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Il potere non corrompe

he di cronac

gli uomini; tuttavia se arrivano al potere gli sciocchi, corrompono il potere

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George Bernard Shaw di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 5 APRILE 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Rapporto shock di Bankitalia

Il partito travolto dallo scandalo

Italia, la famiglia sotto reddito

Lega, la famiglia sotto accusa

La crisi attacca i nuclei italiani: redditi giù del 4%. Monti e Fornero trovano un buon compromesso sul reintegro di Marco Scotti

ROMA. Le sensazioni negative c’erano già tutte. Le famiglie avvertivano con certezza di aver perso una parte importante del proprio potere d’acquisto. Senza lasciar spazio a retoriche trite come “la crisi della quarta settimana”, la contrazione del reddito a disposizione degli italiani era ormai una certezza. Che ora viene suffragata dalla pubblicazione dell’ultima indagine di Bankitalia che certifica, in modo incontrovertibile, questa situazione. Il lavoro svolto fin qui dal governo Monti è stato importante e coraggioso, ma è ormai assodato che serva di più per restituire alle famiglie italiane quella tranquillità che ormai sembra un autentico miraggio. Il tutto, mentre l’Italia non riesce più a crescere in modo significativo. Ma analizziamo in dettaglio i risultati dell’indagine di Bankitalia, presentata ieri a Genova dal vice direttore generale Anna Maria Tarantola: «Durante la fase acuta della recessione, redditi crollati del 4 per cento a fronte di una riduzione del Prodotto interno lordo del 6 per cento». Circa 480mila nuclei hanno sostenuto un figlio convivente e senza lavoro. «Ma attenti: il “tesoretto familiare” sta iniziando a ridursi». a pagina 2 EURO 1,00 (10,00

Ascoltata come persona informata sui fatti una delle segretarie di Bossi. Il figlio Renzo: «Mai preso soldi dal Carroccio».

IL FUTURO DEL PROFESSORE

di Marco Palombi

L’abilità del premier (che ora pensa al dopo 2013) di Errico Novi e Monti fosse un allenatore di calcio sarebbe un italianista di ritorno: pochi ghirigori, molti gol. Viene da pensarlo a osservare la compostezza con cui questo signore mette in fila una riforma dopo l’altra. Procede come se tutto fosse normale, come se governare così costituisse la più naturale delle condizioni. E invece la storia è un’altra, com’è noto. È stata un’altra storia fino alle complesse vicissitudini che hanno portato il Professore a Palazzo Chigi. Nell’intervista pubblicata ieri dalla Stampa, Monti espone con chiarezza l’obiettivo primario dell’Italia: riportare la fiducia nei possibili investitori stranieri e in quegli stessi imprenditori italiani sempre più tentati di delocalizzare. a pagina 5

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CON I QUADERNI)

• ANNO XVII •

NUMERO

ROMA. Magari il paragone non gli farà piacere, ma la reazione di Bossi all’ennesimo scandalo che attraverso l’ex tesoriere Belsito, dimessosi martedì sera - travolge la Lega, e stavolta persino lui e la sua famiglia, è una via di mezzo tra lo Scajola della casa al Colosseo pagata da altri “a mia insaputa” e il Silvio Berlusconi delle “toghe rosse” e via insultando. «Vogliono colpire la Lega e quindi colpiscono me, mi sembra che sia iniziata la prossima campagna elettorale», ha infatti messo a verbale con l’Ansa il senatur in una telefonata che è stata finora la sua unica uscita pubblica sull’argomento; dall’altro lato, però, Bossi ha anche avvertito che denuncerà “chi ha utilizzato i soldi della Lega per sistemare la mia casa: io non so nulla di questa cose e d’altra parte avendo pochi soldi non ho ancora finito di pagare le ristrutturazioni di casa mia” (con l’aggiunta “non sono mai stati spesi soldi della Lega per ristrutturare casa mia”, ma allora chi dovrebbe denunciare? Il capo del Carroccio comunque è sotto botta e dentro il partito non sono pochi a pensare che se lui è all’oscuro di tutto, il discorso non vale necessariamente per la sua famiglia. a pagina 6 67 •

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• CHIUSO

PARLANO BARBERA E CAPOTOSTI

«Solo una legge sulla trasparenza può salvare la politica» di Francesco Lo Dico

ROMA. In materia di finanziamento ai partiti, sono depositate tra Montecitorio e Palazzo Madama sette proposte di legge. L’ultima, presentata poco più di un mesa fa sull’onda dello scandalo Lusi, porta la firma del leader dell’Udc, Casini. Aveva già registrato la buona accoglienza di Bersani e Angelino Alfano, e l’impegno comune dei tre segretari a vararla in tempi strettissimi. Da allora la maggioranza è stata assorbita da complicate convergenze sulla riforma del lavoro. Ma l’ultimo scandalo che ha coinvolto anche il tesoriere della Lega, Belsito, in una vicenda dai contorni poco chiari, chiarisce che al di là delle responsabilità individuali, il sistema va cambiato. a pagina 8

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 5 aprile 2012

la crisi italiana

Il vice direttore Anna Maria Tarantola: «Le risorse sono venute non solo dagli stipendi dei genitori, ma anche dalle pensioni»

La crisi non tiene famiglia Allarme di Bankitalia: «Durante la fase acuta della recessione, redditi crollati del 4% a fronte di una riduzione del Pil del 6%». Circa 480mila nuclei hanno sostenuto un figlio convivente e senza lavoro. «Ma attenti: il “tesoretto familiare” sta iniziando a ridursi» di Marco Scotti

ROMA. Le sensazioni negative c’erano già tutte. Le famiglie avvertivano con certezza di aver perso una parte importante del proprio potere d’acquisto. Senza lasciar spazio a retoriche trite come “la crisi della quarta settimana”, la contrazione del reddito a disposizione degli italiani era ormai una certezza. Che ora viene suffragata dalla pubblicazione dell’ultima indagine di Bankitalia che certifica, in modo incontrovertibile, questa situazione. Il lavoro svolto fin qui dal governo Monti è stato importante e coraggioso, ma è ormai assodato che serva di più per restituire alle famiglie italiane quella tranquillità che ormai sembra un autentico miraggio. L’ha ribadito il ministro Passera ancora ieri: serve tornare a crescere, puntando forte sulle eccellenze italiane e facendo ripartire quel motore dell’economia che si è ingolfato, a dire il vero, già prima dell’inizio della grande crisi globale. È, infatti, da almeno un decennio che l’Italia non riesce

più a crescere in modo significativo, totalizzando incrementi del Pil di qualche decimo di punto percentuale, ma senza mai avere quelle accelerazioni che hanno caratterizzato il nostro paese ancora negli ultimi anni del Millennio appena concluso. Ma analizziamo in dettaglio i risultati dell’indagine di Bankitalia presentata ieri a Genova dal vice direttore generale Anna Maria Tarantola.

Reddito familiare. Lo studio di Bankitalia ha sottolineato come nel biennio drammatico 2008-2009, in cui la crisi ha portato in maniera estremamente pesante i propri attacchi al nostro Paese, il reddito a disposizione delle famiglie si è ridotto del 4%, a fronte di una riduzione del prodotto interno lordo di circa il 6% complessivo. Si dirà, è una cosa normale: se la ricchezza prodotta dal Paese diminuisce, al contempo sarà inferiore anche quella a disposizione delle famiglie. Sbagliato. Nello stesso periodo preso in

esame da Bankitalia, infatti, gli altri big europei hanno sì avuto una contrazione del pil, ma analoga contrazione non si è verificata per le famiglie che, anzi, hanno potuto contare su una ricchezza lievemente superiore. Non basta, il numero di famiglie in situazione di povertà è aumentato di un punto percentuale in valore assoluto, ma di ben cinque punti nel solo

settore delle cosiddette famiglie giovani.

Ruolo della famiglia. Nel rammentare il ruolo della famiglia come principale ammortizzatore sociale del nostro Paese, Anna Maria Tarantola ha voluto esplicitare alcuni numeri davvero preoccupanti: almeno 480 mila famiglie hanno dovuto farsi carico di un figlio convivente

che nei dodici mesi precedenti aveva perso il lavoro. Una situazione che, immaginando un nucleo familiare medio composto da quattro persone, ha coinvolto quasi due milioni di persone. E, ammonisce il vicedirettore generale di Palazzo Koch, nemmeno le pesanti iniezioni di liquidità operate dalla Bce nel recente passato hanno permesso di ammortizzare gli effetti della crisi. Ancora, il rapporto di Bankitalia mostra che in una società come quella italiana – in cui i giovani preferiscono avere una stabilità lavorativa prima di costruire una famiglia – solo quelle persone che hanno preferito che passasse la buriana rimanendo dentro le mura domestiche hanno potuto reggere l’urto della recessione. Quei giovani, invece, imprenditori di se stessi che abbiano scelto di abbandonare la casa di famiglia hanno pagato a caro prezzo la loro decisione.

Welfare. Quale futuro può avere uno stato sociale che de-


la crisi italiana

5 aprile 2012 • pagina 3

Draghi: «Non abbassare la guardia» Da Francoforte, il leader della Bce sprona i governi ad «attuare le riforme e a produrre crescita» di Gualtiero Lami

ROMA. L’economia dell’Eurozona dovrebbe registrare una ripresa «moderata» nel corso del 2012 e i dati giunti da inizio marzo confermano che la congiuntura «si sta stabilizzando a livelli bassi». A riferirlo, ieri, è stato il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, in una conferenza stampa indetta dopo la riunione del consiglio direttivo della Bce, che ha anche confermato il tasso di rifinanziamento al minimo storico dell’1 per cento. L’inflazione resterà sopra il 2 per cento per il resto dell’anno, e scenderà sotto questa barra solamente all’inizio del prossimo anno. Di riflesso rimangono fermi anche i tassi sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi, rispettivamente all’1,75 per cento e allo 0,25 per cento. Secondo il numero uno della Bce, inoltre, i rischi per l’inflazione sono equilibrati mentre sulla crescita sono prevalenti quelli di un peggioramento anche a causa di possibili nuovi tensioni sul debito sovrano dell’Eurozona. «L’economia soffre ancora rischi al ribasso», ha detto Draghi. Proprio per questo, è piuttosto azzardato oggi parlare di una strategia di uscita dalle misure straordinarie dalla Banca centrale europea contro la crisi: «Sarebbe estremamente prematuro». L’Eurotower, che è la sede della Banca centrale europea, ha quindi confermato «che la congiuntura si sta stabilizzando a livelli bassi» lasciando così intendere che la crisi stia in qualche misura allentando la presa, ma Draghi ha anche ribadito, come detto, che la ripresa sarà «per il 2012 sarà comunque moderata».

«ai governi degli Stati membri dell’Eurozona di ritornare a posizioni di bilancio solide e di attuare riforme strutturali forti». Nel frattempo le condizioni di finanziamento registrate dalle banche dell’Eurozona «sono generalmente migliorate: c’è stato un generale aumento dell’attività di emissione e la riapertura di alcuni segmenti del mercato del funding».

Le condizioni di finanziamento delle banche sono dunque «generalmente migliorate»: «È aumentata l’attività di emissione e alcuni segmenti dei mercati di finanziamento si sono riaperti. La domanda

ta con contratti a breve termine e senza protezione», e per questa ragione servono riforme che «distribuiscano la flessibilità». Un mercato di lavoro di questa natura, ha spiegato Draghi, ha fatto sì che con l’arrivo della crisi i primi a perdere il lavoro siano stati i giovani, proprio perché sono i meno tutelati. «I Paesi di questo genere devono varare riforme che non solo liberino energie ma distribuiscano in modo più equo la flessibilità, ora concentrata tutta sulla parte giovane della popolazione». Infine, rispondendo alle domande di alcuni cronisti presenti alla conferenza stampa, Mario Draghi ha fatto un breve passaggio anche sullo spread: «I Paesi europei colpiti dalla crisi del debito hanno visto progressi sullo spread dallo scorso novembre, ma il lavoro non è finito».

