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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 31 MARZO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Finanza pubblica i dati dell’Irpef dell’anno scorso: metà degli italiani dichiara meno di 15000 euro all’anno
La notte italiana non è passata Rischiamo ancora con Madrid. Merkel cede sul fondo Salvastati Monti fa pace con i partiti ma è vero che molti si stavano illudendo che il Paese fosse già fuori dal tunnel. Fornero: «Salveremo gli esodati». E Napolitano: «Più attenzione al disagio sociale» Dopo la delibera sugli ex presidenti della Camera
Casini rinuncia ai benefit: il segno della nuova politica
Lunedì giornata mondiale
Decalogo per la politica: come aiutare l’autismo
di Osvaldo Baldacci o avuto l’onore di servire la Camera dal 2001 al 2006, rinuncio con effetto immediato a questi benefici». Pier Ferdinando Casini va oltre i tagli di Montecitorio.
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di Paola Binetti
a pagina 4
Il dibattito e le mediazioni sulla riforma
Attenti alla legge elettorale, si rischia il pasticcio di Enrico Cisnetto è un’apparente contraddizione sulla scena politica italiana: perché proprio mentre Alfano, Bersani e Casini parlano di riforma elettorale, il premier tuona contro i partiti? a pagina 4
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Il passaggio dall’emergenza alla Terza Repubblica
I partitidel dopo-Monti: ecco come devono cambiare di Francesco D’Onofrio embra già di tutta evidenza che i rapporti tra i partiti politici e il governo Monti stiano passando della emergenza economico-finanziaria a un processo di transizione.
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di Franco Insardà e Francesco Pacifico a crisi che continua a incombere sul nostro Paese e sull’Europa intera ha fatto pressione sulla politica e ha allentato la tensione che si era accumulata nel corso della settimana. Da un lato, il presidente del Consiglio Monti dalla Cina ha mandato a dire che era stato frainteso e che non aveva mai voluto “offendere” la sensibilità e il ruolo dei partiti. Dall’altro, il ministro Fornero ha spiegato alla radio che non ha dimenticato il problema degli “esodati”, ossia di chi ha perso
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«Sarà difficile portarli a casa» L’Alta Corte del Kerala rinvia di nuovo la decisione
hi ha paura della nuova legge elettorale? Meglio, della bozza di riforma elettorale su cui lunedì scorso si è registrato un accordo di massima tra Pdl, Udc e Pd? a pagina 6 EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
di Vincenzo Camporini ulla vicenda dei nostri due fucilieri di Marina catturati e detenuti dalle autorità indiane del Kerala, in India, ritengo ci siano alcuni aspetti da approfondire, sia dal punto di vista giuridico che da quello più squisitamente politico. Ma prima di tutto bisogna dare per scontato l’argomento, assolutamente inattaccabile, che l’evento è accaduto al di fuori della fascia delle dodici miglia che l’India, come la stragrande maggioranza dei paesi del mondo, riconosce come “acque territoriali”. a pagina 18
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di Riccardo Paradisi
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Luci e ombre del caso nell’analisi dell’ex capo di Stato maggiore
Le ragioni di chi, nel Pdl e nel Pd, difende il bipolarismo
I piani segreti dei frondisti anti-Alfano e anti-Bersani
sia il lavoro sia i requisiti per accedere alla pensione. Su tutto, da Copenaghen è arrivato il via libera dell’Europa al in uncremento importante del fondo Salvastati: il fatto è che il fantasma della crisi spagnola grava su tutti così come il balzo dello spread dei titoli italiani, giovedì, ha messo paura a molti. Resta il fatto che da noi le disparità fiscali sono ormai inaccettabili: secondo le Finanze, metà di noi dichiarano meno di 15000 euro. alle pagine 2 e 3
unedì è la giornata mondiale dell’Autismo, istituita nel 2008 dall’Onu con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere lo studio e la ricerca su di una patologia ancora troppo poco nota, che ha pesanti conseguenze anche sul piano sociale. In tutta Italia si svolgeranno iniziative dedicate alle problematiche legate all’Autismo: si approfondiranno aspetti scientificamente diversi, ma tutti essenziali per comprendere meglio cosa sia l’autismo e di cosa abbiano bisogno i soggetti autistici e le loro famiglie. segue a pagina 8
• ANNO XVII •
NUMERO
64 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Dall’Ue alla Cei: dopo il balzo dello spread, si moltiplicano gli appelli ad approvare al più presto la riforma del mercato del lavoro
La crisi porta consiglio
Si smorzano i toni nella contrapposizione tra il governo e i partiti. E Napolitano avverte: «Serve più attenzione alle difficoltà sociali» di Franco Insardà
ROMA. «Bisogna dare impulso alle nuove politiche di crescita, sviluppo economico e per l’occupazione, tenendo conto delle situazioni socialmente difficili e critiche che si vanno determinando, ma non esitando a proseguire sul cammino delle riforme e di una politica di necessaria severità fiscale». I destinatari del messaggio sono molteplici: partiti e sindacati che vogliono rallentare l’ondata del montismo come una Germania che, ancora ieri, ha costretto i partner ad accettare un nuovo compromesso al ribasso.
Si smorzano i toni nella contrapposizione tra il governo e i partiti, mentre anche dall’Europa e dalla Cei arrivano gli appelli ad approvare al più presto la riforma del mercato del lavoro. Eppure le ultime esternazioni del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (sono tre giorni che torna sull’argomento) hanno un significato diverso in un’Italia dove dieci milioni di persone dichiara redditi così bassi da non entrare nella tax area e si risparmia persino sui pedaggi autostradali. Alla vigilia della tappa in Cina Mario Monti ha lanciato messaggi da una parte rassicuranti e dall’altra molti chiari e decisi. A proposito del suo governo “tecnico”: «Il cambiamento politico in corso in Italia fa ben sperare per quando, presto, dopo le
Dal fisco una realtà incredibile: in dieci milioni non pagano l’Irpef
La metà degli italiani guadagna meno di 15mila euro all’anno ROMA. Siamo un Paese povero. Per certi versi poverissimo! Il reddito medio annuo di noi italiani è pari a 19.250 euro. Almeno stando alla media ottenuta sulla base delle dichiarazioni “ufficiali”, perché poi ci sono dieci milioni di noi che non dichiarano un bel niente: semplicemente non pagano l’Irpef. È quanto risulta dall’elaborazione delle ultime dichiarazioni dei redditi (quelle del 2011 sull’anno di imposta 2010), diffuse dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia. In un anno il reddito degli italiani è cresciuto dell’1,2% ma il 49% dei contribuenti ha un reddito complessivo lordo annuo che non supera i 15.000 euro l’anno: praticamente a un passo dall’indigenza. Anzi, per essere più precisi, un terzo di noi (circa 14 milioni, per l’esattezza) non supera un reddito complessivo lordo di 10.000 euro e circa la metà (49%, pari a 20,2 milioni) non supera i 15.000 euro. Facendo un calcolo a spanne dal lordo al netto, vuol dire che una quota enorme di noi vive con meno di mille euro al mese netti: un dramma sociale, insomma! Andiamo avanti: quanta al-
l’altra metà (quella dei meno-poveri) il 30% dichiara redditi compresi tra i 15.000 ed i 26.000 euro, il 20% invece redditi tra i 26.000 ed i 100.000 euro. L’analisi territoriale sulle dichiarazioni mostra che la Regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), e questo era facile immaginarlo. Come pure era facile intuire che la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro. Nel 2010 si evidenzia, in controtendenza rispetto al 2009, una crescita superiore del reddito complessivo medio nelle regioni settentrionali rispetto al resto del Paese. Insomma, se non fosse chiaro il senso sotterraneo delle cifre raccolte dal ministro delle Finanze, si può aggiungere che la categoria dei più poveri, in Italia, non è quella degli operai né quella dei dipendenti né quella dei pensionati né quella degli artigiani: la categoria più povera è quella degli imprenditori, con 18.170 euro di reddito lordo. Seguono i dipendenti (19.810 euro) e gli autonomi (41.320 euro). Il reddito dei pensionati è di 14.980 euro, mentre quello «da partecipazione» è di 16.500 euro. È proprio vero che il mercato del lavoro è da riformare!
elezioni, ritorneranno governi a composizione politica». Sulla fiducia dei mercati: «Non ci sono altri paesi al mondo con una disciplina finanziaria severa come quella europea, e i mercati un po’alla volta si accorgeranno di questa rafforzata disciplina».
Dalla Francia arriva anche l’analisi del quotidiano Le Monde secondo il quale «Mario Monti sa che il suo successo è paradossalmente il suo tallone d’Achille», perché «il timore di un default dell’Italia che si allontana risveglia gli appetiti della classe politica». Il premier ha sottolineato che l’Italia è sotto osservazione per «la conclusione della delicata partita in corso sulla riforma del mercato del lavoro. All’estero, l’ho visto particolarmente in Giappone, si aspetta di vedere che esito avrà il quarto grande blocco di riforme. Dopo il consolidamento dei conti pubblici, la riforma delle pensioni, le liberalizzazioni c’è molta attenzione sulla proposta fatta dal governo per la riforma del mercato del lavoro e attesa su quello che accadrà in Parlamento». Argomento sul quale il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ieri ha detto: «Saremo innovativi e metteremo le regole all’altezza delle migliori esperienze europee. Nessuno può negare che le migliori esperienze, universalmente riconosciute, siano quelle danese e tedesca, bisogna che ci accostiamo lì e siamo
Italia al bivio
31 marzo 2012 • pagina 3
Ai mercati non basta il nuovo Salvastati Per il firewall europeo una dotazione di 800 miliardi e non di mille come chiesto da Fmi e Ocse di Francesco Pacifico
ROMA. Le pressioni sul debito spagnolo (e di riflesso sull’area dei Piigs) non inteneriscono Berlino. Così l’Europa ieri ha prodotto l’ennesimo compromesso al ribasso: il futuro fondi salvastati (Esm) avrà una dotazione pari a 800 miliardi di euro. Cifra nella quale sono inclusi sia i 500 miliardi da stanziare nei prossimi mesi sia i finanziamenti già mobilitati per aiutare i Paesi già oggetto dei salvataggi della troika Ue-Bce-Fmi. Sì, perché al riguardo la Germania è stata chiara: la capacità di prestito combinata tra l’Esm (in vigore a luglio) e il suo predecessore Efsf (operativo da più di un anno) non potrà sforare il tetto già fissato a 700 miliardi di euro. E poco importa che tutti gli organismi internazionali, la stragrande maggioranza degli europartner e la comunità scientifica e quella finanziaria abbiano chiesto di dotare il meccanismo di una dotazione di fuoco di almeno mille miliardi.
Emblematico il giudizio dei mercati: flebili aumenti per le principali Borse (Londra +0,46 per cento, Milano +0,45, Francoforte +1,04, Parigi +1,26, Madrid +1,23), mentre resta alta la tensione sui debiti sovrani: lo spread tra Btp e Bund è stabile a 334 punti, quello tra il decennale tedesco e i Bonos spagnoli a 360 punti. Nel comunicato finale è scritto senza dare adito a fraintendimenti che lo European Stabiliy Mechanism avrà a disposizione una capacità di prestito di 500 miliardi di euro. Soltanto per garantire al veicolo piena operatività sin dal luglio, si potrà fare ricorso alle gapositivi sulla possibilità che il Parlamento ci arrivi».
Una crisi che, per Monti, va affrontata puntando sul processo di integrazione europea: «un progetto molto ambizioso che vuole mettere tutti i paesi membri in condizione di far fronte alle sfide della concorrenza internazionale. Si tratta di creare un modello che imponga a tutti di rispettare la disciplina di bilancio, di evitare che le crisi si propaghi ad altri paesi e di rafforzare la capacità di competere sui mercati. A volte assisteremo anche a reazioni che spingono nel senso di nazionalismi e di scetticismo verso l’euro, ma intensificare ulteriormente l’integrazione e rafforzare l’Europa è l’unico modo possibile per affrontare la concorrenza dei Brics, Cina e India comprese». Nell’intervista rilasciata al quotidiano giapponese Asahi Shimbun, Monti ha escluso la possi-
ranzie per 240 miliardi non usate dall’Efsf. Quindi, di fatto soltanto a livello nominale e contabile, verranno inseriti i fondi del vecchio l’Efsf (200 miliardi), quelli europei (49 miliardi) o quelli relativi a prestiti bilaterali alla Grecia (53 miliardi).Tutte risorse già impegnate. Questo l’esito dell’Eurogruppo che si è tenuto ieri a Copenhagen. Abbastanza chiaro già quando, non appena sbarcato nella capitale danese, il ministro delle Finanze tedesche Schaüble ha subito chiarito che «le richieste rialziste non
Borse tiepide dopo il compromesso: listini in lieve aumento ma alti spread tra i bond dei Piigs e quelli tedeschi fanno altro che favorire la speculazione sui mercati». Mentre il suo collega francese Francois Baroin, a stretto giro, insisteva «sulla necessità di alzare la soglia in prossimità dei mille miliardi». E il clima non è migliorato dopo l’avvio dei lavori, se il presidente dell’Ecofin, Jean-Claude Junker ha preferito far saltare la conferenza stampa con Mario Draghi e il direttore dell’Esfs Klaus Regling per presentarel’accordo. Ufficialmente, ha censurato il ministro delle Finanze austriaca, Maria Fekter, che si è presa la briga di rendere noto ai giornalisti un accordo tra i diciassette su un ammontare da 800 miliardi di euro. «A questo punto non servono più annunci». In realtà mr Euro non
bilità di una nuova manovra: «Non ci sarà bisogno di correzioni, perchè a dicembre avevamo introdotto molti margini cautelativi».
Per far fronte agli attacchi speculativi è necessaria, secondo il nostro presidente del Consiglio una rete di protezione «per portare tranquillità nei mercati: più è ampia la disponibilità di fondi e più diminuisce la probabilità che si presenti l’effettiva necessità di farvi ricorso, perché con una rete di protezione molto solida si riducono gli attacchi speculativi. Quando i paesi del mondo, Giappone compreso, si saranno convinti che la rete di protezione europea è adeguata, saranno pronti a rafforzare le risorse del Fondo monetario internazionale e quindi la rete di protezione anticrisi si estenderà a tutto il mondo». Ma la recessione non modificherà le scelte di politica
avrebbe gradito l’ennesimo irrigidimento della Germania. Da Roma, prova a gettare acqua sul fuoco Giorgio Napolitano. E ai partner ricorda che «la crisi rende il cammino europeo più arduo e difficile ma anche di un necessario e senza alternative». Per il capo dello Stato «l’Unione europea sta affrontando una crisi economica e finanziario molto complessa e difficile» e non a caso il Belpaese «ha dato il suo contributo a una scelta giusta come quella del fiscal compact, un accordo internazionale che ci consentirà di consolidare la stabilità creando le condizioni per un successivo sviluppo su basi sane e durature».
Chiarita a spanne la dotazione del fondo, ora i Paesi devono definire gli ultimi dettagli sull’operatività dell’Esm. Ieri i diciassette hanno confermato il versamento immediato di due tranche nell’Esm (32 miliardi in tutto), che permetterà una capacità di prestito del Fondo anti-crisi di 213 miliardi. E proprio per garantire una piena attività è stato stabilito che fino a metà 2013 si potrà attingere alle risorse dell’Efsf (240 miliardi) non ancora utilizzate. Confermato poi il rapporto del 15 per cento tra il capitale versato e i bond emessi, in modo da generare attraverso leva finanziaria prestiti di 533 miliardi anche con un capitale versato di 80 miliardi e da evitare downgranding al rating dell’Esm da parte dell’agenzia dei rating. In quest’ottica, anche se ancora a livello informale, si discute se l’Esm si dimostrerà un firewall sufficiente se dovesse peggiorare la si-
economica del governo, anche di fronte a spinte che possano andare in questo senso e che Monti mette già nel conto: «Non dobbiamo pensare che per qualche mese dati recessivi, naturalmente in sé sgradevoli e ancora per un po’ negativi, pongano in discussione la qualità delle scelte di politica economica fatte.
tuazione in Spagna. Argomento di struggente attualità nel giorno in cui il premier Mariano Rajoy ha annunciato il varo di una manovra da 27 miliardi di euro (tra aumenti delle tasse sulle imprese, congelamento degli stipendi pubblici e tagli delle spese ministeriali). Nella quale però manca un aggravio dell’Iva, già deciso dagli altri Piigs. Prima dell’avvio dell’Eurogruppo Olli Rehn ha ammesso le preoccupazioni dell’Europa: «La Spagna è in una situazione molto difficile», ha dichiarato il commissario per gli Affari economici, «D’altro lato ha molte potenzialità ed è importante che continui in forma coerente a migliorare la sostenibilità delle sue finanze pubbliche e dia impulso alle riforme che aiutano la crescita e il lavoro». Se non bastasse il viceministro all’Economia Vittorio Grilli – anche in vece del “ministro” Mario Monti impegnato ancora nella missione in Asia – ha aggiunto che «tutti i Paesi dell’area sono preoccupati per la situazione» di Madrid. E riferendosi all’Italia ha spiegato, che di fronte a questa nuova emergenza «non dobbiamo pensare che abbiamo fatto tutto. Anzi dobbiamo proseguire un aggiustamento difficile».
sia così tensione sociale, così disperazione fino ad arrivare a gesti estremi mi crea angoscia. Non sono senza cuore e mi stupisco quando veniamo dipinti come tali. Anche se appariamo freddi e tecnici ci mettiamo sensibilità». Il ministro ha ribadito, poi, l’impegno impegno a sanare entro il
Monti: «Il cambiamento in corso fa ben sperare per quando, dopo le elezioni, ritorneranno governi a composizione politica». Fornero: «Spaccare il Paese sull’articolo 18 è l’ultima cosa che vogliamo fare» Anzi le rafforzano e comporteranno dei tentativi di misure di attenuazione del disagio sociale che ciò comporta». Sulla stessa lunghezza d’onda, dai microfoni di “Radio Anch’io”il ministro del Lavoro, Elsa Fornero: «Spaccare il Paese sull’articolo 18 è l’ultima cosa che vogliamo fare. L’idea che ci
30 giugno la posizione dei lavoratori “esodati” penalizzati dalla riforma delle pensioni: «Dobbiamo trovare le risorse per una soluzione equa che consenta al più ampio numero di persone di questa categoria di poter accedere alla pensione secondo le regole precedenti». Sull’argomento lavoro è arriva-
ta anche la posizione della Cei. Infatti il segretario generale monignor Mariano Crociata, durante la conferenza stampa conclusiva del Consiglio Permanente, ha detto che il Paese «capisce la necessità di intervenire sul mercato del lavoro malgrado alcune esasperazioni», precisando che di fronte all’emergenza lavoro serve uno «sforzo di guardare a quelli che dovrebbero essere in entrata e non solo a quelli che purtroppo rischiano di essere in uscita». Monsignor Crociata ha aggiunto che da parte della Chiesa italiana «non c’è nessun avallo per chi approfitta della crisi per fare interessi di parte. Nessun avallo per chi non vuole cambiare nulla e vuole che le cose restino sempre così. È necessario arrivare ad una scelta condivisa per il mercato del lavoro senza esasperare la tensione fra equità e rigore perché il sistema Paese va difeso nella sua tenuta».
Italia al bivio
pagina 4 • 31 marzo 2012
I partiti discutono ancora troppo poco del loro futuro. E intanto i giornali pensano solo a demonizzare la Casta
Attenti al Pasticcellum
Se il patto costituente «A-B-C» non è blindato (come sembra), si rischia di creare un sistema ibrido e dannoso. Vediamo perché di Enrico Cisnetto è un’apparente contraddizione sulla scena politica italiana, e bisogna capire cosa nasconda. Perché proprio mentre i partiti, o meglio la triade Alfano-Bersani-Casini supportata da un gruppo di lavoro capeggiato da Luciano Violante, sono arrivati a definire un’intesa sulla modifica della legge elettorale e persino di alcune norme costituzionali, il presidente del Consiglio si prende la briga di un’intemerata contro la “vecchia politica”, accusandola di essere priva di consenso tra gli italiani, così violenta da indurlo successivamente ad una marcia indietro sotto forma di lettera al Corriere della Sera? Non ha senso. Allora, Monti è impazzito? Ha perso quella sensibilità che un po’ tutti gli hanno riconosciuto, con compiaciuto stupore, in questi mesi? Oppure teme che dietro quell’annuncio ci sia ancora troppo poco per stare tranquilli che il sistema politico non voglia tornare al vecchio e in fondo tranquillizzante (per chi lo pratica) bipolarismo, e quindi sfida i partiti proprio sul terreno della legittimazione popolare prossima ventura?
