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Chi non accetta il consiglio dei veri amici, cade poi sotto la mano de’ cattivi consiglieri Giuseppe Giusti

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 15 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Incontro di tre ore, poi la titolare del Welfare va al Senato. Ma nonostante il riserbo, si profila il contenuto dell’intesa

Accordo sul modello tedesco Decisivo incontro governo-parti sociali. Fornero: «Chiuderemo il 23» Come per il sistema politico, anche per il lavoro il riferimento è la Germania. I sindacati “aprono” a una revisione dell’articolo 18 e il ministro promette maggiori risorse sugli ammortizzatori IL SUMMIT DI OGGI

Nel mirino l’annullamento delle commissioni

Le omissioni non aiutano Monti (e la politica)

Casini: «Banche, norma da rivedere»

di Osvaldo Baldacci pere e omissioni. Per la verità l’origine cristiana dell’espressione si riferisce a peccati, qualcosa che non si rivendica con orgoglio ma per la quale piuttosto ci si batte il petto. Sarà stato un lapsus da parte di Alfano, che ieri ha rivendicato di sostenere il governo Monti «lealmente con opere e omissioni. Sulle opere – ha spiegato il segretario del PDL - intendiamo sostenere il governo nelle cose che facciamo. Per omissioni intendo dire che evitiamo di partecipare a discussioni che possano mettere in difficoltà il governo Monti». Il riferimento è all’atteso vertice di oggi che vedrà di nuovo insieme il premier Monti e i leader della maggioranza (anche se non si può dire) Alfano, Bersani e Casini. Ma Alfano ha ribadito di non voler parlare di temi sgraditi. a pagina 5

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Parla il filosofo Giovanni Reale

«Una riforma contro il ’68» «La crisi del mondo del lavoro è stata provocata dall’egoismo estremo dei baby-boomers»

Il leader dell’Udc: «Così com’è, il testo porterà nuove difficoltà nell’erogazione del credito alle famiglie. Dobbiamo cambiarlo»

Riccardo Paradisi • pagina 4

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Compromessi necessari

L’inutile braccio di ferro Tutte le parti smettano di guardare agli interessi di settore e lavorino per il bene comune Giancristiano Desiderio • pagina 3

Il ministro: «Insieme all’Ue, ribadiamo la condanna di Assad»

Marco Palombi • pagina 6

L’Italia se ne va da Damasco Terzi richiama i nostri funzionari diplomatici in Siria di Laura Giannone

L’opinione di Gian Luca Galletti

«Ora a pagare sono i piccoli risparmiatori» di Angela Rossi

ashar al Assad dovrà andare via, e «non è una questione di se, ma di quando». A un anno esatto dalla prima manifestazione anti regime in Siria, Barack Obama (con accanto David Cameron) ha ribadito la posizione statunitense su Damasco. E probabilmente non è un caso che questa sia giunta solo poche ore dopo che l’inviato speciale delle Nazioni unite e della Lega araba per la crisi in Siria, Kofi Annan, aveva confermato di avere ricevuto una risposta dalle autorità di Damasco alle proposte concrete avanzate per mettere fine alle violenze e consentire la consegna di aiuti umanitari. Risposte che non sono state rese note ma che respingerebbero di fatto ogni mediazione.

ROMA. Qualche soluzione pare profilarsi dopo gli incontri di ieri tra i vertici attualmente dimissionari dell’Abi e quelli di Udc, Pdl e Pd sulla questione dell’azzeramento delle commissioni bancarie. Occorre che si giunga ad un’unità di vedute entro il 22 marzo prossimo, quando il testo del decreto sulle liberalizzazioni potrebbe essere convertito in legge. E così la norma che prevede, tramite un emendamento, l’azzeramento delle commissioni. Cosa che non solo costerebbe agli istituti di credito qualcosa come diecimila miliardi di euro ogni anno, ma anche una revisione del sistema.

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EURO 1,00 (10,00

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

52 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Meno soddisfatti Confindustria e Rete imprese italia: «Vogliamo cifre e punti fermi», dice Marcegaglia. Ma entro il 23 si dovrebbe chiudere

Una riforma alla tedesca

Schiarita sul lavoro tra Fornero e parti sociali: proposta pronta anche per i licenziamenti, da gestire d’intesa con i sindacati come in Germania di Errico Novi

ROMA. Dopo i tre colpi messi a segno in successione rapida (manovra, liberalizzazioni e semplificazioni) il governo di Mario Monti si appresta a tagliare il traguardo più impegnativo, quello del lavoro. Dopo un incontro andato avanti per l’intera mattinata, il ministro Fornero e i rappresentanti dei sindacati maggiori escono finalmente rincuorati e ottimisti. «Un accordo mi sembra realizzabile, lavoriamo perché sia condiviso da tutte le parti sociali e credo potremo siglarlo la prossima settimana, per il 23», dice il responsabile del Lavoro, che nel tardo pomeriggio invia agli interlocutori le linee guida su nuovi contratti e ammortizzatori sociali. I segretari delle tre confederazioni parlano di «confronto utile», dopo le polemiche e le rotture sfiorate nei giorni scorsi. Meno sorridenti i rappresentanti delle imprese, però. Emma Marcegaglia esordisce prima di sedersi al tavolo con una battuta intonata al linguaggio creativo di moda in queste ore. Quando le chiedono se ci saranno o no le «paccate di miliardi» icasticamente evocate da Elsa Fornero il giorno prima, lei ribatte: «Non mi pare, ci danno paccate e basta». Dopo minimizza, riconduce la cosa al novero delle battute, peraltro inevitabili visto che «ancora non si sa quanti soldi ci sono». Ma le sue incertezze derivano dal peso che il nuovo sistema di welfare potrebbe far rica-

Il capo dello Stato: «Mai così alta la comprensione reciproca fra Roma e Berlino»

Napolitano: «Maturi i tempi per un’Europa politica» L’incontro avvenuto due giorni fa a Roma fra Angela Merkel e le massime autorità dello Stato italiano non ha condotto soltanto a una “piena sintonia” fra la Cancelliera e Mario Monti. Anche Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica - che ha incontrato in serata la Merkel - è rimasto positivamente colpito dagli sviluppi nei rapporti fra Roma e Berlino. Ed ha voluto ribadirlo ieri: «Cè un altissimo grado di comprensione reciproca tra Italia e Germania sulle misure per combattere la crisi e rilanciare la crescita: un buon viatico per passi importanti verso una più forte unione politica europea, un clima molto favorevole non paragonabile ad altri momenti». Rispondendo alle domande dei giornalisti, al termine di un seminario sul benessere dei cittadini e la competitività del sistema produttivo, il presidente non ha lesinato omaggi al dialogo con la leader dei centristi - e della Grosse Koalition - di Berlino. Le parole del capo dello Stato, dicevamo, giungono dopo che ieri lo stesso Napolitano si è incontrato con la cancelliera tedesca Angela Merkel; ma servono anche a rischiarare le tenebre poste da chi vedeva nell’inquilino del Quirinale una sorta di maggiordomo della Germania. Non erano pochi, infatti, coloro i quali sostenevano che fosse stata l’asse Merkel-Napolitano a provocare la caduta dell’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi in favore di un altro, tecnico, guidato da Mario Monti. Un col-

loquio che «è servito a confermare l’unità di intenti tra i due Paesi sia sui temi delle politiche di consolidamento fiscale, sia sulla questione del rilancio della crescita, ma anche sul tema delle prospettive dell’unione politica europea. Siamo in un clima molto favorevole, non paragonabile ad altri momenti» ha sottolineato Napolitano. E proprio l’unione politica del continente europeo rimane il grande scoglio da superare per chi vuole vedere nell’Unione dei 27 Stati membri un grande complesso di potere non soltanto economico. D’altra parte, nonostante l’ottimismo del capo dello Stato, i tempi non sembrano ancora proprio del tutto maturi. Pesano soprattutto le diarchie - prima fra tutte quella che unirebbe Francia e Germania - e la difficile posizione economica e finanziaria di quei Paesi a rischio default. Un rischio che forse è stato del tutto scongiurato, ma che peserebbe sulla reale unità politica del Vecchio Continente.

dere soprattutto sulle aziende medie e piccole, con il fondo esodi facoltativo e a carico delle singole aziende e soprattutto il livellamento verso l’alto all’1,3% del contributo per l’assicurazione sociale, la nuova mobilità. Sforzi chiesti a datori d lavoro e dipendenti (gli oneri per l’assicurazione verrebbero applicati in busta paga) che non trovano, secondo gli imprenditori, sufficiente compensazione nella flessibilità in uscita.

Su questo fronte la partita è ancora da giocare. Da ieri però esiste una base di discussione più chiara, che Bonanni sintetizza così: «L’articolo 18 va mantenuto ma può essere ristrutturato, e ho visto partiti importanti come il Pd che si sono detti d’accordo: si può fare come i Germania dove il giudice decide in tempi rapidi se ci sarà il reintegro nei casi gravi o il risarcimento nei casi meno gravi», spiega il segretario della Cisl, «il tutto con l’ausilio di un rappresentante dell’impresa e del lavoratore». E in effetti è questa la strada intravista al tavolo di ieri. Di fatto si potrebbe parlare di“modello tedesco”per il lavoro – prima ancora che vi si arrivi a proposito di legge elettorale – nel senso che appunto ci sarebbe un maggiore coinvolgimento dei sindacati anche nei licenziamenti economici individuali. Negli stati di crisi aziendali, per ora, c’è una definizione chiara di cosa avviene in caso di licenziamenti collettivi, con le consultazioni tra


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Cambiare serve. Qualcuno deve cedere Il braccio di ferro continuo fra le parti rallenta una delle misure più importanti per la crescita di Giancristiano Desiderio uesta volta il classico “boia chi molla” non vale proprio perché la riforma del lavoro non si farà se nessuno farà un passo indietro o un passo avanti verso gli altri. Rovesciando il detto, si potrebbe dire “benedetto chi molla”. Sia benedetto il sindacato se accetta di rivedere o “ristrutturare” come diceva ieri Bonanni - l’articolo 18; siano benedette le aziende se accettano di istituire il “fondo esodi” con dei versamenti mensili all’Inps; sia benedetta, naturalmente, nostra signora ministra del Welfare che paccata o non paccata - è stata capace di condurre e fare una politica di riforma del lavoro, del suo mercato e delle garanzie di assistenza e mobilità che i suoi predecessori politici se la sognano. Siano benedetti tutti se sapranno fare un efficiente compromesso guardando più al Paese e meno alle casematte, più alle generazioni future e meno alle corporazioni, insomma, se sapranno essere ragionevoli e raggiungere un compromesso non compromettente. E insisto sulla parola “compromesso”perché, al contrario di quanto si sia soliti credere, l’arte del compromesso è il saper governare mentre alzare muri contro muri, intestardirsi su “o tutto o niente” è il modo più sicuro per inguaiare tutti.

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menti con i relativi temi del reintegro o del pagamento alternativo di un’indennità (articolo 18, ancora lui). Dall’altro, gli ammortizzatori sociali (la proposta dell’esecutivo prevede l’esclusione della mobilità dalla cassa integrazione). In un’intervista rilasciata in mattinata a Radio anch’io il ministro Fornero ha detto, a mo’di introduzione per l’incontro con le parti sociali, che “ci sono abbastanza risorse per fare una buona riforma”.

La Fornero ha spiegato che “c’è l’impegno del ministro ad avere le risorse e, voglio ribadirlo a chiare let-

Siano benedetti tutti se sapranno fare un efficiente compromesso guardando più al Paese e meno alle casematte. Insomma, se sapranno essere ragionevoli

L’idea che il sindacato debba essere irremovibile, che Confindustria debba essere tutta d’un pezzo, che lo stesso governo debba essere inflessibile è un’idea perdente in partenza. Ma l’accordo per la riforma del lavoro non è una possibilità tra le altre. È una necessità. Sul tavolo dell’incontro di ieri c’erano due cose da discutere: da un lato, i licenzia-

aziende e rappresentanze dei lavoratori che stabiliscono l’eventuale ricorso agli ammortizzatori. Adesso verrebbe regolata anche la fattispecie del singolo licenziamento, per la quale in Germania è previsto addirittura che siano i sindacati a scegliere il lavoratore a cui rinunciare.

