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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 24 MARZO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il segretario democrat: «In Aula proporremo delle modifiche. Non accettiamo solo la monetizzazione»
Il patto Napolitano-Monti Il Colle: non ci saranno licenziamenti facili. Il premier: la parola alle Camere Il Quirinale rassicura sulle garanzie contro gli abusi e il governo vara un «disegno di legge salvo intese». Ma la riforma non è solo l’articolo 18: multe contro il precariato e “congedo paternità” In aula senza “riflessi condizionati”
Bloccati beni e visto
Pd e Pdl, non fate vincere Pavlov
L’Europa contro Mrs.Assad
di Giancrstiano Desiderio
di Luisa Arezzo
l Pd è il partito di Amleto E il Pdl è il partito di suo zio Claudio. Essere o non essere è il loro eterno dilemma senza soluzione. Sono indecisi a tutto, ma con un riflesso pavloviano che induce il Pd ad accodarsi alla Cgil, agli scioperi e alla piazza e il Pdl a cedere ai falchi e alla loro voglia di avventarsi sulle difficoltà dell’avversario. Ma a cosa servono dei partito che “funzionano”in questo modo? Che flirtano continuamente con i ”duri e puri”? Non saper decidere crea sempre dei problemi ma per un partito politico che vuole essere forza di governo l’indecisione è una sorta di peccato mortale. Se poi - è il caso del Pd - ci si autodefinisce “riformista”ma si è instabili e insicuri sui tentativi di riformare il lavoro fino al punto di smentire se stesso e temere di avere idee diverse dalla Cgil, allora, significa che si è sbagliato mestiere. a pagina 3
a signora Assad non è gradita in Europa. Non avrà visti di ingresso e i suoi beni sono congelita. L’Unione stringe il laccio delle sanzioni alla Siria.
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Il metodo Monti cambia l’Italia
Lettera aperta a Confindustria
Il Parlamento e la concertazione: una grande novità
Caro Squinzi, ora governi con Bombassei
di Francesco D’Onofrio
di Enrico Cisnetto
a questione della nuova disciplina legislativa che concerne nell’insieme quel che siamo solito chiamare il “mercato del lavoro”ha posto in evidenza una questione di metodo: il rapporto tra concertazione e Parlamento.
aro Squinzi, ricorda la “vittoria” di Prodi alle elezioni del 2006? Prevalse su Berlusconi per una manciata di voti, e commise l’errore di credere che fosse un successo pieno. Risultato? Durò due anni e poi cadde rumorosamente.
Il segreto degli arabi d’Israele
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di Daniel Pipes
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Un piano contro l’identità
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Inizia il viaggio in America Latina, lunedì il Pontefice a Cuba
Il Papa sfida Fidel Castro
li arabi, che costituiscono un quinto della popolazione di Israele, possono essere dei cittadini fedeli allo Stato ebraico? Difficile, e vi spiego perché.
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«Il marxismo è superato, cercate nuove strade» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Il commento di Alberto Monticone
n America Latina, ma non solo, «si vede in non pochi cattolici una certa schizofrenia tra morale individuale e pubblica». Nel volo che lo stava portando in Messico, Benedetto XVI è tornato sulla questione della coerenza tra pubblico e privato dei cattodi Francesco Lo Dico lici. Parlando dell’attualità della teologia l cattolicesimo si candida a terza via verso la della liberazione, il Papa ha ribadito che «la quale può incamminarsi il mondo nel futuro? Chiesa deve sempre chiedere se si fa a suffi«Quella di Benedetto XVI è anzitutto una terza cienza per la giustizia sociale. La Chiesa non è un potere politico, un partito, ma una via etica, che di riflesso, essendo portatrice di istanrealtà morale. Il suo primo pensiero deve es- ze morali, diventa anche politica», spiega a liberal Alberto Monticone, storico della Chiesa. sere educare le coscienze».
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«Cadute le ideologie, serve una terza via etica»
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XVII •
NUMERO
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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Il voltafaccia di Kim
Pyongyang torna a sfidare il mondo di John R. Bolton l 26-27 marzo, i capi di stato e i ministri degli esteri di oltre 50 paesi si incontreranno a Seul, in Corea del Sud, per affrontare il tema della minaccia nucleare.
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Napolitano frena le polemiche: «Non credo che stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili»
La parola al Parlamento Varato un disegno di legge «salvo intese». Tra le novità: maggiori strumenti contro il precariato e “congedo paternità” obbligatorio di Francesco Pacifico
ROMA. «Non credo che stiamo per aprire le porte a una valanga di licenziamenti facili, sulla base della modifica dell’articolo 18, anche perché bisogna sapere a cosa si riferisce l’articolo 18». Non sarà per decreto legge che l’Italia riformerà il suo mercato del lavoro. Così Giorgio Napolitano, dopo aver frenato l’accelerata chiesta dal premier Monti, si prende l’onere di fare da cerniera tra partiti, i sindacati e la piazza, per blindare la riforma che il Consiglio di ministri ha varato attraverso una legge delega, con la postilla «salvo intese». Cioè in attesa delle modifiche che potrebbe prendere il Parlamento e in un momento cruciale per l’Italia che – come ha ricordato ieri Confcommercio – vede le aziende pagare ogni anno 376 miliardi per il costo del lavoro. ARTICOLO 18. Nonostante le pressioni del Pd e dei sindacati il governo non ripristina l’obbligo di reintegro anche nel caso di licenziamento per motivi economici. «Il datore di lavoro può essere condannato solo al pagamento di un’indennità», si legge nella delega, con la quale, oltre a mantenere il vecchio impianto soltanto per i licenziamenti discriminatori, molto spazio è dedicato ai paletti «riservati all’intento di evitare abusi» e le misure contro «gli
Dopo un interim di quattro mesi Vincenzo La Via succede a Grilli come direttore generale
E Monti pesca alla World bank l’uomo forte del Tesoro ROMA. Ci sono voluti più di quattro mesi, innumerevoli polemiche, ma da ieri il Tesoro ha di nuovo un direttore generale: Vincenzo La Via. Lo ha deciso il consiglio dei ministri di ieri, su proposta del ministro dell’Economia Mario Monti. La Via proviene dalla Banca Mondiale, dove per la prima volta ha ricoperto il ruolo di direttore finanziario dal 2005. In qualità di membro del Senior Management Team del Gruppo Banca Mondiale, ha supervisionato la gestione delle vice presidenze responsabili per le questioni di Corporate Finance & Risk Management, Tesoreria, Controllo di Gestione, Finanza agevolata e partnership globali, Servizi Generali, nonché le operazioni sotto la diretta responsabilità del Chief Risk Officer della Banca Mondiale. La Via ha anche presieduto la commissione Finanze e il Comitato di gestione delle pensioni della Banca Mondiale.
Nel robusto curriculum di La Via si legge che è stato responsabile per lo sviluppo e l’implementazione efficace delle politiche e delle azioni tese a garantire la solidità finanziaria, la disciplina di bilancio e la sostenibilità finanziaria a lungo termine della Banca Mondiale. In particolare, ha gestito le funzioni di reporting finanziario, contabilità, pianificazione strategica e di bilancio, rischio di credito e mercato, corporate finance; gestione della li-
quidità e del patrimonio e sviluppo di nuovi prodotti. Nel corso del suo mandato ha anche rappresentato la Banca Mondiale al Financial Stability Board. Il suo operato è stato fondamentale per gettare le basi che hanno permesso di lanciare e concludere con successo il primo aumento importante di capitale della Banca Mondiale in oltre venti anni. Nel 2007, La Via ha inoltre presieduto il processo di ricostituzione del fondo della Banca Mondiale destinato ai paesi più poveri, ovvero l’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (Ida)
In precedenza Vincenzo La Via, ha ricoperto il ruolo di Chief Financial Officer per Banca Intesa, mentre tra il 1994 e il 2000 ha prestato servizio presso il ministero del Tesoro italiano. In qualità di Direttore generale del Tesoro per il Debito Pubblico, La Via ha cambiato la struttura del debito italiano, aumentandone la resistenza agli shock generati dalla fluttuazione dei tassi d’interesse e riducendo i costi di servizio del debito. In qualità di nuovo direttore generale del Tesoro, La Via sarà il capo del Dipartimento che, all’interno del ministero dell’Economia e delle Finanze, è responsabile di processi chiave a supporto dell’elaborazione e dell’attuazione delle scelte di politica economica e finanziaria del governo, sia in ambito nazionale che internazionale.
usi elusivi degli obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali». Per evitare la discrezionalità di questi anni «si introduce una precisa delimitazione dell’entità dell’indennità risarcitoria eventualmente dovuta e si eliminano alcuni costi indiretti dell’eventuale condanna». Garantito anche il rito abbreviato per i processi giuslavoristici. Non mancheranno premialità per quelle aziende che «instaurano rapporti di lavoro più stabili». AMMORTIZZATORI SOCIALI. L’obiettivo del provvedimento è «favorire una distribuzione più equa delle tutele dell’impiego». Su questo versante la maggiore novità è l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego): sarà pienamente operativa dal 2017 e, di fatto, sostituirà indennità di disoccupazione, mobilità e parte della cassa integrazione straordinaria e quella in deroga. Uno strumento destinato anche «a coloro che sono da poco entrati nel mercato del lavoro e alle tipologie d’impiego attualmente escluse».Tra questi gli apprendisti e contrattisti che non hanno maturato i tempi necessari per attivare lo strumento. Sul versante della Cig confermata quella ordinaria e mantenuta fino al 2017 anche l’intervento in deroga, che frenato la disoccupazione negli anni della crisi. Sul versante delle politiche attive – e nonostante la scarsità dei a di-
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Pd e Pdl, non fate vincere Pavlov La sfida tra i due partiti rischia di riportarci indietro. Bloccando ancora una volta il Paese di Giancristiano Desiderio l Pd è il partito di Amleto E il Pdl è il partito di suo zio Claudio. Essere o non essere è il loro eterno dilemma senza soluzione. Sono indecisi a tutto, ma con un riflesso pavloviano che induce il Pd ad accodarsi alla Cgil, agli scioperi e alla piazza e il Pdl a cedere ai falchi e alla loro voglia di avventarsi sulle difficoltà dell’avversario. Ma a cosa servono dei partito che “funzionano” in questo modo? Che flirtano continuamente con i ”duri e puri”? Non saper decidere crea sempre dei problemi ma per un partito politico che vuole essere forza di governo l’indecisione è una sorta di peccato mortale. Se poi - è il caso del Pd - ci si autodefinisce “riformista” ma si è instabili e insicuri sempre e comunque sui tentativi di riformare il lavoro fino al punto di smentire se stesso e temere di avere e manifestare idee diverse dalla Cgil, allora, significa che si è sbagliato mestiere. Tanto valeva, piuttosto che dar vita ad un partito politico, iscriversi direttamente al sindacato e farla finita con le aspirazioni di governare con responsabilità un Paese moderno come l’Italia.
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quasi un’autobiografia. Confuso e pericoloso, infatti, è quel partito che prima dice una cosa e poi se la rimangia; confuso e pericoloso è quel partito che prima si aggrappa all’Europa come ad un’ancora di salvezza e poi la molla; confuso e pericoloso è quel partito che prima dà l’appoggio al governo e poi si agita e mobilita per appoggiare la piazza. Questo partito così pericolosamente confuso è il Pd che non ha mai scelto, in quasi venti anni di Seconda repubblica, non ha mai scelto in modo chiaro tra le sue due anime che Michele Salvati sul Corriere della Sera riassumeva con i nomi di Damiano e Ichino. E proprio Pietro Ichino giovedì, ancora in un articolo sul quotidiano di via Solferino, diceva (e lo cito con formula diretta perché esem-
ti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito». Capito? Un poeta che si fece economista, Ezra Pound, diceva una cosa del genere: se un uomo non è disposto a battersi per la sua idea due sono le cose: o non vale niente lui e non vale niente l’idea. Pound era un po’ estremo nelle sue cose ma il senso della sua frase colpisce nel segno soprattutto se si interpreta in chiave politica. Il Pd si trincera dietro la legge e le analisi economiche ma il problema che ha dinanzi non è né legislativo né economico: è un problema di credibilità politica.
Ma, per così dire dall’altra parte della barricata, anche il Pdl rischia di cadere nello stesso tranello. E di far correre al Paese lo stesso rischio dell’immbilismo. I tuoni e i fulmini lanciati da Alfano contro il travaglio del Pd a propria volta possono rimandarci indietro. Per esempio portanto a un irrigidimento delle posizioni della sinistra. Siamo sulle soglie del “vecchio” (ma quanto superato davvero?) bipolarismo da guerra. Ossia quello che per oltre quindici anni ha ingessato l’Italia. Non a caso proprio Napolitano ha invitato i partiti a «non focalizzarsi sull’articolo 18» e riflettere su tutte le novità contenute nella riforma. D’altro canto, sulla norma proposta dal governo - è bene sottolineare il verbo: proposta - il Parlamento e i partiti politici diranno la loro e avranno modo di discutere, apportare
«Confusa e pericolosa» ha definito la riforma Massimo D’Alema: è proprio questo riflesso antagonista a rilanciare ancora il vecchio “bipolarismo da guerra”
Prendete Massimo D’Alema (nei momenti critici a sinistra spunta sempre Massimo D’Alema, anche se notoriamente non ne ha imbroccata una): ha definito il nuovo articolo 18 «confuso e pericoloso». La doppia definizione dalemiana sembra fatta apposta per il comportamento del Pd,
sposizione – il governo promette di «incentivare la ricerca attiva di una nuova occupazione, la qualificazione professionale, la formazione nel continuo dei lavoratori, la riqualificazione di coloro che sono espulsi, per un loro efficace e tempestivo ricollocamento». Il che dovrebbe tradursi in strumenti di welfare to work e «canali di convergenza tra l’offerta di lavoro (nuova o connessa a perdita del posto di lavoro) e la domanda (valutazione dei fabbisogni delle imprese e coerenza dei percorsi formativi dei lavoratori e delle professionalità disponibili), in un’ottica di facilitazione del punto di incontro tra chi offre lavoro e chi lo domanda». Spazio anche ai privati.
plare): «Quanto al Pd, esso dovrà innanzitutto chiarire a se stesso e all’opinione pubblica se condivide la scelta di fondo di armonizzare il nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto d’Europa, cercando in particolare di allinearsi agli standard dei Paesi più avanzati». E aggiungeva, il senatore del Pd: «L’incertezza del Pd su questo terreno è tanto più incomprensibile, se si considera che questo progetto del governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodot-
FLESSIBILITÀ IN ENTRATA. Nella delega viene definito «il trampolino di lancio» verso la formazione professionale. Governo, sindacati e imprese ci hanno messo pochissimo a trovare la quadra sul potenziamento dell’apprendistato.
delle donne il governo introduce norme contro le cosiddette dimissioni in bianco, sgravi per il datore di lavoro che assume madri nei primi tre anni dell’età dei figli e istituisce il congedo di paternità obbligatorio. La politica. Gior-
modifiche e migliorare il testo. Perché il testo è senz’altro migliorabile: non è perfetto. È su questo aspetto specifico che il Pd, ma non solo il Pd, farebbe bene a concentrare le sue forze e i suoi sforzi. Per due motivi evidenti: primo perché è un ruolo che gli compete istituzionalmente e secondo perché è un modo per completare il proprio lavoro e farsi capire dagli italiani, quelli che hanno un lavoro, quelli che non ce l’hanno e quelli che lo cercano. Anzi, il compito del Pd come partito che sostiene il governo è proprio quello di sostenerlo e di dare il suo fattivo contributo al miglioramento del testo. Al contrario, se il Pd si lascia risucchiare dagli umori della protesta ideologica come pure dai trabiocchetti dei falchi del Pdl, allora, né sorregge il governo né sorregge se stesso. Questi due aspetti - governo e partito - stanno assieme e cadono insieme. Può darsi che l’Italia giunga a questa riforma del lavoro quasi a tempo scaduto, mentre sarebbe stato molto meglio arrivarci anni addietro, o quando governava la destra o quando governava la sinistra. Ma che colpa ha il governo Monti se è stato chiamato a guidare l’Italia per riparare i danni fatti da chi già ieri e ieri l’altro non è stato all’altezza del compito di governo?
dere il posto di lavoro non attraverso l’articolo 18 ma per il crollo di determinate attività produttive». Qualche ora prima il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, aveva spiegato di «non voler passare dalla Germania all’America». E sulle ri-
L’esecutivo ha sottolineato «l’intento di realizzare un mercato del lavoro dinamico, flessibile e inclusivo, capace cioè di contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione, di stimolare lo sviluppo e la competitività» Durerà sei mesi, godrà di forti sgravi fiscali e obbligherà i datori di lavori, se vorranno utilizzare questo istituto, a stabilizzare nell’ultimo triennio almeno il 50 per cento degli apprendisti assunti. Per incentivare la partecipazione
gio Napolitano ha ricordato alle parti la necessità di approvare questo pacchetto. Perché, ha sottolineato il presidente, «i problemi più drammatici sono le crisi aziendali, le aziende che chiudono, i lavoratori che rischiano di per-
percussioni sul debito sovrano, aveva commentato che «chiudere il Parlamento per rassicurare i mercati sarebbe una curiosa soluzione». Ancora più duro l’ex ministro Cesare Damiano: «Cambieremo il testo». Parole che hanno spin-
to il segretario del Pdl, Angelino Alfano, a stigmatizzare i diktat in arrivo dal Nazareno. Un’accusa, questa, accompagnata dalla minaccia che, in caso «di modifica dell’articolo 18, è probabile che noi modificheremo anche altri aspetti del disegno di legge». Accoglie in pieno l’appello del Colle il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Non ci sarà nessuno scenario particolare, perché nessuno minaccia di far cadere il governo. Il Pd vuole cambiare alcune parti di queste norme: ha il diritto di farlo, naturalmente il Parlamento si esprimerà, perché questo Governo non si basa sull’annullamento delle diversità che esistono tra i partiti».
l’approfondimento
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Lettera aperta al patron della Mapei che ha conquistato la vetta di Via dell’Astronomia solo per 11 voti
Il metodo Squinzi
Il nuovo presidente di Confindustria non deve fare l’errore di considerarsi il vincitore. Deve imitare il sistema utilizzato dal premier: includere nella gestione anche Bombassei. Solo così gli imprenditori potranno uscire uniti dalla crisi di Enrico Cisnetto aro Squinzi, ricorda la “vittoria” di Prodi alle elezioni del 2006? Prevalse su Berlusconi per una manciata di voti, e commise l’errore di credere che fosse un successo pieno. Rifiutò ogni mano tesa, volle governare nonostante il suo esecutivo in parlamento fosse sempre sul filo di lana. Risultato: durò due anni e poi cadde rumorosamente, riaprendo la strada di palazzo Chigi al suo avversario.