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Ufficialmente sappiamo che né Monti né il governo in quanto tale hanno intenzione di partecipare alle elezioni. E sappiamo, perché è stato formalmente comunicato, che i partiti sono pronti ad affrontare non solo il cambio della modalità di conteggio del voto, che è legge ordinaria e quindi con un iter parlamentare più semplice, ma anche delle modifiche alla Costituzione, che richiedono il doppio giro tra Camera e Senato. Dunque, i due orientamenti dovrebbero integrarsi: il governo si occupa dello spread e della recessione, i partiti preparano le regole per la partita che dovranno giocare. Ma le cose non stanno proprio così. Primo perché il lavoro che Monti sta facendo è lungi dal poter essere considerato interrompibile fra meno di un anno. Il primo a saperlo è lo stesso premier, e dunque non è attingendo alla sua vanità bensì al suo senso di responsabilità che dovrà prima o poi manifestare la disponibilità
Il leader centrista dice no ai privilegi decisi dalla delibera sugli ex presidenti della Camera
Casini rinuncia ai benefit: il segno della nuova politica di Osvaldo Baldacci o avuto l’onore di servire la Camera dal 2001 al 2006, rinuncio con effetto immediato a questi benefici». Pier Ferdinando Casini va oltre i tagli che Montecitorio ha iniziato a fare. L’ufficio di presidenza della Camera dei Deputati aveva deciso giovedì di ridurre i benefici per gli ex presidenti. Dureranno non più a vita ma solo dieci anni a partire dalla legislazione prossima o in futuro da quella successiva alla Presidenza. Di fatto con questa decisione perdevano i loro benefit Pietro Ingrao e Irene Pivetti, mentre li conservavano ancora per un po’ Luciano Violante, Fausto Bertinotti e appunto Casini. E prossimamente Fini. Anche il Senato ha varato alcune settimane fa un provvedimento simile, anzi retroattivo. Ma il leader dell’Udc ha deciso di andare oltre questa indicazione e immediatamente ha scritto una lettera all’attuale presidente Fini: «Ho preso atto delle decisioni assunte ieri, a maggioranza - scrive il leader dell’Udc - dall’Ufficio di Presidenza in relazione allo status degli ex presidenti. Ringrazio lei ed i colleghi, ma le comunico che non intendo avvalermi della delibera e rinuncio, con effetto immediato, ad ogni attribuzione e benefit connessi a questo status». Diversa la scelta in merito fatta da altri due ex presidenti della Camera: sia Luciano Violante sia Fausto Bertinotti hanno dichiarato che non rinuncieranno a ciò che spetta loro.
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do e accanto a legittimi e perfino utili benefici si siano incrostati vantaggi sproporzionati e inspiegabili, ma alcuni benefici della politica hanno un senso e sono persino una garanzia di democrazia, se non la si vuole far cadere in mano solo ai più ricchi e potenti ce possono cavarsela da sé, o peggio in mano a chi riesce a trovare il modo di cavarsela approfittando del ruolo che ricopre.
Hanno quindi un senso, ma la scelta di rinunciarvi da parte di Casini indica un senso ancora più alto. Il senso dello Stato, il senso della responsabilità verso la nazione. Ci sono momenti in cui si può largheggiare con la distribuzione di benefici, e momenti in cui bisogna stringere la cinghia e fare sacrifici. Sappiamo bene che questo è il momento dei sacrifici, per cui fa bene Casini a rinunciare anche a dei benefici legittimi e magari utili, ma non indispensabili. Inoltre in questo modo fa anche un passo ulteriore: dimostra che la classe politica, o comunque alcuni tra i politici (perché l’abbiamo detto e lo ripetiamo: non sono tutti uguali) hanno capito che la classe dirigente ha il compito di guidare il popolo, e per farlo deve essere credibile, e quindi deve fare qualunque cosa sia necessaria a far capire che ci si può fidare seguendola.Tanto più in un momento in cui è indispensabile chiedere sacrifici a tutti gli italiani, chi li chiede, anche se a ragione, deve dare il buon esempio, non può chiederlo agli altri tenendosi le proprie rendite di posizione. E poi è molto bello che il leader dell’Udc abbia ricordato un concetto che sembra desueto ma che forse la crisi sta facendo rivivere: servire lo Stato è un onore. Al di là del merito quindi di questa scelta specifica sui benefici degli ex presidenti (tutto il rispetto se altri non seguiranno la stessa linea) onore a Casini che ha voluto mandare un messaggio caro pagandolo di persona.
Diversa la scelta fatta da Luciano Violante e Fausto Bertinotti che manterranno il loro status economico
Decisamente un bel segnale, comunque, quello di Casini. Non si tratta di rincorrere l’antipolitica che fa di tutta l’erba un fascio (ma ancora una volta si dimostra che i parlamentari, come gli altri cittadini, non sono tutti uguali) e che comunque non si accontenta mai, in una rincorsa insensata e giacobina a tagliare più teste senza comprendere quel che si fa. I benefici per i politici, per i parlamentari, per gli ex presidenti del Parlamento hanno un senso, sia funzionale sia di rispetto al prestigio delle istituzioni. Innegabile che in Italia si sia andato esageran-
a proseguire, in una forma o nell’altra, l’impegno. Che senso avrebbe, dopo aver ben presto gettato la maschera del tecnico a favore di un ruolo di capo del governo a tutto tondo e interpretato con accentuata sensibilità politica, che ora dicesse “non gioco più”? Tra l’altro, gli italiani, che continuano a riservargli un altissimo gradimento nonostante le bastonate fiscali che ha inferto loro, non glielo perdonerebbero, specie dopo avergli sentito dire, compiaciuti, che lui non è Andreotti e non intende “tirare a campare”.
In secondo luogo, non è affatto detto che la tanto annunciata intesa del trio “A-B-C”, e che in realtà ha come principale beneficiario il solo Casini, si possa considerare blindata. Anzi. L’esperienza ci dice che spesso a questi preannunci non sono seguiti i fatti, e lo stesso leader dell’Udc, discutendo con il sottoscritto e Giuliano Ferrara sul palco di “Roma Incontra”, ha mostrato non poca prudenza, per non dire scetticismo. Senza contare che guardando dentro all’ipotesi di mediazione che sarebbe stata trovata, ci si trova un po’ di tutto: mezzo proporzionale e mezzo maggioritario, la soglia di sbarramento ma anche il premietto di maggioranza e pure il diritto di tribuna, un po’ di sistema tedesco con una spruzzata di spagnolo, no alle coalizioni pre-costituite ma si all’indicazione del premier. Insomma, non è affatto detto che in questo modo venga realizzato il superamento del bipolarismo che è la condizione indispensabile per archiviare definitivamente la Seconda Repubblica e aprire il cantiere della Terza. D’accordo che al tavolo delle trattative il compromesso è d’obbligo, ma un conto è sapersi accontentare, un altro assistere alla costruzione di un puzzle con tanti pezzetti di idee diverse. A tutto questo si aggiungano due problemi. Primo: i mal di pancia che l’ipotesi di accordo ha suscitato dentro Pd e Pdl. Tra i Democratici non sono figure di secondo piano a mostrare riserve, ma tutti coloro, Rosy Bindi in testa, che vogliono l’alleanza elettorale con Di Pietro e Vendola (la famosa fo-
La nuova stagione è già cominciata, malgrado le frenate di questi giorni
Ecco come saranno i partiti del dopo-Monti Il vecchio bipolarismo ideologico deve lasciare spazio a un confronto sui temi dell’integrazione europea di Francesco D’Onofrio embra già di tutta evidenza che i rapporti tra i partiti politici e il governo Monti stiano passando da quelli che li hanno caratterizzati nel contesto della emergenza economico-finanziaria a quelli che li stanno ora caratterizzando in questo processo di transizione, teso ad una nuova definizione ideale e programmatica dei partiti medesimi. Se infatti l’emergenza aveva prodotto una sostanziale rottura del sistema delle alleanze elettorali di Pd e Pdl, la fase attuale – che si può definire di transizione verso il dopo-Monti – vive una sorta di stagione lacerante tra la sopravvivenza (in entrambi i due partiti maggiori) degli antichi fantasmi delle vecchie coalizioni dell’antico bipartitismo antagonistico, alla progressiva presa di coscienza che dopo il governo Monti le alleanze stesse non potranno più essere quelle di prima, quanto meno per quel che concerne i programmi elettorali. Appare sempre più evidente, pertanto, che non si tratta della “fantasiosa”contrapposizione di tecnici e politici al governo del Paese, ma della ben più corposa linea politica complessiva che il governo Monti sta ponendo sempre più in evidenza.
Il premier Monti e il presidente Napolitano si sono fatti quasi garanti “istituzionali” di una trasformazione volta a rimettere in sesto l’Italia e a ridisegnare la nostra politica to di Vasto) per scelta politica, costi quel che costi, oppure coloro che, immemori della fine che fece la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, vogliono sfruttare il fatto che il Pd sia avvantaggiato nei sondaggi per vincere e andare al governo, senza troppo preoccuparsi di quali conseguenze questa ipotetica vittoria produrrebbe sul piano politico e della successiva tenuta di quell’esecutivo. Dentro il Pdl la fronda, capeggiata dagli ex An, è meno visibile ma non per questo meno ruvida. Casini conta sulla disponibilità di Alfano, ma deve fare i conti con Berlusconi, che va dicendo in giro, senza neppure arrossire, che lui in vista delle elezioni farà ciò che gli comanda il partito (come se non si sapesse che il partito è suo, o che comunque lui lo considera tale).
Il secondo problema è dato dalla povertà del dibattito pubblico sulla politica. Se i media continuano a limitarsi all’opera di delegittimazione della cosid-
detta Casta, senza passare ad un’analisi che chiarisca agli italiani i motivi e il costo del fallimento della Seconda Repubblica, sarà difficile che si riesca ad evitare che l’offerta politica alle prossime elezioni sia ancora quella vecchia e che il bipolarismo, magari con Berlusconi ancora protagonista e motivo di divisione, rientri dalla finestra dopo essere uscito dalla porta lo scorso 14 novembre. Eccesso di pessimismo? Può darsi, speriamo. Molto dipenderà da come si comporteranno Monti e il suo governo – c’è da aprire la fase tre, se la seconda era quella di liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro – e dal coraggio che sapranno metterci Casini e il Terzo Polo nell’imprimere una forte accelerata alla definizione di un nuovo soggetto politico, quello che Giorgio La Malfa, pensando a suo padre e a De Gasperi, chiama il “polo della ricostruzione”. Ma di questo parliamo sabato prossimo, giusto per santificare la Pasqua. (www.enricocisnetto.it)
S
sentato in modo evidente la sostanziale accettazione delle condizioni poste dal processo di integrazione europea, con particolare riferimento alla ormai famosa lettera della Bce dell’agosto scorso.
I provvedimenti legislativi che il governo Monti ha adottato o proposto sino ad ora hanno infatti un taglio complessivo che si muove nel solco del processo di integrazione europea iniziato alla metà degli Anni Cinquanta nel contesto della Guerra Fredda tra Est ed Ovest; ampliato notevolmente dopo la conclusione dell’esperienza storica dell’Unione Sovietica, a partire dal 1992; e giunto ora alla complicatissima convivenza del progetto europeistico nel contesto della globalizzazione. All’indomani della sconfitta del fascismo, infatti, i partiti politici italiani hanno vissuto il processo di integrazione europea soprattutto nel contesto della Guerra Fredda. Si può pertanto affermare che è proprio dal 1992 che il processo di integrazione europea è proseguito – da Maastricht in poi – ponendo a tutti i partiti politici italiani la sfida di un drastico adeguamento alla nuova realtà. L’avvio della nuova globalizzazione da un lato pone pertanto una questione di coerenza europeistica, e dall’altro di partecipazione dell’Europa medesima al processo di globalizzazione in atto. Questa doppia sollecitazione è stata vissuta dai partiti politici italiani in modo molto diverso: all’inizio dell’esperimento Monti risultava decisiva l’emergenza economico-finanziaria italiana, mentre oggi appare sempre più imminente il passaggio politico al dopo Monti. Alla nascita del governo Monti risultava infatti prevalente la percezione della emergenza economico-finanziaria in cui si era venuta a trovare l’Italia, mentre oggi risulta sempre più evidente la percezione della necessità di andare oltre l’esperienza del bipolarismo “violento”, che aveva caratterizzato l’Italia dal 1994 a ieri. Il sostegno parlamentare al governo Monti ha dunque rappre-
La prosecuzione dell’esperimento medesimo avviene oggi nel contesto di due questioni fortemente intrecciate ma formalmente distinte: da un lato, il nuovo mercato del lavoro, a partire dal “famigerato” articolo 18; dall’altro, il rilevante turno elettorale amministrativo, che viene vissuto “strabicamente” con la tentazione del ritorno all’indietro delle alleanze del vecchio bipolarismo, e con l’apertura alle novità che ciascun partito politico deve affrontare in questa stagione di innovazione che parte proprio dall’esperimento Monti. È in questo contesto che vanno valutate sia le affermazioni fatte all’estero dal presidente del Consiglio sul rapporto tra consenso al governo e dissenso verso i partiti politici; è sempre in questo contesto che vanno valutate le distinte reazioni sociali e politiche al progetto concernente il mercato del lavoro; è in questo contesto infine che si dovrà valutare se l’emergenza economico-finanziaria (posta in evidenza dal più recente andamento dello spread) dovrà finire con il tradursi in una sorta di continuazione di questo “strano” rapporto tra Parlamento e governo, o se i partiti politici riusciranno a presentarsi alle prossime elezioni politiche con proposte di governo alternative sia rispetto al processo di integrazione europea in quanto tale, sia all’interno di valori comuni del processo medesimo. Questo appare infatti il bipolarismo – “mite” o europeo – dell’epoca presente. Il governo Monti sta infatti operando nel senso della costruzione di elementi comuni a chiunque voglia combattere nel contesto della prosecuzione del processo di integrazione europea. È questo il bipolarismo che contrappone oggi in Francia Sarkozy ad Hollande: alternativo l’uno all’altro ma sempre nel contesto dell’integrazione europea. È questo il bipolarismo tra Cdu e socialdemocratici che ha caratterizzato l’alternativa in Germania mai impedendo la Grande Coalizione. Non è stato questo il bipolarismo che ha contrapposto la Dc al Pci nel secondo dopoguerra italiano. Non è stato questo il bipolarismo che ha contrapposto berlusconiani e antiberlusconiani in quella che siamo soliti chiamare Seconda Repubblica. Non si tratta dunque di alcun ritorno all’indietro, ma di andare avanti oltre i fallimenti del bipolarismo “violento”che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Dei tre valori fondanti della Costituzione italiana (individuo, persona e classe operaia), i primi due sono stati all’origine del processo di costruzione europea, e sono di fatto oggi il motore delle iniziative del governo Monti. All’indomani, pertanto, del turno amministrativo e delle deliberazioni parlamentari sul mercato del lavoro, diventerà sempre più chiaro lo spartiacque tra emergenza e transizione.
Il panorama politico sullo sfondo del quale l’Italia è chiamata a costruire il proprio futuro è quello definito dalla Ue e dalla lettera della Bce dell’estate scorsa
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Retroscena sulle strategia non confessate di ex-An e antagonisti
hi ha paura della nuova legge elettorale? Meglio, della bozza di riforma elettorale su cui lunedì scorso si è registrato un accordo di massima tra Pdl, Udc e Pd? La Lega certo non vuole la riforma e Sel e Italia dei Valori la definiscono ”una truffa”e ”una vaccata”. Ma non solo loro: è all’interno degli stessi partiti di maggioranza che si muove la più insidiosa corrente di dissenso alla riforma. Nel Pdl non piace a moltissimi ex An che stanno pensando anche a misure estreme in caso d’approvazione e hanno già ottenuto per voce di Altero Matteoli, capofila del dissenso, la convocazione dell’ufficio politico del Pdl. Nel Pd non piace a Rosy Bindi e Arturo Parisi e con loro a tutta quella parte del partito che vorrebbe fare della foto di Vasto un manifesto per le elezioni politiche – magari anche prima del 2013 – e governare il paese insieme a Nichi Vendola e Antonio di Pietro.
C
Una battaglia quella dei dissidenti motivata dalle pretese virtù del bipolarismo di questi anni, le cui sorti sarebbero state meravigliose e progressive. Ma evidentemente non
è solo una mozione di principio che muove questi soggetti, la rivendicazione della democrazia dell’alternanza e la salvaguardia del patto tra elettori ed eletti che il bipolarismo frontale avrebbe garantito. Se fosse solo questo si farebbe un torto all’intelligenza politica di chi sta impiegando considerevoli energie polemiche anche contro il proprio partito per boicottare la riforma. No, c’è di più e c’è dell’altro. Ci sono due progetti politici precisi che si stanno enucleando in un campo e nell’altro della trasversale contrarietà alla nuova legge elettorale che favorirebbe la composizione di go-
La doppia fronda anti-Alfano e anti-Bersani La destra del Pdl vuole fare un partito (e quindi preme per tenere il Porcellum che dà ai piccoli un grande potere). La sinistra del Pd vuole portare Prodi al Quirinale (dopo aver vinto le elezioni con l’alleanza di Vasto) di Riccardo Paradisi verni più ancorati al centro. Tra gli ex An il progetto, per ora la tentazione, è semplicemente quello di ricostruire il partito perduto, di riguadagnare un’identità e un’autonomia rispetto all’egemonia ex forzista in un
partito a sinistra, invertire la marcia verso il centro, favorire la svolta a sinistra auspicata da D’Alema, ma avendo come meta Romano Prodi al Quirinale. Dunque riepiloghiamo prima di entrare nei casi particolari. Nel
«Se qualcuno ritiene che il progetto Pdl non sia più valido, faccia pure le proprie scelte, ma non chieda a noi di fare un qualunque passo indietro», ha detto l’ex ministro della gioventù Pdl all’interno del quale non solo non è riuscita l’amalgama ma rischia proprio di impazzire la maionese. Sono all’ordine del giorno liti furibonde tra ex An e forzisti, congressi provinciali vissuti come guerre civili, contese sulla gestione del partito e sulle quote di rappresentanza. Nel Pd l’obiettivo è più ambizioso e più articolato: ancorare il
Pdl la riforma d legge elettorale non piace agli ex-An. Giorgia Meloni – testa d’ariete del dissenso destrista - ha detto chiaramente che una legge elettorale così non la vota mentre Altero Matteoli ha dichiarato che se dovesse essere approvata ci saranno conseguenze gravissime. E vedremo tra un attimo – al netto dei superlativi e dell’enfa-
si matteoliana – quali sarebbero queste conseguenze. Nel Pd sono Rosy Bindi e l’area prodianulivista ad insorgere. Poi c’è Nichi Vendola che parla di proposta da ”cestinare” e Antonio Di Pietro
che è pronto a rimettersi di nuovo ai banchetti raccolta firme per referendum anti ”vaccata”. È una costellazione di forze che convergono a tagliare la strada alla riforma, una levata di scudi che ha fatto dire giovedì a Luciano Violante che il percorso verso la legge elettorale gli appare ”molto complicato”.
