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Il lavoro senza speranza

attinge nettare in un setaccio Samuel Taylor Coleridge

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 27 MARZO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Da Seoul, il capo del governo se la prende con il gioco delle parti che sta dividendo la maggioranza

Monti: «Non sono Andreotti» «Il Paese non è pronto? Posso andar via. Io non tiro a campare» Duro avviso del premier: «Deve essere approvato un testo il più possibile simile al nostro». E Bersani replica: «Sì alla legge Fornero, l’Italia è pronta, ma bisogna correggere le lacune» PDL E PD

Il testo della relazione al Consiglio permanente Cei

Ma chi prova a farlo cadere rischia il suicidio

E Bagnasco sfida i partiti: «Se volete tornare in sella, dovete cambiare tutto» «Nessuno può pensare di preservare automaticamente delle rendite di posizione. Bisogna sapersi misurare con le mutazioni incalzanti che costringono ad un pensare nuovo» pagina 6

di Osvaldo Baldacci ltre il governo Monti per l’Italia c’è il baratro. Riflettano attentamente quelli che manovrano per far tornare la vecchia politica». Lo ha detto con chiarezza ieri il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione, come sempre in perfetta sintonia con Pierferdinando Casini, che a sua volta ripete continuamente che l’emergenza non è finita, i problemi del’Italia non si possono risolvere certo in quattro mesi, e comunque nessuna forza politica è in grado di farlo da sola. a pagina 5

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Massimo Cacciari polemizza con il suo ex partito

«Democrat indecisi a tutto. Pensano solo a contarsi» di Franco Insardà «È la solita storia, con una parte del Pd che spinge a destra e l’altra a sinistra. Ormai le correnti intrerne non fanno più politica: aspettano solo le elezioni per contarsi. E così il vecchio progetto è svuotato»: Massimo Cacciari è polemico a pagina 4

In Corea del Sud è cominciato, con una serie di incontri bilaterali, il vertice globale sulla sicurezza

Appello di Obama: «Disarmiamo il mondo» Il presidente si rivolge a Russia e Cina: «Abbiamo tutti più armi del necessario» di Antonio Picasso

Parla Michael Levi, responsabile sicurezza Council Foreign Relation

«Ma la minaccia non arriva solo da Pyongyang e Teheran»

eri, con l’apertura del vertice sulla sicurezza nucleare, la capitale sudcoreana si è trasformata nell’epicentro della politica internazionale. Il fatto che oltre 70 capi di Stato e di governo fossero presenti al vertice ha offerto l’occasione di parlare sì di arsenali da smantellare e di velleità belliche da impedire. Tuttavia, Seoul ha fatto anche da nido per alcuni fondamentali incontri bilaterali. La questione atomica resta al centro di tutti i dibattimenti. Sia sul piano militare, sia in ambito di risorse energetiche. Il presidente Obama ha rivolto l’ennesimo invito alla Russia di riaprire il dossier e avviare insieme una politica di disarmo.Washington insiste sull’argomento. a pagina 10

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EURO 1,00 (10,00

di Bernard Gwertzman ichael A. Levi, esperto di sicurezza nucleare al Council of Foreign Relations, non si aspetta dal vertice di Seoul svolte di rilievo: «Il valore aggiunto del summit è quello di esserci, è fondamentale che i più importanti leader mondiali si incontrino per trovare strategie difensive. Ma il terrorismo nucleare rimane una minaccia pericolosissima. Sono almeno una dozzina i Paesi in cui si trova del materiale atomico potenzialmente utilizzabile dal terrorismo, ed è importante che questa minaccia sia arginata». a pagina 12

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

60 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Da Seoul, il premier torna a parlare di lavoro e di politica avvelenata: «Non tiro a campare, non sono come Andreotti»

L’altolà di Monti

«Se il Paese non è pronto, possiamo andar via». E Bersani abbassa i toni: «Diremo sì alla legge Fornero, ma solo dopo averla corretta» di Riccardo Paradisi obiettivo non è la durata. Non sono come Andreotti, non tiro a campare. Se il paese, attraverso le sue forze politiche e sociali, non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro non chiederemo certo di continuare per arrivare a una certa data». Parla da Seoul, urbi et orbi, il premier italiano Mario Monti ma a qualcuno in largo del Nazareno, sede del Partito Democratico, fischaino le orecchie. Tanto che Bersani replica: «Il paese è prontissimo ma serve dialogo e disponibilità all’ascolto». Prima di questa scherma a distanza tra mille understatements, il Pd ribadiva nella sua direzione nazionale la linea tenuta nei giorni precedenti: va cambiato il punto sull’articolo 18 della riforma del lavoro. Sul merito del quale invece sia il ministro Fornero sia il presidente del Consiglio Monti ritengono invece che la partita sia chiusa.

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Per ribadire la sostanza della sua posizione, e farvi convergere tutto il partito, Bersani non s’è azzardato a replicare il timbro delle dichiarazioni dell’ultima settimana tipo «A noi Monti non ci può dire prendere o lasciare». Anzi il segretario garantisce che al Pd sta a cuore mettere in porto la riforma. Lasciando sottinteso che in porto

Il commissario Rehn: «Una novità che affronta le vere sfide del Paese»

Anche l’Europa in campo per difendere la riforma ROMA. «La riforma del lavoro è equa e incisiva». Sulla modifica all’articolo 18 tutto è rinviato a dopo le amministrative. Ma Mario Monti non intende essere logorato tra le esigenze del Pd e le pressioni della Cgil. Così, da Seul, ha fatto sapere ai partiti che, «fermo restando la sovranità del Parlamento, cercheremo di avere un risultato finale in tempi non troppo lunghi, il più vicino possibile al testo varato dal Consiglio dei ministri».

Il premier, dopo aver smentito di nutrire velleità politiche per il suo futuro, ha dovuto ammettere che, se l’obiettivo «è quello di alzare il più possibile le probabilità di esiti non sfavorevoli, allora è importante avere azioni più pazienzi ma forse più profonde». Ma non ha dimenticato quanto siano scarsi i margini di manovra: «Non abbiamo mai potuto, dal 16 novembre a oggi, evitare di prendere decisioni difficili. La situazione dell’Italia come si trovava nel momento in cui ci è stata affidata questa responsabilità era piuttosto grave. E abbiamo cercato in questi mesi di essere equi nel distribuire i sacrifici o i contributi delle diverse parti economiche e sociali». A stretto giro subito è intervenuta la Commissione europea per dimostrare l’assunto. «La riforma del mercato del lavoro approntata dal governo italiano», ha scandito il portavoce del commissario Olli Rehn, Amadeu Altajaf, «affronta le vere sfide del Paese. L’obiettivo che

condividiamo è di rendere il mercato del lavoro più inclusivo, in particolare nei riguardi dei giovani e dei disoccupati di lungo termine, e anche affrontare le problematiche regionali». Aspettative non diverse anche dai mercati. Il Financial Times, molto brava a intercettare il sentiment della City e di chi investe sui titoli del debito sovrano, avverte che «il Parlamento italiano deve migliorare e non annacquare la riforma. Il governo Monti ha osato fare quello che diverse generazioni di politici italiani hanno evitato di fare. Intanto, come ha sottolineato dalle colonne di Repubblica l’economista Tito Boeri, c’è il timore sui paletti inseriti dal governo per distinguere i licenziamenti economici da quelli disciplinari e per permettere l’intervento dei giudici. Con il risultato che servano soltanto a estendere la discrezionalità dei magistrati a dispetto della certezza del diritto.

Finisce per essere letto in quest’ottica l’avvertimento presente in una nota di Luigi Marini e Piergiorgio Morosini. Presidente e segretario di Magistratura democratica spiegano:«La riforma mette in secondo piano la dimensione sociale del lavoro e il suo rilievo politico, in contrasto con l’articolo 41, comma 2, e con lo stesso articolo 1 della Costituzione, nonché il ruolo centrale che il lavoro riveste per la dignità della persona e per il suo essere (f.p.) parte attiva di una comunità».

la riforma ci deve arrivare con le modifiche necessarie a che il Pd non si spacchi. E così chi s’attendeva una direzione dagli esiti clamorosi, con la rottura tra la segreteria, modem e veltroniani sui temi del lavoro, è rimasto deluso. Nessuno strappo, ma nemmeno critiche alla relazione di Bersani. Un plauso bulgaro: da Beppe Fioroni a Walter Veltroni, passando per Enrico Letta e Massimo D’Alema nessun dirigente del Pd – a parte Rosy Bindi – ha ritenuto di dover marcare posizioni e differenze.

Del resto se nella sostanza le posizioni di Bersani sulla riforma del lavoro restano le stesse della vigilia – l’esigenza d’un compromesso verso il modello tedesco sull’articolo 18 – nei toni il segretario è stato iper-distensivo: «Abbiamo preso l’impegno di sostenere il governo Monti fino al 2013 e intendiamo mantenerlo. Vogliamo in porto la riforma del lavoro ma correggere lacune che ci sono». Lacune che devono essere cambiate in Parlamento: «Proponiamo di abbassare i toni e chiediamo alle forze parlamentari di riflettere sui punti controversi della riforma». Per traguardare questo fine «Nelle prossime settimane non servono proposte estemporanee - chiarisce Bersani - serve piuttosto un presidio sul lavoro, un tavolo con gruppi parlamentari e partito che sia in grado di dialogare e


Italia & Lavoro

27 marzo 2012 • pagina 3

Alla ricerca di quattro miliardi perduti Tra governo e partiti si discute anche di nuova delega fiscale (per evitare l’aumento dell’Iva) di Francesco Pacifico

ROMA. L’obiettivo comune è quello di trovare quattro miliardi di euro. Senza i quali, già dal prossimo ottobre, l’Iva salirà al 23 per cento. Eppoi, visto che la situazione sta diventando insostenibile, non manca chi vagheggia lo sbarco di un uomo forte a via XX settembre per dirimere lo scontro tra il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli, e il ministro per i Rapporti al Parlamento, Piero Giarda. Forse quello che in Italia conosce meglio di altri i meandri della spesa pubblica e la macchina del Tesoro. Uno scontro che si trascina dalla nascita dell’esecutivo. Rinfocalato dopo la scelta di Grilli di non presenziare in Parlamento per la riforma della Golden Share o per la decisione del governo di delegare la relazione tecnica sulle liberalizzazioni alla Ragioneria.

Un dissidio che è uscito dalle ovattate stanze della politica ed è ,diventato pubblico all’ultimo consiglio dei ministri, quando Giarda – assieme con i colleghi Fabrizio Barca e Mario Catania – ha chiesto conto a Grilli di una delega fiscale a suo dire piena di lacune. Un tempo Mario Monti avrebbe potuto derubricare il tutto come i contrasti tra due grand commis prestati alla politica, uniti però dal tentativo di combattere gli sprechi e abbassare la pressione fiscale. Ma ora, con gli italiani che nella busta paga di marzo troveranno anche la stangata sulle addizionali Irpef, la questione diventa politica e molto imbarazzante per i partiti. Forse anche più della riforma del lavoro. In prospettiva di un prelievo che per i redditi più alti supererà i cento euro per le nuove addizionali Irconfrontarsi con le forze sociali». Il punto di compromesso non detto ma tacito resta sempre insomma la via dell’opzione giudiziaria anche sui licenziamenti economici, su cui anche la Cgil sarebbe disposta a fare un passo. Il segretario del Pd parla anche di alleanze e legge elettorale, sottolineando come la sua riforma sia «prioritaria e indifferibile», ma all’ordine del giorno c’è il nodo del lavoro. Il Pd vota compatto la relazione Bersani. Un unanimismo che D’Alema – il più soddisfatto di tutti – saluta come una vittoria del Pd e una sconfitta di chi aveva giocato a sfasciarlo utilizzando il cuneo della riforma Fornero: «Chi ha sperato di spaccare il Pd e metterlo contro la Cgil rischia di finire come Willy il coyote». Una soddisfazione quella di D’Alema che se-

pef, Pier Luigi Bersani ha già messo le mani avanti: «Siamo ai risvegli amari dopo le favole rosa. Gli aumenti Imu, Irpef e le altre tasse non vengono dal cielo ma sono conseguenza del disastro Berlusconi, Tremonti, Bossi».