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Lo so, la Confindustria non è la stessa cosa, non c’è la cultura dell’opposizione. E questo è testimoniato anche dal fatto che sia Lei che Bombassei eravate sicuri di vincere: evidentemente più d’uno aveva dato a voi e ai saggi indicazioni falsate, aveva promesso voti a entrambi. Dunque, non è detto che chi ha votato per il suo avversario voglia rimanere attestato su quelle posizioni. Anzi, non è neppure detto che Bombassei voglia
Alberto Bombassei, proprietario della Brembo. In alto Giorgio Squinzi con Emma Marcegaglia. Il patron della Mapei succederà appunto a Marcegaglia alla presidenza di Confindustria. Ma la sua vittoria è stata eccezionalmente risicata: 93 voti a 82
mettersi alla testa di una sorta di super minoranza interna. Ma ciò non toglie che 6 voti di differenza – perché tanti ne sarebbero bastati perché il risultato anziché 93 a 82 per Lei fosse 88 a 87 per il patron della Brembo
– siano davvero troppo pochi, a maggior ragione in un ambiente che solo una volta nella sua storia ha conosciuto un “testa a testa” per la presidenza (nel 2000, quando D’Amato vinse su Callieri per 96 voti a 58). Insomma, il mio modesto consiglio è che valga la pena per Lei, ma soprattutto per Confindustria e per il Paese, prendere in considerazione l’idea di mettersi alla testa di una sorta di “grande coalizione”, che governi la confedera-
Adesso anche la politica cerca di evitare il muro contro muro
zione in un momento inedito come quello di un “quasi pareggio” e per di più in una fase assai complicata della vita economica, dove le imprese si giocano la pelle.
E già, perché vede, caro Presidente, se la contrapposizione tra Lei e Bombassei fosse stata tra due tipologie opposte di imprenditori – magari tra chi avesse rappresentato gli imprenditori che hanno scavallato il dosso della grande crisi e chi fosse il vessillo di quelli che tentano di sopravvivere nonostante la loro azienda sia fuori mercato, come sarebbe stato logico e persino opportuno che accadesse visto che la divergenza di interessi tra le due categorie è ormai abissale – allora lo scontro cui abbiamo assistito sarebbe stato comprensibile e la mia idea di “unire le forze” peregrina. Invece, entrambi siete due “padroni”, entrambi guidate aziende che vanno bene, che si sono internazionalizzate,
L’iter lungo e difficile della trattativa ha segnato anche una importante novità “di metodo”
È la fine della concertazione (per tornare al Parlamento) La durezza del premier nel dire che il governo sarebbe andato avanti anche senza il sì dei sindacati ha ridato forza e funzione ai partiti di Francesco D’Onofrio a questione della nuova disciplina legislativa che concerne nell’insieme quel che siamo solito chiamare il “mercato del lavoro” ha posto in evidenza – anche questa volta – una questione di metodo: il rapporto tra concertazione e Parlamento, che ha ovviamente finito con l’influire su più di una questione di merito, con particolare riferimento alla peraltro “ingigantita” questione dell’articolo 18. La questione di metodo è stata affrontata con particolare “durezza” anche questa volta: il ministro Fornero dapprima, e lo stesso presidente del Consiglio Monti dopo, hanno infatti affermato che si sarebbe comunque proceduto da parte del Governo anche senza il consenso formale delle diverse rappresentanze sindacali. Da questo punto di vista non si è trattato di una prima volta nella recente storia della Repubblica italiana, perché anche in passato – sia nella più volte “diffamata” Prima Repubblica, sia nella cosiddetta Seconda Repubblica (almeno fino all’avvento del Governo Monti) – vi sono stati momenti specifici di particolare tensione sulla appartenenza o meno del potere legislativo al Parlamento o, di volta in volta, ad altri soggetti che esplicitamente o meno si comportavano nel senso di essere sostanzialmente contitolari di questa o quella parte del potere legislativo medesimo.
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Basti pensare a quel che concerne il tema della laicità dello Stato in riferimento a perduranti culture clericali, soprattutto sui temi dei diritti civili individuali e di gruppo; basti pensare al tormentatissimo rapporto tra magistratura e politica; basti pensare a quel che concerne l’aspetto sostanziale della politica nucleare nei rapporti internazionali; basti pensare al rapporto tra partiti politici e sindacati, proprio in riferimento alla disciplina del cosiddetto“mercato del lavoro”. Se pertanto si affronta il tema del rapporto tra concertazione e Parlamento in riferimento alla spettanza o meno del potere legislativo su questa o quella materia al-
l’uno o all’altro soggetto, occorre aver presente che si tratta di una questione fondamentale che concerne proprio la natura stessa della sovranità parlamentare. È di tutta evidenza pertanto che siamo in presenza di una questione di rilevante profilo politico-istituzionale generale. Il fatto che il Governo Monti abbia esplicitamente e formalmente rimesso al Parlamento l’insieme delle decisioni concernenti la nuova disciplina del “mercato del lavoro” assume pertanto
È chiaro che siamo in presenza di una questione di rilevante profilo sia politico sia istituzionale sia il significato di una riproposizione della questione della concertazione in termini di autonomia del governo dalle organizzazioni sindacali, sia il significato di una sostanziale questione di fiducia nei rapporti tra Parlamento e Governo.
Appare infatti chiaro che il Governo può rimettere al Parlamento tutte le decisioni concernenti il “mercato del lavoro”, finendo con il trasformare
in senso assembleare il nostro sistema di governo che invece è parlamentare. Affermare infatti che la questione ora è rimessa al Parlamento potrebbe persino significare che il Governo ritiene di essere limitato alla pura e semplice attuazione delle decisioni parlamentari. Se le cose non stanno così (come invece è del tutto ragionevole pensare), si deve ritenere che il Governo da un lato rimette al Parlamento la questione concernente le decisioni legislative, ma dall’altro si riserva di non accoglierle se – da un punto di vista politico – esso non concorda con le decisioni medesime. Si tratta in questo caso di una vera e propria questione di fiducia, che costituisce l’essenza della natura parlamentare del sistema di governo, perché questo si basa infatti sulla reciproca autonomia costituzionale del Parlamento da un lato e del Governo dall’altro. È in questo momento che entra in gioco la percezione stessa che il Governo Monti ha di sé medesimo.
La pienezza del potere legislativo viene riconosciuta infatti al Parlamento dopo che il Governo non si è ritenuto giuridicamente vincolato alle decisioni dell’intero arco sindacale. Ma allo stesso tempo il Governo non si rimette al Parlamento per qualunque decisione esso ritenga di adottare, ponendo sostanzialmente in gioco la propria sopravvivenza politica, perché di questo si tratta. L’imminenza di un significativo turno elettorale amministrativo ha introdotto un ulteriore e rilevante elemento di valutazione politica, come risulta evidente dalla discussione che si è svolta sullo strumento legislativo adottato dal governo in riferimento alla affermata iniziativa parlamentare. Allorché si prende dunque atto che la situazione concerne il rapporto tra concertazione e Parlamento, è bene che si abbia presente la sostanza del potere legislativo a tutto tondo, e non limitarlo soltanto alle questioni del “mercato del lavoro”.
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che hanno un solido futuro davanti a loro.
Potrete avere qualche piccola differenza di opinione su questa o quella cosa, ma ho la netta sensazione che siano state le opposte tifoserie, che vi hanno accompagnato nella “campagna elettorale”, ad aver costruito divaricazioni di pensiero e di interessi che in realtà non esistono. Si è anche fantasticato sul fatto che ciascuno di voi avesse “referenti”, reciprocamente ritenuti ingombranti, ma crederci significa non conoscere voi e la vostra storia: siete due che non si fanno mettere il basto da nessuno. E poi, entrambi avete interesse a dar voce alle esigenze delle imprese sane (tante, ma non un esercito, purtroppo), non a tenere unito l’indifendibile (le troppe aziende che non hanno fatto o non fanno più quello che ieri sul Corriere della Sera Dario Di Vico vi chiede di tornare a fare, investire e modernizzarsi). E in questo momento occorre avere il coraggio di lasciar fuori dalla porta chi non rema nella giusta direzione, non dividere chi invece sta pienamente e positivamente sul mercato. Ma la cosa peggiore è produrre divisione, mostrare incapacità di creare consenso e di produrre coesione – come ha scritto con efficacia Mario Deaglio sulla Stampa – proprio mentre chi ha la maggiore responsabilità del catastrofico sbriciolamento che ha pervaso tutta la società italiana negli ultimi due decenni, e cioè la politica versione Seconda Repubblica, tenta con qualche timido ma confortante successo di emanciparsi dalla modalità della contrapposizione permanente. Sarebbe dunque paradossale che Confindustria, una delle poche realtà che ha saputo evitare la frantumazione – seppure solo in superficie e non senza una massiccia dose di ipocrisie – si mettesse a scimmiottare la politica peggiore proprio ora che gli italiani la stanno definitivamente condannando. Allora, siccome è in atto la grande sfida per evitare il declassamento vero, quello dell’economia reale mortificata dal ritorno della recessione dopo anni di stagnazione, non quello delle agenzie di rating (che per fortuna non condizionano neppure più gli spread), se Confindustria – messa a dura prova da un risultato così dividente per la nomina del presidente che la governerà nei quattro anni dove il Paese e le imprese si giocheranno fino in fondo la “grande sfida” della sopravvivenza e del rilancio – non saprà dimostrarsi matura, saranno davvero guai per tutti. Ci pensi, caro Squinzi, ci pensi... e molti auguri per la sua presidenza. (www.enricocisnetto.it)
società
pagina 6 • 24 marzo 2012
Sul volo papale, Benedetto XVI attacca «la schizofrenia imperante nella nostra società, divisa fra pubblico e privato»
La scomunica a Fidel Il Papa arriva in Messico e guarda a Cuba: «Marxismo superato, in politica torni l’etica» di Vincenzo Faccioli Pintozzi n America Latina, ma non solo, «si vede in non pochi cattolici una certa schizofrenia tra morale individuale e pubblica». Nel volo che lo stava portando a Leon (Messico) dove è atterrato nel pomeriggio di ieri (ora locale), Benedetto XVI ha incontrato i giornalisti che seguono il volo papale ed è tornato sulla questione della coerenza tra pubblico e privato dei cattolici. Rispondendo alla domanda sull’attualità di una teologia della liberazione spogliata dalle sue turbe più estremiste, il Papa ha ribadito che «la Chiesa deve sempre chiedere se si fa a sufficienza per la giustizia sociale. La Chiesa non è un potere politico, un partito, ma una realtà morale. Il suo primo pensiero deve essere educare le coscienze». In questo ci si scontra, ha ricordato, con quella schizofrenia tante volte presente nei cattolici che «in privato sono credenti, ma nella vita pubblica seguono al-
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Tettamanzi si prende la rivincita sul Segretario di Stato
Finisce l’Odissea del Toniolo: Scola batte Bertone al vertice di Massimo Fazzi
ROMA. Il nuovo presidente dell’Istituto Toniolo è il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola. La nomina è arrivata dopo il “conclave”dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dedicata proprio a Giuseppe Toniolo, economista veneto e prossimo beato. Nei tre giorni del convegno, che si è svolto dal 21 al 23 marzo, è arrivata la designazione. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, che l’ha preceduto nella carica, ha ceduto il passo a Scola anticipando di sua volontà la scadenza naturale del mandato, prevista per il dicembre 2012. Continua comunque a far parte del comitato permanente dell’Istituto. Il cardinale Scola ha espresso a Tettamanzi «la gratitudine più convinta e l’ammirazione motivata per l’opera di risanamento e di rilancio delle iniziative rivolte ai giovani, che egli in questi anni ha promosso, sempre cercando il massimo della convergenza e l’interesse unico dell’Università cattolica del Sacro Cuore, così legata alla Santa Sede, al ministero e alla persona del papa, e alla comunione delle Chiese che sono in Italia». Al di là delle belle parole, nella vicenda appare un “convitato di pietra” che non deve averla presa troppo bene, ovvero il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. Che aveva lanciato con grande anticipo una campagna (quasi senza esclusione di colpi) per la conquista del Toniolo.
Una campagna culminata un anno fa con il velleitario atto di deposizione di Tettamanzi dalla carica di presidente inviatogli da Bertone per posta e per fax, il 24 marzo 2011, accampando un avallo del Papa che poi sì rivelò inesistente. Esattamente un anno fa, il 24 marzo del 2011, il Fatto Quotidiano pubblicava la lettera a firma Bertone. Nella missiva che ricorda il falso storico della donazione di Costantino, inventata di sana pianta per fondare il potere temporale della Chiesa - il cardinale Bertone parla di un’improbabile avallo del papa e rivendica a sé un imperio sul Toniolo. Questa rivendicazione sarebbe motivata «secondo una prassi risalente alle fasi iniziali dell’Istituto». Il cardinal Tettamanzi non ha ceduto e ha smascherato questa prassi - definita come “senza fondamento in sede storica” - appena cinque giorni dopo in una lettera inviata il 28 marzo a Benedetto XVI per sconfessare e respingere la sua deposizione “abusiva”. Lo sgarbo è pesato e non poco. E oggi, con l’avvicendarsi di Scola e l’esclusione di Bertone dalle stanze dedicate al futuro beato, si sente più che mai il peso di una Chiesa litigiosa, battagliera e incapace di rimanere in silenzio. tre strade. Bisogna superare questa schizofrenia ed educare non solo a una morale individuale, ma anche pubblica, ed è quello che cerchiamo di fare con la dottrina
sociale della Chiesa». Troppe volte ignorata.
È responsabilità della Chiesa, ha soggiunto, «educare le coscienze, educare alla responsabilità morale e smascherare il male». Bisogna «smascherare questa idolatria del denaro che schiavizza gli uomini, smascherare queste false promesse». Ancora, il Papa ha affermato
Sull’attualità di una teologia della liberazione meno estremista, ha ribadito che «la Chiesa deve sempre chiedere se si fa a sufficienza per la giustizia sociale» che la Chiesa «smaschera il male, rendendo presente la bontà di Dio e la sua verità». Ma è a proposito della situazione socio-politica a Cuba che il Papa ha lanciato la sua sfida. E con le parole di una scomunica, ha detto che «l’ideologia marxista non risponde più alla realtà». Il Papa ha ricordato come con la visita di Giovanni Paolo II di 14 anni fa sia stata «inaugurata una strada di collaborazione e dialogo», una via che «esige pazienza ma che va avanti». Ha quindi assicurato che la Chiesa vuole aiutare «in spirito di dialogo per dar vita ad una società più giusta». La Chiesa, ha soggiunto, «sta sempre dalla parte della libertà», di coscienza e di religione. Il 23mo viaggio internazionale di Benedetto XVI, cominciato oggi, prevede che il Papa resti in Messico fino alla mattina di lunedì 26, quando partirà per Cuba, da dove il 28 ripartirà per Roma. Tra gli impegni principali che attendono il Papa: la celebrazione della messa, domenica mattina a Leon, e quella di lunedì pomeriggio a Santiago de Cuba per il 400mo anniversario
del ritrovamento della Virgen de la Caridad del Cobre. In entrambi i Paesi sono in programma incontri con i vescovi e con le massime autorità statali. Non in programma, ufficialmente, un saluto con Fidel Castro. Le domande al Pontefice hanno riguardato anche la difficile situazione del Messico tormentato dalla violenza distruttiva del narcotraffico, il ruolo della Chiesa nel continente tra contrasti sociali e dibattiti sull’eredità della «teologia della liberazione», la questione dei diritti umani a Cuba con i riflessi della perdurante precarietà degli equilibri internazionali in riferimento all’isola caraibica, le numerose sfide che si presentano all’orizzonte della Chiesa latinoamericana, impegnata nella missione continentale iniziata subito dopo la conferenza di Aparecida.
Il primo pensiero, però, è stato per Papa Wojtyla, sulle cui tracce Benedetto XVI ha detto di voler camminare. Nel segno della continuità. I tempi sono diversi e anche le situazioni risultano differenti dal punto di vista sociale e politico. Però non cambia il messaggio che Benedetto XVI porta con sé. E poi in Messico desiderava tornare da Papa. Conosce il Paese per esserci stato, ma anche per le tante persone che - lo ha ricordato - ogni mercoledì si fanno sentire durante l’udienza generale. In qualche modo ha voluto ricambiare questo affetto andandoli a trovare nella loro terra. L’attenzione si è poi concentrata sulla drammatica questione della violenza in Messico. Argo-
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Lo storico della Chiesa commenta il viaggio di Ratzinger in ”terra rossa”
«Propone una terza via fra Marx e Adam Smith»
Alberto Monticone: «Il Pontefice porta l’annuncio di un’alternativa ai guasti di capitalismo e comunismo» di Francesco Lo Dico
La Chiesa, ha spiegato, «non è un potere politico, un partito, ma una realtà morale. Il suo primo pensiero deve essere educare le coscienze» mento non nuovo per il Papa, che ne ha parlato in diverse occasioni con rappresentanti diplomatici, capi di governi, vescovi. L’ultima occasione è stata la celebrazione della messa del 12 dicembre 2011 nella basilica di San Pietro per il bicentenario dell’indipendenza dei popoli latinoamericani. Non è cambiato, dunque, il senso della condanna di ogni forma di violenza espressa questa mattina nei confronti del ruolo distruttivo del narcotraffico. La droga, ha detto il Pontefice, distrugge l’uomo, distrugge soprattutto i giovani. Il ruolo della Chiesa in questo contesto è di smascherare il male ovunque esso si annidi. È perciò necessario continuare ad annunciare Dio per farlo conoscere al mondo. Se non ha questa conoscenza, infatti, l’uomo si costruisce i suoi paradisi artificiali e non scopre la via della salvezza. Più articolata la riflessione sul ruolo di supporto della Chiesa nel perpetuarsi di quello strano fenomeno per cui ancora oggi - a duecento anni dalla conquistata indipendenza e nonostante l’innegabile balzo in avanti di
molte economie continentali continua ad aumentare il divario tra ricchi e poveri. Alla Chiesa è stato mosso il rilievo di non essersi troppo impegnata in questo settore. Ed è stata evocata una nuova «teologia della liberazione», senza quegli eccessi che l’avevano segnata agli inizi.
La Chiesa, ha risposto il Papa, deve naturalmente interrogarsi su quello che fa, per valutare come lo fa e se è sufficiente. Bisogna però ricordare che essa non è un partito politico, ma una realtà morale che educa la persona umana. È anche vero che la politica implica in qualche modo la morale. E dunque la Chiesa finisce per entrare in contatto con la politica. Ma la sua missione resta sempre quella di educare le coscienze. In questo campo, ha rilevato il Pontefice, si nota tra i cattolici una sorta di dicotomia, nel senso che c’è una profonda differenza tra il loro modo di comportarsi individuale e il loro modo di esprimersi e di vivere in pubblico. Quasi che la loro fede sia qualcosa da vivere solo nella sfera privata e da rinnegare nella sfera pubblica. In tal senso, la missione della Chiesa è aiutare gli uomini a superare questo comportamento schizofrenico. Soprattutto c’è bisogno di educare a costruire una morale pubblica. Quanto all’eventualità di una «teologia della liberazione purificata», il Pontefice ha ribadito che la questione è «semplicemente di educare alla morale». Senza precipitare negli abissi populisti.