Materia complicata, comunque. Perché mentre sulle procedure sono tutti d’accordo, sui licenziamenti individuali resta il no della Cgil. «C’è già una grande flessibilità in uscita, e fino ad ora la discussione si è concentrata sull’idea di togliere l’articolo 18, ma questa», obietta la Camusso, «è una materia su cui non si può intervenire». La maginot è appunto, secondo la lea-

tere, non verranno da ulteriore riduzione della spesa assistenziale. Ci sono altri capitoli di spesa che possono essere ridotti e capitoli di entrata che possono essere adattati”. Insomma, come si può capire, Elsa Fornero ha fatto la sua parte per rendere possibile sia al sindacato sia alle imprese il necessario passo in avanti - o indietro - per maturare l’accordo. Guardando ai fatti specifici, e non alle posizioni irrinunciabili per partito preso, il compromesso è a portata di mano. Secondo il ministro bisogna “intervenire sulle tipologie dei con-

der della Cgil, quella delle «certezze giuridiche, che bisogna dare» e dei «processi troppo lunghi» da semplificare, laddove «sarebbe un indebolimento insopportabile l’idea di un libero arbitrio sui licenziamenti». Da parte del governo non c’è una

tratti, magari non con l’accetta, ma rendendo più severi i controlli sugli abusi e incoraggiando forme più virtuose. Abbiamo in mente anche un contratto che dovrà dominare gli altri: prevede l’entrata nel mercato del lavoro con l’apprendistato e una stabilizzazione, che però non sarà per obbligo. Si prevede poi una relativa, maggiore facilità di uscita”.

La riforma è indispensabile per rimettere in moto l’Italia e non vanificare i sacrifici che tutti abbiamo fatto mettendo mano alla tasca, al portafogli, al conto corrente e salvadanaio. “Facciamo la riforma - ha giustamente detto il ministro Fornero sicuramente sapendo che dobbiamo gestire anni di crisi ma la facciamo pensando anche al dopo crisi e pensando a mettere i prerequisiti affinché l’Italia si avvii alla crescita”. La riforma è una pre-condizione il cui vantaggio è la conoscenza del passato e del mercato attuale che hanno dato tutto quanto potevano. Si tratta di allargare il mercato, di riportare al lavoro chi non ha mai lavorato e chi

flessibilità in uscita, politiche attive, servizi per il lavoro». Poi con l’aiuto del Parlamento ci si potrà occupare anche «di disabili, immigrati e misure specifiche per il lavoro delle donne». Compresa la questione delle dimissioni in bianco..

il lavoro l’ha perso. Sulla futura indennità di disoccupazione, il ministro ha evidenziato che “oggi abbiamo un mercato che ha un discreto sistema di protezione per un ristretto numero di persone. Noi vogliamo dare un qualcosa che abbiamo chiamato assicurazione sociale per l’impiego per le persone che avevano un lavoro e l’hanno perso affinché possano traghettarsi verso un nuovo lavoro. Questo nuovo indennizzo per l’impiego non è mai inferiore a quello che è oggi l’assegno per mobilità”. Sui 1100 euro previsti, il ministro ha precisato che si tratta di «un tetto che sale con l’inflazione e non si riduce quando i prezzi salgono. Ma ciò che è importante capire, e che dovrà cambiare i comportamenti, è che le persone in questa situazione siano aiutate non solo dal punto di vista monetario ma anche a cercarsi un nuovo posto». Un cambio di mentalità che in questo caso riguarda il lavoratore ma ancor prima i sindacati e i datori di lavoro. Molto spesso i lavoratori o gli aspiranti tali sono più avveduti e più “avanti” delle categorie a cui appartengono, ai sindacati e alle stesse imprese.

La professoressa Fornero, da brava pedagogista, ha utilizzato in questo caso una parola significativa ancora una - quando ha detto che si è trattato di uno choc: «Capisco anche che i cambiamenti che proponiamo non sono piccoli. Posso anche capire che la reazione delle parti sociali sia stata inizialmente un po’ uno choc ma credo sia uno choc positivo, è questo che dobbiamo far capire al Paese». Solo una chiosa: il Paese ha capito da tempo. Ecco perché entro il 23 marzo l’accordo si può e si deve chiudere. Chi c’è c’è.

l’anno, a simili condizioni non firmiamo». Le risorse per gli ammortizzatori verrebbero però innanzitutto dallo Stato, com’è ovvio. E in proposito Fornero assicura che i soldi verranno messi, e che con la battuta sulle paccate voleva solo evocare la ne-

Dal governo arriva un nuovo documento su forme contrattuali («ci sarà un modello dominante con un vero apprendistato») e ammortizzatori sociali. «Le paccate? I soldi li metteremo, ma non prima dell’accordo», precisa il ministro precisazione definitiva delle proposte, che comunque, secondo il ministro del Lavoro, saranno «non blindate». Saranno toccati, di sicuro, tutti e cinque gli aspetti fondamentali, messi così in fila da Fornero: «Ordinamento dei contratti, ammortizzatori sociali,

«Cifre e punti fermi». Questo chiedono invece Marcegaglia e Rete imprese Italia, rappresentata ieri dal direttore di Confesercenti Mario Bussoni, che lamenta: «Questa riforma così come ci è stata presentata costerebbe circa 1,2 miliardi in più

cessità di definire «tutto insieme», intese e fondi. Il menù potrà essere «un po’ indigesto per tutti» ma «equilibrato». Anche nel senso che sulla disciplina dei contratti si utilizzerà il compromesso già raggiunto all’interno del Pd, quello sul contratto pre-

valente: «Abbiamo in mente una forma contrattuale dominante, un lavoro subordinato a tempo indeterminato che preveda l’ingresso possibilmente in giovane età con un vero apprendistato», dice ancora il ministro Fornero. Che dà atto al «precedente governo» di avergli aperto la strada. Sarà un caso, ma il primo e più compiaciuto commento, su quella che pare la sospirata svolta, arriva proprio dal segretario pd Bersani: «Nelle ultime ore vedo segnali positivi, serve un accordo che rappresenti coesione e sforzo comune», anche su una «manutenzione dell’articolo 18». Se ne parla oggi al vertice di maggioranza con Monti, ammesso che i partiti non smontino i passi avanti di ieri.


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l’approfondimento

Parla Giovanni Reale: «La tragedia in corso non è come la guerra, ma è qualcosa di altrettanto profondo, un evento apocalittico»

Una riforma contro il ’68 Quale deve essere la “morale” degli interventi sul lavoro? Un filosofo prova a dire la sua su un tema riservato di solito agli economisti: «La colpa è della generazione degli anni ’60, che ha scaricato il debito sui figli. È ora che paghino loro» di Riccardo Paradisi

l tasso di disoccupazione giovanile, ovvero l’incidenza dei 15-24enni disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari ormai al 31,1%. Un livello record dal gennaio 2004. Sono dati spaventosi che però non danno sufficientemente l’idea del dramma che vivono milioni di ragazzi in carne ed ossa, la prima generazione del dopoguerra destinata ad avere meno opportunità e sicurezze di quella precedente. Il filosofo Giovanni Reale non esita a parlare di una tragedia sociale e culturale, che pure qualcosa ha da insegnare. «La prima osservazione di fronte a questi dati tremendi è che questo disastro sociale è dovuto a una sconsiderata dinamica adulta. Ha le sue radici cioè nella cecità e nell’egoismo con cui gli adulti hanno gestito le risorse in questi decenni. Hanno voluto sempre di più e sempre più rapidamente, incuranti della reale disponibilità delle risorse, indifferenti soprattutto all’eredità che avrebbero lasciato ai

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loro figli. In questi anni il welfare è stato munto fino all’inverosimile, è stata gonfiata la spesa pubblica, sono state dilapidate le risorse. Non c’è chi non sia responsabile di questo scempio: dai partiti politici ai sindacati passando per gli intellettuali. “Nulla di troppo”diceva l’antica saggezza greca: noi invece abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, vivendo del troppo, non accontendadoci dell’abbastanza».

Reale individua nei baby-boomers, i giovani cresciuti nel dopoguerra, la generazione bulimica responsabile della grande spoliazione. La generazione che ha goduto gli agi della ricostruzione e del boom, che ha rotto coi propri padri in nome del “Tutto e subito”e del “Vietato vietare”, che ha accusato la vecchia cultura di essere conservatrice ed autoritaria ma che una volta insediatasi nei posti di potere e comando s’è comportata peggio della precedente. «Ora, per colmo di paradosso e per

somma ingiustizia, il conto di questo trauma storico deve pagarlo la generazione successiva. Verso la quale viene esercitata anche una retorica cinica, ingannevole.“Le dolorose riforme che ci apprestiamo a fare le facciamo per i giovani” ci dicono. Giovani che sono chiamati a fare i sacrifici che i loro padri non hanno fatto». Il guaio è che alle nuove generazioni gli ex sessantottini qualcosa hanno trasmesso: la cultura dei diritti scissa da quella dei doveri.

«La situazione affonda le sue radici nell’egoismo degli adulti»

«Una pedagogia classica, ma anche risorgimentale, insegnava a ogni generazione, con Cicerone e Mazzini per fare l’esempio di due giganti del pensiero, che ad ogni diritto corrisponde un dovere. Doveri morali prima che economici. Un’etica che si fondava sulla tradizione, sull’idea che si nasce e si muore sempre a qualcun altro, che noi siamo l’anello di una catena che dal passato va verso il futuro. Oggi è l’eterno presente adolescenziale invece il tem-

po che viene generalmente percepito, in una mentalità economicista da partita doppia che ha invaso tutti i campi. Negli Stati Uniti c’è una corrente post-femminista che sostiene il diritto delle donne a non fare figli perché non c’è un ritorno, un guadagno proporzionale. Si è dimenticato il senso del dono della vita. E il senso dell’azione, dello stesso lavoro inteso come sacrificio. Nel senso di fare sacro. Platone diceva che un uomo raggiungerebbe la perfezione se svolgesse il suo mestiere come un atto sacro. Oggi si è perduta anche l’etica e il gusto per il lavoro ben fatto, il lavoro è diventato un mezzo per il guadagno o per il potere». Anche il nichilismo che sembra dilagare e avvelenare le nuove generazioni ha i suoi cattivi maestri nella generazione precedente. «Durante la contestazione si è cominciato a dire che i valori non esistono. Che sono sovrastrutture. Il risultato è che gli psicanalisti sono pieni di giovani pazienti. Il vuoto ti scava, il


Stasera si terrà il tormentato vertice tra i leader dei partiti di maggioranza e il premier

La classe dirigente all’esame di maturità

Le omissioni, come le chiama Angelino Alfano, non aiutano Monti. E impediscono anche ai partiti di riprendere il proprio ruolo di Osvaldo Baldacci pere e omissioni. Per la verità l’origine cristiana dell’espressione si riferisce a peccati, qualcosa che non si rivendica con orgoglio ma per la quale piuttosto ci si batte il petto. Sarà stato un lapsus da parte di Alfano, che ieri ha rivendicato di sostenere il governo Monti «lealmente con opere e omissioni. Sulle opere – ha spiegato il segretario del Pdl - intendiamo sostenere il governo nelle cose che facciamo. Per omissioni intendo dire che evitiamo di partecipare a discussioni che possano mettere in difficoltà il governo Monti». Il riferimento è all’atteso vertice di oggi che vedrà di nuovo insieme il premier Monti e i leader della maggioranza (anche se non si può dire) Alfano, Bersani e Casini.

