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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 7 APRILE 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Nel Carroccio tutti contro tutti. Belsito: «Rosi Mauro è una Giuda». E lei ribatte: «Su di me solo porcherie»
Bossi all’ultima crociata Ripete come un disco rotto: «Colpa di Roma ladrona». Ma la Lega è nel caos Il Senatùr ora grida al complotto, ma dopo un incontro con lui di due ore Maroni dice: «Bisogna garantire la trasparenza dei partiti». E la Dagrada ammette: «Pagata la laurea a Londra di Renzo»
Le macerie della Seconda Repubblica L’ANTI-ITALIANO
I PICCONATORI
Il fallimento di un leader è quello del sistema
Vent’anni buttati tra Silvio e Romano
di Enrico Cisnetto opo Silvio Berlusconi, Umberto Bossi. Era inevitabile, è successo nel peggiore dei modi. Ed è davvero insopportabile la tanta melensa pietà che ha circondato la penosa uscita di scena del leader della Lega. Intanto perché quel moto di umana comprensione che ha fatto il giro di tutti i talk-show e ha riempito le pagine dei giornali fa a pugni sia con la realtà di un “partito-califfato” di cui Umberto Bossi era pienamente padrone. a pagina 4
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La riforma del lavoro arriva mercoledì al Senato
Adesso la Camusso si chiama Marcegaglia Il futuro del Carroccio secondo Feltrin
di Giancristiano Desiderio enti anni buttati. Nessuno è riuscito a realizzare quanto aveva progettato e annunciato agli italiani. La terra promessa non è stata neanche avvistata, e l’intera nazione ha rischiato il naufragio. Nessuno ha partorito qualcosa di solido: né la destra con la sua “rivoluzione liberale”, né la sinistra con il suo “Paese normale” che ha mostrato le sue anomalie, né il leghismo con un federalismo che è stato metabolizzato da uno Stato che assorbe tutto. a pagina 5
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«Ma Bobo non riuscirà a rifondare il partito» di Errico Novi
ROMA. Un’ombra peserà su Maroni. Lo
Dopo la pesante rottura dell’altro ieri, dagli imprenditori è partita un’azione di lobbing speculare a quella fatta dalla Cgil
accompagnerà in questi mesi di passaggio, che precederanno una sua assai probabile elezione a segretario del Carroccio. Quell’ombra richiama il rischio della frantumazione: è la tesi di Paolo Feltrin, sociologo, ordinario di Scienza dell’amministrazione a Trieste e osservatore del fenomeno leghista. «La divisione localistica costituirebbe un ritorno alle origini della Lega. La vera grande idea di Bossi è stata quella di unificare i piccoli movimenti nati intorno agli anni Ottanta. Un sistema che ora vacilla». segue a pagina 3
Francesco Pacifico • pagina 6
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Reportage Viaggio nell’espansione in Francia e Stati Uniti, oltre che in Medioriente
Il premier deve risolvere anche questo problema
L’internazionale dei «Fratelli»
Monti, gli imprenditori non hanno torto
Il movimento musulmano prova a diventare globale di Antonio Picasso nche per i Fratelli musulmani è una settimana di passione. In Egitto, il numero due del partito, Khairat al-Shater, ha rotto gli indugi e ufficializzato la candidatura alle presidenziali di fine maggio. Nel frattempo, una delegazione del movimento “Libertà e giustizia”si è recata negli Usa, per un incontro con il Consiglio per la sicurezza nazionale. a pagina 20
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
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di Osvaldo Baldacci già successo in passato per altrettante spinose questioni. E anche in questo “pasticcio” sul lavoro, che ha visto le dure obiezioni di Emma Marcegaglia e le ancora più dure reazioni del ministro Elsa Fornero, solo il premier Monti può trovare una reale soluzione. La via dell’equilibrio tra la fermezza dettata dallo stato di necessità e la possibilità di mantenere tra le parti un dialogo il più civile possibile. a pagina 7
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Il leader dimissionario del Carroccio si rifugia dietro alla teoria del complotto: «Roma farabutta, ci ha mandato i magistrati»
La sceneggiata leghista
Belsito contro Rosi Mauro. Dagrada contro il Trota. E due ore di incontro con Maroni, che tiepidamente dice: «Ci vuole trasparenza» di Vincenzo Faccioli Pintozzi toni da elegia con cui una parte dell’opinione pubblica e del mondo politico italiano ha accolto la decisione di fare un passo indietro, annunciata ieri da Umberto Bossi, hanno trovato ieri una degna risposta nella rocambolesca piroetta con cui il Senatùr, da “padre della patria” (seppur padana) è tornato a indossare la canottiera da guerra.
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«A mio parere sa tanto di organizzato, noi siamo nemici di Roma padrona e ladrona, dell’Italia, uno Stato che non riuscirà mai ad essere democratico». Lo ha detto nella mattinata di ieri l’ex segretario federale della Lega proprio dalla sede centrale del partito di via Bellerio. Il vecchio leone torna ad attaccare frontalmente, rispolvera i vecchi attacchi contro Roma “farabutta” e prende tempo sull’ipotesi di una sua eventuale ricandidatura: «Lo dirò al congresso» (previsto per la prossima estate, che dovrà sancirne la successione politica). «La Lega è pericolosa – ha voluto aggiungere ai cronisti riuniti davanti alla villetta – perchè è sotto l’occhio non solo di Roma farabutta che ci ha dato questo tipo di magistrati ma anche della militanza, quindi bisogna fare le cose giuste che interessano la gente». Poi il Senatùr volge l’attenzione su Ma-
roni, contestato da alcuni militanti nel giorno del passo indietro. Quelle sull’ex ministro dell’Interno sono parole concilianti: «Non è un giuda, ha fatto semplicemente una specie di corrente, questa qua, i ‘barbari sognanti’, quella roba lì. Non penso che sia con me, però non è neppure contro». Nonostante le rassicurazioni maroniane espresse il giorno prima con un abbraccio: «Se ti ricandidi per la segreteria, io ti sosterrò». L’incontro fra i due si è verificato ieri dopo un iniziale ritardo di quasi un’ora, dovuto a una
visita di Bossi in chiesa. Era presente in via Bellerio anche Roberto Calderoli, l’ex ministro della Semplificazione eletto triumviro nonostante qualche incidenza nell’inchiesta.
Cosa si siano detti è impossibile riferirlo con certezza. Ma quel che è certo è che l’incontro (dalla durata di circa un’ora e mezzo) ha avuto toni drammatici: sul tavolo, con ogni probabilità, la difesa della famiglia dell’ormai ex leader e la richiesta di garanzie per il futuro della prole. Per un uomo tanto os-
sessionato dalla famiglia, la difesa dei figli è quasi scontata. Proprio nelle parole di Bossi, intervistato ieri mattina, «mio figlio [il Trota] mi ha portato le prove che l’automobile è sua e l’ha pagata lui, di questo sono certo perchè l’ho visto coi miei occhi». Un poco meno decisa, e un poco meno brillante, la situazione della ristrutturazione della villetta di Gemonio: «Hanno sbagliato a rifare il balcone che perdeva acqua, abbiamo chiamato uno della Lega bergamasca, il quale è venuto e ha detto mando mio cugino che
Per il Senatùr «la faccenda puzza. Sa tanto di organizzato, noi siamo nemici di Roma padrona e ladrona, dell’Italia, uno Stato che non riuscirà mai a essere democratico. Hanno paura che sequestriamo i voti del Nord»
ha una impresa: la colpa è nostra. Questo perché lui (riferendosi a chi ha fatto la ristrutturazione, ndr) è un tipo che da tanto non si faceva vivo e non ha mandato la fattura, può darsi che lo ha fatto da un’altra parte, però vediamo, ci sono molti lati oscuri...». Di sicuro il nuovo tesoriere della Lega Nord, Stefano Stefani, «deve rintracciare tutta una faccenda molto scura, anche l’avvento di questi che poi si scoprono legati alla mafia. Si tratta degli stessi che lavorano per imprese di Stato che producono armi» (per le quali servono certificati antimafia).
Per ora, comunque, il futuro dell’ex leader del Carroccio sembra blindato. Secondo la deputata varesina Manuale Dal Lago, uno dei tre triumviri chiamati alla reggenza del partito, «non so cosa succederà fra qualche mese. Ma Umberto Bossi, quale sarà il suo ruolo, non può non esserci nella Lega. L’unica cosa certa che succederà è che il candidato alla segreteria sarà il candidato di tutta la Lega. Bossi è un grande uomo, una persona per bene, e dei soldi non gli è mai interessato niente». Chissà se ha passato questa caratteristica anche ai pargoli. Come che sia, è la segretaria personale dell’ex leader a dare nuovi particolari sulle ruberie commesse in casa
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7 aprile 2012 • pagina 3
Disunione padana, ecco il rischio Paolo Feltrin: «Maroni non ha rivali, ma con la sua linea meno radicale unità in pericolo» di Errico Novi segue dalla prima È la vera incognita, destinata a pesare assai più dello sconcerto per un partito di censori travolto dagli scandali. Ma il pericolo della divisione prelude a una definitiva dissoluzione del fenomeno leghista? «È difficile che il fenomeno scompaia del tutto proprio perché si regge su tante diverse realtà», osserva Feltrin. «La vera difficoltà, per Maroni, consisterà nel fare in modo che il partito del Nord diventi partito nazionale. Cioè che resti unitario e riesca nello stesso tempo a emanciparsi davvero dal mito separatista».
Ecco, Feltrin fotografa l’impervio tracciato che si apre davanti all’ex ministro dell’Interno, sostanzialmente predestinato alla successione. Difficile coniugare quella che il professore triestino definisce «normalizzazione», secondo cui «la Lega dovrebbe assimilarsi ad altri modelli di partito regionale, come la Csu bavarese o gli autonomisti catalani», con il profilo «meno radicale che lo stesso Maroni ha mostrato da ministro». Pare cioè molto complicata da compiersi proprio la missione di cui “Bobo” viene specificamente investito (più dall’esterno che dai suoi, per ora), ossia ridefinire il sistema della Lega in chiave più moderata seppur distinta dall’istanza territoriale. «Il che non ci autorizza a dire che la Lega si dissolverà», ribadisce Feltrin, «perché il fenomeno ha ormai una sua sedimentazione, è presente sul territorio in maniera forte. Annovera almeno tre generazioni di dirigenti, e poi ci sono gruppi parlamentari tuttora folti, con l’interesse anche
legittimo ad evitare che si dissolva tutto». Il radicamento: proprio questo tratto del partito padano prefigura due diversi esiti. «Si fosse trattato di un fenomeno meno legato al territorio, allora sì che il rischio polverizzazione sarebbe stato elevato. Un partito nazionale avrebbe pagato probabilmente di più la fine del leader». Ma se il legame con il territorio preserva i leghisti dalla scomparsa, esso stesso in realtà favorisce il rischio della divisione. «Parliamo di una forza che raccoglie il 2530 per cento dei consensi nelle regioni più ricche d’Italia. E attenzione: la Lega si alimenta della drammatica frattura tra Nord e Sud del Paese. E allora, è
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triumvirato». Un debole, segnale che in qualche modo attesta la volontà di non affrontare il vero nodo, la disgregazione. Debole anche perché, Maroni a parte, c’è una dirigente come Manuela Dal Lago che non è la più “pesante”, nell’ala veneta del partito, e un figura sì cruciale come quella di Roberto Calderoli che adesso però è in difficoltà. «Il triumvirato è una risposta ambigua di fronte a un’esigenza di chiarezza. Nelle crisi è preferibile individuare subito una nuova leadership». Il ritorno alle molte “leghe”degli albori è meno lontano di quanto si pensi, dunque. «Intendiamoci: Maroni è l’unica chance disponibile, per la Lega. Ma rispetto alla sua capacità di tenere tutto unito, non si sottovaluti il fatto che l’ex ministro dell’Interno appartiene alla stesa generazione politica di Bossi, anche se l’età è diversa. Si conoscono dal ’79. Non c’è dunque un cambio generazionale». Anche Bobo è dunque il leader «di una parte», nel senso appunto che è di un’altra generazione rispetto agli emergenti, «i Salvini, i Tosi, Zaia».
Il mito separatista, seppur affievolito, è riuscito a tenere insieme i piccoli localismi di cui si compone il Carroccio. Non sarà facile arrivare a una Csu italiana
Padania. Nadia Dagrada, ai pm di Milano e di Napoli che l’hanno interrogata come testimone il 3 aprile, ha di fatto confermato quanto emergeva dalle intercettazioni. «Mi si chiede se siano entrati nelle casse della Lega Nord soldi in contante “in nero”. Sì, mi ricordo che alcuni anni fa l’ex amministratore della Lega Nord, Balocchi, portò in cassa 20 milioni di lire in contante dopo essersi recato nell’ufficio di Bossi».
Nel corso del suo interrogatorio la Dagrada tratteggia un ulteriore, inquietante aspetto dell’ex tesoriere Belsito: «Mi disse
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vero che i possibili esiti sono due, e che c’è innanzitutto quello della normalizzazione di cui si è detto prima. Ma teniamo sempre presenti i modelli di riferimento: la Catalogna o la Baviera rappresentano si è no un decimo del loro Paese. Qui invece parliamo dell’intero Nord, del 55 per cento dell’Italia». E perciò il secondo esito, la frammentazione, pare a Feltrin più verosimile dell’altro. Nonostante Maroni. O forse, proprio perché Maroni non difenderà una mitologia separatista che già con Bossi non reggeva più.
Non è irrilevante, aggiunge il professore Feltrin, «il segnale offerto con l’indicazione del
che aveva registrato un colloquio con Umberto Bossi nel quale gli aveva “ricordato” tutte le spese sostenute nell’interesse personale della famiglia del
Queste nuove generazioni sono espresse dai vari territori. «Messi insieme parliamo di una parte del Paese con 23 milioni di abitanti. La soluzione trovata da Bossi per tenere tutto unito è consistita nel rimando all mito separatista», Anche se negli ultimi anni lo slogan della secessione è stato accantonato, sullo sfondo l’idea restava ed era un’idea unificante «come il sol
continua la deposizione della Dagrada - dopo la malattia del segretario federale Umberto Bossi. Dopo il 2003 c’è stato “l’inizio della fine”: si è comincia-
dell’avvenire per i bolscevichi... cioè in nome di un obiettivo più grande i vari territori e i vari dirigenti accettavano di tenere da parte i contrasti. Si tenga presente che nessuno si sognerebbe di dire che la Csu non è un partito tedesco. Ma in Italia, invece, davvero il partito del Nord può diventare partito nazionale?».
L’estrema difficoltà, che è poi una sfida, è proprio questa, per Roberto Maroni. «Da ministro dell’Interno non ha avuto una linea particolarmente radicale rispetto ai temi leghisti. Motivo per il quale è stato guardato con sospetto». Pesa assai più, questo tratto, nel conflitto scoppiato all’interno del Carroccio, secondo Feltrin, «che non le questioni personali, le gelosie». Insomma, il cerchio magico è un epifenomeno, paradossalmente. Più una sovrastruttura. La sostanza politica è un’altra e consiste nel profilo politico di Maroni, meno compatibile con il retropensiero separatista. «Eppure la sua strada è davvero in salita. Anche perché in fondo, fosse davvero stato facile fare del Carroccio una forza sì localistica ma dall’ispirazione meno radicale, ci avrebbe provato lo stesso Bossi». Il che, per il sociologo e politologo triestino, non equivale certo a ignorare «l’incredibile paradosso di un sistema di finanziamento dei partiti che, dopo l’esplosione di Tangentopoli, è diventato ancora più pericoloso, criminogeno: perché troppo centralizzato e privo di vincoli. Un tema molto sottovalutato. E certo non solo dalla Lega».
pubblico, una serie di spese personali a vantaggio di Riccardo Bossi e degli altri familiari. In particolare, con i soldi della Lega venivano pagati i
L’ex segretario ammette: «Sbagliato far entrare i miei figli in politica». Ma difende il Trota: «Mi ha portato le prove che l’automobile è sua e l’ha pagata lui, di questo sono certo perché l’ho visto con i miei occhi» Senatùr con i soldi del finanziamento pubblico. Non so se Belsito abbia effettuato tale registrazione. Mi disse di voler utilizzare in nastro come strumento di pressione dal momento che volevano farlo fuori». «La situazione è precipitata -
to con il primo errore, consistito nel fare un contratto di consulenza a Bruxelles a Riccardo Bossi, se non ricordo male da parte dell’onorevole Speroni. Dopodichè si sono cominciate a pagare, sempre con i soldi provenienti dal finanziamento
conti personali di Riccardo Bossi, per migliaia di euro, e degli altri familiari. Secondo una fonte vicina all’ex ministro dell’Interno «ora le cose cambieranno. Da qui al congresso federale faremo molta pulizia e salteranno molte teste. Se ne
vedranno parecchie, di teste cadute». La prima, a onor del vero, dovrebbe essere quella del Trota.
Anche la laurea che Renzo Bossi sta prendendo presso un’università privata di Londra, infatti, era “a carico” della Padania: «Anche Renzo Bossi dal 2010 sta “prendendo” una laurea ad un’università privata di Londra e so che ogni tanto ci va a frequentare e le spese sono tutte a carico della Lega, ed anche qui credo che il costo sia sui 130.000». Roma sarà anche padrona, ma la Padania qui pare proprio ladrona.
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l’approfondimento
È arrivato il momento, ora che la premiata ditta B&B sembra uscita di scena, di costruire una nuova stagione politica
Anatomia di un fallimento Secessionismo, Parlamento del Nord, finto federalismo, ronde contro i rom. Sono solo alcune delle derive che hanno caratterizzato l’intera cifra leghista. Contribuendo così a distruggere la già disastrosa Seconda Repubblica di Enrico Cisnetto opo Berlusconi, Bossi. Era inevitabile, è successo nel peggiore dei modi. Ed è davvero insopportabile la tanta melensa pietà che ha circondato la penosa uscita di scena del leader della Lega. Intanto perché quel moto di umana comprensione che ha fatto il giro di tutti i talkshow e ha riempito le pagine dei giornali - “è malato, gliene facevano di cotte e di crude alle sue spalle” - fa a pugni sia con la realtà di un “partito-califfato” di cui Bossi, prima e dopo la malattia, era pienamente padrone, sia con il cinismo giustizialista che il partito del cappio sventolato in parlamento ha sempre mostrato senza mai farsi alcuno scrupolo. E poi perché si è finiti per barattare il giudizio morale con quello politico: per il primo condanna, per il secondo assoluzione (di fatto). Invece gli episodi che stanno facendo cronaca, pur nella loro evidente gravità e intollerabilità, alla fine sono marginali rispetto alle responsabi-
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lità politiche che si possono e si debbono attribuire a Bossi. Semmai, confermano l’inevitabile deriva che prendono i partiti leaderistico-carismatici, ma anche questo è un giudizio politico. Il vero tema, dunque, è il ruolo che Bossi e la Lega hanno giocato in quella disastrosa stagione politica che abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica.