Parole che hanno spinto Sandro Bondi ad accusare il segretario del Pd di «mentire tre volte in una volta sola. In primo luogo perché omette di ricordare che il debito pubblico deriva dall’irresponsabile politica del consociativismo della sinistra; in secondo luogo perché non fa un’analisi seria e re-

Per scongiurare una nuova stangata fiscale si spera nella spending review. Le distanze tra Grilli e Giarda sponsabile della realtà e infine l’imposizione di nuove tasse è fondata sul pareggio di bilancio, condiviso in tutt’Europa». In quest’ottica diventa centrale la delega fiscale lasciata in eredità da Tremonti e che – con la promessa di riqualificare e rimodulare gli oltre 226 miliardi di incentivi fiscali – è diventata anche nelle manovre di Monti il grimaldello per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. In estrema sintesi Vittorio Grilli, ligio ai testi e agli impegni presi in Europa, dà già per scontato che siano strettissimi i margini per evitare un aumento della principale tassazione sui consumi. Anche perché in questo modo ha annullato la clausola di salvaguardia

condo fonti interne al Pd d’area veltroniana si potrebbe spiegare col fatto che comunque vada a finire la partita – sia nel caso cioè che Monti accetti il condizionamento del Pd sia che il governo vada in crisi – il presidente del Copasir avrà comunque vinto essendo il suo interesse quello di riproporre assieme a un suo rentrè politico una coalizione di sinistra-centro con il Pd come perno, sventando il progetto di nuovo polo dei moderati e un governo di Grosse koalition. A rompere un po’il clima da libro cuore – considerando che anche Fioroni da l’ok a Bersani, auspicando però che il Pd sappia guidare una nuova coalizione di moderati e riformisti – è Rosy Bindi. Che ribadisce i toni energici usati dal Pd alla vigilia della direzione: «Non siamo subalterni a nessu-

di tremontiana memoria, che si sarebbe risolta in un taglio lineare soprattutto delle agevolazioni destinate all’assistenza. Ma non passa giorno che qualche esponente del governo – in primis lo stesso Monti, ma anche il potente ministro Corrado Passera – si prenda la briga di smentirlo e di annunciare soluzioni alternative. Gli unici che in questa face ostentano tranquillità sembrano i tecnici delle Finanze, che da ben prima il ritorno del centrodestra al governo stanno lavorando su questi provvedimenti. Dal loro diretto superiore (il titolare dell’Economia ad interim Mario Monti) hanno avuto l’imprimatur allo stesso impianto criticato da Giarda in Consiglio dei ministri. E che sostanzialmente è composto dalla riforma del catasto, dalla revisione del processo tributario, dall’introduzione di una tassazione ambientale indispensabile per evitare una nuova procedura di infrazione europea, la rimodulazione delle 702 incentivazioni e la nuova fiscalità per le microimprese, l’Iri, con la quale si riscrivono i pesi dell’imposizione del reddito da lavoro rispetto a quello d’impresa. Ed è su questo versante che ha intenzione di inserire Piero Giarda. Il quale vorrebbe estendere i confini della delega anche alla fiscalità comunale, in parte da riscrivere dopo l’introduzione dell’Imu, nonostante entreranno a regime i decreti sul federalismo lasciati in eredità da Calderoli. Ufficialmente si aspettano i dati del gettito prima di annunciare gli interventi, in realtà si sa già che la nuova imposta è da riscrivere. Giarda – da padre del de-

no e non è ideologico difendere il diritto alla non monetizzazione del lavoro». A Veltroni la Bindi ricorda che «il Pd deve essere si il partito dell’innovazione ma non c’è strumento nuovo che possa

creto 56/2000, la prima riforma sul federalismo fiscale – si sarebbe reso conto che la tassa, rispetto al passato, eroga meno fondi di quelli che sarebbero necessari ai municipi. I sindaci, oltre a dover pagare l’Imu anche sui propri fabbricati, infatti avrebbero già denunciato la necessità di una riscrittura dei fondi perequativi e delle regole del patto di stabilità interno. Per non parlare del fatto che l’imposta, così com’è, presenta un carico eccessivo sui fabbricati delle imprese (Calderoli prevedeva una moratoria sui siti commerciali) rispetto a quanto avviene per le persone fisiche, che non applicano la rivalutazione catastale sulle seconde case.

Di conseguenza si spera nella spending review per trovare i fondi necessari, e alla quale Giarda ha iniziato già a lavorare all’interno dei tavoli istituiti nel 2009 da Tremonti. Spiega dal Pd Pier Paolo Baretta: «Il sottosegretario Vieri Ceriani ha detto che i 226 miliardi in detrazioni e deduzioni sono distribuite in 700 voci. Credo che con un monitoraggio mirato, e fatto con imprese e sindacato, non sia impossibile trovare i 4 miliardi necessari per evitare l’aumento dell’Iva».

ci sarebbe stata una condivisione piena. Credo che Fornero si debba rassegnare a quelle che saranno le scelte del Parlamento». In evidente imbarazzo il vicepresidente del Pd Enrico Letta che votando la mozione Ber-

Tra Pd, sindacati e governo si rischia il muro contro muro e la crisi. L’Udc tenta la mediazione appellandosi al buon senso e indicando il compromesso italo-tedesco sull’articolo 18 smentire il principio della dignità del lavoro». Una risposta all’intervista di Veltroni sul tabù dell’articolo 18. A rinforzo arrivano anche le parole di Stefano Fassina, consigliere economico di Bersani: «La norma sull’articolo 18 così com’è non va bene e noi lavoreremo per cambiarla. Sul modello tedesco

sani si limita a dire: «Monti è tutt’altro che conservatore come troppi anche a casa nostra lo dipingono».Velenosa la dalemiana Velina rossa:«Difficilmente i cosiddetti oppositori di Bersani avrebbero avuto il coraggio di fare una scissione – scrive Pasquale Laurito – anche per assenza di chiese di-

sposte ad accoglierli». Se il Pd usa toni concilianti è perché unisce anche i liberal sulla proposta labour: ma nella sostanza resta una differenza inconciliabile con la linea del governo. Una contrapposizione che il Pdl tende a divaricare.

Una situazione pericolosa che rischia di innescare una crisi e l’interruzione d’un percorso di ricucitura nazionale appena iniziato. Per questo dal Terzo polo arrivano inviti alla calma: «Difendiamo la riforma del lavoro di Monti e Fornero ma certo sono possibili miglioramenti in parlamento – dice il deputato dell’Udc Pierluigi Mantini – sui licenziamenti economici dell`articolo 18 è possibile una conciliazione giudiziaria. Un modello italo-tedesco». Ma basterà la mediazione dell’Udc?


Italia & Lavoro

pagina 4 • 27 marzo 2012

Per l’ex sindaco di Venezia, Bersani è costretto alle primarie: unico sistema per avere una certa forma di vitalità

Gli indecisionisti

«È la solita storia, con una parte del Pd che spinge a destra e l’altra a sinistra. Ormai le correnti interne non fanno più politica: aspettano solo le elezioni per contarsi. E così il vecchio progetto è svuotato»: la polemica di Cacciari di Franco Insardà

ROMA. «Il Pd è come l’asino di Buridano. Lo vado ripetendo da mesi». Il professor Massimo Cacciari affida l’attuale situazione del Pd al paradosso del somaro che, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza, non sa scegliere quale iniziare a mangiare morendo di fame nell’incertezza. Ieri Pier Luigi Bersani, nella relazione di apertura della direzione del Pd, ha detto: non siamo il partito delle cento voci. È scontato che in questa fase il Pd e il suo segretario abbiano una posizione, almeno formalmente unitaria. Non possono dire niente di diverso. Fino alle elezioni non ci sarà alcuna rottura all’interno del Partito democratico, resterà tutto più o meno congelato su questa “linea-non linea di Bersani”. E cioè? Appoggio al governo Monti con correzioni. Obiettivi, alleanze, primarie e leadership: sono que-

sti, secondo Ilvo Diamanti, i quattro dilemmi del Pd. È d’accordo? L’argomento è di strategia politica. Il Partito democratico non è riuscito a dare vita ad alcuna fase costituente al suo interno e non c’è stato un dibattito su questi argomenti. Non ha fatto i conti con se stesso quando si è costituito, ha finto di poter fare a meno di un vero dibattito congressuale, limitandosi a far convivere le diverse anime. Senza tanti giri di parole basta confrontare Europa e L’Unità, i due giornale del Pd, per rendersi conto praticamente della diversità delle posizioni in quel partito. Dicono esattamente l’opposto su tutto. Siamo al ridicolo. Come mai il Pd, con le sue divisioni, è uscito indenne dalla riforma delle pensioni e, invece, è andato a sbattere su quella del lavoro? Quella delle pensioni era più inevitabile della riforma del lavoro, perché le misure previ-

denziali prese sono molto più ovvie e naturali rispetto alla modifica dell’articolo 18. Come si spiega questa posizione rigida di Monti? Non mi è chiara. L’unica spiegazione razionale potrebbe essere quella che Monti stia pensando a una coalizione di centro senza il Partito democratico. Non so fino a che punto possa convenire allo stesso premier. Non c’è via d’uscita, quindi, per il Pd?

«Monti è stato il catalizzatore che ha fatto emergere le incompatibilità»

Il problema è culturale e politico, perché il Pd non è riuscito a definirsi strategicamente su tutti i temi fondamentali: mercato del lavoro, nuovo welfare, giustizia, scuola. È vissuto dell’opposizione a Berlusconi e, sostanzialmente, ha mantenuto le tradizionali alleanze uliviste. E adesso? La situazione è cambiata e il Pd deve fare i conti con questa grande novità rappresentata, volenti o nolenti, da Mario Monti. In questo quadro il

Terzo Polo appoggia da sempre l’azione del premier, l’Europa e i poteri forti hanno dato il loro placet, Alfano e quella parte liberale del Pdl ha preso posizione. E il Pd che cosa fa? Corre il rischio mortale di essere tagliato fuori. Ma ieri Bersani alla direzione del partito ha ribadito il sostegno al governo Monti. Lo dice con forza, ma l’unico risultato che rischia di ottenere e quello di perdere un sacco di voti a sinistra e regalare praterie ai Di Pietro e ai Vendola. Quale è più attuale: la foto di Vasto o quella di Bersani con Monti e Casini? Sono due foto assolutamente contraddittorie e incompatibili che Bersani finge di poter continuare a tenere insieme. Sempre ieri il segretario del Pd ha annunciato che senza riforma elettorale il Pd farà le primarie sui parlamentari. È costretto a questo rito delle


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Rischio cortocircuito tra le lacerazioni di Bersani e la tentazione di Alfano di approfittarsene

Pdl e Pd attenti: chi prova a far cadere Monti, rischia il suicidio La stagione della responsabilità dei partiti deve continuare perché in ballo non c’è solo il destino del governo, ma quello di tutto il Paese di Osvaldo Baldacci ltre il governo Monti per l’Italia c’è il baratro. Riflettano attentamente quelli che manovrano per far tornare la vecchia politica». Lo ha detto con chiarezza ieri il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione, come sempre in perfetta sintonia con Pierferdinando Casini, che a sua volta ripete continuamente che l’emergenza non è finita, i problemi del’Italia non si possono risolvere certo in quattro mesi, e comunque nessuna forza politica è in grado di farlo da sola: «Siamo nel mezzo di un’emergenza che non è finita. In qualche mese questo governo è riuscito a fare quello che gli altri governi, quelli del mitico bipolarismo, non hanno fatto rinviando i problemi. Noi siamo impegnati dal mattino alla sera a fare gli sminatori per cercare di fare andare avanti tranquillo Monti. C’è chi tira da una parte e chi tira dall’altra se si continua così il governo prima o poi entra in crisi sul serio e sarebbe un atto di irresponsabilità allo stato puro». Sulla stessa linea, il cardinale Bagnasco che, aprendo il consiglio permanente della Cei, ha invitato i partiti a ripensarsi e a evitare di sfruttare ”rendite di posizione”. L’Italia deve anadare avanti, non ci sono più dubbi.