ROMA. «La Chiesa non è un potere politico, non è un partito, ma è una realtà morale, un potere morale. Anche la politica però deve essere una realtà morale ed è in questo che la Chiesa ha fondamentalmente a che fare con la politica». In viaggio verso il Messico, papa Benedetto XVI ha delineato il delicato ruolo dei cattolici in un momento di grandi incertezze sociali. E se per un verso ha spiegato che l’ideologia marxista «per come è stata concepita non risponde più alla realtà», d’altra parte ha demonizzato, in tempi di pensiero unico e dittatura finanziaria «l’idolatria del denaro che schiavizza gli uomini». Il cattolicesimo si candida dunque a terza via verso la quale può incamminarsi il mondo nel prossimo futuro? «Quella di Benedetto XVI è anzitutto una terza via etica, che di riflesso, essendo portatrice di istanze morali, diventa anche politica», spiega a liberal Alberto Monticone, storico della Chiesa oggi presidente di Italia Popolare. Presidente, il Papa vola a Cuba in un’atmosfera non particolarmente ecumenica. Ha fatto sapere di volere aiutare il Paese a trovare un nuovo modello, ma si apprende che i dissidenti non potranno prendere parte alle messe celebrate dal Pontefice. Non un bel segnale. Non è un bel segnale per Cuba, ma sarà un ottimo segnale per il Papa. Le limitazioni erano in qualche maniera già previste ma Benedetto XVI ha la possibilità di dare a questo viaggio un’intensità simbolica maggiore. La sua visita apostolica si pone in continuità con l’operato di Paolo XVI, che si trovò più volte a fronteggiare condizioni ostili e rischiò la vita nelle Filippine. Tra l’altro la visita di Ratzinger in Sudamerica avviene nel cinquantesimo anno di quel Concilio Vaticano II che seppe ricollocare la Chiesa nel solco della modernità. E ad allora risale anche la nascita della teologia della liberazione che non fu molto amata dalla Chiesa, salvo essere rivalutata sotto qualche aspetto da Giovanni Paolo II. Qual è il bilancio storico di un movimento ancora oggi molto discusso, nonostante sia sceso in campo a fianco dei più deboli? È difficile dare un giudizio compiuto in poche parole. Ma oggi non si può negare che la viva esperienza di un cattolicesimo di frontiera come fu quello della liberazione, seppur lontano nel tempo e legato a un preciso contesto storico, abbia lasciato alla Chiesa testimonianze come quella di Oscar Romero, assassinato per il coraggio di stare con gli ultimi, e di Hélder Câmara, che spese l’esistenza a combattere atti-
vamente le miserie delle favelas. I contributi della teologia liberazione hanno arricchito la Chiesa, e hanno parte nell’elaborazione concettuale di quell’umanesimo integrale che oggi è un fondamento attivo dell’essere cattolici nella modernità. Perché il movimento divenne via via sempre meno tollerato, se non aperamente ostracizzato, nonostante la vocazione pauperistica? Accadde a un certo punto un evento storico come la caduta del Muro di Berlino. Fu uno spartiacque importante che però non portò il Papa e il pensiero cattolico democratico a considerarlo come il trionfo dell’Occidente e delle sue dottrine economico-sociali, ma come l’inizio di un percorso che facesse dell’Occidente un punto di riferimento per le libertà, che tenesse in buon conto anche le istanze sociali accanto alle esigenze delle spiritualità. E in viaggio verso Cuba, il Papa dichiara morto il marxismo, ma poco frequentabile anche l’ossessione del profitto di un capitalismo deteriore. La dottrina cattolica può incarnare quindi una terza via politica? Si tratta anzitutto di una terza via etica che affonda le sue radici negli anni 60 del secolo scorso, culminata poi nel pontificato di Karol Wojty\u0142a. Allora la Chiesa criticò apertamente il modello marxista ma allo stesso tempo non risparmiò strali a certe distorsioni del capitalismo. Ma va compreso che la dottrina della Chiesa non si consolida in una teoria economica, quanto in un orientamento culturale. È piuttosto un campo di valori morali che non accetta l’ideologia del profitto quando essa schiaccia la vitalità e la dignità della persona. Il Papa è volato a Cuba dicendo che la Chiesa vuola aiutare i cubani a trovare nuovi modelli di esistenza, ma senza traumi. Che significato dobbiamo dare a queste affermazioni? Il Santo Padre ha a cuore i diritti umani dei cubani che si sostanziano nelle libertà fondamentali di cui ogni persona umana deve potere disporre. In un mondo in evoluzione, la Chiesa si sente investita dal bisogno di vigilare su valori come la libertà di espressione e di associazione. Per tutta risposta, i giornali cubani scrivono che saranno ammessi al suo cospetto soltanto gli allineati al regime. È chiaro che un contatto diretto con tutti, senza restrizioni di sorta, sarebbe l’opzione migliore. Ma il “numero chiuso” non farà altro che dare maggiore forza di verità alla missione di Benedetto XVI.
«Né con il profitto né con i massimalisti: oggi la Chiesa è un campo di valori che promuove la dignità della persona»
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oggi di grande attualità il problema dei nuovi armamenti e della ridefinizione quantitativa e qualitativa delle nostre Forze Armate. A seguito dei progressivi tagli apportati, negli ultimi anni, al bilancio del ministero Difesa sono saltati i parametri cardine di un modello organizzativo, notoriamente complesso, quale è quello dello Strumento Militare.
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Il risultato di questi tagli è che, adesso, il rapporto Pil/Bilancio Difesa è passato da oltre l’1,10% a poco più dello 0,80%. Questa forte riduzione ci colloca ai livelli più bassi in Europa - non toccando la spesa incomprimibile del personale (70%) si è fino ad oggi inevitabilmente scaricata sulle voci “Esercizio” ed “Investimento” con due ovvie e negative conseguenze: riduzione delle attività ordinarie e invecchiamento degli armamenti, non più consoni ai livelli richiesti. Si tratta adesso di pianificare, in un arco di tempo medio-lungo (15 anni circa), una seria ristrutturazione che ci riporti a quei parametri ottimali dai quali ci siamo, giocoforza, allontanati ovvero 50% “Personale”, 25% “Esercizio”, 25% “Investimento”. In sostanza, la progressiva riduzione degli organici dovrà abbassare, fino al 50%, sulla spesa totale, il costo del personale e, contestualmente, suddividere il restante 50% in pari quota tra spese di “Esercizio” e di “Investimento”. Sarà così possibile avere una struttura efficiente ed efficace, al pari dei Paesi più avanzati, con il passaggio dal modello di 190.000 unità di addetti (riforma del 2001) a circa 140.000 unità. Il tutto mantenendo inalterato l’attuale stanziamento di 14 miliardi per il ministero Difesa. Se questo è il progetto annunciato dal governo, e condiviso dal Consiglio Supremo di Difesa, si pone, da subito, la questione delle risorse per l’ammodernamento progressivo degli armamenti, spalmando entro 15 anni ciò che in realtà sarebbe necessario fare in tempi assai più rapidi. Eccoci dunque alla questione, tanto dibattuta, del programma Jsf. Il programma Jsf nasce dalla necessità della Marina e dell’Aeronautica di sostituire, nell’arco temporale 2015-2025, oltre 250 velivoli, attualmente impiegati dalle due Forze Armate, con almeno 90 nuovi Jsf, rispetto ad una previsione iniziale di circa 130. In sintesi, con un numero ridotto di velivoli, si attua un salto tecnologico ed operativo rispetto ai mezzi della generazione precedente, of-
Solo attraverso una seria ristrutturazione potremo avere un apparato efficiente ed efficace
Rilanciare la Difesa per giocare in attacco Meno personale e mezzi più efficienti: ecco il sistema giusto per le nostre Forze armate di Francesco Bosi frendo, all’industria italiana, un ritorno sia tecnologico sia industriale di altissimo valore. Deve, inoltre, essere evidenziato che i nove Paesi partecipanti al programma (Usa, Regno Unito, Italia, Olanda, Australia Canada, Danimarca, Norvegia e Turchia) beneficeranno di significative economie di scala, non solo in termini di costo del velivolo, ma anche di supporto logistico.
Il Jsf è considerato un sistema in grado di soddisfare “in toto” l’esigenza operativa della Difesa nazionale essendo in grado di assolvere compiti, per la versione Ctol (decollo e atterraggio convenzionali), di supporto aereo ravvicinato alle forze di superficie, interdizione aerea, sorveglianza e ricognizione; e, per la versione Stovl (decollo corto e atterraggio verticale), di difesa in profondità
Il numero ridotto di velivoli permetterà un salto tecnologico rispetto a quelli della generazione precedente. E anche il potenziamento dell’industria italiana
delle forze navali e supporto e protezione alle forze anfibie. Da sottolineare il ruolo dell’industria nazionale, prevedendo il programma il coinvolgimento di ben 40 aziende italiane, tra cui le principali industrie aeronautiche e motoristiche nazionali, nonché di 32 aziende, a livello di piccole medie imprese, che hanno avviato attività propedeutiche all’ingresso nel programma stesso, con significative ricadute nel campo dell’occupazione e del know-how. L’impresa industriale degli F35 si prospetta assai più vasta delle commesse prenotate dai 9 Paesi, viste
le numerose richieste di questi velivoli che pervengono da Paesi asiatici (Giappone, Corea del Sud eccetera) tradizionalmente alleati dell’ Occidente. La crisi economica e finanziaria, che coinvolge anche il nostro Paese, porta certamente a un riesame attento anche dei costi del sistema difensivo. Dobbiamo saper coniugare le necessarie economie di spesa all’efficienza dello Strumento.
Come è stato detto, si tratta di tagliare il grasso ma non i muscoli delle nostre Ffaa. Meno personale e mezzi più efficienti. Questa è la ricetta proposta dal governo che non possiamo che condividere. L’alternativa a ciò sarebbe la decozione e, con essa, lo spreco, che
non possiamo certo consentire. L’Italia non può abbassare la guardia né verso la propria sicurezza e neppure rispetto alle minacce alla sicurezza e alla pace nel mondo. In definitiva non vogliamo rinunciare alla legittima ambizione di un grande Paese, quale siamo, che deve poter partecipare, con pari dignità, alla vita degli Organismi Internazionali, deputati a tutelare principi e valori irrinunciabili che contraddistinguano una civiltà evoluta.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SOTTO IL CIELO DI ROBERTO
Da non perdere il delizioso film argentino di Sebastian Borensztein con Ricardo Darin (una stella nel suo Paese), già protagonista del “Segreto dei suoi occhi”, premiato nel 2010 con l’Oscar come miglior film straniero
di Anselma Dell’Olio
orse altri hanno già rivelato il mistero del titolo, Cosa piove dal cielo, il film argentino che ha vinto il premio principale all’ultimo Festival internazionale del film di Roma. La madre dei guastafeste è sempre gravida. Per la prima volta nei sei anni della rassegna, un film che ha vinto il Marc’Aurelio d’oro si è aggiudicato anche il Premio del pubblico Bnl Paribas, votato da tutti i festivalieri. C’erano parecchi malumori dopo tra i quattro registi italiani in concorso, in particolare da parte di Pupi Avati, presente con il suo film più bello da La seconda notte di nozze e Il cuore altrove. Il regista bolognese ha polemizzato con una «giuria prevedibilmente snob e composta da ballerini». Effettivamente c’era l’indiscussa étoile della danza Roberto Bolle tra i giurati, ma anche l’attrice Debra Winger, la regista danese Susanne Bier e il produttore inglese David Puttnam, tutti premi Oscar. Le giurie, si sa, scontentano sempre qualcuno, ma è vero che sarebbe stata meritatissima una vittoria di Avati. L’autore italiano, in quarant’anni di carriera, non ha avuto i riconoscimenti in patria che si merita; questo sì per pregiudizio snobistico, ma verso un cattolico praticante che non ha mai nascosto di esserlo.
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sotto il cielo di
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Questo non deve, però, oscurare i meriti di Cosa piove dal cielo, un delizioso film argentino di Sebastian Borensztein, che la valente Vania Traxler si è accapparrata mesi prima che vincesse a Roma, per la sua Archibald Enterprise film. Anche se altri recensori l’avranno già detto, qui non saprete «cosa piove dal cielo» (che tra l’altro dà inizio alla storia); è sciocco rovinare la sorpresa a chi è ancora all’oscuro. La storia s’avvia appunto con una scena-prologo talmente bizzarra e surreale che si stenta a credere che sia realmente accaduta; invece è confermata in uno degli articoli di giornale che il protagonista del film conserva con gusto. Il suo hobby è raccogliere prove del non-senso della vita terrena. Almeno questa è la filosofia di Roberto De Cesare, proprietario di un negozio di ferramenta a Buenos Aires. Scorbutico e solitario, non si è mai sposato né ha rapporti sentimentali da quando è morto suo padre.Venera sua madre, morta alla sua nascita. Tiene in una teca la sua fotografia, e ogni tanto aggiunge un pezzo nuovo allo zoo di vetro colorato che era la sua passione, parlandole e chiedendole scusa. Succede a persone che vivono in solitudine da tanto tempo. Roberto ha la miccia corta: i clienti cretini li caccia a male parole, e controlla ossessivamente il numero di viti in scatole che ne dovrebbero contenere 350; quasi sempre ne manca una manciata. L’uomo ogni volta va su tutte le furie, e chiama il rappresentante per ruvide rimostranze. Anche dopo aver ricevuto in omaggio una scatola dall’azienda per compensare l’ammanco, si mette a contarne il contenuto. Ne manca sempre la solita ventina. Impreca come un marinaio contro «quelle bestie di ladri cialtroni», soddisfatto ancorché arrabbiato per avere l’ennesima inconfutabile dimostrazione della bieca, recidiva mascalzonaggine del mondo.
Roberto ha 19 anni quando muore il padre, un immigrato italiano fuggito dalla guerra in Europa per morire di crepacuore durante quella delle Falklands. Ora ne ha una cinquantina. Spegne sempre la luce alle 23 in punto e si sveglia otto ore dopo. Prepara e consuma la stessa co-
anno V - numero 11 - pagina II
di tre anni prima, non sa nulla dell’ex proprietario, sparito dalla circolazione. È notte; non resta che abbandonare il poveretto per strada o ospitarlo. Dall’espressione di Roberto traspare la guerra interiore per la buona azione che si sente obbligato a compiere, e che non potrebbe essere più contro natura per un
lazione, va al negozio e alza la serranda. Se arriva una nuova scatola di viti, si mette a contarle con la caparbietà di non farsi fregare e con la medesima sventagliata finale di improperi. Arriva il suo amico Léonel, un edicolante che gli porta sgommando pacchi di giornali da compulsare per la raccolta di articoli su nuovi, pazzeschi avvenimenti. Suscitando un grugnito neutro dall’amico, Léonel gli dice che sua sorella Mari, che manda avanti una fattoria a poca distanza da Buenos Aires, è tornata per una visita. È difficile immaginare un attore diverso da Ricardo Darin come burbero, cinico, introverso, reattivo, seducente Roberto. Non arrivano tanti film dall’Argentina, dove lui è uno degli attori più famosi. È un uomo complessivamente accattivante, con un fisico da torello. Il suo non è uno charme da latin lover, ma è di quelli che esercitano un fascino sempre maggiore a mano a mano che lo osservi. È difficile staccargli gli occhi di dosso, eppure non ruba la scena agli altri, anzi li valorizza. Ha occhi turchesi, una mescolanza devastante di verde e azzurro che può produrre palpitazioni in una parte del pubblico. Mari (Muriel Santa Ana) passa a salutarlo; anche lei possiede una grazia particolare, non scontata, ma femminile e rassicurante. Emana contentezza infantile e il sereno equilibrio di una persona abituata ad adeguarsi ai ritmi della campagna, delle stagioni, della cura delle bestie e della terra: una fattoressa. Si intuisce che in passato c’è stata qualcosa tra loro, un’esplosione improvvisa di sensualità ed erotismo dal quale lo scontroso amante è subito rientrato, richiudendosi nella fortezza di se stesso. Mari chiede perché non ha mai risposto alla sua lettera; lui risponde che non l’ha mai ricevuta. Lei capisce che è una bugia, il tipico nascondersi di un uomo pentito
di essersi reso vulnerabile. Poi succede l’imprevisto. Nella routine estiva di Roberto è inclusa una birra consumata in solitudine al mare. È solo una bevuta accanto alla sua macchina parcheggiata a pochi metri dalla strada, nulla di troppo godurioso. Improvvisamente un taxi si ferma con stridio di freni. Il conducente butta fuori un giovane cinese con una sacca da marinaio. Il ragazzo ruzzola per terra, spaventato. Il commerciante si avvicina per assicurarsi che non si sia fatto male. Il ragazzo sta bene ma parla a raffica in cinese. Non sa una parola di spagnolo: non si capiscono. Poi lo straniero mostra un indirizzo tatuato sul braccio. Scocciato di essersi intromesso, Roberto si rassegna ad accompagnarlo.
Poco dopo, l’emozionato, disorientato giovanotto vomita in auto. L’esasperato samaritano ne ha abbastanza e lo scodella a una fermata d’autobus sgommando via. Dopo aver pulito a dovere il mezzo, arriva un temporale violento con pioggia battente. Roberto sospira rassegnato, risale in auto e ritorna alla fermata, dove il cinese è rimasto, immobile, impotente, perso.Vanno all’indirizzo tatuato, ma l’argentino che ha comprato la casa, effettivamente da un cinese più
control freak refrattario all’invasione della sua preziosa privacy. Il giorno dopo inizia un’odissea, una commedia degli errori, che inizia all’ambasciata cinese. Li apprende, grazie all’aiuto dell’addetto che parla spagnolo, che il ragazzo si chiama Jun e sta cercando il tao-puo, o zio paterno. Roberto vorrebbe mollarlo lì; Jun è cittadino cinese, se ne occupassero loro; ma non è prevista l’ospitalità nella sede diplomatica, come si affretta a dire il burocrate, accompagnandoli alla porta. Allora vanno nel quartiere cinese, dove di negozio in negozio Jun chiede se qualcuno conosce il suo tao-puo. A un certo punto il soccoritore suo malgrado lo perde vista; dopo aver guardato un po’ in giro, pensa di essersene liberato. Con un sospiro di sollievo, torna alla macchina, dove trova Jun ad aspettarlo. Roberto digrigna i denti e ripartono all’avventura, sempre senza capirsi. La prima notte Roberto chiude Jun a chiave nella cameretta; la seconda sta per farlo, ma ci ripensa. L’indomani si ingegna per inserire l’intruso - provvisoriamente, per l’amor di Dio - nel ritmo delle sue giornate per non impazzire. Gli dà il compito sempre a segni e con larghi movimenti di braccia - di svuotare un patio interno usato come ripostiglio per cianfrusaglie da
roberto
buttare. Il ragazzo si dà da fare, e intanto la ricerca dello zio continua. Ci sono incresciosi incidenti e dei falsi allarmi che sembrano annunciare per Roberto la fine del suo sforzo sovraumano, per poi rivelarsi una chimera, un caso di identità sbagliata. Risoluto, Roberta fa capire a Jun, con segni e disegni, che ha una settimana di tempo per risolvere la situazione. Dopo, o piove o tira vento, deve sloggiare.