L’inflazione, ha detto il numero uno dell’Eurotower, resterà sopra il 2 per cento per il resto dell’anno, e scenderà sotto questa barra solamente all’inizio del 2013

La corsa dei prezzi, quindi, inizierà a scendere solo all’inizio del 2013. I rischi per l’inflazione sono, però, equilibrati mentre sulla crescita sono prevalenti quelli di un peggioramento anche a causa di possibili nuovi tensioni sul debito sovrano dell’Eurozona. Anche alla luce di questo, quindi, la Banca centrale europea chiede manda alla famiglia il sostentamento di quei lavoratori atipici o saltuari che non possono godere di quelle tutele garantite ai dipendenti a tempo indeterminato? Domanda che si è posta Tarantola senza riuscire a trovare una risposta efficace. Inoltre, con il progressivo allungamento dell’età lavorativa dei genitori anziani, viene meno quella funzione dei nonni nella cura dei nipoti. E la conseguenza, certificata già da qualche tempo in Italia, è che non si fanno più figli proprio perché non si sa a chi affidarli, visto che la possibilità di accedere agli asili comunali non è scontata.

Debito. La società italiana ha da sempre potuto contare su un’attitudine al risparmio difficilmente riscontrabile in altri

di credito - ha comunque sottolineato Draghi - resta debole, alla luce di una rallentata attività economica e del processo in corso di riaggiustamento dei bilanci nel settore non finanziario». I dati di febbraio sulla moneta e sul credito «confermano un’ampia stabilizzazione e l’annullamento di un brutale e disordinato aggiustamento nei bilanci delle istituzioni creditizie». Toccato anche il nodo-flessibilità, secondo Mario Draghi troppo «concentrata sulla parte più giovane della popolazione», dunque andrebbe «distribuita più equamente». «L’attuale modello sociale europeo - ha sottolineato il leader della Banca centrale europea - deve essere modificato. Io credo nei valori dell’inclusione e della solidarietà, ma il modello che prevale in alcuni paesi e’ insostenibile». Draghi ha così spiegato che «la disoccupazione giovanile è particolarmente alta in quei Paesi dove c’è un mercato del lavoro “duale”, ovvero dove una parte dei lavoratori ha tutte le protezioni e l’altra, principalmente i giovani, viene assun-

Paesi evoluti come Germania o Usa. Nel 2010, infatti, le famiglie italiane possedevano una ricchezza media pari a circa otto volte il reddito percepito, in linea con paesi come Francia e Gran Bretagna. Insomma, per assurdo, sembra che gli italiani non stiano poi così male dal punto di vista della ricchezza a loro disposizione. E un altro dato potrebbe perfino far tirare un sospiro di sollievo, se non fosse che cela in realtà un’ulteriore difficoltà: il numero di famiglie indebitate è sceso nel periodo in esame dal 24 al 21%. Un numero che potrebbe far pensare che gli italiani siano in grado di camminare con le loro gambe ma che, ammonisce Bankitalia, è invece assai indicativo del ruolo giocato dalle banche: non minore ri-

Se infatti, nello specifico, si guarda alla situazione dello scorso novembre e a quella odierna, ha concluso Draghi, «ci sono stati progressi rilevanti sia dal lato dei conti pubblici e sia delle riforme, gli spread sul debito pubblico si sono notevolmente ridotti». Ma visto che nel complesso il risanamento non è ancora stato risolto, secondo il numero uno della Banca centrale europea, il prossimo passo decisivo è quello di «produrre crescita».

chiesta di finanziamenti, ma maggiore selettività da parte degli istituti di credito che, terrorizzati da quanto avvenuto negli Stati Uniti con il caso Lehmann Brothers, hanno preferito chiudere i rubinetti del

ma, piuttosto, a impedirne un’ulteriore contrazione. Il che significa che il sistema delle banche, messo continuamente sotto schiaffo dalle agenzie di rating da una parte e dall’Eba dall’altro, ha cercato di rimane-

Il numero di famiglie in situazione di povertà è aumentato di 1 punto percentuale in valore assoluto, e di ben 5 nel solo settore dei cosiddetti nuclei giovani credito, ingenerando però una spirale negativa per i consumi.

Liquidità. Ha fatto eco alla dottoressa Tarantola Salvatore Rossi, altro vicedirettore generale di Bankitalia che, intervenuto al convegno cui era presente anche Corrado Passera, ha spiegato che l’iniezione di liquidità della Bce non è servita a ridare credito alle famiglie,

re in piedi (oltre che con gli aumenti di capitale richiesti in misura massiccia nel biennio) attraverso il flusso di denaro a ridotto tasso d’interesse erogato dalla Bce. È evidente che non si possa più attendere: è necessario che il Governo, dopo una prima fase decisamente improntata al rigore per arginare l’esplosione dei tassi d’interesse sui titoli di stato italia-

ni, inizi a programmare un piano di crescita che coinvolga tutti i principali attori dell’economia italiana. La riforma del lavoro di cui tanto si è discusso, infatti, non potrà che essere una parte di un più ampio disegno in cui Monti e il suo esecutivo si impegnano a garantire crescita all’Italia. Che significa, nello specifico, una riduzione delle imposte sul lavoro dipendente e autonomo, una maggiore erogazione di credito, una più diffusa tutela dei lavoratori, un’ancora più efficace lotta all’evasione. Senza dimenticare il grande tema delle infrastrutture che darebbero slancio al Paese e creerebbero nuovi posti di lavoro. Se il premier riuscirà in questa autentica impresa, avrà definitivamente guadagnato un posto di rilievo nei libri di storia.


la crisi italiana

pagina 4 • 5 aprile 2012

Il ddl è stato trasmesso al Quirinale e alle Camere. Il governo: «Speriamo in un iter approfondito ma anche rapido»

Il compromesso

Articolo 18, rispunta il reintegro. Illustrata ieri da Monti e Fornero la riforma del lavoro. Il premier: «Raggiunto l’equilibrio tra crescita e occupazione». Il ministro: «Rafforzati i contratti a tempo indeterminato senza blindarli» di Francesco Pacifico

ROMA. La formula magica è «manifesta insussistenza». Necessaria per vincere le resistenze del Pd e della Cgil, superare le tensioni sociali e – soprattutto – per mantenere de facto l’applicazione dell’articolo 18 anche per i licenziamenti economici come chiesto da Pier Luigi Bersani e Susanna Camusso. Perché difficilmente si sarebbe approvata quella che Mario Monti definisce «una riforma epocale».

Inutile dire che sulle barricate sono finite le imprese. «Al Paese serve una buona riforma e che, piuttosto che una cattiva riforma, è meglio non fare alcuna riforma», il loro grido di dolore. Mentre i mercati riversano sul nostro Paese tensioni, non soltanto dovute alla crisi spagnole. Infatti a fine giornata lo spread tra il Btp e il Bund tedesco è risalito pericolosamente a 360 punti base. Una situazione che ha scatenato le ire del ministro Elsa Fornero: «Sono stanca di sentire

che in Italia non si investe perché c’è l’articolo 18. Perché se ritenevano che l’articolo 18 era un alibi per non investire, allora l’alibi allora è stato tolto». Certo, invece, l’appoggio dei partiti. Dal Pd l’ex ministro Cesare Damiano fa sapere: «Vedrò il testo, ma da quanto ho ascoltato e da quello che so, la modifica all’articolo 18 va nella giusta direzione». Ancora più soddisfatto è apparso il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Il governo ha lavorato bene in una materia difficile come quella del lavoro. Ha ascoltato le parti sociali, si è consultato con i partiti della maggioranza e poi ha deciso come e’ giusto che sia. Adesso ci apprestiamo al confronto parlamentare con costruttiva serenità». Secondo l’ex presidente della Camera, «c’è stato un ottimo lavoro collettivo ma in particolare mi sento di esprimere apprezzamento verso il ministro del Lavoro Elsa Fornero. Dalla previdenza al mercato del lavoro esprime certamente un altis-

simo tasso di produttività tra i ministri del governo». Parole che fanno ben sperare Mario Monti in un’approvazione rapida del testo. «Data l’autorevolezza dei tre leader, assicuri pur nel grande rispetto dell’insieme dei parlamentari un percorso sereno e per quanto possibile rapido», l’auspicio del premier. Ieri la riforma del lavoro – dopo la firma di Giorgio Napolitano – è arrivata in Parlamento con ultimo colpo di scena sul punto che ha più spaccato il mondo

Una mediazione che soddisfa il Pd: «Si va nella giusta direzione»

politico e le parti sociali. Il governo, smentendo in parte quanto annunciato nei giorni scorsi, ha applicato alla realtà italiana il modello tedesco nella maniera più estesa, dando al giudice la facoltà di scegliere tra indennizzo e reintegro anche per i lavoratori licenziati per causa oggettiva. Nel testo, infatti, è scritto Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero ha spiegato che «l’articolo 18 per i licenziamenti discriminatori deve restare e va raffor-

zata, visto che risponde al dettato dell’articolo 3 della Costituzione. Poi c’è il licenziamento per la causa disciplinare che non dà diritto al reintegro ma al giudice la facoltà di scegliere sulle base delle argomentazioni fra reintegro e indennizzo, da 12 a 24 mensilita. C’è poi il licenziamento oggettivo per cause economiche e il nostro disegno di legge prevede che per manifesta insussistenza’ del motivo economico il giudice possa decidere il reintegro». Che sarebbe andata in questa direzione, lo si è capito già in tarda mattinata, quando i rappresentanti delle imprese hanno diffuso una nota molto dura: «L’impianto complessivo della riforma già irrigidisce il mercato del lavoro riducendo la flessibilità in entrata e abolendo, seppur gradualmente, l’indennità di mobilità, strumento importante per le ristrutturazioni aziendali. Queste maggiori rigidità trovavano un logico bilanciamento nella nuova disciplina delle flessibilità in uscita».


5 aprile 2012 • pagina 5

Si può rinunciare a una guida che in pochi mesi ha raggiunto obiettivi inseguiti da altri per anni?

L’abilità del Professore (che ora pensa al dopo 2013)

Risolve brillantemente ogni questione. E per la prima volta accenna all’eventualità che la sua esperienza di governo possa ripetersi di Errico Novi e Monti fosse un allenatore di calcio sarebbe un italianista di ritorno. Di quelli che predicano un gioco essenziale ma proficuo: pochi ghirigori, molti gol. Viene da pensarlo a osservare la compostezza con cui questo signore mette in fila una riforma dopo l’altra. Procede come se tutto fosse normale, come se governare così costituisse la più naturale delle condizioni. E invece la storia è un’altra, com’è noto. È stata un’altra storia fino alle complesse vicissitudini che hanno portato il Professore a Palazzo Chigi. Nell’intervista pubblicata ieri dalla Stampa, Monti espone con chiarezza l’obiettivo primario dell’Italia: riportare la fiducia nei possibili investitori stranieri e in quegli stessi imprenditori italiani sempre più tentati di delocalizzare. Lui, il premier, dice al direttore del quotidiano torinese Mario Calabresi che bisogna soprattutto saper essere «prevedibili». Che è un meraviglioso eufemismo per dire «affidabili». Ma appunto, se l’appeal del Paese è legato al suo grado di coerenza e di tenuta nelle scelte economiche, il senso ultimo della filosofia di governo montiana coincide abbastanza con lo spirito delle liberalizzazioni: ossia, compiere lo sforzo necessario, e il più semplice possibile, per liberare tutto il potenziale. Fare poco, alleggerire, per essere forti, efficaci. In ultima analisi, per tornare a crescere.