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Il messaggio sembrerebbe compreso e condiviso, e proprio nelle ultime ore sono arrivate molte conferme in tal senso. A parole, che sono meglio di niente, ma bisognerà vedere i fatti. Il rischio al momento è altissimo. I fattori “destabilizzanti” che offrono sponda alle fazioni più irresponsabili sono molti. Le elezioni amministrative prossime venture, ovviamente, che come ogni campagna elettorale dividono e infuocano il clima, legittimamente, ma pericolosamente. Poi c’è la riforma del lavoro, senz’altro tema particolarmente sensibile ma come un po’ tutti quelli che questo governo è costretto a toccare per risanare il Paese. E infine, ultimo ma non ultimo, c’è il grave problema del fatto che adesso inizia ad arrivare sugli italiani il vero impatto delle manovre varate nei mesi e negli anni scorsi. Se cioè si stanno mettendo le basi per la ripresa, gli effetti concreti della crisi è ora che cominciano a impattare, sono le buste paga di questa difficile primavera a scendere, sono i costi della spesa a salire, e adesso arriverà anche l’Imu e probabilmente l’aumento dell’Iva. È normale che gli italiani siano spaventati e preoccupati, e anche arrabbiati. Il punto è che non si può certo dare la colpa della malattia al dottore che cerca di curarla. Eppure questo è lo sport più in voga in Italia: facile aspettarsi che tanti politicanti nostalgici della vecchia politica fallimentare (ma che ha garantito

loro il potere) rincorrano il populismo e alimentino gli istinti più bassi dei cittadini. Ma non è questo quello che ci porterà fuori dalla crisi, non è questo quello che devono fare delle forze politiche responsabili. I partiti devono avere il coraggio di fare delle scelte e di assumersi la responsabilità delle scelte che fanno, e l’unica scelta seria in questo momento è quella di proseguire nella politica di riforma e sobrietà del governo Monti. Sta proprio ai partiti responsabili fare il contrario di quello che fanno i politicanti irresponsabili: garantire stabilità al governo e spiegare con tenacia

Come ha detto Casini, se ognuno continua a tirare dalla propria parte, l’esecutivo può perdere l’equilibrio

le buone ragioni ai cittadini che hanno tutto il diritto di sentirsi turbati. Per questo bisogna togliere le mine dal cammino del governo. Ma ci sono dei seri nemici al presente, e questi sono il passato e il futuro. Se infatti questo presente serve proprio a garantire un futuro all’Italia, altri invece lavorano in questo presente solo pensando con grande miopia al proprio egoistico futuro. E per quanto riguarda il passato, è dura ammettere che i costi salati che ora si devono pagare sono colpa non dell’esattore di turno, ma di chi negli anni passati ha fatto debiti e ha fatto precipitare la situazione. Ecco dunque che se quei responsabili del passato pensano solo a costruirsi un passaporto per il loro futuro, è inevitabile che a farne le spese saranno il presente, la verità e l’Italia.

Ma la speranza che la responsabilità prevalga è sempre viva. Che ci si renda conto che solo tutte insieme le forze politiche responsabili e riformiste possano affrontare i decennali problemi dell’Italia, il rilancio dell’economia, la costruzione di un quadro istituzionale e politico meglio funzionante, la sfida determinante della competitività. Lo dicono anche i leader di Pd e Pdl. Alfano ha confessato di aver messo in conto “di pagare un dazio al governo”in termini di minori consensi. Alla lunga sarà premiato, se terrà la barra dritta. Se invece il suo partito scade in schermaglie per approfittare delle difficoltà del Pd e per difendere i propri interessi ad esempio in Rai, se continua a pensare che sia determinante l’asse con la Lega che è su posizioni opposte e demagogiche su tutto quello che riguarda il governo Monti, allora il Pdl è responsabile solo a parole, solo a intermittenza, solo quando si discute di provvedimenti che gli convengono, ma si mette di traverso in tutti gli altri casi. E lo stesso discorso in modo speculare vale per il Pd. Bersani ieri in direzione ha confermato il sostegno al governo, e ha detto anche di non essere contro la riforma del lavoro ma solo per migliorarla. E lo stesso per le altre riforme, a partire da quella elettorale.“Nessuna persona ragionevole può pensare di buttare giù il Governo, dice D’Alema. Tutto giusto, se il Pd avrà la forza e il coraggio di confermarlo nei fatti. Solo il tempo sarà galantuomo. Ma per prima cosa il tempo bisogna darlo all’Italia e quindi al governo Monti. Difficile capire come qualcuno oggi possa pensare di tramare per mandare all’aria tutta la politica di rigore e serietà per prepararsi a ricostruire un governo dell’Italia affidato alla vecchia alleanza PdlLega o a quella Pd-Idv-Sel.

primarie. Laddove non esiste una vera discussione, una democrazia interna e una vita di partito le primarie rimangono l’unico sistema per avere una certa forma di vitalità. È naturale che sia così, la mia non è una critica, perché non è una loro responsabilità se non c’è più vita di partito. Le colpe sono da ricercare soprattutto nell’evoluzione sociale e nella cultura comune. Come giudica l’attivismo degli ultimi giorni di Massimo D’Alema? È senza dubbio preparatorio delle prossime elezioni, nelle quali conterà il numero di parlamentari che le diverse correnti riusciranno a portare a casa. Non il Pd nel suo insieme. Da questo dipenderanno anche le alleanze future? Sarà interessante vedere come si dispiegheranno i nuovi equilibri in vista del voto e, ancora di più dopo le elezioni. Il gioco di D’Alema è abbastanza chiaro: formare un governo di coalizione con Casini in Parlamento dopo il voto. L’allarme di Casini sul rischio di una possibile crisi del governo Monti è reale? È difficile che un’ipotesi del genere possa verificarsi. Sarebbe, però, opportuno che da parte dei ministri si usasse una maggiore cautele in certe dichiarazioni e battute. A chi si riferisce? La dichiarazione del ministro del Lavoro Elsa Fornero: “se si fosse trattato di distribuire caramelle bastavano i politici” è suonata come una vera e propria provocazione. Per quanto la politica sia in crisi a tutto c’è un limite. Tra l’altro c’è il rischio di risvegliare i cani che dormono, anche se è evidente a tutti che non esistono alternative al governo Monti. E nel nuovo Parlamento? Sarà difficilissimo andare a votare con candidati diversi, ma con l’intento di allearsi dopo. L’elettorato ormai è abituato a votare per il presidente del Consiglio. Sarebbe un compito davvero arduo, una sorta di salto mortale. Ma in questo sono impegnati D’Alema e Bersani: è chiaro come il sole. Se il salto mortale non riesce? Il Partito democratico si spezza e i Veltroni, i Fioroni e gli altri moderati se ne vanno. Le dichiarazioni di queste ore lasciano il tempo che trovano alla normale retorica politica. La politica è fatta anche di retorica, di miti e di simboli. È evidente che Bersani e tutti gli altri dicano che il partito è unito, non potrebbero dichiarare il contrario. Neanche la Democrazia cristiana lo faceva. È evidente che nel Pd ci sono delle linee incompatibili e Mario Monti è stato l’elemento catalizzatore che le ha fatte emergere in maniera netta. Ci sarà l’inevitabile show down.


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Italia & Lavoro Pubblichiamo alcuni stralci della prolusione pronunciata ieri dal presidente della Cei

Ora nuovi partiti. Per cambiare l’Italia «Impossibile preservare vecchie rendite di posizione: occorre imparare un nuovo modo di pensare» di Angelo Bagnasco l Paese, come il resto dell’Europa, è in sofferenza: non si può negarlo. Le parrocchie e le formazioni sociali che vivono a contatto con la gente lo constatano ogni giorno. Tutto rincara e il budget familiare diminuisce. Cambiano così le abitudini, si rivede l’ordine delle scelte. Con i provvedimenti adottati è stato portato al sicuro il Paese, facendo proprie – pur con qualche adattamento – le indicazioni comunitarie. Bisogna però che si approfitti il più possibile di questa stagione, in cui si è costretti a dare una nuova forma ai nostri stili di vita: uscire dall’immobilismo; cominciare a fare manutenzione ordinaria del territorio; continuare nella lotta all’evasione fiscale; semplificare realmente alcuni snodi della pubblica amministrazione; dotarsi di strumenti pervasivi e stringenti nel contrasto alla corruzione e al latrocinio della cosa pubblica. Soprattutto, azionare tutti gli strumenti e investire tutte le risorse a disposizione – dello Stato, dell’imprenditoria, del credito, della società civile – per dare agli italiani, a cominciare dai giovani, la possibilità di lavorare: non solo per sopravvivere, ma per la loro dignità. Ma anche approfittarne per rinnovare i partiti, tutti i partiti: non hanno alternativa se vogliono tornare – com’è fisiologico – ad essere via ordinaria della politica ed essere pronti – quando sarà – a riassumere direttamente nelle loro mani la guida del Paese. Per intanto dal Governo sono attese soluzioni sospirate per anni. Come Vescovi chiediamo di tenere insieme equità e rigore. La congiuntura ci deve migliorare, non appiattire e ancor meno schiacciare Si dovrà probabilmente lavorare molto prima di tornare a vedere risultati importanti, ma quel che conta sono i segnali affidabili e concreti che devono arrivare dalla classe dirigente. Senza uscire dal novero delle nazioni industrializzate, anzi preservando nella ragionevole flessibilità gli insediamenti che coltivano le specificità e le

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eccellenze, dobbiamo perseguire un’economia sociale di mercato, nella linea della cooperazione e dei sistemi di un welfare condiviso. Il modello economico perseguito lungo i decenni dal nostro Paese è stato ed è una prodigiosa combinazione tra famiglia, impresa, credito e comunità. È l’insieme che va reinterpretato e rilanciato, recuperando stima nelle imprese familiari e locali, a cominciare da quelle agricole e artigianali. Nella realtà odierna nessuno può pensare di preservare automaticamente delle rendite di posizione.

Bisogna sapersi misurare con le mutazioni incalzanti che costringono ad un pensare nuovo. Bene sommo è la persona, e la persona che lavora; per questo vanno create le condizioni perché le opportunità di impiego non sfumino, e con esse le abilità manageriali e i capitali necessari all’impresa. La globalizzazione è una condizione ineluttabile, con aspetti che, se non governati, possono modificare radicalmente i destini di un popolo: per questo dobbiamo starci

mo grati per i riconoscimenti, anche se la Chiesa non li cerca agendo anzitutto per fedeltà al proprio Signore, consapevole della propria bimillenaria esperienza di evangelizzazione e promozione umana. Nessuno peraltro può dubitare di questa presenza discreta e quotidiana, sostenuta dall’amore a Cristo e al mondo: la fede genera carità e la carità nasce dalla fede. I riconoscimenti raccolti li trasmettiamo naturalmente ai nostri amati sacerdoti e diaconi, ai consacrati e al grande stuolo dei volontari delle parrocchie e delle aggregazioni laicali che quotidianamente sono riversi sul servizio della carità. A loro diciamo la nostra parola di incoraggiamento per intensificare – insieme – ogni ulteriore sforzo e generoso impegno, affinché si rafforzi il reticolo di solidarietà che manifesta la maternità della Chiesa.

Mentre la crisi perdura, chiediamo che sollecitamente si avvii la sospirata fase di ripresa e degli investimenti in grado di creare lavoro, che è la priorità assoluta. L’approccio finanziario, infatti, senza concreti e massicci piani industriali, sarebbe di ben corto respiro. Solamente ciò che porta con sé lavoro, e perciò coinvolge testa e braccia del Paese reale, ridà sicurezza per il presente e apre al futuro. Perché questo accada, è necessario che lo Stato e gli enti locali siano solventi e lungimiranti e gli istituti bancari non si chiudano in modo indiscriminato alle richieste di piccoli e medi imprenditori: non ogni ristrutturazione va valutata con diffidenza; è necessario considerare, caso per caso, situazioni e persone, l’onestà insieme all’affidabilità, e alla quota di controllabile rischio senza il quale non può darsi alcun salto nella crescita. C’è bisogno – e questo è il momento – che la gente ritrovi l’entusiasmo per le relazioni e si rimetta assieme in modo creativo per far girare il ciclo del lavoro. Gioverà poi memorizzare gli insegnamenti di questa stagione che dovranno persistere anche oltre la stretta.

Mentre la crisi perdura, chiediamo che si avvii la sospirata fase di ripresa e degli investimenti in grado di creare lavoro, che è la priorità assoluta

dentro con la nostra cifra sociale, superando con la necessaria gradualità gli strumenti che sono inadeguati, per raggiungere, nelle condizioni date, la soluzione meglio condivisa. È necessario affrontare i singoli problemi nell’orizzonte di una strategia di fondo. Con animo sgombro da pregiudizi, si tratta di riconoscere ciò che effettivamente segna un avanzamento, quale che sia il soggetto proponente. Ora la strada e il tempo del confronto vanno percorsi fino in fondo, con onestà intellettuale e indistruttibile fiducia nel comune desiderio di riuscire nell’impresa.