Gli ex An dunque. Non tutti sono dell’avviso di Altero Matteoli e di Giorgia Meloni. Anzi i più autorevoli rappresentanti di questa corrente interna al Pdl sono persuasi, per realismo e in fondo per convinzione, che non solo non c’è nessuna alternativa
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Prodi al Quirinale è il sogno della sinistra di Vendola, Di Pietro e Rosi Bindi e che legge «Il Fatto» e «Il Manifesto». Giorgia Meloni, invece, è la leader del partito sognato da Matteoli e Polverini (ma osteggiato da Gasparri), con l’aiuto del «Giornale» e del «Secolo» plausibile al Pdl e a Monti ma che anche la riforma elettorale è necessaria considerato il mutato scenario politico. Sta di fatto che a Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri non è facile governare il dissenso che s’è aperto all’interno della loro area. L’incontro che s’è svolto giovedì presso la Biblioteca del Senato in piazza della Minerva a cui ha partecipato una settantina di esponenti ex di An, ex ministri, parlamentari, amministratori locali è stato l’occasione per fare il punto della situazione. Sono emerse molte perplessità tra dirigenti e quadri tra i quali si percepiva nettamente l’insofferenza crescente verso il governo in generale e la gestione del Pdl in particolare dove gli ex An sentono d’essere sempre meno centrali. Di fronte a questa constatazione ci sono però due reazioni. Quella realista e politica di Gasparri - e in qualche modo di La Russa - che immaginano di rendere compiuta la fusione della destra in un più vasto movimento popolare di stampo europeo e quella di chi pensa che se le differenze dovessero diventare insanabili sarebbe opportuno rovesciare il tavolo. La riunione di giovedì per ora è servita a smentire ufficialmente che ci sarebbe una frazione di ex An pronti alla collisione con la segreteria nazionale e addirittura alla fuoriuscita dal partito. E va nell’identica direzione la dichiarazione di Gasparri in merito alla lettera di rettifica di
volti nuovi e femminili come quelli per esempio dell’ex ministro della gioventù Giorgia Meloni o della presidente della regione lazio Renata Polverini. Magari ricomponendo la sicssione con Storace e il suo 2%. C’è chi ha fatto qualche proiezione in merito: questo ipotetico soggetto politico si assesterebbe sul 4% dei consensi e sarebbe comunque influente entro un sistema bipolare come l’attuale che premia i piccoli. Sicuramente gli ex An più identitari riacquisirebbero la loro autonomia e starebbero più tranquilli in merito alla propria sopravvivenza. Non è un caso che proprio giovedì, giorno di particolari acuti polemici su articolo 18 e riforma elettorale, Meloni e Polverini si siano distinte per un eccezionale attivismo esternatorio polemico nei confronti del governo e delle intese in corso. «Per disciplina di partito ho votato quasi tutto – dice Giorgia Meloni in un’intervista a Libero nessuno, però, potrà chiedermi di votare contro la mia storia per riportare l’Italia indietro di vent’anni, alla Prima repubblica Il bipolarismo è stata una conquista straordinaria, figlia
Per Bindi e Parisi, il segretario tradisce la linea del Pd avallando l’intesa per un sistema dell’alternanza proporzionale. Perché nella testa dei prodiani c’è sempre la foto di Vasto
to principale dà un piccolo vantaggio, ma non stabilità al sistema che diventerebbe multipolare». Al suo fianco scende subito Arturo Parisi durissimo con il Pd e con l’intesa per la nuova legge elettorale «È un tradimento della linea iscritta nei documenti e nelle delibere ufficiali del Pd». Nell’escalation Marina Magistrelli e Franco Monaco se la prendono con Pier Ferdinando Casini che oggi condanna il Porcellum, dicono, mentre ieri lo ha votato. A svelare la natura dell’attacco alla riforma l’ex centrista Marco Follini: «Difendo Casini dai prodiani. Ora che disconosce la legge elettorale che ha voluto prima e cerca di dare una mano a farne una nuova, possiamo infornare il vitello grasso». Ironico Follini ma efficace soprattutto nei confronti
Monti al Corriere della Sera dove il premier assicura che lui i partiti non li disprezza, che anzi il loro è un ruolo fondamentale: «È certamente un fatto positivo dopo le incomprensioni e le discussioni dei giorni passati» dice il capogruppo del Pdl al Senato. Nondimeno tra gli ex An c’è chi morde il freno. Senza escludere come estrema ratio una soluzione di rottura e di ritorno a ciò che era Alleanza nazionale. Un progetto ancora nel cassetto ma sul quale esponenti ex aennini si stanno esercitando da mesi immaginando di resuscitare un partito di destra che proponga
anche della nostra storia di centrodestra» E ancora, sull’onda della recriminazione: «Noi che proveniamo da An siamo quelli che hanno rischiato di piu’dando vita al Pdl. Abbiamo messo in gioco la nostra storia per una nuova esperienza. Se qualcuno ritiene che il progetto Pdl non sia più valido faccia le proprie scelte, ma non chieda a noi di fare passi indietro». E ancora: «Con noi al governo sono stati recuperati 13 miliardi dell’evasione fiscale nel 2011.Vediamo se Monti farà meglio nel 2012». Una sfida? Da parte sua Renata Polverini riesumando il suo passato da
dei suoi compagni di partito quando li definisce ”prodiani”. Perché appunto il busillis è proprio questo: in palio non c’è la salvezza del bipolarismo c’è l’operazione Prodi al Quirinale. Due schemi convergenti: da un lato la destra che vuole mantenere il bipolarismo di guerra per ancorare sulle sue latitiidni la coalizione moderata, dall’altro la sinistra che vuole il governo pantografato sulla foto di Vasto e Prodi alla presidenza della repubblica. La difesa del bipolarismo viene dopo. Se viene.
sindacalista preme l’acceleratore sulle ragioni della destra sociale e lancia «un appello al governo e al parlamento per cui si tenga conto in tutto l’iter della riforma del mercato del lavoro delle posizioni espresse dai sindacati e dai rappresentanti delle imprese qualunque riforma che non tenesse conto di tali posizioni avrebbe un effetto disastroso sul piano sociale del Paese».
L’idea di schierare l’una o l’altra delle due pasionarie di destra è anche da mettere in relazione con il pressing di Storace che ha deciso un rude profilo d’opposizione nei confronti del governo Monti incalzando il Pdl e gli ex An «Provo profonda tristezza per quegli uomini e quelle donne che militarono nella destra italiana e ora stanno lì, silenti, timorosi di rischiare la poltrona parlamentare. Troppi altri non si rendono conto che saranno eliminati uno ad uno se faranno passare la schifezza di legge elettorale che sta per essere scodellata loro. Non ci sarà mai piu’ spazio per una nuova forza politica di destra. Argomentazioni a cui sente di dover rispondere Fabio Ram-
pelli leader storico della destra romana e mèntore di Giorgia Meloni: «I leader non facciano finta di niente: le operazioni nostalgia sono una risposta patetica che si commenta da sola. Attenzione a non prendere in giro i cittadini. Servono risposte credibili, non maquillage, a cominciare dalla legge elettorale». Ma se a destra c’è maretta a sinistra c’è tempesta. Rosy Bindi è sul piede di guerra da quando sono iniziati gli incontri informali che abbozzavano un nuovo sistema: la ”tomba del bipolarismo” lo chiama il presidente del Pd. «L’idea di un premio di maggioranza al parti-
società
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segue dalla prima La varietà della sua sintomatologia induce a parlare di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA o, in inglese, ASD, Autistic Spectrum Disorders). Non è una diagnosi facile da fare e tanto meno facile da accettare: per il bambino autistico, una volta fatta la diagnosi, si apre un percorso lungo e complesso. I risultati positivi, sempre possibili ma troppo spesso inferiori alle attese delle famiglie, richiedono un notevole sforzo da parte di tutti, con un forte spirito di collaborazione tra famiglia, scuola ed esperti.
Le conoscenze sull’autismo negli ultimi vent’anni sono cresciute molto, ciò nonostante i dubbi ancora permangono e il nostro impegno, anche sul piano politico, è proprio quello di promuovere un investimento efficace sul piano della ricerca scientifica. Il neuropsichiatra infantile Franco Nardocci, che nel 2005 ha collaborato all’edizione delle linee guida della Sinpia sull’autismo e successivamente ha partecipato alle più recenti linee guida dell’Istituto superiore di Sanità (2011), in un recente articolo apparso su Repubblica afferma che «l’autismo è considerato ormai in tutto il mondo scientifico nazionale e internazionale, come una grave disabilità dovuta ad una precoce disfunzione neuro-cerebrale e non come una malattia mentale, psicosi o schizofrenia, concezioni, quest’ultime, dimostratesi del tutto false nel corso degli ultimi, ormai, 40 anni». E aggiunge che «sul piano degli interventi l’approccio alla disabilità autistica è orientato dagli interventi abilitativi, educativi e socializzanti che possono migliorare o modificare, ma per ora purtroppo non guarire, gli effetti dei disturbi nella comunicazione, socializzazione e comportamento caratteristici dell’autismo». Due osservazioni importanti per ricordare la necessità di continuare ad approfondire non solo le cause dell’autismo, ma anche gli interventi che possono ridurre la disabilità: un insieme di misure socio-psico-pedagogiche, strutturate in un progetto unitario, su misura per ogni bambino e la sua famiglia. In questo senso si sono attivati alla Camera e al Senato, in modo bipartisan, molti parlamentari che hanno sottoscritto una mozione sull’autismo, che impegna il governo a trovare risorse da destinare alla ricerca, sia per le discipline di base come la genetica, che per quelle discipline che si occupano di modelli di riabilitazione e cura. Vogliamo infatti creare nel tessuto sociale una rete di servizi che vada oltre i tempi della scuola, perché troppo spesso questi ragazzi al termine della scuola dell’obbligo, o dopo i 18 anni, vengono assimilati in tutto o in parte ad una generica diagnosi
In tutta Italia iniziative di approfondimento: è fondamentale aiutare i malati e le loro famiglie
Insieme contro l’autismo Lunedì la giornata per sensibilizzare il mondo sul peso di una patologia ancora troppo poco studiata di Paola Binetti di patologia psichiatrica. La mozione, presentata proprio in occasione della giornata mondiale dell’autismo, chiede inoltre al governo di accelerare il processo di revisione delle linee guida, che sembrano un po’ troppo sbilanciate a favore dell’Aba, a scapito di altri indirizzi, forse meno documentati sul piano della letteratura scientifica, ma non per questo meno efficaci. In questo modo si vuole permettere alle famiglie dei
anche se variabili in rapporto ad una serie di fattori, quali l’età o il grado di compromissione funzionale, possono essere fatte rientrare in due grandi categorie: gli approcci comportamentali e quelli evolutivi. I primi basati sull’Aba, finalizzati ad insegnare specifiche competenze con lo scopo di migliorare la socializzazione, la comunicazione ed il comportamento adattivo. I secondi, inseriti in una cornice concettualmente differente,
I migliori successi si possono ottenere soltanto con la continuità e la qualità del percorso terapeutico e attraverso il coinvolgimento dei genitori nella scelta di obiettivi concreti bambini autistici di scegliere il tipo di trattamento che considerano più efficace per i propri figli, come raccomanda l’art. 32 della Costituzione.
Nel documento del 2005 si metteva in evidenza come i migliori successi si possono ottenere solo con la continuità e la qualità del percorso terapeutico, garantito attraverso il coinvolgimento dei genitori; la scelta di concreti obiettivi intermedi; il coordinamento dei vari interventi e l’indispensabile verifica delle strategie messe in atto. In questa edizione delle linee guida si diceva che le strategie comunemente suggerite ed adottate,
danno maggiore importanza alla dimensione emozionale e relazionale in cui si realizza l’agire del bambino. Le nuove linee guida dell’Iss sembrano sminuire il valore di questo secondo approccio, anche perché fondano le loro argomentazioni a favore dell’approccio comportamentale soprattutto sulla produzione scientifica raccolta. Di fatto sembrano concentrare la loro attenzione più sulla letteratura scientifica che sugli effettivi risultati ottenuti nei diversi Centri di cura e riabilitazione. Ma in questo modo ogni innovazione sarà sempre penalizzata nel confronto con la tradizione e
stenterà a trovare il giusto spazio di attenzione, perché il numero delle prove raccolte risulterà comunque e sempre inferiore. Il sistema di valutazione scelto dall’Iss ha tutti i vantaggi del metodo Ebm: Evidence based Medicine - la medicina basata sulle prove di evidenza ma ne contiene anche i limiti, ben noti a tutti gli esperti. Si potrebbe dire che è un metodo più obiettivo di altri, ma certamente non perfetto e non scevro da errori. La storia dell’autismo è emblematica e forse vale la pena ricordarne qualche passaggio, per capire anche quali errori non si debbono ripetere oggi. La sindrome autistica, individuata da Kanner nel 1943 e descritta l’anno successivo da Hans Asperger, pone ancora oggi molti interrogativi sulla interpretazione dei suoi disturbi, dominata per molti anni dalla scuola psicoanalitica nelle sue diverse articolazioni. In molti ricordano quella brutta definizione di madre-frigorifero con cui si è a lungo colpevolizzata la madre dei bambini autistici, aumentandone il disagio e la sofferenza. Oggi quella moda interpretativa, a tratti quasi maniacale, fortunatamente non esiste più. Gli insuccessi di allora sono evidenti anche oggi e coloro che fanno proprio un approccio di tipo evolutivo hanno strutturato dei progetti riabilitativi
molto più complessi e completi. Per questo non vorremmo che oggi si sostituisse una moda culturale all’altra. L’approccio comportamentale dà i suoi migliori risultati quando è inserito in un progetto articolato e ben strutturato, che tiene conto degli aspetti emotivi e valoriali, punta a creare motivazioni interiori e in definitiva smussa i suoi angoli in una visione molto più complessa. Francesco Barale, ordinario di psichiatria alla Università di Pavia, sostiene che se si confrontano i pochi studi scientificamente seri attualmente disponibili, risulta che quando l’intervento Aba è posto a confronto con altri modelli di intervento altrettanto strutturati come ad esempio il Dir (Developmental Individualdifference relationship based intervention), non emergono differenze di efficacia.
La giornata mondiale sull’autismo deve rappresentare prima di tutto l’occasione per ritrovare uno spirito realmente collaborativo. In quanto alla politica è evidente che può e deve fare un passo indietro, anche se come ha scritto una persona: Non tutto il male viene per nuocere, La polemica ”politica” sta facendo conoscere le Linee guida al di fuori dal giro degli addetti, e forse per le 75 mila famiglie con figli autistici si apre qualche speranza in più.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
I “Sonetti erotici e meditativi” di Giuseppe Gioachino Belli ci riportano nelle pieghe della quotidianità di un secolo e mezzo fa. Per raccontarci com’eravamo e come ancora siamo
unque, se tu che leggi sei romano, sai già da te che nelle metafore di Giuseppe Gioachino Belli puoi specchiare i modi e le parole dei tuoi avi; se non sei romano, c’è bisogno che tu faccia uno sforzo in più. Non tanto per comprendere il lessico astruso (ché quello è astruso anche per noi romani di oggi) ma proprio per immaginare quella società quietamente bigotta e libertina al tempo stesso, che sguazzava nei bordelli senza per questo essere meno timorata di Dio. Che non è - per dire come predicare in pubblico la buona famiglia e poi praticare in privato ogni sera una prostituta diversa (meglio se minorenne): no, perché i personaggi del Belli non hanno niente da nascondere, non sentono il bisogno di ostentare priapismi meccanici, e sacro e profano loro lo mescolano senza fare troppe scene. E senza nemmeno pretendere di vivere il paradiso in terra: la vita terrena è quello che è. Nella Roma d’Ottocento non c’era contraddizione tra Dio e il diavolo giacché era accettato che entrambi entrassero quotidianamente a far parte della vita da vivere. Bella o brutta che fosse.
D
L’ITALIA IN UNO
SBERLEFFO di Nicola Fano
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Allora, diciamo che per tutti, romani e non, oltre ad apparire un grande poeta Giuseppe Gioachino Belli è una specie di documentario d’epoca, un Cousteau della concretezza di un secolo e mezzo fa. Provatevi a leggere (senza pruderie, perché non serve) i Sonetti erotici e meditativi che Adelphi ha mandato in libreria per la elegante cura di Pietro Gibellini (357 pagine per 18,00 euro) e ne avrete una riprova sorprendente e spassosa al tempo stesso. Si tratta, infatti, nella produzione quasi sterminata del Belli, dei sonetti più sozzi per linguaggio però anche i più significativi nel testimoniare la vita plebea dell’epoca. Ma il curatore (da tempo ormai uno dei massimi studiosi del poeta romano) non s’è tirato indietro di fronte all’impudicizia di tanti racconti e riflessioni; e anzi vi ha accostato una bella serie di sonetti invece dedicati al rovescio del sesso, alla morte. E alla malattia e alla tristezza della vita in senso lato. Proprio perché per Belli (e per il popolo romano prima di lui) il sesso era qualcosa di estremo ed estremamente vitale da contrapporre al buio della castità, della vita in odore di santità che a Roma allora, oggi è diverso… - le autorità ecclesiastiche imponevano alla gente comune. La quale gente comune, appunto, riusciva a tener dietro a quelle regole plumbee proprio vivendo il sesso come un gemello vitale e sovversivo del dolore obbligatorio e della privazione. Non c’è niente di blasfemo, in questi sonetti, neanche quando il pio Giuseppe Gioachino chiama in causa santi e madonne per definire l’organo sessuale maschile e quello femminile.
Intanto, la splendida e sapiente introduzione di Gibellini mette in chiaro la genesi storica di questi numerosi versi (sono antologizzati 249 sonetti, in tutto): il poeta, si sa, in morte consegnò il corpus della propria opera, di fatto ancora inedita, nella mani di monsignor Vincenzo Tizzani chiedendogli di bruciarli. Ossia di non farlo, secondo molti. Sta di fatto che di lì a poco (a partire dal 1865, Belli era morto due anni prima) vide la luce la prima sontuosa raccolta di sonetti, per mano del figlio del poeta, Ciro, e di due amici, Francesco Spada e, appunto, il Tizzani. Da lì in avanti, l’insieme di 2279 sonetti venne suddiviso in sei volumi, l’ultimo dei quali, quello dedicato ai componimenti più spinti e scabrosi, rimase nei cassetti dei curatori che giudicarono versi e metafore inadeguate alla statura di un grande poeta, sia pure popolaresco come non poteva non essere anno V - numero 12 - pagina II
l’Italia in uno
sberleffo
da la ggente dotta/ Je toccherebbe a ddì vvurva, vaccina,/ e ddà ggiù co la cunna e cco la potta./ Ma nnoantri fijjacci de miggnotta/ Dimo scella, patacca passerina,/ Fessa, spacco, fessura bbùscia, grotta,/ Fregna fica, sciavatta, chitarrina.»): c’è di che riflettere almeno su tre temi. Primo: la gaiezza e la libertà con la quale centocinquant’anni fa veniva vissuto il sesso. In mezzo ci sono stati la devozione esasperata, lo l’avanspettacolo, spogliarello, il cinema porno e la tv commerciale: ora una «madre de le Sante» in primo piano non si nega a nessuno in prima serata tv. E quindi non c’è più né il rito vitale della sovversione sessuale né quello imprudente del sogno da immaginare. un ricercatore di prelibatezze dialettali. Via via, i versi erotici vennero fuori da quei cassetti con il contagocce, lasciando tracce di sé nelle leggende metropolitane e passando di mano in mano, fino a tempi recentissimi, per copie, sgorbiature a orecchio, memoria orale. Per dire: nell’Ateneo romano della Sapienza, sul finire degli anni Settanta, un assistente di vaglia (poi illustre docente, Nicola Merola), rendeva edotti di tutto ciò i suoi studenti recitando quasi in segreto i versi belliani a memoria. E in modo strepitoso. Ma erano come riunioni della carboneria, quelle in cui noi studiavamo il poeta romanesco fra un’assemblea politica e l’altra…
Ora, finalmente, basta andare in libreria per leggere Er padre de li Santi («Er cazzo se po’ ddì rradica, uscello,/ Ciscio, nerbo, tortore, pennarolo,/ Pezzo-decarne, manico, scetrolo,/ Asperge, cucuzzolo e stenterello…») o il sonetto gemello La madre de le Sante («Chi vvò chiede la monna a Ccaterina,/ Pe fasse intenne
Ora il sesso è meno che banale tanto che molti maschi quando non riescono più a procurarsene sono pronti a picchiare a violentare a sparare; poi sui giornali si scriverà «uccisa dall’ex rifiutato». Come se niente fosse! Secondo: un tempo il peccato era non tollerato di nascosto, come oggi, ma semplicemente giudicato l’altra faccia della virtù. Nel senso di un attributo inevitabile della vita che né il peccatore enfatizzava per farsi bello né il virtuoso additava un giorno sì e l’altro pure per indicare ai più la strada della santità. Si viveva senza fare troppe scene. Al massimo, chi frequentava le puttane le doveva «toccà ppe rrispetto co li guanti» (sonetto 112) per evitare malattie. E, comunque, nessuno di costoro - con o senza guanti - si sarebbe mai nemmeno immaginato di presentare colei come la nipote, poniamo, del Sultano di Costantinopoli. Le cose cambiano.Terzo: è vero che Belli è stato un grande poeta, ma anche solo a scorrere i suoi sonetti qui antologizzati (penso a voi non romani, ovviamente) si resta
a bocca aperta dalla ricchezza della lingua erotica, della varietà del lessico e dei suoi straordinari colori. Belli ci deve aver messo del suo è chiaro - ma è ben probabile che nei vicoli di Roma e subito fuori dalle mille sagrestie il linguaggio zozzo dei ragazzi e dei vecchi (ma forse, perché no?, anche delle ragazze e delle vecchie) dovesse essere non meno fantasioso.