Ho scoperto Ricardo Darin a un anteprima stampa a New York di Il segreto dei suoi occhi (in originale El segreto de sus ojos). Non conoscevo il regista, Juan José Campanella, e né il critico del New York Times che era in sala né io avevamo mai sentito parlare nemmeno di Darin. Il film, tratto da un romanzo con lo stesso titolo, ha un’andatura insolita, cambiando direzione ogni tanto e arricchendosi sempre di nuovi dettagli, intuizioni, sorprese. È la storia di Benjamin Esposito, un agente federale in pensione, che sta scrivendo un romanzo basato su un caso irrisolto, di cui si era occupato molti anni prima. Si tratta del brutale assassinio con stupro di una giovane e bellissima sposa. Non era mai riuscito a incastrare l’uomo che sospettava essere il colpevole. Torna al Palazzo di Giustizia per fare ricerche e chiacchierare con la sua ex capo, Irene Menendez Hastings (SoledadVillamil), il magistrato che nel frattempo è diventato procuratore capo. Benjamin (Darin) è di rango e classe inferiori alla giudice, come evidenziano i loro cognomi. Lei è pure sposata e lui non ha mai osato esprimere i suoi sentimenti per lei. È un film insolito, lungo ma che tiene con il fiato sospeso fino alla fine. È stato sorprendente trovarlo in uscita in America, fuori com’è dai canoni dei pochi film con sottotitoli che escono in Usa (ma solo in metropoli come Manhattan). Poi è stato nominato all’Oscar come miglior film straniero, ha vinto la statuetta e la distribuzione europea. È da festeggiare un altro film con Darin, un attore che vale la pena conoscere. Un cuento chino è la conferma che non ci eravamo sbagliati la prima volta. Leggero, divertente e con un Dio nascosto che lascia un sorriso nell’anima, è da non perdere.
MobyDICK
moda
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Signore in giallo di Roselina Salemi il colore dei taxi e dei buddhisti, del tour de France e degli scuolabus, delle margherite, della gelosia, dei meloni e degli elenchi telefonici. Sarà il nostro, quest’estate, con una coda anche in autunno, con l’unica avvertenza di scegliere bene la sfumatura per evitare di somigliare a un melone o a uno scuolabus. Da dove viene? Mah. Un po’ di pastello in primavera c’è sempre stato: verdino, acquamarina, giallino, celeste, rosa. Ma faceva tanto zia, o regina Elisabetta, che è anche peggio. E la battuta ironica di Miranda Priestly nell’indimenticabile Il diavolo veste Prada echeggia ancora: «Pastello in primavera? Avanguardia pura!».
È
Ci voleva un appello alla cromoterapia, dove il giallo esprime ricerca del nuovo, la liberazione dagli schemi, ed è sinonimo di «vivacità, estroversione, leggerezza, crescita, cambiamento». Ci voleva la crisi per aguzzare l’ingegno e tirar fuori dai capaci armadi del passato un colore difficile, vitaminico, adorato da Matisse e Gauguin, da Mirò e da
l’ha osato Hilary Clinton, definendolo «energetico», l’ha scelto una svolazzante Kate Middleton - ma a lei sta bene quasi tutto - e ha il suo posticino da un paio di stagioni nel guardaroba delle it-girl, da Olivia Palermo a Alice Dellal, passando per le divine come Kate Moss e le attrici emergenti come Vanessa Hudgens. Nel mondo delle fashioniste, basta Victoria Bechkam con l’impermeabile giallo intonato alle scarpe - e colpo di genio, una Birkin verde menta - per imporre la tendenza. Gli stilisti ci hanno provato nel 2008, ma non è andata bene. Hanno ripiegato sull’arancio. Ma ormai è febbre gialla, e il virus è in pieno contagio. Come se si fossero messi d’accordo, creativi diversissimi, da Anna Molinari a John Richmond, hanno, ciascu-
Contro il total black dell’economia globale (previsto, per la moda, un fatturato in calo del 5%) impazza lo yellow style. Con uno sguardo al passato (dai Venti ai Settanta, quando con Twiggy era un colore cult), ma anche a un futuro che si spera più luminoso no a modo suo, declinato lo yellow style a Milano, New York e Parigi: civettuolo e adolescenziale da Blugirl, neopop da Krizia, marino da Donatella Versace, cerebrale da Giorgio Armani, scenografico, anche troppo, Oscar de la Renta, con le sue gonne gonfie da invito a palazzo rifinite da giacchini di pizzo. Sfumature a scelta: lime, limone, narciso, canarino, pulcino, mimosa, girasole, zucca, paglierino, zafferano, per esorcizzare il total black dell’economia globale e illuminare i momenti più bui.
Un modello della collezione di Krizia
Kandijnski, un colore beneagurante da Ultimo Imperatore, esiliato dalle passerelle perché considerato, non a torto, impegnativo. Dicono che sta male a tutte, ma è un’esagerazione: abbiamo portato senza protestare marroncini e beige deprimenti, per non parlare di un colore chiamato asfalto… Piace molto a Michelle Obama, nonostante le numerose consulenti le spieghino che dovrebbe evitarlo,
Abbinato ai «classici» grigio, nero o beige (Giambattista Valli), alternato all’arancio, al rosso, al blu elettrico, al fucsia, al verde (Nicole Fahri), mescolato ad altri pastelli (con il celeste o il verdolino da Ralph Lauren, molto chic) tanto da evocare le vetrine delle pasticcerie Ladurèe, i macaron alla menta, alla mimosa, alla vaniglia e alla ciliegia, o giocato sul cambio di tonalità:
trench giallo sole, shorts giallo paglierino, sandalo giallo neon. Poi c’è, un capitolo a parte, la sorprendente tonalità chartreuse, sì, come il liquore, una speciale miscela di giallo e verde, protagonista a Parigi dell’Alta Moda Giorgio Armani Privè 2012: la collezione si chiama Metamorfosi e parla di cambiamento, di una donna serpente che si libera della vecchia pelle. In caso di imbarazzo per il total yellow, pur delizioso, di Marni (abitino pulito, minimal, dal quale viene fuori un sottogonna leggero), Just Cavalli (camicia trasparente e pantaloni fascianti, sexy), Mulberry (trench in vinile, borsa e scarpe coordinate), C’N’C’ (completo morbido con gilet), il giallo può essere più facilmente usato come highlight copiando Fendi: le scarpe traforate, un dettaglio di stile, a contrasto con il celeste brillante, la maxiborsa laccata o le unghie, giusto per fare sapere che lo sappiamo. Sarà un must nelle scarpe di vernice (divertenti quelle gialle e rosa o gialle e verdi) e negli accessori fluo, lo vedremo virare verso l’oro (visto addosso a Meryl Streep e a Stacy Keibler, recente fidanzata di George Clooney) negli abiti da sera, desideratissimo, forse per effetto dell’inesorabile corsa al rialzo dei lingotti.
Le Signore in giallo di quest’estate non devono risolvere misteri, al massimo vestirsi per andare al mare. La fatica sarà quella di rimixare po’ di anni Venti, un po’ di Cinquanta e un po’di Sessanta-Settanta, quando yellow significava soprattutto gli abitini geometrici dritti o a trapezio che stavano tanto bene a Twiggy ed era uno dei colori cult. L’unica cosa sicura è che continuiamo a voltarci indietro e tutta quella solare allegria è in realtà un tantino malinconica, per questo c’è così bisogno di bon ton, di una femminilità rassicurante, seducente e non aggressiva, come quella di Miuccia Prada: le gonne plissè, le lunghezze sotto il ginocchio, i bijoux di resina a forma di rosa illuminati da cristalli, il pizzo, i costumi interi anni Cinquanta, quasi dei body, lavorati con sagomature e ricami, i mix di giallo pallido e arancio portati con top a fascia arricciati oppure bluse morbide. Anche quello di Dolce&Gabbana, sfacciato, il giallo delle zucchine fiorite o delle margherite mescolate alle carote nelle stampe dei vestiti, per evocare un’atmosfera campagnola-ma-chic, festa-di-paese-ma-glam, ha un’allegria disperata. Se non i fatturati -il calo previsto è del cinque per cento - tirerà su almeno l’umore, ci auguriamo. Produrrà un’attitudine zen, almeno nei toni zafferano che fanno subito pensare al Dalai Lama. Il giallo è davvero l’ultima spiaggia.
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150 anni dall’Unità d’Italia, la rilettura critica del Risorgimento nazionale ha messo in discussione molti luoghi comuni. C’è chi ha riscoperto e valorizzato il ruolo di una parte del cattolicesimo, chi ne ha ridefinito il peso nel «fare gli italiani». Ricerche queste condotte in modo approfondito e caratterizzate da grande equilibrio. Su altre questioni, però, si sono scatenate le più agguerrite faziosità. C’è stato chi ha bollato l’unificazione come un grave danno per il Nord (leghisti), ma anche chi, con altrettanta baldanzosa sicumera, ha sostenuto le magnifiche sorti e progressive del Sud se solo i piemontesi non avessero vinto. Il libro di Gianni Oliva, Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni in Sicilia (Longanesi), rifugge dalle visioni manichee e propagandistiche, eppure rompe il tabù di un Sud fatto solo di arretratezza, di clericalismo, di ignoranza.
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Il Settecento ha rappresentato per il nostro Mezzogiorno un secolo molto importante: pieno di stimoli di ogni tipo e di grandi cambiamenti. Innanzitutto, radicali mutamenti culturali: valga per tutti il nome di Giovan Battista Vico (1668-1744 ), ma come dimen-
Gianni Oliva rilegge il Regno delle Due Sicilie, restituendogli la storia di una grandezza negata. Dal venticinquennale, illuminato governo di re Carlo alle cadute, con qualche luce, dei suoi successori cratico: l’immunità fiscale e la giurisdizione. Si passa poi a ridimensionare l’arbitrio del clero e le sue immunità. Anche in questo caso - come per quanto riguarda il feudo - i risultati sono inferiori alle attese, ma sono innegabili: basti pensare che viene abolito il tribunale del Sant’Uffizio. La sfida ai baroni e alla Chiesa si intreccia, durante il regno di Carlo di Borbone, con gli interventi sul piano economico. Il monarca riparte dagli studi ai quali si sono dedicati con solerzia e profondità nu-
L’epilogo, con Ferdinando II prima e Francesco II poi, è stato inglorioso. Ma il Settecento napoletano fu riformista e modernizzatore ticare una personalità quale quella di Gaetano Filangieri? Ed è innegabile che l’illuminismo trovi a Napoli, oltreché a Milano, i suoi migliori intellettuali italiani. È questo l’humus in cui opera re Carlo di Borbone, un governo venticinquennale il suo, che, pur fra numerose contraddizioni, introdurrà molte e importanti riforme. Prima di allora il Sud era stato governato grazie alla stretta alleanza fra i vicerè spagnoli e il baronaggio. Uno vero sfascio. Carlo di Borbone e il suo gruppo dirigente non devono, dunque, limitarsi ad ammodernare una struttura istituzionale preesistente, ma debbono ridefinire un’intera impalcatura statale, collassata dopo tanti decenni di dipendenza dall’autorità straniera e di marginalità politica. Per fare ciò non possono evitare lo scontro con i baroni e con la Chiesa. È un corpo a corpo lungo e difficile.Vengono messi in discussione, anche se solo parzialmente, i due puntelli del potere aristoanno V - numero 11 - pagina IV
merosi intellettuali meridionali. Dalla riflessione si passa a l’azione: vengono create numerose manifatture (la più famosa è quella delle porcellane di Capodimonte), e un’attenzione particolare si concentra sui commerci. Da una parte, si sottoscrivono accordi che garantiscono a Napoli di muoversi in sicurezza sui mari, di vendere e comprare dall’impero ottomano con reciproche agevolazioni; dall’altra si dà grande impulso all’industria cantieristica. L’al-
tro importante campo dove si fa sentire la politica riformatrice di Carlo di Borbone è quello degli studi universitari. Nel 1736 vengono create a Napoli diciassette nuove cattedre, fra cui quelle di botanica, di chimica, di astronomia. Carlo di Borbone impreziosisce il suo regno con due perle: la costruzione della reggia di Caserta e del teatro San Carlo. E anche l’esercito viene cambiato. Insomma, la modernizzazione dello Stato, dell’economia e della società meridionale c’è.
A questo merito ne vanno aggiunti almeno altri due: una politica estera guardinga, tesa a consolidare il proprio regno senza farsi prendere da pericolose smanie espansionistiche; la valorizzazione di un gruppo dirigente qualificato che ha le sue punte di diamante in due prestigiosi intellettuali quali Bartolomeo Intieri e Celestino Galliani. L’insieme di queste spinte al cambiamento fanno sì che Napoli e la Sicilia in quegli anni si pongano all’avanguardia degli Stati italiani. A questo proposito è utile riportare quanto di quegli anni scrisse Benedetto Croce: «Ai viaggiatori del Settecento non rimanevano nascosti i mali, che erano tanti e si mostravano soprat-
tutto a coloro che volessero visitare le province, ma alla miseria, all’ignoranza, alla barbarie faceva compenso il fatto che quegli stessi viaggiatori avvertivano l’affetto dei popoli per la monarchia a essi benefica, vedevano che si era occupati attorno ai mezzi per ristabilire l’agricoltura e dare forza alle leggi, si accorgevano che si combatteva la superstizione e il vecchiume clericale». Se il regno di Carlo segna un punto alto, anche se contraddittorio, del riformismo borbonico, quello del suo successore, Ferdinando («il re nasone») si indirizza con foga contro la Chiesa, con tanto di cacciata dei gesuiti, ma lascia corda ai baroni e all’assetto feudale. Il monarca ha un buon carattere e non dispiace al popolo. Si mescola con esso: va a pesca e vende il pesce al mercato. I soldi vanno in beneficenza. Ma il suo regno viene fortemente segnato dal vento della rivoluzione francese. In una prima fase - sino all’inizio 1898 - il giacobinismo nel Mezzogiorno è confinato a ristretti gruppi di intellettuali. Poi l’onda monta e i Borboni si appoggiano - per difendersi dai francesi - agli inglesi. Nelson nel dicembre del 1998 li convince che Napoli non è più sicura: FerdiA destra, uno scorcio del parco della Reggia di Caserta e, a sinistra, il Museo di Capodimonte. Sopra il re Carlo (a destra) e Ferdinando I di Borbone. In alto, una veduta di Napoli nel ’700 e la copertina del libro di Gianni Oliva
I Borb oltre i
di Gabriella M
boni i tabù
Mecucci
MobyDICK
il paginone
nando e Maria Carolina l’abbandonano alla volta della Sicilia. E subito dopo la fuga, nasce la repubblica giacobina del ’99. Questa costituisce un vero e proprio discrimine nell’orientamento di governo del sovrano che sino ad allora, pur appoggiandosi agli inglesi, non ha mai pigiato il piede sull’accelleratore repressivo, anzi ha mantenuto aperta la via a un moderato riformismo. Con la vittoria però dei giacobini, Ferdinando dà mandato al cardinale Ruffo di accerchiare Napoli attraverso le campagne.
La riscossa comincia con la rivolta sanfedista in Calabria. I successi della controrivoluzione sono rapidi anche in Puglia e in alcune parti della Campania. Queste vittorie si combinano con le difficoltà di Napoleone nella campagna di Egitto e con la nascita di un fronte comune delle potenze europee contro Parigi. I francesi decidono dunque di ritirare i loro soldati dal Mezzogiorno. La Repubblica partenopea, assediata dai lazzari e senza alleati, cade rapidamente. Il cardinale Ruffo propone, dopo la caduta dei giacobini, una politica «perdonista». La linea della riconciliazione non è però condivisa dal re. Ferdinando anzi imbocca la strada della repressione: un’intera classe dirigente finisce così sul patibolo. La vicenda di Luisa Sanfelice è emblematica della durezza inaccettabile, che va ben oltre la politica della restaurazione. La sua storia, oltre a ispirare grandi scrittori come Alexandre Dumas, commuove la gente. La donna infatti finisce a morte perché tradita dall’uomo che amava: un giacobino. A questi aveva rivelato, fidandosene, il segreto di un ufficiale sanfedista. La sua condanna diventa il simbolo della scelta di Ferdiando I, sempre più sordo alla proposta «perdonista» del cardinale Ruffo. Il brav’uomo, amato in passato dal popolo, passerà alla storia non più per le sue riforme, ma per il sangue di cui si macchiò. Il Settecento, che fu per Napoli un grande secolo di modernizzazione, terminò dunque molto male. Dopo un breve regno del figlio di Ferdinando I, Francesco, sale al trono Ferdinando II. Questi non è un monarca costituzionalista, ma punta con decisione a una strategia di riconciliazione: grazia tutti i condannati del 1820-‘21 e i ribelli del Cilento. Sovrano assolutista sul piano ideologico, vive da borghese ed è affascinato dal dinamismo e dalla capacità di modernizzazione economica di questa classe. È durante il suo regno che viene realizzata la prima ferrovia italiana: il 3 ottobre del 1839, infatti, Ferdi-
nando II sale sulla carrozza di metallo che lo porta da Napoli a Portici. Poi nasce la Napoli-Castellammare. Nel 1845 iniziano gli studi per un percorso ancora più ambizioso: la Napoli-Brindisi. Nel 1856 viene terminata la Napoli-Nola. Ma non finisce qui, sua maestà dà ordine di investire massicciamente nella cantieristica e nei porti, nonché di riorganizzare gli apparati burocratici e l’esercito. A conclusione di questo processo concederà la Costituzione. Il Mezzogiorno di Ferdinando II è dunque in gran movimento, avviato sui binari di una rassicurante trasformazione, sorretto da un governo sensibile alle esigenze della modernità.Tuttavia ciò non basta a recuperare i ritardi passati e a portare il Regno delle Due Sicilie ai livelli dei paesi più sviluppati. La secessione della Sicilia e l’iniziale liberalismo di Pio IX, nonché il dibattito confuso alla vigilia dell’inaugurazione del Parlamento di Napoli, spaventano però il sovrano borbonico. La reazione del 15 maggio 1848 è dura: chiusura dell’assemblea e repressione. La storia del Regno delle Due Sicilia si divarica così profondamente da quella della monarchia sabauda che prosegue la via costituzionale, al contrario dei Borboni, mantenendo statuto albertino. Gli anni Cinquanta a Napoli continuano a essere segnati da un governo decisamente illiberale.
In morte di Ferdinando II, sale al trono Francesco II. L’ultima fase del regno del padre e la pochezza del figlio costituiscono il colpo definitivo alla famiglia: i Borboni sono costretti a scappare dalle truppe garibaldine portate in trionfo dal popolo. L’inglorioso epilogo non cancella però - questa la tesi del saggio di Gianni Oliva - i precedenti contraddittori, ma a tratti anche luminosi dei sovrani delle Due Sicilie. Il Settecento napoletano fu riformista, modernizzatore in economia, amante della cultura e delle arti, capace di mettere in piedi uno Stato che i vicerè spagnoli e i baroni avevano distrutto. La svolta arrivò dopo il ’99. Anche il regno prima metà dell’Ottocento - di Ferdinando II - almeno per due terzi - ebbe connotati positivi: ma l’esperienza si chiuse malamente. Il saggio restituisce un’immagine drammatica dei Borboni: impegnati a riformare, ma incapaci a portare sino in fondo il loro programma un po’ per loro responsabilità, un po’ perché i guasti della dominazione precedente sono troppo grandi. Come una terribile condanna, il passato riaffiora di continuo e determina forti battute d’arresto nella strategia riformista. Sino alla sconfitta finale.