Da diversi ambienti giungono voci che riconoscono e incoraggiano l’iniziativa della Chiesa a fronte dei bisogni crescenti.Tra questi, scorgiamo la povertà alimentare, di alloggio, di medicine. Noi Pastori accogliamo questi appelli che si moltiplicano anche da aree fino a ieri sufficienti; sia-

Mi riferisco alla capacità di sacrificio e di adattamento, virtù dell’anima


Italia & Lavoro

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Il cardinale auspica una rapida approvazione della legge su questi temi

«La vita e i suoi valori non si negoziano mai»

Lungo intervento su bioetica, aborto “selettivo”, alimentazione in coma: «Torniamo ai principi» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. Come era largamente prevedibile, parole del cardinale, la questione ricorda

In alto, i lavori del Consiglio della Conferenza episcopale italiana. A sinistra Eluana Englaro. Nella pagina a fianco, il cardinal Bagnasco che talora, nell’abbondanza, sembra venir meno, senza essere finora mai scomparsa, tanto da riemergere come riserva preziosa. In secondo luogo, l’energia scaturente dai vincoli familiari, supporto indispensabile nelle emergenze, sostegno che mentre dà educa, e mentre educa non lascia mai soli. Anche in questo tornante stretto della vicenda nazionale sono state le famiglie a rivelarsi punto di forza che, nel momento del bisogno, hanno saputo spremere il meglio di sé e sorreggere l’intero sistema. Quindi l’attitudine al risparmio, anche piccolo, che in certi momenti viene irriso con sufficienza per essere meglio depredato dalla cultura dello spreco, quando invece è risorsa semplice e benefica nelle fasi di congiuntura. Infine, la tenuta delle reti di prossimità e pronto intervento che, grazie anche alla provvidenza dell’otto per mille, la comunità cristiana assicura indistintamente ad utilità di tutti. Senza dire poi dell’esito rigenerante che ha l’atteggiamento dell’accoglienza, in risposta alla fame di relazioni e di compagnia. Ci sono condizioni che solo l’abbraccio genuino può sciogliere in chi è paralizzato dalla paura e dalla solitudine. Solamente chi ha sperimentato l’abbraccio fraterno e incondizionato che scatta spontaneo dal tessuto di una comunità – seppur non risolve d’incanto i problemi concreti – può lenire le ferite dell’anima, stemperare il risentimento, riaccendere la fiammella della fiducia, rinnovando energie esauste.

Sul contributo perdurante – e semmai intensificato – dei cattolici al difficile momento della Nazione e dell’Europa non è dato di dubitare.Viva è la coscienza della «responsabilità verso il prossimo (che) significa […] volere e fare il bene dell’altro» (Benedetto XVI, Discorso ai soci del Circolo San Pietro, 24 febbraio 2012), e degli altri, di tutti gli altri, secondo

una logica del tutto inclusiva. Si continua – mi pare – lungo la strada intrapresa, magari con meno clamore, eppure puntando ad una reale efficacia, sviluppando le iniziative che i vari soggetti aggregativi decidono liberamente di assumere sul versante eminentemente politico. Sul fronte ecclesiale, e sul crinale in cui l’ecclesialità si intreccia con la socialità, osserviamo che il confluire delle associazioni e dei movimenti di ispirazione cristiana nei tre organismi da tempo attivi – il Forum delle Associazioni familiari, Retinopera e Scienza & Vita – prosegue in termini di confronto su tematiche nodali per l’impegno dei laici.

A questi si aggiungono le scuole di impegno socio-politico che, proprio agli inizi di questo mese di marzo, hanno avuto un importante momento di confronto nazionale, e che sono espressione dell’inventiva pastorale e formativa della Chiesa. Queste scuole intendono realizzare, rispetto alla presenza dei cattolici sul territorio, un accompagnamento che fornisca il sostegno culturale e morale necessario, un accompagnamento appropriato perché mai deve dividere le comunità, né renderle di parte, né esporle a possibili strumentalizzazioni. Si intende elaborare ora una sorta di modello ideale di scuola che sia di riferimento e indicazione, persuasi tutti noi che la formazione richiede organicità, articolazione disciplinare, metodo di maturazione, percorsi di esperienza in cui il rapporto con la realtà è decisivo. L’ormai prossima beatificazione di Giuseppe Toniolo, esponente esemplare del laicato italiano, si pone come un’occasione speciale, non solo per rivisitarne la figura, ma per evidenziare gli elementi di quel ceppo da cui è derivato, per il nostro Paese, un cattolicesimo incisivo e fecondo. Siamo certi che sarà un evento di Chiesa e di popolo.

l’intervento con cui l’arcivescovo di Genova ha aperto il Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana è stato improntato sui temi che in questi giorni attanagliano il Paese. Dopo aver ringraziato Benedetto XVI per la riconferma alla carica di presidente della Cei, il presule ha voluto spaziare per i problemi del Paese. Dall’economia al mercato del lavoro, il cardinal Bagnasco ha presentato il punto di vista dei vescovi italiani e ha proposto soluzioni pratiche e di buon senso. Ma il porporato ha voluto dedicare un’ampia parte della propria prolusione all’emergenza rappresentata dalla bioetica in Italia. Non esistono, spiega il presule, «casi in cui la vita sia diversa o di minor valore». L’intervento viene aperto dalla “aberrante” legittimazione dell’infanticidio, «assurdamente presentata in riviste scientifiche internazionali: in sé qualcosa di aberrante, se non addirittura di mostruoso. Per questi studiosi, di origine italiana, quello che secondo loro si può fare sul feto, ossia l’aborto, sarebbe possibile anche sul bambino appena nato». «E perché anche non successivamente? – si chiede ancora il cardinale – così, in breve, dall’interruzione volontaria della gravidanza, di cui è ineluttabilmente vittima un bambino che deve ancora nascere, si passerebbe all’eutanasia di questi una volta nato. A proposito infine di eutanasia, va registrata purtroppo un’altra tesi preoccupante, nel frattempo apparsa pure in sede scientifica internazionale: la nutrizione e l’idratazione dovrebbero essere sospese a tutti i pazienti in stato vegetativo permanente, salvo che non ci sia l’evidenza di una volontà esplicita del soggetto gravemente ammalato». Di questo tema, che dal “caso Eluana” in poi ha scosso la penisola, il cardinal Bagnasco parla a lungo: «Siamo cioè all’inaccettabile rovesciamento della prospettiva di quanto in Italia prevede il disegno di legge che, approvato alla Camera, attende l’auspicabile sì del Senato. Naturalmente noi siamo gli ultimi interessati a fare del sensazionalismo su simili temi, e tuttavia ci corre l’obbligo in coscienza di rilevare come certe ipotesi, che fino a ieri neppure affioravano alla mente umana, sembra che non generino oramai alcun raccapriccio sociale, alcuno scandalo generale». Nelle

un piano inclinato «imboccato il quale è poi difficile fermarsi». Questo «è stato per anni un argomento rifiutato. Oggi gli effetti di quel rifiuto rischiano di essere esiziali. Ci rendiamo conto naturalmente che in un frangente culturale in cui si torna a brandire la dissoluzione della realtà, la negazione radicale di qualsiasi ipotesi di verità, quanto appena enunciato si trova pienamente in linea. Quando la volontà dei singoli prende il sopravvento sulla conoscenza delle cose, essa violenta la realtà fino a negare – come sta accadendo – le evidenze che accomunano gli uomini».

Nel nostro tempo, spiega ancora Bagnasco, «più che dormire, la ragione sembra piegarsi alla tracotanza individuale, la quale anziché adeguarsi alla realtà, pretende sia la realtà ad adeguarsi ad essa. Ma di questa volontà di potenza – di condizionamento e di propaganda – magistralmente sostenuta e diffusa dal pensiero unico, ormai si va criticamente prendendo atto anche in ambienti certo non confessionali, e questo è segno di speranza. Per i cattolici in particolare, è un ulteriore motivo per stare dentro al dibattito generale, e contribuirvi lealmente. Non è vero che si è esaurita la stagione del confronto laici-cattolici, come qualcuno ciclicamente obietta; piuttosto è vero che in questa ricerca si gioca la più alta avventura della coscienza umana». Non ci sono vite non degne, conclude il suo passaggio il porporato: «Che si tratti di bambini down, o disabili gravi, o malati psichici di difficile gestione, o malati terminali. Non esistono ragioni economiche per sopprimere o abbandonare una vita malata. Sarebbe la barbarie. Quando nel dibattito pubblico arriva l’eco di discussioni – sperando che solo di queste si tratti – che avverrebbero in taluni nosocomi del nostro Paese dove, per esigenze di budget, si vorrebbero rifiutare cure costose a beneficio di chi non ha più realistiche prospettive di vita, è il momento della massima all’erta, quello in cui stanno indebolendosi i presidi dell’umano, e si capisce che cosa vale in concreto la vita di ciascuno di noi. Nessun accanimento – possiamo convenirne –, ma neppure sentenze sbrigative, negligenti, o rinunciatarie in partenza».

Nel nostro tempo «più che dormire, la ragione sembra piegarsi alla tracotanza individuale»


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uella di Zanotti Bianco era una personalità proteiforme che ha lasciato un segno in molti campi nei quali egli si è impegnato: campi tra di loro diversi ma complementari e che erano tenuti insieme da una visione umanistica e da un impegno etico politico di rara continuità e coerenza. Basterebbe citare qualche definizione che in differenti stagioni ne hanno dato coloro che gli hanno dedicato un ricordo e che lo conoscevano: «quel demonio di archeologo» (S. De Feo); «l’umanista umanitario» (N. Ruffini); il «missionario laico» (V. Longo e E.Tagliacozzo); «l’apostolo laico» (A. Galante Garrone), il «pioniere sociale» (L. Sicari); il «meridionalista del Nord» (M. Novielli); «un impolitico in politica» (V. E. Alfieri).

Q

Zanotti Bianco era un uomo di grande fascino, dall’elegante silhouette di gentleman inglese (la madre era di nazionalità britannica, di lontana origine svedese era nipote di un console inglese) e dai modi raffinati; discendente da una famiglia di “nobiltà di servizio” piemontese, legata alla dinastia e alle carriere dello Stato (…). Questo background familiare spiega l’alto senso dello Stato, che ispirò i suoi comportamenti quando gli capitò di svolgere funzioni pubbliche. … Aveva quelle qualità che ne avrebbero fatto un grande diplomatico, basti pensare ai rapporti che seppe tenere con i rappresentanti delle “nazionalità oppresse”, dopo la prima guerra mondiale. Di queste qualità si avvalse anche per condurre in porto delicate operazioni di carattere umanitario che riguardavano l’estero e quella missione che egli compì in Somalia nel secondo dopoguerra, e in genere le sue attività culturali, per ultimo la presidenza della Cri, la funzione di senatore della Repubblica. Vivo in lui fu l’attaccamento alla monarchia e il sentimento patriottico. Naturale fu la sua adesione al liberalismo che non fu soltanto un patrimonio acquisito e la cui originalità dipese dal personale percorso intellettuale e dalla sua vicenda umana. Egli fece parte di quel filone di liberali cattolici di cui N. Raponi scriveva: «Si tratta per lo più di intellettuali ed uomini politici non legati al liberalismo dottrinario classico, ma piuttosto a quel liberalismo inglese a sfondo religioso […] che esercitò una larga influenza nell’età del Risorgimento e nei decenni immediatamente successivi; sensibili al principio dell’efficacia del sentimento religioso nella società civile desunto dal Tocqueville; legati alcuni ai riformatori dell’Ottocento europeo, in modo particolare Andrzej Towia\u0144skj […] cui attinse ad esempio Zanotti Bianco nei suoi anni giovanili». (...) Chi ha vissuto in “Roma occupata” ricorda l’atmosfera surreale che regnava nella capitale. Da una parte si viveva nell’attesa della liberazione che non sembrava arrivare mai e, dall’altra, nella disperata necessità di affrontare giorno per giorno le difficoltà materiali e i rischi che si presentavano all’improvviso. Erano tempi del sospetto, delle delazioni, dei doppi e tripli giochi; in cui ognuno diffidava dell’altro e non si sapeva che cosa pensasse o da che parte stesse l’interlocutore che si aveva di fronte e di chi ci si potesse fidare. Allo stesso tempo si poteva essere oggetto di atti inaspettati di solidarietà e di altruismo: tempi di grande vigliaccheria e di ordinario eroismo. Se vi era una Roma su cui i tedeschi e i loro alleati esercitavano una cieca violenza: la Roma degli attentati, dei rastrella-

il paginone Nel centenario dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi), si presenta oggi nella Capitale (a Palazzo Valentini, via IV Novembre 119/a, ore 17) La mia Roma. Diario 1943-1944 di Umberto Zanotti Bianco, tra i fondatori dell’Animi di cui fu anche presidente. Il volume (pubblicato da Piero Lacaita Editore, a cura di Cinzia Cassani) fornisce una preziosa e inedita testimonianza dei giorni in cui la città fu occupata dai nazisti, da parte di un antifascista liberale impegnato a tessere le file di un’altra Resistenza, attiva accanto a quella che faceva capo al Cnl. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo un brano della Prefazione al Diario di Fabio Grassi Orsini.