Dalle corna trasformate in «una penna ar cappelletto» (sonetto 114) al sedere sontuoso che una donna descrive così: «È tutta sciccia; e nun ce porto majja/ Antro che sto sboccon de taffettano» (sonetto 15). Per non dire della donna furba e lasciva ma dall’aspetto irreprensibile: «Sì, ssì, fidete tu de quell’aggnello,/ De quer gneggnè, de quer coscemelova.../ Si tu ssapessi che ordeggnuccio è cquello!/ Ma nnu lo pò ccapì cchi nnu lo prova» (sonetto 232, sapientemente intitolato La gattamorta). O di quella altera e desiderabile: «Sto a ffà la caccia, caso che mmommone/ Passassi per dde cqua cquela pasciocca/ (...) Chè la vorìa schiaffà ddrento a ‘n portone/ E ppo’ ingrufalla indove tocca tocca» (sonetto 8, La peracottara). Le metafore non sono solo ricche, sono anche auto-evidenti, capaci di smascherare il sentimento che vogliono comunicare. E qui veniamo alla sfera degli interessi che questi sonetti suscitano al di là delle questioni che riguardano l’erotismo. Insomma, qui si parla di come eravamo. Che forse non è del tutto differente da come siamo. O da come potremmo essere. Si diceva del carattere documentario dei versi del Belli. Appunto. C’è da scorrere le pagine per entrare nelle pieghe della quotidianità di un secolo e mezzo fa (e oltre, perché Roma all’epoca era più buia e arretrata del resto d’Italia contemporanea).
Scorci di vita s’affacciano qui meglio che in un registro dell’anagrafe; meglio che in un manuale ufficiale di storia. La chiacchierona: «Ma io vorìa sapè sta sciarlatana/ Che ppormoni se tiè drent’ar budello,/ E cchi è stata la porca de mammana/ che cquanno nacque je tajjò er filello» (sonetto 186). Le confidenze delle ragazze: «Aghita, senti: da un par d’anni bboni/ L’ommini io ppiù li guardo e mmeno pozzo/ Arrivajje a ccapì cche ssii quer bozzo/ Che ttiengheno tramezzo a li carzoni» (sonetti 101/108). Il pizzicotto molesto: «Co la bbocca, va bbe’, ddimmme canajja,/ E ppù... e bbù... mma tiètte a te le mano/ Giochi de mano ggiochi da villano;/ E la tua pare propio una tenajja» (sonetto 15). È incredibile la sapienza popolare che trasuda dalle parole di questo benestante dalla doppia personalità che, pare, nella sua veste di censore vietò addirittura la diffusione dei testi «libertini» di Shakespeare! C’è molto di romanesco in lui, ovviamente, ma anche molto della comicità popolare italiana che proprio a Roma - con il Varietà di Petrolini e poi con l’avanspettacolo - conobbe grande fortuna ed esercitò la propria arte «organica» alle classi più disagiate. Perché se c’è una letteratura otto/novecentesca ufficiale che ritrae il travaglio intellettuale della nascente Italia (per esempio Leopardi, tanto amato dal Belli), c’è un’arte ufficiosa che ne ritrae invece alla perfezione tutta la complessità sociale. Nonché la facilità di mescolare stili e tradizioni: come Belli spesso (anche in questa raccolta di Pietro Gibellini) digerisce e riscrive il milanese di Carlo Porta, così tutti i pubblici italiani applaudivano gli stessi comici «dialettali» (sia detto tra mille virgolette).
Segno che l’Italia c’era prima che ci fosse ufficialmente. Costruita su un epitaffio o uno sberleffo detto in romanesco, milanese, veneziano o napoletano. Ma sempre capace di raccontare la vita di tutti: «Cqua nun se n’essce: o ssemo ggiacubbini/ O ccredemo a la lègge der Zignore./ Si cce credemo, o mminenti o ppaini,/ La morte è un passo cche vve gela er core./ Se curre a le commedie, a li festini,/ Se va ppe l’ostarie, se fa l’amore,/ Se traffica, s’impozzeno i quadrini,/ Se fa dd’oggn’erba un fasscio... eppoi se more!/ E ddoppo? Doppo viengheno li guai./ Doppo sc’è ll’antra vita, un antro monno,/ Che ddura sempre e nnun finisce mai!/ È un penziere quel mai, che tte squinterna!/ Eppuro. O bbene o mmale, o a ggalla o a ffonno/ Sta cana eternità dev’èsse eterna!» (sonetto 243).
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arti
iamo sempre propensi, intendo chi insegna, ahimè, ma ancora con un margine infrangibile d’entusiasmo, e senza nessuna spocchia accademica, nelle davvero sgarrupatissime nostre Università, a stupirci e sgomentarci spesso, tra noi - uno sport luttuoso e martellante, perché davvero non riusciamo a capire quale silente apocalissi sia deflagrata serpeggiando maligna e omicida tra i nostri allievi - di come spesso ci troviamo impotenti e disfatti, di fronte a un collasso davvero totale e allarmantissimo di... ma che cultura! accontentiamoci di dire di minima cognizione, d’infimi rudimenti scolari, di minimissimo sapere elementare, se non addirittura d’irreperibile infarinatura. Quindi, quando, alleluia!, le cose si ribaltano, giusto pare, dopo tante recriminazioni, segnalarlo. Mi capita di dire a un allievo, che sto seguendo per la tesi, un attimo, non posso ahimè, devo gettarmi a vedere la mostra di Cartier-Bresson, per scriverne. Lui (val tanto dire il nome, riconoscente, tanto è bravo e presto lo leggeremo, da qualche parte: Simone Cantoni) capta il mio breve malmostoso malessere, e, appunto ribaltando, mi manda lui stesso un buon consiglio bibliografico, e come non essergli grato. Anche perché permette di ricordare un collega architetto valente, amico anche di Ghirri, recentemente e precocemente scomparso,Vittorio Savi e il suo bel testo L’ombra dell’ora.
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Parlavo di malessere, prima, non certo per dover tornare a vedere le infallibili, sontuose, nella loro sprezzatura, immagini-icona di Cartier-Bresson. Come si farebbe a vivere senza l’immagine di Giacometti che attraversa la strada sotto la pioggia, del prigioniero con il pugno teso fuori la gabbia, l’umiltà manierata dei Curie, Matisse che trattiene monumentale la bianca colomba tra le mani, per carpirne il misterioso disegno? Sì, ma proprio per questo, uno non se la sente più di tornare a scrivere le solite cose petulanti e decorative, quante volte l’abbiamo già fatto? ed è anche, in fondo, per rispetto al burbero «cacciatore» Cartier, gioielli veri, i suoi, che non amava troppo il brodo allungato delle parole, le saccenze critiche, l’inutilità verbosa del tentare d’afferrare un attimo, ch’era giù fuggito e fermato per sempre, senza bisogno della parola. Però poi, sadomasochismo inveterato, uno non resiste dal farlo ed eccoci, paradossalmente di nuovo qui, in omaggio sbilanciato, magari a commetterlo ancora una volta, lo sventurato tentativopeccato d’ingabbiarlo, ancora, nelle reti impotenti e smanianti del nostro povero commento. Ma questa volta non vorremmo cadere, davvero, nella trappola del personale, della riflessioncina privata (se no, in effetti, questo preambolo divagante sarebbe imperdonabile) ma ascoltare la
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Alla ricerca dell’ombra di Marco Vallora
Due occasioni, a Torino e a Roma, per rivedere le icone di Henri Cartier-Bresson. Benché conosciutissime, occorre rimirarle liberandosi dalle stratificazioni critiche, per cogliere la poesia del non-detto, per ascoltare il racconto di ogni scatto voce degli altri e riflettere su questo malessere, abbastanza comune, come a dire che la reazione è condivisa.
Savi, per esempio, che parla proprio della stessa insofferenza, nell’ascoltare le viete riflessioni sul «cacciatore di frodo», sull’«occhio del secolo», la sua voce quasi recitante, impostata nella memoria, che dispensa qualche moralità, oppure la solita pappardella, bellissima, ma inflazionata del «mettere sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore», basta. Così Savi ritrova una bellissima citazione, obliqua, interrogante, esoterica e sibillina, come era spesso per lui, che dà il titolo al suo illuminante testo, e la va a cercare Due scatti di HCB (nell’immagine vicino al sommario): “Livorno 1933” e “Sunday on the banks” (© Henry Cartier-Bresson/ Magnum Photos)
proprio presso una figura minore, laterale, sbiadita, ma decisiva, come l’archivista di CartierBresson, e della Magnum e di altri fotografi, che si chiamava Pierre de Fenoyl, morto brutalmente a poco più di quarant’anni, nel 1987. «Fotografo, possiedo la chiave del tempo. La terra è il mio orologio, l’ombra le sue lancette. Non chiedetemi che ora è? Bensì dove è l’ombra dell’ora». Anche a noi, non chiedeteci davvero che cosa vuol dire, perché non deve capirsi sino in fondo, ma ammettetelo, è comunque magnifico. E ci parla anche di quello che vorremmo saper fare: saper far parlare l’ombra segreta di queste icone conosciutissime e ormai lise, lisce di commento (esemplari-vintage piuttosto tardi, anche nella grande monografica riassuntiva, a Palazzo Reale, di Torino), il «dietro» dell’icona. Ma non in senso biografico, critico, informativo. L’ombra come poesia del non-detto (se non facesse troppo lirismo, troppo pittorialismo critico, rispetto alla sua tagliente nettezza d’immagine). E invece ecco che ci scontriamo sempre con la prosaicità odiosa del denaro, della burocrazia, dei divieti. Per esempio, avremmo voluto qui mostrare altre immagini, meno note, lasciarle cantare sole, ma ecco subito interdetti, restrizioni, gabelle, che orrore, povero Henri (che pure sapeva ben difendere il proprio lavoro) però che tristezza verificare che una sua immagine così francese, così Jean Renoir, così Senna, come quella dei modesti gitanti, sul bordo del fiume, s’internazionalizzi e globalizzi in una didascalia all’inglese, buà, come: Sunday on the banks... ma no, per favore!
Scarrucola via la voglia di scriverne. Per esempio avremmo voluto quella, già molto Giacomelli, dei pretini in processione vacanziera, che attraversano un campo estivo, giulivi, e sono assolutamente gli stessi del film di Renoir (H.C.B. assistente) Une partie de campagne, in cui divertentemente un abatino è interpretato dallo «scandaloso» Georges Bataille (e pure l’ombra lunga di Lacan). Questo per ricordare appunto quanto CartierBresson fosse vicino alla cultura del Surrealismo, soprattutto eretico (lavorando con Artaud e legato a Queneau, l’umorista sì di Zazie e degli Esercizi di stile, ma anche il latinista classicheggiante della Pleiade). Ecco, è in questa doppiezza che ci piace ricordarlo e sprecare un consiglio utile, non trascurare (convinti di conoscerlo già troppo bene) la divertente mostra Immagini e Parole al Palazzo Incontro di Roma, in cui non siamo più noi a «parlare» le sue immagini, ma intellettuali d’ogni estrazione, da Alechinsky a Alvarez Bravo, da Arroyo all’Aulenti, da Baudrillard a Virillo, da Baricco a Bonnefoy a Cioran, da Boulez a Jean Clair a Tabucchi. Ognuno sceglie il suo scatto e racconta.
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uando nel dicembre 1946 con il taccuino in mano va al numero 40 di via San Gregorio a Milano, Dino Buzzati non sa ancora che si troverà di fronte alla sua prima scena del crimine. Sinistra e atroce come poche altre nella cronaca nera, tornata alla ribalta dopo il lungo silenzio stampa del regime fascista. Non è facile trovare le parole per l’orrendo delitto di Rina Fort, la friulana trentunenne che approfittando dell’assenza dell’amante sale nel suo appartamento dove a colpi di spranga massacra per gelosia la moglie e i tre figli. Superato l’orrore, scrive alcuni dei suoi articoli più celebri seguendo il caso dall’arresto al processo. Inconfondibile l’inizio: «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue». Grande giornalista, affiderà alle colonne di piombo del Corriere della Sera - in cui è entrato nel 1928 a ventidue anni - i servizi sull’omicidio di Villa d’Este, il caso Fenaroli, la rapina di via Montenapoleone, l’arresto della banda Cavallero, il disastro del Vajont, la morte di Marilyn, l’assassinio di Kennedy, la strage di Piazza Fontana. Se è lui a rievocarli, non c’è differenza tra gli efferati delitti da prima pagina e le tragedie più sconcertanti perché diventano subito racconti in grado di coinvolgere il lettore, di fargli sentire sul-
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il paginone
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Reimpaginava le suggestioni della realtà alimentando la dimensione fantastica sin dentro il quotidiano. Sempre con lo stesso scopo: raccontare delle storie mescolando parole e immagini. Da “Barnabo delle montagne” a “I miracoli di Val Morel”… favola, i suoi due primi libri, Barnabo delle montagne (1933) e Il segreto del Bosco Vecchio (1935), rimandano al legame profondo con la montagna, naturale in chi come lui nasce il 16 ottobre 1906 a Belluno nella villa di famiglia: «Le impressioni più forti che ho avuto da bambino appartengono alla terra dove sono nato, la Valle di Belluno, le selvatiche montagne che la circondano e le vicinissime Dolomiti. Un mondo complessivamente nordico al quale si è aggiunto il patrimonio dei ricordi giovanili della città di Milano, dove la mia famiglia ha sempre abitato d’inverno, nella casa di piazza San Marco, tra corso Garibaldi e piazza Castello». Il grande successo arriva con Il deserto dei Tartari (1940), il suo romanzo più significativo che ripercorre l’avventura del tenente Giovanni Drogo
Il segreto della bellezza del “Deserto dei tartari” è, per Calvino, il modo in cui il fascino del romanzesco e l’impossibilità del romanzo convivono la pelle il carattere disturbante dell’accaduto, mentre sullo sfondo incombono le segrete angosce del mondo.
Schivo, elegante, distaccato, è un mostro di bravura, può scrivere di tutto, dal Giro d’Italia, irresistibile il suo elogio delle gambe permalose e stanche degli eroi della bicicletta, alle trasferte a bordo delle volanti della polizia per vivere in diretta le notti della metropoli assediata dalla nuova mala e dai soprassalti improvvisi della violenza. Giornalismo e letteratura procedono assieme, sono aspetti inscindibili della strategia narrativa in cui la cronaca lievita in mito, l’immaginario reimpagina le suggestioni della realtà, alimentando la dimensione fantastica sin dentro il quotidiano. Nelle forme dell’allegoria e della anno V - numero 12 - pagina IV
in servizio alla Fortezza Bastiani, l’ultimo avamposto alle soglie del deserto. Non sorprende che l’affabulazione prenda il via dall’autobiografia del cronista smarrito negli ingranaggi della frustrante monotonia redazionale per cui la mitica fortezza rimanda, chi l’avrebbe detto, ai gelidi stanzoni del Corriere di
via Solferino, restituendo perfettamente il clima italiano tra le due guerre, il tempo sospeso di un mondo chiuso in se stesso con le sue attese e i suoi trasalimenti: «Il segreto della bellezza assorta e austera di quest’opera unica sostiene Italo Calvino - consiste nel modo come lungo tutto il libro si mescolano il fascino del romanzesco e l’impossibilità del romanzo, mentre solo il nulla celebra la sua epopea».
Se fin da ragazzo ha sempre mescolato parole e immagini, il colpo di fulmine coincide con la scoperta di Arthur Rackham, il grande illustratore inglese che sembra dar corpo alle più intime fantasie dell’adolescente nei cui disegni spuntano rupi minacciose, guglie aeree, terrificanti abissi. Nonostante la sua attività narrativa non conosca soste, dirà con autoironia: «La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby è per me scrivere, ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa, che dipinga o che scriva, io perseguo sempre il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie». La famosa invasione degli orsi in Sicilia appare a puntate sul Corriere dei Piccoli nel 1945. La favola degli orsi che scendono dalle montagne e conquistano la città è felicissima per la ricchezza delle trovate e la leggerezza del racconto. Nelle tavole a colori si scatena l’estro del gioco, del puro divertimento, tipico di chi se ne infischia allegramente dell’impegno neorealista. Negli anni successivi scrive decine
C’era una Dino Buz di Orio Caldiron e decine di novelle, altrettante performance di alta acrobazia segnate dal senso d’angoscia, di rischio, di pericolo. Nei casi migliori - riproposti nell’antologia personale Sessanta racconti, che nel 1958 ottiene il Premio Strega - il grande storyteller padroneggia con abilità il crescendo d’attesa e d’inquietudine, parte dal plausibile e va verso l’irreale.
La scrittura si fa volutamente semplice, dimessa, burocratica. Se è abusato il richiamo a Kafka che lo perseguita come una maledizione, si avvertono piuttosto gli echi di Poe, Hoffmann e Conrad. Jacques Perrin nel “Deserto dei tartari” e, a sinistra, il presidio militare di Arg-e-Bam in Iran, dove Valerio Zurlini ricreò, nel film tratto dal romanzo di Buzzati, la Fortezza Bastiani. Sopra, il Duomo di Milano in un dipinto dello scrittore
principio e fine. Borghese stregato, stregato ma borghese, Dino Buzzati fatica a convivere con Buzzati Dino come il Dottor Jekyll aveva qualche problema con Mister Hyde, ma sa come uscirne: «L’unica, per salvarmi, è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia. E nello stesso tempo lei, incarnazione del mondo proibito, falso, romanzesco e favoloso, ai confini del quale era sempre passato con disdegno e oscuro desiderio». Il libro ha gli accenti dell’autoanalisi dove con il fai da te della psicoanalisi selvaggia il protagonista si rivela a se stesso nella sua disarmante fragilità.
volta zzati Un amore (1963) segna il ritorno al romanzo che fa scandalo per la scabrosità erotica della vicenda d’ispirazione in parte autobiografica. Nell’amore-passione dell’architetto Antonio Dorigo per la giovanissima prostituta Laide si ritrova il tema della progressiva scoperta di sé tipico dell’autore, insieme alla rappresentazione di una Milano segreta, ambigua, misteriosa.