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In particolare Alfano ha ribadito la volontà di non creare difficoltà al governo, ma ha fatto capire che questo può accadere solo togliendo dal tavolo tutti i temi sgraditi o comunque scomodi. Tesi che ha un senso, ma che rischia anche di essere invece del tutto destabilizzante. Da un lato infatti è a tutti evidente che questo governo nasce da larghe intese, e quanto più sono larghe meno è possibile essere d’accordo su tutto: quello che si può e si deve cercare è il massimo comun denominatore. Al contempo però a forza di scansare temi dal tavolo si finisce per non parlare di nulla. Da pensioni a riforma del lavoro, da liberalizzazioni a semplificazioni, da Rai a giustizia, da frequenze a legge elettorale, nulla di questo si sarebbe potuto affrontare se si stesse ai veti dei partiti. Ma il compito per il quale è stato chiamato il governo dei tecnici è proprio quello di affrontare i nodi più spinosi dell’Italia, per salvarla dal baratro e rilanciarla. È stato chiamato questo governo perché la precedente politica, quella del bipolarismo, viveva di veti incrociati e di ricatti degli estremi era incapace e impossibilitata a fare qualsiasi riforma. Ora queste riforme sono indispensabili, ed indispensabile è il contributo politico dei partiti responsabili affinché questo sforzo vada a compimento, ciascuno portando il suo contributo e non necessariamente accettando supinamente ogni soluzione ma contribuendo fattivamente a costruirle. Ma non si può non affrontare i problemi, che è esattamente il motivo per cui ha fallito la precedente politica. Chiaro su questo punto il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini: al vertice di maggioranza «parleremo di quello che ritiene opportuno il presidente del Consiglio, perché delimitare la possibilità del governo di intervenire su una materia o sull’altra significa voler mettere deliberata-

mente in difficoltà un governo come questo, che ha già ottenuto risultati importanti, basta pensare al fatto che non siamo più le ‘cenerentole’ europee».

Il Pdl pone ogni giorno gli stessi diktat, ma qualcosa sta rapidamente cambiando «Adesso - ha aggiunto - noi dobbiamo corrispondere con la stessa serietà e responsabilità. Chi pensa che il compito del governo è esaurito o chi fa bambinate per mettere in difficoltà il governo un giorno sì e l’altro pure, vuol dire che si assume la responsabilità di tornare alle vecchie abitudini

del passato che hanno portato il Paese in ginocchio, perché non veniamo dalla luna, veniamo da quattro anni in cui il Paese è stato messo in ginocchio». Sulla stessa linea il Pd, che però ha qualche incongruenza in più in questo ambito perché a sua volta ha spesso posto degli altolà al governo. “Alfano parla di opere e omissioni? Per noi ci sono solo opere dice la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro - Non ci possono essere zone franche nella discussione con il governo, per una ragione evidente che il presidente Monti ha anche citato ieri: la giustizia efficiente, ad esempio, è uno dei motori della competitività di un Paese”.

Come andrà a finire lo scopriremo al vertice di oggi. Certo, c’è da registrare preventivamente un dato positivo e uno negativo. Di buono c’è che il vertice c’è e che l’agenda la fa comunque il governo, che ha voluto mettere all’ordine del giorno tutti i temi. Il fatto che il vertice si possa tenere (almeno stando a quanto risulta nel momento in cui scrivo) è già un passo avanti rispetto all’annullamento della settimana scorsa da parte del Pdl. Fatto che ci porta alle note dolenti. Quelle per le quali bisogna constatare che tutti i giorni esponenti, gruppi e partiti della maggioranza cercano di mettere i bastoni tra le ruote al governo, di porre paletti e di limitarne l’operato. Ripeto, non si tratta di tirarsi indietro rispetto alle responsabilità nell’affrontare le riforme, si tratta di essere costruttivi senza porre quei veti che hanno paralizzato l’Italia fino ad ora. E invece vediamo che praticamente tutti i giorni il Pdl ripete le stesse cose, disseminando di mine il percorso del governo (e lo stesso fa il Pd su altri temi): non si può toccare la giustizia, e qui va ricordato il caos scatenato sulla responsabilità civile dei magistrati; attenzione a liberalizzare; guai a pensare di affrontare la questione Rai; non si osi pensare di ricavare qualcosa dalle frequenze televisive; giammai un’ipotesi di patrimoniale sui più ricchi e sui beni di lusso; piedi di piombo sulla corruzione, e si pensi anche al falso in bilancio e simili; anche sull’evasione fiscale vengono rivendicati meriti del governo precedente ma si cerca di tenere le mani legate a questo e si grida allo scandalo contro i blitz della Finanza. Poi è arrivato il rinvio del vertice ABC. Ma se nulla va bene, allora che deve fare il governo, un governo diverso da quello precedente, con una diversa maggioranza e diversa qualifica?

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caos delle famiglie e della società destabilizza la psiche. Abbiamo persino dimenticato che l’uomo non è un animale. È il prodotto della natura ma soprattutto della cultura. Ai giovani si sono trasmesse informazioni e merci. Nessuna cultura, nessuna visione del mondo, nessun valore. Un mio allievo un giorno mi ha detto: “Professore a me non interessa sapere da dove vengo, da dove vado. Trovare un senso alla vita. A me la vita interessa godermela e quando non me la potrò più godere mi tirerò un colpo”.Terribile». Giovanni Reale ha dedicato un suo libro alle radici dell’Europa. «Ma l’uomo europeo oggi s’è eclissato – dice il filosofo – la sua sostanza è soffocata da una cultura tecnocratica ed economicista. Ha perso il contatto con le sue radici. Che sono radici spirituali e cristiane. Chi s’è limitato a dire che l’Europa nasce con l’illuminismo ha mutilato l’anima europea. Cosa c’entra questo con la disoccupazione giovanile ci si potrebbe chiedere. C’entra eccome se c’entra – ragiona Reale - stiamo parlando delle cause di ciò che sta avvenendo. La fine del mito del progresso materiale continuo e indeterminato. La realtà è che non c’è nessun progresso se non si conservano i valori della tradizione, i principi che mantengono l’equilibrio.Verità sempre verdi che attendono solo d’essere riscoperte. Io ho visto la guerra da ragazzo. È stata una cosa orribile. Però noi sentivamo che quei sacrifici e quella sofferenza non erano inutili, sentivamo che quell’esperienza ci avrebbe in qualche modo fatto crescere e migliorato. Perché non eravamo scollegati dalle verità umane più profonde».

«Questa crisi che percorre il mondo - riprende Reale - non è come la seconda guerra mondiale. Ma è qualcosa di altrettanto profondo e tragico, un evento apocalittico che rischia di sconvolgere anime ed esistenze. Ai giovani, che ne sono le vittime più esposte, non saprei cosa dire se non che il risentimento non serve a niente e non serve la disperazione. Serve la consapevolezza – e questi ragazzi lo stanno imparando sulla loro pelle – che la storia è un genere tragico, che i guasti che l’uomo può fare sono enormi. Ma non si deve dimenticare che l’uomo può produrre così tanto male perché riposano in lui virtù straordinarie. Dalla più grande corruzione può rinascere il bene, perché il pessimo non distrugge l’ottimo. Ma è solo la corruzione di quel grande potere che è l’uomo. Un potere che si risveglia soprattutto nella sofferenza. Per questo ai giovani io dico: ciò che soffrite mettetelo a frutto, date alla vostra sofferenza un senso, ritrovate in essa le ragioni della giustizia e della solidarietà. Sarete migliori dei vostri padri. E buoni padri voi stessi».


politica

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Dopo le dimissioni, gli istituti chiedono una revisione della proposta del Senato. La palla passa all’esecutivo

Credito alle banche

L’Abi incontra la politica. Casini: «La norma sulle commissioni uccide la concessione dei prestiti. Pensiamo alle famiglie» A fianco, Roberto Mussari, presidente dimissionario dell’Abi, che ha chiesto un incontro con il mondo politico per evitare la norma sulla cancellazione delle commissioni bancarie. In basso, il leader dell’Unione di Centro, Pier Ferdinando Casini, che ieri ha spiegato come si potranno eliminare le norme che rallentano fortemente la concessione del credito alle famiglie italiane. A destra il vice capo gruppo dell’Unione di Centro alla Camera, Gian Luca Galletti, che ricopre anche il ruolo di responsabile economico del partito

di Marco Palombi eri era il giorno in cui il consiglio dell’Associazione bancaria italiana (Abi) doveva respingere le dimissioni mediatiche dei suoi vertici, a partire dal presidente Giuseppe Mussari, a capo – ancora per poco - di Monte Paschi. Non solo, però: ieri era anche il giorno in cui gli esponenti del mondo del credito incontravano la politica per chiederle aiuto e minacciare conseguenze. La materia del contendere, come si sa, è un emendamento approvato in Senato al decreto liberalizzazioni (presentato dalla democratica Fioroni e accolto da tutte le forze politiche in commissione Industria) che annulla tutte le commissioni, comunque denominate, lucrate dalle banche sull’apertura, la gestione e la chiusura di una linea di credito.

narsi ad un certo piglio proprietario da padrone delle ferriere: «Incidenti come quello dell’ok al Senato all’emendamento sulle commissioni bancarie uccidono il credito e non si devono ripetere. L’impatto negativo sarebbe di alcuni miliardi e costringerebbe Unicredit a focalizzarsi su altri Paesi».

Non solo un provvedimento un po’ dirigista (i prezzi dovrebbero scendere per la concorrenza, non per decreto), ma una mazzata che costerebbe diversi miliardi di euro alle banche italiane, le quali un paio di settimane fa hanno pensato bene di reagire con la piazzata delle dimissioni dei vertici Abi. «Non chiedeteci di lavorare in perdita perché abbiamo diritto a fare profitto», ha scandito ieri l’ad di Unicredit Federico Ghizzoni prima di abbando-

tocollo di trasparenza) lo sterilizzerebbe di fatto, ma continua a non essere chiaro dove inserirla. Riassumendo. La cosa più normale sarebbe emendare alla Camera le liberalizzazioni e rimandarle in Senato per la seconda lettura: il governo però – che continua a far finta di nulla invitando il Parlamento a correggere da sé i propri casini – ha paura a riaprire il vaso di Pandora degli emendamenti e si nasconde dietro una questione di tempi (il decreto sarà

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Nonostante il tono non proprio gentile, ormai che approvare quell’emendamento sia stato un errore è patrimonio diffuso alle Camere: si sa che la correzione proposta (stop alle commissioni solo per chi non ha aderito al pro-

approvato dalla Camera probabilmente il 22 marzo e non c’è tempo per farlo tornare in Senato visto che scade il 24). Si era provato a inserire la correzione nel decreto Semplificazioni: l’emendamento dei relatori, però, è stato cassato dagli uffici di presidenza perché incompatibile col tema e per di più troppo in anticipo, dato che si pretendeva di correggere un testo che non è ancora diventato legge. Incapace la politica, ora la palla dovrebbe tornare al governo: facciano un decretino per rimediare all’errore, dicono i partiti (o agli errori, visto che il Comitato per la legislazione di Montecitorio ne ha individuati ben sette gravi proprio dentro il decreto liberalizzazioni).