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altre letture di Riccardo Paradisi
Porfirio il testimone degli dei orfirio di Tiro, allievo prediletto di Plotino, fu il filosofo più temuto dai Padri della Chiesa per la svettante intelligenza e la sterminata erudizione, poste a difesa del paganesimo morente contro l’emergere della verità cristiana. In Sui simulacri (Adelphi, 287 pagine, 17,00 euro) sopravvivono pochi, preziosi frammenti delle intuizioni di Porfirio. Una straordinaria introduzione alla lettura simbolica delle immagini sacre, plastiche personificazioni dei fenomeni naturali e di visioni cosmologiche che creano un’intensa sintonia tra religione tradizionale e filosofia, Porfirio insegna come la comprensione delle figurazioni simboliche offra all’uomo la possibilità di avere cognizione delle cose ultramondane.
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L’altra Italia dei comuni virtuosi esperienza di una piccola associazione di comuni nata quasi per caso nel maggio del 2005 dimostra che è possibile un modo etico di «stare nelle istituzioni». Dimostra che è possibile che cittadini normali scendano in campo e indossino la fascia da sindaco, a tempo determinato, amministrando un comune. Con risultati dignitosissimi: piani regolatori a crescita zero, 90% di raccolta differenziata, mobilità dolce, indipendenza energetica, nuovi stili di vita, partecipazione. Viaggio nell’Italia della buona politica (Einaudi, 127 pagine, 14,00 euro) racconta il meglio delle esperienze sperimentate in quell’Italia che non va in televisione ma costruisce giorno per giorno, nell’ombra, un futuro sostenibile.
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Medioevo, quando il denaro non era Dio l denaro è un prodotto della modernità. Non è un protagonista del Medioevo, né dal punto di vista economico e politico né da quello psicologico ed etico; anzi come racconta Jacques Le Goff in Lo sterco del diavolo (Laterza, 219 pagine, 18,00 eu-
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ro), il denaro è meno importante di quanto non lo fosse nell’Impero romano. Non l’accumulo, non la ricchezza garantiscono il buon vivere ma il sostegno ai deboli. La pecunia è anzi sospetta, perché né il denaro né il potere economico sono svincolati dai valori cristiani. La moneta sonante tornerà a girare con lo sviluppo dell’economia cittadina e la fondazione, alla fine del XV secolo, di istituti di credito. In una parola con l’avvento del «capitalismo».
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Il guru che portò l’India negli Usa n Autobiografia di uno yogi, il famosissimo libro di Paramhansa Yogananda, il suo autore aveva parlato più dei suoi maestri che di se stesso. Per questo Swami Kriyananda, un suo discepolo diretto, ha pensato di raccontare gli aspetti meno conosciuti della vita di Yogananda (Una biografia, Ananda edizioni, 336 pagine, 15,00 euro). Il libro racconta l’avventura americana di Yogananda, i suoi prodigi, gli aneddoti che lo riguardano, i suoi lasciti di saggezza, un resoconto di prima mano degli ultimi anni della sua vita trascorsa negli Stati Uniti. Ma Kriyananda non si limita a raccontare aneddoti, presenta anche gli insegnamenti fondamentali del suo maestro. Il guru che esportò l’India in Occidente.
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La democrazia? Ha un futuro incerto ra tutti i regimi la democrazia è quello che si è mostrato più in grado di trasformarsi. Alessandro Ferrara in Democrazia e apertura (Bruno Mondadori editore, 154 pagine, 16,00 euro), ripensa la democrazia a fronte delle nuove sfide del XXI secolo e riflette su cosa differenzia una vera democrazia dalle sue imitazioni; su come la democrazia potrà funzionare in aggregati sovranazionali; sui nuovi poteri da distinguere e separare in società molto più complesse di quelle in cui fu pensata la tripartizione di potere legislativo, esecutivo e giudiziario; su come giustificare il pluralismo a chi vuole usare il voto democratico per usarlo; e sul nesso di democrazia e apertura. Un esito però non scontato.
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Riletture
MobyDICK
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ra il 1941 e il 1943 Benedetto Croce scrisse i due volumi dei Discorsi di varia filosofia che saranno pubblicati nel 1947. Quei due libri, nei quali si può leggere il celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, vedono ora nuovamente la luce nella Edizione Nazionale delle Opere del filosofo curata dalla casa editrice Bibliopolis. Furono concepiti e scritti in un momento particolare della storia personale del filosofo ma soprattutto dell’Italia e dell’Europa che per la seconda volta in venticinque anni era l’epicentro di un terremoto bellico che investiva tutto il mondo. In coda al secondo dei volumi è stata pubblicata una nota di Gennaro Sasso che legge i Discorsi in parallelo con quanto Croce nello stesso periodo annotava nei Taccuini di lavoro. In data 8 ottobre 1939 scriveva: «Tristezza per la situazione europea e il torbido avvenire. Che veramente torni la barbarie o che già sia tornata, e noi non la riconosciamo perché la pensiamo sempre sotto figura di quella degli Unni o dei Germani, laddove ora i barbari, invece di cavalli e carri, corrono in auto e in veivoli e maneggiano gli strumenti della tecnica più industre?». L’animo del filosofo era oppresso dalla situazione europea che sentiva avrebbe inghiottito anche l’Italia e l’angoscia, la tristezza e il torpore non gli davano tregua. Che fare? Ancora una volta, il rimedio era indicato nello studio: «Sono ricorso al solo valido aiuto che ancora mi resti contro la tristezza e il torpore, che è di meditare su qualche problema scientifico e di scrivere: così si ristabilisce la proporzione delle cose e si ritrova l’equilibrio». La sua etica del lavoro o, meglio, dell’opera era la medicina più sicura, eppure maturare l’equilibrio e soprattutto mantenerlo non era per nulla facile. Il 19 gennaio 1940 constatava che oltre a «perdere tempo», era «possibile trascorrere le ore senza far nulla: cosa tanto amara che poco più è morte». Non è un’esagerazione: Croce letteralmente odiava l’idea del «perdere tempo» e venirsi a trovare «in morbose condizioni di spirito conforme ai tempi» gli era insopportabile e quella angoscia che da sempre si portava dentro come un animale addomesticato saltava nuovamente fuori. Alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in guerra le sue giornate erano quelle di un «sonnambulo, o piuttosto un automa». Il giorno dell’annuncio dal balcone di Piazza Venezia dell’entrata in guerra, il 10 giugno, Croce è in viag-
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Croce
e il ritorno dei barbari in automobile Ripubblicati i “Discorsi di varia filosofia”, concepiti e scritti mentre l’Europa e l’Italia andavano incontro a un “torbido avvenire”
Narrativa
di Giancristiano Desiderio
libri
gio in treno per faccende amministrative: «Alle 18, si è udita alla radio la dichiarazione di guerra. Alle 20 sono partito per Foggia in vagone al buio, e tanto più dolorosamente fantasticando. All’albergo, ho letto per alcune ore nella notte un libro di memorie sull’Italia di sessant’anni fa!». Tra il 1939 e il 1940, in queste condizioni di spirito, Croce ultimò Il carattere della filosofia moderna, che contiene una rivisitazione o approfondimento del suo liberalismo, ma il libro sarà sequestrato perché uscito senza permesso. Il timore di Croce rispetto alla guerra era la stessa fine della civiltà. L’11 giugno nei Taccuini notava che proprio il lavoro dell’amministrazione delle proprietà e dei contratti agrari gli aveva giovato costringendolo a «mettere per ora in primo piano i miei doveri di amministratore e paterfamilas, e nei ritagli provvedere a dare assetto a tutta la mia opera letteraria, come se dovessi chiudere questo che è stato il lavoro di tutta la mia vita, e in previsione di una prossima morte. Poi se mi avanzerà tempo, se mi tornerà l’ispirazione, farò ancora qualche cosa in questo campo». I due volumi dei Discorsi - come poi Filosofia e storiografia e Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, per citare solo alcuni titoli - sono il ritorno dell’ispirazione che per Croce è soprattutto - si direbbe - la manutenzione del suo sistema di pensiero che, curato, gli assicurava una operosa vita di pensiero e azione. I Discorsi di varia filosofia, divisi come sono in logica, estetica, etica, storia si battono contro le tendenze irrazionalistiche che avevano condotto alla crisi e al tramonto dei sistemi liberali e ora infiammavano ancora l’Europa e - come giustamente nota Gennaro Sasso sono così articolati e vari che fa davvero impressione e meraviglia il sistematico e non rapsodico trapassare da un argomento all’altro, il suo interno mutamento di ritmo che si rivela funzionale al mantenimento della laboriosità del filosofo. Il tutto venato da una malinconia di fondo che è giustificata dagli avvenimenti e dalle morti. Come quella, ad esempio, di Luigi Albertini, storico direttore del Corriere della Sera. Il 29 dicembre 1941 Croce scriveva nei Taccuini: «Eravamo in tre i principali oppositori al Senato contro la Conciliazione e in altre occasioni: Francesco Ruffini, Albertini ed io, e ora sono io il solo superstite».
Paolo e Luisa quella notte all’Asinara
rancesca Melandri torna con il suo secondo romanzo, Più alto del mare (Rizzoli, 238 pagine, 17,00 euro) a indagare i conflitti sociali vissuti dal punto di vista di personaggi comuni. L’aveva ben fatto, molto ben fatto, con il suo esordio (Eva dorme, 2010), una storia ambientata in Alto Adige tra prima guerra mondiale e giorni nostri. Lunga cavalcata che torna sulle vicende di un paese conosciuto oggi per la sua opulenza vacanziera e non per il tormentato passato storico attraversato da vere e proprie guerre civili e atti di terrorismo. Il nuovo romanzo stringe il cerchio delle vicende pur captando fatti ed episodi di storia recente, come ad esempio l’elemento legato al terrorismo degli anni Settanta, in particolare, senza entrare nello specifico, l’allusione al rapimento Moro. La narrazione, costruita sull’incrocio a chiasmo di quattro personaggi, è ambientata all’Asinara, l’isola con il carcere di massima sicurezza dove furono rinchiusi brigatisti rossi e, a partire dagli anni Ottanta, camorristi e mafiosi sottoposti al carcere duro del famoso 41-bis. Il luogo che vede incrociarsi più vite a confronto è l’apoteosi della natura, un’isola che è prima di tutto espressione della potenza del mare e che diviene immediato contrasto con la reclusione, con i carcerati: «l’isola li investì in pieno con
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di Maria Pia Ammirati il suo aroma… i cuori saltarono un battito come il ricordo di un grande amore perduto». Non si può certo dire che l’isola accolga benevolmente i visitatori e i reclusi: l’asprezza e la difficoltà di attracco sono i caratteri più propri del luogo che grazie a questi aspetti diviene spazio adatto all’isolamento dal mondo per quelli che vengono considerati uomini particolarmente pericolosi. Ma attorno ai reclusi - assassini, terroristi e pedofili - gira l’umanità destinata al loro accudimento: una sorta di strano paradosso il meccanismo di recludere e punire e nel contempo la necessità pura e semplice di accudire e custodire i carcerati. Così funziona il carcere, si reclude per punizione e poi si deve badare alla sussistenza e alla vita dei carcerati. Così avviene anche per l’Asinara; lontani dal mondo civile vivono i carcerati in isolamento e i custodi, gli operai, i funzionari e tutti coloro che lavorano per il carcere di massima sicurezza. Sull’isola che profuma di «salmastro di fico e d’elicriso» arrivano anche in maniera continua e scadenzata i visitatori, i parenti dei carcerati. Arrivano con la nave attraversando il braccio di mare che li separa dall’isola madre. Così sbarcano una sera di fine esta-
È ambientato nel carcere di massima sicurezza il nuovo asciutto romanzo di Francesca Melandri
te, prima che i carcerati provino la famosa insurrezione del 1979, Paolo e Luisa. Sono un padre e una moglie, due persone che in balia di un mare che minaccia tempesta arrivano carichi di malinconie e pensieri per far visita ai loro carcerati. Paolo ha il figlio rinchiuso per atti di terrorismo e per omicidio. Luisa ha il marito che è passato all’Asinara dopo aver ucciso una seconda volta un secondino del carcere di Volterra. Due persone opposte i visitatori: Paolo, professore di filosofia, è vedovo, Luisa è una contadina madre di cinque figli. Per ventura i due si trovano nella condizione di dover rimanere nell’isola una notte perché bloccati dal Maestrale, costretti dalla sorveglianza dell’agente carcerario Nitti a dormire insieme nella stessa stanza. La remissività dei due personaggi fa a pugni con la protervia dei loro parenti, un figlio che sembra instupidito dall’odio sociale e dalla lotta per la rivoluzione, un marito violento e anaffettivo chiuso al mondo. La storia è quindi quella di due persone normali calate di forza in un mondo di violenza e ottusità e per caso finiti in un luogo ferino e primitivo eppure dolorosamente bello. Un romanzo ben costruito e senza lirismi, con una forza della struttura ma anche della storia e dei sentimenti. Unica riflessione più critica, un’espressione a volte cedevole (troppo) all’uso della metafora. L’asciuttezza della prosa avrebbe ancor più giovato al testo.
MobyDICK
Jazz
spettacoli
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di Adriano Mazzoletti ancano oltre tre mesi alla prossima edizioni di Umbria Jazz, ma sono già stati annunciati i nomi di alcuni musicisti che saranno i protagonisti dell’edizione di quest’anno, che inizierà il 6 luglio e terminerà domenica 15. Si tratta di Chick Corea e Stefano Bollani che cercheranno di ripetere il successo che ebbero nel corso della 18° edizione di Umbria Jazz Winter a Orvieto, concerto che Ecm ha pubblicato sul disco di cui ho riferito in un precedente articolo. Nella stessa serata, quella del 6 luglio, Bollani, dopo Corea, si confronterà con il solista di bandoneon Hamilton de Hollanda, brasiliano di Rio, uno dei maggiori esponenti del nuovo choro, già ascoltato, con il suo quintetto, a Roma nel luglio di due anni fa. Due celebri chitarristi, John Scofield e Pat Metheny saranno poi i protagonisti dei concerti di lunedì 9 e giovedì 12 luglio, il primo con la sua Hollowbody Band, il secondo in quartetto con Chris Potter, Ben Williams e Antonio Sanchez. Martedì 10, un’altra importante serata, quella con il Quintetto co-diretto dalla tromba Dave Douglas e dal sassofonista Joe Lovano e della Liberation Orchestra del contrabbassista Charlie Haden che ospiterà la pianista Carla Bley. La sera di sabato 14 sarà la volta del Quartetto di Wayne Shorter e della ventiseienne cantante Melody Gardot. Ma un concerto davvero da non perdere sarà quello della sera precedente con Sonny Rollins per la sua unica data italiana. L’ottantaduenne sassofonista farà certamente ascoltare quelle sue introduzioni distese al di là dell’attesa, quelle inattese citazioni di altri brani, quei cambiamenti improvvisi e bruschi, tipici del suo stile ineguagliabile. Posso immaginare che anche nel prossimo con-
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Televisione
Riascoltando Gil in attesa di Sonny certo questo sassofonista, ultimo rimasto di una immensa epoca del jazz - gli anni Sessanta - si presenterà come la messa in scena di un atto di grande generosità e di un viaggio infinito. Dal 1973 sono stati molti i concerti di questo festival passati alla storia del jazz. Alcuni sono stati registrati dalla televisione, molti altri dalla radio, nessuno fino a poco tempo fa pubblicato su disco, ma ecco finalmente la casa discografica Egea di Perugia mettere sul mercato una selezione di notevole interesse. Si tratta delle esibizioni dell’Orchestra di Gil Evans a San Francesco al Prato del 12 e 19 luglio 1987. Uno dei concerti di Gil Evans di quell’anno era già stato pubblicato in una edizione non ufficiale, a causa della presenza di Sting che si era esibito con l’orchestra del celebre leader canadese. Quell’incontro, che eb-
be luogo alla stadio di Perugia, di fronte a 25 mila persone non soddisfece né gli appassionati di jazz né tantomeno quelli del rock, ma fu indubbiamente un evento. Nei due cd pubblicati oggi, invece, si ascolta solo l’orchestra di diciannove elementi, ripresa nei concerti che Evans diede nella chiesa duecentesca di S. Francesco al Prato, ormai sconsacrata. Esibizioni di altissimo livello che hanno spinto giustamente la casa discografica a scrivere sulle copertine dei due dischi: «le indimenticabili notti di S. Francesco al Prato». Indimenticabili non solo per la musica, ma anche per la magia di quel posto e per i concerti che terminarono all’alba. Gli appassionati di jazz e non solo quelli italiani, che attendevano con ansia la pubblicazione di quegli eventi, possono essere più che soddisfatti. Più che un’or-
chestra, che eseguiva una serie di brani, era un vero e proprio laboratorio musicale, merito soprattutto dell’organizzazione estremamente libera che vigeva all’interno dell’orchestra in cui erano presenti musicisti dell’avanguardia come il trombonista George Lewis e il sassofonista inglese John Surman. Questa sera invece ad Acquapendente, alle porte dell’Umbria, al Teatro Boni, uno di quei meravigliosi teatri ottocenteschi di cui è ricchissima la provincia italiana, andrà in scena lo spettacolo musicale Jazz a Roma negli anni Sessanta. Saranno proiettati film assai rari come I Blues della Domenica con la Roman New Orleans Jazz Band mentre si esibiva al Mario’s Bar di via di Porta Pinciana, ma anche parte del concerto che il Quartetto di Dave Brubeck diede all’Aula Magna dell’Università La Sapienza nel 1959. Durante la serata sarà ricordato Lucio Dalla jazzista da parte dei musicisti che suonavano con lui quando, a diciassette anni, giunse a Roma nel 1960. Quei musicisti facevano parte della Seconda Roman New Orleans Jazz Band che si esibirà questa sera con una nuova formazione comprendente Guido Pistocchi, Michele Pavese, Gianni Sanjust, Mario Cantini, Guido Giacomini, Roberto Podio.
