusano non meglio precisati terroristi di aver sequestrato civili di Homs, di averli uccisi e mutilati e di aver inviato le immagini alle tv panarabe al Jazeera e al Arabiya con l’obiettivo di attribuire il crimine alle autorità. Una “scusa” usata già più
volte dal regime per tentare di “coprire” l’efferratezza dei suoi crimini e alla quale non crede più nessuno. E che ancora di più getta nello sconforto davanti all’impasse internazionale che comunque sembra prevalere sulla questione siriana. Dopo il viaggio a vuoto dell’inviato speciale dell’Onu e della Lega Araba, Kofi Annan, che domenica aveva tentato di negoziare un cessate il fuoco immediato a Damasco (la risposta si è vista...) e l’incredibile dichiarazione di Bashar al Assad dettosi «pronto a sostenere ogni sforzo sincero per
trovare una soluzione», la diplomazia internazionale cerca ancora di trovare il modo di fermare il presidente “riformatore”, come veniva chiamato Assad meno di un anno e mezzo
fa. E mentre il Qatar è l’unico paese a chiedere a gran voce un intervento militare con milizie arabe e già si sia speso in ogni sede per fornire armi ai ribelli, l’Occidente tenta ancora disperatamente di giocare la carta delle Nazioni Unite. Ieri il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha esortato Russia e
Il 15 marzo del 2011 il gruppo “Intifada siriana” promuoveva via facebook le prime manifestazioni di protesta
Un anno fa tutto cominciava a Dara’a e la morsa del regime oggi colpisce tragicamente le città di Homs e Idlib, un anno fa, il 15 marzo 2011, quando tutto è cominciato e il vento del cambiamento
S
ha iniziato a soffiare in Siria, teatro dello scontro era Dara’a, 150 chilometri a sud di Damasco. La miccia venne innescata dall’arresto, nel mese di febbraio, di Aisha Abizaid, accusata di aver espresso un’opinione politica su internet e di 20 adolescenti (portati via con la forza il 6 marzo) colpevoli di aver cantato a scuola slogan contro il regime. Pochi giorni dopo, il
massiccia.Troppo per il regime. Da allora, circa 8.500 persone, in maggioranza civili, sono state uccise, mentre i rifugiati sono oltre 25mila. Secondo le stime dell’Onu almeno un milione e mezzo di persone hanno bisogno di aiuti alimentari. Di seguito una scheda sui principali eventi che da allora hanno macchiato di sangue il regime di Bashar al Assad:
si estende e si radicalizza. Numerosi gli appelli alla caduta del regime di Damasco. 1 giugno: dopo che le proteste e le repressioni sono proseguite per tutto il mese di maggio, il presidente Assad annuncia un’aministia generale per tutti i reati politici commessi prima del 31 maggio 2011. 15 luglio: Oltre un milione e mezzo di persone manifestano
La miccia venne innescata dall’arresto, nel mese di febbraio, di Aisha Abizaid, accusata di aver espresso un’opinione politica su internet e di 20 adolescenti, colpevoli di aver cantato a scuola slogan contro il regime 15 marzo per l’appunto, il neonato gruppo “Intifada siriana” promuove via Facebook delle manifestazioni di protesta contro Assad. La partecipazione nella capitale è scarsa, meno di 150 persone, ma a Dara’a è
18 e 19 marzo: manifestazioni represse a Damasco, Banias e Dara’a. Prime vittime. 18 aprile: Damasco denuncia «una ribellione armata di gruppi salafiti». 25 e 26 aprile: la contestazione
contro il regime, in particolare ad Hama e Deir Ezzor. 31 luglio: circa 100 persone vengono uccise in una vasta offensiva dell’esercito fedele ad Assad nella città di Hama. 18 agosto: il presidente degli
Stati Uniti Barack Obama e i suoi alleati occidentali chiedono ad Assad di lasciare il potere. I paesi occidentali e arabi cominciano ad adottare una serie di sanzioni contro Damasco. 15 settembre: si costituisce in Turchia un consiglio nazionale siriano; tra i leader il dissidente Burhan Ghalioun, docente della Sorbona. 4 ottobre: il progetto di risoluzione contro la Siria presentato da Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito viene respinto a causa dell’opposizione russa e cinese dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. 6 ottobre: il governo turco annuncia sanzioni unilaterali contro la Siria. 16 novembre: un centro dei servizi segreti presso Damasco viene attaccato dall’Esercito si-
mondo
La Clinton si riferiva soprattutto ai colloqui tra il ministro degli Esteri russo e i rappresentanti della Lega Araba nell’ambito del vertice del quartetto per il Medioriente cominciato lo scorso week end a New York, summit dal quale era emerso un piano articolato in cinque punti per affrontare la situazione: cessazione della violenza, qualunque ne sia l’origine; controllo neutrale; nessuna interferenza straniera; accesso all’assistenza umanitaria; appoggio alla mediazione di Kofi Annan, inviato speciale di Lega araba e Onu. Il piano, appoggiato anche dalla Cina e da Damasco, sembra però l’ennesima presa di tempo, soprat-
tutto alla luce del fallito incontro tra Assad e Annan. E infatti la risposta data in diretta da Lavrov alla Clinton non sembra proprio gravitare nell’orbita della distensione. Il ministro degli Esteri russo si è infatti detto contrario a qualsiasi cambio di regime ottenuto con «la manipolazione dell’Onu». E lo ha detto dal Palazzo di Vetro. «Le sanzioni unilaterali - ha chiosato il capo della diplomazia russa - i tentativi di cambiare regime e l’incoraggiamento all’opposizione siriana sono ricette pericolose di ingegneria geopolitica che possono solo portare a un allargamento del conflitto». E mentre l’opposizione siriana continua ad invocare aiuto, il Consiglio nazionale siriano (Cns) torna a chiedere una riunione d’emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «Chiediamo alle Nazioni Unite di tenere immediatamente una riunione d’emergenza - ha detto da Istanbul Walid al-Buni, esponente del Cns -. Questo è un massacro documentato con tutti i nomi e le identità» delle vittime, che sono per lo più donne e bambini. «La comunità internazione non può più restare in silenzio», ha aggiunto l’oppositore siriano, proprio mentre arrivava la notizia che a Dara’a, nel sud del Paese al confine con la Giordania, un’autobomba era esplosa uccidendo una ragazza e ferendo 25 studenti di una scuola nel centro cittadino e che centinaia di famiglie stavano abbandonato Homs per timore di nuove violenze.