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C’è una tecnica di cui Monti parla poco anche nella conversazione con Calabresi, ma che informa evidentemente tutta la sua azione. E quella tecnica consiste nel saper accantonare le bandierine. Se si vuol ragionare di ostacoli che soffocano il potenziale, bisogna mettere al primo posto proprio la politica dei simboli. Nonostante parossismi come le assurdità pronunciate ieri da Di Pietro sui suicidi, Monti è riuscito a ottenere che le bandierine sventolassero molto meno di prima. Se ne ha una prova straordinaria proprio con la riforma del lavoro. La più difficile perché assai più controversa nelle pregiudiziali di partenza. Monti è riuscito a fare in modo che i partiti, il Pdl e il Pd in particolare, si liberassero di gran parte delle rispettive intransigenze. Ha ottenuto che si attenuasse la tendenza a leggere ogni scelta di governo sotto la lente della propaganda. È evidente che il Professore può riuscirci perché non storicamente coinvolto nell’agone politico. Ma pare cominci a chiarirsi a tutti, una volta per sempre, che il vecchio modo di concepire il confronto, incardinato attorno ai rispettivi

totem, è sbagliato, da superare. Oltre alla predetta qualità, che magari è più immediatamente riconducibile alla natura ”tecnica” della leadership montiana, c’è un altro aspetto decisivo, dietro i successi e i riscontri internazionali ottenuti da questo premier: l’approccio temperato alle politiche riformatrici. I partiti dovrebbero apprezzare soprattutto il fatto che Monti è riuscito in tutti i principali passaggi della sua iniziativa a intervenire sempre con misura, con rispetto delle diverse posizioni. Cioè il Professore ha messo in campo una “via italiana alle riforme”: fatta di concretezza che consi-

Difficile credere che futuri esecutivi di larghe intese possano rinunciare a una leadership così risolutiva

ste anche nella capacità di misurare i colpi. È stato così per il Salva Italia, per il quale ha forse ha pesato un clima particolarmente emergenziale, e soprattutto per le liberalizzazioni e le semplificazioni varate ieri in via definitiva. È così anche per il disegno di legge sul lavoro presentato ieri insieme con Fornero.

Sempre nell’intervista alla Stampa, ma anche nella conferenza stampa con Fornero, Monti si compiace in anticipo del fatto che potrà, probabilmente, guardare da fuori in futuro a nuove forme di larghe intese, a nuovi governi di unità nazionale. È convinto – e lo fa intendere quando parla di «pedagogia» necessaria in direzione esterna e sul piano nazionale – che i partiti non deraglieranno più dalla linea scelta con la sua nomina a Palazzo Chigi. Non farà più il presidente del Consiglio, dice. Ma davvero andrà così? Sembra, il suo modo di porre la questione, l’unico possibile per una figura così discreta, anche se dietri si intravede una sostanziale apertura. E poi: davvero il Paese può permettersi di non approfittare più di questo signore, della leggerezza con cui introduce piccole rivoluzioni? Più precisamente, la domanda è: se è vero, come afferma il premier, che il Paese lega molte sue chances alla capacità di essere «prevedibile», è abbastanza chiaro che proprio questa prevedibilità può consentirgli anche di disinnescare certe pulsioni ultra-recessive diffuse in Europa. Se infatti, anche in un giorno che segna il varo del ddl lavoro e la conversione definitiva del decreto semplificazioni, resta ancora un’ombra, questa è legata alle ipotesi di ulteriori politiche rigoriste avanzate a Bruxelles (e a Berlino). Sono le eventuali nuove «azioni di bilancio» suggerite secondo il Financial times dalla Ue che pregiudicano il futuro dell’Italia. Fossero davvero questi gli orientamenti dell’Europa, l’Italia rischierebbe di veder mortificati gli sforzi compiuti finora. Solo una figura autorevole come quella di Monti può effettivamente garantire all’Italia sufficiente peso perché si possa spingere in direzione diversa. Il premier ha convinto i suoi interlocutori asiatici che l’Italia è decisiva per il futuro dell’Eurozona, come lui stesso dice a Calabresi. Bene, l’Italia sarà decisiva per un’Europa non più in recessione se riuscirà a spingere per politiche meno rigoriste e più rivolte alla crescita. Monti è forse il solo leader in grado di ottenere tale risultato. E questa da sola è un’ottima ragione per sperare che nel 2013 non resti a guardare da fuori.

Ergo, «le modifiche che si prospettano sulla stampa vanificano il difficile equilibrio raggiunto e rischiano di determinare, nel loro complesso, un arretramento piuttosto che un miglioramento del nostro mercato del lavoro e delle condizioni di competitività delle imprese, rendendo più difficili le assunzioni». Oltre all’aumento dei costi e all’irrigidimento introdotto per scoraggiare il ricorso ad alcune forme di flessibilità, le imprese temono soprattutto un aumento della discrezionalità nel giudizio dei magistrati. Un rischio che secondo il ministro non sussiste, perché «il magistrato valuta se sono rispettate le procedure di legge, non sindaca sullo stato economico delle imprese». Al riguardo l’economista torinese suggerisce di sviluppare soprattutto una parte del modello tedesco e di attivare, come prevede proprio la sua riforma, «la procedura di conciliazione nella quale si cerca di vedere se c’è una ragionevolezza nel licenziamento e le parti si accordano». Respinge le critiche delle imprese anche Monti: «Abbiamo fornito un quadro più stabile, eliminato sacche di discrezionalità. E riteniamo che le imprese italiane e straniere considereranno di fare investimenti in Italia più favorevolmente perché avranno un ambiente delle condizioni di lavoro più prevedibile e questo non andrà a scapito del lavoratore ma a vantaggio del lavoratore».

Si spengono quindi le tensioni delle scorse settimane, anche se non si possono escludere del tutto cambiamenti in corso d’opera. Proprio le correzioni sull’applicazione dell’articolo 18 potrebbero spingere il Pdl a chiedere delle compensazioni sulla stretta decisa dalla Fornero contro la cattiva flessibilità e che ha finito anche per intaccare lo schema della Biagi. Per non parlare del fatto che da sinistra potrebbero registrarsi malumori sul tetto massimo degli indennizzi (24 mesi e non più 27) e l’esiguità delle risorse per il nuovo ammortizzatore sociale Aspi (1,8 miliardi). Anche su questo punto il ministro respinge le critiche. Prima ha sottolineato che «la riforma del lavoro ha un obiettivo prevalente: è quello di fare del contratto stabile la forma di contratto dominante». Quindi ha aggiunto: «Gli imprenditori siano contenti e guardino all’interezza della riforma e alla maggiore flessibilità che introduce. Abbiamo eliminato il “causalone” per il primo contratto a tempo determinato. Questa è una liberalizzazione importante per il tipo di questi contratti, che non abbiamo eliminato e blindato e che porta a un taglio della burocrazia, dei costi. E dà flessibilità».


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la crisi padana

Via libera da Fini al sequestro dei documenti dell’ex tesoriere. Napolitano chiede una legge sulla trasparenza nei bilanci

La Lega nega

Renzo Bossi fa quadrato: «Né io né papà abbiamo preso soldi dal partito». Ascoltate dai magistrati la segretaria del senatùr e una dirigente del Carroccio A sinistra, uno scatto di Umberto Bossi insieme con suo figlio Renzo. In basso, un’immagine dell’ex ministro degli Interni, il leghista Roberto Maroni. A destra, la foto di un giovane Bossi e il condottiero Vercingetorige

di Marco Palombi

ROMA. Magari il paragone non gli farà piacere, ma la reazione di Bossi all’ennesimo scandalo che attraverso l’ex tesoriere Belsito, dimessosi martedì sera - travolge la Lega, e stavolta persino lui e la sua famiglia, è una via di mezzo tra lo Scajola della casa al Colosseo pagata da altri“a mia insaputa”e il Silvio Berlusconi delle “toghe rosse” e via insultando. «Vogliono colpire la Lega e quindi colpiscono me, mi sembra che sia iniziata la prossima campagna elettorale», ha infatti messo a verbale con l’Ansa il Senatur in una telefonata che è stata finora la sua unica uscita pubblica sull’argomento; dall’altro lato, però, Bossi ha anche avvertito che denuncerà “chi ha utilizzato i soldi della Lega per sistemare la mia casa: io non so nulla di questa cose e d’altra parte avendo pochi soldi non ho ancora finito di pagare le ristrutturazioni di casa mia” (con l’aggiunta “non sono mai stati spesi soldi della Lega per ristrutturare casa mia”, ma allora chi dovrebbe denunciare?). Il capo del Carroccio comunque è sotto botta e dentro il partito non sono pochi a pensare che se lui è all’oscuro di tutto, il discorso non vale necessariamente per la sua famiglia. L’eco di questo sospetto è rintracciabi-

le anche in alcuni commenti pubblici di area, per così dire,“maroniana”: «Su Umberto Bossi non c’è dubbio alcuno, non c’entra nulla, ne sono arciconvinto” dice ad esempio l’europarlamentare Matteo Salvini, che poi significativamente aggiunge che “se qualcuno ha sbagliato e usa anche solo un centesimo di euro della Lega e dei contribuenti italiani sarà cacciato fuori a calci, noi prescindiamo da nomi e cognomi».

Il clima è plumbeo. E dal Colle non può che arrivare un richiamo forte affinché si approvino «leggi di trasparenza sulla vita dei patiti». Recente è una propo-

gnora Marrone, coniugata Bossi, madre del Trota. Basta interpretare le dichiarazioni: “Io sono convinto che Bossi sia al di sopra di queste questioni e se anche ci fosse qualcosa, credo che Bossi non fosse al corrente”, dice Attilio Fontana, sindaco di Varese. Stesso discorso vale per il primo cittadino di Verona, Flavio Tosi, che è tosiano più che maroniano, ma segue la linea degli altri: «Su Bossi metterei la mano sul fuoco: ha uno stile di vita parco. Su altri non ho abbastanza conoscenza per poterlo fare». Tutte parole in cui a urlare è quello che manca. Non è tanto il senatur, infatti, ad essere nel mirino dei pm

Nel pomeriggio ha parlato Rosi Mauro, anche lei finitita nell’inchiesta: «Smentisco categoricamente tutte le notizie riguardanti la sottoscritta riportate dalla stampa. Sono infondate» sta di tal genere presentata dall’Udc. Intanto andrà chiarito l’esito del confronto durissimo in corso nel Carroccio. La linea dei seguaci dell’ex ministro dell’Interno è tenere fuori il Senatur, fargli fare magari la figura dell’anziano un po’svampito, e puntare dritti sul cerchio magico e sulla donna che lo governa, la si-

di Milano, quanto la famiglia, nel senso dei figli e di Rosi Mauro, capo del sindacato padano (Sinpa) e vicepresidente del Senato, detta “la badante” per il ruolo di guardiana del leader assunto dopo la malattia di Bossi. Le voci nei palazzi romani e milanesi impazzano: Belsito ha pagato la campagna elettorale di Renzo e

della Mauro, un’azienda agricola ad un altro figlio, vacanze a tutti, la ristrutturazione di casa per la signora Marrone.Tutti dettagli, dicono i boatos, contenuti in un precisissimo rapporto dei carabinieri del Noe. In attesa delle carte e del loro vaglio da parte di un giudice - va detto che a parte Belsito, nessun leghista e nessun Bossi risulta ancora indagato - ieri è stata la giornata delle smentite. Il primogenito Riccardo, figlio della prima moglie del senatur, già beneficiato di qualche lavoretto con stipendio pubblico all’europarlamento, s’è affrettato a tirarsi fuori: «Io personalmente di soldi da Belsito non ne ho mai ricevuti, mi occupo di altre questioni, sono impegnato solo nello sport e sono fuori da tutte le cose del partito. Su mio padre metto la mano sul fuoco, se poi persone intorno a lui si sono comportate male non lo so». Più formale la dichiarazione di Rosi Mauro: «Smentisco catego-


la crisi padana ricamente tutte le notizie riguardanti la sottoscritta riportate dalla stampa. Le accuse nei miei confronti e nei confronti del Sinpa, il sindacato padano che ho contribuito a fondare e che mando avanti con assoluta serietà e trasparenza, sono del tutto infondate». Anche Renzo Bossi, infine, ha voluto mettere a verbale il suo «io non c’entro»: «Sono sereno, non ho mai preso soldi dalla Lega, né in campagna elettorale e neppure adesso da consigliere regionale. Come tutti i miei colleghi do una percentuale al movimento e come tutte le persone mi pago le spese della macchina e vivo in affitto - ha aggiunto il Trota - Ho fiducia nella giustizia, perché so che di soldi non ne ho presi dalla Lega e quindi a ogni domanda verrà data la giusta risposta”.