La vera novità è che al centro di tutto s’impone per la prima volta l’immagine forte, devastante della donna come malattia, salvezza e dannazione, desiderio e solitudine,
Senza l’impietosa denuncia della malattia non si capirebbe neppure l’esorcismo salvifico di Poema a fumetti che esce con grande scalpore nel 1969, sconcerta i critici ma sfonda in libreria. Sulla storia di Orfi che attraverso la piccola porta di via Saterna scende nell’aldilà per riprendersi Eura aveva lavorato due anni, realizzando più di duecento tavole zeppe di citazioni e omaggi. Nel colophon si ringraziano senza distinguere cultura alta e pratiche basse Dalì, Friedrich, il magico Rackham, il simbolista Greiner, il Murnau di Nosferatu, Wilhelm Busch di Max und Moritz, i ragazzi dispettosi del protofumetto, Achille Beltrame della Domenica del Corriere, il fotografo Irving Klaw, i tre architetti Belgioiso, Peressutti e Rogers della Torre Velasca di Milano, attorno a cui svolazzano le diavolette impudiche. Ma sono molti di più i riferimenti sottotraccia che rimbalzano da una pagine all’altra, da De Chirico a Munch, da Escher a Breton, da Magritte a Lichtenstein, senza dimenticare l’amato Diabolik e gli eccessi visivi delle sexy-eroine in nero. Ma insomma che cos’è Poema a fumetti? Un film spiaccicato sulla carta? Uno storyboard? Un oggetto misterioso che apre la strada alla graphic novel? Cesare Zavattini, consegnandogli il premio di Paese Sera come miglior fumetto dell’anno, esclama: «Uagh! Siamo lieti e orgogliosi di aver premiato Buzzati che ha genialmente arricchito le ipotesi del fumetto, il suo Orfi diventerà famoso come Charlie Brown, Mandrake ecc. Augh!». Nello stesso periodo scrive di arte sul Corriere, ribadisce la sua predilezione per i surrealisti, visita a New York gli atelier della Pop Art, si entusiasma a Parigi per gli occhi che s’infossano di Francis Bacon. La passione per la pittura si ritrova in I miracoli di Val Morel, l’ultimo libro che esce nel 1971 quando sta già male,
morirà di lì a poco il 28 gennaio 1972. Spiazzante galleria di ex-voto per i prodigiosi miracoli attribuiti a Santa Rita da Cascia, è un racconto in trentanove capitoli risolti più con le immagini che con le parole. Le tavole sono strepitose, altrettante istantanee dell’impossibile popolate di personaggi e apparizioni in cui il gusto naïf, e finto naïf, convive con l’allusione maliziosa e la citazione colta. Come dimenticare il mostruoso colombre terrore dei mari, il gatto mammone che spaventa le contadine, il diabolico porcospino che tenta il monsignore, il formicone libidinoso, il robot intraprendente, gli incubici vespilloni, i diavoletti manigoldi, i marzianetti all’assalto, le formiche mentali, i gatti vulcanici? Lo stupore di Buzzati è contagioso, domina la sua favola più bella scritta con il pennello Per Grazia Ricevuta. Se affrontando le proprie ossessioni ha cercato di sconfiggere la malattia, il fantasioso pittore ringrazia per la guarigione e festeggia il miracolo della vita, che implica la serena accettazione della morte.
Nell’insolito poema di pochi anni prima non mancava neppure qualche scheggia del lavoro a quattro mani con Federico Fellini per Il viaggio di G. Mastorna, il film sull’aldilà sempre rimandato e poi scaramanticamente messo da parte. Il suo primo contatto con il cinema risale a Il postino di montagna (1951), il bel documentario di Adolfo Baruffi dedicato a un minuscolo paese nel cuore delle Dolomiti. Subito dopo avrebbe dovuto scrivere i testi di Italia K2, la grande occasione per un cronista delle vette come lui, ma preferisce passare la mano. Nello spolvero delle uniformi austroungariche e degli impeccabili sbattere di tacchi, è molto buzzatiano Il deserto dei Tartari (1976) che Valerio Zurlini gira con sontuosa lentezza quando finalmente a Arg-e-Bam nell’Iran sud-orientale trova il vecchio presidio militare che assomiglia alla Fortezza Bastiani. Il romanzo l’avrebbero voluto portare sullo schermo in tanti - Miklòs Jancsò, Michelangelo Antonioni, Jorge Semprun, Franco Brusati - ma prevale la tenacia di Jacques Perrin che si assicura i diritti e il ruolo di Drogo. Ha i suoi estimatori anche Il segreto del Bosco Vecchio (1993), il cinguettante cartone animato firmato Ermanno Olmi con un Paolo Villaggio da teatro kabuki. Il migliore? Barnabo delle montagne (1994) di Mario Brenta. Severo, asciutto, essenziale come una scalata in quota, dove la magia nasce dalla fatica della realtà.
Narrativa
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La rosa azzurra di Milagro di Leone Piccioni
ogni suo libro Paola Capriolo ci introduce in una atmosfera molto coinvolgente e, per certi lati, originale. Si tratta questa volta di Caino (Bompiani Editore, 168 pagine, 16,00 euro). Per capire subito il perché del titolo andiamo al brano della Bibbia: «Caino e Abele offrirono entrambi i loro sacrifici. Il Signore riguardò Abele e la sua offerta, mentre non riguardò Caino e la sua offerta: se il fumo del sacrificio di Abele saliva alto e diritto fino al cielo, quello di Caino ristagnava a mezz’aria, rifiutato, incapace di sollevarsi. Perciò, dicono le Scritture, Caino si adirò grandemente e il suo volto fu abbattuto». Caino era ricco, Abele era povero (altro tema da prendere in considerazione nel libro Capriolo). della L’invidia diventa rancore, il rancore odio e si arriva all’uccisione di Abele. Ancora come premessa: ecco in apertura del romanzo la descrizione di un suicidio: un uomo che si impicca. Sono passati molti anni; siamo nella nostra epoca. La moglie lo vede «neanche a due metri di distanza che penzolava da un cordone delle tende come una marionetta dai fili». Nel romanzo sono tre i personaggi principali: Max, l’uomo, la moglie Giulia, la badante Milagro. E nasce subito l’idea che Caino può essere Max. Milagro, che diventa il centro del racconto, è una donna modesta, ancora piuttosto giovane, nata in Sudamerica ed emigrata per poter lavorare. È una donna trascurata, nera di pelle e alla fine del romanzo sarà stuprata da un quartetto di ragazzi nazisti e razzisti. Intorno a lei si verificano, piano piano, fenomeni strani, certamente di carattere soprannaturale: visioni, una voce che le parla e una presenza che compare e scompare dalla sua camera, addirittura una lievitazione alla quale assiste il bambino che è in casa. I padroni poco se ne occupano, ma in Max nasce la curiosità di saperne di più e osserva meglio Milagro, si mette a seguirla, giorno per giorno, controllando quello che fa in casa, spinto più d’una volta a entra-
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re nella stanza della donna, quando lei vi si ritira aspettando eventi straordinari. È così ingenua e pura che teme di essere in preda del demonio, e che i fenomeni cui assiste dipendano dal diavolo. Va in chiesa per confessarsi, ma non ci riesce e fugge via dal confessionale. Max la segue anche in chiesa e insieme, ma lontano l’uno dall’altra, ascoltano l’omelia su Caino e Abele. Di quella superiorità spirituale («beati i poveri di spirito» e Milagro va enumerata tra questi) Max si accorge e ne soffre nel modo in cui un ricco può soffrire sapendo che un
La vicenda di Caino e Abele, l’odio del ricco verso il beato, povero di spirito, nel nuovo, coinvolgente romanzo di Paola Capriolo povero è salito più in alto di lui. Max assiste allo stupro di lei e non fa niente per aiutarla. Comincia a sentirsi «spietato a godere della propria spietatezza». «Tu hai tutto - pensa - e io non ho niente, come potrei sopportarlo?… La odia dell’odio amaro e intossicante che chi non ha nulla nutre per chi ha tutto, tanto più se a scoprire la propria irrimediabile miseria è colui che possiede la terra, mentre l’eletto, il privilegiato, non è altro che un giovane pastore». È un odio irrefrenabile il suo e quando Milagro torna a casa dopo aver subìto lo stupro, cercando ancora di non far capire niente, Max la uccide strangolandola. Max e la moglie spostano il cadavere nello stesso punto in cui fu stuprata tanto da far pensare che siano stati i ragazzi nazisti a ucciderla. Milagro ha una rosa enorme tra le mani. «Ma la cosa strana di quella rosa era soprattutto il colore. Risulta che esistano le rose azzurre? Non di un lilla un po’ freddo ma proprio azzurre come il cielo, come gli occhi degli angeli».
spettacoli Pop Hawthorne: se la novità LADY SOUL, UNA STELLA di un altro empireo viene dal passato N MobyDICK
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zapping
di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi i è capitato di vederlo, in tivù, al David Letterman Show. Di rosso vestito (scarpe incluse), cravattino scozzese, plasticosi occhialoni, s’era messo a intonare in falsetto uno scintillante rhythm & blues intitolato The Walk che correva lungo i binari del Motown Sound anni Sessanta stile The Miracles di Smokey Robinson. Alle sue spalle, una ciondolante band altrettanto rossa e una robusta sezione fiati. Incuriosito, ho deciso di conoscere meglio quest’incrocio fra un nerd e il primo Elvis Costello, in quanto a faccia e gestualità. Si chiama Andrew Mayer Cohen, in arte Mayer Hawthorne (da Hawthorne Road, la strada dov’è cresciuto), è nato nel 1979 ad Ann Arbor nel Michigan, canta, è multi-
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Teatro
inalmente una buona notizia: in Italia i cretini ricchi e volgari, quelli che sguazzano nei denari e li usano per impoverirsi moralmente, per peggiorarsi, non vanno più di moda. Soprattutto non fanno più ridere nessuno. La prova? I cine panettoni che per decenni li hanno avuti come indiscussi protagonisti - ahimè sbancando i botteghini - quest’anno hanno registrato una significativa flessione, praticamente un flop. Era ora. Siamo quindi pronti a dare il benvenuto ai cretini d’autore. Andrea Brambilla - meglio noto al grande pubblico come il commissario Zuzzurro - e Nino Formicola - il suo fido aiutante Gaspare - sono i protagonisti dell’esilarante commedia di Francis Veber La cena dei cretini divenuta un cult a seguito della trasposizione cinematografica del 1998 firmata dallo stesso autore e seguita più recentemente dalla versione dell’americano Jay Roach. Un gruppo di amici ricchi e annoiati organizza ogni mercoledì sera una cena - detta dei cretini appunto - a cui presentarsi accompagnati dall’individuo più insensato che si riesca a reclutare per sbeffeggiarlo in compagnia e sentirsi poi più ganzi. Di fatto «non c’è niente di male a prendere in giro i cretini.
F
strumentista, scrive canzoni, le arrangia, produce dischi, ogni tanto fa il disc jockey sotto la sigla Haircut e quando capita il rapper. Il suo ricordo più vivido: papà che sta guidando appena fuori Detroit, sintonizza l’autoradio sulle stazioni soul e jazz e lui che ascolta quel bendidìo di note che lo faranno via via innamorare di Smokey Robinson, Curtis Mayfield, Isaac Hayes, Leroy Hutson, Barry White e del leggendario trio di compositori Holland-DozierHolland, prima della momentanea sbandata grunge & metal per Nirvana, Iron Maiden, Helmet e Smashing Pumpkins. Nel 2009 Mayer Hawthorne ha debuttato con A Strange Arrangement, disco che i critici americani hanno etichettato come retro soul consentendogli di partecipare a prestigiosi festival come Lollapalooza, Coachella, SXSW e Bonnaroo. Lui, però, fa spallucce all’idea di dover adattare il proprio repertorio ai good old days della black music. Preferisce, semmai, creare i presupposti sonori per un’orecchiabile, trascinante sequenza di new good days. Oltretutto, fra i suoi più convinti sostenitori c’è il produttore discografico Mark Ronson che ha dichiarato: «Per quanto ti riguarda, caro Mayer, non me la sento di stabilire ciò che è vecchio e ciò che è nuo-
vo. D’accordo: ogni tanto la tua musica suona come se fosse stata incisa ben prima del 1980. Ma in questo caso l’anno non conta: è solo un numero». How Do You Do, il nuovo album, testimonia che Hawthorne non farà mai parte di un trend preconfezionato. D’accordo: rimangono tracce di quel suono Motown che griffava il disco d’esordio (nel rhythm & blues copiosamente vintage di Stick Around, Hooked e You Called Me), ma qui la succosa polpa è perlopiù una musica che affonda le radici nel pop californiano e nel repertorio di gruppi fusion come Chicago e Steely Dan. Proprio a questi ultimi rende ossequioso omaggio il brano A Long Time, che s’ispira idealmente a un loro pezzo da novanta: Hey Nineteen. Gli intrecci vocali di Dreaming, invece, fanno rima con la surf music dei Beach Boys, mentre l’hip-hop in punta di piedi di Can’t Stop viene abilmente condiviso col rapper Snoop Dogg e The News è pura imprevedibilità cabarettistica. E le dolcezze guancia a guancia di You’re Not Ready, il ritmo felpato di Get To Know You che oscilla fra Barry White e Marvin Gaye, il blue-eyed soul di Finally Falling e No Strings orchestrato alla maniera di Daryl Hall & John Oates, non fanno che confermare l’eclettico talento di Mayer Hawthorne: «Con How DoYou Do sono finalmente venute a galla, e non solo blackoriented, tutte le mie influenze e ispirazioni». Proceda pure così, l’ambizioso occhialuto del Michigan. La strada è senz’altro quella giusta. Mayer Hawthorne, How Do You Do, Universal/Good Ones, 17,99 euro
Quei cretini d’autore di Enrica Rosso I cretini esistono per questo» fa dire l’autore all’antagonista della commedia. Una certa sera però le cose non girano nel modo giusto e la cena viene annullata per causa di forza maggiore, ma i giochi oramai sono stati fatti e il cretino designato certo François Pignot - si presenta puntuale all’indirizzo dell’editore Pierre Brochard... insomma il dado è tratto. Una trama semplice, sviluppata per due ore senza mai un cedimento di tensione comica né una caduta di gusto e qui davvero siamo nell’anomalia assoluta.Tutto avviene in un unico ambiente, l’interno alto bor-
ghese di uno degli ideatori della serata: un eccesso di tappezzerie che trasudano dobloni con inclusioni di quadri esagerati, belli e impossibili, da museo, ma che non tracciano una vocazione o almeno un percorso artistico del proprietario; semplicemente ne segnalano con arroganza il conto in banca (l’Hopper che si svela sul muro del disimpegno per andare in cucina è assolutamente geniale). Un senso di lusso e inutilità inflazionato da oggetti di design perfetto per la pièce, ideato ad arte da Pamela Aicardi che veste spazio e interpreti. Sei personaggi so-
on solo nella geografia astronomica, ma anche in quella artistica e musicale ci sono stelle e stelle. Prendiamo Aretha Franklin: 70 anni appena compiuti e lo status di più grande voce vivente. Ora sappiamo che c’è anche un suo nuovo disco in preparazione. Durante il party di compleanno Lady Soul ha annunciato che ad aprile 2012 comincerà a lavorare con lo storico produttore Clive Davis per un nuovo episodio musiclale. Davis, cinque premi Grammy vinti, è stato presidente della Columbia Records, poi della Arista Records, quindi dell’Rca Music Group e ora è Chief Creative Officer della Sony Music Entertainment. Aretha ha aggiunto che, dopo il compleanno dell’amico che cadrà all’inizio del mese prossimo, «ci troveremo e decideremo cos’è che ci metteremo a registrare». Davis è rimasto seduto accanto a Franklin per buona parte della serata del party organizzato per l’artista all’albergo Helmsley Park Lane; la festa ha visto alternarsi cena, performance di danza e un piccolo concerto. La donna di Chain Of fools, Respect, Think non fa notizia solo per il suo matrimonio annunciato e poi cancellato con il compagno William Wilkerson, ma anche per un nuovo disco. Sostanza musicale e non solo gossippara per la regina della musica nera, che ha detto di sentirsi ancora «come una quarentenne». Potremmo crederle o non crederle. Fatto sta che lei, Aretha, a settant’anni ancora tiene palco, studio e fa parlare di sé. Quel che riesce a fatica a Madonna, che per la sua performance al Superbowl ha messo in campo il meglio (cioè il peggio) delle sue strategie chiecchierine, muscoli dopati e polemiche con Lady Gaga. Ma c’è stella e stella. E la Franklin è cosmologicamente superiore.
li (i due ruoli femminili interpretati dalla stessa attrice: Alessandra Schiavoni bella, elegante e soprattutto comica) per un continuo gioco di equivoci verbali e non orchestrati con ottima misura dallo stesso Brambilla che interpreta con grande serietà il suo cretino da manuale, mentre Formicola è sereno e inespugnabile nella sua certezza di essere nel giusto. Inutile dire che essendosi i due scelti nel ’76 e da allora allenati a darsi battute, hanno sviluppato una notevole sensibilità dei reciproci tempi comici e con ammirevole rispetto l’uno dell’altro, non perdono un effetto. In scena con loro Dario Biancone, sodale del padrone di casa e Gianfranco Candia: il primo efficace ma un tantino generico, il secondo un po’ grossolano nella caratterizzazione. Ma i signori in questione sono tutt’altro che cretini, e a fine spettacolo com’è loro consuetudine, suggeriscono, al loro affezionato, plaudentissimo pubblico, di concludere la serata in bellezza con un gesto intelligente: un piccolo-grande contributo alle attività di Emergency. Bravi, bene, bis.
La cena dei cretini, Roma, Teatro Sala Umberto fino all’8 aprile, info: www.salaumberto.com - tel. 06 6794753
In memoria
31 marzo 2012 • pagina 15
re Giuliano Ferrara chiamandolo «ciccione»? Incomprensibile, a meno di ascrivere la sua confusione tra pagina e orinatoio a un carattere regionale che, se spinto troppo in avanti, fa solo guasti e non si autocorregge mai. Ma coloro che ricordano, compiacendosene, episodi simili, dimenticano che Tabucchi e Ferrara erano unitissimi nella battaglia a favore di Adriano Sofri, cui venne negato il processo di revisione. Così come dimenticano che Tabucchi, con una discrezione di marca cristiana, si adoperava per i poveri e i diseredati delle campagne fiorentine.
di Pier Mario Fasanotti
uore Antonio Tabucchi. E così torna a girare il meccanismo fetido e vigliacco che violenta il modo con cui leggiamo i grandi scrittori. Basta che un narratore prenda una posizione politica, e lo faccia magari con quella rabbia che è tipica dell’homo toscanus, ecco che, a destra e a sinistra, non pochi dimenticano squisite eredità letterarie per sputare sul cadavere ancora tiepido per la sola ragione che s’azzardava a dir la sua in politica. Salvo poi, in tempi non affollati da funerali, alzare la litania contro il disimpegno degli intellettuali, la loro ignavia civile, il tenersi a margine della realtà. La morte Tabucchi ha scoperchiato il tombino della cloaca (minima, non maxima), ove s’annidano precisazioni furbescamente dottrinali e francamente pedanti e pure sbilenche, distinguo, aneddoti a senso unico.
M
Un quotidiano di destra, pur contenendo al suo interno intelligenti riflessioni di uno perbene come Giuseppe Conte, non ha esitato a titolare «Il falso mito». Mentre à la gauche, certa stampa ha fatto finta di dimenticare l’insofferenza viperina di Tabucchi per la melmosa sinistra italica, con un Veltroni oggi in conformistica gramaglia, lo stesso contro il quale lo scrittore morto a Lisbona ebbe parole sprezzanti. Alla stessa stregua si dovrebbe dare alle fiamme l’opera omnia di José Saramago per il solo fatto che ostinatamente si dichiarava marxista. Lo stesso vale (ahi, il revisionismo di tal fatta è alle porte) con Gabriel García Márquez: è amico di Fidel Castro, quindi il suo Cent’anni di solitudine è una schifezza, un artificio, retorico e mieloso. E che dire di Ferdinand Céline? Razzista, ferocemente anti-ebreo, politicamente schierato con i fascisti. Tutto vero in quel volto antipatico e dolente. Ebbene: non dovremmo più leggere le splendide pagine del suo Viaggio al termine della notte? Giunge notizia che ci siano movimenti contro Dante per il fatto che il vate fiorentino ha avuto la penna pesante contro i giudei e gli islamici. Ma che tipo di scrittore si vuole, allora? È facile immaginarlo: uno pacatissimo che descrive i tramonti, i fremiti alla Guido Gozzano o alla Giovani Pascoli, che accenna, solo accenna e quasi per distrazione, allo scatafascio culturale italiano. Questo scrittore modello o non esiste o nessuno lo legge. Il motivo è semplice: è esangue, più adatto a sedersi davanti a una scrivania della Farnesina che soffrire e interrogarsi dinanzi alla violenza e alla sciatteria d’un certo mondo moderno. Leggiamo Fabio Volo, quindi, scartando Pier Paolo Pasolini. Mi viene un dubbio. Se la Feltrinelli (editore
Sosteneva Tabucchi… Insultava Berlusconi e condannava Battisti, criticava Ferrara e difendeva Sofri. Come altri grandi, è stato uno scrittore che non ha rinunciato a “leggere” il suo tempo, a volte con rabbia e intemperanze da homo toscanus. Destra e sinistra si affannano adesso a giudicarlo strumentalmente, ma a contare è la sua opera che assieme a Sellerio ha pubblicato Tabucchi) avesse nel suo ricordo funebre usato la parola «indignazione» (è di moda, oggi) e non «rabbia», il fiato sulle infuocate sciocchezze interpretative e rievocative sarebbe stato più debole, quindi «consono».