Il leader dell’Udc ha spiegato come procedere: «Si può presentare un ordine del giorno sul decreto liberalizzazioni che impegni il governo a rimuovere questa parte della norma». Aperture anche da Pd e Pdl

Il primo a parlarne ieri mattina è stato Pier Ferdinando Casini: «Il Terzo polo sta incontrando l’Abi – ha fatto sapere via Twitter - Più concorrenza e più trasparenza per erogare più credito. Ai banchieri chiediamo più credito e meno compensi, ma sulle commissioni la norma è del tutto sbagliata». Poi il leader dell’Udc ha spiegato come procedere: «Si può presentare un ordine del giorno sul decreto liberalizzazioni che impegni il governo a rimuovere questa parte della norma». Forse Monti - dopo aver fatto dire per giorni ad


politica Parla il responsabile per l’economia dell’Udc Gian Luca Galletti

ROMA. Qualche soluzione pare profilarsi dopo gli incontri di ieri tra i vertici attualmente dimissionari dell’Abi e quelli di Udc, Pdl e Pd sulla questione dell’azzeramento delle commissioni bancarie. Occorre che si giunga ad un’unità di vedute entro il 22 marzo prossimo, quando il testo del decreto sulle liberalizzazioni potrebbe essere convertito in legge. E così la norma che prevede, tramite un emendamento, l’azzeramento delle commissioni. Cosa che non solo costerebbe agli istituti di credito qualcosa come diecimila miliardi di euro ogni anno ma li costringerebbe anche a rivedere tutto un sistema informatico che ha nella sua memoria i nominativi di oltre trenta milioni di italiani titolari di altrettanti conti correnti. Per trovare una soluzione che ricomponesse la questione ieri mattina Pdl, Udc e Pd e Abi si sono incontrati separatamente. «Va bene rivedere la norma sulle banche - è il pensiero del presidente dell’Udc, Casini - ma le banche devono fare un ulteriore sforzo nel concedere prestiti e finanziamenti alle famiglie». La proposta dell’Udc è quella di approvare un ordine del giorno che impegni il Governo ad assumere iniziative per rimediare alla norma. «Se vogliamo superare la crisi le banche devono fare uno sforzo supplementare – ha dichiarato il leader dell’Udc ai vertici dell’Abi - abbiamo chiesto più attenzione per le famiglie e le imprese perché il credito si sta assottigliando». Le banche però hanno urgenza e per questo hanno richiesto l’incontro con le parti politiche. L’Abi vuole sapere in che modo e se sia possibile che il Parlamento corregga la norma. L’Udc invece mette sul tavolo delle priorità una maggiore apertura al credito per famiglie ed imprese ed è questo che chiede al Governo. «Le banche - continua Casini - ricevono denaro dalla Bce all’1% ma non lo riversano alle aziende italiane. Bisogna che ci sia una finalità di scopo». Anche Bersani si rivolge al governo con la richiesta di riunire banche e imprese attorno ad un tavolo e che «in coordinamento con i gruppi

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«Così cambieremo un testo sbagliato» «Massima disponibilità politica, serve più regolamentazione del settore» di Angela Rossi parlamentari, si individuino soluzioni sia sui temi della trasparenza e dell’entità delle commissioni bancarie, sia sulla liquidità». Qualcosa però pare essersi mosso, se non altro sul piano della disponibilità almeno dichiarata. Quale sia stata l’atmosfera dell’incontro lo chiediamo a Gian Luca Galletti, vicepresidente del gruppo Unione di Centro alla Camera. Bolognese, quattro figli, una laurea in Scienze Economiche e Commerciali ed un’attività di commercialista soprattutto nel campo della consulenza fiscale, civilistica e societaria, Galletti si dice convinto della possibilità di giungere ad una soluzione del problema. Ma secondo lei qual è lo strumento più idoneo per rimettere a posto la situazione? Un Ordine del giorno o l’assunzione di responsabilità con la presentazione di un decreto? E soprattutto si arriverà ad una soluzione viste che il Pd potrebbe avere qualche ritrosia a votare mentre il Governo potrebbe ritenere che la materia debba essere risolta dal Parlamento? Credo che l’errore contenuto nella norma possa essere eliminato con un decreto urgente del governo. Questo può essere aiutato da un ordine del giorno oppure da una risoluzione di commissione. Il Pd voterebbe un ordine del giorno in questo senso?

Antonio Catricalà che “ci deve pensare il Parlamento”- si deciderà a togliere le castagne dal fuoco ai poveri segretari di maggioranza. Solo che su questo s’è aperto un altro problema: ieri la commissione Attività produttive – a cui non è stato consentito di approvare emendamenti proprio per via dei tempi – ha chiesto all’esecutivo di fare un bel decreto bis sulle liberalizzazioni in materia di banche, farmacie e assicurazioni per correggere quello ancora non approvato. Finita? Macché. Il PdL s’è convinto che interpretare la parte del nemico delle banche gli porterà qualche beneficio elettorale: «Il tema non mi appassiona, ma se vogliamo

Tutti hanno preso atto della vera natura di questa proposta. Per risolvere il problema bisogna agire su trasparenza, concorrenza, vigilanza e controllo dei tassi Penso di sì, perché tutti hanno preso atto che la norma penalizzerebbe soprattutto i risparmiatori e non le banche: rimediare all’errore è quindi nell’interesse dei risparmiatori. Per risolvere il problema bisogna agire su trasparenza, concorrenza, vigilanza e controllo dei tassi. La Bce ha introdotto nuova linfa nel sistema italia-

correggere la norma sulle commissioni – faceva il duro Angelino Alfano dopo aver incontrato l’Abi anche lui – allora ci si confronti anche sulle altre nostre proposte» (moratoria sui mutui, obbligo di prestare a imprese e famiglie i soldi della Bce, battaglia contro i criteri di patrimonializzazione previsti da Basilea 3 e altro).

Il niet del Pd, però, arriva subito: «Noi chiediamo un decreto solo sulla banche perché è già difficile ottenere la correzione di questo errore», scandisce Anna Finocchiaro dopo l’immancabile riunione con Mussari e soci. Proprio la capogruppo democratica in

no con il prestito dei 139 miliardi ad un interesse dell’uno per cento. Quindi le risorse sono ovviamente maggiori. La questione è se le banche aumenteranno, di contro, l’accesso al credito e quindi ad ottenere prestiti e finanziamenti ad imprese e famiglie. Nell’incontro di oggi che atteggiamento ha vi-

Senato non ha mancato di mettere altra carne al fuoco: le banche si sono “mostrate disponibili” a usare il sistema creditizio italiano come «veicolo attraverso il quale reimmettere sul mercato una parte di quei 60-65 miliardi di crediti che le imprese italiane vantano nei confronti dello Stato, a partire da quelli più sicuri, i 17 che sono sul capo dello Stato centrale». Insomma, pare proprio che portare ordine nel caos alla fine toccherà al governo: non tanto perché oggi pomeriggio Mario Monti riceverà direttamente dalla commissione Attività produttive la richiesta del decreto di correzione su banche, assicurazioni e farmacie,

sto verso alle sollecitazioni in questo senso del presidente Casini? Ho visto molta disponibilità su questo fronte. Certo i prestiti sono correlati alla durata del prestito della Bce e cioè da uno a cinque anni e a fronte della disponibilità. Il presidente Casini è stato molto determinato e dall’altra parte ho registrato atteggiamenti di disponibilità. Secondo lei questa vicenda, fatte le dovute proporzioni, potrebbe rappresentare il nocciolo della crisi del nostro modello economico? Non siamo di fronte alla questione del fallimento nel 2007 della Lehman Brothers? Le chiedo questo perché all’epoca avvenne che, nonostante il Governo americano infondesse nuove risorse in termini di liquidità economica alle banche per salvaguardare le pensioni degli americani e le assicurazioni sanitarie gli istituti di credito, di contro, presero senza dare... C’è da dire che, a differenza di altri Paesi come la Germania, l’Italia finora non ha mai avuto bisogno di interventi dello Stato. Il presidente Casini ha proposto l’introduzione di un tetto ai compensi dei banchieri. Come si potrebbe giungere a questo? Con una legge ad hoc? Mediante un sistema di autoregolamentazione o sarebbe un’iniziativa in contrasto con i principi del libero mercato e potrebbe trasformarsi in una fuga di grandi manager dall’Italia? Arrivare ad una determinazione simile non è facile e rischierebbe di non essere corretta. È chiaro che ci vuole autoregolamentazione e trasparenza dei dati ed un controllo anche sociale. Quale reazione hanno avuto i rappresentanti dell’Abi rispetto a questa proposta? Non siamo entrati nei particolari ma il loro atteggiamento è stato di massima disponibilità su tutti i fronti.

quanto perché sarà uno dei temi sul tappeto nel vertice serale coi tre segretari di maggioranza.

Per ora, però, l’esecutivo non ha intenzione di prendere impegni precisi: c’è da scommettere che “l’errore” sulle banche sarà un elemento che il presidente del Consiglio getterà sul tavolo della trattativa stasera. In ballo ci sono soprattutto la legge anticorruzione e altre riforme in tema di giustizia, per non parlare della questione Rai: anche non volendo cambiare la legge Gasparri, infatti, l’attuale cda scade a fine mese e il governo non ha poca voce in capitolo nel suo rinnovo.


il paginone

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he cosa succede se la donna più potente del mondo - almeno secondo la rivista Forbes - nutre una profondissima e ricambiata antipatia per quella che occupa la nona piazza nella speciale classifica redatta annualmente dal periodico a stelle e strisce? La risposta, ovvia, è: nulla di buono. Le protagoniste di questa diatriba, che mette sullo stesso piano inclinazioni personali ed equilibri geopolitici, sono Angela Merkel, cancelliera tedesca dal 2005, e Christine Lagarde, a capo

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del Fondo Monetario Internazionale dal 5 luglio 2011, quando a Dominique succedette Strauss-Kahn dopo la brutta vicenda dell’hotel Sofitel di New York. Quella che ci accingiamo a raccontare è quindi una storia che interseca più volte il futuro del nostro sistema economico, almeno quello che siamo stati abituati a conoscere. E, come in ogni storia che si rispetti, non si può che cominciare dalla descrizione delle due protagoniste, che si misurano a colpi di fioretto da quasi un anno.

Partiamo dalla signora Christine Lagarde per correttezza visto che, almeno secondo Forbes, gode di minor potere rispetto alla cancelliera tedesca. Nata a Parigi il 1° gennaio del 1956, diviene avvocato dopo aver lavorato per il deputato americano William Cohen che diventerà Segretario della Difesa durante il mandato di Bill Clinton. Dal 1981, Christine Lagarde lavora nello studio Baker & McKenzie, dove ricopre incarichi di crescente responsabilità fino a diventare presidente

zio di quell’agosto nero che porterà il nostro Paese a un passo dal baratro e che costringerà alle dimissioni l’esecutivo guidato da Berlusconi tre mesi più tardi. Ma veniamo all’altra interprete della nostra storia. Angela Merkel, nata ad Amburgo il 17 luglio 1954, crebbe nell’allora Germania Est portando a compimento studi di fisica. Il crollo del muro di Berlino e la ventata di rinnovamento che si respirava la coinvolsero facendola entrare nel movimento “Risveglio democratico”. Eletta al Bundestag nel ’90 nelle file della Cdu, ricoprì incarichi di governo a partire dal terzo cancellierato di Helmut Kohl, di cui divenne l’erede designata, guadagnandosi - in quanto membro più giovane dell’esecutivo - il soprannome di das Mädchen, la ragazza. Quando, nel ’98, Schroeder sconfisse Kohl, la Merkel divenne segretario della Cdu e iniziò un percorso di rinnovamento del partito lungo e complesso. Fino al 2005, quando “la ragazza”, ormai cresciuta, fu messa a capo di un governo di “larghe in-