menti e delle esecuzioni sommarie, dove si respirava il clima di “fine impero” che P.P. Pasolini ha ben rappresentato, nei suoi aspetti morbosi e sadomasochisti, nel film Salò, vi era anche un’“altra” Roma: una Roma parallela e sotterranea; la Roma della resistenza morale, della solidarietà nei confronti degli antifascisti ricercati, che venivano nascosti nelle loro case da amici che si esponevano a pericoli alle volte non inferiori a quelli che cor-

ne che fossero le donne ad avere una parte prevalente in questa complessa opera di resistenza civile, ma sarebbe sbagliato pensare che abbiano avuto una funzione sussidiaria nei riguardi degli uomini. Erano persone colte, indipendenti e politicamente impegnate, che agivano in proprio. Nel Diario compare, inoltre, una folla di personaggi: aristocratici, anziani politici del pre-fascismo; giovani che, pur non avendo avuto esperienze politiche,

Roma 1944, l’a Nel ”Diario” di Zanotti Bianco, l’inedita testimonianza delle attività di soccorso e di timori della popolazione nella città occupata dai nazisti di Fabio Grassi Orsini revano i loro ospiti; la Roma che rispondeva all’appello delle organizzazioni caritatevoli, laiche e cattoliche, che cercavano di venire in soccorso dei bambini degli asili, che rischiavano di morire di fame, dei malati negli ospedali, privi di medicinali e perfino di bende per curare le ferite; una città in cui le signore dell’alta borghesia e dell’aristocrazia lavoravano per la resistenza militare (...). Dalla lettura del Diario si ha l’impressio-

assunsero ruoli di leader naturali nella clandestinità; giornalisti famosi e alle loro prime prove; professori universitari, scienziati, banchieri, funzionari, diplomatici, militari che appartenevano quasi tutti al mondo liberale e ai partiti laici, ma anche cattolici, che erano stati fascisti o che nella crisi del regime si erano decisi a prendere posizione contro di esso o semplicemente volevano acquisire meriti nei confronti di coloro che sarebbero stati i

vincitori e si rivolgevano ai partiti più moderati e affidabili nella transizione verso la democrazia.

Si tratta di una novità rispetto al quadro che presentano numerose ricostruzioni storiche dove si descrive una situazione molto polarizzata in cui, da una parte, vi erano i tedeschi, considerati come degli invasori guardati con terrore, non solo da chi era notoriamente antifascista ma da chiunque poteva capitare in un rastrellamento ed essere arrestato, e i fascisti irriducibili che consideravano Badoglio e il re dei“traditori”; si schieravano dalla parte dei nazisti ritenendo di salvare l’onore della nazione, dall’altra, una resistenza rappresentata soltanto dai partiti del Cln, egemonizzati dai comunisti e dai democristiani. In mezzo una popolazione chiusa in un atteggiamento apatico e attesista. Dal Diario di Zanotti Bianco emerge, invece, una situazione in cui, accanto all’organizzazione politica del Cln, era molto attiva la resistenza militare e si era venuta a creare una rete che operava al di fuori di essa, ma che collaborava sia con il


il paginone

te vita durante la prima guerra mondiale soprattutto dopo Caporetto. Questa rete, di cui Zanotti Bianco si trovò al vertice, cercò di venire incontro a una popolazione che soffriva per la scarsità di cibo che non poteva essere alleviata dal mercato nero. Zanotti Bianco e la sua organizzazione cercarono di procurarsi bende per i feriti, raccogliere fondi per le cucine economiche, sopperire ai bisogni degli ospedali, raccogliendo medicinali e viveri e a questo scopo si rivolgevano ai banchieri (Banco di Roma, Banco di S. Spirito, Banca Commerciale),

altra Resistenza Cln che con la rete militare e aveva come scopo quello di nascondere gli antifascisti che non avevano potuto trovare asilo in Vaticano o in sedi extraterritoriali della Santa Sede; impegnata a dare rifugio ai militari alleati alla macchia, sottraendoli alla cattura; a facilitare il passaggio delle linee a militari e funzionari italiani che volessero raggiungere Brindisi; a soccorrere i rifugiati e infine a organizzare mense per i poveri. Nelle memorie di Zanotti Bianco si ha la

agli industriali e alla stessa Confindustria, cercare alloggi per i rifugiati e fornire loro assistenza in una città dove l’amministrazione civile era latitante e l’autorità era svanita, con eccezione di quella degli occupanti. Non vi è dubbio che l’attività principale che Zanotti Bianco svolse fu per conto del Partito liberale, ma egli cercò la collaborazione di altre organizzazioni caritatevoli, soprattutto cattoliche come l’Opera di S. Gregorio, diretta dal marchese

Oggi nella Capitale la presentazione del volume che ha visto la luce grazie all’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, di cui “l’umanista umanitario” è stato fondatore e presidente. Ne anticipiamo un brano...

Umberto Zanotti Bianco con Maria Josè e in altri due scatti conservati nell’Archivio dell’Animi. Al centro, un’immagine tratta dal film di Roberto Rossellini “Roma citta aperta”

testimonianza di questa attività quotidiana di carattere umanitario, che costituiva un’opera di antifascismo pratico, teso a salvare molte vite umane e sorreggere lo “spirito pubblico”e che era - in condizioni così diverse - un tentativo di ricostruire nella clandestinità quello spirito dei Comitati di mobilitazione civile cui si det-

Sacchetti, l’Opera Boriani; e l’Azione Cattolica (anche se spesso si creavano problemi con il Vicariato che agiva nello stesso campo). Non va, poi, trascurata l’opera che svolse in seno al comitato tecnico per l’assistenza del Cln di cui faceva parte e per conto del quale redasse una relazione destinata allo stesso Cln.

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Nel giornale di Zanotti Bianco ha ovviamente spazio la Roma della repressione: vengono registrati la caccia agli ebrei; gli arresti… Si hanno notizie dell’eccidio di viale Giulio Cesare (dove i tedeschi spararono a una donna che protestava per vedere il marito detenuto perché renitente, aprendo poi il fuoco sulla folla); episodio ripreso da Rossellini nel film Roma città aperta. La tragica vicenda di un prete che aveva raccolto armi per la resistenza che prima di essere fucilato chiese di officiare la messa e al suo concelebrante, il parroco di S. Maria degli Angeli disse: «Oggi è più facile morire che vivere». E naturalmente della strage di via Rasella. Zanotti Bianco si trovava in quel momento a piazza Barberini, a poca distanza dal teatro della strage e notò le reazioni dei militari tedeschi e della polizia fascista ma non capì di cosa si trattava. Assunse informazioni da una giornalista che fu in grado di fornire una ricostruzione degli avvenimenti, avendo raccolto notizie di prima mano, grazie ai suoi rapporti con l’addetto stampa dell’ambasciata germanica. Su quella che fu la sua reazione non si può che riferire il giudizio espresso da Dado Ruffini, in una conversazione a caldo, avuta con lui: «Trovo che chi commette questi attentati dovrebbe lasciarsi prendere per evitare rappresaglie contro gli ostaggi. Questo sarebbe coraggio e convinzione». Se Zanotti Bianco in quella occasione non sollevò obiezioni si può dire che questo giudizio, che condivideva, rifletteva anche l’opinione di quelle migliaia di antifascisti nascosti e seriamente a rischio di finire a via Tasso.

Nei giorni successivi Zanotti Bianco viene in possesso della lista dei prigionieri portati via da Regina Coeli molti dei quali fucilati e descrive il calvario dei parenti, alla disperata ricerca di notizie sui loro cari. Il 31 marzo riferisce il caso della sorella del colonnello Lusena, esponente del Fronte militare di Montezemolo, torturato a via Tasso, portato a Regina Coeli e trucidato alle Fosse Ardeatine. Il 2 aprile, mostra una prima lista dei fucilati al fratello Mario: «tra questi una quarantina di ebrei». Zanotti Bianco si prodiga per conto dell’organizzazione liberale per raccogliere fondi a favore delle famiglie delle vittime, così come fanno anche gli altri partiti e non mancarono dissidi con gli azionisti che volevano far passare gran parte di loro come appartenenti al partito. Continua, tuttavia, l’altalena di notizie finché Rossi-Doria gli fa un racconto dettagliato della strage. Zanotti Bianco è anche l’autore di un manifestino che egli includerà nel suo volumetto, Proteste civili in cui si condanna «la cieca furia» dei tedeschi che avevano barbaramente trucidato trecentoventi cittadini innocenti, in dispregio del diritto internazionale, «ufficiali fedeli alla parola data, professionisti, commercianti senz’ombra di accusa, ebrei imprigionati per odio di razza, oppositori sospettati per il loro culto della libertà; gente d’ogni regione, d’ogni classe sociale che la morte ha affratellato sotto i tumuli sconvolti, sacri alla patria». Il manifestino si concludeva con un appello all’unità per «combattere il nemico della patria» e per «ricostruire il nostro Paese devastato», al di là delle polemiche che si erano sviluppate all’indomani di via Rasella intorno al giudizio da dare all’attentato.


il vertice di Seoul

pagina 10 • 27 marzo 2012

Il vertice è anche (o soprattutto) l’occasione per molti leader mondiali di dare inizio ad alcuni importanti incontri bilaterali

La Corea della speranza Ieri a Seoul, al via il secondo summit internazionale sulla sicurezza nucleare di Antonio Picasso eoul nucleo del mondo. Ieri, con l’apertura del vertice sulla sicurezza nucleare, la capitale sudcoreana si è trasformata nell’epicentro della politica internazionale. Il fatto che oltre 70 capi di Stato e di governo fossero presenti al vertice ha offerto l’occasione di parlare sì di arsenali nucleari da smantellare e di velleità belliche da Tuttavia, impedire. Seoul ha fatto anche da nido per alcuni fondamentali incontri bilaterali. La questione atomica resta al centro di tutti i dibattimenti. Sia sul piano militare, sia in ambito di risorse energetiche. Il presidente Obama ha rivolto l’ennesimo invito alla Russia - prima a Medvedev poi al suo successore Putin di riaprire il dossier e avviare insieme una politica di disarmo. Washington insiste sull’argomento. Mosca,

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però, si limita a lasciare la porta semi aperta. La sua scarsa disponibilità è dettata, a suo giudizio, dalla posizione degli Usa, altrettanto poco chiara, per quanto riguarda l’installazione di basi missilistiche in Europa dell’Est. Il progetto aveva ricevuto l’ok ancora da Bush. Obama non si è mai mosso in senso davvero contrario. Tuttavia, non si può dire che le relazioni tra le due maxi potenze siano in qualche modo scricchiolanti. Gli Usa hanno una Santabarbara atomica costituita circa da 10mila testate. I russi “fermi” a 8.500 unità. Al di là dei numeri, il leader uscente del Cremlino ha ringraziato personalmente il suo omologo della Casa Bianca per il sostegno che gli Usa hanno dato affinché l’ingresso russo nel Wto, l’organizzazione per il commercio internazionale, andasse a buon fine. Una mano tesa che cancella qualsiasi altro motivo di frizione. Disarmo ma soprattutto Iran e Siria finiscono per essere secondarie quando c’è l’accordo economico-finanziario. Ciò detto non è un caso che sia stata scelta Seoul per tratta-

re un tema così delicato. La Corea del Sud è vicina al Giappone, vale a dire al Paese che appena un anno fa era sotto scacco per il peggior disastro nucleare della storia post-guerra fredda. L’incidente di Fukushima, avvenuto a causa del devastante terremoto che ha messo in ginocchio l’arcipelago, ha segnato un punto di svolta sul tema dell’energia nucleare.