Ma consono a che? Al vuoto, all’ignavia dantesca. E invece no: in Tabucchi c’era la rabbia. Anche quella scomposta, appartenente a una delle tante personalità di lui medesimo, seguace degli eteronimi di Fernando Pessoa (fu lui a farcelo conoscere). Se Tabucchi era uomo garbato, sottile, ironico e autoironico, occorre non scordare che sulla rivista Micromega le sua accuse diventavano urlacci da strada, fino a usare, parlando di Berlusconi e dello svaccamento culturale italiano, la parola «merda» sessantaquattro volte in un solo articolo. Se Tabucchi si comportava da gentil signore anche nelle osterie del suo paese,Vecchiano (Pisa), perché mai doveva offende-
Chi scrive questa nota adora e conosce bene Lisbona, la città «sfavillante» (in certi giorni) dove il dottor Pereira (protagosita di Sostiene Pereira) riacquista una dinamica gioventù schierandosi contro la cupezza degli stivali del dittatore Salazar. Due anni fa, in una piazzetta d’un Barrio, vidi grandi cartelloni bianchi che riproducevano le frasi più volgari e sciocche pronunciate da Berlusconi. C’era da vergognarsi. E mi sono vergognato, tanto da avere per un attimo la tentazione di parlare francese o inglese. Tabucchi non ha mai cavalcato dimostrazioni come queste. S’è sempre tenuto distante dai salottini pettegoli e cicisbei o dai dibattiti fumosi sul futuro del capitalismo e del marxismo. Lo stesso fece Leonardo Sciascia: e ancora oggi borbottano coloro che non hanno proprio compreso la sua vis polemica a proposito dei rapporti tra magistratura e mafia. A Tabucchi viene rimproverata anche la tiepidezza, assai confinante con il rifiuto, nei confronti della nazionale di calcio italiana per il fatto che l’equipe azzurra era troppo vicina allo slogan-partito Forza Italia. Uno zelo «di pancia» esteso troppo, ben oltre i lineamenti culturali d’un uomo che pur dava continua prova di ridere e fare e accettare burle (sia pure, per dirla con Paolo Conte,«con quella faccia da italiano triste»). Poteva semmai citare le scommesse, le partite truccate, personaggi come Moggi, processi, inchieste imbarazzanti. E invece no. Viva l’Italia, ma non «forza Italia». Tabucchi tuttavia ci vedeva bene dietro a quegli occhialetti tondi alla Pessoa. Ebbe modo di bacchettare la scrittrice francese Fred Vargas quando, brava giallista ma disinformata sull’Italia, s’è messa a difendere uno come Cesare Battisti, terrorista. Lo scrittore fu nettissimo: Battisti è un assassino. Punto e basta. Nessuna concessione quindi a quel clima mitterandiano così indulgente verso i brigatisti, con la tendenza a considerare «esuli» i più volgari killer. E a proposito di esilio, questa parola viene tirata in ballo anche per il fatto che Tabucchi ormai viveva più a Lisbona e a Parigi che in Italia. S’era allontanato perché non sopportava che il suo Paese fosse maltrattato. Un appunto: era meglio usare il termine «autoesilio». Poca cosa? Mica tanto. Anche perché a Tabucchi piaceva tantissimo la parola «poco».
MobyDICK
pagina 16 • 31 marzo 2012
er gli inglesi «di una certa età», l’India è the new Italy, come motteggia Variety a proposito di Marigold Hotel, poiché il Bel Paese è oggi troppo caro per i pensionati. È una commedia corale, attesa per la parata di superbi attori britannici nel cast. Oggi il cinema corteggia gli adolescenti. È un raro piacere un film su sette personaggi maturi, a reddito fisso, che si trasferiscono a Jaipur dopo aver letto sul web le meraviglie di un seducente, storico palazzo, trasformato in residenza per «splendidi anziani». The Best Exotic Marigold Hotel (titolo originale) vanta un pugno dei più bravi commedianti anglofoni. La mia passione è Bill Nighy, l’indimenticabile rockettaro agé di Love, Actually, tra le più riuscite operazioni-botteghino mai viste: ben scritto, comico, commovente, da vedere e rivedere, prova dell’unione possibile tra arte e commercio. Nighy è meno apprezzato da noi per colpa del doppiaggio, dato che il segreto del suo fascino è la voce, la più seduttiva, avvolgente e singolare mai sentita: scolpisce l’aria. È talmente bravo che anche privato dello stradivari vocale, non delude.
cinema Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Ha un buon mestiere e con alcune eccezioni (Il violino del capitano Correlli, Ethan Frome) in genere garantisce un buon prodotto (Proof La prova, Il debito, La mia regina). Le storie intrecciate sono varie e godibili, ma l’opera vale il viaggio per le performance di artisti (Nighy e Dench in particolare) che danno il soffio della vita a un copione senza picchi di originalità. È mirabile come il regista usa la macchina da presa per rendere Dame Judi, 78 primavere, un oggetto del desiderio acarezzata e accarezzante.
P
In un rapido montaggio iniziale, vediamo le condizioni che spingono sette senior a partire per il subcontinente, lontano dal tè delle cinque e dai conforti di Old England. Nighy è Douglas Ainslie; ottimista e amabile, ha investito i risparmi di una vita nell’impresa Internet della figlia; forse un giorno darà i suoi frutti, ma per ora arranca. L’unico posto decente per godersi «gli anni del tramonto» con i soldi rimasti, è nel ex gioiello della corona dell’impero inglese che fu. La moglie Jean (Penelope Wilton) è una donna incattivita; per lei pensare negativo è un riflesso condizionato. Le ristrettezze economiche e l’odio per l’India non migliorano il suo umore. Judi Dench ha collezionato candidature alla statuetta dorata (Diario di uno scandalo, Lady Henderson presenta, Iris - un amore vero, Chocolat, La mia regina) vincendo per Shakespeare In Love. Qui è Evelyn Greenslade, casalinga e fresca vedova. Scopre che il marito le ha lasciato solo una montagna di debiti. È costretta a vendere la bellissima casa per trasferirsi dove si vive con poco e cercarsi un lavoro. Graham Dashwood (Tom Wilkinson, Full Monty, Wilde, Sogni e delitti, e due canditature all’Oscar per In the Bedroom e Michael Clayton) è un giudice della Corte suprema che all’improvviso decide di at-
Sette pensionati a Jaipur di Anselma Dell’Olio taccare al chiodo la toga e ritornare a corriera, scoprono che l’elegante resiJaipur dov’era cresciuto, per fare pace denza promossa dal sito web è in piena con un passato scandaloso. Madge decadenza. Il proprietario Sonny è Dev Hardcastle (Celia Imrie, i due Bridget Patel, il protagonista di The Millionaire Jones, Star Wars, primo episodio, St. Tri- (otto Oscar). Bombarda i graditi ospiti nian’s) è stufa di fare la nonna, e Nor- (gli unici, per ora) con una fiorita parlanman Cousins (Ronald Pickup, Prince of tina di ineffabile ottimismo, spazzando Persia - le sabbie del tempo, Mission) via obiezioni per, tra molto altro, porte dello speed dating. Sono single che spe- mancanti, telefoni fuori uso e rubinetti rano ancora di trovare l’anima gemella, gocciolanti, con la promessa di rapide rio almeno una notte di passione. parazioni. L’adattarsi di un gruppo di atL’ultima della combriccola riunita dalla tempati inglesi in un clima meteorologisorte e dalla necessità di risparmiare è la co e culturale diametralmente opposto a sempre fantastica Maggie Smith quello di casa, è il terreno fertile da cui (Gosford Park, La strana voglia di Jean, fioriscono episodi divertenti. PrevalgoCamera con vista e tutti gli Harry no i toni comici, con spassosi incidenti di Potter). È la xenofoba zitella Muriel percorso e qualche battuta fulminante, Donnelly, riluttante espatriata bisogno- ma non mancano drammi personali e la sa di una protesi all’anca subito e a buon lotta per la sopravvivenza durante la mercato, disperata di doversi sottopor- grande recessione globale. Il regista John Madden ha vinto la lotteria con re alle cure di medici «non inglesi». Si incontrano per la prima volta al- Shakespeare In Love, un filmetto effil’aeroporto dove scoprono che il volo mero che ha avuto 14 nomination e 7 per Jaipur è Oscar, quando c’erano in gara cancellato per Una parata di superbi cattivo tempo. DoLa sottile linea po un colorito e rurossa di Terrenattori britannici tilante viaggio in ce Malick e
dà spessore al riuscito “Marigold Hotel”, storia di una combriccola di attempati inglesi che emigrano in India a causa della recessione globale. Ottimo cast anche nel “Mio miglior incubo”
Lotta di classe per una strana coppia è il busillis di Il mio migliore incubo, buffa traduzione italiana di Mon pire cauchemar. Da noi, anche i distributori migliori spesso rovinano il pieno godimento di un film, svelandone il finale nei titoli. Sono leggendarie bestialità tragicomiche come Se mi lasci ti cancello (The Eternal Sunshine of the Spotless Mind) di Michel Gondry e Charlie Kaufman, e Prima ti sposo e poi ti rovino (Intolerable Cruelty) dei fratelli Coen. Un simpatico scontro di civiltà presentato al festival di Roma, i due opposti di Incubo che mai avrebbero dovuto incontrarsi sono Agathe (Isabelle Huppert) e Patrick (Benoit Poelvoorde). Lei è una raffinata, glaciale «operatice culturale», esperta d’arte contemporanea e vive in un elegante appartamento nei quartieri alti. Lui è un avanzo di galera tuttofare senza fissa dimora, accampato in un furgoncino. Si incontrano quando Patrick va a prendere il figlio, il migliore amico del figlio di Agate. Lei è frigida, repressa e snob, quanto lui è gioviale, proletario e arrapato. La regista Anne Fontaine (Coco avant Chanel - l’amore prima del mito) dirige con brio l’ottimo cast.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Crisi senza fine: indotti anche a “bruciare” il nostro futuro IL GOVERNO MONTI E LE PROSPETTIVE PER L’ITALIA La provincia di Salerno apre oggi con la partecipazione straordinaria dell’onorevole Ferdinando Adornato una serie di incontri politici su temi di carattere nazionale. Incontri, seminari che si propongono attraverso la loro trattazione di alzare il tono della discussione, sottraendo la politica locale, i propri dirigenti e gli addetti ai lavori a un confronto che sempre di più, anche nella nostra provincia, scade spesso su aspetti e questioni di carattere personale, certamente poco edificanti per l’intera comunità e per il bene comune. Capire attraverso i ragionamenti e le intuizioni di chi vive e contribuisce alla costruzione della politica a livello nazionale può aiutare non solo la classe dirigente dell’Unione di centro, ma può offrire a tutti degli spunti di riflessione su cui poterci confrontare in linea con quanto accade nel Paese e nelle istituzioni. Questo nuovo modus operandi da parte del neo coordinamento provinciale dell’Udc non solo vuole rappresentare nei fatti una discontinuità nella forma e nei contenuti rispetto alla pregressa gestione del partito in provincia di Salerno, ma vuole anche essere catalizzatore, elemento di formazione attorno al quale i giovani dirigenti e il partito tutto possono riscoprire la voglia e la passione di praticare la politica e i suoi temi, quelli altamente valoriali. Unitamente al segretario provinciale Luigi Cobellis sono anche convinto che questa opportunità e questa esperienza debba essere itinerante, in modo da poter portare la politica nelle comunità, quanto più vicina al cittadino e alle sue legittime necessità anche di dialogo e di confronto diretto con gli opinion leader di un movimento o, come in questo caso, di un partito qual è l’Unione di centro. In un’epoca di grandi cambiamenti e dove dopo il governo Monti, così come più volte ha precisato il nostro leader Pier Ferdinando Casini, nulla sarà più come prima, il partito dell’Unione di centro della provincia di Salerno «non solo vuole essere ma vuole anche apparire» diverso nella forma e nei contenuti della iniziativa e della proposta politica di cui è portatore sul territorio. Vincenzo Inverso P R E S I D E N T E PR O V I N C I A L E UD C
LE VERITÀ NASCOSTE
Un Paese strozzato dal fisco che induce i suoi cittadini a gesti estremi non è moderno né tanto meno europeo, almeno negli intendimenti che la grande confederazione di Stati voleva perpetrare. Ho sentito Prodi in questi giorni difendere ulteriormente gli istituti bancari, ritenendoli il fulcro del Paese: egli è l’esempio di quello che non va in Italia: le valutazioni vengono fatte sempre guardando in alto mentre le fiamme si trovano nella stiva.
Bruno Russo - Napoli
Ho sempre pensato che gli istituti di credito assolvessero un’importante funzione sociale, raccogliendo denaro per metterlo al servizio della società. Ora però si susseguono drammi (anche tragici) di piccoli imprenditori “schiacciati”tra crediti inesigibili a breve (spesso anche da enti pubblici) e voracità di banche che preferiscono speculare sugli interessi piuttosto che aiutare l’azienda in difficoltà.
Fabrizia Colla
CHI VUOLE TORNARE INDIETRO? Pensare di fermare il Governo Monti è da folli. È come se si pretendesse di fermare un treno a grande velocità. Rischieremmo di farci solo del male. Le riforme strutturali si devono fare e la politica è chiamata a svolgere un ruolo da protagonista. Tuttavia, non si può neppure immaginare di fermare l’operato di un governo che ha restituito credibilità internazionale all’Italia e fiducia alle imprese. In una ricerca condotta dalla Fondazione Nord Est, è emerso che gli imprenditori della zona (57,9 per cento di consensi) danno fiducia a Monti. Nel precedente Governo, al contrario, la fiducia era scesa al 12,5 per cento. L’Italia ora può uscire dalla crisi. Chi vuole tornare indietro?
Lettera firmata
L’ITALIA VUOLE L’ALTA VELOCITÀ L’Alta Velocità e l’Alta Capacità sono necessarie allo sviluppo del territorio: le infrastrutture sono simbolo e strumento del progresso e chiunque mette in discussione la costruzione della tratta Torino-Lione mette irresponsabilmente in discussione la crescita dell’Italia. I sondaggi sono chiari: due terzi degli Italiani sono favorevoli alla tratta Torino-Lione, che consentirà di collegarci alla linea Lisbona-Kiev ed eviterà il pericolo che l’Unione europea si divida in cittadini di serie A e cittadini di se-
rie B o addirittura di serie C. La maggioranza diventa poi bulgara quando l’interrogativo si allarga all’Alta Velocità in generale, nonostante sia ancora grande la confusione che si fa con l’Alta Capacità. Gli Italiani vogliono il benessere ed il progresso, ma nel pieno rispetto della tutela ambientale: chiedono, di fatto, che lo sviluppo sia sostenibile e non sono più disponibili ad appiattirsi sulle posizioni di sparute minoranze integraliste che tentano di imporre le proprie idee con la violenza e rifiutando ogni dialogo e civile confronto.
Alfonso Fimiani
GUERRA SULLE STRADE NEI WEEKEND Gli ultimi dati Aci-Istat indicano che la fascia più colpita dagli incidenti stradali è quella tra i 20 e i 24 anni e valori molto elevati si riscontrano anche in corrispondenza delle fasce di età 25-29 e 30-34 anni. Dati questi che hanno trovato conferma in questi ultimi tragici fine settimana dove tra i 24 deceduti, 12 avevano meno di 30 anni d’età. La situazione che abbiamo sulle nostre strade è peggio di una guerra. I bollettini che arrivano dai weekend dimostrano la necessità di attivarsi immediatamente per evitare l’altissimo ed insostenibile costo di vite umane che rischiamo di avere nei prossimi mesi, verso l’estate. Servono più controlli ma serve anche maggiore prevenzione e questa può
L’IMMAGINE
APPUNTAMENTI Sabato 31 marzo - ore 18 Mediterranea Hotel - Salerno “IL GOVERNO MONTI E LE PROSPETTIVE PER L'ITALIA” Venerdì 20 aprile - ore 11- Piazza Pilotta 4 Centro Convegni Matteo Ricci - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
È tempo di tecno-pantaloni Si chiamano “Beauty and the Geek” e sono stati disegnati da Erik de Nijs e Tim Smit, due stilisti olandesi. Oltre alla tastiera bluetooth perfettamente funzionante, questi pantaloni integrano un mouse wireless e due speaker ultrasottili. Con il singolare capo i due designer vogliono dimostrare come il mondo della moda e quello della tecnologia si possono unire per trovare soluzioni nuove e utili
Illuminare la terra con 1 ora di buio Una sola Terra sembra non bastarci. In termini di risorse naturali, stiamo consumando l’equivalente di 1,5 pianeti, senza contare i cambiamenti climatici che minacciano la sopravvivenza di centinaia di specie e la sicurezza di milioni di persone. Di questo sentiamo parlare costantemente, ma c’è un appuntamento che ogni anno, per un’ora, coinvolge il mondo intero in una riflessione che porta a propositi concreti per arginare, ciascuno con un piccolo contributo, il sovrasfruttamento delle risorse del nostro pianeta. Anche quest’anno e proprio questa sera si spegneranno le luci per l’Ora della Terra, un evento globale organizzato dal WWF per sensibilizzare l’opinione pubblica alla necessità di contrastare i cambiamenti climatici. Dalle 20.30 per un’ora in centinaia di città in tutto il mondo e in almeno 330 comuni italiani si spegneranno le luci di monumenti e singole abitazioni come gesto simbolico di partecipazione alla causa del Pianeta. Per la prima volta l’evento sarà seguito anche dallo spazio: l’astronauta dell’ESA e ambasciatore del WWF Andre Kuipers documenterà lo spegnimento delle luci con foto e commenti direttamente dalla ISS.
essere fatta con la sinergia di tutti. Sono le Istituzioni ad ogni livello che, assieme alle associazioni ed alle organizzazioni che si occupano di sicurezza sociale, devono promuovere azioni coordinate ed incisive. Oggi il costo delle giovani vite perse sulla strada è come un macigno per l’Italia.
Carmelo Lentino, BastaUnAttimo
COMPORTAMENTI PRIVATI VIRTUOSI E COMPORTAMENTI PUBBLICI VIZIOSI La recente ricerca Censis sul tema “I valori degli italiani. Dall’individualismo alla riscoperta delle relazioni” teorizza che la crisi che viviamo deriva dalla diffusione dell’individualismo, che avrebbe determinato un vero e proprio disastro antropologico, provocando la crescita dell’aggressività, la diffusione a macchia d’olio di grandi patologie individuali, la mancanza di senso del futuro, ecc. Il Censis però vede una via d’uscita a questo disastro nella riscoperta in corso della vita familiare e comunitaria, in una ricerca di solidarietà diffusa. A mio parere la ricerca del Censis non individua i problemi di fondo del nostro Paese. Tradizionalmente l’Italia è già caratterizzata da una vita familiare e comunitaria abbastanza diffusa. L’individualismo non è una nostra tradizione come lo è, ad esempio, per i Paesi anglosassoni. I problemi di fondo dell’Italia derivano da altro. In particolare dalla contraddizione tra comportamenti privati sostanzialmente “virtuosi” e comportamenti pubblici sostanzialmente “viziosi”. Come dice lo stesso rapporto finale di ricerca «dal punto di vista etico, gli italiani non si fidano degli italiani, mentre tendono a fidarsi e a sentirsi responsabili di chi gli sta più vicino». Fino a quando gli italiani non avranno risolto la contraddizione esistente tra comportamenti privati e comportamenti pubblici i nostri problemi non saranno risolti.