E qui la condanna (politica, naturalmente) non può che essere nettissima: hanno sollevato alcuni problemi reali ma gli hanno dato risposte totalmente sbagliate. La “questione settentrionale”, per esempio: tanto la risposta federalista quanto, ancor peggio, quella secessionista - anche se sempre evocata ma mai praticata - si sono rivelate delle formidabili sciocchezze. Nel primo caso perché il decentramento, in una fase storica dove i paradigmi imposti dalla globalizzazione sono le grandi dimensioni e la velocità delle decisioni, e in un paese che ha
il campanilismo nel suo dna, ha finito solo con il frazionare il potere (accrescendo a dismisura il contenzioso tra centro e periferia), distribuire a pioggia diritti di veto (bloccando le grandi opere) e con l’aumentare la spesa pubblica (tutti vogliono tutto sotto casa, dalle università agli aeroporti). Invece di capire che servirebbe un movimento di popolo per sollecitare gli Stati Uniti d’Europa, realizzando così il vero federalismo, quello verso l’alto
Non è un caso che il Carroccio si opponga a Monti come fa Di Pietro
che unisce ciò che è diviso e non viceversa, per colpa della Lega molti italiani si sono illusi che avvicinando il potere ai cittadini attraverso la moltiplicazione dei livelli del decenamministrativo tramento avremmo risolto i nostri problemi di democrazia fragile e acerba. Se poi si aggiunge che quella becera evocazione dell’autonomia del Nord – fatta attraverso un frasario, parole e gesti, a dir poco elementare – ha generato disprezzo per l’u-
nità nazionale e le sue istituzioni pur essendo chiaro a tutti quanto fossero ridicole le Camicie Verdi, il parlamento padano e la restaurazione della Serenissima, e ha alimentato il qualunquismo dell’antipolitica, si può meglio calcolare quanto danno abbia provocato il signore in canottiera che tanto a destra quanto a sinistra ha sempre suscitato simpatia per quel suo modo di essere popolare. Ma anche sul terreno della sicurezza dei cittadini, altro cavallo di battaglia leghista, si possono misurare i vuoti e i guasti delle parole d’ordine leghiste: dalle salvifiche ronde alle pulizie etniche anti-rom, nulla è servito a migliorare la qualità della vita degli italiani, ma molto è servito ad alimentare un clima di tensione fine a se stessa. E in economia? A parte la delega in bianco a Tremonti, la linea della Lega di Bossi è stata una contraddizione totale: gli stessi che facevano i liberisti con le tasse, fino a evocare gli scio-
I governi che si sono succeduti si sono distinti non per il bene comune ma per interessi particolari
Vent’anni buttati tra Berlusconi, Bossi e Prodi La loro cattiva politica ha spazzato via ogni possibilità di rinnovamento del Paese. Adesso i partiti cambino e si ricostruiscano da zero. Senza fare sconti a nessuno di Giancristiano Desiderio enti anni buttati al vento. Nessuno è riuscito a realizzare quanto aveva progettato e annunciato agli italiani di voler attuare. La terra promessa non è stata neanche avvistata, mentre la nazione intera ha rischiato il naufragio. Nessuno ha partorito qualcosa di solido e duraturo: non c’è riuscita la destra con la sua “rivoluzione liberale”che si è rivelata un’illusione ottica, non c’è riuscita la sinistra con il suo“Paese normale”che si è regolarmente ha mostrato le sue anomalie, non c’è riuscito il leghismo con un federalismo che è c’è stato metabolizzato da uno Stato che assorbe tutto.
scenza. Nessuno può rimpiangere la stagione democristiana e comunista - eccezione fatta per i democristiani e comunisti giovani e per i loro altrettanto giovani oppositori, si capisce - con i suoi riti, liturgie, bizantinismi, con il consociativismo ma la stagione del bipolarismo a guardarla ora che ci voltiamo indietro sembra essere stata il tempo delle mode smodate, dei desideri spacciati per progetti, delle intenzioni al posto delle azioni, il tempo dell’inconcludenza. Ogni riforma è stata annunciata
Berlusconi e Bossi, Prodi e D’Alema non rappresentano risultati ma fallimenti, non hanno fatto conquiste ma buchi nell’acqua. La Seconda repubblica era stata ideata per“superare”la Prima e trasformare la “repubblica dei partiti”in “repubblica dei cittadini” invece è venuta fuori la “repubblica delle caste” e dell’Antipolitica. È durata “solo” venti anni, dal 1992 al 2012, ma sono due decenni che equivalgono almeno a quarant’anni della Prima repubblica. Le analogie con il passato prossimo e remoto della storia d’Italia si sprecano. Il
Bisogna procedere a piccoli passi e andare avanti per obiettivi reali, non sulla spinta di slogan elettorali
passaggio da un regime all’altro avviene sempre in modo traumatico: dallo Stato liberale al fascismo, dall’Italia divisa in due alla Repubblica e dalla fine della Prima alla Seconda repubblica. Di mezzo c’è sempre uno schianto, un crollo, un tracollo. A volte il passaggio è brusco e sanguinoso. Questa volta c’è il crollo ma non i lutti, fortunatamente. Ma che ci si trovi dinanzi ad un “tornante della storia” - come dice Tremonti - è indubbio. Solo che c’è un piccolo particolare non irrilevante: il tornante della storia è frutto di sbagli, omissioni, rinvii che in questi venti lunghi anni i padri e i padrini della Seconda repubblica hanno commesso.Tutti lo hanno fatto allo stesso modo: dipingendo il passato della Prima repubblica come il diavolo e illustrando il futuro della Seconda come il regno della libertà e del benessere perenni. Al di là delle sottili analisi e delle mille interpretazioni, sono stati anni contrassegnati dall’esagerazione e dall’irricono-
come il rimedio a tutti i mali precedenti causati da uomini e partiti il cui unico interesse sarebbe stato quello di asservire e volere il potere per asservire. Nessuna meraviglia: la storia e la politica s’intrecciano e l’una usa l’altra per i suoi comodi. Ma il tratto caratteristico degli anni della Seconda repubblica è la menzogna. Il tempo vissuto è stato quello dell’inganno. E quando tutti hanno ingannato tutti è subentrato il tempo dell’autoinganno che ci ha condotti a un soffio di vento dall’Isola del Giglio. I governi si sono succeduti tessendo la più classica tela di Penelope e ogni esecutivo si è dilettato nello sport della calunnia del governo precedente che “ci ha lasciato una pesante eredità”. Così, a furia di eredità disastrose nel lavoro, nelle pensioni, nel fisco siamo giunti al governo Monti che ha raccolto l’eredità più pesante, quasi come se il Paese fosse uscito da una guerra. Non è casuale che nelle prime settimane di vita del “governo
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dei professori” si parlasse della “guerra dello spread”. Eppure, i ministri-professori non hanno vituperato il passato per giustificare il presente e promettere il radioso futuro. Si sono limitati alla serietà del lavoro. La Seconda repubblica ci ha proposto un’idea ciclistica della politica e della vita istituzionale: un uomo solo al comando. Berlusconi ne è stato senz’altro l’interprete principale con l’illusione di realizzare un “secondo miracolo italiano” con “l’Italia che ho in testa”. Romano Prodi, però, non è stato da meno, tanto che arrivò a promettere agli italiani nientemeno che la felicità. Gli uomini di buon senso e di buona volontà non credono a volgarità del genere e sanno che sono imposture, ma gli uomini di buon senso e di buona volontà si sono voltati altrove, forse hanno fatto altro, forse si sono dedicati a curare il giardino di Candido. La politica e la conduzione degli affari di Stato non è una gara ciclistica e l’unico parallelo con i corridori è nella fatica della pedalata. Oggi, dopo questo tornante, direbbe il Bartali “è tutto da rifare”. L’Italia è tutta da rifare. Ma non è vero neanche questo. Non dobbiamo rifare tutto da principio. Nessuno riparte da zero. Forse non abbiamo giganti sulle cui spalle poggiarci ma abbiamo
un passato che ci sostiene e un presente da coltivare.
Quanto al futuro, beh, è meglio considerarlo “aperto” come invitava a fare il vecchio sir Karl, piuttosto che usarlo come un inganno per gli altri e noi stessi. La lezione che ci arriva dal funerale della Seconda repubblica è duplice: non ingannarci sulla storia dell’Italia e non trasformare i desideri in politica. In una sola parola: serietà. Procedere a piccoli passi e non a botta di grandi riforme, andare avanti per obiettivi reali e non sulla spinta di slogan e parole d’ordine, dire pane al pane e vino all’avversario ma senza demonizzarlo, dare il buon esempio e non buoni consigli. Abbiamo perso venti anni perché, al contrario di quanto si è detto, l’eredità della Prima repubblica l’ha consentito; speriamo si sia capito che non ci è dato perderne altri venti, perché l’eredità della Seconda repubblica non lo consente.
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peri fiscali, praticavano la difesa della peggior spesa pubblica corrente, impedendo la cancellazione delle province e la privatizzazione delle municipalizzate.
D’altra parte, non è un caso che la Lega tenga compagnia a Di Pietro, Vendola e Storace nell’essere all’opposizione del governo Monti e alla discontinuità che esso ha prodotto nel bipolarismo malato italiano. Solo che ora il tema è un altro: adesso che la premiata ditta “B&B” ha completato la sua rovinosa caduta, possiamo finalmente mettere una pietra tombale sopra la Seconda Repubblica? È sufficiente, per celebrare questo benedetto funerale, che il Cavaliere sia caduto per la pressione dei mercati finanziari e dei partner europei? E che il Senatur sia stato costretto alla resa non da una malattia che avrebbe dovuto suggerirgli la pensione, ma da uno scandalo che suscita molta più indignazione di quanto non ne meritassero gli episodi di corruttela vero o presunta su cui con il suo moralismo da quattro soldi la Lega ha costruito la sua fortuna politica? Per ora ci dobbiamo limitare a constatare che sono fuori uso – salvo futuri tentativi di auto-repechage, che non sono affatto da escludere – i due maggiori protagonisti e beneficiari di questi ultimi vent’anni di vita nazionale. Oltre non si può andare, anche perché è bene riflettere sul fatto che “B&B” sono caduti per fattori esogeni, e non endogeni. Per essere chiari: né Alfano, che anzi è segretario su investitura diretta di Berlusconi, né Maroni, che non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo anche quando gli si erano spalancate porte dinnanzi, sono stati i protagonisti dei ricambi – non a caso ancora molto incerti – che sembrano essersi aperti nel Pdl e nella Lega. E per essere ancora più chiari: non basta che qualcuno subentri ai due vecchi leader, né che si smontino le loro satrapie, ci vogliono profondi, radicali cambiamenti di cultura e linea politica. E di questi cambiamenti, per ora, non si vede neppure l’ombra. Per questo la caduta rovinosa di Bossi, così come l’eclissi di Berlusconi, finora sono state solo premesse “teoriche” per l’avvio della Terza Repubblica. La quale, lo dicevamo la settimana scorsa, necessita di un salto di qualità sia nell’azione del governo Monti – e l’epilogo della riforma sul mercato del lavoro certo non va in quella direzione – sia nell’iniziativa politica di un nuovo partito o polo della “ricostruzione nazionale”, della cui nascita dobbiamo giocoforza rimandare di una settimana rispetto alle intenzioni l’analisi. Nel frattempo, buona Pasqua. (www.enricocisnetto.it)
economia
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Mercoledì il testo approda al Senato. E da viale dell’Astronomia parte una serrata azione di lobbing per ottenere modifiche
Il costo del lavoro Confindustria ancora sulle barricate, già iniziato il pressing sul Parlamento. Ma dalla riforma dell’articolo 18 arrivano anche benefici alle imprese di Francesco Pacifico
ROMA. Le imprese aspettano il 19 aprile, quando Giorgio Squinzi presenterà la nuova squadra di Confindustria. E, se l’accordo tra il patron di Mapei e l’ex sfidante Bombassei porterà in dote a Stefano Parisi la delega alle relazioni industriali, allora governo e sindacato si troveranno di fronte lo stesso falco che già nel 2003 spinse Antonio D’Amato ad attaccare il dogma dell’articolo 18. L’orizzonte di Mario Monti, invece, è ancora più di breve durata: l’inizio della prossima settimana, quando i mercati torneranno a trattare il debito italiano. E i primi sentori non sono dei migliori: 357 punti lo spread tra Btp e Bund tedesco nel giorno dell’annuncio del compromesso tra governo e partiti, 370 punti ieri, dopo una settimana nella quale la Spagna è tornata a far paura. Due eventi – la scelta del nuovo vicepresidente di Confidustria deputato a trattare con sindacati ed esecutivo e il con-
stretta sulla collaborazione. Anche perché in viale delle Astronomie si guarda soltanto agli aggravi in termini economici e normativi, si fa fatica a vedere i benefici che in termine di semplificazione pure il testo al varo della Camere porta agli imprenditori. Non a caso il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini suggerisce alla Marcegaglia: «Non facciamoci del male a vedere il bicchiere mezzo vuoto, il bicchiere e’ mezzo pieno. Per molto meno, lo ricordo alla presidente di Confindustria Marcegaglia, Cofferati portò in piazza tre milioni di persone. Il giudizio della Marcegaglia sulla riforma è ingeneroso, bisognava trovare un’intesa mediana, è sempre così per le riforme. Il Parlamento poi non è passacarte». Ma al momento guai a richiamare la Marcegaglia alla ragion di Stato oppure spingerla a pesare pro e contro di una riforma imposta soprattutto dall’Europa. Al di là degli impegni presi dal governo del 22
Casini avverte la Marcegaglia: «Evitiamo di farci del male, il tuo giudizio è ingeneroso, perché i grandi cambiamenti impongono sempre un’intesa mediana». Ancora fibrillazioni nel Pdl to presentato dalla speculazione – che se concomitanti potrebbero riaprire i giochi sulla riforma dell’articolo 18. Potrebbero far saltare l’accordo tra governo, partiti e forze sociali, che, per i costi e gli irrigidimenti burocratici, Emma Marcegaglia avrà come «unico risultato minore occupazione». La palla passa al Senato (mercoledì il testo arriva in commissione Lavoro) e Confindustria già affila le armi per un’azione di lobbing che sarà serrata e che forse soltanto il ricorso alla fiducia potrà frenare. Intanto alcune categorie (come Federterme) sono costrette a congelare il rinnovo dei contratti in attesa dell’approvazione della riforme e la
marzo – quando Monti disse che le trattative erano chiuse – Confindustria teme che i futuri ammortizzatori sociali saranno pagati da una parte. E vede una strada per allargare la discrezionalità dei giudici nella dizione «manifesta insussistenza» che porterebbe all’annullamento dei licenziamenti economici. Nota al riguardo il giuslavorista Arturo Maresca, ordinario di diritto di lavoro alla Sapienza e uno dei tecnici più autorevoli agli occhi delle imprese: «Io sono convinto che questa norma sia un buon passo avanti, che non ci siano ambiguità.Vero però che introdurre per il licenziamento disciplinare tre fattispecie che lo
escludono (il lavoratore non ha commesso il fatto, il fatto non sussiste o il fatto ipotizzato attiene alla sanzione tipizzata dai contratti collettivi) e a quello oggettivo la manifesta insussistenza finiscono però per estendere il grado di interpretazione delle nuove norme. E tanto basta per capire che cresce l’incertezza». Il ministro Fornero ha consigliato alla presidente Marcegaglia di mettere sul piatto anche i nuovi obblighi per chiudere i giudizi entro due anni. Secondo Maresca già oggi il presidente del tribunale potrebbe, nell’assegnazione dei casi, «dare priorità ai processi che riguardano licenziamenti». Ma benefici per le aziende, il giuslavorista romano, li intravede soprattutto sul versante degli indennizzi. «Con le attuali norme», spiega Maresca, «il magistrato poteva riconoscere a favore del lavoratore il reintegro, il pagamento di tutti gli stipendi e i contributi arretrati. Oggi, se va male, non si va oltre le 24 mensilità. Ed è un bel risparmio, anche perché tetti, di fatto, si applicano soltanto sulle transazione. Anche se in maniera molto discrezionale, con il risultato che al Sud – siccome un posto di lavoro ha un valore maggiore – l’indennizzo è più alto». Intanto il vicepresidente della commissione del Lavoro della Camera, Giuliano Cazzola, avverte: «Per il Pdl la questione della flessibilità in entrata non è chiusa». Tema sul quale le aziende sono molto sensibili, visto che la Fornero ha finito per aggravare il costo anche sui quegli strumenti (il contratto a termine, su tutti) non bollati come “cattiva flessibilità”.
La pietra dello scandalo è soprattutto l’aliquota dell’1,4 per cento in più sull’Aspi, il nuovo ammortizzatore universale, che le imprese pagheranno sui contratti a tempo. Soldi che saranno restituiti in fase di stabilizzazione, e in toto,
I dati diffusi dall’Inps: +21% rispetto al mese precedente
Cassa integrazione, boom a marzo Nel mese di marzo 2012 sono state autorizzate 99,7 milioni di ore di cig, pari a -1,8% rispetto a marzo 2011, quando furono autorizzate 101,6 milioni di ore. E nei primi 3 mesi dell’anno si è giunti a quota 236,6 milioni, contro i 231,8 milioni del 2011 (+2,1%). Lo ha reso noto ieri l’Inps. Rispetto al dato tendenziale, quello congiunturale rispetta l’andamento degli ultimi anni, che vede in marzo la cassa integrazione aumentare rispetto al mese precedente: l‘incremento nel 2012 è stato del 21,6% (99,7 milioni di ore a marzo contro 81,9 milioni a febbraio). Nel 2011, l’incremento era stato del 44,7% (101,6 milioni di ore a marzo contro 70,1 milioni a febbraio). Passando al dettaglio per tipologia di prestazione, la cigo di marzo risulta aumentata del 12,8% rispetto a febbraio, essendo passati da 25,1 a 28,3 milioni di ore. Rispetto al marzo del 2011, quando le
ore autorizzate erano state 23,2 milioni, l’aumento è del 22,3%. L’incremento è attribuibile in larga misura alle autorizzazioni riguardanti il settore industria, aumentate del 27,2% rispetto a un anno fa, mentre più contenuto, rispetto a marzo 2011, è l’andamento delle richieste relativo al settore edile (+10,4%). «Le ore di cassa integrazione autorizzate in marzo anche quest’anno superano quelle di febbraio ma con un aumento più contenuto rispetto al 2011» ha detto il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua. «Il 2012 si conferma in questi primi mesi ancora come un anno discontinuo: l’andamento congiunturale rispecchia quello dei recenti anni in cui si è manifestata la crisi; le richieste di Cig di marzo sono in lieve diminuzione rispetto a quelle dello scorso anno, mentre nel periodo, i primi tre mesi dell’anno, si registra un andamento di segno opposto».
economia
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Il premier trovi una soluzione che preveda il ritorno al dialogo civile tra le parti
Ma l’abilità di Monti deve risolvere questo contrasto Come in altri casi, può indicare la via dell’equilibrio tra le (dure) obiezioni delle imprese e le reazioni (troppo dure) della Fornero di Osvaldo Baldacci on facciamoci del male a vedere il bicchiere mezzo vuoto» ha detto ieri il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini riferendosi alla riforma del lavoro. Perché le vicende di questi giorni, i temi dei partiti, della corruzione, dei finanziamenti, della Lega stanno riempiendo le pagine dei giornali, ma sotto bolle sempre il tema più scottante, quello della riforma del lavoro. Quello che più da vicino tocca la vita dei cittadini e dei lavoratori, delle imprese e della possibilità di rilancio della competitività dell’Italia. Un tema difficile, delicato, da prendere con le molle, e che nonostante l’accordo raggiunto non è ancora andato in porto. Per cui attenzione, non facciamoci del male. E invece in questi giorni la temperatura sembra tornata altissima, forse peggio ancora del periodo delle trattative. E a comportarsi più responsabilmente stavolta sembrano essere proprio i leader politici oltre a Bonanni. Dalle altre parti invece arriva pericolosamente vogli di fare le bizze.