La sfida delle Eurobond, Salvastati, unità europea. Sono questi i “campi di battaglia” sui quali si stanno confrontando, a colpi di dichiarazioni sui media, Angela Merkel e Christine Lagarde di Marco Scotti del consiglio di amministrazione nel 1999. Ma il foro non è la sua unica passione: aderisce all’Ump (l’Unione per un Movimento Popolare), il partito che sarà di Nicolàs Sarkozy. E diviene ben presto esponente di spicco dello schieramento, tanto da ricoprire tre incarichi ministeriali in tre governi differenti: ministro del Commercio Estero con il primo esecutivo de Villepin, ministro dell’Agricoltura con Fillon e quindi, nuovamente con de Villepin, ministro dell’Economia. Ricopre quest’ultimo incarico fino al luglio dello scorso anno, quando la traumatica e improvvisa caduta di Strauss-Khan la fa salire sul gradino più alto del Fmi. Non è un momento qualsiasi quello dell’insediamento della Lagarde: la speculazione, dopo aver colpito a morte la Grecia e aver ferito gravemente Irlanda e Portogallo, sta iniziando a stringere le proprie spire attorno all’Italia. È l’ini-

tese”in cui confluì anche l’Spd di Schroeder. Con la cancelleria della signora Merkel la Germania riprese una marcia trionfale iniziata da Schroeder dopo un periodo di appannamento, riguadagnando definitivamente il ruolo di “locomotiva d’Europa”. Dopo l’annus horribilis della crisi internazionale, la Germania fece registrare un aumento record del Pil, divenendo di fatto “preside”dell’intera Europa. Nonostante la fine della proficua esperienza delle larghe intese per fare posto a un governo più marcatamente di centrodestra, la Germania non sembrava disposta a cedere il passo in Europa. Anzi, la Merkel rilanciò la propria posizione e la primazia dello Stato da lei governato, cercando in ogni modo di impedire che il contagio degli stati dell’Europa meridionale potesse infettare la Germania medesima. Dall’agosto del 2011 però, sulla

strada della cancelliera si è messa di traverso Christine Lagarde, decisa in ogni modo a mitigare le posizioni tedesche e a costringere Berlino ad assumersi le responsabilità finanziarie di un’Unione Europea degna di questo nome. E qui inizia a delinearsi il“campo di battaglia”che vedrà sfidarsi a più riprese le due donne di ferro. In questi mesi di botta e risposta e di piccoli battibecchi a mezzo stampa non sono mancate le invasioni di campo. Da questo punto di vista, è senz’altro la Lagarde quella che ha maggiormente tentato di dettare legge anche in un territorio non suo: è il caso, per esempio, di affermazioni rilasciate dal leader del Fmi a gennaio quando si dichiarò favorevole - e anzi, cercò di fare pressione in tal senso - all’introduzione degli eurobond. La cancelliera tedesca, lette le dichiarazioni della Lagarde, si affrettò


il paginone re” il bund con altri titoli dalla redditività più alta creando questi famosi eurobond, cioè titoli di stato europei impiegati per finanziarie tutti i paesi membri dell’Ue. «Mai – si sarà forse detta la Merkel - accetterò di infettare i miei bund con qualche titolo di stato di paesi a rischio». E la Lagarde, che in quanto direttore del Fmi non avrebbe teoricamente diritto a esortare l’Europa all’emissione degli eurobond, ha dovuto accettare di buon grado il secco nein della cancelliera. Secondo battibecco, ancora una volta tramite gli organi di informazione, riguarda quel “fondo salva stati” che diventerà, a regime, l’unico appiglio cui potranno aggrapparsi i Paesi in difficoltà che abbiano però ratificato il fiscal compact. A oggi, l’Efsf (European Financial Stability Fund) è ancora in forma provvisoria, tanto che gli acquisti più ingenti di titoli degli stati membro dell’Ue in difficoltà sono stati fatti direttamente dalla Bce, che pure non dovrebbe ricoprire questo ruolo. Al momento, infatti, nonostante i

spetto a quanto previsto attualmente: 1000 miliardi di euro. Una cifra di tutto rispetto, anche se comprensibile, se si pensa che il solo salvataggio della Grecia è costato quasi 200 miliardi in più tranches - ai paesi membri. Il ragionamento della Lagarde è logico: oggi si è trattato di Atene, e se domani dovesse toccare a Madrid o a Roma? Siamo a lunedì, quando il nuovo eurogruppo si è concentrato, dopo il definitivo via libera agli aiuti ad Atene, sulla creazione dell’Esm e sulla sua dotazione. Inizialmente, l’Efsf poteva contare su 440 miliardi.Tolti però gli aiuti a Grecia, Irlanda e Portogallo, sono rimasti nelle casse dell’organismo “solo”250 miliardi. È risaputo che l’Esm potrà contare su un patrimonio di 500 miliardi: si cerca, di conseguenza, di far sommare questa cifra ai 250 rimanenti, portando la dotazione a 750 miliardi. Ma la Germania sembra, ancora una volta, non volerci proprio sentire da quell’orecchio. Anche sulla Spagna, che rischia grosso con il rapporto tra deficit e pil ben oltre la so-

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tore sul pedale dei tagli, prima di concedere i 130 miliardi di aiuti necessari ad Atene per poter finalmente – e faticosamente – ripartire. Pur non volendo tifare per Christine Lagarde, non possiamo quindi far a meno di notare come la caparbietà con cui la Germania si oppone a ogni tentativo di ampliare la dotazione del fondo, così come di condividere in modo più sostanziale le sorti del continente unico, possa diventare un boomerang. Kohl, padre nobile dell’Europa unita, ha da tempo sconfessato la sua delfina, irritato dalla protervia con cui si ostina a voler mantenere la Germania su una sorta di torre eburnea, al riparo dagli sconquassi dei mercati e delle crisi planetarie.

È vero, Berlino ha una forza economica unica nel continente. Ma non capire che solo un’Europa unita - sia dal punto di vista politico sia da quello economico

e due “Iron Lady” a dire che titoli di stato europei sono, almeno per ora, semplice utopia. La sola parola, ormai l’abbiamo capito da anni, fa infatti irritare Angela Merkel, che non ha alcuna intenzione di condividere le disgrazie dei paesi europei fuori dall’elite del “club della Tripla A”. Come mai un’allergia così pronunciata nei confronti di titoli di stato comuni a tutti? Perché, di fatto, annullerebbero la supremazia tedesca, certificata dai numeri, e costringerebbero Berlino a condividere per davvero le sorti continentali. Ad oggi, infatti, ogni Paese membro ha propri titoli di stato che vengono immessi sul mercato con una “cedola” (l’interesse pagato ogni trimestre) variabile a seconda del rischio che gli investitori ritengono corra quello stato di fallire. Maggiore è il rischio di default - e quindi di non ripagare gli operatori - maggiore sarà l’interesse richiesto. E il “bund”decennale tedesco è considerato, a ragione, un bene rifugio paragonabile all’oro o al mattone. Lunedì, in chiusura dei mercati, il tasso di interesse corrisposto era dell’1,76% contro il 4,89% dell’Italia, il 5,02% della Spagna e il 29,48% della Grecia. Ed è per questo che la Merkel non è tanto disposta a “mischia-

A sinistra, la cancelliera tedesca Angela Merkel. A destra, il capo del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde

ripetuti annunci, non si è ancora dato il via all’Esm (European Stability Mechanism), fondo permanente a sostegno dei membri Ue, che dovrebbe essere dotato di una liquidità di 250 miliardi e poter fornire prestiti, tramite il meccanismo delle leve finanziarie, fino a 500.

glia del 3%, la posizione più oltranzista è quella tedesca, che chiede rigore “senza se e senza ma”. Ma il rigore, se non suffragato da piani di crescita, è di per se stesso recessivo, e rischia di peggiorare ulteriormente la situazione. È come se Lagarde e Merkel incarnassero, in certo

– potrà reggere l’urto con un sistema globale in cui a Cina e Stati Uniti si stanno aggiungendo altri paesi che reclamano “un posto al sole”, rischia di essere un errore da matita blu. Brasile,

Tanto più rigorosa è la cancelliera tedesca, intenta a tutelare il primato della Germania di Paese virtuoso nell’Ue, tanto più appare accomodante la leader del Fmi, più propensa a “proteggere” gli altri Stati a rischio default Ancora una volta, Christine Lagarde ha voluto esprimere la propria opinione su uno strumento europeo che, di conseguenza, non dovrebbe essere direttamente tra i suoi argomenti di discussione.

Tanto da far sorgere il sospetto che il leader del Fmi a volte smetta i panni di numero uno dell’organismo internazionale per tornare a vestire quelli di ministro dell’Economia francese, preoccupato per la stabilità dell’Europa e, di conseguenza, del proprio Paese. La Lagarde, infatti, s’è affrettata a sostenere che, per far fronte alle esigenze future che si profilano all’orizzonte - un dipinto a tinte fosche in cui la crisi lascerà importanti strascichi sulle economie più deboli, costringendo l’Ue a pesanti interventi - sarebbe necessario avere una dotazione doppia ri-

qual modo, le due anime dell’Europa. Più rigorosa la Merkel, più accomodante la Lagarde. Chi ha ragione? Non ci sentiamo di sbilanciarci a favore di una delle due contendenti, anche se già in altre occasioni abbiamo rimarcato l’eccessiva attitudine prodella cancelliera fessorale Merkel. Perché se è vero che la Germania è un esempio cui ispirarsi, lo è altrettanto che i sacrifici imposti ad Atene rischiano di gettare nello sconforto milioni di persone. Qualcuno può obiettare che della cosiddetta “trojka”, composta da Fmi, Ue e Bce, facevano parte sia la Merkel che la Lagarde, e che quindi le colpe attribuite alla cancelliera andrebbero fatte ricadere anche sul leader del Fmi.Vero, ma solo in parte. Le dichiarazioni rese pubblicamente da Angela Merkel non lasciano dubbi su chi abbia premuto maggiormente l’accelera-

India e Russia, ma anche Messico, Turchia e Indonesia - Paesi che non avrebbero la stessa competitività dell’intero continente se preso unitariamente potrebbero in breve sopraffare i singoli Paesi membri, perfino il gigante tedesco, se si continuerà a fare del vecchio continente una mera confederazione di stati sovrani. Ci pensi bene, frau Merkel, la prossima volta che deciderà di dire “no”a un’Europa ancora più unita.


mondo

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A un anno dalla prima manifestazione in Siria, l’esercito riprende il controllo di Idlib. Rastrellamenti casa per casa

Via da Damasco L’Italia rimpatria lo staff della nostra ambasciata «per motivi di sicurezza». Mistero sulla risposta del regime a Kofi Annan, ma si teme un no. Obama: «Assad via? Non se, ma quando» di Laura Giannone ashar al Assad dovrà andare via, e «non è una questione di se, ma di quando». A un anno esatto dalla prima manifestazione anti regime in Siria, Barack Obama (con accanto David Cameron) ha ribadito la posizione statunitense su Damasco. E probabilmente non è un caso che questa sia giunta solo poche ore dopo che l’inviato speciale delle Nazioni unite e della Lega araba per la crisi in Siria, Kofi Annan, aveva confermato di avere ricevuto una risposta dalle autorità di Damasco alle proposte concrete avanzate per mettere fine alle violenze e consentire la consegna di aiuti umanitari. Risposte che non sono state rese note ma che secondo molte fonti diplomatiche respingerebbero di fatto ogni mediazione. E che verranno riferite in videoconferenza da Annan domani al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove

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sarà fatta anche circolare una nuova bozza di risoluzione contro il regime siriano.

Non sembra altresì essere una coincidenza la decisione presa sempre ieri dalla Farnesina di sospendere l’attività della nostra ambasciata e rimpatriare tutto lo staff. «Anche in conside-

ni». «L’Italia continuerà a sostenere il popolo siriano e a lavorare per una soluzione pacifica della crisi, che ne garantisca i diritti fondamentali e le legittime aspirazioni democratiche. continua la nota - Sosteniamo pienamente gli sforzi dell’Inviato Speciale dell’ Onu e della Lega Araba, Kofi Annan, per otte-

Vertice a sorpresa in Turchia fra il generale Petraeus (oggi direttore della Cia) e il premier Erdogan. Mentre da Mosca Serghei Lavrov, per la prima volta, usa parole dure contro il presidente razione delle gravi condizioni di sicurezza - si legge in una nota diffusa dal ministero degli Esteri -, insieme ai principali partner dell’Unione Europea, abbiamo inteso ribadire la più ferma condanna verso le inaccettabili violenze attuate dal regime siriano nei confronti dei propri cittadi-

nere uno stop immediato alla violenza e per consentire l’accesso degli operatori umanitari e l’avvio del dialogo politico». Dialogo che in Siria è ancora lontano, visto che si continua a combattere senza sosta. Ieri l’esercito di Assad ha ripreso il totale controllo della città ribelle

di Idlib, nel nord-ovest della Siria, dopo un assalto durato quattro giorni che ha provocato almeno dieci vittime, migliaia di rastrellamenti casa per casa e oltre un centinaio di arresti, come denunciato dagli attivisti.