Bella l’Italietta povera di Dorando Pietri
di Pier Mario Fasanotti parte i quiz, gli spettacolini, il riadattamento di format stranieri nel campo dell’intrattenimento, i talk-show, la tv attrae per il suo contenuto narrativo. È qui che l’asino cade, è qui che il cavallo può dignitosamente galoppare. Tempo fa su queste colonne il critico letterario Angelo Guglielmi, a proposito del futuro del romanzo (tema spinoso e quanto mai balbettato più che intimamente esaminato) sosteneva che la via della speranza consiste nell’abbeverarsi nel grande catino della storia. In modo non necessariamente pedissequo, anzi manovrando la fantasia sui binari del verosimile. Mi è venuta in mente questa tesi guardando, e piacevolmente, Il sogno del maratoneta (Rai 1, due puntate prodotto da Luca Barbareschi), con un bravissimo protagonista, Luigi Lo Cascio. La seconda puntata ha sfiorato i quattro milioni di spettatori, battendo alla grande certi prodottini made in Usa. Il maratoneta è l’uomo comune che ha in testa un’idea
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fissa, quella di vincere, di riscattarsi, di essere il più bravo tra gli altri podisti. Malgrado sia mal nutrito, addestrato alla buona (toccante l’interpretazione del fratello e prima ancora dall’addestratore, per così dire «popolare», Alessandro Haber), considerato un mezzo matto. Uomo tuttavia determinatissimo, anche nell’amore e nell’esprimere - lo fa con prove muscolari, di sfide tutte fisiche questo sentimento, che inevitabilmente incontra seducenti attrazioni come la bionda e disinvolta Laura Chiatti, rap-
presentante sociale d’un tipo di donna che in quel momento è più polo d’attrazione, anche politica, che non scandalo. Siamo a Carpi, nell’Emilia dei primi del 1900. Al regista Leone Pompucci va il merito di aver descritto l’Italietta povera, quella con le pezze al sedere, i maglioni ruvidi, le bretelle, le donne scalze, la carne come oggetto prezioso sulle tavole. Un Paese dal quale si emigra, portando con sé un certo senso di vergogna ma anche un buon carico d’orgoglio e di voglia di rivincita. Il regista compie un’o-
perazione riuscita: la telecamera, a parte l’inquadratura d’una piazza, inquadra campi, rivoli, fiumiciattoli, sentieri, alberi, viottoli sterrati. È l’Italia delle noncittà, agricola, con padroni ricchi e perfidi (ahi, c’è sempre il rischio calcare la mano su profili caricaturali, quasi fumettistici) e con «la classe bassa» che trema ancora nel pronunciare la parola «sciopero»; gente tuttavia solidale, che balla sui prati (ahi, talvolta si lambisce il paganesimo bucolico), e che alla fine s’identifica in Dorando Pietri, il maratoneta che vuole partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1908 (vincerà, ma sarà squalificato: «Non hanno vinto le gambe, ma gli avvocati»). Una vicenda intensa, anche perché dietro c’è il romanzo di Giuseppe Pederiali (Garzanti). E a questo proposito una considerazione solo in apparenza banale: il buon cinema è ancora più buono se si ispira a ottimi romanzi. Un motivo, questo, che spiega anche l’ammuffimento del teatro, che snobba linfe narrative vivacchiando sul passato, più o meno ben reinventato.
Essere & Tempo
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a Cuzco a Puno si può scegliere il treno (più panoramico ma simile durata del viaggio) o l’autobus più scomodo che però si ferma in villaggi interessanti. Andahuaylillas è uno di questi con la chiesa di San Pedro tappezzata di grandi quadri con cornici barocche dorate da cui spuntano i segni del sincretismo inca e cattolico: teste di animali e croci. La volta è poi minuziosamente affrescata tanto da essere chiamata la Cappella Sistina dell’America. Religiosità da una parte, intimidazione culturale dall’altra. Oppure Raqchi con alte mura inca in adobe (molto restaurate), una piazza come si deve con chiesa e mercatino colorato pieno di animali e gente dalla pelle bruciata dal sole. Molte case portano sul tetto due tori di terracotta di buon auspicio, con una croce in mezzo. Dopo il passo Raya a un’altitudine di 4300 metri si inizia la modesta discesa verso Puno dove si arriva dopo 10-12 ore complessive di viaggio. La cittadina è sulle rive del lago Titicaca (forse significa la «roccia del puma»), a poco più di 3800 metri, in una una posizione da capogiro con le montagne brulle attorno e il lago sterminato davanti. Purtroppo, le case tutte in progress con svettanti tondini di ferro per future superfetazioni, intonaco neanche a parlarne, sembrano di una precarietà inquietante in una delle zone della terra a maggiore rischio sismico. Spesso mancano anche le finestre, in una località dove la temperatura anche in estate difficilmente supera i 10 gradi. Praticamente sconosciuta l’acqua calda o il riscaldamento. L’unico motivo per arrivare fino a qui è una possibile visita agli Uros (o Huros), gli uomini dell’aurora. Sembra però che quando si chiede se quello sia il loro vero nome, rispondano che si tratta invece di un insulto da parte di altra gente, mentre la loro vera appartenenza sarebbe al popolo dei kjotsuñi, o uomini del lago (se ne capisce il motivo), che da secoli, prima dell’arrivo degli Inca, li ospita su isole galleggianti non troppo lontane dalla riva. Ve ne sono una ventina abitate, ma alcune non sono visitabili per l’inospitalità dei residenti che sembrano temere il «contagio» degli stranieri.
MobyDICK
ai confini della realtà
D
Un’idea non del tutto paranoica visto che la decisione di lasciare la terraferma, presa qualche secolo fa, è derivata dai continui soprusi e attacchi di altri popoli locali che volevano appropriarsi delle loro fertili terre sulle rive del lago e che alla fine vi riuscirono. Così, gli Uros si rifugiarono tra la vegetazione lacustre che conoscevano molto bene, ma come
Gli uomini del lago che aspettano la pioggia di Leonardo Tondo siano arrivati a ingegnarsi a rimanere a galla è coperto dal mistero. Certo è che impararono ad ammassare le piante lacustri (totora) e a sovrapporvi strati e strati di steli e radici fino a uno spessore di cinquanta-settanta centimetri che grazie all’aria contenuta nelle stesse fibre e a quella provocata dalla fermentazione si mantengono in superficie parecchi anni. La stessa totora non solo è commestibile con un vago sapore dolciastro ma si presta a un’infinità di usi:
capanne, letti, barconi a remi (qualcuno si è fatto conquistare dalla comodità di un fuoribordo) decorati sul davanti con la testa di un puma che richiama il significato di Titicaca.
Ogni isolotto ha un’estensione di duetrecento metri quadrati ed è ancorato con dei pali al fondo del lago; in più sono anche legati gli uni agli altri fino a formare una sorta di atollo attorno a un largo specchio d’acqua. Ci vivono sopra
Gli Uros abitano sul Titicaca, su isole galleggianti. Pur vivendo a 3800 metri e senza riscaldamento, non conoscono né influenza né raffreddore. La singolarità dei loro costumi richiama folle di turisti, ragione per cui il governo centrale li ha riconosciuti proprietari dei loro atolli
da tre a dieci famiglie in capanne arredate con tappeti tessuti dalle donne, molto colorati come un turista si aspetta arrivando in Perù. Sui tetti si vede qualche timido pannello solare. Quando le famiglie crescono o necessitano di una loro indipendenza o intimità, si prepara un’altra isola o si allarga quella dove si sta. Al centro si ricava una piccola vasca che comunica con il lago, magari anche utilizzata per igiene personale (rimane ignoto il destino delle deiezioni personali). Un tempo lasciavano andare anche i morti nell’acqua; poi gli è stato proibito per motivi igienici. Accanto c’è sempre una stufa accesa e poco distante un gabbiotto dove si allevano polli o porcellini d’India che sono invece originari del Perù, si chiamano cuy e sono una prelibatezza della cucina locale. Nonostante la mancanza di riscaldamento, non sanno cosa sia un raffreddore o un’influenza, probabilmente per i benefici dell’aria aperta (diversa la storia dei reumatismi). Da qualche anno alcuni maestri arrivano da terra per l’insegnamento e questo passo avanti della loro società con ogni probabilità segnerà nel giro di poco tempo la fine della loro attuale cultura. Il motivo è per lo più pratico; i ragazzi vogliono continuare gli studi e le famiglie li seguiranno sulla terraferma. Da lì sarà sempre più difficile riadattarsi a una vita che vista dall’esterno ha un suo fascino ma rimane in aperto contrasto con la naturale tendenza umana a migliorare la propria condizione rendendo l’esistenza più confortevole. Il giorno in cui ero sul posto, una processione coloratissima di barche è partita dalle isole per arrivare in città, un percorso di poco più di un’ora, per un’occasione importante. Il governo centrale dopo anni ha riconosciuto agli Uros la proprietà delle loro isole, anche in virtù delle folle di turisti che richiamano. Sarebbe interessante conoscere la disputa legale su una proprietà immobiliare che è allo stesso tempo deperibile e, possibilmente, in movimento. Sulla via verso l’aeroporto chiedo alla guida la ragione delle case sempre in costruzione. Spiega che la loro economia è legata alla pioggia e che se manca, loro non hanno soldi, mentre le banche vogliono il pagamento dei mutui in ogni caso (versione locale della precarietà del lavoro). Cosicché costruiscono fin dove possono con i fondi a disposizione e aspettano di averne altri per continuare. Un ultimo sguardo a quella foresta di mattoni, blocchetti, cemento e ferri verso il cielo e li trovo colorati, intensi, vissuti, politicamente corretti, l’espressione essenziale di vera arte povera.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Clausola antigravidanza nei contratti ultraleggeri della Rai... di tutto di più ISTITUZIONE DEL PARCO MEDITERRANEO “LA GRANDE LUCANIA” (II PARTE) Tutta la Lucania storica, sotto i Romani all’inizio del III secolo, diventò, secondo le letture di Strabone e Plinio, la III Regio augustea: comprendeva la Lucania, il Cilento e la Calabria. Successivamente, con l’avvento dei Longobardi di Benevento nel 750, l’antica Lucania, senza la Calabria, formò il castaldato di Lucania. In seguito, con lo smembramento del ducato beneventano dei Longobardi, il Cilento fu donato ai Sanseverino e passò col principato di Salerno, dividendosi così dalla restante parte della Lucania antica, la quale passò sotto il dominio bizantino. La Grande Lucania fu dissolta nel territorio e nel toponimo: il Cilento rimase nel tempo con Salerno, mentre la parte orientale della regione lucana con i Bizantini assunse il toponimo di Basilicata, che si sovrappose all’antico nome di Lucania. I Normanni, Federico II, gli Angioini, gli Aragonesi, in epoche successive, continuarono a tenere divisa la Lucania in Basilicata e in Principato di Salerno, ma non le sue tradizioni, la cultura, il fattore linguistico-dialettale, le sue soffocate aspirazioni. Avvicinandoci ai nostri tempi, la Politica, precisamente nel 1806, modificando il corso della storia, pensò di riorganizzare l’assetto amministrativo dei territori interni della Basilicata. L’artefice dell’operazione fu Giuseppe Bonaparte che, con un editto, divise in tre Province il territorio, elevando la città di Potenza a capitale. I francesi occuparono il Regno delle due Sicilie per punire il tradimento del Borbone, venuto meno al patto di alleanza stipulato con la Francia e introdussero alcune riforme, giustificandole come strumenti di governo idonei per garantire alle popolazioni meridionali la pace interna e l’ordine sociale.Tuttavia è stato vano stravolgere, nei secoli, i perimetri dell’antica Lucania per indebolire l’identità delle sue popolazioni. La Politica, infatti, non ha saputo interpretare la storia millenaria di un popolo dalla forte tempra, che ha saputo conservare nel proprio Dna i geni di una personalità marcata che manifestandosi riaccende la fiaccola della speranza: la ricomposizione della Grande Lucania. Ieri, ma soprattutto oggi, sono anche le politiche del Governo campano, così come sono rappresentate, a far scattare nel cuore del Cilento e del Vallo di Diano quel visibile e reciproco desiderio di stare insieme, di unirsi alla Basilicata. Una specie di bisogno che si riscontra in ogni angolo della società civile, soprattutto negli ambienti produttivi e culturali più liberi. Gaetano Fierro
È davvero scandalosa la “clausola antigravidanza” inserita nei “contratti ultraleggeri” della Rai. Ma non solo di gravidanza si tratta; ancora più scandalosa è la logica del contratto emerso da questa vicenda, che evidenzia una inaccettabile penalizzazione e discriminazione per i lavoratori flessibili. Se un lavoratore regolarmente assunto si ammala, si infortuna, o aspetta un bambino, gode, giustamente, di molte protezioni; se è “consulente”- cioè precario - l’azienda può interrompere unilateralmente il rapporto di lavoro, «senza alcun compenso o indennizzo a suo favore». La Rai almeno in questo purtroppo - svolge la sua funzione di servizio pubblico: è specchio fedele del Paese, di un Paese in cui si parla di oltre due milioni di lettere di dimissioni in bianco firmate da giovani donne “in età da bambino”(se resti incinta, te ne vai) o di dipendenti Fiat che se fanno ricorso a congedi parentali o ad una qualunque delle facilitazioni previste con bambini piccoli devono rinunciare ai ricchi premi di produzione! Una schizofrenia sociale vista la sempre più diffusa cansapevolezza di essere in pieno inverno demografico e viste le discussioni in Parlamento per arrivare addirittura al congedo di paternità obbligatorio. Eppure in Rai, qualcuno ha scritto quel contratto; qualcuno lo ha approvato (dov’erano i sindacati?). Se a Viale Mazzini, costantemente sotto i riflettori, la cosa è venuta fuori, quanti altri contratti capestro simili a questo sono oggi sottoscritti da tanti giovani? Una cosa è certa: se qualcuno del Forum delle associazioni familiari avesse letto quel contratto, mai lo avrebbe accettato, anzi, lo avrebbe subito denunciato. E la Rai avrebbe evitato l’ennesima brutta figura!
Francesco Belletti
BASTA ILLUDERE GLI ITALIANI Come è possibile mandare in onda una pubblicità come quella della Sisal, che sul ritornello“Lasciatemi sognare con la schedina in mano”fa passare un messaggio ingannevole, diseducativo e ancor più offensivo verso i cittadini italiani, lasciando intendere che i sogni e gli obiettivi di una vita non si realizzino lavorando, ma giocando al Superenalotto. Da un’azienda concessionaria dello Stato, ci aspettiamo maggiore responsabilità, sobrietà e tatto nei confronti dei tanti italiani veri che soffrono gli effetti della crisi, non messaggi illusori che propongono false soluzioni ai loro problemi e li espongono al rischio di aggravare ulteriormente le loro condizioni economiche.
Lettera firmata
ESPERIENZA ALL’ESTERO PER TUTTI NON PER POCHI PRIVILEGIATI Il problema certamente esiste. L’anno all’estero per i giovani laureati andrebbe promosso e sostenuto dalle nostre università altrimenti rappresenta un onere difficilmente sostenibile. Direi di più dovrebbe essere istituzionalizzato. L’università avrebbe il com-
pito, dopo aver sentito la volontà del giovane, di cercare insieme a lui la struttura più adatta con cui creare una forma di collaborazione e di scambio. Lo studente lavorerebbe all’estero per almeno un anno con l’impegno di portare a casa una formazione il più completa e innovativa possibile nel proprio campo. L’università potrebbe sostenerlo con un budget che riguardi anche una sistemazione dignitosa nella sede scelta. Forse con queste premesse sarebbero molti di più i giovani stimolati a fare questa esperienza. Oggi sono abbastanza pochi proprio perché frenati dall’impegno troppo oneroso.
Alessandro Bovicelli
LE APP DEL CRISTIANO Quaresima e Santa Pasqua AD 2012 al centro del Cristianesimo. Le App del Cristiano sono nella Parola di Cristo. Il Papa Benedetto XVI esorta: «Nella vita di fede chi non avanza retrocede. Dio ci chiede di essere “custodi“ dei nostri fratelli (Gen 4,9). La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di “anestesia spirituale”che rende ciechi alle sofferenze altrui. Mai dobbiamo essere incapaci
L’IMMAGINE
CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Manteniamo gli oceani in salute È nata l’alleanza “salva oceani”. L’unione comprende governi, organizzazioni internazionali e non governative, rappresentanti della società civile.Tutti accomunati da un unico scopo: proteggere gli oceani da inquinamento, pesca intensiva e degrado degli habitat. Il primo obiettivo è ricostruire almeno la metà degli stock ittici mondiali. È un’ottima notizia. All’iniziativa, chiamata The Global Partnership for Ocean, partecipano, tra gli altri, Iucn, Wwf, Noaa, Fao, Unep, Unesco ed è realizzata dalla Banca Mondiale che in questo modo punta ad unire scienza, tutela ambientale, istituzioni e settore privato. Il nuovo supporto finanziario è rivolto principalmente a migliori sistemi di governance della pesca, all’aumento delle aree marine protette, all’intensificazione degli sforzi contro l’inquinamento e il degrado, nonché una migliore gestione delle coste. Sul piatto dovrebbero esserci, almeno per la prima fase, 300 milioni di dollari. A regime si intende arrivare a generare circa 2,1 miliardi di dollari destinati alla protezione degli oceani. Tra i target dell’alleanza lanciata dalla World bank c’è la ricostruzione di almeno la metà degli stock ittici mondiali impoveriti.
di “avere misericordia” verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero».Tre sono le App fondamentali del Cristiano e non può mancare il dono della reciprocità. In preparazione della XLIX Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Il vigore della risposta di san Pietro al divino Maestro: «Tu lo sai che ti voglio bene» (Gv 21,15), è il segreto di una esistenza donata e vissuta in pienezza, e per questo ricolma di profonda gioia». I due volumi scritti dal Santo Padre sulla Persona di Gesù di Nazareth, ci invitano alla riflessione per «una comprensione sempre più profonda e compiuta della figura reale di Gesù Cristo, quale può scaturire solo dall’ermeneutica della fede posta in fecondo rapporto con la ragione storica». La cinematografia mondiale è invitata a considerarli con molta attenzione, magari per la produzione del primo grande kolossal in 3D fedele alla realtà completa dei fatti. Se tutti sono assetati e desiderano abbeverarsi alla Fonte della vera Acqua fresca che zampilla e disseta per sempre, come comportarsi se non come agnelli furbi e veraci?
Nicola Facciolini
TV MACABRA
APPUNTAMENTI Venerdì 20 aprile - ore 11- Piazza Pilotta 4 Centro Convegni Matteo Ricci - Roma
LE VERITÀ NASCOSTE
Il piccolo fiammiferaio Hanno occhi che ruotano in modo indipendente, una coda prensile, portamento buffo e sono talmente minuti da poter stare comodamente appolaiati sulla capocchia di un fiammifero. Vivono nella bassa boscaglia delle foreste del Madagascar le 4 nuove specie di camaleonte del genere Brookesia, individuate da un team del Zoological State Collection di Monaco
Parlare di tv in questo momento può sembrare fuori luogo, ma non è un problema solo di organizzazione interna ma anche di qualità dei programmi. Basterebbe fare una semplice indagine per scoprire, e la cosa si potrebbe fare anche con uno zapping per alcune sere, che in tv si parla solo di morte. Morte in ospedale, morte nelle famiglie; assassini, stupri e violenze varie; chi l’ha visto e chi l’ha trovato sepolto; cartoni horror e film di streghe per ragazzi; film serali di morti annunciate, disastri e malattie terminali. È troppo, e a questo punto uno inizia a pensare che la cultura della vita non crei più alcun incremento di ascolti.