26 febbraio: referendum sulla nuova Costituzione, nuove proteste di piazza. Prosegue la repressione. 1 marzo: l’esercito prende il controllo del quartiere simbolo di Baba Amr, bastione ribelle a Homs, dopo due giorni di combattimenti e quattro settimane di bombardamenti. Dichiarazione del consiglio di sicurezza
che deplora «la situazione umanitaria in rapido deterioramento». 7 marzo: la responsabile delle operazioni umanitarie dell’Onu, Valerie Amos, visita i quartieri di Homs interessati dal conflitto e «totalmente devastati». 8 marzo: defezione del vice ministro del Petrolio, la prima di un responsabile del governo. 9 marzo: le forze del regime lanciano un’offensiva nella provincia di Idlib, nel nord-ovest del paese, alla vigilia dell’arrivo a Damasco dell’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega araba, Kofi Annan. Una decina di ufficiali di alto rango dell’esercito, tra cui quattro generali, fanno defezione e arrivano in Turchia. 10 marzo: le violenze fanno 90 morti in tutta la Siria, in particolare nella provincia di Idlib. 11 marzo: le forze governative proseguono la loro offensiva ad Idleb, con un assalto a Jisr al Shoughour. Il bilancio delle vittime del weekend è stimato in circa 150 morti.
In queste pagine, due fotogrammi del video che mostra la strage di donne e bambini nella città siriana di Homs; un’immagine dell’inviato per Onu e Lega Araba in Siria, Kofi Annan, uno scatto delle proteste anti Assad
sforzi, sostengano l’approccio umanitario e politico illustrato dalla Lega Araba».
I corpi appartengono a cinquantun civili e sono stati trovati a Karm az Zeitun, quartiere della città siriana. Secondo il regime, si tratterebbe in realtà dell’opera di terroristi Cina, pur senza nominarli specificamente, a sostenere il piano di pace della Lega Araba per risolvere la crisi siriana. «Crediamo», ha affermato la Clinton
intervenendo davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, «che sia arrivato il momento che tutti i Paesi, anche quelli che nel passato hanno bloccato i nostri
e di cronach
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riano libero, forza armata di opposizione la cui creazione era stata annunciata a luglio da un ufficiale disertore rifugiatosi in Turchia. 17 novembre: nonostante l’accettazione siriana del piano di pace gli scontri proseguono, la Lega Araba sospende la Siria dallo status di Stato membro. Il leader della Fratellanza musulmana Mohammad Riad Shafqa compie un’apertura nei confronti di un eventuale intervento militare turco in Siria. 4 febbraio: veto di Cina e Russia a un progetto di risoluzione Onu di condanna della repressione. 12 febbraio: la Lega araba decide di fornire sostegno politico e materiale all’opposizione e chiede una forza congiunta araba-Onu. Già a gennaio la Lega araba aveva presentato un nuovo piano per il trasferimento dei poteri da Assad a un suo vice. 22 febbraio: due giornalisti occidentali - un francese e un’americana - vengono ucciso a Homs. Altri due - un britannico
e una francese - sono gravemente feriti. Un altro reporter francese era stato ucciso a gennaio. 24 febbraio: la Conferenza internazionale di Tunisi riconosce il Consiglio nazionale siriano (Cns) come «rappresentante legittimo» del popolo siriano e si impegna a fornire «un sostegno effettivo» all’opposizione.