Mentre si teme per la sorte di due giornalisti turchi scomparsi da cinque giorni proprio nella cittadina siriana. Su Twitter il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha fatto sapere che il governo di Ankara sta seguendo il caso: «tutti dovrebbe-

ro prestare la massima attenzione alla sicurezza dei rappresentanti della stampa che lavorano in condizioni difficili», ha scritto il ministro. La capitale turca è da mesi in prima linea nel cercare di far capitolare il presidente alAssad. E ieri è stata testimone di un vertice a sorpresa che certo avrà delle conseguenze. David Petraeus, direttore della Central Intelligence Agency è arrivato infatti ad Ankara assieme al Direttore della National intelligence (Dni), James Clapper, per incontrare Recep Tayyip Erdogan,

Il nuovo corso di Khaled Meshal, che si riavvicina all’asse dei Paesi arabi “moderati” e ai Fratelli Musulmani

Non solo Assad, Hamas “molla”anche Ahmadinejad di Abd al-Bari Atwan l movimento islamico Hamas sta vivendo una trasformazione strategica senza precedenti, che fra l’altro comprende una revisione delle sue passate alleanze regionali, così come l’intreccio di nuove alleanze, le quali potrebbero alla fine portare alla rottura con un passato durato più di vent’anni. L’inizio di questa trasformazione ha coinciso con la decisione del movimento di schierarsi con la rivoluzione popolare che chiede il cambiamento democratico in Siria e di voltare le spalle al regime che gli aveva aperto le porte accogliendo i suoi leader negli anni passati. I dirigenti di Hamas all’estero hanno pertanto lasciato Damasco e si sono stabiliti definitivamente in altre capitali arabe. Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico del movimento, si è recato nella capitale del Qatar, Doha, accom-

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pagnato da altri due membri dell’ufficio politico, Mohamed Nasr e Ezzat al-Rishq, mentre il suo vice Moussa Abu Marzouk si è stabilito al Cairo, e Imad el-Alami ha scelto di tornare nel suo luogo di nascita nella Striscia di Gaza.

Questa fase di revisione non si è però limitata alla rottura con il regime siriano e alla decisione di schierarsi con il popolo e la sua rivoluzione, ma si sta estendendo anche all’Iran, il paese che ha sostenuto Hamas finanziariamente e moralmente, e la cui capitale Teheran è stata un luogo di periodico pellegrinaggio per i leader del movimento. La scorsa settimana, due responsabili di Hamas hanno sorpreso la comunità internazionale, prima ancora che quella araba ed islamica, annunciando che il movimento non sarebbe intervenuto


mondo

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Kabul, attentato fallito a Panetta KABUL. Molta paura, ma

In alto, ad Homs, dopo la guerriglia con le forze lealiste, un ferito viene curato d’urgenza. A lato, Kofi Annan, inviato speciale per la Siria. In basso a sinistra, Khaled Meshal

fortunatamente niente di irreparabile. Anche se l’attentato di ieri a Leon Panetta apre diverse questioni sulla sicurezza di Kabul. Un veicolo ha fatto irruzione sulla pista d’atterraggio della base militare britannica di Camp Bastion, in Afghanistan, prima di prendere fuoco nel momento in cui toccava terra l’aereo del Segretario alla difesa americano Leon Panetta. Lo ha indicato una fonte governativa a Londra. Si è trattato di un fallito attacco kamikaze con un’autobomba, notizia che la fonte governativa si è rifiutata di confermare. «Nel momento in cui atterrava, un veicolo è arrivato sulla pista e ha preso fuoco. Il conducente è rimasto gravemente ustionato», ha detto la fonte governativa, sotto copertura dell’anonimato. L’autista è un uomo impiegato sul posto dalla base militare. Un soldato britannico è stato ferito in un precedente incidente che potrebbe essere legato allo stesso veicolo. «In nessun momento, nè il segretario, nè gli altri occupanti del velivolo sono stati messi in pericolo per questo incidente», si legge in un comunicato dell’Isaf.

sono espressione di una nuova strategia da parte del movimento. Non ci troviamo, infatti, di fronte a dei lapsus, ma a prese di posizione fatte trapelare deliberatamente per inviare a diversi attori arabi, islamici ed internazionali, un chiaro messaggio riguardo al cambiamento delle alleanze di Hamas. in un’eventuale guerra tra l’Iran e Israele, e non avrebbe lanciato i suoi razzi contro gli insediamenti e le città israeliane se una guerra del genere fosse scoppiata. In altre parole, da quello che si è potuto capire dalle dichiarazioni rilasciate a questo proposito da Ahmed Yousef, consigliere del ministero degli Esteri del governo di Gaza, e da Salah Bardawil, membro dell’ufficio politico del movimento, in un’eventualità del genere Hamas rimarrebbe neutrale.

Bardawil ha detto con fermezza che il movimento non offrirà il proprio sostegno all’Iran se quest’ultimo sarà colpito da un attacco israeliano o americano volto a distruggere il suo programma nucleare. Nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian, egli ha affermato che «l’Iran

è sciita, mentre i figli del popolo palestinese a Gaza sono seguaci della comunità sunnita». Dal canto suo, Yousef ci ha tenuto a dire che Hamas non interverrà in una guerra del genere perché il movimento non fa parte di nessun asse

Hamas non è costretto a rispondere a domande ipotetiche riguardo a un suo intervento a fianco dell’Iran in un’eventuale guerra contro Israele, poiché i più elementari principi della politica vietano a dei responsabili politici di cadere

Il leader del movimento ha lasciato definitivamente la capitale siriana per trasferirsi a Doha, nel Qatar. Uno dei suoi due vice, Moussa Abu Marzouk, si è stabilito in Egitto, al Cairo e l’altro, Imad el-Alami, nella Striscia di Gaza militare o politico, e la sua azione si limita al solo territorio palestinese; perciò, la leadership militare di Hamas risponderà solo a un attacco contro la Striscia di Gaza (...). Certamente le dichiarazioni di Bardawil e Yousef non esprimono posizioni personali, bensì

in simili trappole. È chiaro, invece, che vi è un’intenzione deliberata di ribadire il graduale allontanamento del movimento dall’asse Iran-Siria-Hezbollah in via temporanea o definitiva, ed il suo avvicinamento all’asse degli arabi “moderati”che comprende Stati “sunniti”co-

il premier turco, Hakan Fidan, capo dei servizi segreti della Mezzaluna e gli ufficiali dello Stato Maggiore del paese. Secondo i quotidani nazionali gli incontri sarebbero serviti ad immaginare la forma di un eventuale intervento internazionale contro Damasco. Certo è che il generale Petraeus non si muove solo per andare a parlare del Pkk, come sostengono i comunicati ufficiali.

Intanto, dopo due veti a risoluzioni Onu di condanna della Siria, dopo mesi di difese d’ufficio e di forniture di armi come niente stesse accadendo a Damasco, Dara’a, Idlib ed Homs, la Russia comincia a prendere le distanze da Bashar al-Assad. E dietro le prime, ma eloquenti puntualizzazioni, molti analisti vedono un negoziato sottobanco con gli Usa: linea meno intransigente sulla Siria, forse anche un discreto nulla osta ad un eventuale intervento in Iran, in cambio di chiare concessione americane sullo scudo antimissile Usa. Ieri il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, intervenuto alla Duma, ha criticato il ritardo del presidente siriano nell’avviare riforme, nell’aprire al dialogo. Pur sottolineando che Assad «ha preso decisioni utili, che rinnovano il sistema e lo rendono più pluralistico di quello monopartitico che c’era prima», Lavrov ha deplorato che questo sia stato fatto «con grande ritardo e con ritardo arrivano le proposte di avviare un dialogo». Inoltre, ha detto, la Russia non difende «il regime”»di Assad, ma «la giustizia, il diritto sovrano dei siriani a fare scelte democratiche». Ancora sfumata come presa di distanza, è vero. Ma visto che Mosca ha finora sempre difeso Assad, non c’è dubbio che l’aria stia cambiando. E che come ha detto Obama il presidente dovrà andare via.

me l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e l’Egitto, in linea con le posizioni degli islamisti, ed in particolare dei Fratelli Musulmani, che insieme alla corrente salafita ora controllano almeno due terzi del parlamento egiziano. Hamas è ritornato nel suo bacino naturale, che è quello dei Fratelli Musulmani, e con questo passo ha voluto porre rimedio a un “errore”, rispondendo alle pressioni dell’organizzazione madre – la Fratellanza Musulmana – le quali erano cresciute nei mesi successivi allo scoppio delle rivoluzioni della Primavera Araba.

È ancora presto per dare giudizi sui futuri orientamenti di Hamas, ma il fatto che Khaled Meshaal abbia parlato di abbracciare la resistenza pacifica e la disobbedienza civile lascia presagire molte cose a questo riguardo, a cui bisogna aggiungere ciò che dicono osservatori vicini al movimento a proposito della profonda armonia tra Hamas e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, la quale è emersa chiaramente nelle scorse settimane portando alla firma dell’accordo di Doha.


mondo

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Per la prima volta il reclutamento dei minori è stato giudicato un crimine di guerra da un organismo internazionale

Il verdetto Lubanga La Corte penale internazionale dell’Aja ha condannato il capo della milizia armata congolese per aver arruolato migliaia di bambini soldato nelle sue azioni militari. Rischia l’ergastolo di Luisa Arezzo ualcuno comincia a pagare. Thomas Lubanga Dyilo, signore della guerra congolese che fra il 1998 ed il 2003 ha provocato almeno 60mila morti, è un uomo dai molti primati. Nel suo paese è stato il primo ad utilizzare l’arma dei bambini soldato in maniera scientifica durante un conflitto armato (ironia della sorte, fu arrestato il 19 marzo, festa del papà), è stato il primo ad essere arrestato dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) istituita nel 2002 a Roma ed è stato il primo ad essere giudicato dal suo tribunale. Nel 2008, quando

Q

i suoi avvocati ricorreranno in appello. Lubanga è stato ritenuto colpevole di aver reclutato ragazzini sotto i 15 anni di età e di averli trasformati in soldati. «Le prove dimostrano che i bambini erano impiegati in un duro allenamento e sottomessi a severe punizioni», ha detto il giudice Adrian Fulford dell’Aia. Alla lettura della sentenza (che ha raccolto l’unanimità dei consensi) era presente anche l’attrice americana Angelina Jolie, che ha finziato una campagna di informazione pubblica nella Repubblica Democratica del Congo a proposito del processo.

Il “comandante” aveva imposto a ogni famiglia di contribuire al conflitto donando denaro, preziosi, mucche, capre e almeno un figlio da addestrare al combattimento il processo cominciò (doveva durare qualche mese, ci sono voluti degli anni prima di arrivare alla sentenza), il procuratore capo della Cpi, l’argentino Luis Moreno Ocampo, aveva detto: «Lubanga è il numero uno in una serie di crimini di massa. Di massa per autori e per vittime. Credo si debba andare ai massimi della pena, o vicino».

Adesso rischia minimo trent’anni o l’ergastolo, ma ci vorrà del tempo, visto che senza meno

«Spero che questo sia di conforto per le vittime», ha detto la Jolie. «Di sicuro è un chiaro messaggio contro l’utilizzo dei bambini soldato». «Addestrava i bambini a uccidere altri bambini», aveva tuonato mesi prima il procuratore Ekkehard Withopf nella requisitoria.