A ben guardare, però, Renzo Bossi - il candidato del cerchio magico (e della madre) alla successione del malandato genitore - ha voluto dire qualcosa in più, qualcosa che può essere definito come un tentativo di difesa di Belsito: «I bilanci della Lega non sono opachi (così li hanno definiti i magistrati, ndr): i bilanci ci sono, c’è un consiglio federale, ci sono e ci sono sempre stati i probiviri che hanno potere di controllo sull’amministratore della Lega, non è che il tesoriere faceva quello che voleva, è sempre stato controllato». Una difesa, come si vede, ma non solo: diciamo una chiamata di correo. Se Belsito ha prodotto “bilanci opachi”, gli organi di partito sono colpevoli di omesso controllo se non peggio. «Questo è ancora niente rispetto al fango che arriverà quando saranno più chiari i fatti», spiega un dirigente per il momento fuori dalle correnti. Una prima puntata potrebbe essere il Consiglio federale convocato da Bossi proprio per oggi dopo la segreteria del partito tenutasi ieri: bisognerà probabilmente anche scegliere il nuovo tesoriere, stavolta “un personaggio che rappresenti tutti” come dicono i maroniani, cioè qualcuno che a differenza di Belsito e del suo predecessore Balocchi non risponda solo alla signora Marrone e ai suoi “colonnelli”. Intanto le tre procure interessate - Milano, Napoli e Reggio Calabria - continuano a lavorare: ieri hanno interrogato nuovamente la segretaria di Bossi e un’altra funzionaria amministrativa e previsto un nuovo incontro di coordinamento subito dopo Pasqua. Anche Montecitorio è stata coinvolta dalle indagini nonostante Belsito non sia deputato. Il tesoriere della Lega aveva infatti in uso una stanza con cassaforte in un palazzo della Camera e i magistrati lombardi e napoletani ne hanno chiesto il sequestro: Fini, con l’avallo del capogruppo lumbard (il maroniano Dozzo), ha concesso il via libera. Ora c’è un problema: quale delle due Procure procederà al sequestro?

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Da noi purtroppo è diventato un malcostume cronico

Vercingetorige: il primo “leghista” a prendere soldi dai suoi per farsi casa

Che tristezza: il potere corrompe (quasi) tutti

Da Avarico a Belsito il cerchio celtico chiude in bellezza

di Giancristiano Desiderio

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

a massima più nota di Giulio Andreotti recita: «Il potere logora chi non ce l’ha». Però, siccome è una frase ironica, dice il contrario di quanto dice: il potere corrompe chi ce l’ha. Allora, non c’è rimedio? Non è vero. La storia di questo Paese è ricca di uomini politici e di Stato dunque, di potere - che non sono stati neanche sfiorati dalla corruzione. Del primo presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, si ricorda che il cappotto che indossava era “rivoltato”. Un presidente del Pli, e ministro della Pubblica istruzione, Salvatore Valitutti, morì nella sua casa romana che aveva preso in affitto. Il potere corrompe chi si lascia corrompere o non sa usare il potere. Questo, a ben vedere, è il “delitto”più grave. Montanelli diceva una cosa molto vera e molto amara: noi italiani corrompiamo anche il potere. È questo il caso della Lega? Sono propenso a togliere il punto interrogativo. La Lega - e Bossi - è un partito che si è presentato sulla scena pubblica come il Rimedio di ogni male. È stato il partito onesto contro i partiti disonesti, il partito efficiente contro i partiti inefficienti, il partito del Nord operoso e trasparente contro i partiti del Sud sfaticato e omertoso. La Lega per (auto) definizione ce l’aveva duro. Ma questa durezza a cosa è servita?

l popolo padano è in lacrime. Rabbia, frustrazione e senso di tradimento aleggiano sui copricapo cornuti che tanto avevano allietato le feste popolar-partitiche del verde in stile Lega. Folle un tempo adoranti adesso, passando davanti a via Bellerio, non possono fare a meno di urlare “ladri”. E il senso di una grande beffa della storia, la vecchia storia dei censori censurati, dà la cifra di quanto possa soffrire oggi il partito che un tempo vedeva nella capitale italiana “una ladrona”. Salvo poi mangiare il mangiabile, e tanti saluti. Per quanto si voglia dare il beneficio del dubbio al deputato tesoriere – che non ha un imprinting propriamente celtico – basta la mancanza di smentite per far pensare che i fondi elettorali gestiti dalla Lega sono (forse) finiti nei mattoni di casa Bossi. Il quale rispolvera il mitico “a mia insaputa”e annuncia querele per chi «ha usato quei soldi per ristrutturare casa mia». Scajola, fatti più in là. Eppure, in tutta questa storia aleggia un sospetto ancora più atroce: ovvero che il glorioso popolo padano – che fa ascendere la propria dignità storica nientepopodimeno che al formaggio grana – non conosca poi troppo bene la Storia (questa sì, con tanto di maiuscola) di quei popoli cui fanno eterno riferimento. Celti, biturigi, arverni, edui: in una parola, galli. Quei galli che tanti problemi posero al più grande dei generali romani, Caio Giulio Cesare, e che alla fine uscirono sconfitti con enorme onore dal confronto con la maggior potenza dell’epoca. Leggendo i commentari del futuro dittatore, scopriamo infatti che fu proprio per rispondere all’avanzata romana che le numerose tribù della Gallia decisero – una prima assoluta – di unirsi e porre un fronte comune contro Roma. A guidare questa coalizione – che aveva come slogan “Uomini liberi in un Paese libero” e che tanto fa pensare a Pontida – venne eletto Vercingetorige: capo arverno, giovane e benedetto dai Druidi. Il quale, come prima mossa, si prese le casse comuni tribali senza chiedere niente a nessuno per costruire il suo palazzo-fortezza di Alesia. E fu proprio per prendere quest’ultima roccaforte, costruita appunto con i soldi della “base” gallica, che Cesare dovette impegnare buona parte del suo esercito (quasi sei intere legioni) e molti mesi di sfiancante assedio.

L

Non è il caso di far dell’ironia cioè di fare finzioni calcolate e pedagogiche. Qui è il caso di dir le cose come stanno: la Lega è stato un pessimo partito di governo. O erano sbagliate le promesse (sul futuro) o erano sbagliate le critiche (sul passato) o erano sbagliati gli uomini (del presente). Comunque sia, resta il fatto, politico e storico, che la Lega ha mancato il suo appuntamento con la storia della Repubblica italiana. Un tesoriere corrotto e inefficiente - o troppo efficiente? - si cambia, ma come si fa a cambiare un’intera classe dirigente e una fallimentare politica di governo senza dichiarare la bancarotta politica e umana del partito? Le idee di Gianfranco Miglio si potevano condividere o non condividere ma erano idee che furono liquidate da Bossi come «scorregge nello spazio». Ancora una volta: lasciamo perdere le volgarità. Ma ancora una volta resta in evidenza il fatto che il partito dell’Anti-sistema è diventato il partito integrato nel Sistema, integrato a tal punto che proprio il partito del cambiamento è diventato il partito dell’immobilismo che non mira a governare ma, prima di tutto, a conservare le cose così come stanno perché ora al potere ci siamo noi. Eccolo qui il motivo del potere corruttivo del potere spinto a tal punto da diventare una corruzione dello stesso potere che diventa così inutile: la insostituibilità o l’incapacità di lasciarlo. La corruttela non è del potere - questo è perfino banale dirlo - ma di chi lo esercita senza un fine che non sia la sua usurante conservazione. Il più delle volte la corruzione o i cattivi costumi e la differenza tra la maschera e il volto hanno la loro ragion d’essere negli uomini che sono diventati indegni di esercitare il potere e che vi permangono anche in forza o proprio in forza del loro personale e storico fallimento. È una verità che solo in parte ci riscatta perché è amara e, senza ipocrisie, sentiamo battere alla porta della più grande storia nazionale.

I lumbàrd hanno mancato il rendez-vous con la Storia. Da partito dell’Anti-sistema sono divenuti il partito integrato nel Sistema

I

A differenza del re della Gallia unita, il Senatùr non ha costruito una fortezza. Peccato, perché l’avrebbe potuta usare subito

Oggi leggiamo sui giornali minacce, smentite, annunci; querele, insulti, mozioni; spiegazioni vane e spiegazioni irreali. L’ombra della ‘ndrangheta oscura i prati verdi del Nord lavoratore, e le percentuali di voto si abbassano con il ritmo di un termometro al Polo. E l’unico partito sopravvissuto a Tangentopoli – in effetti lanciato nell’agone nazionale proprio dalle indagini di Di Pietro & co. – rischia di finire proprio per uno scandalo legato alle malversazioni. Se invece avessero più conoscenza della propria presunta storia, i leghisti avrebbero avuto la soluzione perfetta per questa brutta storia: barricarsi in casa Bossi, incoronarlo re di tutte le tribù e sfidare Monti (o i pubblici ministeri) a vincere l’assedio.


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ROMA. In materia di finanziamento ai partiti, sono depositate tra Montecitorio e Palazzo Madama sette proposte di legge. L’ultima, presentata poco più di un mesa fa sull’onda dello scandalo Lusi, porta la firma del leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. Aveva già registrato la buona accoglienza di Pier Luigi Bersani e Angelino Alfano, e l’impegno comune dei tre segretari a vararla in tempi strettissimi. Da allora la maggioranza è stata assorbita da complicate convergenze sulla riforma del lavoro. Ma l’ultimo scandalo che ha coinvolto anche il tesoriere della Lega, Francesco Belsito, in una vicenda dai contorni poco chiari, chiarisce che al di là delle responsabilità individuali, il sistema va cambiato.