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mondo
pagina 12 • 13 marzo 2012
Alla riunione del Copasir l’ex-ministro degli Esteri rivela nuovi particolari sulla fallita operazione britannica in Nigeria
L’accusa di D’Alema «Londra ha sbagliato: un vero blitz non può durare un’ora e mezza» di Gualtiero Lami osa abbiamo fatto in questi dieci mesi di sequestro? Quali canali abbiamo attivato, quali rapporti abbiamo costruito con il governo nigeriano e con quello inglese, visto che il secondo sequestrato era di nazionalità britannica? È vero che sapevamo dall’altra settimana che Londra aveva inviato sul campo le sue truppe speciali? La notizia era arrivata al ministro della Difesa? Quale valutazione è stata data? Quale iniziativa ha prodotto? Chi si aspettava una risposta a tutte queste domande al momento resta a bocca asciutta, perché dalla riunione del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, voluta dal suo
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presidente Massimo D’Alema che ieri ha convocato il direttore dell’Aise (ex Sismi, servizio segreto estero) il generale Adriano Santini, nessuna di queste domande ha avuto risposta. O almeno nessuna è stata pubblicamente chiarita e probabilmente bisognerà aspettare ancora per riceverla. «Abbiamo avuto - ha spiegato D’Alema dopo la riunione - le informazioni in possesso dell’Aise sulla vicenda e sull’operazione militare. Dal resoconto emerge con chiarezza la necessità di un ulteriore chiarimento con le autorità britanniche per approfondire tutti gli aspetti della questione, sia a livello di servizi sia a livello politico». Parole molto più chiare dell’improbabile comunicato stampa diffuso dal Copasir nel quale si «conferma la necessità che gli organi competenti assumano più precisi elementi informativi dalle autorità inglesi in merito allo svolgimento dell’operazione e alle iniziative poste in essere precedentemente».
«P iù che un blitz è stata una battaglia», ha detto D’Alema parlando con i giornalisti dopo l’audizione del direttore dell’Aise in merito alla tragica vicenda dei due ostaggi uccisi in Nigeria, Franco Lamolinara e Chris McManus. «E da quanto risulta è In alto: l’ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema. A sinistra, il generale Adriano Santini, dal 2010 direttore dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna; a destra, Franco Lamolinara. Nella pagina a lato: il figlio e la moglie dell’ingegnere ucciso
una vicenda che non è stata condotta secondo criteri ragionevoli». «C’è la necessità di avere ulteriori chiarimenti e approfondimenti sugli aspetti della questione», ha spiegato D’Alema, per il quale «sono emersi anche altri problemi che riguardano per esempio la nostra presenza lì e la nostra capacità informativa e il rapporto tra i servizi». Rapporti che dovrebbero essere chiariti nei prossimi giorni con l’arrivo a Roma del ministro degli Esteri inglese William Hague.
Dunque le risposte le aspettiamo in parte dagli inglesi, colpevoli di non aver condiviso con noi l’operazione (però quando le forze speciali di Sua Maestà hanno liberato con un blitz la nave italiana Montecristo sequestrata al
largo della Somalia, nessuno ha avuto niente da ridire...). Stando alle voci raccolte dall’agenzia di stampa Dire da qualcuno che era presente, il generale Santini avrebbe det-
to che l’Aise era a conoscenza della presenza delle forze speciali inglesi e nigeriane in Nigeria, ma non sapeva dell’ operazione che avrebbe dovuto portare alla liberazione di
Per l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa è stata messa in moto una caccia alle streghe
La colpa non è degli inglesi di Mario Arpino ra ostaggi, pirati e sequestri in questi giorni non stiamo facendo una gran bella figura. L’agitazione sembra però fuori misura, come lo è l’andirivieni ed il presenzialismo di alcune Autorità. O, peggio, la loro sorpresa. Sono momenti in cui è necessario mantenere la calma, stare lontano dai riflettori e valutare con pacatezza gli eventi. Cercando, tra l’altro, di evitare lo spettacolo della ricerca a tutti i costi di capri espiatori o di nascondersi dietro troppo facili bersagli. È inutile, improduttivo e, se vogliamo dirla tutta, è anche eticamente riprovevole cercare di nascondersi dietro presunte colpe altrui. Che, almeno nel caso del compianto ingegnere Lamolinara, probabilmente non ci sono. La cosa più semplice è prendersela con i Servizi, chiederne a gran voce la riforma e la sostituzione dei vertici. È un copione d’obbligo, già visto in varie occasioni e che, al prossimo evento negativo, certamente – così come va l’Italia – saremo costretti a rivedere.
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Dimenticandoci che è la nostra stolta interpretazione di un malinteso garantismo democratico, alimentata da una inveterata codardia della nostra politica, che ha contribuito a devitalizzare quelli che un tempo erano i meglio organizzati e affidabili Servizi del mondo. Realtà riconosciutaci, già nel corso del periodo bellico,
dagli stessi Servizi di Sua Maestà britannica. In questo dopoguerra, credo che nessun organo istituzionale – se non la Difesa – sia stata oggetto di un così gran numero di riforme “democratiche” come i nostri Servizi segreti. E così, di riforma in riforma, siamo arrivati ai giorni nostri, con i risultati che si vedono. Ma, per piacere, almeno non addossiamone a loro la colpa! Pensiamo invece ai “tagli lineari” di bilancio, al depotenziamento della struttura dedicata all’estero, ai mille vincoli posti al loro operato, alla quotidiana possibilità di essere posti sotto accusa da occhiuti e sinistri magistrati. Nè vale dare la colpa agli inglesi, con i quali, pare, c’era un accordo “quadro” che necessariamente doveva lasciar loro ampio spazio in fase esecutiva. Quando occorre decidere con immediatezza, non si deve riunire il Parlamento. Ricordiamoci cosa abbiamo risposto agli americani quando ci hanno accusato di aver voluto fare da soli in casa loro al tempo del sequestro Sgrena, e riflettiamo. Questo è il momento per un silenzioso esame di coscienza, non per una nuova caccia alle streghe.