La reazione dell’opinione pubblica internazionale ha sbattuto sulla faccia dei governanti di tutto il mondo una realtà difficile da gestire. La gente ha paura di quello che, appena trentacinque anni fa, si chiamava Olocausto nucleare e si immaginava sarebbe potuto

generare da una guerra. Fukushima lo scorso anno ha fatto temere che l’incubo nascesse anche da una calamità naturale, oppure da un errore umano. Di fronte alla cruda realtà c’è chi non ha reagito. È il caso dell’India. Il governo Singh, già l’estate scorsa, ha ufficializzato che la politica di potenziamento del settore sarebbe andata avanti. Indipendentemente dai fatti in Giappone. La notizia ha fatto trarre un sospiro di sollievo a tutti i sostenitori e investitori occidentali del progetto di Delhi. Altri hanno preferito cambiare repentinamente rotta.Vedi la Germania, ma in parte anche l’Italia, il cui referendum del 12 e 13 giugno è stato influenzato dagli eventi in

Le minacce di Teheran e Pyongyang rischiano di innescare un armamento a catena che porterebbe dritti all’uso della bomba

Attenti, il club dell’atomica può allargarsi e grandi potenze sono preoccupate e al summit sulla sicurezza nucleare in corso a Seoul questo feeling emerge chiaramente. Perché gli sforzi per contenere o idealmente bloccare la proliferazione nucleare stanno miseramente fallendo. In parte è colpa dell’Iran, i cui progressi verso la realizzazione di un’arma nucleare stanno scatenando una vera corsa alla bomba, che invano i grandi, a partire dagli Stati Uniti, vorrebbero contenere. Barack Obama è il primo alfiere della crociata volta a impedire, per ora con le buone, ma senza escludere il ricorso a misure più drastiche, che troppi Paesi si affaccino al club atomico. Che già oggi è discretamente affollato, visto che alle cinque potenze tradizionali (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) si sono aggiunte Israele, India, Pakistan,

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di Stranamore probabilmente Corea del Nord. Ma se Teheran farà esplodere una bomba sperimentale saranno tantissimi i Paesi che cercheranno di seguirne le orme, per poter disporre di un proprio deterrente o semplicemente come viatico per potersi affermare sulla scena mondiale. La

cessioni politico-strategiche in cambio del proprio assenso ad abbassare ancora il numero dei vettori e delle testate operative al di là dei limiti fissati con il trattato New Start firmato a Praga nel 2010.Trattato che prevede, dal 2018,“appena”1.550 testate per parte e 800 vetto-

Scenari apocalittici che i film di fantascienza cercavano di esorcizzare negli anni ’50-’60 potrebbero diventare reali. Per questo l’ipotesi di un attacco preventivo contro Ahmadinejad è credibile ricetta proposta dagli Usa parte ovviamente dal... buon esempio. Obama propone ulteriori, drastici, tagli all’arsenale nucleare delle superpotenze. La Russia di Putin apparentemente non è entusiasta e vorrebbe comunque ottenere con-

ri tra bombardieri, missili basati a terra e lanciati da sottomarini. Queste 1.550 testate (ma anche meno di 1.000) costituiscono una polizza assicurativa e un deterrente credibile nei confronti di qualsiasi avversario, specie se sono affi-

date a vettori moderni, letali e con maggiori capacità di sopravvivenza, quindi gli slogan di Washington non alterano certo gli equilibri di forza planetari.

Tanto più visto che gli Stati Uniti stanno sempre più potenziando le proprie difese antimissile e quindi si stanno mettendo relativamente al sicuro nei confronti della minaccia rappresentata da qualsiasi Paese che riesca a dotarsi di qualche decina di testate e di altrettanti più o meno rudimentali vettori missilistici (lasciamo proprio perdere i bombardieri), mentre stanno investendo quattrini per realizzare un nuovo tipo di bombardiere da penetrazione “invisibile”e lavorano, sia pure a ritmi blandi, a una nuova generazione di sottomarini lanciamissili balistici. Per la Russia il discorso è diverso. Sono le armi nucleari che sorreggono la pretesa di Mo-


evidente che la linea di chiusura e provocazione non sia cambiata. L’argomento è stato al centro del confronto Usa-Cina proprio nella capitale sudcoreana. Pechino resta il solo governo che dialoga con il regime. Ancora qualche giorno fa, la Casa Bianca aveva espresso una critica al governo cinese per non aver fatto abbastanza Estremo oriente. Oggi, a quasi un anno da quel “No al nucleare”, il premier Monti, anch’egli presente a Seoul, ha auspicato il rafforzamento della sicurezza internazionale, secondo l’introduzione di verifiche internazionali obbligatorie. «Il grave incidente di Fukushima, 25 anni dopo Chernobyl - ha sottolineato il premier - ha risvegliato bruscamente l’attenzione internazionale sulla sicurezza delle centrali nucleari. Ancora una volta constatiamo che le conseguenze globali di un incidente nucleare non conoscono confini. Occorrerà continuare a lavorare perché la sovranità nazionale non costituisca un ostacolo all’adozione di regole comuni e standard internazio-

Barack Obama ha rivolto l’ennesimo invito alla Russia di avviare insieme una politica di disarmo. Poi ha incontrato il presidente cinese Hu Jintao per far fronte alle «potenziali provocazioni nordcoreane» nali più stringenti, allo scambio di informazioni, alla trasparenza, all’adozione di meccanismi di revisione internazionali obbligatori e affinché sia riconosciuto il ruolo centrale dell’Aiea». Altra seconda ragione della scelta di Seoul è la sua vicinanza con la Corea del Nord. A dispetto delle attenzioni che l’Iran richiama, sembra che sia il regime di Pyongyang a essere fonte di preoccupazioni più concrete. Con l’ascesa al potere di Kim Jong-un appare

sca di continuare a contare come superpotenza, perché le forze militari convenzionali, a dispetto degli sforzi, sono solo vestigia di quella che fu l’Armata Rossa. Putin quindi è riottoso di fronte alle profferte statunitensi. Però in realtà la Russia non ha alcuna intenzione di spendere decine e decine di miliardi di dollari per rinnovare il suo arsenale nucleare, che soffre di crescenti problemi di obsolescenza. E anche agli Stati Uniti, i quali devono tagliare in misura sostanziale la spesa per la Difesa, certo non dispiace poter risparmiare sul versante nucleare e preservare dai salassi le forze convenzionali. Quindi è solo questione di tempo e i due big dell’atomo troveranno un accordo per scendere a livelli più bassi. E così facendo daranno un po’ di senso alla pretesa di continuare a negare agli altri Paesi le armi dell’apocalisse che possiedono da quasi settant’anni. Un altro elemento del pacchetto consiste nel mettere al bando gli esperimenti nucleari, indispensabili per realizzare una testata militarmente impiegabile... a meno di possedere la tecnologia e i laboratori per simulare in modo realistico tali esplosioni, rendendo quasi inutili i test reali. Guarda un po’, è proprio

nel contenere le ambizioni nordcoreane. «Ricompensare il cattivo comportamento di Pyongyang, far finta di non vedere le deliberate provocazioni e cercare di nascondere gli atteggiamento che violano le norme internazionali. Tutto questo non funziona», aveva detto Obama. L’accusa è stata incassata senza repliche. Ieri, Obama si è trovato d’accordo con il presidente Hu sulla necessità di uno stretto coordinamento Pechino-Washington,

per far fronte alle «potenziali provocazioni nordcoreane». Sulla dichiarazione però aleggiano alcune ombre. Nessuna fonte cinese, infatti, conferma che Hu abbia assunto una posizione tanto dura.

D’altra parte, lo stesso leader ha confermato di «prendere molto sul serio il problema» e di aver espresso questo stato d’animo direttamente ai rappresentanti del regime. Sempre una fonte di Pechino prevede il lancio di un satellite nordcoreano, a fine aprile. Sono i cinesi in primis a temere che l’operazione camuffi un test missilistico. La settimana scorsa una delegazione nordcoreana di alto livello si è trattenuta per alcuni giorni a Pechino. Secondo la stampa cinese, Pechino avrebbe invitato il governo di Kim a rinunciare al lancio. Nella nota del governo di Pechino si legge che «la Cina comunica serratamente con tutte le parti coinvolte compresa la Corea del Sud». Pechino si è detta disponibile a ospitare meeting nelle proprie cancellerie per il riavvio del dialogo a sei, del quale

fanno parte le due Coree, Cina, Stati Uniti, Russia e Giappone, ma che è fermo da ormai quattro anni. Medioriente, quindi Iran e Siria, oltre che il Sudan. Questi gli altri temi affrontati nel bilaterale sino-statunitense. «Su tutte le questioni penso che la cooperazione e il coordinamento fra Stati Uniti e Cina sia molto importante non solo nell’interesse dei nostri due Paesi ma per il mondo intero», ha affermato Obama. Ma Hu, per l’ennesima volta, non ha aggiunto nulla. Infine, torniamo su Monti, che ha incontrato vis à vis il premier indiano Singh. Inevitabile uno scambio di battute sui marò. Dopo la liberazione di Claudio Colangelo e in attesa di una medesima felice conclusione per le sorti di Paolo Bosusco, è possibile che i rapporti italo-indiani possano tornare sereni. Il leader indiano ha assicurato al nostro presidente del Consiglio che si occuperà personalmente per trovare una soluzione amichevole per il rilascio dei nostri due militari, «nel rispetto dell’indipendenza del potere giudiziario indiano del Kerala».

vorando per dotarsi di armi atomiche. Ma se l’Iran farà esplodere anche solo un petardo nucleare, gli accordi e le promesse potrebbero non bastare più. Come potrebbe non bastare la disponibilità statunitense a fornire uno scudo antimissile ai Paesi amici in grado di pagarselo, oppure di “coprire”con sistemi Usa anche il territorio degli alleati. Lo scenario dunque è quello di un allargamento del club nucleare nel giro di un lustro. E con la diffusione delle armi atomiche, specie se queste saranno in mano a governi pericolosi o poco stabili (pensiamo al Pakistan e alle sue bombe) il rischio che prima o poi si arrivi all’uso della bomba non può che aumentare, giorno dopo giorno.

il caso degli Stati Uniti e presto di Francia e Gran Bretagna, seguite dalla Russia. Ma “gli altri”non staranno a sentire. Non per molto. I proclami iraniani e la dimostrata capacità di ricatto dei Nord Coreani non possono restare senza risposta. Fino ad oggi Washington, ma anche Parigi-Londra, sono riuscite a tenere a bada i propri alleati-sodali, in particolare i Paesi del

Golfo e diversi Paesi asiatici, promettendo la“copertura”con il proprio deterrente nucleare. Il meccanismo è lo stesso che ha esteso uno scudo nucleare durante la guerra fredda a tutti quei Paesi europei che non possedevano armi nucleari. Senza questi accordi, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Corea del Sud, Australia già avrebbero o starebbero la-

Non c’è bisogno di pensare al solito babau della atomica tattica ex sovietica acquistata da questo o quel gruppo terroristico per avere paura. Ci penseranno i governi a rendere fin troppo reale la minaccia che i film di fantascienza o fantapolitica (il Dr. Stranamore, appunto) cercavano di esorcizzare negli anni ’50-’60. Ed ecco perché l’ipotesi di un attacco preventivo contro l’Iran è credibile, anche se non nell’immediato.


il vertice di Seoul

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«Non c’è tempo da perdere!»: l’allarme di Michael A. Levi, responsabile per la sicurezza del Council of Foreign Relations

Il terrorismo nucleare «Vi spiego i veri confini della minaccia atomica, ben oltre Corea del Nord e Iran» di Bernard Gwertzman inquanta nazioni sono a Seoul per il secondo round del Nuclear Security Summit, un vertice rivolto a scongiurare (almeno sulla carta) che del materiale atomico possa finire nelle mani dei terroristi, di qualsiasi bandiera e nazionalità. Il primo round, voluto ed organizzato dal presidente Obama, si era tenuto a Washington nell’aprile del 2010. Michael A. Levi, esperto di sicurezza nucleare al Council of Foreign Relations, non si aspetta però da questo appuntamento internazionale nessuna svolta di rilievo: «Il valore aggiunto del vertice di Seoul è quello di esserci. È fondamentale che i più importanti leader mondiali si incontrino per immaginare strategie difensive in anticipo». E questo perché, a dispetto del fatto che lo scenario internazionale sia spesso concentrato soprattutto sulla proliferazione in Iran e Corea del Nord, il terrorismo nucleare rimane una minaccia pericolosissima. «Sono almeno una dozzina i Paesi in cui si trova del materiale atomico potenzialmente utilizzabile dal terrorismo, ed è importante che questa minac-