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soltanto per i primi sei mesi del rapporto di lavoro. Ma ancora più pesante il limite temporale di 36 mesi, dopo il quale si deve passare al tempo indeterminato. «Una norma», sottolinea Maresca, «che finisce per colpire anche le categorie stagionali, visto che la materia viene regolato da un dpr del 1963. Il quale disciplina gli “sbucciatori di noci”, ma non cita gli operatori della filiera agricola o gli addetti del turismo».
sull’aspetto contributivo del problema, «mentre non si sono chiarite le sanzioni né se questo strumento interviene sulla qualificazione e sulla qualifica del lavoratore. Questione non da poco, perché nel secondo caso non puoi assumere – usufruendo dei benefici previsti – chi ha già ha avuto un contratto». Per il giuslavorista le aziende continueranno a non utilizzare questa via. Ma è facile ipotizzare anche un minor ricor-
Il giuslavorista Arturo Maresca: «È vero, ci saranno maggiori oneri per le aziende, ma con il tetto di 24 mensilità per gli indennizzi risparmiano in termini di tempo e di soldi» Anche su questo versante la Fornero non fa ammenda tanto da definire «una liberalizzazione» la cancellazione della “clausola”. Una mezza innovazione per Maresca, visto che «che questa clausola vale soltanto per il primo contratto, non in fase di rinnovo. Detto questo, poca cosa rispetto allo scempio fatto sull’apprendistato e del quale nessuno si lamenta, perché fiore all’occhiello del governo, delle imprese e dei sindacati». L’errore è stato soffermarsi soltanto
so a tutte quelle figure introdotte dalla Biagi per evitare l’allargamento del sommerso: i loro contributi saranno nel corso degli anni parificati a quelli dei lavoratori fissi, sulle partite Iva graveranno una serie di presunzione di irregolarità e i Co.co.pro. saranno vincolati a compiti precisi e vietati per alcune attività. «E salta persino il recesso anticipato. Con il rischio», conclude Maresca, «che il lavoro a progetto diventi più stabile di quello a tempo determinato».
trovare una equa mediazione per ottenere un risultato. Assai meno pacata la risposta del ministro del Lavoro Elsa Fornero per mezzo di un’intervista sulla Stampa: quella di Marcegaglia alla riforma del lavoro è una «reazione incomprensibile di fronte a un cambiamento marginale e ragionevole che non stravolge il senso della riforma». Ma il peggio viene dopo. per il ministro gli industriali «per anni hanno biasimato il teatrino della politica, ora ci tocca assistere al teatrino delle parti sociali». Fornero si dice «sconcertata da questi cambi di fronte e dal fatto che sia sempre necessario demonizzare qualcuno, è davvero un segno di immaturità del Paese». Quello che più di tutto sembra confondere il ministro sono quelli che definisce i cambiamenti di posizione: l’aveva già garbatamente fatto notare in relazione ai sindacati, ora lo ribadisce con più forza sugli ultimi sviluppi: «Non è cambiato quasi nulla rispetto a un testo accettato da tutti tranne che dalla Cgil e adesso sembra di essere passati all’opposto: io faccio ancora fatica a comprendere questa giostra». Senza risparmiare frecciate alla sinistra: «Non ci sono vincitori e vinti ma una soluzione equilibrata, mi sembra un tantino esagerato questo cantare vittoria da parte della sinistra».
Occorre ricucire tutti gli strappi non tanto per cedere ai veti, quanto per tenere sempre aperta la possibilità di reciproca e proficua collaborazione
Ieri ad alzare di più i toni sembra essere la Confindustria, spiacevolmente sorpresa dalle ultimissime modifiche relative al reintegro e all’articolo 18. Ma allo stesso tempo sarebbe illusorio dimenticarsi invece che quelle stesse modifiche continuano a non essere gradite alla Cgil, che non ha cambiato la sua posizione di contrasto frontale alla riforma. In mezzo il governo, che tanto bene sta facendo ma che si trova pure ad essere protagonista di qualche alzata di tono troppo dura, come forse l’intervista di ieri del ministro Fornero alla Stampa. La più aggressiva in questi giorni sembra la presidente uscente della Confindustria, Emma Marcegaglia, che tanto merito e coraggio ha avuto nell’impegno profuso negli ultimi anni per rilanciare l’Italia e spingere anche i politici alle riforme necessarie. Negli ultimi giorni però quelle poche virgole cambiate a un testo per altro ancora non definitivamente noto proprio non le sono andate giù. Pubblico il battibecco col premier Monti, che le ha risposto un po’seccamente «una riforma così ve la sognavate». Poi un’intervista sul Financial Times in cui ha definito pessima la riforma approvata in Italia, giudizio per altro in linea con la dichiarazione ufficiale delle associazioni produttive e finanziarie che pochi giorni fa avevano contestato le modifiche dicendo che una cattiva riforma era assai peggio di nessuna riforma. Pacata la risposta di Casini, che ha ribadito come fosse necessario
Insomma, non certo acqua sul fuoco bensì benzina, con quello che costa. Ma il governo ha delle responsabilità per le quali deve stare più attento. Il fatto che molti siano scontenti a destra come a sinistra può essere un punto di merito, un segno del raggiunto equilibrio. Ma per ammissione dello stesso premier questa riforma, importante, è difficile da spiegare proprio a quei cittadini che la vivono sulla propria pelle. Allora il governo deve farsi forza del suo equilibrio, non deve usare la sciabola col rischio di rendere ancora più incandescente il clima. Il governo ha la responsabilità di decidere, anche senza l’accordo unanime delle parti sociali. Ma non deve rompere il dialogo e il rapporto di rispetto con esse. Il premier Monti è stato bravissimo anche in questo in più occasioni, ora forse tocca ancora a lui ricucire anche con gli scontenti non per cedere ai veti su una riforma sostanzialmente immodificabile ma per tenere sempre aperta la possibilità di reciproca collaborazione. Collaborazione anche nel cercare di spiegare al Paese i passi difficili che stiamo affrontando. E naturalmente collaborazione che deve venire anche dalla parti sociali.
società
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Appello di Gabriella Carlucci: «L’azienda è sempre stata una struttura limpida ed efficiente. Chiuderla sarebbe un danno gravissimo»
«Salvate il “soldato” Arcus» Lettera aperta a Monti, Ornaghi e Passera per evitare la chiusura della società creata a sostegno della nostra cultura di Gabriella Carlucci
ignor presidente Monti, signori ministri Ornaghi e Passera, in questi giorni ci si appresta ad adottare un provvedimento con il quale si intende liquidare Arcus, la società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo Spa, che dal 2004 si occupa della gestione di investimenti a sostegno e tutela del patrimonio culturale italiano materiale e immateriale. Fino ad oggi questi investimenti am-
S
che sono state mosse alla Arcus accusata di essere una «cassaforte dei ministri di turno, ove attingere per elargire a fondo perduto danaro pubblico agli amici», oltre che essere un «colabrodo» che, per mantenersi, dovrebbe sostenere ricche spese di gestione. A una più attenta analisi, invece, Arcus si è sempre voluta proporre come una efficiente struttura operativa in grado di garantire gli interessi dei tre ministeri di riferimento - Economia e Finanze, Beni e Attività culturali, Infrastrutture e
montano a circa 600 milioni di euro su oltre 500 progetti, confermando l’importanza della società, che ha riportato ogni suo bilancio in utile, nel panorama nazionale del sostegno ai beni e alle attività culturali.
Solo per fare qualche esempio, Arcus ha sostenuto il completamento della parte architettonica del primo museo nazionale dedicato alla creatività contemporanea, il MAXXI, importanti restauri e progetti di valorizzazione con istituzioni culturali di assoluto prestigio tra cui il FAI, la Dante Alighieri, la Fondazione Cini. E ancora, il sostegno alla Fondazione Teatro Regio di Parma, grazie a cui sono state possibili le attività programmate per il Festival Verdi e si è permesso di creare le basi affinché la città di Parma si imponesse come riferimento indiscusso per la musica di Verdi, e gli interventi sulla realizzazione delle nuove linee metropolitane di Roma e Napoli, dove i lavori hanno comportato ritrovamenti archeologici, che diventeranno una risorsa da rendere visibile in una sorta di “metropolitana culturale”. Le notizie veicolate dai mezzi di informazione, tuttavia, non farebbero riferimento a questi importanti progetti che finora sono stati finanziati da Arcus, ma sembrerebbero invece confermare il fatto che il governo stia valutando una profonda trasformazione della Società che potrebbe portare alla sua liquidazione. Negli ultimi tempi, infatti, molte criti-
In questo momento di crisi, è più che mai necessario sviluppare le potenzialità e gli strumenti a disposizione del Paese per consolidare e salvaguardare il patrimonio culturale italiano
In questa pagina: due illustrazione del Museo MAXXI; uno scatto della deputata Gabriella Carlucci; un’immagine del ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi
Trasporti - favorendo la snellezza del governo dei flussi finanziari affidati alla sua gestione e garantendo le componenti di vigilanza sulla Società. Alla base delle critiche mosse, così come la stessa Società afferma, vi è la necessità di rafforzare il funzionamento di taluni atti di indirizzo ministeriali che governano l’operato della Società, ed è su questo aspetto che il governo potrebbe e dovrebbe agire. Il governo quindi può agire ratificando la nomina del Cda, definendo l’atto di indirizzo della Società e identificando in modo più stringente come sono indirizzate le risorse. Proprio la logica di risparmio e razionalizzazione del denaro pubblico che sottende all’idea di chiudere Arcus arrechereb-
be, invece, un danno gravissimo e ferale per la situazione già disastrata della politica culturale del nostro Paese. In questo momento di crisi nazionale e globale, è più che mai necessario sviluppare le potenzialità e gli strumenti a disposizione del Paese per consolidare e salvaguardare il patrimonio culturale italiano, in quanto la tutela della nostra storia e delle nostre tradizioni inevitabilmente alimentano il nostro senso di appartenenza ad un sentire comune. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte dell’intero governo significa che la strategia, e le conseguenti scelte operative, devono essere condivise dal governo e dai ministeri competenti, in un’ottica di una condivisione dell’assunzione di responsabilità per lo sviluppo. L’Italia può superare la crisi anche favorendo l’affermazione di nuovi modelli di sviluppo fondati sulla valorizzazione e promozione del patrimonio culturale. Per questo è necessaria una risposta politica efficace, che metta la cultura e il patrimonio culturale al centro dell’azione di governo.
Per questo motivo vi invito ad esercitare - nei confronti della liquidazione della Società Arcus - il vostro potere di sospensione di adozione della decisione, considerando la bontà delle azioni della Società, le sue potenzialità nel facilitare la sinergia pubblicoprivato, la necessità e la capacità, non più rinviabili di creare il nostro futuro.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Molteplici sono nei Vangeli i riferimenti di Gesù alla sua morte e alla sua resurrezione. Ma i discepoli, increduli, non erano preparati ad accoglierli. Segno della fragilità umana, la stessa che ancora rende difficile percorrere la via della salvezza
PASSIONE CRONACHE DI UNA
ANNUNCIATA di Sergio Valzania
istruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», risponde Gesù ai Giudei che gli chiedono con quale autorità avesse scacciato i mercanti dal tempio di Gerusalemme (Gv 2,18). L’evangelista avverte che il Cristo sta parlando «del tempio del suo corpo» e che la frase, incomprensibile per le persone alle quali è rivolta, fu capita anche dai discepoli nel suo significato pieno solo dopo la sua morte e resurrezione. Fra i molti percorsi che si intrecciano nei Vangeli c’è quello dell’incomprensione che quanti accompagnano Gesù nel corso della predicazione dimostrano per il senso profondo della sua missione salvifica e per le forme che essa assume, fino a quella radicale del sacrificio e della resurrezione. La difficoltà di comprendere e accettare la modalità non violenta nella quale la salvezza viene proposta sottolinea il carattere di rappresentanza dell’umanità intera affidata ai discepoli nei Vangeli. Essi si dimostrano come noi pigri di fronte all’insistente chiamata divina, mentre sono prontissimi nel riproporre e nel rimanere prigionieri della loro visione personale e particolare dei rapporti che si vanno creando e delle vicende nelle quali sono coinvolti.
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cronache di una
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Gesù non nasconde il carattere della sua missione terrena e più volte avverte quelli che lo circondano dell’esito che a essa si prepara a causa della durezza del cuore degli uomini. Qui non si può aggiungere «e delle donne», particolare troppo spesso trascurato e ingiustamente relegato a dato meramente socioculturale: non c’è una sola donna fra quanti accusano e poi condannano il Cristo. Invece i discepoli e gli apostoli, tutti uomini, più volte si dimostrano sordi ai ripetuti annunci che Gesù fa della Passione. Essi sono presenti nelle scritture fin da molto prima dell’Ultima cena, quando il saluto di Gesù agli apostoli provoca l’improvvida reazione di Pietro, che si risolverà nei tre rinnegamenti prima del canto del gallo. Nei Vangeli sinottici sono riportate tre occasioni, distribuite in modo leggermente diverso nei racconti di Matteo, Marco e Luca, nelle quali il Cristo li avverte in modo diretto dell’esito che si va preparando per la sua esperienza umana. In Matteo 16,21 troviamo addirittura uno scontro con Pietro, originato proprio da uno di questi annunci, che l’apostolo rifiuta. La collocazione del diverbio è indicativa, dato che esso segue la proclamazione del primato petrino «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18). Di seguito l’evangelista scrive che «Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno». Marco usa quasi le stesse parole in 8,31. Luca racconta l’episodio in 9,22, senza però aggiungere il contrasto che in conseguenza di tale annuncio sorge fra Gesù e Pietro stesso.
Forse anche in conseguenza dell’investitura ricevuta in vista della fondazione della chiesa, Pietro trae in disparte Gesù e protesta per l’annuncio ripetuto della Passione, e arriva a dire «Dio te ne scampi; questo non ti accadrà mai». Marco non riporta le parole esatte dell’apostolo e le parafrasa nella formula «cominciò a rimproverarlo» per quello che affermava. Le motivazioni di Pietro sono molteplici e tutte profondamente umane. Vanno dall’affetto all’ambizione personale, dall’incomprensione per un disegno divino che lo trascende alla rivendicazione di una posizione autorevole all’interno del gruppo dei seguaci di Gesù. Le sue parole non sono diverse da quelle che ciascuno di noi si sentirebbe di pronunciare nel desiderio di evitare una sofferenza a chi si ama e di protrarre un’esperienza di vita dalla quale si ricava anno V - numero 13 - pagina II
grande soddisfazione. La risposta che l’apostolo riceve alla sua protesta è durissima: «Lungi da me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Possiamo immaginare e persino condividere il dispiacere e la frustrazione di Pietro, che si vedeva nel ruolo dell’amico affezionato e del collaboratore fedele e viene invece trattato come l’avversario più ostile. L’errore di Pietro, e molto spesso il nostro, sta nella pretesa di anteporre la propria visione del mondo a quella di Dio, nel costruire una propria verità particolare ed egoistica nella quale rinchiudersi, nel non abbandonarsi alle parole di Gesù, sforzandosi di comprenderle e accoglierle per quanto ne siamo capaci. L’annuncio della Passione e della resurrezione viene ripetuto quasi negli stessi termini in Matteo 17,22, questa volta accompagnato da una descrizione dello stato d’animo in cui si trovano i discepoli: «Ed essi furono molto rattristati». Già in 17,12, dopo la trasfigurazione, Gesù aveva raccomandato a Pietro, Giovanni e Giacomo di non raccontare quello che avevano visto fino a quando «il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». L’insistenza nell’annuncio della morte e resurrezione, quando se ne cerca la notizia nei Vangeli, appare martellante, insistita. Allo stesso modo lo è l’incomprensione con la quale essa viene accolta. In Marco 9,30, parallelo a Matteo 17,22, è detto dei discepoli: «Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni». Nel passo analogo di Luca (9,24), Gesù è molto diretto nell’annuncio e richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori sull’importanza di quanto sta loro dicendo: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini». Ancora una volta le ammonizioni di Gesù provocano stupore e confusione tra i discepoli: «Ma essi non compren-
devano questa frase: per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento».