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13 marzo 2012 • pagina 13
Il Nobel Wole Soyinka: «Vittima innocente di una guerra»
Un lungo applauso ai funerali di Lamolinara A Gattinara oltre 2mila persone. Per il governo presente il ministro degli Esteri Terzi di Antonio Picasso attinara capitale dello sbigottimento. Il comune del vercellese, con i suoi 8.300 abitanti, è certo che non avrebbe voluto accogliere in questo modo il ritorno di Franco Lamolinara. Con il lutto cittadino, ieri si sono svolti i funerali del tecnico ucciso la scorsa settimana in Nigeria, a causa del fallito blitz delle forze speciali britanniche, l’Sbs. Alla cerimonia era presente anche il ministro degli Esteri Terzi. La presidenza della repubblica ha inviato una corona di fiori. E così anche la Camera dei Deputati. Le esequie solenni sono state concelebrate dall’arcivescovo di Vercelli, monsignor Enrico Masseroni, e da don Renzo Delcorno, il parroco della parrocchia di San Bernardo, a cui appartiene la famiglia del defunto. «Franco non è la sola vittima. Lascia nel cuore di chi lo ha amato e conosciuto il testamento della sua bontà e ricchezza, della sua umanità e professionalità», ha detto Masseroni. Il ritorno di Lamolinara a Gattinara era previsto per il 15 maggio dello scorso anno. Ma tre giorni prima è stato rapito e «così si è aperto il suo calvario». E poi a commento: «Siamo senza parole di fronte a questo mistero del male». Domenica pomeriggio era stato il turno del premier Monti a far sentire l’appoggio delle istituzioni nei confronti della famiglia. Lo Stato c’è, quindi. Resta da chiarire tutta la vicenda però.
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Il presidente della Commissione sui Servizi ha anche aggiunto: «Emerge con chiarezza la necessità di un ulteriore chiarimento da parte dell’autorità britannica a livello politico e di servizi» Franco Lamolinara. Una frase se vera un po’ imbarazzante, perché certo le forze speciali inglesi in Nigeria non arrivano certo per turismo. E un servizio intelligence, se a conoscenza dell’arrivo di un centinaio di teste di cuoio ad Abuja, dovrebbe porsi qualche domanda e chiedere qualche spiegazione.
La verità, come sottolinea anche Mario Arpino nel suo editoriale qua sotto, è che i servizi segreti italiani sono stati negli anni smantellati e dunque non si può poi pretendere che si muovano come quelli della Cia. I nostri agenti sono perlopiù presenti laddove sono i nostri contingenti e i nostri ragazzi, non altrove. Negli altri paesi, come la Nigeria, l’Italia spesso si appoggia ad altri apparati intelligence. Non è un mistero e non è un peccato dirlo. Ma questo, inevitabilmente, può provocare delle tragedie o un blitz fallimentare. E non possiamo certo pensare che la Farnesina apra una crisi diplomatica con Londra. Semmai, la lezione inglese dovrà valere per il futuro. Soprattutto pensando ai nostri nove connazionali prigionieri in giro per il mondo. Poche decine di 007 operativi
sul campo, a fronte di duemila impiegati, analisti e personale tecnico, non possono risolvere le emergenze che via via si propongono sullo scacchiere internazionale. Ed è su questo che il Copasir dovrebbe fare luce per cercare di indicare i rimedi e aggiustare la situazione. Al momento, però, questa luce è ancora lontana. O almeno sembra esserlo. Il Copasir però andrà avanti: mercoledì 14 marzo alle 14.30 il comitato procederà sia all’audizione del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola che del direttore generale della Dis, Gianni De Gennaro, «con l’obiettivo di giungere successivamente a un confronto sugli aspetti di carattere politico con il presidente del Consiglio nella sua qualità di responsabile del Sistema di informazioni per la sicurezza del nostro Paese».
Intanto, la vicenda del blitz assume connotati ancora più foschi. Ieri in Mali è stato freddato lo sceicco Bahla Ag Nouh, che trattava la liberazione degli ostaggi occidentali in mano ai gruppi integralisti. E c’è già chi sospetta che fosse invischiato nella trattativa per il rilascio di Franco Lamolinara e di Chris McManus.
mica dei fatti. Sempre per rogatoria Scavo potrebbe chiedere agli inglesi anche di acquisire foto e video girati durante il blitz. Bisogna inoltre capire se siano stati arrestati alcuni sequestratori. Tutto questo potrebbe dare soddisfazione alla lista di punti interrogativi che annebbiano la vicenda.