Franco Pelella - Pagani (SA)
mondo
pagina 18 • 31 marzo 2012
Girone e Latorre, i due fucilieri del San Marco, restano in stato di fermo in Kerala. E Staffan de Mistura torna a Delhi
Marò, l’attesa infinita Per la terza volta, l’Alta Corte rinvia la decisione sulla giurisdizione del caso di Antonio Picasso re rinvii in esattamente un mese e mezzo. Era il 15 febbraio quando la petroliera Enrica Lexie cadeva nel vortice di una crisi diplomatica che, a oggi, sembra non avere sbocchi. Latorre e Girone, i due marò italiani accusati di aver ucciso in acque indiane due pescatori scambiandoli per pirati, sono passati dall’essere in stato di fermo agli arresti effettivi, nel carcere di Trivandrum. Ieri, data la presenza a Delhi del ministro della Difesa italiana, Giampaolo Di Paola, si auspicava che la questione si disincagliasse. Così non è stato. L’Alta corte del Kerala ha rinviato a lunedì la decisione sul ricorso italiano in merito alla giurisdizione del caso. La parte italiana contesta l’applicabilità del codice penale indiano. Gli avvocati che rappresentano i due marò sostengono che il fatto sia avvenuto in acque internazionali e su una nave battente bandiera italiana e che quindi i tribunali del subcontinente non abbiano competenza. Il problema sarebbe facilmente risolvibile.Tanto più che tecnologia e balistica tornano in nostro favore.
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Il vero ostacolo però è l’elefantiaca burocrazia indiana. Alcune settimane fa, si pensava che il caso non volesse essere risolto per ragioni elettorali. Il Kerala era prossimo al voto e a nessuno avrebbe fatto comodo prendere le difese di due militari stranieri indicati dall’elettorato locale alla stregua di colonialisti assassini. Poi però le urne si sono aperte e pure chiuse.
della diplomazia. Di Paola ha appena concluso una 48 ore circa di viaggio Roma-Trivamdrum-Delhi e ritorno, per confrontarsi con il suo omologo, il ministro della Difesa indiano, A.K. Antony. L’incontro, durato una quarantina di minuti, si è concentrato unicamente sulla questione marò. Il dossier Bosusco, il cittadino italiano rapito dai maoisti in Orissa due set-
Se il tribunale dovesse esprimersi a favore della pertinenza indiana, l’Italia è già pronta a impugnare la decisione. Ma in quel caso i tempi di carcerazione dei due marinai si allungherebbero Il caso quindi è scaduto in una situazione ben peggiore di quella della strumentalizzazione politica.
La giustizia indiana, per quanto retaggio dell’Impero britannico, resta una macchina inefficiente, i cui ingranaggi si possono mettere in moto se lubrificati da laute bustarelle. Ma l’Italia non va in giro per il mondo a corrompere magistrati di second’ordine. L’ovvia strada da percorrere è quella
timane fa, resta un tema a sé. Anche perché il governo Singh, per questo, si è già dimostrato estremamente volenteroso. È straordinario come l’India sappia essere nel medesimo istante efficiente e ignava. Peraltro sempre con lo stesso interlocutore straniero. Il nostro ministro ha ricordato che la posizione italiana si basa sull’applicazione delle regole internazionali. Tra Di Paola e Antony è stato ricordato come i due governi abbiano pieno rispetto
per gli uomini in uniforme, ma che in entrambi i Paesi la magistratura agisce in piena autonomia rispetto a qualsiasi altra istituzione.
I due ministri hanno inoltre concordato che si possa trovare una soluzione amichevole, come auspicata dai due primi ministri che si sono incontrati in Corea del Sud, lunedì scorso in occasione del vertice internazionale sul nucleare. «C’è qualche piccola novità ma io sto parten-
do e preferisco parlare da là». Questo è stato invece il commento del sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura, già pronto per la sua seconda missione nel subcontinente in un mese. De Mistura era sul posto il 22 febbraio, quindi solo una settimana dopo i fatti, ed è rimasto nel Paese fino al 14 marzo. Lo sforzo del governo italiano non può che essere oggetto di apprezzamenti. Ed è su questa linea che si sta posizionando la nostra opinione pubblica. Dopo
L’analisi (e le perplessità) dell’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, oggi vicepresidente dello Iai
Riportarli a casa non sarà un’impresa facile ulla vicenda dei nostri due fucilieri di Marina catturati e detenuti dalle autorità indiane del Kerala, in India, ritengo ci siano alcuni aspetti da approfondire, sia dal punto di vista giuridico che da quello più squisitamente politico. Aspetti che non hanno certo un carattere puramente accademico, ma che devono, a mio parere, essere tenuti in debita considerazione per calibrare le azioni da porre in essere per risolvere positivamente la questione.
S
Diamo per scontato l’argomento, assolutamente inattaccabile, che l’evento è accaduto al di fuori della fascia delle dodici miglia che l’India, come la stragrande maggioranza dei paesi del mondo, riconosce come “acque territoriali” e che pertanto, a tutti gli effetti, la nave battente bandiera italiana era in quel momento in “territorio nazionale”.
di Vincenzo Camporini Un altro degli argomenti utilizzati per affermare la giurisdizione italiana sull’evento è stato che i due militari, in quanto agenti dello stato italiano nell’effettuazione di una missione - peraltro autorizzata in termini generali dalle
rantire il “diritto di bandiera” nell’ambito stesso dell’Alleanza Atlantica, è stato necessario sottoscrivere uno specifico accordo, la Convenzione di Londra del 1951, dove è definito nei dettagli lo “Stato delle Forze”. È altresì da notare che,
Il diritto di bandiera può essere fatto valere solo per le attività militari compiute nello specifico quadro della Nato. Quando questo non succede, ci vuole uno specifico accordo Nazioni Unite - sono sottratti a qualsiasi giurisdizione che non sia quella dello Stato di bandiera. Qui nascono le prime perplessità. Anche se tale principio può, infatti, essere sostenuto in astratto, la prassi vigente, almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale, dice esattamente il contrario. Al punto che per ga-
in forza di tale accordo, il diritto di bandiera può essere fatto valere solo per le attività militari compiute nello specifico quadro della Nato, tant’è che nel caso Cermis (quando, nel febbraio 1998, un aereo militare statunitense determinò la morte di 20 persone tranciando i cavi di una funivia in Val di Fiemme, ndr.) uno
degli argomenti sostenuti da chi voleva affermare la giurisdizione italiana era che il volo tragicamente conclusosi non era stato effettuato nell’ambito di un programma addestrativo dell’Alleanza, bensì rispondesse ad esigenze nazionali Usa, il che avrebbe fatto venir meno la copertura giuridica garantita dallo Status of Forces Agreement.
Anche nell’avvio di tutte le operazioni di pace condotte negli anni Novanta ed in seguito, il principio della necessità di uno specifico accordo a garanzia degli operatori militari, o assimilati, è sempre stato dato per scontato: gli accordi di Kumanovo, che hanno consentito l’ingresso delle truppe Nato in Kosovo nel 1999, lo prevedevano in modo esplicito, ed ancora, esempio recentissimo, la Nato ha chiuso la missione di addestramento in Iraq (Nato Training Mission –
mondo
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Latorre e Girone, i nostri marò detenuti in India. Sopra, la petroliera Enrica Lexie, che presto potrebbe lasciare il Paese. Sotto, i ministri della Difesa indiano e italiano: A.K. Antony e Giampaolo Di Paola votata alla pazienza e quindi alla resistenza. I due marò restano in carcere perché la pubblica amministrazione del Kerala non funziona. Così mentre a Delhi si celebra il summit del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), la burocrazia locale si dimostra nella sua piena inefficienza. Manmohan Singh chiama a raccolta le nuove potenze della globalizzazione. Ma l’autorevolezza del pre-
La vicenda dei marò conferma come l’India si ostini a vedere gli stranieri come fumo negli occhi. O sono volgari turisti di massa, pieni di soldi e da spennare, oppure rapire – vedi in Orissa – altrimenti trattasi di neocolonialisti, che si arrogano il diritto di uccidere innocenti pescatori. Non è sempre così. Prima della vicenda della Lexie, gli italiani pensavano che l’India si limitasse a essere
Dopo sei settimane di sosta forzata al largo delle coste meridionali del Paese e una strenua battaglia legale, la petroliera italiana Enrica Lexie dovrebbe poter salpare nei prossimi giorni un primo sfogo emotivo, ci stiamo rendendo conto che il fascicolo dei marò è in buone mani. I nastrini gialli che molti sfoggiano nelle piazze italiane, gente comune ma anche personalità politiche, sono un segno di solidarietà tipica nazionale. È attesa per oggi a Roma la manifestazione promossa dall’Associazione Nazionale Marinai d’Italia. L’iniziativa sarà affiancata anche da altre in molte città del Paese. L’India dovrebbe riflettere su tutto questo.
Altra faccenda sarà poi come comportarsi con il comandante della Lexie e il suo armatore. Il ministro degli Esteri Terzi ha detto che l’attracco in porto della nostra petroliera è stato indotto a suon di sotterfugi. Dando pure ragione al responsabile della Farnesina, bisogna ammettere che una percentuale, seppur minima, di responsabilità quella nave se la deve assumere. È vero, probabilmente l’Italia ha sottovalutato l’elefante indiano.Tuttavia quest’ul-
timo è ora che si renda conto che nemmeno noi scherziamo. Quando de Mistura aveva promesso ai marò che non li avrebbe abbandonati, faceva sul serio. Il fatto che gli indiani si siano trovati di fronte in appena una settimana prima Monti, poi Di Paola e infine incontreranno ancora una volta De Mistura fa capire che a Roma, almeno stavolta, una strategia c’è. Ed è impostata sulla perseveranza. Tanto più che la controparte indiana non è più
mier indiano non basta più a coprire le debolezze del Paese. Corruzione, violenza incontenibile, instabilità regionali. L’Italia si è accorta dell’India. Prima si è resa conto la sua forza. Ora ne percepisce gli scricchiolii. Del resto come fa un elefante a nascondersi dietro un dito? Il Brics da un lato, il Kerala dall’altro. Lo sfoggio di una forza economica importante alla quale fa da antitesi la pretesa di grandeur politica, senza però averne le basi a livello locale.
Iraq), proprio perché non è stato possibile raggiungere con le autorità irachene un soddisfacente accordo sullo stato delle forze, che sottraesse i militari dei paesi dell’Alleanza all’autorità giuridica dell’Iraq. Ebbene, non esiste ancora tra India e Italia, o tra India e Nato, né mi risulta che sia in corso di negoziazione, un accordo di questo genere.
Pertanto appare sostanzialmente privo di fondamento sostenere un principio giuridico che, sebbene non del tutto infondato in astratto, non ha mai trovato, almeno negli ultimi decenni, pratico riconoscimento ed attuazione, anzi al contrario, è di fatto negato nella prassi. Una seconda considerazione ha a che fare con aspetti costituzionali. Un primo dato è che in India vige ancora la pena di morte, che invece è rigettata in modo inequivocabile dal nostro ordinamento giuridico e addirittura dalla nostra Costituzione. La stessa Corte Costituzionale, con una sentenza del 1996, si espresse con grande determinazione sul “caso Venezia”. Venezia era un cittadino italiano, accusato di omicidio di primo grado da una corte della Florida, che ne
un immenso Paese povero, molto colorato e pieno di santoni. L’abbiamo capito: l’India è anche altro. Imparata la lezione, però, adesso si può tornare ai buoni rapporti. Tra noi e loro c’erano accordi economici che, se si dovesse andare avanti con queste tergiversazioni sui marò, sarebbero inevitabilmenti incrinati. Il governo italiano ha trasmesso un input chiaro a Delhi. Da qui bisogna che parta un ordine operativo in direzione di Trivandrum.
pattuglie sono rigorosamente miste e gli eventuali arresti sono effettuati non dal nostro personale, ma da personale locale, in modo che la consegna alle autorità giudiziarie avvenga senza che ci sia formalmente un coinvolgimento dei nostri soldati.
aveva chiesto l’estradizione; la questione fu oggetto di ampio dibattito a tutti i livelli, anche parlamentare, e venne alla fine sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale, che si espresse negando la possibilità che venisse concessa l’estradizione verso un paese dove vigeva la pena di morte, in quanto in contrasto con i nostri principi costituzionali.
Il caso ha creato un precedente che ha informato tutti i comportamenti delle istituzioni italiane: in campo militare, ad esempio, i nostri contingenti impegnati nelle varie missioni internazionali, in paesi dove la pena di morte non è stata formalmente abolita, sono molto attenti nella gestione degli eventuali prigionieri catturati: a tal riguardo, le
In un’intervista, i due fucilieri attualmente trattenuti in Kerala, ad una precisa domanda su chi avesse ordinato loro di scendere, hanno risposto: «Siamo scesi dalla nave perché ci è stato detto di farlo», e al giornalista che insisteva per sapere chi fosse stato, la risposta è stata: «Non rispondo». Ora, se questo qualcuno è un’autorità nazionale, questa si è resa responsabile di una grave violazione dei nostri principi costituzionali, che dovrà essere adeguatamente valutata. È chiaro a tutti che in questa fase occorre agire con la massima prudenza e calibrare con attenzione parole ed atti. Ma è anche altrettanto chiaro che l’efficacia di quanto sarà possibile porre in atto dipenderà dalla chiarezza delle proprie argomentazioni, da basare su un solido quadro sia giuridico che politico.
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il personaggio Ritratto di Jean-Luc Mélenchon, il candidato dell’estrema sinistra all’Eliseo
Il comunista che (forse) farà vincere Sarkozy Vuole la Francia fuori da Europa e Nato: Hollande teme la concorrenza in chiave populista. Ecco chi è l’alleato più prezioso del presidente di Enrico Singer entirlo arringare i suoi sostenitori è come fare un salto indietro nel tempo. Tornare in un’altra èra della politica. «Genio della Bastiglia che domini questa piazza, eccoci qua, noi siamo il popolo delle rivoluzioni e delle rivolte di Francia. Noi siamo la bandiera rossa», ha detto nel comizio che ha aperto la sua campagna elettorale a Parigi. E qualche giorno fa, a Lille, già roccaforte del partito comunista, ha esordito con questa frase roboante: «Il fiume ormai è uscito dal suo alveo e di tornarci proprio non ne vuole sapere». Il titolo di “tribuno dei diseredati” non lo ha davvero usurpato. Sessant’anni, ex correttore di bozze, benzinaio, giornalista, ma anche ex ministro socialista e ora eurodeputato, Jean-Luc Mélenchon è candidato all’Eliseo per il Front de gauche e non ha alcuna speranza di arrivare al ballottaggio finale. Il suo massimo obiettivo è quello di strappare a Marine Le Pen, detestata leader del Front national, il terzo posto e dimostrare che nel Paese di Robespierre la sinistra radicale è più forte dell’estrema destra. Ma in questa sfida nella sfida, come i francesi chiamano il confronto tra i candidati “minori”, Mélenchon rischia di fare veramente un pessimo scherzo al suo ex compagno di partito François Hollande. Il 13 per cento dei voti che i sondaggi gli assegnano potrebbe far pendere definitivamente, il 22 aprile, la bilancia del primo turno delle presidenziali a favore di Nicolas Sarkozy. Un risultato che potrebbe sembrare ininfluente perché il nome del prossimo inquilino del palazzo al numero 55 di rue du Faubourg Saint-Honoré uscirà comunque dallo spareggio del 6 maggio. Ma non è proprio così. La storia delle presidenziali insegna che chi arriva in testa alla prima tappa della corsa ha un vantaggio sul secondo classificato. Conquista automaticamente il ruolo di favorito e si assicura un effetto di trascinamento sugli indecisi.
S
Di queste tattiche pre-elettorali JeanLuc Mélenchon se ne infischia. Del resto di Hollande – e del partito socialista dal quale è uscito sbattendo la porta quattro anni fa – ha poca considerazione. Su internet gira un video del 2009 nel quale il
candidato del Front de gauche dice che «avere un accordo con Hollande o non avere niente è la stessa cosa perché non rispetta mai la parola data» e rivela che nell’ormai lontano 1997, al congresso del Ps a Brest, si erano messi d’accordo per truccare i risultati dello scrutinio, «ma lui alla fine mi dette solo l’8 per cento, si divertì a umiliarmi». Un’umiliazione, evidentemente, mai digerita. Eppure Mélenchon nel partito socialista ne ha fatta di strada. Sempre su posizioni di sinistra, per la verità, all’interno della corrente “Nuovo mondo”, la più neo-giacobina del Ps. Suo modello e riferimento politico è Jean Jaurès, uno dei padri del socialismo francese che, nel 1904, fondò L’Humanité che divenne organo del Pcf quando, nel 1920, il
partito comunista francese nacque da una scissione della Sfio (la Sezione francese dell’Internazionale operaia) di cui lo stesso Jaurès era leader. Per venire ai tempi nostri, Jean-Luc Mélenchon ruppe con Ségolène Royal – prima moglie di François Hollande – per le continue divergenze sulla linea del partito che considerava troppo morbida.Trotzkista da giovane (il suo nome di battaglia era Santerre, il citoyen che portò Luigi XVI alla ghigliottina), nel 1986 era stato eletto senatore socialista nel di-
Mélenchon è il candidato del Front de gauche: il presidente francese Nicolas Sarkozy ritiene che possa condizionare in proprio favore i moderati incerti
partimento dell’Essonne e, dal 2000 al 2002 era stato anche ministro dell’Educazione professionale nel governo di Lionel Jospin. La rottura con il Ps e le dimissioni sono del novembre del 2008. Giusto in tempo per dare vita con Marc Dolez, un altro deputato socialista transfuga, al partito della sinistra confluito poi nel Front de gauche (con il pcf e una parte del movimento ecologista) per le elezioni europee del 2009 che gli hanno consegnato un seggio a Strasburgo.
Allora ottenne l’8,15 per cento dei voti nella circoscrizione del Sud-ovest. Adesso la sua popolarità è molto più alta. Partito in sordina, con i sondaggi che lo mettevano nel gruppone dei candidati sotto il 10 per cento, ha via via preso quota nel popolo della sinistra francese che, in tempi di crisi economica, di disoccupazione giovanile e di sacrifici, è sensibile ai discorsi chiari e forti: la specialità di Mélenchon. Il suo programma prevede più tasse per i ricchi, stipendio minimo a 1700 euro, pensione a 60 anni e una riforma costituzionale profonda: la nascita della Sesta Repubblica, come la chiama lui, su base parlamentare. In altre parole, l’abbandono della Repubblica presidenziale creata dal generale Charles de Gaulle. «Se sarò eletto convocherò una nuova Costituente e, una volta abolito l’attuale regime, butterò nella Senna le chiavi dell’Eliseo e me ne tornerò a casa. Missione compiuta». Il suo slogan preferito, quello che ripete più spesso è proprio «che se ne vadano tutti a casa». “Tutti” sono i politici che hanno ridotto così la Francia accettando i diktat dell’Europa – quando nel 2005 ci fu il referendum sulla costituzione europea Mélenchon guidò la campagna per il no – e cedendo al potere delle multinazionali. E tra i “tutti”c’è anche François Hollande che lui definisce «un comandante di pedalò» o anche «Hollandreou» per ricordare il nome di un altro socialista che ha fallito: l’ex premier greco George Papandreou. È naturale che per questo pied noir (è nato a Tangeri il 19 agosto del 1951) ogni accordo con il candidato del Ps è impossibile. Anzi, le critiche più velenose
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e di cronach
Ufficio centrale Nicola Fano (direttore responsabile) Gloria Piccioni, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
sono per lui. L’ultima: «We are dangerous», ha rivendicato spavaldo Mélenchon per contestare le dichiarazioni rassicuranti di François Hollande che, durante la recente visita a Londra, aveva voluto precisare che la sua candidatura non era «pericolosa» per la Francia e per l’Europa come vuole dimostrare Sarkozy. Al primo turno, insomma, Mélenchon si presenta come alternativo a Hollande e di quello che farà al ballottaggio non vuole nemmeno parlare. «Non rispondo a domande da bar dello sport», ha detto in tv, «quello che mi interessa è l’insurrezione civica, la rivoluzione civile e la fine della casta politica».