In tutti e tre i Vangeli sinottici la situazione viene riproposta una terza volta. L’annuncio è collocato poco prima dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, acclamato dal popolo al grido di «Osanna nell’alto dei cieli». In Matteo 20,19 le parole sono molto precise, tanto da far credere di essere state redatte basandosi sulle conoscenze successive. Gesù infatti avverte che «lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai gentili perché sia schernito, flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà». Marco usa parole molto simili in 10,32, nell’occasione non aggiunge niente in merito alla reazione dei discepoli di fronte a esse, come invece fa Luca in 18,31-34, quando scrive che «Non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto».
passione
Molte volte dunque Gesù parla del suo sacrificio e promette la vittoria sulla morte, ma i discepoli non lo capiscono, o non gli credono, come dimostreranno lo sbandamento e lo sconforto dimostrati da tutti loro, Pietro compreso, al momento della cattura e della morte del Cristo e l’incredulità generalizzata di fronte alla notizia della sua resurrezione. Se un conforto possiamo trarre da questo è nella conferma della decisione di Dio nel suo progetto di salvezza e della sua insistenza nel rivolgersi agli uomini e alle donne in modo non violento né invasivo, rispettoso e perfino timoroso di turbare la libertà di scelta che ha voluto lasciare loro in ogni occasione. Anche nel porgere ascolto alla sua parola. Neppure quelli che avevano frequentato Gesù con assiduità, gli erano stati amici e compagni di cammino, avevano ascoltato la sua predicazione e assistito ai suoi miracoli perdono il privilegio della libertà. Dio li chiama a sé senza interruzione, ma non li sommerge con la sua potenza. Il
Una raffigurazione di Gesù e San Pietro. In alto, la “Cena in Emmaus” di Caravaggio
annunciata
Vangelo di Giovanni è addirittura più ricco dei sinottici di annunci della Passione e della resurrezione di Gesù, anche se il linguaggio è di solito meno esplicito. In 7,33 il Cristo avverte: «Per poco tempo ancora rimango con voi, poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete e dove sono io voi non potete venire». In 10,17: «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, perché ho il potere di offrirla e di riprenderla di nuovo». In 12,32 troviamo l’annuncio della croce: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». In 13,33, dopo che Giuda ha lasciato l’ultima cena per portare a compimento il tradimento, Gesù ripete «ancora per poco sono con voi». Il 16,7 sono insieme l’addio e l’annuncio dell’invio della Spirito Santo: «è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore, ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò». Subito dopo, in 16.17-19, anche Giovanni racconta lo sconcerto e l’incomprensione dei discepoli di fronte a queste parole: «Che cos’è questo che dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete; e questo: Perché vado al Padre? Dicevano perciò: che cosa è mai questo “un poco” di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire».
I discepoli non comprendono, dubitano, non credono, sono pronti a farsi cogliere dallo sconforto. Non sono preparati ad accogliere l’annuncio della resurrezione. Tommaso pretenderà di mettere il dito nella piaga del costato di Gesù, i discepoli sulla strada di Emmaus hanno sentito le donne raccontare di aver trovato vuoto il sepolcro di Cristo, eppure stanno lasciando Gerusalemme delusi nella speranza «che fosse lui a liberare Israele» (Lc 24,21). Fin dalle sue origini la Chiesa non ha nascosto tutto questo. Ha raccontato della predicazione e dell’annuncio della Passione e resurrezione, insieme all’incomprensione per le parole di Gesù e all’incredulità di fronte al loro compimento. Si tratta del riconoscimento della fragilità umana, dell’accettazione di vivere una fede che ogni giorno ha bisogno di essere ricostruita e confermata, della speranza in un Dio amorevole e comprensivo, che non chiede all’uomo più di quanto esso possa dare e che gli rimane ben più vicino di quanto egli sia consapevole nei momenti di delusione e di sconforto. I discepoli dubbiosi, gli apostoli increduli sono i santi fondatori della Chiesa. Gesù sa che non capiscono le sue parole, che dubitano dei suoi annunci, che sono legati ai loro progetti terreni, ma li ama lo stesso e per la loro e la nostra salvezza si sacrifica.
MobyDICK
architettura
lcuni scavi effettuati in Sudamerica hanno portato alla luce diverse strutture ipogee appartenute a popolazioni di milioni di abitanti, paragonabili, per densità abitativa, alle megalopoli del XX secolo. L’architettura di questi luoghi è stata descritta in modo sistematico nella sua logica funzionalità, dove l’insieme delle complessità distributive degli spazi e della regolarità dell’organizzazione sociale si combinano in una forma costruita che trascende alle varianti imposte nelle diverse specie di esseri che le hanno create. Il professor Walter Tschinkel, autore degli scavi, ha definito questi ritrovamenti un «documento perfetto dell’impresa di scavo collettiva», di nodale importanza per chiarire molti aspetti di una organizzazione sociale basata sull’interazione tra soggetti e tra soggetti e ambiente, espressa nella forma stessa dell’organismo costruito.
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Abitanti di queste megalopoli sono piccole formiche, divenute per gli entomologi Bert Hölldobler e Edward O.Wilson le protagoniste dell’affascinante ricerca che ha dato vita al volume Il Superorganismo (Adelphi, 602 pagine, 49,00 euro). Questa grande pubblicazione, impressionante per dimensione e dettaglio scientifico, prosegue la fortunata opera con cui gli stessi autori vinsero nel 1991 il Premio Pulitzer: The Ants (Formiche), anch’essa pubblicata da Adelphi . I due ricercatori traggono il titolo del libro da una definizione dell’entomologo americano William Morton Wheeler, il quale descriveva, già nel 1910, la colonia di insetti come un «Superorganismo» fondato al suo interno sulla divisione del lavoro e sulla chiara distinzione dei compiti per ogni singola creatura. Da questo presupposto teorico, intrecciato ai principî fondamentali del darwinismo, Hölldobler e Wilson elaborano una teoria scientifica che attribuisce alla ereditarietà di funzioni e ruoli, i sistemi dinamici e la capacità di auto-organizzazione di questi imenotteri. Gli esempi sono molti, dalle sorprendenti competenze agricole delle formiche Attine delle Americhe, specializzate nella coltivazione sotterranea di funghi, alle formiche tessitrici dell’Africa e dell’Asia, che costruiscono sugli alberi nidi a padiglione composti da foglie verdi, tenute insieme da seta prodotta dalle proprie larve. Gli autori hanno analizzato le dimore di questi insetti per formulare le loro teorie sul concetto di un essere «eusociale» soggetto a evoluzione: quel nido diviene espressione della capacità organizzativa e della divisione del lavoro. Di fatto, la colonia di formiche si fonda su un innato senso di responsabilità espresso dai singoli: come cel-
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Dentro le megalopoli delle signore del suolo di Simona Pareschi lo e dominio dell’area. In queste comunità manca completamente il concetto di individualità: istintivamente, questi esseri sono votati al lavoro per il solo bene comune. La conservazione della specie, e quindi la sua proliferazione, è possibile solo grazie alla totale adesione allo scopo collettivo, nel rispetto di ruoli definiti geneticamente, che attribuiscono a ciascuna di queste vite un destino di operaia o di combattente. L’unico linguaggio conosciuto da queste «signore del suolo» è la comunicazione chimica, ed è attraverso questa rigida trasmissione di informazioni, odori, secrezioni, tracce e segnali tra i membri della popolazione, che il gruppo si eleva fino a formare una società.
I nidi delle formiche analizzati dagli entomologi Hölldobler e Wilson rivelano elaborate strutture, con una distribuzione e un utilizzo dello spazio efficienti e produttivi, funzionali a una convivenza votata al lavoro e al bene comune lule di un organismo, le formiche sanno far funzionare in modo spontaneo il complesso organismo-colonia. Le colonie si mantengono con le stesse regole con le quali si mantiene l’individuo: come lavorano le cellule di un organo, così opera ogni formica all’interno della società. Da qui, il Superorganismo, in cui la folla organizzata in ciò che potrebbe essere definita un’anima collettiva, concorre a uno scopo unico, dove il comportamento dell’uno trova nell’imitazione dell’altro, e nell’anonimato della catena di montaggio, la sua forma più alta di compimento. L’architettura di questi luoghi nasce come sviluppo naturale di un istinto di sopravvivenza, in una perfetta simbiosi tra vita e natura. Così, le interconnessioni tra gli spazi avvengono nello stesso
modo - solo apparentemente casuale - in cui si realizzano quelle tra gli abitanti.
All’interno di queste capitali del lavoro, società basate sul sistema matriarcale, la distribuzione e l’utilizzo razionale dello spazio sono fondamentali alla convivenza. Si tratta di architetture efficienti e produttive di cui non esiste un disegno o un progetto d’insieme: all’interno di questi luoghi, lunghi tunnel adibiti al foraggiamento si estendono in tutte le direzioni, come grandi silos orizzontali. I numerosi ingressi a torre, come totem disseminati su vasta area, sembrano esprimere un culto istintivo per la regina, e alcune vie maestre perfettamente manutenute segnalano una presa di possesso del territorio circostante, come control-
Già nel 1930, l’arte rappresentava il mondo degli insetti come allegoria dell’umanità. La vita delle formiche, il saggio di Maurice Maeterlinck, attribuiva agli insetti il ruolo di «razza preumana», da molto tempo organizzata in modo simile a una repubblica: un mito classico che ritiene le formiche progenitrici dell’uomo. Queste «modeste eroine» agiscono secondo una forma naturale di «altruismo istintivo», basato sul dono costante e sul sacrificio dei singoli che diventa, così, forza per l’intera comunità. Non stupisce apprendere che i programmatori dei computer siano ispirati dai comportamenti degli insetti per elaborare algoritmi capaci di migliorare l’efficienza delle reti. La capacità di modificare il reale, l’investimento nella società e la cooperazione, ma anche la somiglianza agli esseri umani nel fare la guerra a razze meno bellicose, invita a soffermarsi sulle analogie tra noi e queste forme di vita - che altrimenti ignoreremmo - lieti di pensare che ciò che forse ci distingue, sia il desiderio, e la nostra possibilità, di trovare forme esterne di espressione, capaci di costruire una cultura armonica attraverso la necessaria individualità, che diano significato al Sé. Ma esiste qualcos’altro oltre alle rigide gerarchie dell’organizzazione. Lo ha scritto in versi semplici Gianni Rodari: «Chiedo scusa alla favola antica/ Se non amo l’avara formica./ Io sto dalla parte della cicala/ Che il più bel canto non vende, regala».
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il paginone
MobyDICK
ra una pura forza sessuale», «Faceva dell’amore un sacerdozio», «Nei disegni di Ernst e nei versi di Éluard traspare la paura che ingenerava in loro»: Elena Dmitrievna D’jakonova - colei che sarà sempre e solo conosciuta col semplice nomignolo di Gala - era una donna odiata e adorata a dismisura. E lei, dal canto suo, nutriva passioni fortissime, capaci di piegare chiunque. Ora della sua personalità dura come l’acciaio ma anche dolce come il miele ne sapremo di più: è uscito da pochi giorni La vita segreta. Diario inedito di Gala Dalì, edito da L’Ippocampo.
Dura come l’acciaio ma dolce come il miele, fu odiata e amata a dismisura. Per lei l’amore era un sacerdozio e le sue fortissime passioni erano in grado di piegare chiunque. A cominciare da Salvador Dalì, a cui restò legata fino alla morte. Così Elena Dmitrievna D’jakonova si racconta nel suo “Diario inedito”
Di origine russa, trapiantata in Occidente, diventò la musa del Surrealismo. Fu la moglie del poeta Paul Éluard, l’amante di Max Ernst. Ma soprattutto fu la donna della vita per Salvator Dalì. I due si «fusero» in modo inestricabile. E fondersi significa anche confondersi «perfino nei ritratti pittorici che l’artista fa di lei e che finiscono per diventare un po’ i suoi autoritratti». Gala, dal canto suo, aiutava a scrivere ciò che Salvador pubblicava. Sia lei che lui erano straordinarie
te le insistenze di Garcia Lorca di cui è grande amico. Lei ha undici anni di più: ha un corpo aggraziato ma non è bellissima. Eppure ha già affascinato Éluard ed Ernst. Fra loro si è stabilito un ménage à trois: Paul e Marx si cercano e si desiderano attraverso di lei. Gala, eccezionale amante, dunque, capace di scatenare grandi passioni. Così Salvador narrava del loro primo bacio: «Di un sol colpo tutti i miei Parsifal erotici si risvegliarono. I nostri denti si urtarono e le nostre lingue si allacciarono,
«E
Due i temi centrali del suo autoritratto: oltre al rapporto col pittore spagnolo (secondo marito dopo Paul Éluard), gli anni dell’infanzia in Russia penne. Nella Vita segreta racconta così il primo incontro in Sicilia col pittore: «Si immagini un ragazzo alto, molto alto, come uno di quegli alberi della California che crescono agili su un terreno buono e abbondante. Che piacere, che bellezza e che dolcezza starsene al riparo di un albero così e sentirsi protetti da tutto il male e da tutto il disordine… Immagini anche al posto degli occhi due calabroni del mese di maggio, ricoperti da una lanugine finissima color tabacco biondo, brillante… Immagini due mani grandi, buone, aperte, generose, con le articolazioni flessibili e la pelle fresca come laghetti di montagna…». Per Gala è un vero coup de foudre ed è lei che fa il primo passo. Va da quel giovane e gli chiede: «Desidererei conoscerla, so che questo non si fa, ma mi dica, perché?». Salvador è uno splendido venticinquenne (corre l’anno 1929). Non si è convertito all’omosessualità, nonostananno V - numero 13 - pagina IV
non era che l’inizio di una fame che ci spingeva a mordere e a divorarci fino in fondo… Mi ha sottomesso».
Ma Gala è anche compagna affettuosa, protettiva come una madre. A Éluard aveva scritto: «Sei il mio bimbo amoroso, viziato dalla mammina, dalla sorella e dalla moglie». E del suo rapporto con Dalì racconterà: «Cerco personalmente di aiutare in tutto mio marito. Gli servo spesso da modella, gli faccio da segretaria per
tutto ciò che incombe alla parte pratica della nostra vita, perché lui, come vedi, è totalmente immerso nel suo mondo creativo. Incapace di gestire certe stupidaggini». Nonostante questa presenza assidua e affettuosa, l’unione con Salvador fu molto osteggiata dal padre di lui.
Gala era forte, aggressiva e persino antipatica, ma gli uomini venivano sconvolti dal suo fervore e dalla capacità di dedicarsi con tutta se stessa: «La cosa essenziale è per me l’amore. È l’asse della vitalità e del mio cervello, la molla che mi slancia in avanti con elasticità e agilità, con più chiarezza e precisione in tutti i movimenti dei miei sensi, dei miei impulsi, delle mie conoscenze». Era proprio questo ardore il cuore del suo fascino. E per questo venne persino paragonata a
Teresa d’Avila. I suoi due mariti - Éluard e Dalì - erano diversissimi fra di loro, ma una cosa avevano in comune: la fragilità. E lei rappresentò per entrambi l’ancoraggio sicuro e appassionato. Quando apparve Salvador all’orizzonte, Gala prese a occuparsi sempre e solo di lui. Lasciò brutalmente Éluard: un addio gelido e duro che non ammise né repliche né spiegazioni. Poi, nonostante i tradimenti reciproci, la grande storia d’amore col pittore non finì mai. Il loro modo di vivere - pieno di banale quotidianità (erano profondamente tradizionalisti) ma anche di improvvise follie - scorreva sotto gli occhi di un pezzo importante della cultura: da Luis Buñuel ad Anais Nin, da Chagall a Peggy Guggenheim.
Quella di nome
In tanti hanno raccontato di Gala: Éluard ha scritto per lei poesie e lettere appassionate. Adesso, finalmente, nel suo Diario è lei a parlarci di lei. Ne viene fuori un ritratto sorprendente. Prima di tutto l’importanza nella sua vita della Russia che sino a oggi non era mai stata sottolineata: l’infanzia e l’adolescenza fatta di giochi selvaggi coi fratelli, di feste di villaggio con gare «feroci», di case in campagna circondate da betulle, del palazzetto moscovita lungo l’Arbat, la strada più bella della capitale. E poi c’è la grande letteratura: su tutto Dostoeveskij, ma anche Puskin e la Cvataeva. Particolarmente significativi appaiono due episodi a cavallo fra l’infanzia e l’adolescenza. Il primo riguarda la nascita del fratellino: il parto della madre vissuto come un evento oscuro e dolorosissimo. Da lì forse nacque il suo rifiuto dei figli: per la verità ne ebbe una da Éluard (Cecile), ma non l’amò mai e anzi l’abbandonò. Il suo istinto materno lo riservava agli amanti. Il secondo episodio riguarda le pulsioni erotiche del fratello maggiore verso di lei. L’inquieto adolescente entrava di notte e di soppiatto nella sua camera e vi restava sino all’alba, quando - timoroso di A destra, Salvador Dalì e sua moglie Gala in due fotografie. A sinistra, due ritratti della donna firmati dal pittore spagnolo. Sopra, la copertina del “Diario” e Gala, ancora raffigurata da Dalì nel 1949 nel celebre “Leda atomica”. I due si fusero in modo inestricabile: Gala è morta nel 1982, Salvador 7 anni dopo
di Gabriella M
a musa me Gala
Mecucci
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essere scoperto - fuggiva. Lei a un certo punto riuscì a capire chi era quel fantasma, quella presenza desiderante. Lo identificò al primo chiarore del giorno. Le incursioni notturne di Vad’ka la spaventavano e la incuriosivano. Avevano comunque qualcosa di magico. La magia di un erotismo tenebroso e peccaminoso che diventerà più avanti travolgente bisogno di trasgressione. Incredibile a dirsi, ma Gala assegna alla vita in Russia la parte più ampia del suo Diario. Incredibile, per una donna che l’aveva abbandonata ancora molto giovane. Se ne andò per amore: aveva conosciuto Éluard a Davos e, mentre lui era in guerra, venne ospitata a Parigi dalla madre del poeta. Incredibile, perché non usò mai più - una volta espatriata - la sua lingua originale e, nonostante la fatica che le costava, preferì sempre scrivere in francese. Incredibile, perché odiò profondamente il regime comunista che aveva trionfato in patria e - al tempo dell’amore con Dalì - si mostrò vicina a Francisco Franco così come il marito. Un atteggiamento questo che li rese invisi a gran parte dell’intellettualità occidentale degli anni Sessanta e Settanta. Nel Diaro non si fa alcun cenno a Éluard, all’amore per lui, al matrimonio, alla figlia. Si passa dall’Arbat e dai paesaggi di betulle, direttamente alla conoscenza col pittore spagnolo. Ai loro viaggi a New York, alle seduzioni della Costa Brava. Una prosa profonda e vibrante restituisce la vita della coppia: fede profonda in Dio, ricerca artistica incessante, erotismo. Lei spaventava e inibiva gli amici che andavano a Pubol, a Portlligat, a Cadaques. Nessuno l’amava, mentre tutti adoravano Salvador.
Un giorno i sensi si spensero e per Gala fu dura da accettare. Dalì disse che lei era stata l’unica donna della sua vita, la sola con la quale avesse avuto rapporti sessuali. Lui si definiva un voyeur e trovava piacere nella masturbazione. Gala cercò l’eros altrove anche quando l’età l’avrebbe sconsigliato, previo cadere nel ridicolo. Ma lei non se ne preoccupava. Faceva lunghi viaggi nella sua Cadillac o raggiungeva posti lontani in aereo. Girava con una borsetta piena di soldi per vivere nel lusso dei grandi alberghi e per pagare i giovani che soddisfacevano il suo bisogno di sesso. Odiava la miseria così come odiava la rivoluzione. E forse per questo fu complice della diffusione di tanti fogli che portavano la firma del marito e su cui i
falsificatori imitavano le di lui geniali pennellate. Si sottoponeva alla chirurgia plastica per poter andare sino alla fine a caccia di avventure. A causa dei ripetuti lifting, nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte, la pelle cominciò a mostrare crepe profonde.