Tra Roma e Londra è in corso una tensione che non si può lasciar andare alla deriva. È chiaro che al Regno Unito torni vantaggioso scaricare le colpe sull’Italia, accusandola di sapere fin da prima che l’Sbs sarebbe intervenuto. In questo modo si avrebbe un’imbarazzante compartecipazione all’errore, per cui anche qui da noi ci sarebbe qualcuno che dovrebbe rispondere al perché di una così fallimentare operazione. In generale però non basta nascondersi dietro il velo dell’intelligence, ricorrendo al luogo comune per cui la presenza di barbe finte non fa altro che creare problemi. Se così fosse, tanto varrebbe chiudere Forte Braschi. In realtà Aise ed Mi6 hanno la loro ragion d’essere e una tradizione nell’evitare che non tutte le vicende siano finite e finiscano come quella di Lamolinara e MacMamus. Più concreto e con maggiori opportunità di chiarimento è invece capire la quota di errore attribuibile alla Nigeria. Perché il Boko Haram ha smentito la paternità del sequestro? Si parla di una cellula senza controllo, ancora più battagliera del nucleo. Un fondamentalismo jihadista alla potenza, in pratica. Abuja deve rispondere di questo.Vale a dire di un fenomeno che il governo federale nigeriano affronta con indolenza, ma che gli sta erodendo il sistema sociale nazionale. Eppure questo non è una novità. Goodluck Jonathan ha ereditato dal defunto Yar’Adua un Paese che pretende di vestire i panni della potenza regionale nell’Africa subsahariana, invece affonda nelle guerriglie confessionali, indipendentiste e nella pirateria. A dispetto, peraltro, delle importante disponibilità di greggio estraibile. «La voce della ragione, che a volte tentenna di fronte alla morte e a volte è in conflitto nei confronti di Dio, la voce del cuore e degli affetti, che è una sorta di vita che varca la soglia della morte, e la voce della fede». Questa è la strada per comprendere, come ha detto monsignor Masseroni durante l’omelia ieri. Speriamo che questa voce sia ascoltata. Da Londra, da Roma e anche da Abuja.
L’autopsia ha stabilito che l’igegnere è stato colpito da quattro proiettili. Resta da capire chi li abbia sparati
Al di là delle posizioni assunte dalla famiglia della vittima, a cui va riconosciuto il diritto di sapere. L’autopsia ha stabilito che Lamolinara è stato colpito da quattro proiettili. Un frammento di questi è stato sottoposto a esame da parte dei carabinieri del Ris. Obiettivo determinare se l’ingegnere italiano sia stato ferito da fuoco amico, oppure freddato dai rapitori. È già sicuro infatti che la morte di Lamolinara sia stata causata da un colpo alla testa. Una sorta di esecuzione dettata dal sovraeccitazione nervosa dei sequestratori, i quali nel vedersi attaccati dalle forze speciali britanniche, avrebbero deciso di liberarsi frettolosamente degli ostaggi. L’esito del referto sul proiettile è previsto per domani. La Procura di Roma però, responsabile delle indagini, potrebbe chiedere tramite rogatoria alle autorità inglesi di acquisire gli esiti degli esami autoptici compiuti su Cristophrer McManus, l’ostaggio inglese deceduto insieme a Lamolinara. L’iniziativa, attualmente al vaglio del Pm Francesco Scavo, sarebbe volta a completare la ricostruzione della dina-
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grandangolo Visita a sorpresa della “iron lady” tedesca ai soldati
In Afghanistan monta la rabbia contro gli Usa e Angela Merkel ne approfitta... Le minacce di vendetta dei talebani, il monito del Parlamento che chiede un processo pubblico: dopo la strage di 16 civili, nella provincia di Kandahar sale la tensione verso gli Stati Uniti e non bastano le scuse di Obama a placare gli animi. In questo caos, la Cancelliera tedesca vola a Kabul e mette in dubbio il ritiro delle sue truppe nel 2014 di Stranamore roprio brava Angela Merkel, il cancelliere tedesco in visita in Afghanistan che ruba scena e spazio ad Obama ed agli Usa, ancora sotto shock per il massacro di Kandahar ed in generale afflitti dalla “sindrome da elezioni”che purtroppo condiziona troppo e troppo a lungo la politica interna ed estera della superpotenza. La Merkel ha dimostrato notevole disinvoltura nei rapporti diretti con Hamid Karzai e si è persino permessa di esprimere qualche perplessità sul “mantra” adottato obtorto collo dalla Nato, ovvero il piano volto a trasferire agli afghani la responsabilità primaria della propria sicurezza, con un ritiro delle truppe combattenti Nato da completare per fine 2014. La Cancelliera ha ribadito che la Germania prevede un approccio molto graduale per il disimpegno, tanto è vero che rispetto ai 4.800 soldati attualmente schierati nel paese solo 400 saranno rimpatriati per la fine del 2013. Berlino ha pagato un prezzo politico per essere rimasta alla finestra durante le operazioni militari Nato in Libia, ma per quanto riguarda l’Afghanistan non ci sono tentennamenti né tentazioni di ritiro anticipato.