Bruno Russo
mondo
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«A un anno dall’inizio della rivolta, l’unica speranza è Kofi Annan»
Delenda Damasco Per Gregorio III, patriarca cattolico melchita, la Siria è destinata ad essere distrutta e a precipitare nel caos. E non solo per colpa di Assad di Antonio Picasso uesta è la guerra del mondo arabo. Diviso dai tanti interessi stranieri». A una anno dallo scoppio della guerra civile in Siria, la visione di Gregorio III Laham, Patriarca della Chiesa melchita, non cambia. «Il mondo avrebbe dovuto aiutare il regime a cambiare. Invece è rimasto immobile e continua a osservarci mentre sprofondiamo nel disordine». Abbiamo incontrato Sua Beatitudine pochi giorni fa, mentre era a Piacenza, dopo che aveva compiuto una lunga visita in Europa, per incontrare i confratelli di rito greco cattolico e, al tempo stesso, percepire il pensiero occidentale di quel che sta accadendo a Damasco. Patriarca Laham, la Siria è famosa per essere il Paese dei misteri. Adesso, anche
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Ne sono convinto! Sappiamo che le armi circolavano nel Paese prima dell’inizio delle manifestazioni. Come pure che la Siria è piena di depositi di armi illegali che ormai la polizia non riesce più a scovare. Del resto, siamo in una posizione di passaggio tra da sempre: fra la Turchia e la Penisola arabica. Un punto di transito inevitabile. E poi intendiamoci, un poliziotto lo sanno pagare tutti. Anche prima? Anche quando Assad aveva ben saldo il potere? Anche prima. Anche quando gli alawiti controllavano il territorio, con i loro clan e gli apparati di sicurezza. Una mazzetta la accettano tutti anche se si è alawiti. Certo, adesso è tutto molto più semplice. Nessuno sta più di guardia alle frontiere. I gruppi di criminali comuni, o di terroristi,
L’opposizione è troppo divisa. Non può pretendere di essere l’alternativa valida a un regime che ha garantito stabilità per oltre quarant’anni. E poi non ha un vero esercito che l’appoggi in questa guerra civile, sono molte le ombre che gravano sul regime e anche sul fronte dell’opposizione. La domanda è molto diretta: chi spara a chi? La Siria è caduta nel caos. Tutto il Medioriente è stato attraversato da questo tsunami rivoluzionario. Ora il terrorismo straniero sta prendendo il sopravvento. Qualche giorno fa, quand’ero in Germania, mi sono messo a leggere i giornali europei, un po’ di tutte le lingue, e mi sono accorto della visione assolutamente parziale che voi avete delle cose. È sbagliato dire che il governo siriano sta uccidendo civili innocenti. Anche i manifestanti hanno le loro armi. Anzi, sono molto più organizzati di quanto si possa credere. Lei pensa che siano sostenuti da governi stranieri?
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o ancora di oppositori stranieri penetrano indisturbati nel Paese e arrivano a nutrire di nuove idee e soprattutto di forze fisiche chi già combatte contro il regime. È questa la situazione. Non come si legge sui vostri giornali. Le faccio l’esempio di un recente corteo che si è svolto nella mia città natale, Darayya. In piazza c’erano poche persone, circa trecento. A un certo punto un gruppo di questi ha preso d’assalto una stazione della polizia. Ma non limitandosi a scagliare pietre. Bensì sparando. Gli agenti hanno risposto al fuoco e nello scontro ci sono stati tre morti. La stampa occidentale si è limitata a dire che i poliziotti hanno ucciso tre persone. È diverso da come la sto raccontando io. Le aggiungo che poi, proprio in occasione dei funerali di quei tre morti, c’erano diecimila persone.
In alto, una manifestazione anti-Assad in Siria. A destra, Gregorio III Laham, patriarca della Chiesa melchita e, nella pagina accanto, Asma Assad
E tutto si è svolto in pace. Un po’ strano per la commemorazione di tre oppositori assassinati dalla polizia. Possibile che un corteo di appena tre centinaia di partecipanti finisca nel peggiore dei modi e poi, quando ci sono diecimila persone, non succeda nulla? Vuole un altro esempio? La prego… Un nostro fedele – un cristiano stia ben attento! – era a Dubai per affari. Camminando per strada ha sentito una persona vicina lui parlare al cellulare: «Sono a Homs! Stanno sparando! È pieno di morti!» Ma questo non era a Homs. Bensì a Dubai. È possibile che dall’altra parte del cellulare ci fosse un giornalista che ha creduto nel racconto farsa di questo bugiardo. Mi spiego quando le dico che i media occidentali sono vittime di una manipolazione studiata a tavolino, da parte di arabi di altri Paesi? Tra armi vendute sottobanco e notizie false, stanno strumentalizzando la nostra sofferenza. Ma questo perché? Per il caos. C’è molta gente che vuole spera di guadagnare da questa situazione. Senza rendersi conto dei rischi però. Il mondo ha già emesso la sua sentenza su Damasco: «Delenda Cartago». Poi a quel che verrà dopo, ci si penserà. Quindi non crede che Assad si stia macchiando di una strage e che l’opposizione abbia il diritto di essere ascoltata? L’opposizione è troppo divisa. Non può pretendere di essere l’alternativa valida a un regime che ha garantito stabilità per oltre quarant’anni. E poi non ha un vero esercito che l’appoggi. Molti militari hanno disertato.
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Il ministro Terzi preoccupato da un attacco turco
L’Europa contro le donne di Bashar
Dalla first lady alla madre del tiranno. I Ventisette uniti sulle nuove sanzioni di Luisa Arezzo Ue ha approvato nuove sanzioni contro il regime siriano. Stavolta nel mirino sono finite le donne della cerchia ristretta del presidente Bashar el-Assad: la moglie, Asma, la madre del presidente, la potente Anissa, ma anche la sorella Bushra e la cognata. Alle quattro sono stati congelati i beni e proibiti i viaggi nei Paesi dell’Ue. La bella e capricciosa first lady, soprannonimata la “rosa del deserto”, dovrà dunque rinunciare all’amato shopping a Parigi dove si diverte ad acquistare abiti, scarpe e gioielli di alta moda e potrà mettere piede solo in Gran Bretagna, il Paese di cui ha la nazionalità e dove continuano a vivere i genitori. «Ma non credo che verrà», ha detto laconicamente il ministro degli Esteri inglese William Hague. Intanto l’Onu è tornato a condannare le «sistematiche e gravi violazioni delle libertà fondamentali» commesse dal governo «contro manifestanti, rifugiati, attivisti dei diritti umani e giornalisti». La presa di posizione è arrivata dal Consiglio dei Diritti Umani, a Ginevra, con una risoluzione che ha contato 41 voti a favore, 2 astensioni e tre voti contrari (Russia, Cina e Cuba).
Divieto di shopping per la bella e capricciosa Asma, detta “la rosa del deserto”
Le posizioni in campo dunque non sono cambiate, con Russia e Cina - le due potenze che mettono il veto al Palazzo di Vetro su risoluzioni di condanna a Damasco contrarie al fatto che il documento non criticasse i recenti attentati di Damasco e Aleppo e le attività armate delle forze di opposizione. Proprio Mosca e Pechino saranno le prossime tappe, nel weekend, dell’inviato speciale di Onu e Lega Araba, Kofi Annan. L’ex segretario generale dell’Onu discuterà in entrambe le capitali i tre punti del suo piano di pace: la fine immediata della repressione, il permesso di entrata degil aiuti umanitari e l’avvio di un processo politico. Tenterà insomma di convincere Mosca e Pechino ad unire la propria
di una tregua e dei corridoi umanitari», ma anche «per fare ripartire un processo politico che possa davvero portare alla soluzione della crisi». Preoccupazione è stata invece espressa dal nostro ministro per le intenzioni mostrate dal capo della diplomazia turca, Davutoglu. In Siria, «dopo l’impiego dell’artigliera si paventano addirittura bombardamenti dell’aviazione»: ha detto Terzi riferendo le parole del collega turco Ahmet Davutoglu. Parole che lo hanno «fatto rabbrividire». Secondo un rapporto dell’intelligence turca, infatti, la leadership siriana avrebbe riavviato i suoi rapporti con i separatisti curdi del Pkk. Uno scenario che Ankara non si può permettere.
L’
Non più di 1.500. Nulla in confronto alla fedeltà riscossa da Assad tra le fila delle Forze armate. Peraltro, e con questo rispondo alla prima parte della sua domanda, l’esercito ha ricevuto l’ordine di non sparare se non perché attaccato. L’Occidente lo deve capire: il regime non ha interesse a essere messo dalla parte del torto. E a nessuno piace questa situazione. Certo, prima le cose non erano facili. Perché il servizio segreto era terribile. Mentre l’economia stentava a decollare.Tuttavia, la Siria aveva imboccato la giusta strada. Laicismo, convivenza etnico-religiosa e sicurezza. Tre pilastri sui quali Bashar el-Assad stava costruendo le riforme. Si ricordi che a Damasco, a dispetto di tutte le critiche, c’erano le università straniere. Le stesse che adesso sono
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ci si ostina a negare il dialogo con il governo. Dall’estero da dove? Dai Paesi arabi, ma soprattutto dall’Europa. E forse anche dagli Stati Uniti. Si pensa che il regime sia il peggiore dei mali. Senza rendersi conto che senza Assad si rischia davvero tanto. Lei cosa prevede? Il caos totale. Né più né meno. Con il pericolo di coinvolgere Israele, Libano e Giordania. Perché non credo che, dall’altra parte del confine Netanyahu sia tranquillo. Nel frattempo a Tripoli, in Libano, ci sono stati degli scontri tra alawiti del posto e (pare) gente scappata dalla Siria. Un incidente che ha coinvolto anche gli uomini di Hezbollah. E poi pensi alla Giordania: prima della guerra, era la Siria il suo primo partner commerciale. Co-
Il terrorismo straniero sta prendendo il sopravvento. Nessuno sta più di guardia alle frontiere. Criminali e oppositori penetrano indisturbati nel Paese. Questa è la situazione
chiuse. Commercio e turismo erano due opportunità su cui non solo noi cristiani intendevamo affermare un futuro di progresso. Erano fonte di speranza per tutti. Ora il Paese è fermo. Qual è stato l’errore? L’errore è stato non permettere al regime di cambiare. Lo sbaglio lo si sta commettendo ancora adesso. Il referendum sulla Costituzione e le elezioni amministrative fissate per il 7 maggio sono un gesto di riconciliazione che Assad sta compiendo verso tutti gli avversari. Nazionali quanto stranieri. Eppure non lo si vuole capire. È dall’estero che
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me può notare, le ripercussioni negative sono già in atto. E francamente penso che sia difficile mettervi un freno. La chiesa greco cattolica ripone le speranze nel grembo di Kofi Annan e di monsignor Tomasi (l’osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, ndr). Ecco, a proposito della Chiesa. Voi cristiani, che in Siria avete una così lunga tradizione, vi sentite in pericolo? Finora la guerra non ha assunto dei risvolti confessionali. Questo però non significa che ci possiamo sentire tranquilli.
voce a quella della comunità internazionale. Perché, come ha confermato da Bruxelles il ministro degli Esteri Giulio Terzi, la situazione in Siria «è drammatica», ma qualcosa si muove: Terzi ha mostrato apprezzamento soprattutto per la «dichiarazione presidenziale» del Consiglio di Sicurezza, «un passaggio politicamente significativo». Il titolare della Farnesina ha auspicato un’intensificazione degli sforzi di Lega Araba e Onu. «La comunità internazionale - ha ribadito - è unita nella richiesta della necessità
e di cronach
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Voluto da Obama, lunedì al via il secondo summit sulla sicurezza nucleare. Mentre Kim Jong-un va avanti con i piani atomici
Il doppiogioco di Pyongyang La Corea del Nord minaccia la comunità internazionale: «Niente dichiarazioni contro di noi o sarà guerra». Ban Ki-moon: «Se lanciano il missile stop agli aiuti umanitari» di John R. Bolton l 26-27 marzo, i capi di stato e i ministri degli esteri di oltre 50 paesi si incontreranno a Seul, Corea del Sud, per affrontare il tema della minaccia del terrorismo nucleare. Ospitato dal presidente Lee Myung-bak, questo sarà il secondo “summit sulla sicurezza nucleare”, il primo è stato indetto due anni fa a Washington dal presidente Barack Obama. Ironicamente comunque, mentre il summit sta per iniziare, la Repubblica Democratica Popolare di Corea (Rdpc), ad appena una manciata di chilometri a nord, si sta preparando a lanciare un missile balistico a metà aprile, a quanto si dice per mandare in orbita un satellite per le comunicazioni. Solo venerdì scorso Pyongyang ha annunciato spensieratamente che questo satellite celebrerà il 100° anniversario della nascita di Kim II-Sung, il fondatore della sua ereditaria dittatura Comunista. Naturalmente nessuno ha dubbi sul vero proposito del lancio del “satellite”, ovvero far progredire la capacità della Corea del Nord di dirigere e liberare le sue armi nucleari ovunque sul pianeta. Se ciò dovesse verificarsi, Pyongyang trasgredirà spudoratamente alle ripetute risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e ai suoi precedenti impegni, in particolare un recente accordo con gli Stati Uniti reso pubblico il 29 febbraio. Con questo accordo, l’Rdpc accettava una moratoria parziale sulle attività nucleari e sui lanci balistici in cambio di aiuti “umanitari” in cibo.
progressi sia verso gli armamenti nucleari che verso il potenziale di missili balistici. Inoltre, l’Iran è anche il più importante stato sostenitore del terrorismo di tutto il mondo.
I
La sprezzante rivelazione della Rdpc, appena due settimane dopo l’accordo del giorno bisestile sgonfia due miti allo stesso tempo. In maniera più evidente, dimostra ancora per un’ennesima volta la mancanza di serietà della Corea del Nord nei confronti degli impegni che prende per limitare, sospendere o abbandonare i suoi programmi nucleari o balistici. Per più di vent’anni, il Nord ha sfruttato con disprezzo l’intuizione di P.T. Barnum secondo cui «Ogni minuto nasce un idiota». Ancora una volta,
Pyongyang ha promesso che non avrebbe perseguito i suoi obiettivi nucleari in cambio di tangibili benefici economici e politici, e ancora una volta ha infranto questi impegni. Questa manovra ha funzionato per la Corea del Nord perché gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud e altri sono regolarmente rimasti colpiti dall’astuzia di Pyongyang. L’amministrazione George W. Bush ad esempio, con eterna vergogna, rimosse la Corea del Nord dall’elenco di stati sostenitori del terrori-
L’altro dossier “caldo” sarà l’Iran. Si teme che Teheran venda la bomba
smo, con la speranza che così facendo avrebbe potuto portare avanti le sue trattative nucleari con il Nord. Come è successo spesso, la Rdpc si è intascata questa concessione e si è diretta verso il suo prossimo obiettivo, lasciando ancora una volta il Dipartimento di Stato sgomento. Parafrasando un aforisma ben noto: se mi freghi una volta devi vergognarti tu, ma se mi freghi due volte devo vergognarmi io.
Al di là di questa tangibile prova dell’ulteriore disprezzo della Corea del Nord per il resto del mondo, e della continua vitalità dei suoi programmi nucleari e balistici, esiste una disgiunzione ancora più grave. Mentre i leader del mondo si stanno riunendo a Seul per tenere solenni discorsi sulla proliferazione nucleare e sul terrorismo, faranno davvero poco per affrontare le vere minacce. Il summit di Seul, come il suo predecessore di Washington, è essenzialmente un teatro politico, scollegato dalla vera minaccia mondiale che ogni giorno cresce senza controllo. Come molti incontri internazionali, la retorica potrà essere encomiabile, ma l’esito sarà insignificante o – ancora peggio – irrilevante. In nessun posto come in Iran è così evidente la grandezza della minaccia dei
L’Iran ha armato e finanziato gruppi terroristici come gli Hezbollah in Libano, Hamas nella striscia di Gaza e i terroristi in Iraq e Afghanistan contro gli americani e altri alleati. Il direttore della National Intelligence degli Stati Uniti, il generale James Clapper, ha dimostrato appena due settimane fa che l’Iran continua a dare asilo a leader di al Qaeda nei suoi territori, un’alleanza di convenienza terrorista che non tiene conto della loro appartenenza a versioni diverse dell’Islam. La portata terrorista dell’Iran non è solo regionale, ma mondiale. Membri delle Guardie della Rivoluzione sono stati incriminati dal Dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Obama per aver cospirato per far fuori l’ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington, che secondo molti sarebbe un atto di guerra sia contro gli Stati Uniti sia contro i sauditi. Nonostante anni di diplomazia e di sanzioni economiche, l’Iran è pericolosamente vicino a diventare uno stato con ordigni nucleari. Mentre potrebbe non essere ancora capace di produrre le sue prime testate nucleari via missili balistici intercontinentali (Icbm) capaci di compiere traiettorie mondiali, in Corea del Nord o in Iran è però assolutamente possibile confezionare un ordigno nucleare in un camion o in un garage, caricarlo su una carretta e farlo arrivare in qualsiasi porto al mondo. Oppure, un simile ordigno potrebbe arrivare nelle mani di terroristi che potrebbero trasportarlo clandestinamente e farlo detonare in città assolutamente senza destare alcun sospetto. Si tratta di terrorismo nucleare vero e palpabile, di cui non si occuperanno i bei discorsi e le pose politiche dei leader al prossimo Summit. Meritiamo di avere di meglio dai nostri leader politici. Purtroppo non lo avremo a Seul.
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Manifestazione anti-israeliana durante il “Nakba day” (il giorno della catastrofe). Sotto, Benjamin Netanyahu e a sinistra il leader della Corea del Nord Kim Jong-un, che si appresta a celebrare il centenario della nascita del padre con il lancio di un satellite militare che ha provocato lo sconcerto internazionale
L’identità giudaica è sempre più a rischio. E senza politiche adeguate è destinata ad avere la peggio
Israeliani poco fedeli Netanyahu sconfigge le minacce esterne, ma sottovaluta il potere e le intenzioni dei musulmani che vivono in Israele. Viaggio d’autore nelle roccaforti arabe in Terra Santa. Per capire cosa succede di Daniel Pipes li arabi, che costituiscono un quinto della popolazione di Israele, possono essere dei cittadini fedeli allo Stato ebraico? Con questa domanda in mente, ho visitato di recente diverse zone israeliane abitate dagli arabi (Jaffa, Baqa al-Gharbiya, Umm alFahm, Haifa, Acre, Nazareth, le alture del Golan, Gerusalemme) e mi sono intrattenuto a discutere con il mainstream israeliano. Ho potuto constatare che la maggior parte dei cittadini arabofoni provano dei sentimenti contraddittori riguardo al fatto di vivere in uno Stato ebraico. Da un lato, essi mal sopportano che il giudaismo sia la religione privilegiata del Paese, che la Legge del Ritorno permetta solo agli ebrei di emigrare liberamente, che l’ebraico sia la lingua ufficiale dello Stato, che la Stella di David sia presente nella bandiera e che nell’inno si citi “l’anima ebraica”. Dall’altro lato, essi apprezzano il successo economico del Paese, il livello qualitativo dell’assistenza sanitaria, lo stato di diritto e la democrazia funzionante. Questi sentimenti conflittuali si esprimono in modi differenti. La popolazione araboisraeliana del 1949 sparuta, analfabeta e sconfitta si è decuplicata, ha acquisito competenze moderne e ha recuperato la propria fiducia. Qualcuno appartenente a questa comunità ha assunto posizioni di prestigio e responsabilità, tra essi il giudice della Corte Suprema Salim Joubran, l’ex-ambasciatore Ali Yahya, l’ex-ministro senza portafogli Raleb Majadele e il giornalista Khaled Abu Toameh. Ma questi pochi esempi di integrazione impallidiscono accanto alle masse insoddisfatte che si identificano con il Land Day (il Giorno della Terra), il Nakba Day (il Giorno della Catastrofe) e con il documento titolato Future Vision. In modo significativo, la maggior parte dei parlamentari arabo-israeliani come Ahmed Tibi e Haneen
G
Zuabi, sono delle teste calde che diffondono idee antisioniste. Gli arabi israeliani ricorrono sempre più alla violenza contro i loro connazionali ebrei Per meglio dire, gli arabi israeliani vivono due paradossi. Anche se sono vittime di discriminazioni in seno allo Stato ebraico, essi godono di più diritti e di una maggiore stabilità rispetto a ogni altra popolazione araba che vive nei propri paesi sovrani (si pensi all’Egitto o alla Siria). In secondo luogo, essi hanno la cittadinanza di un Paese che i loro fratelli arabi diffamano e minacciano di annientare.