Leader dell’Unione patriottica congolese (Upc), un movimento politico creato nel 2000, basato sull’etnia hema, Lubanga (che adesso rimarrà in carcere al centro di detenzione del tribunale nel vicino sobborgo balneare di Scheveningen) si era alleato prima con gli ugandesi e poi con i ruandesi. In precedenza era stato comandante militare del RdcMl (Rassemblement Démocratique Congolese – Mouvement de Libération) il gruppo di ribelli, famoso per le sue atrocità, creato dall’Uganda per combattere il governo di Laurent Kabila. L’Upc è accusato di aver massacrato tra il 2002 e il 2003 migliaia di civili di etnia lendu nell’Ituri, provincia nord-orientale del Congo, e in particolare nel capoluogo Bunia. Si racconta che in una sola notte siano state trucidate 800 persone nei villaggi minerari e in particolare a Mongbwalu. L’Ituri è ricchissimo di materie prime per il cui controllo, dalla fine degli anni Novanta, si sono scontrati gruppi ribelli e

Nata nel 1998 con lo Statuto di Roma, opera dal 2002

Come funziona la Cpi La Corte penale internazionale è nata nel 1998 con lo Statuto di Roma, ha sede all’Aja ed è entrata in vigore il primo luglio del 2002 come strumento per la difesa dei diritti umani e la lotta ai crimini di guerra e contro l’umanità. È un tribunale permanente, varato peraltro fra molte polemiche sul principio stesso del perseguimento d’ufficio di persone che molto spesso sono, o sono stati, capi di Stato. Un principio, per esempio, non accettato dagli Stati Uniti che non sono fra i 116 paesi che hanno ratificato la Corte. Compito della Cpi è quello di portare davanti alla giustizia chi si sia macchiato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, dovunque siano stati compiuti nel mondo e nel caso in cui la giustizia nazionale di quel paese non possa o non voglia intervenire. La Cpi non ha giurisdizione retroattiva, ovvero può perseguire solo i crimini compiuti dopo il primo luglio del 2002. Può inoltre perseguire solo i casi avvenuti sul territorio di un paese che abbia ratificato lo Statuto di Roma, o i crimini commessi da un cittadino di un paese ratificatore, o, in ultima analisi, i casi che le vengono sottoposti dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A sinistra, Thomas Lubanga Dyilo, comandante della milizia armata congolese. A destra, Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Cpi (Corte Penale Internazionale). In apertura, un bambino soldato


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rie prime, soprattutto diamanti, oro e coltan, che prendevano la via di Ruanda, Uganda e Burundi. Ma non è che con l’arresto di Lubanga le cose siamo poi così migliorate. Anzi, a dirla tutta finora gli sforzi delle autorità congolesi per mettere sotto controllo la situazione sono stati vani: basti pensare che secondo dei dati raccolti nel 2008 il 90% dell’oro era ancora estratto e commercializzato illegalmente. Solo cinque giorni fa Invisible Children, Ong americana, aveva denunciato su internet con un video di 30 minuti, Kony 2012, la situazione dei bambini soldato in Uganda dove da 20 anni i miliziani dell’Esercito di Resistenza del Signore (comandato da Joseph Kony, ricercato dal Cpi per crimini contro l’umanità) compiono ogni genere di atrocità, trasformando i bambini in soldati e le bambine in schiave sessuali. Il film, visto già 20 milioni di volte secondo il procuratore Ocampo «ha sensibilizzato il mondo».

La piaga dei child soldiers, benché conosciuta, è ancora lungi dall’essere arginata. E anche combattuta. Troppi i governi consensienti a tale pratica, dall’Africa al Medioriente e all’Asia. Arruolati dagli eserciti come veri soldati, oppure costretti ad andare in battaglia al fianco di guerriglieri e bande paramilitari che si infischiano milizie di sbandati. Ma è diventato famoso solo per le barbarie che vi sono state commesse. Le organizzazioni non governative che all’epoca avevano progetti in Ituri, più volte avevano denunciato e condannato la pratica criminale di Lubanga di reclutare bambini soldato. Radio Okapi, l’emittente dell’Onu che ancora oggi trasmette in tutto il Congo, aveva raccontato che nei territori che ricadevano sotto il suo controllo Lubanga aveva imposto a ogni famiglia di contribuire alla guerra donando denaro, oggetti preziosi, mucche, capre e anche un bambino da addestrare al combattimento. Effettivamente, come è emerso al processo, nei ranghi dell’Upc erano inquadrati ragazzini da 10 ai 16 anni, ciascuno dei quali brandiva un kalashnikov. Giovanissimi e fedelissimi che giocavano alla guerra, ma con armi vere. Più volte interrogato, Lubanga ha sempre negato di aver costretto i minori di 15 anni (è questa la soglia stabilita dal Cpi per definire il reato) a uccidere membri dell’etnia lendu du-

rante la guerra. Ma i pubblici ministeri della Corte hanno portato prove e testimonianze inconfutabili sulle pratiche adottate dal signore della guerra oggi cinquantunenne.

Alcuni ragazzini servivano per proteggere le miniere di oro e diamanti. Altri dovevano solo uccidere. Venivano drogati e sottoposti ad atrocità orribili, come torture e violenze sessuali

Tra queste, quella tremenda di nove testimoni sopravvissuti, che hanno raccontato di non aver praticamente avuto scelta. I desiderata del comandante erano chiari: o uccidevano i rivali o sarebbero stati giustiziati sul posto. Sorte toccata a molti bambini. L’Ituri, dove le milizie di Lubanga spadroneggiavano, è uno dei luoghi con le miniere d’oro più ricche del mondo. Alcuni bambini servivano per proteggere quelle ed erano stati catturati per strada o consegnati direttamente dalle famiglie,

alle quali veniva detto che avrebbero difeso la comunità. E invece venivano sottoposti ad atrocità orribili, come omicidi, torture e violenze sessuali. Per Bukeni Waruzi, coordinatore in Africa centro-orientale del gruppo per i diritti umani Witness, oltre 30 mila bambini hanno partecipato al conflitto, molti di loro sotto l’effetto delle droghe, somministrate proprio per creare una dipendenza assoluta dal capo. Nell’Ituri, ancora oggi, tranne le armi manca tutto: cibo, acqua, medicine, pietà. In compenso, e non è un caso, nelle zone dove Lubanga combatteva la ricchezza abbondava e con la guerra continuavano a prosperare gli affari legati alle mate-

della Convenzione di Ginevra (che considera il coinvolgimento di minorenni un crimine di guerra) hanno un’età compresa fra gli 8 e i 16 anni. Un orrore al quale non si riesce a mettere fine: secondo le stime dell’Unicef oggi sono almeno 300 mila i bambini soldato obbligati a uccidere, torturare e farsi a loro volta uccidere.

I capi militari sono felici di averli nei loro ranghi, perché nel giro di poco tempo si abbrutiscono e diventano docili, fedeli, pronti a eseguire qualsiasi ordine. Gli affidano missioni rischiose, in prima linea, come nel 2006 nel Ciad, dove schiere di bambini furono piazzati attorno alla capitale, una prima barriera destinata a fronteggiare gli assalti dei ribelli. Il film Blood Diamond, con Leonardo Di Caprio, raccontò la guerra in Sierra Leone in cui hanno combattuto migliaia di bambini. E nel film il piccolo protagnista, Dia, subisce un lavaggio del cervello e diventa uno spietato killer. Ieri, per la prima volta, uno di quei warlords senza pietà è stato condannato. È una goccia in pieno deserto, è vero. Ma capace di far germogliare pascoli.

e di cronach

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


cultura

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Le voci dei libri raccolte dall’italianista Ezio Raimondi a partire dai suoi “accumuli” domestici

Elogio della biblioteca Ecco perché i volumi sono un organismo vivente che offre occasioni d’incontro e d’amicizia di Giancristiano Desiderio on me ne voglia Ezio Raimondi se dico che le cose più belle del suo libro Le voci dei libri (Il Mulino) sono le fotografie dei libri, gli scaffali pieni zeppi di libri volumi testi opuscoli fogli, la scrivania sepolta viva sotto i libri, il pavimento che quasi non si vede più tanto è ricoperto di pile, file e colline di libri che non vanno più in nessun altro posto, e poi lui, Raimondi, che è perfettamente a suo agio, quasi perduto nel “gran mare dell’essere” dei suoi libri eppure del tutto a casa sua, come se egli stesso fosse diventato un libro, una copertina, un sedice-

N

qualche esemplare raro, qualche volta, è entrato in casa mia, è stato per caso e il dato della sua preziosità era, comunque sia, d’ordine secondario». Quella fotografia centrale che ritrae una libreria che sembra girare intorno intorno alla stanza mostra libri che non sono ordinati secondo autori, argomenti, editori. Nessun ordine sembra possibile. L’ordine è nella testa di Raimondi o, ancor meglio, nella sua cultura. I testi di ogni ordine e grado sono ammassati, quasi gli uni negli altri, non seguono alcun ordine, neanche un banale ordine logistico del

Oralità e scrittura si corrispondono nella lettura che nell’antichità non era individuale ma di gruppo. Ma è ancora così, perché chiunque sia disposto a leggere si mette in ascolto simo. Non è vero, naturalmente: non è vero che le fotografie sono le cose migliori del suo ultimo libro. Si dà il caso, però, che Ezio Raimondi, il maggior italianista vivente, abbia scritto un libro sui libri che ogni letterato aspira a scrivere e quelle fotografie poste al centro del volumetto ne rappresentano un riassunto in immagini. Ma la verità, lo ammetto, è un’altra: l’invidia.

Anche io ho la mia bella libreria, anzi, la mia bella biblioteca: alta e lunga e ordinata. E proprio qui è il punto: il disordine dei libri di Ezio Raimondi è inimitabile, suggestivo, accattivante. Raimondi non è un collezionista di libri e nessun uomo di cultura, nel senso più serio, severo e ironico della definizione, lo è. Anche un buon bibliotecario non è un collezionista e una biblioteca non è un deposito: «Non sono stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee - e allora era un libro raffinato - ma non ho mai avuto il culto delle prime edizioni; se

tipo i testi grandi con i grandi e i piccoli con i piccoli; neanche quello comunissimo che li vuole tutti allineati uno dietro l’altro. Niente. I libri hanno tutti un equilibrio precario, incerto. Ogni tanto senz’altro qualcuno cadrà. Senz’altro ci sarà uno smottamento, una frana, uno slittamento a valle. È inevitabile perché negli scaffali oltre alla fila classica dei libri inseriti uno dietro l’altro e visibili dal dorso - anche se ogni tanto la fila è interrotta da una fila che sale in verticale - ci sono libri che sono inseriti tra i testi e la mensola dello scaffale superiore, sui testi

L’italianista Ezio Raimondi e la copertina del suo libro edito da Il Mulino. Nelle altre immagini, nature morte con libri. Sotto, la biblioteca di Alessandria nel film “Agorà” che sporgono ce ne sono altri appoggiati sopra, mentre dai piedi della libreria salgono altre pile di libri che si appoggiano alla libreria come a una parete. I libri non sono testi di antiquariato e, fatta qualche eccezione, si vede che sono tutti pubblicati nel Novecento e che sono stati usati, certo letti, ma ancor più utilizzati, sfogliati, considerati, consultati.