la Merkel esprima scetticismo sulla validità del piano di “afghanizzazione”delle operazioni di combattimento e stabilizzazione. Tutti sanno perfettamente, militari Nato in primis, che i progressi ottenuti sul campo e il potenziamento dell’esercito e delle forze di polizia afgane non legittimano alcun ottimismo. Né i negoziati condotti con i talebani per trovare una sorta di conciliazione nazionale stanno facendo davvero passi in avanti, per il semplice motivo che i talebani sanno perfettamente di dover soltanto tenere duro per altri tre anni, poi potranno raccogliere il frutto maturo e
Anzi, Angela Merkel può giocare la parte del partner affidabile e sicuro nei confronti degli afghani, il che a tempo debito potrà portare anche qualche significativo ritorno economico, non solo strategico. In realtà non c’è bisogno che
spazzare via il debole governo di Kabul e le sue istituzioni. Certo è che la Nato non ha nessuna intenzione di ridiscutere la exit strategy dall’Afghanistan, di sicuro non se lo possono permettere gli Usa. Obama ha già fatto finta di lascia-
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Rispetto ai 4.800 soldati tedeschi attualmente schierati nel Paese solo 400 saranno rimpatriati per la fine del 2013
re l’Iraq e vuole fare la stessa cosa con l’Afghanistan e sostiene anzi che le cose nel paese vanno così bene che si può pensare ad accelerare il rimpatrio dei soldati alleati.
Obama si prepara al voto di novembre e sa che al momento in Afghanistan ci sono ancora 90.000 soldati Usa, mentre i comandanti locali continuano a suggerire prudenza e cautela nel ridurre i livelli di forza di Isaf, la forza Nato che complessivamente conta 130.000 uomini. Ad Obama però i richiami dei militari interessano poco, contano più i sondaggi elettorali. E per sua fortuna i suoi avversari repubblicani non sembrano in grado di contrapporgli un rivale davvero temibile. L’Afghanistan comunque conta relativamente poco nel dibattito politico statunitense. Però se Obama riuscisse a ridurre il livello dell’impegno militare certo non guasterebbe, anche solo considerando i risparmi che si misurano in miliardi di dollari. Il Pentagono pensa di spendere non più di 50 miliardi di dollari/anno per le operazioni belliche dal 2017. E questo prevede che in Afghanistan dopo il 2014 restino (relativamente) in pochi. Per ora le operazioni militari nel paese procedono con il solito passo lento invernale. Ma con l’arrivo della primavera i talebani torneranno alle armi e Isaf avrà meno uomini e mezzi per mantenere l’iniziativa e la pressione sugli avversari o anche solo per sorregge-
re gli alleati locali, ancora molto fragili e inaffidabili. Tra l’altro i talebani si dimostrano molto abili nel convincere anziani e popolazione civile che i guerrieri occidentali non hanno la volontà, la forza, il coraggio per rimanere nel paese e difendere Karzai e i suoi. Del resto con che faccia i soldati Nato possono allettare la popolazione a respingere i talebani e sostenere il governo locale quando in occidente non si fa altro che parlare di ritiro, di riduzione dell’impegno, di intervento economico e non militare? La Nato sta anche facendo del suo meglio per dimostrarsi “buona” e ridurre al minimo gli incidenti che provocano la morte di civili afghani. I quali sono relativamente tolleranti quando a compiere stragi sono i talebani, ma pretendono l’infallibilità quando si tratta dei militari stranieri. In questo contesto quanto accaduto a Kandahar è davvero un disastro. Già ci sono guai seri quando un velivolo senza pilota statunitense spara un missile contro il bersaglio sbagliato e provoca perdite tra i civili. Figuriamoci se la strage di civili e bambini (16 morti e 5 feriti) è provocata volontariamente da un soldato, americano per di più, apparentemente impazzito. Questo sempre che si voglia dar credito alla versione ufficiale statunitense. La quale fa peraltro acqua. Risulta un po’ difficile infatti pensare che un sergente delle Forze Speciali esca di notte dalla sua Fob passando
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Crisi economica e politica estera fanno “crollare” il Presidente
Barack perde consensi. Il suo gradimento scende sotto il 50 per cento di Laura Giannone na rapida inchiesta sulla «scioccante» uccisione di 16 civili in Afghanistan da parte di un militare statunitense: è la promessa del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha telefonato all’omologo afgano Hamid Karzai esprimendo le sue condoglianze e dicendosi addolorato per l’accaduto. Obama ha definito il massacro «tragico e scioccante», si legge in una nota della Casa Bianca, nella quale si precisa che durante la conversazione con Karzai, secondo il quale si è trattato di «omicidi intenzionali», il presidente Usa «si è impegnato ad appurare i fatti quanto più rapidamente possibile e a chiederne conto a tutti i responsabili». Intanto l’ambasciata americana a Kabul ha lanciato un allerta a tutti i suoi cittadini in Afghanistan avvertendo che, a seguito della strage «esiste il rischio di un sentimento anti-americano e di proteste nei prossimi giorni». L’alta tensione registrata negli ultimi due giorni tra Washington e Kabul segue, appunto, la strage di civili compiuta nella notte tra il 10 e l’11 marzo nella provincia meridionale di Kandahar. Secondo una prima ricostruzione diffusa dai comandi della missione internazionale Isaf un militare americano sarebbe entrato dentro alcune case aprendo il fuoco e uccidendo almeno 16 civili. Nove delle vittime sono bambini. Nella serata di domenica, tuttavia, è emersa un’altra ipotesi: testimoni locali avrebbero riferito che l’autore della carneficina non sarebbe stato un solo soldato americano come finora sostenuto da Washington - ma un gruppo di militari Usa «ubriachi» che avrebbero sparato all’impazzata «ridendo».