Nella proposta di legge centrista, la salvaguardia della trasparenza passa da alcuni punti essenziali. Innanzitutto, attraverso la disciplina di accesso ai rimborsi elettorali. Affinché i partiti possano usufruirne, i partiti dovrebbero sottoporre i bilanci annuali, preventivi e consuntivi, alla Corte dei Conti. E inoltre, i beni immobili e mobili dovrebbero essere intestati direttamente ai partiti e non a singole persone fisiche. In sintesi, tutte le risorse devono essere destinate in via esclusiva agli scopi del partito. La strada giusta per evitare un ennesimo caso Lusi, o un altro affaire Belsito, visto e considerato che i partiti italiani sono scesi al minimo storico di fiducia? «La questione rimborsi», spiega a liberal Augusto Barbera, già ordinario di Diritto costituzionale all’Alma Mater di Bologna, «è molto semplice e può essere risolta nella famosa settimana di cui hanno parlato Bersani e Casini. Essi sono stati introdotti in seguito al referendum che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti nel 1993, ma in realtà sono serviti, legge dopo legge, a eludere la volontà popolare. Fare una buona legge in materia significa quindi legare i rimborsi a delle spese effettive che devono essere obbligatoriamente rendicontate in base al principio della massima trasparenza. Non sono necessarie complicate elucubrazioni: occorre una legge che stabilisca, in sintesi, un solo concetto: non si può fare la cresta sui soldi pubblici. Prendiamo l’espressione sul serio: i rimborsi tornino a essere rimborsi». La vicenda del tesoriere leghista, sembra aver impresso un’ulteriore accelerata al cambiamento. «Ora che i partiti sembrano concordare su una riformulazione della legge», commenta il costituzionalista, «si può pensare a una legge fondata su un programma minimo, o a una, preferibile, che punti a un obiettivo ottimale. Nell’ottica di un intervento “minor”, è necessario intervenire su un doppio asse: l’obbligo di rendicontazione delle spese e

la crisi padana

«Partiti, vi potete

di Francesc

Senza trasparenza e regole certe sul finanziamento la politica rimarrà senza i suoi vecchi protagonisti

Barbera: «Serve un doppio asse: rendicontazione delle spese e certificazione del bilancio» A sinistra, Lusi. Nella pagina a fianco, Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega. In alto, Augusto Barbera e Piero Alberto Capotosti

la certificazione del bilancio da parte di una società di consulenza esterna, sulla scorta di quanto fa da tempo, unico in Italia, il Partito democratico». E se si dovesse puntare a un traguardo più ambizioso? «Nell’idea di realizzare una legge pienamente soddisfacente», riflette Barbera, «sarebbe opportuno conferire ai partiti personalità giuridica di diritto privato. I partiti avrebbero così l’obbligo di certificare il bilancio proprio come avviene per le società commerciali. Sarebbe un obiettivo apprezzabile». Eppure in molti hanno indicato un’altra via d’uscita. Trasformare i partiti in soggetti diritto pubblico. Un’opzione meno convincente? «Trasformare i partiti in enti pubblici sarebbe inquietante, perché li riporterebbe a una condizione già esperita al tempo del regime fascista e del partito comunista sovietico. I partiti devono infatti possedere un doppio volto: uno rivolto allo Stato e uno che guarda alla società. Ed eventuali correttivi in senso pubblico porterebbero a uno sbilanciamento in grado di alterare la loro


la crisi padana

salvare solo così»

co Lo Dico

sparenza nei confronti dei cittadini». E in tema di opacità, il pensiero non può che correre ai molti clamori suscitati in tutta Italia dalle tessere false. L’Udc propone sotto questo aspetto un albo degli iscritti. Direttamente consultabile. E cioè pubblico. «È naturale», conclude Augusto Barbera, «che l’albo abbia particolare importanza per quei soggetti politici che vogliano introdurre o continuare a fare le primarie. Ma più in generale mi sembra una buona soluzione per ridurre gli abusi che pare siano stati compiuti in maniera crescente negli ultimi anni, nel caso delle presunte tessere false. Una soluzione utile, laddove alcuni partiti hanno più tessere che iscritti».

Piero

funzione di congiunzione tra la politica e gli elettori. Naturalmente esistono però alcune funzioni dei partiti che sono eminentemente pubbliche come la presentazione delle liste e la raccolta delle firme a supporto delle candidature che qui da noi è disciplinata dalla legge. Esse andrebbero sottoposte a un regime pubblicistico proprio come avviene in Germania, dove le assemblee che designano i cnadidati sono monitorate da una sorta di notaio». Ma il vero nodo della riforma passa dalla disciplina dei rimborsi, perché senza regole certe la questione diventa la solita commedia all’italiana. «Una buona legge sul finanziamento», annota il giurista, «dovrebbe condizionare la fruizione dei rimborsi elettorali a condotte trasparenti, ed escludere dal novero dei beneficiari quei soggetti che infrangono le regole. Non conosco la proposta di legge dell’Udc, ma il principio di impedire ai partiti di investire i soldi pubblici in operazioni finanziarie e speculative tipo Tanzania mi sembra condivisibile».

Capotosti: «I partiti devono essere chiamati a rispondere del denaro erogato dallo Stato» I contributi dei privati, nella versione Casini, devono essere certificati quando superano la soglia dei 5mila euro. Un buon argine contro operazioni sottobanco? «Tranne che per quote minime come le dieci o venti euro che possono essere versate da un simpatizzante», chiosa il professor Barbera, «sarebbe meglio che tutte le somme versate ai partiti venissero messe a bilancio. Non mi pare che questo andrebbe a ledere in modo sostanziale la privacy, visto che c’è di mezzo la superiore necessità di tra-

Alberto

Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale, sostiene che alla base della riforma dei partiti c’è un principio essenziale: «Essendo destinatari di fondi pubblici, i partiti dovrebbero essere dotati di strumenti in grado di consentire il controllo di bilancio. E devono essere chiamati a rispondere del denaro erogato dallo Stato per lo svolgimento dei loro compiti essenziali». In merito all’introduzione della responsabilità giuridica dei partiti, Capotosti precisa che l’attuale natura dei soggetti politici «differisce da quella prevista originariamente dai padri costituenti. A suscitare questo cambiamento è stato il finanziamento pubblico, che è sta-

5 aprile 2011 • pagina 9

to un elemento distorcente in grado di alterare lo status dei partiti come associazioni di diritto privato. Essendo destinatari di fondi pubblici, i partiti dovrebbero quindi essere dotati di strumenti in grado di consentire il controllo di bilancio. E sono chiamati a rispondere del denaro erogato dallo Stato per lo svolgimento dei loro compiti essenziali». «Con il referendum che abrogò nel ’93 il finanziamento », ricorda il presidente della Consulta, «i partiti misero a punto il meccanismo del rimborso. Ma lo stesso, a dispetto di alcune storture, dovrebbe essere finalizzato a nient’altro che la copertura delle spese». Capotosti concorda quindi che «occorre ridiscutere il meccanismo e depurarlo dalle attuali storture legate alla durata della legislatura, alla proporzionalità degli stessi in base ai risultati elettorali, e alla prassi della tesaurizzazione dei fondi incompatibile con la logica del recupero delle spese».


mondo

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La Casa Bianca ostenta sicurezza. Ma in caso di pollice verso su alcuni temi chiave, l’effetto domino sarebbe inevitabile

Sanità, l’incubo di Obama Sulla riforma sanitaria voluta con forza dal presidente incombe una spada di Damocle: è il giudizio che ne darà la Suprema Corte. Promossa o bocciata? di Anna Camaiti Holstert arà già di questo fine settimana la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti sul destino della riforma sanitaria di Obama, anche se a noi, comuni mortali, l’informazione giungerà solo a giugno. Dopo mesi di anticipazioni, migliaia di pagine e diverse ore di dibattito i giudici, che si incontreranno venerdì mattina in un incontro tenuto con cura segreto, decideranno infatti sulla costituzionalità di quell’individual mandate che obbliga ogni singolo cittadino americano ad acquistare una polizza sanitaria. Se infatti gli exit poll sono fino ad adesso stati molto chiari rispetto al gradimento generale dell’Affordable Care Act , (in particolare di quella parte della riforma sanitaria di Obama, comunemente denominata Obamacare, che obbliga le compagnie assicurative a non discriminare in nessun senso e a non rifiutare assistenza a nessuno anche in presenza delle fami-

S

siva prudenza che i democratici hanno mostrato proprio fino dagli anni ’90, rischia di ritorcesi loro contro, snaturando un po’ anche la loro storia. È infatti da sempre catterisitca dei democratici, come ci ricorda Julian Zelizer, professore di storia e di pubblica amministrazione all’università di Princeton, perorare la presenza governativa nella vita nazionale. «Gli americani - afferma il professore - per avere un certo tenore di vita devono sostenere i programmi di uno stato sociale che vengono loro con i privilegi della cittadinanza».

Durante il New Deal infatti Franklin Delano Roosvelt non ha certo dimostrato timidezza nell’esaltare i valori dell’approccio governativo come quando nel 1935 ha creato il sistema del Social Security assicurando l’indennità

di disoccupazione, di malattia e di vecchiaia a tutti attraverso consistenti prelievi fiscali imposti sia ai lavoratori che alle imprese, ma soprattutto pescando a piene mani nei fondi del bilancio federale. E durante gli anni ’60, gli anni delle batta-

rare ( per esattezza nel 1967) quel programma di Medicare che ad oggi garantisce assistenza medica a tutti gli anziani over ’65 attraverso i fondi governativi. È solo dagli anni ’80 con la presidenza Reagan che i democratici si sono ritirati in una sorta di posizione difensiva. Se con Clinton la riforma sanitaria proposta da Hillary fu criticata dai repubblicani come una sorta di mostro che avrebbe gonfiato il già esistente deficit, Obama che ha insistito più di altri suoi predecessori, anche se meno di Hillary, sull’azione governativa, ha scelto una strada di compromesso proponendo una regolamentazione del sistema esistente e chiedendo a tutti i cittadini americani di farne parte.

glie per i diritti civili, fu proprio Lyndon Johnson, che in precedenza aveva con coraggio insistito sul principio morale che una nazione ricca non può certo ignorare i problemi della povertà e del disagio urbano, a va-

Il presidente si è trovato in una situazione complicata nella quale l’intervento governativo è indiretto e i meccanismi di finanziamento astrusi e complessi. È pertanto comprensibile che l’individual mandate crei numerosi problemi. In sintesi il mandato costituisce una soluzione al problema dei costi e parte da uno sforzo da parte dei democratici di assicurare una copertura finanziaria senza ricorrere a quegli interventi governativi che in precedenza

Sotto la lente dei nove giudici è finita la norma più controversa della legge, che ne è però anche il nucleo: quella che entro il 2014 rende obbligatoria l’assicurazione medica per tutti gerate pre-existing conditions sulla base delle quali invece prima potevano essere negate prestazioni sanitarie anche di importanza vitale) come hanno mostrato i dati della Kaiser Foundation, rimangono invece molte perplessità tra la gente comune sull’obbliagatorietà individuale a munirsi di assistenza sanitaria.

E sebbene questa sia un’idea degli anni ’90 che proviene dal campo repubblicano – uno sforzo per abbassare i costi basato sulla richiesta individuale di fare acquisti nel mercato privato piuttosto che creare nuovi programmi governativi - oggi invece l’individual mandate, prodotto della ecces-

avevano sempre difeso. «Obama - continua il professore - ha promosso una riforma che cerca di tagliare i costi al minimo creando una maggiore efficienza nei mercati. Non si è concentrato però sul diritto ad un’assistenza medica proprio alla portata di tutti, come è invece implicito nel nome della sua legge. Così mentre i repubblicani hanno insistito con chiarezza e precisione sull’attacco al “mandato individuale”, da parte di Obama la difesa esitante del suo complesso sistema non ha ottenuto una grande mobilitazione di pubblico a suo sostegno». Adesso il presidente si trova nella condizione di dover attendere il giudizio della Corte Suprema la cui decisione in ultima istanza potrà vincolare non solo l’individual mandate, ma tutta quanta la riforma sanitaria. E la posizione dei nove giudici della Corte Suprema non è scontata e non se ne possono prevedere gli esiti finali. Se infatti il voto sembra diviso abbastanza equamente tra i favorevoli e i contrari, saranno due giudici ( John Roberts e Anthony M. Kennedy) con i

loro swing votes a decidere le sorti dellaObamacare.