Il senso più profondo del suo sfrenato erotismo, lo dà nel Diario quando scrive del mito di Don Giovanni: «Non è nella primavera della nostra vita che cominciamo a comprendere Don Giovanni - quello vero, l’autentico -, quello che riversa tutto il proprio amore su un essere che crede perfetto e capace di corrispondergli con sentimenti ancora più perfetti, e poi all’improvviso scopre un greve pezzo di carne da macelleria. Silenziosa, a volte invece ciarlatana, indifferente, sonnolenta, bestiale, caotica o vuota, codarda, bassamente tirannica. A quel punto disperato abbandona quella traditrice e fugge verso una nuova speranza, generoso, con fede rinnovata. È la favola della delusione, una lunga scalinata di repulsione, una risoluzione, a prova del sentimento deviato, umiliato, sminuito, impossibile, irrealizzabile». Non è Don Giovanni dunque a tradire, ma l’oggetto del suo amore che lo tradisce. Lui cerca ciò che non trova mai. La passione si trasforma nel dolore per la sua mancata soddisfazione. Ma al di là dei lunghi viaggi a caccia di avventure erotiche sempre più improbabili, Gala, come una dea madre, continua a vigilare su Dalì, anche se lo aveva affidato alla giovane cantante Amanda Lear dal corpo, diceva, mascolino. Morì a ottantotto anni. Fu una lenta agonia. Era lucida e fissava il mare di Capo Creus. Ascoltava le parole di Salvador che non l’abbandonò mai: restava con lei anche tutta la notte, sebbene fosse terrorizzato di assistere alla dipartita. Si spense con un breve lamento. Dalì fece avvolgere il corpo nudo in un lenzuolo che fu deposto sulla famosa Cadillac dei viaggi di Gala. Poi lo fece imbalsamare e seppellire nella cripta del castello. Da allora la vita del pittore non fu più la stessa: arrancava disperato cercando i segni del grande amore scomparso. Non dipingeva più, non vedeva nessuno, piangeva. Isolato e addolorato venne raggiunto dalla morte nel 1989, sette anni dopo di lei. Non la raggiunse però nella cripta del castello. Fu sepolto altrove. Ormai non erano più i corpi a potersi incontrare, ma i loro spiriti.
altre letture di Riccardo Paradisi
Quando l’Islam assediò Vienna e l’Europa assedio di Vienna a opera dell’esercito ottomano nell’estate del 1683, conclusosi vittoriosamente per le truppe cristiane con la battaglia del 12 settembre, è uno dei punti nodali della storia europea. Fu l’ultima grande minaccia portata alla cristianità: un pericolo così serio che condusse i Paesi europei, per altri versi ostili fra loro, a coalizzarsi per respingerlo. Quell’ultimo scontro tra Croce e Mezzaluna avvia un assetto europeo destinato a durare fino al cataclisma della grande guerra. Nell’Assedio di Vienna (Il Mulino, 315 pagine, 14,00 euro) John Stoye racconta una pagina storica di straordinaria importanza che serve a capire meglio le faglie di tensione che s’agitano anche oggi tra Occidente e Islam.
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Se il lavoro è come la guerra totale axima-Minima (Guanda, 123 pagine, 12,00 euro) raccoglie una serie di massime di Ernst Jünger concentrate nello spazio minimo dell’argomentazione aforistica. Una raffica di sentenze la cui estrema sinteticità è proporzionale alla loro densità. Si tratta di aforismi estratti dalle note a margine dell’Operaio (1932), una delle più note opere dello scrittore tedesco. È infatti la tecnica, anche in queste pagine, l’oggetto della riflessione jungeriana. La sua incidenza sociale, economica ed etica; la sua valenza metafisica e la sua possibile trasfigurazione estetica. I suoi effetti sulla cultura e sull’uomo. Uno sguardo analitico oggettivo sui meccanismi del lavoro umano all’inizio della rivoluzione antropologica ancora in corso.
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Il centurione che si convertì sotto la Croce i piedi della croce che s’innalza sul Golgota, Flavio, il centurione incaricato di condurre a termine il supplizio, guarda Gesù di Nazareth che agonizza in silenzio. Attorno è un insieme di grida di odio e di preghiere e lacrime. Quando il
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condannato muore un tuono violento scuote il cielo. In Flavio nasce una domanda: e se quest’uomo fosse il figlio di Dio? Incaricato da Pilato di sorvegliare gli apostoli, il centurione scopre un mondo nuovo: quello in cui visse Gesù nei trentatré anni della sua esistenza terrena. È da qui che inizia la narrazione di Max Gallo Era Dio (San Paolo, 302 pagine, 17,00 euro), un romanzo sulla vita di Cristo firmato da uno storico dell’Académie française.
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Dove studiavano i maghi neri di Adolf Hitler el 1935 Heinrich Himmler fonda all’interno dell’organizzazione Ss una sezione chiamata Ss- Ahnenerbe. Una struttura che viene finanziata dal regime e che cerca di dimostrare l’esistenza di una scienza esoterica attraverso spedizioni archeologiche, studi linguistici e semantici. I risultati di queste ricerche alimenteranno la parte più oscura dell’ideologia nazista in cui agiranno miti primordiali come l’Atlantide, la Thule, i segreti del Tibet, il potere delle rune. La svastica e la runa (Mursia, 443 pagine, 22,00 euro) di Marco Zagni è il primo studio sistematico su questa materia, un lavoro pregevole che raccoglie una mole impressionante di documenti proposti per la prima volta in una raccolta organica.
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Carl Schmitt oltre i suoi amici e i suoi nemici arl Schmitt è stato uno dei pensatori più scomodi del Novecento. La sua opera ha provocato reazioni ferocemente polemiche e simpatie incondizionate, agiografie di devoti e campagne di criminalizzazione, dividendo la platea dei suoi lettori in denigratori da una parte e apologeti dall’altra. Il saggio Schmitt (Carocci editore, 181 pagine,16,00 euro) di Stefano Pierpaoli, ricercatore in filosofia del diritto all’Università di Salerno, ha il pregio di affrontare il tema schmittiano sine ira ac studio, con l’equanimità che si deve a un gigante del pensiero novecentesco. Un atteggiamento che consente di cogliere le domande ancora aperte poste alle coscienze e alle intelligenze dal controverso scienziato politico.
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Narrativa
MobyDICK
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lberto Bevilacqua è stato anche un ottimo cronista. Iniziò con la «nera» al Messaggero. Arrivato a Roma ai primi anni Sessanta, da «provinciale» si trasformò in civis romanus. E nel catino della Storia e dei misteri, molti dei quali ancora sepolti, si è buttato a capofitto, mosso da una curiosità instancabile, dalla voglia di capire sia luoghi sia persone, alla ricerca di quello che Georges Simenon (ma anche Albert Camus) chiamava «l’uomo nudo». Fatti di cronaca che gli sono sempre serviti come ponti tra finzione e ritratto della realtà cruda. Ha abbracciato subito una Roma «che vive fuori di se stessa» senza mai dimenticare la natia Parma, intrecciando storie padane, di fiume, con storie di borgate. Un omaggio alla capitale, sentito più che dovuto, è il suo Roma Califfa (Mondadori). È un affollamento, che lo stesso autore definirebbe non bastevolmente snodato, di personaggi, noti e poco noti. Bevilacqua ha acuito l’udito e la vista dinanzi a coloro che contavano. Attenzione: contavano non per l’aureola della notorietà, ma perché avevano qualcosa da dire. E allora un Pasolini, un Fellini, un Lattuada, uno Zavattini (e cento altri) sono equiparati agli altri per l’arguzia del racconto, o anche solo per una straordinaria intuizione, o un gesto, una smorfia che raggruma la visione della vita. Curioso per carattere, Bevilacqua cronista ebbe la fortuna di essere stimolato dall’allora direttore del Messaggero, Alessandro Perrone, «simpatico, dolente e sarcastico» ma maestro che oggi trova scarsi epigoni. Perrone un giorno gli suggerisce di «fare uno scoop su Roma». Sfida paradossale tanto è vero che lui obietta che la città stessa è stata uno scoop millenario. «Problema tuo»: questa la risposta. Alberto si ricorda di un prete di Frascati che tante volte gli aveva annunciato di avere lettere e cartoline provenienti dal West americano. Lo va a trovare. E scopre che quelle missive erano nientemeno del trombettiere del generale Custer, quello della battaglia di Little Big Horn. Firmate John Martin, che nel momento bellico
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Dialoghi
libri Alberto Bevilacqua ROMA CALIFFA Mondadori 237 pagine, 20,00 euro
Omaggio a Roma magna
mater
Personaggi noti e meno noti, storie, memorie ed esplorazioni: Alberto Bevilacqua racconta l’“anima califfa” della sua città d’adozione di Pier Mario Fasanotti più drammatico se la squagliò. Tutto qui? Eh no. Quel Martin era italianissimo e si chiamava Giovanni Martini, già cacciato dai garibaldini e poi inglobato nella «giubbe azzurre». Eccolo qui lo scoop. Gli telefona
Sordi: «Ahò, a Bevilà, io questo film lo devo da fa». Purtroppo non si girò mai. Ancora a scavare su Roma, questa magna mater che a volte, come diceva Alberto Lattuada, ha «l’esagerata bellezza della puttana». Città, come annota l’autore, «che non ti lascia mai andare a fondo, ha sempre un occhio umano di riguardo, a differenza delle altre piccole capitali italiane». Oppure, sempre per citare Lattuada, «provinciale e insieme universale». Teatro e testimone di «immortalità ardite, violente», rigorosa, severa. E ironica sempre, sbeffeggiante con le sue continue pasquinate. Quando Gheddafi venne qui, con il suo pacchiano codazzo di vichinghe berbere, i romani mormorarono: «Il parruccone». Una città-miscuglio. Scrisse nel 1930 Aldous Huxley: «Qui c’è una moralità che sa deridere le abiezioni che vorrebbero coinvolgerla, che sa sorridere di se stessa, restando inattaccabile come un macigno. Quando su Roma scende la notte, non vado a vedere il Colosseo al chiaro di luna, ma vado ad ammirare Petrolini illuminato dai riflettori. Nel suo ghigno, nel suo finto sussiego nell’enumerare i vizi capitali, per poi ridurli in cenere attraverso se stesso, c’è un canto di innocenza che fa pensare a una Roma Bambina, che è forte nel suo candore perché ha già visto tutto nella vita». E che pensa l’autore del Curioso delle donne delle abitanti della città eterna? Bevilacqua ricorda Luigi Zampa, colui che sempre derise la retorica. Gli disse: «Pigre le romane? Matronali nel cervello? Storie. Drammatiche, sì, aggressive. Le donne romane, quelle vere, le stani come certi dipinti murali. Mi ha sempre impressionato una cosa: quante si buttavano a Tevere, fino all’ultimo dopoguerra, per essere state sverginate». Roma ha anche il volto di Anna Magnani. Che Bevilacqua accosta a quello di sua madre. La quale, alla stazione di Parma, dice al figlio che «il sentimento del sorriso è il solo antidoto possibile».
La Scolastica secondo il Cardinale
uello fra Angelo Scola e Aldo Cazzullo è un dialogo fecondo. Perché, «spalmato» nel tempo e nello spazio, ha la possibilità di affrontare i temi che maggiormente interessano gli italiani di oggi. E questa è la cifra principale di La vita buona, edito da Mondadori: non è un libro dedicato ai fedeli, non è un libro dedicato ai laici. È un libro dedicato ai cittadini, in primo luogo. Diviso in otto capitoli - corrispondenti ad altrettanti incontri fra il giornalista e il cardinale - il volume è impreziosito da tre appendici che corrispondono a piccoli saggi firmati da Ugo Sartorio, Maria Laura Conte e lo stesso Angelo Scola. «Crisi e transizione», «Per una nuova laicità», «Il mio ’68» sono i titoli dei primi tre colloqui. Di cui soltanto il primo è inquadrabile nello spazio-tempo in cui Scola vive oggi, ovvero arcivescovo di Milano; mentre gli altri lo riguardano nella veste di Patriarca di Venezia, città e diocesi che Scola dimostra di amare e conoscere come pochi altri. Seguono poi «Più spazio alla scuola libera», «Scienza e fede», «La famiglia italiana fattore di progresso». E infine i temi dedicati all’amore: «Non c’è amore senza per sempre» e «Bell’amore e sessualità».
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di Vincenzo Faccioli Pintozzi Il primo dei capitoli, dicevamo, tratteggia l’incontro fra l’arcivescovo della più grande diocesi del mondo - come è Milano - e il giornalista del Corriere. Ed è nel primo capitolo, quello più vicino alla stampa del libro, che si affronta l’argomento principe del momento: la crisi finanziaria e le sue declinazioni. Scola si dimostra all’altezza delle aspettative e, alle domande puntuali di Cazzullo, risponde citando Adam Smith, ovviamente Benedetto XVI e Habermas. Passando da Aristotele e San Tommaso anche se proprio il porporato, in più di un’occasione, sottolinea: «Non sono fra quelli che ritengono che Tommaso aveva già scritto tutto». La crisi, dunque, e i suoi aspetti sulla vita dell’Italia di oggi: Scola cita e difende a spada tratta l’operato della rete caritativa di Milano, ma rilancia anche il capoluogo lombardo come capitale di una possibile «ribellione» alla dominazione della finanza nella vita del cittadino. Non ci sono risposte, in questo libro, o quanto meno non ci sono formule che si pretendono corrette ed esaustive a tutti i costi. Sia il religioso che lo scrittore si pongono dei
Confronto fra Scola e Cazzullo sulla Chiesa, la “vita buona” e la fede
dubbi che tutti noi abbiamo sperimentato e - uno con le domande, l’altro con le risposte - si propongono (spesso con successo) di accendere una luce nella tenebra del dubbio. Senza prevaricazioni. Ed è il miglior erede di Giussani quello che risulta dalle risposte di Scola: «Le idee debbono confrontarsi in maniera libera e dialogica. Poi si esprime il popolo sovrano e, infine, lo Stato laico ascolta e recepisce la risposta».Tutto questo senza ovviamente cedere di un punto dalla difesa delle affermazioni religiose che più interessano i credenti. È ancora Scola a sottolineare con forza che «se io credo in una verità, la affermo. Devo essere libero di farlo. La Chiesa crede che alcune cose siano giuste e altre sbagliate, ma metterla a tacere con il “vietato vietare” trasforma il dibattito nella notte buia in cui tutte le vacche sono uguali». Dei temi portanti è quasi superflio parlare: il «meticciato» di culture ha il copyright dello stesso Scola, che ha sempre portato avanti anche la battaglia per la libertà di istruzione e per il dialogo culturale. Ma questo La vita buona va letto con il tempo di rifletterci sopra. Perché è, come recita il suo sottotitolo, «Un dialogo sulla Chiesa, la fede, l’amore, la vita e il suo senso». Insomma, perché parla a tutti delle cose che interessano (e contano) davvero.
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spettacoli
Jazz Lo swing uanto volte ci siamo sentiti porre una domanda alla quale non siamo mai stati in grado di rispondere in modo esaustivo. Cosa significa Jazz? Come nasce questo sostantivo? Qual è la sua etimologia? Anche se la parola è legata, ormai da 97 anni a un tipo di musica, da quando cioè nel 1915 a Chicago il trombonista Tom Brown chiamò la sua orchestra Brown Dixieland Jass Band, nessuno è mai riuscito a dare una risposta precisa ed esauriente. Più semplice invece spiegare che cosa è il Jazz. Il dizionario Palazzi, dà una risposta soddisfacente: «Musica sincopata di origine negro-americana, caratterizzata dalla pluritmia degli strumenti e dalla libera improvvisazione dei solisti su un tema di base». Dal canto loro le enciclopedie e i dizionari del jazz utilizzano molte pagine per dare spiegazioni, ma nessun autore fornisce dati chiari e precisi sull’origine di questo vocabolo, malgrado i numerosi studi effettuati fin dagli anni Venti. Molti ricercatori hanno asserito che la parola esisteva nel linguaggio parlato, molto prima della nascita della musica jazz e altri ancora hanno creduto di individuare in alcune parole dello slang utilizzate nell’Ottocento, gism e jasm - usati per indicare «coraggio», «forza», «talento», «energia» le origini della nuova parola. Ma nessuno era mai riuscito a individuare quando, per la prima volta, Jazz o Jass era stato utilizzato, se mai lo era stato, indipendentemente dalla musica. Recentemente però il quotidiano The Boston Globe Newspaper, che negli anni ha ricevuto ben 21 premi Pulitzer, ha riferito di un articolo pubblicato il 2 aprile 1912, con il titolo Ben’s Jazz Curve, da un altro giornale americano, il Los Angeles Time. Di cosa si trattava lo ha spiegato il Boston Globe: «Cento anni fa un lanciatore di baseball di nome Ben Hender-
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Teatro
erata evento il 3 aprile alTeatroValle Occupato per la messa in voce di Mare al mattino di Margaret Mazzantini, ultimo suo romanzo in ordine di uscita, edito nel 2011 per i tipi di Einaudi. Immagini dense, odorose, viscerali per un’esperienza sensoriale completa quelle che l’autrice incastona nella sua tessitura. Una punteggiatura pressante che non lascia dubbi sul ritmo del raccontare. In alcuni momenti fa venire il fiato corto per quanto è scandita. Impone vigore alle azioni e denuncia un’indubitabile sete di vita da parte di chi, se anche non ne conoscessimo ancora la vicenda umana, di quella storia è protagonista. Parole possenti tese a costruire immagini di grande impatto quelle che Margaret Mazzantini mette nero su bianco. Ora qui, per l’occasione di una pubblica condivisione, queste parole sfrontate nate per essere godute nell’intimo, con pudicizia, nella rarefazione del silenzio interiore che ognuno promuove dentro di sé quando decide di fare spazio alla lettura, queste stesse parole dicevamo, rimbalzando nello spazio, scivolando tra le pieghe del sipario del teatro, assumono un peso specifico altro, acquistano una consistenza nuova,
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in una palla da baseball di Adriano Mazzoletti
son si stava preparando per il giorno di apertura della partita dei Portland Beavers contro i Los Angeles Angels. Henderson aveva lanciato bene per la sua squadra l’anno precedente, ma aveva iniziato la stagione 1912 con la pessima reputazione di accanito bevitore e ciò aveva creato molti
problemi sulla sua reputazione. In un’intervista Henderson aveva spiegato al Los Angeles Time la sua previsione di come avrebbe pianificato il suo gioco: “Quest’anno ho una nuova curva e ne lancerò una o due domani. La chiamo Jazz Ball perché è una palla che dondola e non si può far nulla per fermarla”. Henderson perse però la partita e fu subito estromesso dal
baseball. «Nel frattempo, in un’altra squadra, la Pacific Coast League, la Jazz Ball di Henderson mostrava di avere gambe per camminare. Mentre il lanciatore di Portland usava la parola Ojazz per descrivere il movimento della sua palla, quel modo di dire subentrò subito nel linguaggio dei giocatori della lega. Nella primavera del 1913, E.T. Scoop, un giornalista sportivo del San Francisco Bulletin, scriveva di uno strano nuovo termine che veniva utilizzato dai giocatori del San Francisco Seals durante gli allenamenti che si tenevano a Boyes Springs. Tutti erano tornati a casa nominando continuamente il jazz e promettendo di far saltare i fans dalla sorpresa col loro gioco. Il 6 aprile 1913, Ernest J. Hopkins, un altro reporter del San Fran-
cisco Bulletin, vi dedicava un pezzo dal titolo «In onore dell’OJazz, Termine Futuristico che si è appena aggiunto al linguaggio sportivo”. Da quel giorno i giornalisti della Bay Area si impadronirono velocemente del nuovo termine». Come questa parola sia potuta saltare dal baseball alla musica è ancora materia di dibattito. Una spiegazione potrebbe essere individuata nelle parole del batterista Art Hickman, che all’epoca dirigeva l’orchestra che a Boyes Springs suonava per intrattenere i giocatori durante gli allenamenti. Hickman, in seguito, raccontò anche che l’acqua gasata veniva chiamata jazz water e che poi il termine venne affibbiato sia a un gioco animato nel campo di baseball sia alla musica. Ma forse la jazz ball di Henderson del 1912 sembra più credibile. È passato un secolo da quando il termine Jazz venne scritto per la prima volta su un giornale, novantacinque anni da quando questa parola è stata utilizzata per indicare un’orchestra e un tipo di musica, dodici da quando l’American Dialect Society l’ha nominata «parola del secolo» e solo pochi mesi da quando l’Unesco ha decretato che il 30 aprile di ogni anno sarà la «Giornata Mondiale del Jazz». In quasi cento anni, il Jazz, ha cambiato la musica e l’arte dei suoni.