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Gli avvertimenti dei gruppi estremisti sono comparsi sul web: «Presto ci vendicheremo dell’invasore» per il cancello principale, armi alla mano, e se ne vada tranquillamente a compiere una carneficina senza che nessuno lo abbia fermato o lo abbia immediatamente inseguito e bloccato. Certamente conviene agli Usa sostenere la storia del singolo pazzo, che se invece si trattasse di una spedizione punitiva condotta da più militari il danno sarebbe catastrofico. Vedremo come se la caveranno gli inquirenti Usa con le stellette. I quali, benintenso, non si sognano neanche di consegnare il presunto criminale alle autorità locali. E lo trasferiranno negli Usa al più presto. Loro sanno come si deve fare in questi casi e non si troverebbero mai in una situazione come quella in cui si è cacciata l’Italia in India.
Certo è che le forze armate più potenti e tecnologiche del mondo proprio non sanno come ci si comporta in missioni di questo tipo. Dal falò delle copie del Corano, al dileggio dei corpi dei nemici uccisi, al ricorso eccessivo alla potenza di fuoco e alle armi. In Iraq prima in Afghanistan oggi. Naturalmente pesa dover costringere i propri soldati a turni di servizio in teatro lunghissimi (si è arrivati a 18 mesi, è stato
un successo scendere a 12 ed ora il traguardo è a 9 mesi) e ripetuti con frequenza troppo elevata. Inoltre normalmente i soldati Usa operano nelle zone più calde. Per troppo tempo poi gli standard selettivi di reclutamento sono stati rilassati per arruolare in fretta decine di migliaia di soldati aggiuntivi, sia per aumentare i ranghi, sia per compensare le perdite e gli abbandoni. Prima che si torni a normalità ci vorranno anni. E i casi di stress, post traumatico o meno, si contano a decine di migliaia. Questa volta ci sono andati di mezzo i civili afghani, ma gli atti di violenza domestica da parte di reduci sono all’ordine del giorno. Vi sono quindi spiegazioni per un atto di follia, sempre che si tratti di una azione individuale.
Di una cosa possiamo esser certi: non c’è alcun parallelo con il Vietnam e i suoi psichedelici orrori. In quella guerra furono impegnati a centinaia di migliaia coscritti di leva, che rappresentavano fedelmente la società statunitense dell’epoca (imboscati a parte). Le forze armate Usa sono oggi invece un corpo professionale e volontario, per fortuna con fondamenta salde. L’unico parallelo tra Vietnam ed Afghanistan lo possiamo casomai trovare nella volontà politica di far terminare il conflitto per ragioni di politica interna, infischiandosene del destino della popolazione e degli alleati locali. Magari questa volta non ci sarà la fuga in elicottero dal tetto dell’ambasciata a sancire l’epilogo, ma il concetto è lo stesso. E del resto Osama bin Laden è morto e l’americano medio non vede perché si debba morire e pagare per l’Afghanistan. Il guaio è che questa lezione della storia sia i talebani sia in generale gli afghani sembrano averla ben presente.
Certo è che per gli americani l’Afghanistan si sta trasformando sempre di più in un pantano. E questo si ripercuote anche su tutti gli altri contingenti presenti nel Paese. Contingenti che dovrebbero cominciare a lavorare sull’exit strategy prevista per il 2014. Il ritiro della forza multinazionale Isaf dall’Afghanistan entro tale data è stato deciso al vertice Nato di Lisbona del novembre 2010, che ha delineato una exit strategy basata sull’addestramento del-
le forze afghane a cui viene progressivamente trasferito il controllo della sicurezza. La data non è casuale ma coincide con quella delle prossime elezioni presidenziali afghane.Il calendario è stato nuovamente confermato da Barack Obama in un discorso del 23 giugno 2011, nel quale il presidente americano ha annunciato il ritiro di 33mila soldati statunitensi entro il 2012 nell’ambito del piano per la conclusione della missione entro il 2014. Ciò detto, due dei principali aspiranti candidati repubblicani alla casa Bianca, Mitt Romney e Rick Santorum, hanno accusato il presidente Usa di aver messo a rischio gli americani in Afghanistan perché fissare la data del ritiro sarebbe un segno di debolezza. Debolezza che però al momento sembra colpire sempre di più lo stesso Barack Obama.
L’indice di gradimento del presidente è infatti sceso sotto il 50% e se le elezioni presidenziali Usa si fossero tenute oggi lo sfidante repubblicano Mitt Romney avrebbe vinto con uno stacco di 2 punti percentuali. È quanto emerso da un recente sondaggio sulle intenzioni di voto realizzato dal Washington Post e Abc News. Il livello di popolarità di Obama, in particolare nel giudizio sulla politica economica, è in calo al 46%, ben 4 punti in meno rispetto al mese scorso. Ma ad affossare l’immagine del primo presidente nero della storia americana è anche la sua azione in politica estera, giudicata troppo dispersiva. E la percentuale di chi boccia il suo operato sale al 59% se si parla solo d’economia. Secondo i sondaggisti del Post il prezzo della benzina è il principale responsabile: quasi due terzi degli americani dicono di disapprovare il modo il cui presidente gestisce questo fronte, mentre solo il 26% l’approva. La maggioranza degli intervistati afferma che i prezzi troppo alti della benzina sta avendo già conseguenze sulle finanze familiari. Inoltre, quasi la metà degli intervistati è pessimista e ritiene che in futuro il prezzo della benzina continuerà a salire.