C

Sono almeno una dozzina i Paesi in cui si trova del materiale atomico potenzialmente utilizzabile dai terroristi

cia sia arginata». «A dirla tutta – ha continuato Levi - io penso che l’aspetto più importante del vertice sia proprio quello di sensibilizzare leader mondiali e opinione pubblica sulla gravità del pericolo che stiamo correndo», spronandoli a immaginare le politiche di deterrenza più adeguate e perseguibili». Dottor Levi, quanto è importante questo summit? Moltissimo. Il vertice sulla sicurezza nucleare, giunto al suo

secondo appuntamento (il terzo si terrà nel 2014 nei Paesi Bassi) e nato grazie a una precisa volontà di Barack Obama, è stato immaginato come uno degli strumenti utili alla comunità internazionale per cercare sia di prevenire un uso strumentale dell’arma atomica sia di mettere in sicurezza il materiale disseminato sul pianeta. Spesso gli appuntamenti di questo tipo lasciano l’opinione pubblica un po’ a bocca asciutta, come se si aspettasse sempre qualcosa di più risolutivo, ma sono la chiave giusta per far lavorare assieme governi punto diversi. E per immaginare delle politiche di prevenzione comuni. Non c’è dubbio però che il pericolo più grande con cui il mondo si trova a dovere fare i conti arrivi da due paesi che non sono stati affatto invitati a questo vertice: Corea del Nord e Iran. Di più. Questi due paesi ufficialmente non sono nemmeno fra i temi del giorno. Diciamo piuttosto che sembrano dei convitati di pietra. È importante però fare due considerazioni in merito. La prima è che non è

Sopra, Michael A. Levi. A lato, una manifestazione anti nucleare a Seoul. A destra, Ahmadinejad in visita alla centrale di Bushehr possibile stare sempre concentrati sulla minaccia che questi due regimi pongono al mondo dimenticando regolarmente tutte le altre. Il terrorismo nucleare rimane una minaccia pericolosissima. Sono almeno una dozzina i Paesi in cui si trova del materiale atomico poten-

zialmente utilizzabile dal terrorismo, ed è importante che questa minaccia sia arginata. La seconda considerazione è che la costruzione di un cordone anti atomico volto a scongiurare indesiderati passaggi di mano e traffici internazionali riguarda comunque sia l’Iran che

la Corea del Nord. Perché non c’è dubbio che chi aspira a costruire la bomba cerca sia di comprare dall’estero sia di “barattare” quello che già ha. D’altronde non è un mistero che le loro frontiere non siano facilmente controllabili. Ma è evidente che se cresce l’attenzione e si implementa la sicurezza nel resto del mondo, i regimi di Teheran e Pyongyang dovranno darsi una regolata. Dopo l’11 settembre si è temuto moltissimo che al Qaeda potesse dotarsi di armi nucleari. Osama bin Laden aveva detto chiaro e tondo di volere un arsenale di questo tipo. La sua morte ha allontanato questa minaccia? Non è stata solo la morte di Osama a diminuire la capacità operativa di al Qaeda, ma soprattutto l’opera certosina degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Afghanistan, dove in questi ultimi dieci anni sono state distrutte gran parte delle centrali operative dell’organizzazione. Non dimentichiamo poi che subito dopo l’attacco alle Torri gemelle molti Stati canaglia, e penso soprattutto all’Iran, hanno usato strumentalmente la paura occidentale per cercare sia di dare maggiore forza ad al


il vertice di Seoul

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lerà né di Iran né di Israele e del suo possibile attacco agli impianti atomici iraniani. Detto questo, qualche dichirazione al riguardo ci sarà, perché la pressione internazionale su questi temi è troppo forte per poter essere elusa. Pyongyang ha detto di voler lanciare un satellite, ma non c’è dubbio che il suo test serva anche a dimostrare la sua capacità di utilizzo di un lancio a lungo raggio. Questo giustamente preoccupa più di un attore internazionale. Eppure la Corea del Nord ha recentemente siglato un accordo con gli Usa: aiuti umanitari in cambio di un rallentamento al suo programma nucleare e soprattutto a uno stop definitivo ai test missilistici. Perché lo hanno disatteso così presto? Perché i nord-coreani vogliono testare le risposte del mondo. E perché a livello di politica interna, con il passaggio del potere a Kim Jong-un, il quadro non è ancora chiaro. Il costo che il

La Nazione che più di ogni altra ha saputo mettere in sicurezza il suo arsenale è l’Australia: seguite il suo esempio

Qaeda sia per non essere al centro della scena ed agire indisturbati. Questo ovviamente non significa che la minaccia non sia realistica e le sue potenziali conseguenze devastanti. È importante però restare concentrati sia sulla messa in sicurezza del materiale nucleare sia sulla strategia antiterrorismo (è sotto questa voce che va archiviata l’operazione del commando Usa nel bunker di bin Laden). Non vorrei sembrare lapalissiano, ma è chiaro che se armi e materiali atomici venissero distrutte o ben controllate, i terroristi non potrebbero più aspirare a conquistare l’atomica o qualche suo pericoloso derivato. Veniamo al Pakistan, che come tutti sanno l’atomica già la possiede. Il timore in questo caso è che non sia gestita dalle mani giuste. È così? Assolutamente sì. Il Pakistan pone almeno due rischi: il primo è che l’apparato di sicurezza nucleare di Islamabad è incontrollabile e basato soprattutto sulla segretezza. Questo significa che potrebbe potenzialmente avere una maggiore difficoltà ad affrontare la cosiddetta minaccia interna piuttosto che quella esterna. Il secon-

do rischio è quello posto dalla cronica instabilità politica del paese. Io non sono un catastrofista, non voglio spaventare nessuno e non penso che Islamabad sia sul punto di perdere il controllo del suo arsenale. Ma non posso nemmeno nascondermi dietro una foglia di fico! Il Pakistan resta un pericolo.Yousef Gilani, il primo ministro, è fra gli ospiti di Seoul e certo mi auguro che da questo vertice si possa uscire con qualche rassicurazione in più. Anche se la Corea del Nord

è assente, inevitabilmente il dossier Pyongyang la farà da padrone, anche se negli incontri a porte chiuse. Il regime ha infatti annunciato di voler lanciare un satellite (un missile secondo molti altri) in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Kim Jong-il, recentemente scomparso. Lei cosa ne pensa? Penso che non se ne discuterà apertamente, tutt’altro. Così come - ufficialmente - non si par-

Paese dovrà sostenere per un test di questo tipo è, a livello economico, altissimo. E non c’è dubbio che a pagarlo sarà la popolazione. La verità è che non si capsice cosa Pyongyang voglia davvero ottenere e dove voglia andare. Obama ha firmato due anni fa a Praga un nuovo trattato Start per la riduzione delle armi nucleari assieme al presidente russo uscente Dmitri Medvedev. L’intesa ha fissato un tetto massimo di 1.550 te-

state nucleari per ciascuno dei due Paesi. C’è qualche cambiamento in vista che verrà discusso a Seoul? Russia e Stati Uniti sono forse le due potenze che su questo tema lavorano più in sintonia. Ricordiamoci che lavorano a questo dossier prima ancora della caduta del Muro e che dal 1992 in poi si sono confrontate più volte. Resta però il fatto che, in tema di nuclear sicurity, la Russia debba fare ancora molta strada. La minaccia maggiore è quella che viene dalle ex repubbliche sovietiche, come la Bielorussia e l’Ucraina? Non si può negare che gran parte del materiale nucleare in circolazione sia nascosto nelle ex repubbliche sovietiche e che bisogni fare davvero il massimo sforzo possibile per metterlo in sicurezza. D’altronde, questa minaccia è stata chiara a tutti il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino. La verità è che ancora l’obiettivo è lungi dall’essere centrato. Si sente spesso parlare di mercato nero. Quando parla di obiettivo mancato pensa a quello? Esatto. Abbiamo in parte toccato con mano il pericolo che stiamo correndo grazie ai report del Nuclear Threat Initiative, la Ong americana che pubblica regolarmente degli studi sullo stato dell’arte degli arsenali nucleari nel mondo e che ha di recente lanciato un allarme sulla vulnerabilità di tali scorte e sui possibili furti da parte di terroristi o gruppi criminali. Le loro inchieste prendono in considerazione 32 nazioni: gli Usa, per esempio, sono al tredicesimo posto; l’Ucraina al quindicesimo, quindi molto vicina; la Bielorussia è sedicesima, il Kazakistan è ventiduesimo, l’Uzbekistan ventiseiesimo. Come si vede, le ex repubbliche non sono tutte nella medesima posizione. Alcuni paesi dell’Europa dell’Est invece sono messi molto bene. L’Ungheria è al secondo posto di questa classifica mondiale, la Repubblica Ceca è al terzo posto. L’Iran e la Corea del Nord? Entrambe in coda alla classifica, assieme al Pakistan. Chi ha conquistato il primo posto? L’Australia. Un risultato davvero molto importante e significativo. Il governo di Canberra si è mosso al meglio su due fronti: da un lato mettendo in sicurezza e proteggendo in modo davvero efficace il suo materiale atomico, dall’altro smantellando il più possibile il suo “forziere” nucleare. La sua strategia è quella più convincente, perché la maniera migliore per rafforzare la sicurezza nucleare è quella di limitare al massimo il suo utilizzo.


società

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In realtà è già in atto una svalutazione della formazione e della ricerca. Ecco perché occorre soprattutto puntare sul merito

Giovani all’ultimo studio Il dibattito sul “valore legale” di lauree e diplomi è utile, ma solo se prima si restituisce loro il “valore culturale” di Giancristiano Desiderio ualche settimana fa ho incontrato il ministro della Pubblica istruzione Francesco Profumo. Un incontro fugace alla Reggia di Caserta mentre il ministro era circondato da giornalisti, professori, alunni, burocrati. Sono riuscito, però, a parlargli dell’argomento che mi stava a cuore ossia l’abolizione o svalutazione del valore legale del titolo di studio e a consegnarli il libro La libertà della scuola (Liberilibri) che ho curato mettendo insieme alcuni scritti di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti su questo tema fondamentale per la vita intellettuale e morale di ogni democrazia.

Q

Il ministro, da parte sua, mi ha annunciato la pubblicazione sul sito del ministero della consultazione per conoscere il pensiero degli italiani sul “valore” del titolo di studio. «È un tema importante e merita una decisione democratica» sono state le parole di Francesco Profumo. Da qualche giorno sul sito del ministero è attiva la consultazione che è quasi tutta concentrata sul tema del-

l’accesso ai pubblici uffici e sulla valutazione dei titoli. I temi scelti dalla consultazione sono di per sé indicativi perché fanno capire che il “valore” che, in maniera del tutto naturale, si attribuisce al titolo di studio o ci si aspetta dal titolo di studio è quello che permette l’ingresso in un sistema burocratico o professionale o lavorativo in genere. Il titolo di studio deve servire a qualcosa di pratico sul piano lavorativo

cosa, mentre se serve a qualcosa non servirà a niente.

Il governo Monti ha il merito di aver posto il tema dell’abolizione o svalutazione o superamento del valore legale del titolo di studio. Non so se andrà fino in fondo, se si fermerà a metà strada o se non se ne farà nulla. Aver posto il problema è già un merito. Sì, è già un merito perché in Italia vige da sempre l’unico sistema statale dell’istru-

Ci sarebbe bisogno, nel caso dell’abolizione, di una vera e propria riforma della pubblica amministrazione che contempli un rigoroso sistema di esami statali extrascolastici per l’accesso agli uffici e della carriera, altrimenti non serve a nulla. È questo il pensiero più comune, diffuso e solido con cui si giudica il cosiddetto “valore legale del titolo di studio”. La posizione che invece voglio cercare qui di illustrare è opposta: il valore dello studio - prima che del titolo - è quello di non servire a niente e solo se non serve a niente può essere utile a qual-

In alto, un’aula universitaria. In basso, la “Sapienza” di Roma. A destra, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo

zione e della ricerca. L’unica esperienza che gli italiani - alunni, studenti, professori, professionisti, burocrati - hanno della scuola e dell’università è quella statale. Perché in Italia vige il monopolio dell’istruzione.