“Mare al mattino” per voce e piano di Enrica Rosso come sempre succede a quelle scritture che in privato si fanno liquide per meglio assecondare l’avidità del singolo fruitore. Inoltre sono vestite dall’energia personale di chi è chiamato a esserne interprete, si nutrono di respiri e sguardi, si amplificano nei movimenti e si tingono ulteriormente di vita, seppure presa in prestito. Un lettore esperto sa che ciò che ci aspetta da lui è farsi cristallo e cassa di risonanza, in ogni caso strumento. A tratti in empatica condivisione con il personaggio, a tratti semplice narratore, quando non dà voce agli intimi sussulti dell’autore stesso. Devono essere passaggi impercettibili per chi ascolta, un otto volante per chi li interpreta. In mezzo c’è la noia, l’usura delle parole fatte appassire nel piattume. Storie qualsiasi di ordinario grigiume.E poi c’è il microfono. Carmelo Be-
ne ne aveva un rispetto assoluto, lo trattava, non a caso, con l’amore che avrebbe riservato a un figlio. Laura Morante (già protagonista dell’ultimo film della coppia Mazzantini-Castellitto La bellezza del somaro, ora al suo debutto come sceneggiatrice e regista di La cerise sur le gateau, attualmente nelle sale cinematografiche italiane con il titolo Ciliegine) è interprete attenta e sensibile; a tratti si lascia precipitare nel vortice della scrittura e risulta forse un poco frettolosa.Valerio Mastrandrea (attualmente nelle sale con il film
sulla strage di Piazza Fontana Romanzo di una strage, diretto da Marco Tullio Giordana, nei panni del commissario Calabresi) la compensa con uno scandire lento, molto più mediorientale. Tra i due, così diversi, un sentire comune: le note eseguite al pianoforte dal maestro Arturo Annechino che introducono, si insinuano, svaniscono e riemergono a compensare le voci seguendo il ritmo di quel mare ossessivamente presente nella scrittura. A concludere la storia dal buio si materializza sul palco Margaret Mazzantini, con pudore quasi infantile, come se il suo essere lì anche in veste di interprete un poco la intimidisse. Ci prende per mano con grande delicatezza e ci consegna il finale. Dà smalto alle parole confermandosi la miglior interprete dei suoi paesaggi interiori, tra cielo e mare.
MobyDICK
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iancaneve è una favola per bambini, e non c’è dubbio che il nuovo film di Tarsem Singh piacerà ai nanetti di famiglia, ma non solo a loro. La storia è nota: una regina vedova incantatrice, narcisa e gelosa, trama per scippare il regno alla figliastra, erede legittima e unica del re scomparso. Chiusa nel castello con il divieto di uscire, Biancaneve ormai diciottenne si azzarda a presentarsi a una delle faraoniche feste per le quali la regina spendacciona e egolatrica ha dissanguato i sudditi con tasse ingiuste. Cacciata per punizione nella foresta buia e condannata a morte, la giovane sopravvive anche grazie a una banda di adorabili nani ladroni. Un ricco principe s’innamora a prima vista della principessa in disgrazia, rovinando i piani della Regina, che contava di papparselo lei il bel ragazzone facoltoso. La versione dei fratelli Grimm è rivista e corretta con ironia, sarcasmi, sberleffi, freddure da Melisa Wallack e Jason Keller, sceneggiatori emergenti. Oltre a uno strafottente spirito anacronistico, Biancaneve ha molti pregi: il principale è la Regina cattiva di Julia Roberts, la prima matrigna carogna a rubare la scena alla brava, bella e valente protagonista. Lily Collins (figlia di Phil, cantautore e batterista dei Genesis) è in parte nella perseguitata e gagliarda principessa; ma per quanto somigli a Audrey Hepburn, artisticamente la diva Julia se la mangia in un sol boccone. A 45 anni, Roberts domina la scena per diritto divino delle star naturali, in più dotata di talento vero. Hepburn incan-
cinema
B
prima delle vacanze estive. Il gruppo si pone il problema se partire per la casa al mare di Max (François Cluzet, Quasi amici) o restare al capezzale. Alla fine partono, ma prima Vincent (Benoit Magimel), osteopata sposato, padre di tre bimbi, eterosessuale, confessa a Max di essere innamorato perdutamente di lui. Max è il più anziano, il fratello del gruppo. maggiore Profondamente sconvolgente per l’etero Max (e anche Vincent lo è), il segreto colorerà la vacanza e il resto del film, fino al diapason in una scena madre prima della fine. Max e la moglie Véronique (Valerie Bonneton), ristoratori di successo, offrono a Cap Ferret (sull’Atlantico, a sud di Bordeaux) una comoda e generosa ospitalità di cui gli altri, più giovani e meno facoltosi, sono felici di approfittare. L’unico neo sono i frequenti scatti d’ira del padrone di casa. Dalle faine che scarrozzano in soffitta, ai custodi disattenti alla manutenzione («Vengo una volta l’anno, cazzo. Fatemi almeno trovare le cose in ordine!»), passando per gli amici che dormono fino a tardi e fanno perdere l’uscita in barca, se non è turpiloquio è mugugno malmostoso. Marie (Marion Cotillard - Midnight in Paris, La vie en rose - è la compagna del regista) è un’anima irrequieta che passa da un letto all’altro, da un uomo a una donna, fumando spinelli per sedare l’angoscia esistenziale. Antoine (Laurence Lafitte) ammorba tutti con ossessive domande sul da farsi con la compagna Juliette (Anne Morivin) che l’ha appena scaricato. Lo sciupa-
Se è la matrigna a rubare la scena di Anselma Dell’Olio bello (le gambe magroline in calzamaglia non aiutano). Ruolo permettendo (non era il caso di Tolson, con un trucco grottesco da vecchio che lo rendeva identico al papà di I soliti idioti), sa usare l’avvenenza un po’ femminea per far ridere. Singh è noto per la magnificenza e la spavalda visionarietà
scino da intellettuale è anche un buon regista e sceneggiatore: Mon idole, Non dirlo a nessuno, e il terzo, Piccole bugie tra amici (Les petits mouchoirs) lo confermano autore da seguire. Il titolo allude a reticenze e dissimulazioni che esistono anche tra amici carissimi, oltre che all’autoin-
Brava Lily Collins (figlia di Phil) nelle vesti di Biancaneve, ma Julia Roberts, con la sua maestria matura, se la mangia in un sol boccone. Liberamente tratto dalla favola dei fratelli Grimm, se ne consiglia la visione. Da vedere anche “Piccole bugie tra amici” tava restando se stessa, sia in commedie romantiche come Colazione da Tiffany, Sabrina, Vacanze romane, o in melodrammi come Quelle due o La storia di una monaca. Sempre riconoscibile, Roberts crea personaggi sfacettati e credibili (la demotica Erin Brockovich forte come la verità, e l’ereditiera texana Joanne Herring in La guerra di Charlie Wilson) con astuzie attoriali e precisi accorgimenti di trucco, pettinatura e abbigliamento, che nulla hanno da invidiare a Meryl Streep L’aristocratico buon partito è Armie Hammer (i gemelli Winkelvoss in The Social Network, Clyde Tolson in J. Edgar). È un buon attore con uno svantaggio paradossale: altissimo, aitante, biondo con enormi occhioni da cerbiatta azzurro mare, è comicamente
della messa in scena (The Cell-La cellula, 2000). Art direction, costumi, acconciature risplendono di colori lisergici e linee aggraziate sopraffine. Nei momenti quieti, non mancano mai segni e dettagli che allietano l’occhio e catturano l’attenzione. N.B. Notare le nerissime, foltissime sopraciglia a banda larga di Collins; sono di gran moda, e anche se vere (?), sembrano dipinte con la fuliggine. Da vedere.
Guillaume Canet è un attore francese fascinoso (Last Night, Une vie meilleure, Non dirlo a nessuno, tra molti altri). Ma il biondino con il fa-
ganno. Il film è dichiaratamente ispirato a Il grande freddo di Lawrence Kasdan, ma Canet cita pure Mes meilleurs copains di Jean-Marie Poiré, Certi piccolissimi peccati di Yves Robert e Mariti di John Cassavetes, oltre ai film di Claude Sautet. Al posto di un cadavere che chiama a raccolta una banda di vecchi amici per il funerale (Il grande freddo), Piccole bugie inizia con un incidente stradale. Dopo una notte brava in discoteca, Ludo è travolto in moto (Jean Dujardin di The Artist, sorprendente anche in un piccolo ruolo) e finisce fracassato in ospedale
femmina Eric (Gilles Lellouche) concupisce gonnelle in attesa di Léa, la fidanzata bloccata alle prove in teatro. Jean Louis (Joel Dupuch) è il vecchio lupo di mare, benevolo e paterno, che alla fine dà la sveglia alla comitiva autoreferenziale, e Nassim (Hocine Merabet) è il guru New Age, e l’unico anello debole del film. La colonna sonora è da collezione (tra i molti artisti David Bowie, Ben Harper, Eels, Creedence Clearwater, Janis Joplin, Paul Anka). È un film episodico, personale e universale, senza trama, fatto più che altro da piccoli incidenti di percorso. Due ore e mezzo sono un po’ lunghe, ma alla fine si è sedotti e non annoiati. E non si saprebbe cosa sacrificare; forse il guru. Da vedere.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Eliminare il sacrificio e il dovere vuol dire soltanto diseducare NUOVE REGOLE IN POLITICA PER RIACQUISTARE LA «FIDUCIA PERDUTA» La sensazione è che mai come in questo momento la politica avrebbe bisogno di regole certe, che siano stabilite per legge e non lasciate ai codici di autoregolamentazione dei partiti. Occorre prevenire illeciti e abusi ma anche garantire stabilità alle Istituzioni. Soprattutto occorre restituire alla classe dirigente la fiducia dei cittadini. Per far questo c’è bisogno di una riforma sostanziale che parta dalle fondamenta e ristrutturi l’intero sistema del potere, che deve tornare ad essere al servizio della gente. L’auspicio è che si apra un dibattito che porti a riforme vere e condivise del sistema politico. Innanzitutto occorrerebbe ridisegnare i ruoli e stabilire un riequilibrio tra l’assemblea democraticamente eletta e il sindaco o presidente di un Ente. Il potere di scioglimento del Consiglio da parte di un sindaco o di un presidente, oltre a condizionare le libere scelte dei consiglieri, non ha garantito quella stabilità auspicata e che era nelle finalità della legge. Lo dimostra l’alto numero dei Comuni che andranno al voto il prossimo maggio prima della scadenza naturale del mandato del sindaco. Altri punti di intervento che ci preme segnalare sono quelli della non cumulabilità delle cariche o dei doppi incarichi, i limiti di mandato che non possono riguardare solo i sindaci e i presidenti di Provincia, e la “non candidabilità” ad altra carica di un presidente o di un sindaco fino alla scadenza naturale del mandato. Altra questione, riguarda la selezione della classe politica che deve partire dal basso e garantire le parità di genere. Non si può pensare ancora di mandare in assemblee legislative uomini e donne che non abbiano nel proprio curriculum esperienze amministrative nei Comuni e che senza queste quasi sempre risultano staccati dal territorio. Infine, va rivista la cosiddetta riforma Bassanini che regola la macchina amministrativa e burocratica e gli atti dirigenziali che non sono soggetti ad alcun controllo. Solo con regole certe e previste dalla legge, la politica può ritrovare equilibrio, lavorare con trasparenze nell’interesse del territorio e del cittadino e riacquistare la fiducia perduta. Salvatore Negro P R E S I D E N T E GR U P P O UD C RE G I O N E PU G L I A
La scuola odierna tende all’uguaglianza, livella al basso e promuove quasi tutti gli studenti, dai quali pretende una preparazione modesta. Così punisce indirettamente lo studio, lo sforzo, l’impegno, il merito, il far da sé e l’auto aiuto (self-help). Il buonismo, il lassismo e l’elevamento dei voti possono nuocere alla reale preparazione degli studenti. Inoltre danneggiano valenti studiosi provenienti da famiglie povere, che verranno posposti – nelle pubbliche assunzioni – a giovani svogliati, ma raccomandati dal nepotismo.Troppe sono le assenze dalle aule scolastiche. Vi è un eccesso di vacanze estive, natalizie e pasquali. Si aggiungano: “ponti”, settimane bianche, gite scolastiche,“viaggi d’istruzione”, scambi culturali, visite guidate, proiezioni, conferenze, intrattenimenti, svaghi, eventuali pause di carnevale e altro. Le gite scolastiche aumentano per durata e lontananza: non mancano pericoli, incidenti e lutti anche gravi (come le morti dei bambini belgi per il sinistro del loro pullman in Svizzera). Si riducono gli ostacoli e la selezione. Sono stati aboliti gli esami autunnali di riparazione. Si vuole diminuire il carico dei compiti casalinghi pomeridiani, nonché quegli estivi. Declina la responsabilità individuale. Si hanno lavori di gruppo. Chi copia da libri, appunti e condiscepoli è ora sanzionato assai meno d’una volta.
Gianfranco Nìbale
CARO BOLLETTE: NON SONO GLI INCENTIVI ALLE RINNOVABILI A PESARE Il caro bollette, che arriva come una mannaia sulla fragile economia delle famiglie italiane, non può e non deve giustificare alcuna bugia. La vera causa di questi aumenti non sono gli incentivi alle fonti rinnovabili. La vera causa degli aumenti è la dipendenza dell’Italia dalle fonti fossili e il fatto che il costo della maggior parte dei nostri consumi sia determinato dal prezzo del petrolio sulla piazza di Londra. Un prezzo da lungo tempo impazzito. Le rinnovabili pesano sulla bolletta degli italiani per quote proporzionalmente modestissime. Inoltre è singolare il fatto che nel valutare il peso degli incentivi, non si tenga quasi mai conto di quello che le misure di sostegno producono. Ce lo ha ricordato l’Università Bocconi, con una ricerca specifica, proprio pochi giorni fa: i benefici netti delle fonti rinnovabili, al 2030, ammonteranno a 79 miliardi di euro sotto forma di maggiore occupazione, mancata importazione di combustibili fossili, esportazioni nette dell’industria, riduzione del prezzo di picco dell’energia. Altri studi dimostrano come già oggi il gettito fiscale dell’unico settore che sta resistendo alla crisi - quello appunto delle energie pulite compensi gli oneri a carico dei contribuenti. Ci si dimentica spesso dei molti altri costi che gravano sulle bollette degli italiani e
che certo non servono a sostenere una crescita strategica per il Paese, ma solo a mantenere operativo un sistema energetico vecchio e arido in termini di occupazione; o a pagare gli sbagli del passato, come per lo smantellamento del nucleare. Dice bene il ministro Corrado Clini: eliminare il sostegno alle rinnovabili ora sarebbe come aver abbandonato la telefonia negli anni Ottanta, poco prima del boom. Una scelta miope le cui conseguenze si rivelerebbero in un ritardo industriale e d’innovazione cronico e penalizzante.