ULTIMAPAGINA Presentati ieri a Firenze i risultati della ricerca sulla «Battaglia di Anghiari»: «Tracce del da Vinci dietro all’affresco del Vasari»
Il mistero del Leonardo di Gaia Miani otto il Vasari di Palazzo Vecchio a Firenze, spunta il “nero” di Leonardo da Vinci. Un campione di materiale, trovato dietro a un affresco di Giorgio Vasari nel Salone dei Cinquecento, avrebbe una composizione chimica simile ad un pigmento nero individuato nelle vele marroni della Gioconda e del San Giovanni Battista, così come risulta da una ricerca effettuata dal Louvre sui dipinti di Leonardo da Vinci presenti nella collezione del museo di Parigi. È questa una delle prove emerse durante la ricerca condotta a Palazzo Vecchio a Firenze, tra novembre e dicembre scorsi, che sembrano supportare l’ipotesi che La Battaglia di Anghiari, il dipinto scomparso di Leonardo si trovi sulla parete Est del Salone dei Cinquecento dietro l’affresco del Vasari La battaglia di Marciano. Durante le ricerche sono emersi anche frammenti di materiale rosso che, una volta analizzati, hanno mostrato di essere frammenti organici che potrebbero essere associati a lacca rossa. Questo tipo di materiale non è in genere presente su pareti intonacate.
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I dati a sostegno dell’ubicazione del dipinto perduto sono stati ottenuti grazie all’utilizzo di una sonda endoscopica, che è stata inserita attraverso il muro sul quale è stato dipinto l’affresco del Vasari. La sonda è stata dotata di una microcamera (4 millimetri) che ha permesso al team di ricercatori guidati dall’ingegnere Maurizio Seracini, professore dell’Università della California a San Diego, di vedere cosa ci fosse al di là del Vasari e di raccogliere campioni necessari per ulteriori analisi. Il gruppo di ricerca, ha spiegato Seracini in una conferenza stampa tenutasi nella mattinata di ieri a Palazzo Vecchio alla presenza
PERDUTO immessa a fine 2011 in sei fori praticati nell’affresco di Vasari visibile oggi sulla parete. Seracini aveva chiesto di esplorare la parete est in 14 punti, cioè crepe e cretti naturali del muro, ma a seguito di consultazioni con gli esperti dell’Opificio, i fori dove far passare la sonda vennero ridotti a sei. «Sono fori periferici rispetto alla nostra iniziale area di interesse - sostiene ancora Seracini -. Ecco perché i risultati che abbiamo ottenuto sono particolarmente incoraggianti».
Scoperto dietro la parete Est del Salone dei 500 di Palazzo Vecchio un campione di colore nero che ha la composizione chimica compatibile con quello usato nella «Gioconda» e nel «S.Giovanni Battista» al Louvre tra gli altri del sindaco di Firenze Matteo Renzi, ha accertato l’esistenza di un’intercapedine tra la parete sulla quale Vasari ha dipinto il suo affresco e il muro retrostante. La scoperta, ha sottolineato Seracini, suggerisce che Vasari (pittore e architetto che venne incaricato di ristrutturare Palazzo Vecchio) «potrebbe aver voluto preservare il lavoro di Leonardo erigendo una parete di fronte all’affresco della Battaglia di Anghiari. Nessun’altra parete nel Salone presenta un vuoto come in questo caso». Tra le prove emerse durante la ricerca spiccano anche le immagini ottenute tramite la sonda endoscopica, che hanno individuato uno strato beige sul muro originale, che può essere stato applicato solamente con un pennello. Secondo Seracini, si tratterebbe dei resti del-
l’affresco scomparso dove Leonardo avrebbe applicato della pittura composta anche da calcite, ovvero con carbonato di calcio. «Anche se siamo ancora alle fasi preliminari della ricerca e anche se c’è ancora molto lavoro da fare per poter risolvere del tutto il mistero - ha quindi sottolineato Seracini -, le prove dimostrano che stiamo cercando nel posto giusto». La sonda endoscopica venne
Il team di Seracini ha operato con il supporto e la collaborazione di National Geographic, Università di San Diego e Comune di Firenze, ed è stato affiancato anche dalla Soprintendenza al Polo Museale fiorentino e dall’Opificio delle Pietre Dure, dopo il via libera del ministero per i Beni Culturali. E il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha fatto sapere di aver trovato un accordo proprio col ministro della Cultura, Lorenzo Ornaghi, per il prosieguo delle ricerche. «Ho chiesto formalmente al ministro - ha detto Renzi - di voler assicurare che questa non sia più l’immagine di una battaglia di qualche pazzo, ma farne una delle più grandi e cruciali questioni della politica culturale di questo Paese». Come potranno a questo punto proseguire i lavori? «La ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo - ha concluso il primo cittadino di Firenze - può continuare “rimuovendo” le parti dell’affresco del Vasari su cui nei secoli sono intervenuti restauratori».