Perché un “libridinoso” come Ezio Raimondi, secondo la definizione che gli diede una sua impertinente allieva, non ha bisogno di leggere tutti i suoi libri per sapere di cosa trattano e parlano. Lo disse una volta un altro “libridinoso” come Umberto Eco: chi ha una biblioteca conosce tutti i libri anche se non li ha letti tutti perché i libri li ha sistemati, anche nel gran disordine, li ha

consultati, gli sono passati tra le mani e dunque li conosce. Proprio come si conosce qualcuno. Quel che dice Raimondi nel suo libro, del quale ho letto pagine qua e là ma non sono riuscito a leggerlo tutto perché attratto continuamente dalle foto e dal volto librario di Raimondi, è proprio questo: il libro è una creatura che ci parla e leggere è un’occasione d’incontro e di amicizia. Il titolo del libro di Raimondi mi spinge a questa riflessione: i libri degli Antichi erano fatti proprio di voci. Soprattutto il testo di filosofia - i dialoghi di Platone ma anche gli scritti di Aristotele - non era fatto per essere letto ma per essere ascoltato. La lettura

non era individuale ma di gruppo. Uno leggeva e tutti gli altri ascoltavano. Il testo era un pretesto per invitare a leggere qualcosa che c’era prima del libro: l’anima. I dialoghi di Platone presuppongono l’Accademia e gli scritti di Aristotele il Liceo. Il libro di filosofia antica è il risultato dell’incontro tra oralità e scrittura. Ma questo rapporto dialettico non vale anche per tutti gli altri libri? Ogni libro si rivolge a qualcuno che chiamiamo lettore che se legge - amava dire Gadamer - vuol dire che è disposto a farsi dire qualcosa dal libro ossia ad ascoltarlo. La lettura è un ascolto anche se i libri non si leggono più agli altri ma a se stessi. La scrittura e l’oralità si corrispondono e hanno bisogno l’una dell’altra: ogni libro viene dal pensiero vivente e va verso il pensiero vivente. Il vivente è destinato a morire e il pensiero a sopravvivere, anche come “lettera morta”, fino a quando un altro pensiero vivente non lo farà nuovamente rinascere. Ecco perché quella montagna incantata di libri di Raimondi è piena di vita, di voci, di creature, di amicizie che aspettano altre vite amiche per ricominciare a raccontare le loro storie e le loro verità, anche i loro errori.


cultura

Il filosofo Leibniz, gran fondatore di biblioteche, pensava o aveva piacere a immaginare Dio come un bibliotecario. Anzi, come il bibliotecario per eccellenza, quello che nella sua testa aveva il libro dei libri che, unico al mondo e al di là del mondo, raccontava la storia universale della verità. Ma può esistere un libro del genere? Se il Libro della Verità esistesse - e secondo il filosofo italiano Sergio Givone fu Hegel a scriverlo con la Fenomenologia dello spirito - tutti gli altri libri altro non sarebbero che libri che racconterebbero la storia di errori (anche se, in verità, l’unica titolata a raccontare la storia degli errori è la verità). Il libro dei libri non c’è perché la verità è mobile e si configura come rapporto tra scrittura e parola. Qui risiede il fascino della biblioteca, che sia o no formata dal bibliotecario di Dio: «Ogni lettura importante reca con sé i segni di una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza leggo sulla quarta di copertina del libro di Raimondi - come quando un canto si innalza d’improvviso e trova la sua armonia. Il libro allora diventa una creatura, che hai sempre a fianco e che porta nella tua vita i suoi affetti, le sue ragioni a interpellare i tuoi affetti, le tue ragioni». Bello e vero. Ma quel che dice Raimondi nel capito-

In Italia, dichiara la bibliotecaria Antonella Agnoli, servirebbero meno festival e più “public library”, una forma di welfare culturale finalmente rivolto alla popolazione anziché agli addetti ai lavori

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lo ottavo del volumetto è ancora più bello e vero. Ci dà l’essenza della biblioteca se, anche in tal caso, esistesse una cosa di tal fatta. «La biblioteca è sempre stata, per me, il luogo dove si verifica empiricamente il rapporto fecondo tra ordine e disordine - dice con grande semplicità e verità l’italianista - dove si registrano le ragioni, le speranze, le delusioni del lettore-raccoglitore, che resta sempre legato alla vita e aspetta dalle occasioni di ricavare le verità che contano. Nel caos vivente della biblioteca, che ricorda un poco il “disordine mentale” di cui parla Hayek, quando descrive la condizione nella quale ha prodotto le sue cose migliori, si trovano in certi momenti delle regole, delle simmetrie, delle rispondenze; allora il disordine lentamente si anima, come una specie di spazio che dall’oscurità passa alla prima luce e dal chiarore dell’alba al giorno pieno». Posso capire quel che dice Raimondi a proposito della biblioteca che esorbita dai suoi luoghi e invade il resto della casa perché più volte sono stato minacciato con questa frase: «O noi o i libri». Dice descrivendo una situazione molto comune in una vita moderna fatta di molti libri e di moderni appartamenti: «In casa mia questa situazione ha dato luogo a una battaglia giurisdizionale con mia moglie, che non ha mai avuto fine. Come per ogni aspetto del nostro appartamento, avrebbe desiderato che anche i libri fossero “in ordine”. Non perdonò mai a padre Pozzi di aver detto una

volta, affacciandosi sulla soglia del mio studio, “Che bella biblioteca!”. Ma era proprio il cumulo dei volumi affastellati, l’immagine quasi di un organismo vivente che si presentava allo sguardo partecipe dell’amico studioso a sedurlo, del tutto indifferente al fatto che i libri fossero o meno a posto». È proprio così: una biblioteca è veramente tale se è un organismo vivente o, se volete, un laboratorio, un’officina, uno strumento di lavoro, di certo non un deposito. La bibliotecaria Antonella Agnoli ha pubblicato un libro sotto forma di lettera intitolato Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica). L’idea della bibliotecaria che ha diretto la biblioteca di Spinea (Venezia) e concepito la biblioteca San Giovanni di Pesaro è vera: meno festival e più biblioteche. Lo ha anche detto a Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera: «Sono scettica sui festival perché non sempre sono vere occasioni di dibattito o partecipazione. Certo, ci sono le eccezioni ma se ci mettiamo a contare non arriviamo a dieci, poi ci sono gli altri 1790 che servono solo all’autoesibizione delle autorità locali. Supponiamo, per un momento, che non sia così, che siano tutti ben organizzati e di alto livello. Ebbene, continuo a essere perplessa perché penso attirino sempre lo stesso pubblico, gli stessi intellettuali».

La “biblioteca vivente” non è solo un’istituzione culturale ma uno spazio informativo, un’occasione di incontro, un’opportunità di lavoro e di approfondimento di esperienze, conoscenze, problemi pratici e teorici. È questo il modello delle public library che raggiungono più lettori, anche quelli che non frequentano i festival culturali e che non hanno i soldini sufficienti da spendere in libri: «Finanziare un festival è una forma di welfare culturale che tocca solo una parte della popolazione dice la bibliotecaria - forse quella che ne ha meno bisogno. Io voglio costruire servizi per i pensionati, le casalinghe, gli immigrati, i giovani che non hanno i 10 euro per comprarsi un libro, anzi nemmeno sanno che esista perché in mezza Italia, oltre alle biblioteche, mancano anche le librerie». È questo uno dei motivi che mi hanno spinto qualche anno fa a fondare una biblioteca pubblica nel centro storico di Sant’Agata dei Goti e a concepirla come un laboratorio di studio e ricerca per le giovani generazioni di santagatesi, studiosi, viaggiatori. Oggi la Biblioteca Michele Melenzio - intitolata alla memoria di mio nonno che fu un colto educatore del popolo, come lo definì il suo amico Salvatore Valitutti - è proprio una “biblioteca vivente”.


ULTIMAPAGINA Tragico incidente in Svizzera: un pullman si schianta contro un muro, morte due scolaresche di ritorno da una gita

Il Belgio piange ventidue di Gaia Miani on può che essere definita una tragedia atroce quella che si è consumata la scorsa notte nei pressi di Sierre, cantone Vallese della Svizzera. Perché a morire in un drammatico incidente stradale che ha letteralmente disintegrato un pullman sono stati, oltre a sei adulti, ventidue dodicenni delle Fiandre che stavano facendo ritorno in Belgio, nelle città di Lommel e di Heverlee, dopo l’annuale settimana bianca organizzata dalle loro scuole nella Val d’Anniviers. Le cause del drammatico schianto sono ancora tutte da chiarire, quel che è certo è che il veicolo ha urtato violentemente la parete di una galleria dopo aver invaso la corsia di sorpasso dell’autostrada che stava percorrendo.

N

Questi i fatti: intorno alle 21 e 15, tra Sion ovest e Sion est, il pullman ha improvvisamente sterzato deviando dalla propria traiettoria, centrando in pieno e a grande velocità il muro del tunnel all’estremità di una piazzola di sosta. Pochi attimi di una manovra finita male, 28 morti sul colpo delle 52 persone a bordo più altri 24 bambini feriti, atre dei quali in coma. Al momento dell’incidente, ha riferito il ministro degli Esteri Didier Reynders, non transitavano altri veicoli (della comitiva facevano parte anche altri due pullman con a bordo circa 80 bambini che non sono rimasti coinvolti nell’incidente e hanno proseguito il viaggio verso il Belgio; «non hanno visto quanto accaduto», ha detto il presidente dell’associazione fiamminga delle classi Wilfred Van Herbruggen). La responsabilità della tragedia sembra dunque tutta del pullman. Secondo quanto diffuso da una nota del ministero dei Trasporti a Bruxelles, il mezzo con la scolaresca belga era partito «da circa un’ora» quando ha avuto luogo l’incidente, cosa che escluderebbe così l’ipotesi del colpo di sonno degli autisti, anch’essi morti sul

BAMBINI già messa al corrente di essere a disposizione per offrire assistenza. In quanto mamma ha concluso il ministro visibilmente commossa - non ho parole per esprimere la mia emozione di fronte a una tragedia simile».

Durante il violentissimo impatto, hanno perso la vita anche sei adulti. Feriti altri 24 dodicenni, alcuni dei quali in modo grave.Ancora da accertare le cause della tragedia colpo. Il veicolo poi «era in regola in quanto aveva superato la revisione a ottobre 2011; avrebbe dovuto effettuare un nuovo controllo tecnico verso la metà aprile». Stanti così le cose, sarà nient’affatto facile stabilire la precisa dinamica della tragedia. Intanto, i feriti sono stati immediatamente ricoverati in quattro diversi ospedali vallesani: due sono stati trasportati all’ospedale universitario di Losanna (Chuv) e uno all’Inselspital di Berna. In un primo momento era circolata la notizia, poi smentita, che tra i passeggeri del pullman ci sarebbero stati anche nove bambini olandesi che frequentavano la scuola a Lommel. Come che sia, «si tratta di un dramma inimmaginabile», ha commentato il primo ministro olandese Mark Rutte, porgendo le proprie condoglianze. E mentre i soccorritori si mettevano al lavoro per estrare le vittime dai rottami del veicolo (sono stati messi a disposizione due aerei del-

la difesa belga da 82 posti, 12 ambulanze, più di 200 volontari e otto elicotteri coinvolti nelle operazioni), i genitori dei bambini coinvolti nella tragedia lasciavano il Belgio in direzione cantone Vallese, dove ad attenderli c’era un’unità psicologica di crisi e il re del Belgio Alberto II, «profondamente scioccato» per quanto avvenuto.

A partire per la Svizzera, anche una squadra dell’unità per l’identificazione delle vittime del ministero dell’Interno belga, «Tutto il governo si è mobilitato per fornire tutto l’aiuto necessario - ha annunciato la responsabile del dicastero Joelle Milquet - e in questo contesto la polizia federale belga è in contatto permanente con quella svizzera e la ha

«Sembrava uno scenario di guerra, è una tragedia senza precedenti», ha a sua volta commentato il comandante locale della polizia, Christian Varone. «È un giorno tragico per tutto il Belgio», è invece stata la primissima dichiarazione del premier belga, Elio Di Rupo. «Questo dramma sconvolgerà tutto il Paese» gli ha fatto eco l’ambasciatore del Belgio in Svizzera, Jan Luykx, per il quale «il momento più difficile è stato l’incontro con le famiglie» dei bambini. Per quanto riguarda l’indagine sulla tragedia, il procuratore del canton Vallese, Olivier Elsig, ha assicurato che l’inchiesta per far luce sul drammatico incidente «sarà condotta con trasparenza assoluta». L’autobus era di nuova generazione e dotato di cinture di sicurezza, riporta sul suo sito la Radio televisione svizzera. Il limite di velocità all’interno della galleria è fissato a 100 km/h.Tra le priorità da chiarire, proprio la velocità del pullman al momento dello schianto.


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