Andrea Boraschi
A PROPOSITO DI LEGGE ELETTORALE In questi giorni i partiti che reggono il governo stanno affrontando il problema della riforma della legge elettorale, leggo che si parla di un accordo che prevede un modello simile al sistema elettorale tedesco, con la metà dei parlamentari eletti con i collegi uninominali e l’altra metà con le liste bloccate. Ancora una volta gli elettori non potranno scegliere i propri rappresentanti in Parlamento. In sostanza si torna al “Mattarellum” rivisto nelle proporzioni fra uninominale e proporzionale. Ancora una volta i partiti sceglieranno gli eletti, avremo di nuovo un Parlamento di nominati. I partiti attuali non hanno regole certe, gli iscritti non contano nulla, figuriamoci quanto incide-
L’IMMAGINE
Venerdì 20 aprile - ore 17 Bettona (PG) - Museo della Città Premio Renzo Foa 2012 “Il coraggio della verità”
VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
La crisi greca è come una pizza Quante proposte sono state avanzate negli ultimi anni dai leader politici, economisti, studiosi per uscire dalla crisi greca? La risposta è tante, ma mai nessuno aveva presentato una ricetta sfiziosa, come quella messa sul piatto da Jurre Hermans, un ragazzino olandese di soli 11 anni, che si è aggiudicato una menzione speciale e un buono regalo da 100 euro al Wolfon Economics Prize. Jurre ha spiegato il suo progetto con una metafora culinaria: «Tutti quegli euro formano un pancake o una pizza. Ora il governo greco può iniziare a pagare tutti i suoi debiti, perché chiunque abbia un debito prende una fetta di pizza». In che modo? Il piccolo genio dell’economia va nello specifico: «Tutti i cittadini greci - ha scritto nel suo lavoro sottoposto alla giuria - dovrebbero portare i loro euro nelle banche e ricevere in cambio le vecchie dracme. Le banche danno tutti gli euro al governo greco, che così può cominciare a pagare il suo debito. Se un cittadino greco conserva gli euro o li porta in banche di altri Paesi, come Germania e Olanda, deve essere sanzionato con una multa salata o pari al doppio di quanto cercava di nascondere».
ranno sulle scelte dei candidati. Da militante dell’Udc ho raccolto le firme per la reintroduzione delle preferenze. Mi aspetterei che il partito si opponga a questa scelta, che per il mio modo di vedere la politica giudico scellerata, perché non fa scegliere agli elettori i propri rappresentanti e continua a far allontanare la gente dalla politica. Anche in momenti di difficoltà come quello che stiamo attraversando, se si sostengono delle ragioni forti, fondate, non si deve per forza trovare un accordo su soluzioni che non riconoscono le nostre ragioni.
Stefano Mei
È DIFFICILE IL PROGRESSO SE NON SI SOSTIENE LA RICERCA
APPUNTAMENTI
Venerdì 20 aprile - ore 11- Piazza Pilotta 4 Centro Convegni Matteo Ricci - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
LE VERITÀ NASCOSTE
Fiore di Pasqua Il Rhipsalidopsis gaertneri è un popolare cactus della famiglia delle Castaceae che fiorisce in primavera. Precisamente i suoi fiori rossi scintillanti spuntano nel periodo pasquale nell’emisfero nord: per questo la pianta è comunemente conosciuta col nome di “Cactus di Pasqua”. Nella foto, un ingrandimento dello stigma (in rosa) e dello stilo (in verde) dell’apparato riproduttivo femminile del fiore di cactus
Per far crescere questa Italia in difficoltà si insiste su diversi elementi carenti. Tutti i giorni ne sentiamo parlare e ne leggiamo sui giornali. Ma è difficile che si attui un vero progresso se non si sostiene la ricerca. Ormai non è più solo l’America a fare da guida ma anche i paesi orientali, come India e Cina, da tanto hanno capito che per uno sviluppo completo è necessario investire in ricerca in qualsiasi campo e settore. I giovani americani e orientali sono autori degli studi più interessanti. In Italia rimaniamo sempre fermi e, salvo poche eccellenze (da medico conosco le due o tre che mi riguardano più da vicino), non si assiste ad alcun progresso. In tutti i settori per crescere bisognerebbe cominciare a puntare sui giovani e su nuove frontiere di ricerca. Parlarne, come stiamo facendo noi da più di venti anni, non basta.
Alessandro Bovicelli
IL RIGORE DA SOLO NON BASTA L’Italia è in recessione, il Pil si riduce, le retribuzioni reali calano, le buste paga si assottigliano per lavoratori e pensionati. Il rigore è necessario ma senza crescita il rigore non salverà l’equilibrio dei conti pubblici.
Massimiliano Colla
mondo
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L’Occidente miope tende a giustificare il terrorismo e l’aggressività degli islamici, in ogni campo si manifestino
Ma il problema è la nostra mentalità di Daniel Pipes l 25 febbraio 1994, Baruch Goldstein, un medico israeliano di origini americane, si recò nella moschea vicino alla Grotta dei Patriarchi, a Hebron, e uccise 29 musulmani con un’arma automatica, prima di essere bloccato e ucciso. Questo massacro suscitò negli ambienti musulmani una serie di teorie cospirative e provocò dei tumulti, come pure l’accusa che dietro Goldstein ci fosse il governo israeliano, accusa che le strenue denunce del suo attacco non hanno allontanato.
I
Il primo marzo, quattro giorni dopo, a New York, Rashid Baz, un taxista di origini libanesi, sparò una raffica di proiettili contro un furgone pieno di ragazzi ebrei chassidici che transitava su una rampa che conduce al ponte di Brooklyn, ucci-
dendo il sedicenne Ari Halberstam, studente di una yeshiva. Baz fu subito arrestato e condannato a 141 anni di prigione. Le prove indiziarie mostrarono un nesso fra i due episodi: Baz si era immerso nella lettura di notizie in lingua araba sull’attacco di Goldstein, frequentava il sovversivo Centro islamico di Bay Ridge ed era circondato da musulmani che perdonavano il terrorismo contro gli ebrei. Inoltre, i suoi amici dissero che Baz era ossessivamente infuriato a causa dell’attacco di Hebron e lo psichiatra, perito della difesa, Douglas Anderson, attestò che Baz “era arrabbiato”per questo.“Era davvero furioso (…) se non fosse stato per Hebron, questa tragedia [di NewYork] non sarebbe accaduta”.Tuttavia, il nesso apparentemente ovvio fra Goldstein e Baz non poté essere
dimostrato perché Baz giustificò la sua violenza motivandola con gli stress posttraumatici del Libano. E così, malgrado la preponderanza delle prove, l’Fbi accettò la dissimulazione di Baz e classificò questo atto criminoso perpetrato sul ponte di Brooklyn come una “crisi di rabbia sfociata per strada”. Fu solo grazie agli ostinati sforzi compiuti dalla madre di Halberstam che l’Fbi nel 2000 riclassificò l’attacco di Baz come un atto di terrorismo.
E le cose sono rimaste così fino a pochi giorni fa, quando la confessione resa da Baz nel 2007 è divenuta di pubblico dominio grazie a un articolo del New York Post. Nella confessione, Baz ammette l’impatto che ha avuto su di lui l’atrocità commessa da Goldstein come pure di aver
Washington sbaglia tutto in Medioriente: continua a attaccare Israele per non combattere contro l’atomica di Teheran
Obama, il pavido Duro attacco dell’ex ambasciatore Usa all’Onu alla politica della Casa Bianca di John R. Bolton amministrazione Obama sembra impegnata a condurre una campagna organizzata di pressione pubblica per fermare Israele e convincerlo a non attaccare lo sviluppato programma bellico nucleare dell’Iran. Questo sforzo è così intenso, e il presidente Obama è così determinato a portarlo a termine, che i funzionari dell’amministrazione stanno lasciando trapelare al mondo della stampa informazioni altamente sensibili sulle intenzioni e sulle capacità di Israele.
L’
La volontà del presidente di non intraprendere azioni militari preventivi contro gli sforzi nucleari di Teheran è stata evidente per molto tempo, nonostante i suoi rituali da incantatore secondo cui “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Allo stesso modo, è evidente la sua fissazione tesa ad assicurarsi che Israele non intraprenda azioni unilaterali contro l’Iran: questo è il motivo principale alla base del fatto che le relazioni fra Washington e Gerusalemme sono al minimo storico sin dalla fondazione di Israele, avvenuta nel 1948. Di conseguenza, l’unica conclusione pos-
sibile che si può trarre dalle azioni e dalla retorica di Obama è che egli teme più un attacco militare israeliano che la possibilità che l’Iran divenga una potenza atomica a tutti gli effetti. I consiglieri di Obama – attuali e passati – hanno affermato ripetutamente che una possibilità di negoziato soddisfacente è possibile: quella che prevede che l’Iran continui a sviluppare le sue capacità nucleari “pacifiche” sotto il
no sia in grado di possedere il vaso di Pandora senza mai aprirlo. Allo stesso modo crea sconcerto il fatto che i funzionari dell’amministrazione, presenti e passati, sostengano che un Iran “nucleare” possa essere contenuto e mantenuto sotto controllo. Anche se lo stesso Obama sostiene che il contenimento non è la sua politica, credo che questa frase sia vera soltanto da un punto di vista limitato: non è la sua politi-
La politica delle indiscrezioni lasciate trapelare ad arte per fermare i piani militari di Gerusalemme non è soltanto un tradimento dell’alleato. Va contro i nostri interessi di sicurezza controllo della comunità internazionale. È difficilissimo capire come possano conciliare questa convinzione con il fatto che l’Iran ha per anni preso in giro l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, arrivando al punto di demolire edifici e scavare per poi rimuovere migliaia di metri cubi di rocce e terreno per cercare di nascondere le tracce delle radiazioni. Nonostante tutto questo, il team Obama ancora crede che il regime militar-teocratico irania-
ca oggi. È invece la sua politica per domani, il suo “piano B”, da lanciare dopo che le sanzioni in campo e la diplomazia avranno fallito nel tentativo di fermare l’Iran. Questo modo di pensare è forse più deludente del sogno secondo cui l’Iran stia cercando di sviluppare benignamente “gli atomi per la pace”.
La strategia della deterrenza contro l’Unione Sovietica ha funzionato in maniera precaria
e molto nervosa, con delle strettissime vie di fuga dalla catastrofe, ottenute soltanto grazie alla confluenza dei calcoli fra Washington e Mosca. Ma non ci sono prove realistiche che l’autocratico regime religioso di Teheran possa sviluppare gli stessi calcoli. La cosa ancora peggiore – anche ammettendo che l’Iran possa essere limitato nel suo programma – sarebbe l’indubitabile proliferazione atomica in tutto il Medioriente qualora Teheran venisse in possesso di armi nucleari. Lo stesso Segretario di americano Hillary Stato Rodham Clinton ha ammesso che un Iran atomico significherebbe certamente che Arabia
Saudita, Turchia, Egitto e forse anche altri Paesi metterebbero in atto un programma nucleare. Quindi in un periodo relativamente breve – diciamo dai 5 ai 10 anni – ci sarebbero più di mezza dozzina di Stati nucleari nella stessa regione. Di conseguenza, fermare l’Iran dalla sua corsa alle armi nucleari deve essere al primo posto nella lista delle priorità americane. I fallimenti prolungati delle sanzioni e della diplomazia hanno portato gli Stati Uniti a un punto dove, realisticamente, ci sono soltanto due alternative: o i mullah iraniani ottengono la bomba o qualcuno li ferma militarmente prima che possano arrivarci. È questo il dilemma
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preso come bersagli gli ebrei e confessa di aver seguito un furgone di ragazzi ebrei chassidici per tre miglia e mezzo dall’ospedale oculistico e otoiatrico di Manhattan fino al ponte. Alla domanda se avesse sparato a un furgone pieno di afroamericani o di latinoamericani, Baz ha risposto: “No, ho solo sparato loro perché erano ebrei”. Questa confessione tardiva evidenzia un problema ricorrente che i politici, le forze dell’ordine e la stampa hanno con il terrorismo islamista: la loro riluttanza a fissarlo in faccia e ad imputargli l’atto criminoso. Più di recente, questa riluttanza a riconoscere l’evidenza ha riguardato il caso di Mohammed Merah, a Tolosa, in Francia, dove l’impulso immediato dell’establishment è stato quello di presumere che l’autore dell’omicidio di tre soldati e di quattro ebrei non fosse musulmano. Come osserva il mio collega Adam Turner nelle pagine del Daily Caller,“le congetture formulate dal gotha degli investigatori e dei media occidentali riguardo al vero killer, prima di scoprire la sua identità, si erano concentrate fortemente sulla con-
vinzione che si trattasse di un neonazista europeo di razza bianca”. Solo quando lo stesso Merah si è vantato del suo crimine con la polizia e ha persino inviato i video delle sue azioni ad Al-Jazeera le altre teorie si sono alla fine vaporizzate.
Gli esempi di Baz e Merah rientrano in uno schema molto più ampio di negare il terrorismo islamista che ho delineato sin dal lontano assassinio del 1990 del rabbino Meir Kahane per mano di El Sayyid
nella cura dell’acne”, un “problema comportamentale” e “la solitudine e la depressione”. Ma la cosa più inquietante è la tendenza a imputare il terrorismo islamico alle diminuite capacità mentali. Come osserva Teri Blumenfeld nel numero corrente del Middle East Quarterly,“i musulmani che uccidono in nome della religione eludono spesso la punizione nei tribunali occidentali invocando l’infermità mentale o l’incapacità d’intendere e di volere”. Per meglio dire, nelle corti di giustizia occidentali, gli avvocati della difesa attribuiscono di routine gli atti omicidi jihadisti all’infermità mentale.
Dopo la strage di Tolosa, l’impulso immediato dell’establishment è stato quello di presumere che l’autore dell’omicidio di tre soldati e di quattro ebrei non fosse musulmano Nosair, un attacco inizialmente attribuito dal capo della polizia investigativa a “un farmaco prescritto per la depressione”. Da allora, di volta in volta, l’establishment ha evocato delle scuse zoppe per il terrorismo islamico, tra cui una “disputa lavorativa”, un “burrascoso rapporto [familiare]”,“l’Accutane, un medicinale impiegato
Ignorare le radici ideologiche e religiose del terrorismo islamista ha un prezzo pesante da pagare: non indagare a fondo sull’assassinio di Kahane ha significato trascurare del materiale che avrebbe potuto evitare l’attentato del World Trade Center del 1993; capire in anticipo le intenzioni di Merah avrebbe salvato delle vite. L’islamismo deve essere affrontato apertamente per proteggerci dalla violenza futura.
e di cronach
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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Sopra, quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad. In alto un’immagine dall’assedio di Tolosa a Merah Israele potrebbe attaccare l’Iran fra aprile e giugno, quest’anno. Non c’è niente di meglio che comunicare all’obiettivo quando aspettarsi l’attacco.
Arabia Saudita, Egitto, Turchia... Se lasciamo proseguire il programma di arricchimento dell’uranio di Ahmadinejad, altri Stati lo seguiranno a ruota. E il Medioriente sarà ancora più instabile C ITT À D I R E GGIO D I CALABRIA Settore risorse europee e nazionali POR Calabria FESR 2007/2013 - FEP Misura 3.3 Bando di gara 1. Comune Di Reggio Calabria Settore Risorse Europee E Nazionali Via Vicenza 2 - 89100 Reggio Calabria - Tel: 0965/312728 Fax: 0965/324204 f.barreca@comune.reggio-calabria.it www.comune.reggio-calabria.it 2. OGGETTO: Esecuzione dei lavori di ristrutturazione e riqualificazione con adeguamento impiantistico del Mercato Ittico all'ingrosso di Reggio Calabria CIG: 401248033E CUP: H35I10000200008 Importo complessivo euro 1.106.876,13 3. CRITERIO del prezzo più basso - 4. Termine presentazione offerta: ore 11,00 del 28/04/2012 - Apertura offerte: il 28/04/2012 alle ore 12,00 presso il Comune di Reggio Calabria Ufficio Appalti via S. Anna 2° tronco, Ce.dir., torre IV, 2° piano 5. Finanziamento: sul Programma Operativo Regionale Calabria FESR 2007/2013 Fondo Europeo per la Pesca - Misura 3.3. Il responsabile unico del procedimento Ing. Salvatore Sgro
che ha portato Obama a fare pressioni su Israele affinché eviti persino di pensare alla seconda alternativa. Dopo tre anni di incessanti pressioni private contro Israele – che non hanno ovviamente raggiunto lo scopo di ottenere una promessa nel senso di evitare l’uso della forza – hanno spinto l’amministrazione Obama a svelare le proprie carte. Il primo è stato il Segretario alla Difesa Leon Panetta, che ha affermato che
L’indiscrezione successiva è arrivata da un autore del sito internet del magazine Foreign Policy, che ha rivelato come Israele si sia assicurato alcuni diritti sulle basi militari dell’Azerbaijan – sul confine settentrionale dell’Iran – in caso di una campagna militare contro il programma militare atomico di Teheran. Lanciare un attacco da poche centinaia di miglia a diversi obiettivi sensibili – come l’impianto di conversione dell’uranio di Isfaham e quello di arricchimento dell’uranio di Natane – è molto più efficace di attacchi aerei dalle basi nazionali, e darebbe a Israele sia un’enorme sorpresa tattica che un grande vantaggio logistico. Si potrebbe dire con molta fiducia
che l’Iran non era proprio concentrato sul rischio di possibili basi israeliane in Azerbaijan: quindi sentirselo rivelare da fonti dell’amministrazione americana è stato un dono enorme. Si può dire inoltre che se queste rivelazioni non metteranno Israele in ginocchio, ne verranno altre, pubbliche e orchestrate dalla Casa Bianca. È soltanto una questione di tempo. Persino ora, i consiglieri di Obama potrebbero rivelare altre informazioni ad altri governi (a porte chiuse). Forse si potrebbe chiederne conto a Dmitri Medvedev.
Questo modo di fare non è soltanto il modo sbagliato di trattare uno stretto alleato che affronta una sfida diretta alla propria esistenza: è anche direttamente contrario agli interessi nazionali americani. Israele, signor Presidente degli Stati Uniti, non è la minaccia: la minaccia è l’Iran.
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grandangolo Il movimento si interroga sulla propria natura e sul futuro
Fratelli (musulmani) di tutto il mondo unitevi Francia, Egitto e Stati Uniti sono i tre teatri su cui si muove l’alleanza islamica più antica e più istituzionalizzata. Fra convegni, elezioni e incontri con l’Occidente si cerca una linea comune da seguire per distinguersi dal fondamentalismo estremista senza perdere l’appoggio dei religiosi (e dei popoli) meno a contatto con il resto del mondo di Antonio Picasso nche per i Fratelli musulmani, questa è una settimana di passione. In Egitto, il numero due del partito, Khairat al-Shater, ha rotto gli indugi e ha ufficializzato la propria candidatura alle presidenziali di fine maggio. Nel frattempo, una delegazione del movimento “Libertà e giustizia”, attribuzione ufficiale della Fratellanza, si è recata in visita negli Stati Uniti, per un incontro alla Casa Bianca con il Consiglio per la sicurezza nazionale. Praticamente è stato come parlare con Obama. Infine ieri si è aperto a Parigi un convegno promosso dall’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia (Uoif). Tema: la presenza musulmana in Europa e la propria influenza in termini sociali e politici.