La cultura italiana, e la cultura politica italiana, identifica in modo naturale e priva di ogni tipo di sospetto la scuola pubblica con la scuola di Stato mentre i due concetti - che sono due realtà - sono diversi: la scuola è pubblica per definizione e, anzi, se esiste solo la scuola di Stato si può arrivare al paradosso di privatizzare la scuola (e l’università) proprio perché è interamente e integralmente statale o governativa. Ecco perché in una discussione sul valore legale del titolo di studio il primo concetto che, ribadisco, è una realtà,

cioè una pratica - da chiarire è quello della libertà. Cosa che, purtroppo, è assente nella consultazione del ministero che come detto - si concentra solo sulla funzione che il titolo di studio deve avere per poter accedere agli uffici e alle professioni e in generale al mondo del lavoro. Ma - ecco il punto - perché ci si concentra su questo aspetto specifico? Perché essendo l’ordinamento scolastico e accademico italiano interamente statale e regolamentato dalle leggi dello Stato ne deriva che lo Stato utilizza il sistema dell’istruzione e dell’accademia per preparare la burocrazia statale e professionale di cui ha bisogno per esistere e svilupparsi. La scuola e l’università sono in qualche modo - e in modo molto concreto - al servizio dello Stato mentre in una situazione di libertà deve essere il contrario: lo Stato al servizio della scuola e dell’università. È - come, credo, si possa capire - un tema molto importante perché è in questo “incrocio”tra Stato e istruzione che passa oggi quello che una volta si sarebbe chiamato il rapporto tra il potere

temporale e il potere spirituale o, se volete, tra potere e spirito.

Prim’ancora della questione del modo in cui si accede agli uffici e alle professioni, è questo il tema che c’è nel valore legale del titolo di studio e il fatto che non lo si riesca neanche a vedere nella sua effettiva portata è il più chiaro sintomo della decadenza degli studi del nostro tempo. L’ultima ricerca di Almalaurea sull’università italiana ha messo in luce una cosa che a naso già si sapeva: più aumentano i laureati, più aumentano i disoccupati. In particolare quella disoccupazione che è definita «disoccupazione intellettuale». Che cos’è? Proprio Einaudi la considerava né più né meno che un’aberrazione tutta italiana. Si può capire, infatti, cosa sia la disoccupazione manuale ma cosa sia l’intelletto disoccupato è un mistero. Se esiste la categoria sociale del «disoccupato intellettuale» è perché esiste l’illusione che ad un titolo di studio debba corrispondere una funzione, una dirigenza, un lavoro, una mansio-


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gati e dirigenti, allo stesso modo c’è bisogno di una riforma della scuola e dell’università che riguarda inevitabilmente gli esami. Riformare scuola e università, infatti, significa riformare gli esami. In una scuola in cui il titolo di studio non ha più valore legale, che senso ha tenere in piedi un esame di Stato scolastico finale? Ancora una volta: il sistema va capovolto: se ora ci sono esami in uscita, ci dovranno essere esami in entrata sia per la scelta della scuola sia per la scelta dell’università e si possono prevedere anche esami interni.

ne. Einaudi non si stancò mai di far notare due cose: a) che il collegamento indebito tra titolo e lavoro genera l’illusione che il “pezzo di carta” dia un diritto lavorativo; b) che l’uso dell’università e della scuola per sfornare diplomi e lauree dal valore legale è una svalutazione della formazione e della ricerca e di conseguenza un impoverimento della vita economica e morale che non possono più contare su merito, capacità e intraprendenza ma su inutili titoli legali. Il mondo delle imprese in genere affronta il problema sostenendo che è necessario far incontrare domanda e offerta. Può darsi che una maggior informazione possa essere utile, non c’è dubbio. Tutto è utile a sapersi.

Ma il problema è di tutt’altra natura. I dati di Almalaurea dimostrano che il sistema dell’università che sforna laureati pronti a spen-

dere il loro titolo di studio nel lavoro è entrato definitivamente in crisi perché è un errore in sé far corrispondere ai “curricoli” delle specifiche “funzioni” amministrative o professionali ed è ancora più erroneo ritenere di poter creare lavoro sulla base del possesso dei “pezzi di carta”. Si tratta della fine dell’illusione che Einaudi aveva messo bene in luce.

Il sistema è da capovolgere. L’abolizione o svalutazione del valore legale dei titoli di studio ha almeno due conseguenze: la prima (che in realtà è la seconda) riguarda la pubblica amministrazione e la seconda il sistema scolastico e delle accademie. Oggi il sistema funziona così: lo Stato si rivale su scuola e università per allevare impiegati e dirigenti e attraverso i titoli regola l’accesso agli uffici e la loro gerar-

chia. Se si abolisce il valore legale si cambia anche il sistema di accesso alla pubblica amministrazione che dovrà avvenire in base al merito effettivo e non ai titoli supposti. C’è bisogno, dunque, di una riforma della pubblica amministrazione che contempli un rigoroso sistema di esami di Stato extrascolastici per l’accesso agli uffici. Il tema dell’esame di Stato extrascolastico è fondamentale perché determina, sia pure in modo indiretto, la necessità di avere studi rigorosi, seri, severi. Ma l’abolizione del valore legale dei titoli di studio ha conseguenze (per fortuna) anche sul mondo della scuola e dell’università. Questo è il vero tema che resta in ombra nella consultazione del ministero. Non si considera cioè il fatto che la fine del valore legale dei titoli di studio è la vera riforma del sistema dell’istruzione e della ricerca che prende atto della conclusione della storia panstatale della scuola. In altre parole, i titoli di studio - diplomi e lauree - sono già svalutati.

Dunque, conviene cambiare sistema perché i titoli di studio non si rivalutano per magia. Infatti, se diplomi e lauree non hanno più valore legale, che valore avranno? Quello che compete loro per natura: il valore culturale. Però, come è da prevedere una riforma della pubblica amministrazione per il reclutamento di impie-

Ma qui solo le scuole possono organizzare al meglio il loro lavoro, mentre al ministero compete solo una funzione di controllo. E si arriva così al cuore della questione: la libertà della scuola e dell’insegnamento che non può non basarsi sulla serietà e inventiva dell’insegnamento e sulla volontà bendisposta degli alunni e degli studenti. In una scuola e in un’università in cui ciò che ha “valore”è il titolo - cioè il suo possesso - gli studi sono di fatto inevitabilmente svalutati. Invece, in una scuola e in un’università in cui il valore del titolo dipende solo dalla serietà dell’apprendimento e dell’insegnamento gli studi acquistano importanza decisiva, valore e responsabilità personale. In questo modo scuola e università raggiungerebbero due obiettivi: avrebbero l’opportunità di ritornare ad essere “solo”scuole e università e non sarebbero più “corsi di formazione” per aziende, uffici, burocrazie. Ma d’altra parte proprio aziende, uffici, burocrazie potrebbero contare - dando tempo al tempo, si capisce - su soggetti che si sono formati sul merito e sulle capacità e non sul possesso di titoli. Solo se la scuola forma e l’università pensa avremmo soggetti liberi e determinati, altrimenti ci saranno sempre i «disoccupati intellettuali». Purtroppo, questo tema specifico della libertà della scuola è assente nel questionario della consultazione del ministero e l’attenzione si concentra da un lato sul modo in cui il titolo può essere utile a reclutare burocrati e professionisti, dall’altro su come ridare valore a un titolo ormai svalutato. Come spero si sia visto, sono due problemi che si possono affrontare solo alla luce del concetto principale della libertà della scuola o degli studi la cui autorità non può essere fondata sul preside, sul consiglio di facoltà o, peggio, sul Parlamento o la sovranità popolare ma unicamente sulla coscienza del sapere che non tollera monopoli. Nell’espressione “valore legale del titolo di studio” c’è molto di più della pubblica amministrazione e del tasso di occupazione, c’è il senso delle libertà civili e morali che una nazione è capace o meno di coltivare.

e di cronach

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ULTIMAPAGINA Il caro benzina spinge gli italiani a ripiegare su mezzi pubblici (+30%) e biciclette. Le pompe toccano -20%

Non hai voluto la crisi, ma ora

di Francesco Lo Dico ai blocchi di tir selvaggio l’insoddisfazione per la benzina più cara d’Europa si è estesa a centinaia di migliaia di automobilisti. Rispetto al 2010, tra Torino, Roma, Firenze e Milano si registra un aumento del 30 per cento delle richieste di abbonamenti per i mezzi pubblici. Il che equivale a dire che l’auto è diventata per troppi un bene di lusso. Anche se non si chiama Ferrari. E a molti serve per arrivare a lavoro in un intervallo di tempo decente. Ma la gasolina che taglia il traguardo dei due euro al litro, può rivelarsi per i petrolieri nazionali che giurano di vendere la benzina a un costo perfettamente in linea con l’Europa, un tremendo autogol. Perché in parallelo cresce di questi tempi il popolo dei ciclisti, che per gli spostamenti sotto i dieci chilometri, specie nelle grandi città, apprezzano il costo limitato del mezzo: due euro a sgambata per una bottiglietta d’acqua e un cornetto.

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Il folle caro benzina, che al di là dei proclami ha messo in ginocchio l’industria dei trasporti, l’agricoltura e la pesca nazionale a danno dei cittadini sgomenti per le zucchine a sette euro al chilo, rischia seriamente di trasformarsi in un harakiri dei colossi energetici. Gli ultimi dati dell’Unione petrolifera rilevano un calo del 20 per cento del consumo di carburante rispetto al 2011. Rincari che si trasformano in batoste fino a sei o settecento euro annui pro capite. Ma sbaglierebbe soltanto in parte, chi volesse attribuire ai malefici petroldollari la scaturigine di ogni male. Perché, primus ma non inter pares, il nemico numero uno in questo caso si chiama accisa. E cioè balzello, in molti casi odioso e surreale, che il cittadino paga allo Stato per cause sociali particolari. Oggi, l’italiano equo, solidale e fatto fesso, paga qualcosa come 0,30 euro al litro, circa 600 delle vecchie lire, tra tributi per la guerra in Abissinia (che data 1935), la crisi di Suez (1956), il disastro del Vajont (1963), l’alluvione di Firenze (1966), terremoto del Belice (1968), del Friuli (1976), e dell’Irpinia (1980), missioni in Libano (1983) e in Bosnia (1996), ma

PEDALA poguerra, quando il neorealismo immortalò la battaglia dei poveri nel furto di una bicicletta o in quello di un tram. Ma anche in questo caso, la decrescita serena e il giubilo ambientalista diventano soltanto dei classici esempi di eterogenesi dei fini. Perché gli italiani, di questi mezzi pubblici così come dei famigerati treni per i pendolari, hanno una percezione alquanto avventurosa.

Nella fascia tra i 14 e i 29 anni, secondo i dati Isfort, il servizio autobus e tram viene considerato inadeguato: la maglia nera tocca ai mezzi del Centro e del Meridione anche per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004. La morale della favola è che su un pieno di 80 euro, 25 coprono i costi e i guadagni dei gestori, mentre 55 corrono dritti nelle casse dello Stato, per cause come quella dell’Abissinia, che anche Francesco Crispi stenterebbe a ricordare.

Inevitabile quindi il ripiego forzoso sui mezzi pubblici, o per chi può ancora permetterselo sui tricipiti femorali. I lavoratori italiani tornano su tram, bus, corriere e sellini proprio come nel do-

L’ultimo rapporto Isfort sembra dire che i viaggiatori pubblici stanno come d’autunno sugli alberi le foglie: sospesi in un clima d’incertezza che trasforma l’orario di ingresso e di uscita da lavoro in un complesso studio quantistico. All’aumento di domanda, non corrisponde un aumento di offerta, come predica il libero mercato. Il mercato vero, qui da noi, ti offre le stesse cose, se non peggiori, a un costo più alto. Il rapporto Isfort del 2010 dice che circa il 35,4 per cento degli italiani si dichiara disposto a diminuire l’uso dell’auto. Ma di questa percentuale, spesso viene intercettata solo una quota modesta, di professionisti disperati. Di quelli che sono stanchi di impiegare dieci euro solo per girare la chiavetta dell’auto. Nella fascia tra i 14 e il 29 anni, secondo i dati Isfort, il servizio autobus e tram viene considerato inadeguato, mentre nella fascia under 45 si tocca una risicata sufficienza. Naturalmente, si tratta solo della media del pollo. Perché se al Nord il gradimento viaggia oltre la sufficienza, autobus e tram del Centro hanno una valutazione media degli utenti pari a 5,91 punti su dieci. Mentre i mezzi del Meridione possono vantare la maglia nera, con un punteggio di 5,72. Più in generale, i cittadini bocciano i mezzi pubblici nei centri oltre i 250mila abitanti (voto medio di 5,81). La bicicletta, da vecchio simbolo della resistenza, sembra vivere una seconda vita di opposizione. In buona sostanza, il messaggio è uno: non hai voluto la crisi, ma adesso pedala.


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