Non stupisce che François Hollande lo definisca «un populista, un demagogo che promette cose irrealizzabili». E non stupisce nemmeno che Nicolas Sarkozy faccia il tifo per lui. Con un triplice obiettivo. Il primo – anche il meno verosimile – è che Mélenchon riesca addirittura a superare Hollande e arrivare al ballottaggio bissando il clamoroso risultato che ottenne, nel 2002, Jean-Marie Le Pen, padre di Marine e fondatore del Front National, che superò allora il socialista Lionel Jospin. L’esito di quel primo turno favorì l’inattesa rielezione del neogollista Jacques Chirac che fu votato anche dai moderati di sinistra per impedire che il paladino dell’estrema destra conquistasse l’Eliseo. In un ipotetico ballottaggio Sarkozy-Mélenchon la vittoria dell’attuale presidente sarebbe scontata. Molto più verosimili, invece, sono gli altri due obiettivi segreti di Sarkozy: quello di arrivare primo il 22 aprile grazie alla frammentazione dei voti a sinistra e quello di allontanare, al ballottaggio con Hollande, i voti dell’elettorato centrista dal candidato socialista con lo spauracchio-Mélenchon. Lo sfidante del Front de gauche può dire oggi quello che vuole, può negare qualsiasi futuro accordo con il «comandante di pedalò», ma in fondo tutti sanno che nel caso di ballottaggio tra Sarkozy e Hollande, scatterebbe la logica del voto utile e anche i sostenitori del tribuno dei diseredati confluirebbero sul nome di Hollande. Non senza condizioni: magari qualche ministero, di sicuro qualche pezzo di programma. E proprio questo potrebbe risultare un abbraccio mortale per il candidato socialista e un regalo per Sarkozy che, secondo i più recenti sondaggi, è ormai in vantaggio al primo turno (30 per cento contro il 28 di Hollande), ma è ancora considerato perdente al
ballottaggio con il 46 per cento contro il 54 assegnato allo sfidante del Ps.
Un risultato Jean-Luc Mélenchon, intanto, lo ha già raggiunto. Alcuni suoi cavalli di battaglia sono stati copiati da Hollande e dallo stesso Sarkozy.Tassare al 75 per cento la parte di reddito che supera il milione di euro l’anno? «È la versione improvvisata e raffazzonata di François Hollande della mia proposta di stabilire 14 aliquote diverse con l’unico scopo di fare pagare davvero i ricchi», dice Mélenchon che, nel suo programma, ha anche un’aliquota fiscale del 100 per 100 sulla parte di stipendio che superi i 360mila euro l’anno. Sarkozy annuncia in televisione che i francesi che paga-
«Se sarò eletto, convocherò una nuova Costituente e, una volta abolito l’attuale regime, butterò nella Senna le chiavi dell’Eliseo e tornerò a casa. Missione compiuta» no le tasse all’estero dovranno, in certi casi, pagarne una parte anche in Francia? Per Mélenchon è «la dimostrazione che le mie tesi sono giuste e che anche il presidente della Repubblica sa che sono popolari, quindi me le copia. Io propongo questo: un francese che lavora all’estero, e versa le tasse nel Paese di residenza, deve dire al Fisco francese quanto paga. Se paga meno di quanto pagherebbe in Francia, verserà la differenza da noi.Vi sembra una cosa da Corea del Nord? No, è quello che succede negli Stati Uniti che legano fiscalità e nazionalità». Ma il programma di Jean-Luc Mélenchon non si ferma qui. C’è la creazione di una maxi-banca pubblica risul-
tato della nazionalizzazione di molti istituti di credito, un vasto piano di difesa dell’ambiente (il Front de gauche cerca di rubare consensi anche alla candidata ecologista Eva Joly) e c’è l’uscita della Francia dalla Nato, la fine dell’impegno militare in Afghanistan e il sostegno incondizionato alla nascita di uno Stato palestinese. Un discorso a parte merita l’Europa che è uno dei grandi temi della campagna anche per Sarkozy e per Hollande. Se il presidente ha detto che Parigi vuole rinegoziare l’accordo di Schengen per evitare che la Francia si riempia di stranieri che entrano dai «Paesi colabrodo» e lo sfidante socialista ha già pre-denunciato il fiscal compact voluto da Angela Merkel, il candidato del Front de gauche vorrebbe semplicemente «cambiare l’Europa».
Già difensore di un’Europa federalista, Jean-Luc Mélenchon è adesso molto duro con la Ue così com’è diventata. Sostiene che «l’Unione europea non è più una soluzione, ma un problema perché il liberalismo economico ha completamente corrotto le sue istituzioni» al punto che sarebbe impossibile «ogni forma di vita democratica». Il potere è nelle mani di «tecnocrati che non hanno alcuna legittimazione popolare». E a Bruxelles sarebbe necessaria la stessa révolution citoyenne che lui propone a Parigi. Lo strumento? Denunciare il Trattato di Lisbona e costruire una nuova Europa. Un’altra utopia pericolosa, secondo i suoi avversari. Hollande, in particolare, ha criticato la visione di Mélenchon durante l’incontro che c’è stato a Parigi tra i leader della sinistra europea – tra i quali Pier Luigi Bersani e il socialdemocratico tedesco, Sigmar Gabriel – per costruire la «rinascita» dell’ideale europeo secondo una visione opposta a quella dell’asse conservatore di Sarkozy, Merkel o Cameron, ma lontana anche dalle posizioni estreme del candidato del Front de gauche. Che, tuttavia, con le sue proposte semplici e ad effetto continua a crescere nei sondaggi. Ormai ha superato il centrista François Bayrou ed è testa a testa con Marine Le Pen che, almeno a suo dire, rimane il nemico da battere. «La battaglia che mi eccita di più è buttare fuori dalla scena il Front national», ha detto Mélenchon. «Per l’onore del Paese e della sinistra, il voto utile significa essere davanti a Le Pen». Ma questa sfida nella sfida potrebbe costare cara a Hollande. E Sarkozy, in cuor suo, per il momento ringrazia.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Orio Caldiron, Anna Camaiti Hostert, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Consiglio d’amministrazione Vincenzo Inverso (presidente) Raffaele Izzo, Letizia Selli (consiglieri) Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Ufficio pubblicità: Maria Pia Franco 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse Seregni Roma s.r.l. Viale Enrico Ortolani 33-37 00125 Roma Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69925374 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Unione di Centro per il Terzo Polo
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parola chiave DUBBIO
Infinite costruzioni logiche tentano di evitarlo. Ma è una realtà ineludibile dell’esperienza umana e del mistero del libero arbitrio. Perché è proprio alla sua radice che risiede la nostra libertà di Sergio Valzania aramente ci capita di essere sicuri di qualcosa, e se ci pensiamo bene non lo siamo fino in fondo. Anche le nostre più radicate convinzioni, le più immediate evidenze, al fondo sono minate dal dubbio. La scienza stessa, nel suo scavare nelle profondità della materia, ci avverte che i nostri sensi forniscono solo una delle possibili rappresentazioni della realtà a fianco della quale ne stanno altre, ben più complesse, al fondo delle quali si muovo particelle infinitesimali che agiscono in base a probabilità quantiche. Anche gli affetti si dibattono in un ambito di incertezza che riserva delusioni del tutto inattese, insieme a scoperte bellissime e altrettanto inaspettate. In ogni decisione ci troviamo a valutare i pro e i contro di una situazione, consapevoli del fatto che il giusto e lo sbagliato si affrontano in un impasto che sta alla base della nostra esperienza di vita. È lo scorrere del tempo che ci spinge, ci costringe a scegliere, fosse anche solo la strada migliore per recarsi al lavoro la mattina. Arriveremo prima per la via più breve o seguen-
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do quella dove ci sono meno semafori? Lo sguardo del credente scorge in tutto questo un aspetto del mistero del libero arbitrio. Al fondo di ogni considerazione etica si trova la constatazione che siamo in grado di prendere decisioni responsabili il cui effetto incide sul corso degli eventi. Di contro stanno le leggi della fisica e della chimica, i condizionamenti culturali, le nostre esperienze pregresse.
Di solito essere dubbiosi ci dispiace. Preferiremmo più comodamente sapere cosa è meglio fare, come è più conveniente, in tutti i sensi, comportarsi in ogni situazione. Per questo abbiamo elaborato regole che agiscono su piani diversi, da quelle stringenti del diritto a quelle più sottili della buona educazione, per arrivare ai principi più astratti del rispetto umano. Spesso però ci accorgiamo che i diversi codici comportamentali all’interno dei quali ci troviamo ad agire entrano in contraddizione l’uno con l’altro, non sono del tutto coerenti, un po’ come le regole di gioco dello scopone che richiedono di tener conto nello stesso tempo del
principio dello spariglio e del gioco dei sette, senza dimenticare la ricerca delle carte di denari. La globalità ci ha portato all’incontro con culture diverse dalla nostra, che hanno elaborato sistemi di valori non del tutto coerenti con quelli nei quali siamo stati educati. Da questo siamo confusi. Da un lato desiderosi di apertura, di tolleranza e di incontro, dall’altro timorosi di venire divorati, insieme alla nostra società, da un relativismo che cancella i principi etici e le regole di convivenza. Infibulazione e chador sono gli estremi di questo percorso che passa attraverso l’esposizione dei simboli religiosi negli edifici pubblici e persino le forme di macellazione degli animali destinati all’alimentazione, a proposito della quale alcuni ricordano che nella Genesi viene detto «io vi do ogni erba che produce seme: saranno il vostro cibo» (g 1,29), e che anche nel paradiso terrestre il vitto era limitato al frutto di «tutti gli alberi del giardino» (g 2,16). Eppure è proprio alla radice del dubbio che sta la nostra libertà. È l’impossibilità a conoscere in modo certo la verità,
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per saperne di più
hanno detto Karl Kraus
Thomas S. Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche Einaudi
Nei casi dubbi si decida per il giusto.
Alessandro Manzoni Meglio agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore.
Paolo Legrenzi Credere il Mulino
Abraham Lincoln Meglio tacere e passare per idiota che parlare e dissipare ogni dubbio.
Imre Lakatos Dimostrazioni e confutazioni La logica della scoperta matematica Feltrinelli
Kahlil Gibran Il dubbio o la fiducia che hai nel prossimo sono strettamente connessi con i dubbi e la fiducia che hai in te stesso.
Bertrand Russell
Colin Bruce Sherlock Holmes e le trappole della logica Raffaello Cortina Editore
Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.
Albert Einstein Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi.
Ernest Nagel e James R. Newman La prova di Gödel Boringhieri
Miguel de Unamuno La fede che non dubita non è fede.
Douglas R. Hofstadter Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante Adelphi
se non attraverso il cammino personale della fede, a fondare il diritto di ciascun uomo e di ciascuna donna a una ricerca unica e particolare, alla costruzione di se stesso e della propria vita. Un diritto che ha la sua controparte in un dovere stringente, che si costituisce in necessità, al quale nessuno sfugge. Per quante coercizioni possano venire esercitate su di un essere umano gli rimarrà sempre lo spazio per le sue decisioni autonome, delle quali è responsabile, fossero anche solo quelle dello stato d’animo con il quale subire la propria condizione.
Allo stesso modo il re più potente della terra, Salomone nel suo splendore, deve constatare che la sua autorità, il suo privilegio non lo svincola dai suoi limiti terreni. L’orologio della torre del palazzo batte la stessa ora per tutti quelli che lo abitano. Perciò il re come il più infimo e vessato dei suoi schiavi affrontano tutti e due dubbi e incertezze, si confrontano con il problema di come spendere la propria vita. Anche il nostro sistema politico si fonda sull’accettazione del dubbio come realtà ineludibile dell’esperienza umana. Solo in base a questo riconoscimento si rifiuta il governo dei migliori, dei più saggi, dei più dotti, dei più intelligenti per privilegiare una conduzione del bene comune basata sul principio della pari dignità di ogni componente della comunità, che si esprime nella formula rivoluzionaria, e cristianissima, di
Bertolt Brecht Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio.
Anche il teorema di Gödel dimostra che persino le formulazioni aritmetiche più semplici hanno bisogno di un atto di volontà per trovare la loro coerenza. Come Bertrand Russell sperimentò...
«una testa un voto». Non è un caso che la crisi del nostro sistema politico si manifesti in un tempo nel quale troppi di quanti vivono e lavorano in Italia sono esclusi dal diritto di voto perché nati all’estero. È proprio nel dubbio che tutti gli uomini e le donne si rivelano uguali, nella loro gestione
Susanna Camusso e Pier Luigi Bersani. Sopra, la “Trasfigurazione” di Raffaello. A sinistra, il “Pensatore” di Rodin e un primate in atteggiamento dubbioso
personale della constatazione di non possedere certezze. Una condizione per sfuggire dalla quale si sono fatti tentativi eccelsi. Cartesio pose il suo cogito ergo sum a fondamento di una costruzione logica grandiosa. Bertrand Russell concepì un sogno simile in relazione alla matematica,
che si infranse contro il teorema di Gödel, con il quale si dimostrava che persino le formulazioni aritmetiche più semplici hanno bisogno di un atto di volontà, una scelta esterna al sistema, per trovare la loro coerenza.
Al confine del dubbio sta l’affidamento. Il campione della fede, Giobbe, continua a credere nonostante le sofferenze che il maligno gli infligge. Arriva però a dubitare della correttezza del comportamento divino. Protesta per quella che gli appare come una radicale ingiustizia, lo fa con una fede tale da giungere al confronto diretto con Dio, di fronte al quale è autorizzato a presentare le sue ragioni. Dio gli risponde nell’unico modo possibile e cioè che Giobbe non è in grado di capire le motivazioni di quello che gli accade, né pretendere che la sua fede trovi una dimostrazione terrena. Il dubbio, la mancanza di certezze assolute e dimostrabili, è l’elemento costitutivo del rapporto dell’uomo con quanto lo circonda, con Dio stesso, esso rappresenta la sua cifra essenziale. Unica. Non dubitano le creature angeliche, angeli, arcangeli, cherubini, troni e dominazioni danteschi, né lo fanno gli animali, che al più sono confusi. Solo l’uomo e la donna godono di questo dono smisurato e misterioso, al quale possiamo immaginare che Gesù Cristo abbia partecipato nell’incarnazione. «La gente chi dice che io sia?» (mc 8,27).
ULTIMAPAGINA Omaggio al quotidiano che sospende le pubblicazioni: un’area politica perde la voglia di coltivare se stessa
Chi spegne davvero la voce di Errico Novi
ROMA. Si ferma un giornale? O si interrompe il percorso politico che quel giornale aveva raccontato? Il Riformista non uscirà in edicola per un po’, si spera per il più breve tempo possibile. Ma la sua vicenda editoriale interroga questioni che non hanno a che vedere solo con inavvedutezze gestionali di cui la redazione deve subire conseguenze differite. C’è dell’altro. Ci sono aspetti di queste traversie che chiamano in causa il partito a cui il Riformista ha offerto uno straordinario contributo di idee. Perché è incredibile che una delle più brillanti esperienze della stampa quotidiana degli ultimi dieci anni non abbia trovato vero sostegno economico nell’area politica di riferimento. E il punto non è Bersani, né D’Alema che, con Claudio Velardi, è legato al Riformista come un padre putativo. Il colpevole, se c’è, è la storia incompiuta dei democratici. La loro irresolutezza, lo smarrirsi sempre più visibile del progetto. Si dirà: parliamo pur sempre della prima forza politica italiana, sondaggi alla mano. E chi lo nega. Ma non si avverte, in giro, una certa aria di rassegnazione, sulla fusione fredda e malriuscita da cui proviene il Pd? Il lavoro di analisi politica dei giornali ha dedicato per qualche anno, diciamo per un lustro, gran parte delle migliori energie al germoglio ulivista, al Partito democratico come novità assoluta e non compromesso storico in sedicesimi. Figure di primo piano del dibattito politico si sono spese e poi si sono arrese nello sconforto, da Massimo Cacciari a Michele Salvati. E non a caso molti di loro scrivevano sul Riformista. Ora, credete davvero che non c’entri nulla tutto questo con l’imbuto finanziario in cui si trova il quotidiano arancione? Certo: nello specifico il nodo è stato stretto nel corso di una precedente conduzione proprietaria che ha ritenuto per qualche anno di poter legittimamente ottenere risorse per due giornali, fino all’alt dell’Agcom. Da qui come ormai è arcinoto il blocco biennale dell’Editoria, pesantissimo per il Riformista.
ARANCIONE Emanuele Macaluso si è trovato a essere prima locatore, poi custode della testata e del suo diritto a stare nella legge, adesso cede al liquidatore e la redazione gli si oppone con fermezza. Ma tutto questo non ci sarebbe se almeno un imprenditore d’area avesse pensato di intervenire. Un’iniziativa editoriale vera avrebbe potuto, e potrebbe tuttora, neutralizzare le precedenti tra-
Discutere sulla novità del Pd è stata per anni l’attività prevalente dei giornali. Ora ci si rassegna alla fissità del disordine in cui si è avvitato il progetto. E il Riformista resta orfano versie. Se non è avvenuto è perché ci si è rassegnati a non poter discutere su come il Pd dovrebbe essere. Lo si è fatto per anni, come detto. Con particolare intensità fra il 2005 e il 2009. Poi qualcosa si è spezzato. Ed è evidente come certo non siano venuti meno contraddizioni e spasmi che quel dibattito avevano animato. Anzi, le questioni irrisolte sono rimaste tutte lì, per certi aspetti accentuate. Basta guardare cosa scrivono sul lavoro i due giornali che al Pd sono legati in modo organico, l’Unità ed Europa: non potrebbe esserci nulla di più inconciliabile. Il fatto però è che a questa inconciliabilità ci si è
rassegnati. L’incantesimo malriuscito tra anelito liberaldemocratico e sinistra socialdemocratica sta a dare bella mostra di sé. Immobile. Immune da tentativi di risistemare i pezzi. Come un disordine che ha acquisito ormai fissità. Si aspetta forse che le elezioni impongano il distacco delle due componenti. Ma allora l’avventura del riformismo italiano, almeno per come la si è conosciuta nei primi anni Duemila, sarà davvero finita.
Il Riformista si è trovato come un’auto brillante, che piace a tutti, ma in cui nessuno si spreca a mettere benzina. Perché nessuno è più convinto di quel viaggio. Anzi, gli ostacoli che intralciano il percorso sono diventati ormai parte dell’arredamento di casa. Adesso così c’è questo giornale in liquidazione, e a questo punto sarebbe opportuno che qualcuno si svegliasse. Sarebbe il caso di dare un seguito a una storia editoriale che, dopo il Foglio, ha arricchito la nuova schiera dei quotidiani d’opinione. Antonio Polito ha avuto il merito di inventare una formula, quella appunto del giornale-progetto, che ha preceduto (aspettandolo a lungo e invano) l’addivenire dei fatti politici. Paolo Franchi ha condotto una stagione breve ma comunque in positiva continuità con la precedente, poi Polito ha ripreso le redini e gli si è prospettata la via del quotidiano politico di massa, un tentativo ambizioso che però ha trovato sulla propria strada imprevedibili incongruenze finanziarie. Quando Macaluso si è ripreso la scena si era pensato che le tempeste procedurali potessero gradualmente acquietarsi. Ora invece anche chi scrive è chiamato a un particolare atto di vicinanza e sostegno nei confronti dei colleghi. Nella convinzione che ancora una volta saranno i giornalisti a risvegliare una politica distratta dai propri sbadigli.