I colloqui che ho avuto in Israele mi hanno indotto ad arguire che queste complessità impediscono un’efficace analisi, da parte araba ed ebraica, di tutte le implicazioni dell’esistenza anomala degli arabi israeliani. I parlamentari estremisti e i giovani violenti non vengono presi in considerazione perché sono ritenuti una frangia non-rappresentativa. Invece, si sente dire che se solo gli arabi israeliani ricevessero più rispetto e più aiuti da parte del governo centrale, le insoddisfazioni attuali si attenuerebbero; che bisogna distinguere fra gli arabi (buoni) d’Israele e gli arabi (cattivi) della Cisgiordania e di Gaza; ed
echeggia altresì il monito che gli arabi israeliani contamineranno i palestinesi se Israele non li tratterà meglio. I miei interlocutori, in genere, hanno ignorato le questioni riguardanti l’Islam. Sembrava quasi scortese menzionare l’imperativo islamico che i musulmani (che costituiscono l’84 per cento della popolazione araboisraeliana) si autogovernano. Parlare di sforzi islamici per l’applicazione della legge islamica ha attirato sguardi assenti, passando così a trattare argomenti più urgenti. Questo evitare di parlare di certi temi, mi ha ricordato la Turchia prima del 2002, quando i turchi ancorati a una visione tradizionale ritenevano che la rivoluzione di Atatürk fosse permanente e che i presunti islamisti sarebbero rimasti un fenomeno marginale. Ma si sono sbagliati di grosso: dieci anni dopo che gli islamisti sono andati democraticamente al potere alla fine del 2002, il governo eletto ha applicato progressivamente più leggi islamiche e ha costruito una potenza regionale neoottomana. Prevedo una simile evoluzione in Israele, man mano che i paradossi araboisraeliani diventeranno più acuti. I cittadi-
ni musulmani di Israele continueranno a crescere numericamente, ad acquisire più competenze e fiducia, integrandosi al contempo nella vita del Paese e aspirando sempre più a sbarazzarsi della sovranità ebraica. E questo denota che, mentre Israele sconfigge le minacce esterne, gli arabi israeliani diventeranno un problema sempre più grosso. Anzi, prevedo che essi rappresenteranno l’ostacolo supremo che impedisce di costituire quel focolare nazionale ebraico di cui parlavano Theodor Herzl e Lord Balfour.
Che cosa si può fare? I cristiani del Libano hanno perso il potere perché includevano troppi musulmani, arrivando a rappresentare una proporzione troppo esigua della popolazione del Paese per potere governare. Ricordando questa lezione, l’identità e la sicurezza di Israele esigono la necessità di ridurre al minimo il numero dei cittadini arabi, senza però limitare i loro diritti democratici, e men che meno espellerli, ma prendendo provvedimenti come modificare i confini di Israele, costruire recinzioni lungo le frontiere, attuare rigorose politiche di riunificazione familiare, cambiare le politiche a favore della natalità ed esaminare con attenzione le domande dei rifugiati. Ironia della sorte, il più grosso ostacolo a queste azioni sarà dato dal fatto che la maggior parte degli arabi israeliani vorranno continuare ad essere con convinzione dei cittadini non-fedeli dello Stato ebraico (in contrapposizione a essere cittadini fedeli di uno Stato palestinese). Inoltre, molti altri musulmani del Medio Oriente aspirano a diventare israeliani (un fenomeno che io chiamo aliyah musulmana). Prevedo che queste preferenze ostacoleranno il governo israeliano, che non svilupperà delle risposte adeguate, trasformando così la relativa quiete di oggi nella crisi di domani.
parola chiave
VOCE
Viaggio etico-estetico in quella vibrazione superiore che fa tremare l’anima, inumidisce gli occhi e risveglia le nostre coscienze. Dalla Callas a Heidegger, un prodigio che si rinnova di Franco Ricordi a parola Voce possiede tanti significati, che peraltro si associano fra di loro: ed è proprio tale correlazione, o rimando continuo, a rendere questa parola estremamente importante e interessante. Si potrebbe anzi dire che ci sia un diretto rimando a qualcosa di umano e, al contempo, sovrumano, ovvero divino e metafisico. Già pensando al celebre detto vox populi vox dei, si fa riferimento a una corrispondenza fra umanità e divinità che avviene attraverso il tramite della voce: la voce, in tal senso, è ciò che avvicina l’uomo a Dio, o almeno qualcosa di peculiare nell’uno come nell’altro, uno strumento che può valere per entrambi.
L
E anche se in altri casi le “voci” possono essere abbassate a qualcosa di molto più servile e plebeo, come il flatus vocis ovvero le “voci di corridoio”, in realtà esiste a nostro avviso una diretta corrispondenza fra la voce nel senso di timbro lirico ovvero cantato e la “voce del verbo”, ovvero la realizzazione fonica del linguaggio, che per la verità si esprime anche senza bisogno del’articolazione nella lingua specifica. Anche attraverso un
grido, un gemito ovvero una espressione vocale cantata, si può senza dubbio comunicare un senso molto profondo, a volte davvero metafisico: tutto ciò può avvenire nel pianto di un neonato, come di una persona disperata: un grido di gioia come all’opposto la voce tonante di due eserciti che si scontrano. E da tutto ciò deriva la sublimazione della voce, per eccellenza, il canto, e forse in particolare in quella straordinaria invenzione che risale a circa 400 anni fa, e che prende il nome di melodramma. L’opera lirica è proprio la creazione del “dramma nella voce”, ovvero la voce del personaggio che crea il dramma musicale. È evidente che tale musicalità del linguaggio esistesse molto prima, da sempre, anche nella scansione del dramma occidentale, quasi sempre scritto in versi. Ma proprio da tale versificazione, e dal suo costituivo rimando vocale, è nato il melodramma; ed è nato dando una personalità ben precisa alle voci umane. Così le tre voci maschili: tenore, baritono, basso; cui corrispondono le femminili, soprano, mezzosoprano, contralto. E attraverso questa ripartizione, che a sua volta si distingue in ulterio-
ri settori e timbri interni (leggero, lirico, drammatico), le voci hanno creato i personaggi, ovvero hanno dato vita ai caratteri che animano il melodramma di ogni tempo.
E bisogna dire che, in certi casi estremi, nulla è più toccante e struggente della voce lirica: è una questione di “vibrazione”; la “voce del leone” attribuita al grande baritono Titta Ruffo, nell’invettiva del Rigoletto ad esempio, era qualcosa di straordinariamente emozionante. Per chi l’avesse sentita dal vivo, poi, doveva essere un’esperienza indimenticabile. Così come certi acuti tenorili di Giacomo Lauri Volpi (straordinario tenore lirico-spinto, che sosteneva come la “Voce di Cristo” si fosse reincarnata in lui, e non aveva tutti i torti…) possedevano un suono davvero commovente e siderale. Ma forse più di ogni altro Maria Callas, il “soprano del secolo”, nel celebre “crescendo della Gioconda”: c’è più di una versione dell’opera cantata dalla Callas: ma in quella diretta da AntoninoVotto, con Gianni Poggi e Paolo Silveri, la Callas prende il si bemolle acuto del celebre «Enzo adorato, ah come t’amo» (memore
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per saperne di più
hanno detto Tommaso Landolfi
G.W.F. Hegel Scienza della Logica Laterza
Che la voce umana sia il più perfetto degli strumenti è un’insulsa battuta. La voce umana sarà caso mai lo strumento più sensibile, e precisamente, insinuo, a motivo della sua imperfezione.
Martin Heidegger Essere e Tempo Utet
Nietzsche
Giacomo Lauri Volpi Voci parallele Bongiovanni Editore
La voce dell’uomo è l’apologia della musica.
Giacomo Lauri Volpi La voce di Cristo Bongiovanni Editore
Mila, una risonanza nella voce/ tu hai, che mi consola e mi contrista/ come d’ottobre quando con le mandre/ si cammina cammina lungo il mare.
Gabrile D’Annunzio
Giorgio Agamben Il linguaggio e la morte Einaudi
Orazio La parola detta non torna indietro.
Giovanni Paolo II
Massimo Cacciari Dell’Inizio Adelphi Corrado Bologna Flatus vocis Il Mulino
L’uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire.
William Shakespeare Amleto Feltrinelli
Chi vuole sentire la voce di Dio si ritiri in solitudine.
delle sue recite in Arena dal 1946 in poi), con un pianissimo che, man mano, si evolve in una potenza che, senza mezzi termini, fa davvero venire i brividi, se non ancor più sinceramente le lacrime agli occhi.
A tali vibrazioni della voce corrisponde davvero una commozione dell’anima che certo non è facile provare in altre occasioni, forse in nessuna delle altre arti. Tuttavia a questo senso della voce che possiamo definire “estetico” corrisponde quella che da sempre conosciamo come contrappunto“etico”, la celebre e decantata “voce della coscienza”. Di che si tratta? Forse di una voce superiore che, dentro di noi, ci richiama e ammonisce sopra ciò che dobbiamo o siamo tenuti a fare? Il filosofo Giorgio Agamben ha analizzato bene, nel libro Il linguaggio e la morte, questa relazione fra Voce, Parola e Silenzio. Partendo da Hegel, che ne scrive intensamente nella sua Scienza della Logica, ma soprattutto arrivando ad Heidegger, è proprio la “chiamata” della Voce ciò che ci risveglia, nel primo capolavoro heideggeriano Essere e Tempo, a quel «poter essere esistente più autentico», il nostro essere-per-la-morte, la possibilità di“ascolto”di quellaVoce particolare che, nella vita di tutti i giorni, non avviene quasi mai. «Qualcuno chiama», scrive Heidegger, ma sul piano mondano non dice assolutamente nulla. Al contrario, la Voce è proprio ciò che afferma: nulla. Il Silenzio, che «proviene da me ma anche da qualcosa che sta sopra a me», è proprio il suono, ovvero la tonalità emotiva di questa stessa
San Bernardo
La voce lirica, che poi diviene epica e drammatica, è l’attestazione di una nostra ancestrale vocalità che ci richiama in una dimensione dov’è possibile realizzarci come esseri umani
Voce. E solo ascoltando la Voce che promana da questo Silenzio è possibile, secondo Heidegger, affrancarsi dalla dispersione inautentica, da quella deiezione quotidiana in cui tutto è stabilito da “altri”, dal “Si”, dalla convenzione sociale che si disperde inevitabilmente nella chiacchiera,
In alto, Martin Heidegger. Sopra, Luciano Pavarotti e Joan Sutherland nel “Lucia di Lammermoor” di Donizetti. Nella pagina a fianco, Maria Callas e l’“Urlo” di Munch
nella curiosità e nell’equivoco. L’ascolto di questa Voce corrisponde alla forte “decisione”dell’uomo nei confronti del proprio essere, della possibilità più autentica, la fedeltà al proprio “essere-per-la-morte”. Qualcosa di simile ha scritto anche Massimo Cacciari, nel suo Dell’Inizio, ci-
tando Giovanni Battista: ego sum vox, la voce di Colui che “chiama nel deserto”. E dunque sarà giusto chiedersi. Esiste una relazione tra questa “Voce” e la “voce”in senso artistico di cui si parlava sopra? Non potremmo pensare che si tratti in realtà della medesima “vibrazione”? E non dovremo concludere che il Canto, inteso anche come quintessenza della poesia quindi di tutte le arti, possa essere considerato come l’autentica realizzazione di questa“vocalità etica” di cui scrivono Hegel e Heidegger? Il canto, si pensi al leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, non sarà l’espressione più autentica che risponde a questa “chiamata” della voce? E la voce lirica, che poi diviene anche epica e drammatica, non sarà semplicemente l’attestazione di questa nostra ancestrale vocalità, vocazione, voce che ci richiama in una dimensione per la quale soltanto realizziamo noi stessi come esseri umani, ovvero animali che, nella voce, ritrovano la loro stessa ragion d’essere, la loro più autentica dimensione?
È un percorso affascinante, che potremmo definire etico-estetico, una relazione attraverso la quale arte e filosofia si avvicinano sempre di più e, come afferma Amleto quando riesce a catturare la coscienza del Re colpevole, tutto ciò è possibile proprio perché la recita teatrale, quindi l’arte del teatro, può parlare «con voce di prodigio». Quella stessa voce che smaschera la cattiva coscienza del Re, ovvero la“Voce dell’essere” che solo attraverso l’arte può attestare la verità.
ULTIMAPAGINA Colpo di scena: alla fine la potente categoria ha perso la sua battaglia contro il governo di Atene
Hanno liberalizzato i taxi. di Martha Nunziata a loro battaglia è durata più di un anno ma alla fine anche loro hanno dovuto cedere. I tassisti greci, in particolare quelli ateniesi, per quindici mesi hanno protestato contro il governo, proclamando tutta una serie di scioperi che hanno provocato pesanti disagi ai cittadini greci e, soprattutto, ai turisti, opponendosi all’approvazione della legge sulle liberalizzazione sulle professioni (e quindi anche sulle auto di trasporto pubblico): una protesta che, se nel risultato finale non ha portato la vittoria, perché il disegno di legge è stato approvato, ha comunque fatto sì che alcune delle richieste della categoria, in particolare i parametri per la concessione delle nuove licenze, venissero prese in considerazione.
L
Le misure di liberalizzazione del lavoro di tassista, del resto, facevano parte del pacchetto previsto dall’accordo economico raggiunto due anni fa tra il governo di Atene e la troika - Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale - nel quadro complessivo degli aiuti da destinare alla Grecia. L’accordo siglato ieri, come ha sottolineato il nuovo ministro greco delle infrastrutture e trasporti, Makis Voridis, tiene conto sia delle necessità economiche sia delle richieste della categoria. Contro il nuovo provvedimento ha votato l’ex ministro dei Trasporti, Giannis Ragousis, perché - come ha sostenuto nella sua relazione - la proprietà pubblica (come sono le licenze di circolazione dei taxi) viene gestita come una proprietà privata che può essere trasferita, ereditata oppure regalata esattamente come succedeva finora. «Si tratta - ha detto Ragousis - di una triste eccezione, socialmente ingiusta e politicamente immorale». La nuova legge che regolamenta il lavoro di tassista in Grecia, tra l’altro, prevede che per la concessione di nuove licenze vengano presi in considerazione anche parametri relativi al numero della popolazione presente sul territorio al quale le licenze sono destinate (i parametri sono diversi: 2,5 permessi per ogni mil-
Dopo un braccio di ferro con gli autisti, durato un anno, il governo di Papademos è riuscito lì dove quello italiano ha trovato resistenze insormontabili le abitanti ad Atene, 1,5 permessi per ogni mille abitanti in provincia), la mobilità di quel territorio (cioè i problemi di traffico) e l’impatto ambientale: Atene, tanto per fare un esempio, è una delle megalopoli più inquinate del pianeta. Il numero delle licenze, infine, secondo quanto stabilito dal nuovo accordo, sarà deciso ogni due anni dal Presidente della Regione. Il taxi, la chi licenza in Grecia costa circa 350 euro a settimana, è uno dei mezzi pubblici preferiti dai greci, almeno fino all’esplosione delle contestazioni e agli scioperi, anche perché è economico: bastano 3 euro per una corsa nel centro della capitale, mentre per coprire distanze più lunghe si arriva, al massimo, a 6 euro. Fino a sei mesi
(IN GRECIA)
fa trovare un’auto libera a mezzogiorno era un’impresa. Oggi, invece, ci sono dappertutto file di taxi in attesa di clienti, anche di sera e nel weekend.
E in Italia? Ieri, il decreto legge sulle liberalizzazioni, è stato approvato in via definitiva dal Parlamento, e avrà importanti ricadute pratiche per famiglie e giovani, cittadini e imprese: orari più flessibili, adempimenti più semplici, prezzi più concorrenziali, e le novità riguardano: le farmacie, le edicole, i distributori di carburante, gli autobus, le banca, le agenzia di assicurazioni, e poi anche il municipio, il tribunale e il notaio. Ma la liberalizzazione non vale per i taxi. Nel nostro Paese, dove la situazione economica attuale è diversa da quella della Grecia, che è in uno stato di pre-coma, il Governo non è stato in grado di rispettate le richieste dell’Europa. «Sappiamo fare le riforme da soli» ha rivendicato il ministro Fornero. Convertendo a semplici consigli la lista delle cose inderogabili da fare. Anche i tassisti italiani, come quelli greci, sono scesi in piazza, nelle scorse settimane, da Bolzano a Catania, bloccando il già caotico centro di Napoli o assedian-
do Palazzo Chigi, a Roma, per due giorni e due notti di fila: una “dichiarazione di guerra” al decreto sulle liberalizzazione che, nel loro caso, ha pagato. Confermando, se mai se ce ne fosse stato bisogno, la loro categoria come una delle “lobby”più potenti del tessuto economico del nostro paese. Il comparto delle auto pubbliche, infatti, rappresenta uno dei settori in cui il governo è stato costretto alla retromarcia, smentendo, almeno in parte, la tesi del Presidente del Consiglio, Monti, che ieri aveva sostenuto fosse ormai «… superata l’opposizione di gruppi di interesse titolari di rendite di posizione non più giustificabili». Le competenze per aumentare il numero di licenze, infatti, alla fine del più classico di “giri dell’oca”, sono rimaste prerogativa dei Comuni che dovranno tenere conto, ma non in maniera obbligatoria, del parere che verrà di volta in volta espresso dalla nuova Autorità per i trasporti. Quest’ultima, se lo riterrà, potrà ricorrere al Tar. «Su professioni, taxi e farmacie abbiamo fatto cambiare idea al governo», ha chiosato Maurizio Gasparri. Non a caso, nei giorni più duri della protesta della auto bianche, si era guadagnato il titolo di “tassista onorario”.