Il problema sarà che tornare indietro potrebbe causare problemi ben più gravi. La popolazione che rimarrà di nuovo senza assicurazione (30 milioni), dopo avere assaporato i benefici che derivano da una riforma sanitaria allargata potrebbe insorgere. E allora più che preoccuparsi di chi sarà la vittoria su questo particolare obiettivo politico alle prossime

In alto, il presidente Usa Obama e a lato il giudice della Corte Suprema Anthony. A destra, Mitt Romney


La nomination repubblicana è ora più vicina

La tripletta di Mitt Romney

Il candidato Gop conquista Wisconsin, Washington e Maryland di Laura Giannone itt Romney ha compiuto un nuovo importante passo verso la nomination repubblicana aggiudicandosi ieri le primarie in Wisconsin, Maryland e nel distretto di Columbia e superando così la soglia simbolica del 50 per cento dei 1.144 delegati che gli saranno necessari per l’investitura ad agosto a Tampa. A questo punto il mormone più famoso d’America è sempre più vicino a diventare lo sfidante di Obama alle prossime presidenziali di novembre. Lo ha compreso anche la Casa Bianca, visto che ieri una sorta di ”investitura” è arrivata indirettamente anche da Barack Obama, che per la prima volta, contestando la proposta di bilancio presentata dai Repubblicani alla Camera, ha nominato esplicitamente Romney, criticandolo per l’appoggio a quella misura. Secondo il New York Times questo attacco frontale da parte del capo della Casa Bianca segnala inequivocabilmente che la campagna elettorale generale partirà ben prima che si concluda la corsa alla nomination repubblicana. La tripletta di ieri di Romney gli è servita, da un lato, ad incrementare il suo vantaggio in termini di delegati, dall’altro a consolidare l’idea che ormai l’ex governatore del Massachusetts sia riuscito a conquistare anche gli esponenti del suo partito finora più restii a dargli fiducia.

M

elezioni, come sembrano fare sia i repubblicani che i democratici, ci sarà da considerare cosa accadrà a queste persone. Anche perché le reazioni potrebbero essere davvero imprevedibili. Tuttavia questo non sembra preoccupare le forze politiche le quali sembrano continuare a prescindere dai problem reali della gente. I repubblicani considerereanno un grande traguardo il fatto che la riforma sanitaria di Obama sarà respinta, ma nello stesso tempo si può stare tranquilli che se questo accadrà Obama e i democratici che si presenteranno al parlamento alle elezioni di novembre saranno rieletti. Quale strategia a lungo termine adotteranno dunque i due partiti per rispondere ai problemi che la nuova situazione presenterà?

C’è da immaginarsi che almeno per una decade i due partiti non proporranno grandi cambiamenti allo status quo. E dunque forse respingere la Obamacare potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro in quanto più tardi gli stessi problemi si ripresenteranno ampliati. Ezra Klein scrive infatti sul Washington Post che alla fine questo potrebbe portare “eventualmente” ad un ampliamento della copertura

assicurativa per tutti interamente a spese dello stato o meglio a quello che viene definito “a single-payer system”. E quindi il deficit pubblico che oggi rappresenta una delle piaghe che ha costretto Obama a re-

stringere le sue vedute sull’impegno governativo potrebbe ripresentarsi ingrandito, ma ineludibile. «La parola magica –continua Klein - è proprio quell’eventualmente. Questo è tuttavia un processo lungo e complicato che potrebbe assicurare per I decenni a venire una larghissima parte di cittadini che oggi non lo sono. Certo potrebbe finire per essere calibrato più verso una totale copertura pubblica di quanto in realtà non lo sia nella Obamacare. Ma non si sa se questa possa essere considerate una buona mossa e da qui ad allora ci potrebbero essere molte perdite di vite umane tra coloro che non sono assicurati. Questo secondo me, è il costo reale legato alla possibilità di perdere l’opportunità di assicurare oggi 30 milioni di persone. Ed è un co-

sto troppo alto e che troppo spesso scompare nelle maglie degli handicappati giochi politici di Washington». Ma c’è un’ultima ombra insita nella possibilità di un repeal della Obamacare. Se i repubblicani per primi hanno proposto nel passato l’indivudal mandate, perché i Tea party e tutti quei movimenti ultraconservatori lo combattono così aspramente ora che è Obama a presentarlo si chiede Clarence Page sul Chicago Tribune?

È solo il frutto dell’inasprimento ideologico della battaglia politica o c’e’ altro dietro un atteggiamento così settario?

In un paese dove ancora basta essere neri e indossare un cappuccio per potere essere uccisi come nel caso di alcuni giorni fa in Florida del giovane teen ager Trayvon Martin e dove le battaglie per i diritti civili sono purtroppo di sconcertante attualità forse un’ombra lunga e strisciante si allunga pericolosamente su un universo politico che con l’elezione del primo presidente nero della storia americana si pensava ormai libero da pregiudizi razziali.

Più restii ad accettare la realtà sono gli altri rivali di Romney, Gingricht e Santorum. Anzi: la triplice sconfitta nelle primarie repubblicane di ieri, che lo hanno visto soccombere persino nel Wisconsin dove era pur leggermente favorito, non hanno per nulla fiaccato in Rick Santorum le velleità di combattere per la nomination alle presidenziali Usa del 6 novembre. L’esponente ultracattolico ha minimizzato i risultati nello Stato del Midwest, in Maryland e nel District of Columbia, ricorrendo a una metafora presa in prestito dal linguaggio del football: «Siamo soltanto a metà partita», ha commentato. «Ora c’è l’intervallo, e

nella ripresa dimostreremo la nostra forza in Pennsylvania» (lo stato dove però il repubblicano italoamericano ha subito un’umiliante sconfitta nel 2006 quando perse il seggio al Senato): si tratta della terra di origine di Santorum, dove si voterà il 24 aprile prossimo, in una sorta di nuovo mini-Super Tuesday, in cui le primarie saranno in programma anche nel Connecticut, in Delaware, Rhode Island e, soprattutto, nello strategico stato di New York.

In realtà il vero obiettivo (peraltro anche dichiarato) di Gingrich e Santorum non è quello di ottenere un numero di delegati più alto di Romney, imprendibile da settimane, ma di impedirgli di arrivare al quorum. Se

nessun candidato arriva ai 1144 delegati, infatti, tocca alla convention repubblicana rimettere in gioco la partita ed esprimere un candidato anche diverso da quelli che hanno partecipato alle primarie. Ma sembra ormai uno scenario di fantapolitica. Ecco perché secondo Romney è arrivato il momento di mettere da parte le lotte interne al partito e unirsi a lui. Lo ha chiesto ai repubblicani di Connecticut, Delaware, New York, Pennsylvania, e Rhode Island che potrebbero chiudere anche formalmente il conto delle primarie per entrare nel vivo della campagna elettorale contro Barack Obama. I dati comunque parlano chiaro: tenendo conto del bottino del Wisconsin, Romney sale a 630 delegati. Staccatissimo al secondo posto Rick Santorum con 264, terzo Newt Gingrich con 137 e quarto Ron Paul con 71.


pagina 12 • 5 aprile 2012

grandangolo I sondaggi d’Oltralpe lanciano l’allarme: la gente non voterà

Monsieur Nessuno si è messo fra Sarkozy e Hollande

A diciassette giorni dalle presidenziali il blocco degli astenuti (32%) è il primo partito di Francia. E secondo gli ultimi dati è anche in ascesa. Si tratta del segmento più giovane del Paese (sotto i 35 anni), quello maggiormente colpito dalla crisi. E che in caso di ballottaggio potrebbe decidere di far sentire ancora di più la sua voce. L’Eliseo riuscirà a convincerlo? di Enrico Singer ltro che Nicolas Sarkozy o François Hollande. Il vincitore del primo turno delle elezioni presidenziali francesi, domenica 22 aprile, sarà monsieur Personne, il signor Nessuno, se così si può chiamare il candidato di chi non andrà a votare: il 32 per cento dei francesi secondo l’ultimo sondaggio dell’Ifop, uno dei più autorevoli istituti demoscopici del Paese. È un record assoluto di astensioni che fa impallidire il 29,5 per cento dei consensi assegnato all’attuale inquilino dell’Eliseo e il 27,5 per cento del suo sfidante socialista. Nella storia della Quinta Repubblica ci sono soltanto due precedenti comparabili: il 31 per cento di astenuti nel secondo turno delle elezioni del 15 giugno 1969, che consegnò la vittoria a Georges Pompidou su Alain Poher, e il 28 per cento del primo turno delle presidenziali del 21 aprile 2002: quelle in cui il paladino dell’estrema destra, JeanMarie Le Pen, scalzò a sorpresa il socialista Lionel Jospin dal ballottaggio finale con Jacques Chirac.

dei francesi ormai non crede più alle promesse di chi si contende la presidenza. E i politologi transalpini già si dividono nel valutare a chi recherà più danno l’irresistibile ascesa del «primo partito di Francia», come viene già chiamato il complesso blocco degli astensionisti. In realtà, il non voto preoccupa prima di tutto Hollande che vede riapparire il fantasma di Jospin e che ieri ha reagito annunciando la scaletta (eventuale) del-

Due momenti particolari per la Francia perché nel ’69 si decideva la difficile successione al generale Charles de Gaulle dopo le barricate del ‘68 e perché il 2002 ha segnato il punto più profondo del lungo tunnel della sinistra che non è ancora finito. Se tra diciassette giorni la previsione dell’Ifop sarà confermata, vorrà dire che la disaffezione per la politica è cresciuta al punto che un terzo

le sue prime mosse da capo dello Stato. Ma anche Sarkozy non dorme sonni tranquilli perché, nonostante il vantaggio al primo turno, è ancora considerato perdente al ballottaggio. Stando al sondaggio, i settori sociali dove l’astensione inciderebbe maggiormente sono quelli degli elettori sotto i 35 anni, degli operai, degli abitanti delle zone rurali e dei simpatizzanti tanto

A

La disaffezione per la politica è cresciuta al punto che un terzo dei francesi ormai non crede più alle promesse

dell’estrema sinistra quanto dell’estrema destra. Un segmento trasversale caratterizzato, però, da una fascia d’età comune che è, poi, quella più colpita dalla crisi. Soprattutto quella che vorrebbe sentire dai candidati qualche impegno preciso sul rilancio dell’economia – con il suo corollario di aumento dei posti di lavoro, di stipendi più alti e di maggiore assistenza – che è, però, il campo in cui i vincoli europei non consentono di promettere la luna. O fanno apparire poco credibili, e realizzabili, le promesse che pure in questa campagna molti stanno facendo.

A partire da Hollande che ha già predenunciato il fiscal compact appena firmato a Bruxelles da Sarkozy perché lo considera «un cappio al collo della Francia» e che ha annunciato che, in caso di vittoria, convocherà il Parlamento in sessione straordinaria dal 3 luglio al 2 agosto per varare subito la sua riforma fiscale che va dall’introduzione di sovrattasse per le banche e per le società petrolifere, all’annunciata nuova aliquota del 75 per cento per i redditi superiori al milione di euro. È vero che la politica fiscale non è sottoposta a regole comuni della Ue, anche se Angela Merkel ne vorrebbe un maggiore coordinamento, ma è altrettanto vero che isolarsi dal resto dell’Europa e creare in un Paese una situazione sfavorevole alle imprese che sono quasi tutte multinazionali – e sempre più rapide nell’emi-

grare verso realtà convenienti – o agli investitori privati non è un buon sistema per rimettere in moto l’economia e, quindi, l’occupazione. Rigore e crescita dovrebbero trovare un equilibrio virtuoso che è il punto debole del programma di François Hollande criticato ieri anche da Goldman Sachs perché potrebbe «frenare il processo di integrazione europea». Tuttavia, almeno nei sondaggi, Hollande rimane favorito nello scontro diretto con Sarkozy. Battuto per due punti al primo turno, lo sfidante socialista è ancora nettamente in testa, con un secco 55 a 45, nelle previsioni sui risultati del voto di ballottaggio che ci sarà quindici giorni dopo, domenica 6 maggio. Perché Hollande, rispetto al presidente in carica, può contare su un trasferimento di voti più cospicuo.

La sinistra nel suo complesso è infatti accreditata di un 45,5 per cento dei consensi, un livello mai raggiunto dai tempi del duplice successo di François Mitterrand, nel 1981 e nel 1988 (allora il mandato presidenziale era di sette anni), e nove punti in più rispetto alle ultime elezioni per l’Eliseo vinte nel 2007 da Nicolas Sarkozy su Ségolène Royal. Ma tutti questi calcoli non fanno i conti con la mina dell’astensionismo che, dal 32 per cento del primo turno, potrebbe anche aumentare al ballottaggio. In Francia si dice che «al primo turno si sceglie e al secondo si vota contro» perché tutti


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e di cronach

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quegli elettori che, al ballottaggio, non trovano più sulla scheda il nome del loro candidato, scelgono il male minore. In altre parole votano per impedire che la presidenza sia conquistata dalla persona che detestano di più. Ecco perché il risultato di un ballottaggio non è mai la somma matematica dei voti ottenuti dalla destra e dalla sinistra al primo turno. E la tentazione di non votare si può allargare a macchia di leopardo conquistando settori imprevedibili di elettorato. Per Sarkozy sarà decisivo il comportamento di chi avrà votato al primo tur-

Artisti e intellettuali si sono mobilitati per chiedere di andare alle urne, «perché chi non vota oggi non potrà protestare domani» no per il centrista François Bayrou (che secondo gli ultimi sondaggi adesso è al 10 per cento) e per la frontista Marine Le Pen che, dopo un avvio a vele spiegate, sembra essersi assestata intorno al 14 per cento. Per François Hollande sarà decisivo, invece, l’elettorato di Jean-Luc Mélenchon – la vera sorpresa di queste presidenziali – che, con il suo Front de gauche, è stimato al 13 per cento e anche quello dell’ecologista Eva Joly che, proprio ieri, è stata dichiarata fuori pericolo dopo una caduta e uno svenimento in un cinema parigino che aveva fatto stare con il fiato sospeso i quartieri generali degli altri candidati perché, in base alla legge, un serio impedimento di salute di uno dei contendenti avrebbe potuto provocare anche il rinvio delle elezioni. Nella delicata fase del travaso dei voti, il fenomeno-astensione potrebbe giocare un brutto scherzo a Hollan-

de. Céline Braconnier, una sociologa francese che ha pubblicato un libro su questo tema - La démocratie de l’abstention – ha scritto che almeno il 6 o il 7 per cento della popolazione adulta non è iscritta alle liste elettorali (in Francia per votare bisogna iscriversi, come negli Usa) e, degli iscritti, il 10 per cento è «astensionista costante». Ma per arrivare al pronosticato record del 32 per cento di non voto, il passo è lungo.

L’esercito degli «elettori intermittenti» potrebbe ingrossarsi per effetto di una campagna elettorale fiacca o per la delusione nei confronti della classe politica nell’attuale fase di crisi economica. La prima motivazione sembra ritagliata apposta sulla figura di Hollande – i suoi avversari esterni e interni lo definiscono “mou”, molle – e la seconda richiama le aspettative mancate da Sarkozy che nei cinque anni di governo ha mantenuto poco delle promesse fatte nel 2007 che gli avevano fruttato il 53,1 per cento dei voti al ballottaggio contro Ségolène Royal. In quell’occasione il tasso di astensionismo era stato basso sia al primo che al secondo turno (il 16 per cento in entrambi i casi), ma questa volta il partito dell’astensione potrebbe colpire con più violenza proprio Hollande perché, come sostiene Céline Braconnier «ci sono più astensionisti nelle classi sociali svantaggiate, tra i giovani e, in particolare tra i disoccupati e i precari ventenni e trentenni delle peri-

ferie urbane che tradizionalmente votano a sinistra». Lo stesso François Hollande si è detto preoccupato: «Con un astensionismo alto, i sondaggi sono falsati», ha dichiarato – un po’ per scaramanzia e un po’ per sincerità – commentando le previsioni che continuano a darlo vincente al balLa lottaggio. paura del successo del signor Nessuno ha mobilitato anche un gruppo molto eterogeneo di artisti – da intellettuali noti a rapper quasi sconosciuti – che ha prodotto una serie di video che fanno appello agli elettori perché vadano comunque a votare.

Non importa per chi, ma a votare «perché chi non vota oggi non potrà protestare domani». L’iniziativa si chiama “59 artistes contre l’abstention” e gira gratis su internet. I video sono realizzati in modo molto semplice: gli artisti esprimono le loro ragioni davanti a un drappo bianco, rosso o blu, i colori della bandiera francese. Servirà a qualcosa? La risposta arriverà soltanto quando chiuderanno le urne, la sera di domenica 22 aprile, e il ministero dell’Interno – che una volta fu di Sarkozy – annuncerà il primo dato disponibile: proprio quello della percentuale dei votanti che dirà quanto è davvero forte in Francia monsieur Personne.

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cultura

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Tra etica e cronaca ha registrato nelle sua opera le ambiguità della modernizzazione italiana. Omaggio a un Maestro in occasione dei suoi 90 anni

Vocazione: testimone Fenomenologia di Carlo Lizzani “Da Achtung! Banditi!” ai ritratti dedicati ai grandi del cinema di Orio Caldiron essun altro regista italiano ha come lui la vocazione del testimone, di chi ha vissuto al presente la storia del cinema, ma spesso anche della società, e può dire io c’ero. Nessuno più di Carlo Lizzani - che nel ‘48 è stato sul set di Germania anno zero con Rossellini e di Riso amaro con De Santis - ha condiviso dall’interno le contraddizioni del cinema italiano del dopoguerra, sospeso tra documento e spettacolo, inchiesta e affabulazione. Nei suoi scritti sul neorealismo nessuno riesce come lui a storicizzarlo nelle diverse componenti che ne costituiscono la sua fiammeggiante vitalità. L’ibrida ma esplosiva rivoluzione neorealista lavora sui nuovi contenuti nel momento in cui rinnova le forme espressive. Il rapporto tra individuo e collettività, tra uomo e paesaggio, è alla fonte dell’esuberante cortocircuito che lo caratterizza assieme alla miscela dei generi e alla nuova concezione dello spazio e del tempo, che lasceranno il segno sulle future nouvelle vague. La storia del Novecento rivive nella sua attività di regista da Achtung! Banditi! (1951) a Cronache di poveri amanti (1953), da La muraglia cinese (1957) a Il processo di Verona (1963), da Mussolini ultimo atto (1974) a Caro Gorbaciov (1988), senza contare le decina di film televisivi dedicati tra l’altro a Giorgio Amendola (Un’isola), al terrorismo (Nucleo Zero), al caso Dozier (Stato d’emergenza). Chi può dire come lui di aver girato nelle maggiori città italiane ed europee, negli Stati Uniti, in Africa, in Cina, India, Giappone, Corea, Birmania? Vietnam, Saggista e critico, è stato anche storico, militante politico, sceneggiatore, direttore della Mostra di Venezia, presidente dell’Anac, docente al Centro Sperimentale e in

N

tante altre sedi con la singolare disponibilità pedagogica che contraddistingue chi, insegnando, continua a imparare, ad aprirsi alla non fiction, alle nuove tecnologie. Se ha cominciato come documentarista,

Importante il rapporto con Luciano Bianciardi: portare “La vita agra” dalla pagina allo schermo è stata una sfida e una lezione non ha mai smesso di raccontare il cinema attraverso il cinema in una serie di lucidi ritratti dedicati a Luchino Visconti (1999), Roberto Rossellini (2001), Cesare Zavattini (2003), Giuseppe De Santis (2008). Nel fargli gli auguri per i suoi splendidi novant’anni - è nato il 3 aprile 1922 a Roma, in

via dei Coronari 14, a due passi dal trionfo barocco di piazza Navona - ci si accorge subito che non è facile parlare di Carlo Lizzani senza trascurare qualche aspetto della sua instancabile operosità, sfociata nel 2007 in Il mio lungo viaggio nel secolo breve (Einaudi), l’appassionante autobiografia che si sarebbe tentati di considerare il suo film più bello scritto sulla carta. Non può sfuggire, ripercorrendo le pagine di una vita nel segno del cinema e dell’immagine audiovisiva, che tutto rimanda ai valori umani, etici, civili, politici, se non al suo rapporto con il comunismo, entrato in crisi sin dal suo primo viaggio in Cina. Senza dimenticare il resto, seguiamolo ora nelle sue trasferte milanesi, nella convinzione che i viaggi del regista romano nella città lombarda siano altrettanti incontri con un altrove in cui sta per succedere, o magari è già successo, qualcosa che ci riguarda da vicino.

Sul set di La vita agra (1964) ritrova con nostalgia la Milano della lontana bohème del 1945 in cui Giuseppe De Santis e Gianni Puccini gli offrono l’occasione di seguirli al nord per fare Film d’oggi, il settimanale che avrebbe dovuto riprendere e proseguire le battaglie di Cinema, sulle cui pagine non pochi protagonisti di quello che sarà il neorealismo si erano incontrati per la prima volta. Sono vicende che lo stesso regista ha rievocato più volte, dal viaggio sulla camionetta traballante durato quarantott’ore tra strade sconnesse, blocchi militari, ponti impraticabili, ai primi contatti con una realtà nuova, difficile, ma esaltante: «Gran parte della città è in macerie, ma basta un primo contatto con

Tre immagini di Carlo Lizzani con Virna Lisi, Vittorio De Sica e Alberto Sordi. Il regista che ha compiuto il 3 aprile scorso 90 anni (è nato a Roma, in via dei Coronari), si è raccontato nel 2007 nell’autobiografia “Il mio lungo viaggio nel secolo breve” pubblicata da Einaudi

l’ambiente giornalistico e artistico per farci sentire Roma lontana e provinciale. Dopo anni di coprifuoco, gironzolare in una città finalmente non avara di luci, soprattutto nel triangolo di Brera, Solferino e corso Garibaldi, è un piacere così inusitato che tentiamo di assaporarlo il più a lungo possibile. Durante quelle veglie si canta, si scherza, si inventano epigrammi e favole. Il bar Giamaica e la latteria Pirovini erano centri di discussioni, festini, cene indimenticabili (fatte di qualche pallido cappuccino e di esangui omelette), e dove tanti giovani o meno giovani, pittori, letterati, musicisti, si arrovellavano come noi sui modelli artistici e comportamentali finalmente a portata di mano dopo il crollo del regime, la fine della guerra e la Liberazione». Parecchi anni dopo la latteria Pirovini è uno dei mitici luoghi di riferimento nella geografia milanese di La vita agra, il romanzo di Luciano Bianciardi che quando esce nel 1962 ha un grande successo soprattutto per le intonazioni risentite e beffarde con cui coglie le illusioni e le frustrazioni del neocapitalismo che comincia a imporsi nel nostro Paese. Il rapporto tra Bianciardi e Lizzani andrebbe approfondito più di quanto non sia stato fatto fino-

ra, sia per la complessità della figura dello scrittore toscano, a cui non sono estranee le frequentazioni cinematografiche, dall’attività di organizzatore di cineclub alla sarcastica rappresentazione di tutta un’epoca di astratti furori nella piccola bibbia di miti e riti di fine anni Cinquanta che è Il lavoro culturale. Il volumetto, uno dei primi dell’Universale Economica della casa editrice Feltrinelli appena nata, contiene pagine straordinarie sulle liturgie dei cineclub e sui tic del gergo critico dell’epoca.

Sia per la partecipazione alla sceneggiatura del film tratto dal romanzo, non accreditata nei titoli di testa nonostante il rilievo del suo apporto personale più volte riconosciuto dallo stesso regista: «Su questo terreno, il terreno della nostalgia per un certo tipo di Milano, ci trovammo veramente affratellati, più di quanto non lo fossero con lui gli sceneggiatori Amidei e Vincenzoni e il produttore Nino E. Krisman che nel film impersona il Presidente. Questa è la ragione per la quale io ho voluto questa frequentazione con Bianciardi, quasi obbligandolo a impegnarsi più di quanto non faccio con altri scrittori nella stesura di un film. Valutammo insieme,


cultura

con Bianciardi e con Ugo Tognazzi, in che misura alcuni monologhi, alcune pagine molto belle potevano reggere a un primo piano cinematografico, essere tradotti in mimica oltre che in voce». La trasposizione cinematografica del libro rappresenta una sfida per vari aspetti temeraria. Come affrontare le componenti autobiografiche, linguistiche, parodiche, grottesche di un testo che si concede volta a volta alla divagazione erudita, allo sfogo rabbioso da allegra apo-

calisse, incerto tra l’aspirazione a dire tutto in modo esplicito e la tentazione della sottolineatura criptica, dell’allusione irridente, del pastiche à la manier de? Il film non segue il libro nel suo gioco di rimbalzo tra l’io e lo sperimentalismo, tra l’autobiografia e il miracolo economico. Certo, inizia con Luciano Bianchi/Ugo Tognazzi che alla stazione guarda in macchina per raccontare cosa è successo prima della decisione di Anna/Giovanna Ralli di lasciarlo e ritornare a Roma; e finisce con

l’ultimo sguardo arreso e impotente tra loro due. Ma in mezzo non c’è soltanto la storia di Luciano e del suo folle progetto di far saltare in aria il torracchione dell’azienda responsabile della tragedia nella miniera in cui lavorava come bibliotecario. I materiali del romanzo, ampiamente utilizzato servendosi spesso degli stessi dialoghi, sono integrati da altri spunti narrativi, attinti da L’integrazione, che risale al 1960. Visto oggi, il film è di difficile collocazione nel cinema italiano dei primi Sessanta in cui, tra gli ultimi trionfi del peplum e i primi annunci del western spaghetti, sono numerosi i film importanti. Ma nessuno sembra cogliere lucidamente il cambiamento in corso nella società italiana come La vita agra, che delinea con uno sguardo freddo, entomologico, ma capace di improvvise accensioni, la mappa del nostro discutibile futuro.

Un futuro dietro l’angolo, in cui le automobili in doppia fila impediscono ai pedoni di passare se non grazie agli acrobatici accorgimenti di ogni giorno. Le strade piene di buche sono sottoposte a continui, ossessivi,

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assordanti rifacimenti. I rari flâneurs, sorpresi a passeggiare senza meta per il solo piacere di farlo, vengono portati direttamente in questura da baffuti agenti dall’aria torva. Non si contano gli sberleffi al mondo aziendale e ai suoi ambigui meccanismi di selezione, come alle case editrici con i loro ferrei criteri redazionali, preoccupati soltanto di tener lontani l’estro e l’inventiva. Né si trascura l’amara delusione nei confronti dei partiti politici, dove i rapporti umani sono sostituiti da vacui, burocratici nominalismi. L’universo della pubblicità è uno dei capitoli più vivaci con i suoi subdoli rituali di persuasione di massa attraverso cui si innesca la fiera dei bisogni inutili, coatti, artificiali. Il consumismo più dissennato si impone nell’esposizione delle merci dei grandi magazzini nelle città satelliti, dove si moltiplicano i monitor dei televisori, che già incombono con il loro ipnotico accendersi e spegnersi. Non mancano i momenti divertenti - come lo sproloquio sul sesso, che sbeffeggia il micidale ideologismo dell’epoca - ma si ride poco e si ride amaro. Certo, i toni sono quelli della commedia, ma non viene mai in mente l’impietosa cattiveria della commedia all’italiana. Si pensa piuttosto ai toni distaccati e inconsueti di una commedia seria che si muove sotto il segno di Saturno, vagheggiando la bellezza della sconfitta. Sullo sfondo appare un paio di volte Enzo Jannacci che con la sua voce alla cartavetrata ribadisce la chiave della malinconia con i toni dissonanti delle sue canzoni. Se tanti suoi film si rifanno al passato, questo si pone in sintonia con il presente. Ma è anche la soglia attraverso cui passa l’attenzione che negli anni immediatamente successivi il regista avrà per le cronache del nord, raccontate in diretta con il ciglio asciutto: «Oggi, a distanza, penso che sia stata proprio la lezione di La vita agra a farmi scegliere man mano - fra i tanti fatti di cronaca, di violenza che dilagavano sulle pagine dei giornali - quelli in cui riconoscevo con sempre maggiore chiarezza i tratti di una società che aveva preso a cor-

rere in modo via via più febbrile verso due traguardi: il consumo e il successo». Svegliati e uccidi (1966) è un riuscito istant movie su Luciano Lutring, il solista del mitra arrestato pochi mesi prima a Parigi che aveva cominciato la sua carriera con la rapina alla gioielleria di via Montenapoleone. Il taglio giornalistico, secco e veloce, smitizza la figura del mediocre performer del crimine, il balordo impegnato a far colpo sulla splendida Lisa Gastoni che canta Che cosa c’è di Gino Paoli.

Banditi a Milano (1968) è girato a caldo pochi mesi dopo la rapina al Banco di Napoli di largo Zandonai, dove la banda di Piero Cavallero quando si accorge di essere braccata dalla polizia comincia a sparare ai passanti nel corso di un vertiginoso inseguimento che finisce nel sangue. Sospeso tra mimetismo e spettacolo, è un affondo sulla violenza metropolitana in cui la componente della rappresentazione è inscindibile dall’evento, il gesto è tanto più clamoroso quanto più si celebra come messinscena. Straordinario l’apporto di Gian Maria Volontè che rende memorabile l’inconsueta figura del bandito, il suo irridente esibizionismo. Storie di vita e malavita (1975) nel rievocare sei episodi di giovanissime prostitute sfuma sul racket, l’immigrazione, l’ignoranza, l’ipocrisia della società per puntare tutto sulla sgradevolezza degli avvenimenti, esludendo ogni possibilità di lieto fine. San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) coglie l’intreccio tra criminalità e politica in un sottovalutato reportage sul neofascismo. Il film morde la cronaca quotidiana dell’ordinaria follia sporcandosi le mani nell’universo frastornante della violenza gratuita, in cui l’alibi politico si accompagna all’esibizionismo velleitario. Nella Milano nera del regista romano - nelle cronache tra i Sessanta e Settanta che hanno oggi il sapore amaro del documento d’epoca - forse non è sbagliato riconoscere una delle stagioni più fertili della sua lunga attività cinematografica affacciata sulla ambigua modernizzazione italiana.


ULTIMAPAGINA

A New York si registra una nuova tendenza immobiliare: adesso va per la maggiore il Green Wood Cemetery

Camera con vista sul di Angela Rossi envenuti nella Grande Mela, nella città senza sonno, New York, Stato di New York dove tutto sembra possibile… Caotica, piena di tutto e ancora di più ma… dove manca la tranquillità. Tanto che l’ultima tendenza in fatto di mercato immobiliare sta facendo registrare una richiesta sempre maggiore di appartamenti nelle vicinanze del… cimitero. Sì, il luogo maggiormente ambito dai newyorchesi è proprio il Green Wood Cemetery. In barba alla superstizione che bloccherebbe gli italiani (il 14 per cento dei nostri connazionali non abiterebbe mai nelle vicinanze di un camposanto), gli abitanti della Grande Mela fanno invece a gara per trovare una casetta in affitto vicino al cimitero. Motivazione? Hanno bisogno di pace. E quale pace maggiore di quella che possono regalare vicini di casa tanto silenziosi? Consegnati a un’altra dimensione, quella dell’eternità, garantiscono il silenzio assoluto, la lontananza dalle umane passioni ma soprattutto il totale disinteresse alle beghe condominiali e alle liti per un posto auto…

B

Nella Grande Mela si fa a gara per accaparrarsi una casa in affitto vicino al luogo del riposo eterno. Non solo per i prezzi abbordabili, ma anche per il bisogno di pace Una tendenza che prende sempre più piede e che viene riscontrata da diverse agenzie immobiliari. Quiete, la ragione principale ma anche la sicurezza che sia praticamente impossibile vedere spuntare come funghi nuove costruzioni davanti alle proprie finestre. A meno che non si edifichi a tempo di record un mausoleo funebre. Cosa che pare difficile anche a New York.

Da aggiungere che i camposanti sono luoghi pieni di verde e aree a bassissimo tasso di inquinamento e di densità abitativa rumorosa. Proprio questo è il maggior punto a favore delle agenzie immobiliari che riescono a piazzare un appartamento del genere. La garanzia a vita che i vicini non fanno mai rumore. Pare poco? Nei pressi del Green Wood Cemetery, un appartamento con una camera costa sui 1.200 dollari al mese. Ma l’uguaglianza non esiste nemmeno in questo campo e i cimiteri si fanno concorren-

CIMITERO za. Quelli grandi con spazi aperti e verdi dove si può andare in bici o pattinare, sono i più ambiti dei piccoli, poco spaziosi e con troppe lapidi. Quindi mai più un loft a pochi passi da Central Park o da Times Square? Mai più ville, barche, roulottes? L’ultima tendenza è qualche decina di metri quadrati a pochi metri da un camposanto. Decisione anche più economica… Guardiamo infatti i prezzi degli immobili come son lievitati negli ultimi dieci anni nelle aree del Lower Manhattan e Battery Park City: dieci anni fa un appartamento qui si aggirava sui settecentodiecimila dollari, oggi la stessa casa costerebbe 1,4 milioni anche se nell’ultimo anno sono aumentate le vendite di case perché si è registrato un calo pari al dodici per cento. Con oltre otto milioni di abitanti, New York è la città più popolosa degli Stati Uniti d’America, terza area urbana più popolata del mondo ed è uno dei centri economici e culturali che più fa tendenza e influenza non solo tutto il continente americano ma il mondo intero ed è al tredicesimo posto come comune a maggiore densità seconda solo a Giacarta, Indonesia, e prima della cinese Wuhan. E se qualcosa non c’è a New York, è perché non esiste.Vale per tutto. L’ultima? A Soho, il quartiere più chic, dove già dagli anni Sessanta gli stabilimenti industriali costruiti con i mattoncini rossi diventavano loft

e ospitavano i grandi maestri della Pop art, regno delle amanti dello shopping di ogni genere, lancia una novità: lo showroom genetico. E dove poteva nascere se non New York? Al prezzo non certo modico, ma neanche la merce lo è, si valutano i rischi del cliente di ammalarsi di cancro, di malattie cardiache o morbo di Alzheimer. Basta lasciare un piccolo campione di saliva e il controllo è fornito. Dopo il primo controllo, la società si riserva di addebitare 250 dollari all’anno per fornire aggiornamenti continui sulle malattie per cui si è a rischio, sulla base dei risultati ottenuti.

New York - The town that never sleeps, la città che non dorme mai, la definiscono i suoi abitanti - è il luogo non solo fisico dove vivere ogni tipo di esperienza, scoprire realtà solo immaginate, spazi sconfinati, musei, parchi, centri commerciali, locali di ogni foggia e tendenza. E allora, dove poteva nascere se non qui l’ultima tendenza? La ricerca di appartamenti nelle vicinanze dei cimiteri sta partendo da NewYork ma c’è da scommettere che ben presto sbarcherà anche in altri Paesi. I newyorchesi hanno iniziato la caccia alle oasi del silenzio e hanno scelto quelle più sicure: le aree circostanti il luogo del riposo eterno. Più garanzie di pace di così sarebbe impossibile.


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