A
Tre avvenimenti il cui fil rouge di connessione è una domanda che gli osservatori occidentali si stanno ripetendo ormai da troppo tempo. Dove vanno in Fratelli musulmani? Stando all’incontro di Washington, si potrebbe pensare che il loro destino sia la moderazione e il dialogo. O ancora più chiaramente la libertà e la giustizia. Due valori che la Fratellanza pone come fari ideologici non solo della campagna elettorale in corso in Egitto. In tal caso si tratterebbe di uno slogan. Quindi un lancio di marketing di scarsa credibilità. No, per i Fratelli musulmani, “Libertà e giustizia” sembra destinato a diventare il nome stesso del partito. Al-
la stregua di quel “Partito per la giustizia e lo sviluppo” che domina le vicende politiche in Turchia ormai da dieci anni. Un movimento, quello anatolico, di identità religiosa, che si professa conservatore, pur tuttavia non disdegnando le regole del liberalismo economico. È così che vuole essere la Fratellanza musulmana almeno in Egitto? Il fatto che Obama abbia aperto le por-
Per assurdo, l’Ump di Sarkozy si trova su posizioni simili a quelle arabe: mercato liberale e laicità dello Stato in salsa francese te di casa sua per ospitarne una delegazione fa pensare che queste siano le speranze degli Stati Uniti. Tuttavia da Parigi emergono obiezioni di non poco conto. Alla conferenza citata infatti, avrebbero dovuto partecipare alcuni imam stranieri – egiziani e sauditi in particolare – ai quali il governo francese ha negato il visto di ingresso nel Paese. Motivo: il proselitismo estremistico che ridonda dai loro scritti. Se-
condo il ministero dell’interno francese, la posizione di questi studiosi sarebbe per lo meno ambigua in materia di terrorismo. È soprattutto il qatariota Sheikh Youssef al-Qaradawi a far storcere il naso alle autorità transalpine. All’imam viene imputata «una propensione all’odio e alla violenza del tutto inappropriata in questo momento». Il riferimento è ai fatti di Tolosa. Le istituzioni francesi, Eliseo in prima linea, pagano pegno, almeno psicologicamente, per la strage di due settimane fa. La stessa opinione pubblica nazionale ne è ancora scossa.
Si teme l’affermarsi di idee estremiste e radicali di cui alcuni Fratelli musulmani sarebbero promotori. Il condizionale è dato dal fatto che, si sa, il movimento è eterogeneo e transnazionale. Questo significa che la sua corrente egiziana appare più aperta per quanto riguarda la tolleranza religiosa e la convivenza tra confessioni, rispetto alla parallela anima (per esempio) giordana. Come pure al Cairo è risaputo che siano più avvezzi nel trattare l’argomento Democrazia, secondo i parametri occidentali, rispetto a com’è affrontato negli Stati del Golfo. Parigi non ci sta. E nel turbinio delle presidenziali, il 6 del mese prossimo si voterà per il primo turno, pretende di evitare altri danni. Fa quindi tutt’uno del movimento e non accetta che ci possa essere una corrente islamica dialogan-
te. A ben guardare, il conservatorismo dei Fratelli potrebbe addirittura andare d’accordo con quello dell’Union pour un mouvement populaire (Ump) di cui Sarkozy è leader. Entrambi si dichiarano favorevoli a un mercato liberale con uno Stato che faccia da vellutato apripista. Allo stesso modo si definiscono promotori di una laicità europea, ma soprattutto francese, in cui i valori spirituali e le autorità religiose possano svolgere quel ruolo tradizionale (se vogliamo gaullista) di austeri quanto silenziosi fari indicatori. Del resto, non è difficile immaginare quali siano le posizioni di un partito religioso, sia esso islamico oppure cristiano, riguardo a temi quali divorzio, aborto ed eutanasia. Non lo è la chiesa. Perché dovrebbero esserlo in moschea?
Eppure in Francia c’è un rischio di caccia alle streghe. Le stragi di Mohammed Merah rappresentano un «trauma profondo paragonabile agli attentanti dell’11 settembre 2001 di New York», ha detto Sarko. Da qui la sequenza di arresti, una ventina circa per ora, di presunti complici del qaedista solitario. Da qui anche un’operazione che proprio l’Eliseo non si è fatto scrupolo nel definirla «una retata». Ma le rafles odierne ricordano quelle organizzate dalla Francia di Vichy contro gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. I blogger d’oltralpe hanno rilevato l’analogia e da giorni si divertono nello sbeffeggiare
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Parla Lorenzo Vidino, visiting fellow al Center for Security Studies di Zurigo
«Il caso al Qaradawi dimostra che l’islam cerca una terza via» di Giovanni Radini ontroverso lo è certamente. Tuttavia, io lo definirei un centrista in termini di posizionamento strategico». Lorenzo Vidino è visiting fellow al Center for Security Studies di Zurigo. Ma è italiano, con una visione continentale nei confronti dell’Islam. Gli chiediamo un parere per inserire nel contesto europeo la figura di Sheikh Youssef al-Qaradawi, l’imam di cui il governo francese non gradisce la presenza in questi giorni. Per la cronaca, il personaggio in questione è un qatariota di origini egiziane, nato nel 1926. Da un punto di vista teologico, nessuno mette in dubbio i contributi di al-Qaradawi agli studi sul pensiero islamico. Fonte di dibattito, però, è il fatto che abbia «cercato di spiegare e adattare gli ideali dello stile di vita islamico con la società odierna». Così dice al-Jazeera. Ma trattasi di fonte parziale. L’imam al-Qaradawi in passato si è dichiarato in favore del martirio perpetrato dai palestinesi durante l’Intifadah. Tuttavia, lei lo definisce un esponente dell’ala moderata della Fratellanza. La figura di Qaradawi è fondamentale nel comprendere le evoluzioni della Fratellanza musulmana in particolare e, più in generale, dell’Islam, inserito nel fenomeno globale dell’immigrazione. Sua è la presa di coscienza di un mondo coranico che si deve confrontare con realtà differenti. Sua è la proposta di definire una via alternativa al secolarismo, ma anche all’estremismo violento. Una linea che lo pone un passo avanti rispetto al blocco originario della Fratellanza. Vidino, la Francia ha dichiarato guerra ad al-Qaradawi? La Francia è sotto elezioni e per questo ogni cosa che succede deve essere ponderata in rapporto ai risultati che emergeranno dal voto. Quindi non è in corso una caccia alle streghe? O meglio agli imam? Effettivamente c’è un’inversione di tendenza. Sarkozy ha sempre dialogato con i rappresentanti della comunità islamica francese. Non poteva fare altrimenti. Oltralpe, la presenza di musulmani è più che radicata (tra il 5 e il 10% della popolazione totale, ndr). Sarebbe difficile per chiunque
«C
Sarkozy per questo ulteriore scivolone di immagine. Anche peggiore è apparso il caso di un gruppo di tunisini fermati giorni fa alla frontiera con l’Italia. I flick, nell’attesa di espellerli, li hanno raggruppati in un garage e, per classificarli, hanno segnato a pennarello un numero sul braccio di ognuno.
Come non associare a tutto questo il rifiuto di ingresso ad al-Qaradawi? E come non pensare che in Francia si abbia la convinzione che la Fratellanza resti il male quotidiano da contrastare? Il problema è che l’Egitto dà torto e ragione insieme sia alla linea di apertura statunitense, sia alla cauterizzazione preventiva adottata da Parigi. Al-Shater, l’uomo che i Fratelli musulmani vorrebbero presidente, è un uomo che piace alla massa. Non ricalca certo l’aplomb diplomatico di Amr Mousa e nemmeno la mellifluità di Mohamed
L’obiettivo e il modello sembra essere il “Partito per la giustizia e lo sviluppo” che domina tutta la Turchia el-Baradei. E tanto meno ha un trascorso in uniforme, com’è invece per il generale Tantawi. Anzi, gli anni di galera lo rendono immune da qualsiasi attacco di connivenza sottogamba con i cascami del regime che sono ancora al potere. Le due doti di negoziazione e di fare affari permettono all’egiziano medio di identificarsi con questo self made man del Nilo. Tuttavia, si sta parlando di capacità che si scontrano con
la promessa fatta dai Fratelli, ancora qualche settimana fa, di non correre ufficialmente alle presidenziali. E resta altrettanto in sospeso il confronto tra al-Shater e Abul Futouh, ex numero due effettivo del partito, sul quale molti avevano scommesso come papabile. Egli stesso ci aveva sperato. Al punto da decidere di candidarsi autonomamente, contravvenendo quindi alle direttive dell’Ikhwan. Il vertice della Fratellanza musulmana, prima di incoronare al-Shater, aveva insistito sulla preferibilità di non esporsi con un proprio uomo e, al limite, di appoggiarne uno esternamente. Contraddizioni, tutte queste, che lasciano turbato chi dei Fratelli musulmani non si fida. Perché sono divisi nel loro interno.
Sia per la scelta del nuovo leader, sia per l’impostazione ideologica. Certo, è un buon segno l’annuncio del movimento di voler rinunciare a un parte di seggi all’Assemblea Costituente (il 52% dei 100 totali sono occupati dai Fratelli), in favore delle minoranze libale, laica e copta. Ma non si può dire altrettanto dell’aperto contrasto con Israele: Paese vicino, sostanzialmente alleato, ma il cui trattato di pace sembra necessiti una revisione. Nessun dubbio risolto, quindi. Ed è plausibile immaginare che nemmeno la scelta del leader egiziano possa sollevare i sospetti, come pure dimostrare la veridicità dalle speranze. Il Cairo resta la cartina tornasole più accessibile per capire quel che accade sulla sponda sud est del Mediterraneo. Tuttavia, non basta. Proprio perché i Fratelli sono un diamante dalle tante sfaccettature, illuminate sempre da angolazioni diverse. Così quella domanda sulla loro meta, al di là di una implicita risposta geografica – la presa di potere di ogni singolo Stato araba – resta in sospeso da un punto di vista concettuale. Fratelli musulmani: moderatamente devoti, o propugnatori di fondamentalismo?
non considerare questa realtà come un potenziale bacino elettorale. Un’inversione di tendenza, dicevo, sia rispetto ai precedenti storici nazionali, sia rispetto al resto d’Europa. Cioè? Negli anni Novanta, con l’Algeria che affondava nella guerra civile e la Francia esposta effettivamente al terrorismo islamista, fu Charles Pasqua a battere una linea dura contro l’integrazione. Esponente dell’oltranzismo gaullista, l’allora ministro dell’Interno promulgò una legge che prevedeva a tutti gli stranieri nati in Francia di fare richiesta di cittadinanza al compimento dei 18 anni di età. In caso contrario, si sarebbe perso il diritto di essere cittadini francesi. Era un limite legislativo dettato dagli accadimenti, ma anche dalle convinzioni ideologiche dello stesso Pasqua. Sarkozy, gaullista anche lui e poi titolare del medesimo dicastero di Pasqua, ha invece aperto all’Islam. Ha promosso il dibattito e la circolazione della cultura, attraverso gli stessi libri che i suoi predecessori avevano censurato. Si è allineato con gli altri leader europei. Sì. La differenza è che a Londra e a Roma, chi ha accettato un confronto con il mondo islamico, nello specifico con i Fratelli musulmani e quindi con alQaradawi, era di C’era sinistra. Walter Veltroni in Campidoglio ad accogliere l’imam qatariota per il Festival della filosofia. Era il 2007, ad al-Qaradawi veniva appunto accusato di sostenere gli attentatori palestinesi che si suicidavano insieme alle vittime israeliane. Due anni prima era successa la stessa cosa a Londra. Ken Livingstone, laburista, presiedeva il così chiamato Greater London Council. Sarkozy, a dispetto dei suoi colleghi di partito e di coloro che lo avevano promosso a difensore del conservatorismo moderatamente cristiano in Europa, aveva intuito la possibilità di fare breccia nell’Islam conservatore, ma altrettanto soft. Oggi, è evidente che sia solo per ragioni elettorali, ha cambiato idea. Ma questo non vuol esclude che possa tornare sui suoi passi nel caso resti all’Eliseo.
parola chiave
PROSSIMO
La globalizzazione in cui siamo immersi anziché avvicinare il lontano ha reso estraneo il vicino. Facendoci perdere un essenziale punto d’orientamento della cultura d’Occidente di Maurizio Ciampa dunque morto il prossimo? È questo il vuoto nel quale siamo ormai collocati? Lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja, uomo autorevole e attento ai travagli dell’umano, ha tracciato (in un libro del 2009 La morte del prossimo pubblicato dall’editore Einaudi) le linee inquietanti di questa diagnosi, che, a guardar bene, non è neppure una diagnosi, ma un verdetto quasi inappellabile. La morte del prossimo sembrerebbe entrata nel registro delle cose accadute tra l’avvento della modernità e quello che ne segue. Nella stretta bruciante di questo passaggio, insieme a molte altre cose, sarebbe andato perduto un fondamentale punto d’orientamento della cultura d’Occidente: il prossimo appunto. «Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quello che tutti vediamo? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché sappiamo sempre meno di cosa parla. Il tuo prossimo è una cosa mol-
È
to semplice: la persona che vedi, senti, puoi toccare. La parola ebraica réa nel Levitico, e quella greca plesios, nel Vangelo di Luca, vogliono dire proprio questo: l’altro che ti sta vicino».
Proviamo a trarre, una prima generale conseguenza dalle parole di Luigi Zoja: il processo di globalizzazione, con il quale abbiamo quotidianamente a che fare, ci siamo dentro, ci implica, scompone e sconquassa lo spazio della nostra stessa esperienza, il processo di globalizzazione non avvicina il lontano, come si è pensato inizialmente, ma ha un risultato del tutto opposto: rende estranei il vicino, il prossimo. I nostri occhi non lo mettono più a fuoco, le nostre mani, anche tendendosi verso di lui, non lo trovano, brancolano nel buio, non sono più in grado di toccarlo. È una conclusione che può apparire paradossale, perché, per molti aspetti, le forme di attenzione al prossimo sembrerebbero moltiplicate, i circuiti della solidarietà più estesi che non in passato. A meno che non si voglia pensare, ed è legittimo farlo, che questa nuova attenzione e solidarietà siano parte costitutiva della stessa lontananza. Questa m’immagino possa essere la
risposta di Zoja: di fatto, il prossimo è morto, attenzione e solidarietà servono soltanto a stemperare la drammaticità di questo indubitabile evento. L’uomo del XXI secolo non solo è cieco e sordo, ma è irrimediabilmente solo. Non ha vicini, non ha prossimo. Ma ci riconosciamo in questo mondo di anime solitarie in cui è scomparso il prossimo? Sì, e no. È necessario fare un giro più lungo e cominciare a capire che cos’è, chi ci è prossimo. E, per capire, qualche volta, può essere utile frenare, calmare l’irrequietezza dell’intelligenza, partire da lontano, ed esattamente dal punto in cui questa parola è emersa ed è stata pronunciata. Non è che Zoja non tenga presente la lunga memoria che passa sotto e dentro la parola prossimo, ma è come risucchiato dal vuoto che si è prodotto al suo interno. Vuole registrare, da psicanalista probabilmente, il trauma che ne è derivato. Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, sommando i loro sguardi (in Ama il prossimo tuo pubblicato da Il Mulino nella serie dedicata a una nuova e originale ermeneutica dei comandamenti, giunta proprio con questo libro alla sua conclusione), percorrono l’intera parabola del prossimo. Il lettore ne può senti-
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per saperne di più
hanno detto George Bernard Shaw
La Sacra Bibbia Il Libro del Levitico (19, 15-18) Libreria Editrice Vaticana
Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza: questa è l’essenza della disumanità.
La Sacra Bibbia Vangelo di Marco (12, 29-31) Libreria Editrice Vaticana
Giacomo Leopardi La guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo, e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, ma verso il concittadino, il compagno.
Enzo Bianchi, Massimo Cacciari I comandamenti Ama il prossimo tuo il Mulino
Goethe Noi non conosciamo le persone quando vengono da noi; dobbiamo andare noi da loro per sapere quel che sono.
Luigi Zoja La morte del prossimo Einaudi
Gilbert Keith Chesterton La Bibbia ci dice di amare il nostro prossimo, e anche di amare i nostri nemici; probabilmente perché di solito si tratta delle stesse persone.
Paul Ricoeur Sé come un altro Jaca Book Enzo Bianchi Ero straniero e mi avete ospitato Rizzoli
L’opera umana più bella è di essere utile al prossimo.
Michel De Certeau Mai senza l’altro Viaggio nella differenza Qiqajon
Mentre tu hai una cosa, questa può esserti tolta. Ma quando tu la dai, ecco, l’hai data. Nessun ladro te la può rubare. E allora è tua per sempre.
Sofocle
James Joyce
re le più minute vibrazioni e la molteplicità di voci che in quella parola si sono espresse. La sua strada non è soltanto lunga, è accidentata e rischiosa, delimitata da veri e propri abissi. Giunti al suo fondo potremo forse scoprire che il prossimo è sempre morto, è solo l’amore gratuito dell’uomo per l’altro uomo a metterlo in vita. Aggiungerei poi questo: il prossimo, almeno quello di cui parla Gesù, è il lontano, non il vicino. Non c’è nessuno accanto a me fino al momento in cui, fendendo la distesa di ghiaccio della distanza che mi sta attorno, nel buio, tenderò la mia mano senza neppure sapere perché. L’amore e il bene, dice il grande filosofo Vladimir Jankélévitch, sono istantanei, come dei lampi accecanti. Non ci si prepara. Si brucia.
È, credo, in questo senso che Massimo Cacciari parla di una Drammatica della prossimità (questo è il titolo del suo saggio). Perché drammatica? Perché non è affatto piana la via verso l’altro: «Non esiste amore come generica philanthropia, come sentimento di una comune appartenenza o come effetto di una razionale comprensione della condizione umana. Non esiste amore come immediato, naturale moto dell’anima, e meno ancora come amor intellectualis. Il samaritano diviene prossimo non perché filantropo, ma perché il suo cuore si spacca… Facendosi prossimo a quell’uomo abbandonato, il samaritano si fa prossimo a sé, infonde olio e vino alla lacerazione che il proprio stesso cuore ha patito». «Amare il prossimo - avverte Enzo Bianchi
Le forme di attenzione sembrerebbero moltiplicate, i circuiti della solidarietà più estesi. Ma servono solo a stemperare la drammaticità di un vuoto, di un’irrimediabile solitudine
- è un’operazione veramente difficile, faticosa, sempre da rinnovare e da purificare nelle sue intenzioni più profonde». Ma è una difficoltà che va guardata in faccia, e non può essere semplicemente rilevata. Come si può tornare ad ascoltare il comandamento dell’amore, e come
Una scena del film “Crash”. Sopra, il buon Samaritano secondo Van Gogh. Nella pagina a fianco, un barcone di clandestini
vanno lette le sue parole: «Ama il prossimo tuo come te stesso»? Parole semplici, parole enigmatiche e difficili. Enzo Bianchi scava tenacemente nel terreno di questa enigmatica semplicità: «Occorre riflettere con attenzione: amare il prossimo significa amare chi è vicino, senza nutrire
la carità presbite propria dell’amore verso chi è lontano, chi non si vede, chi non sta alla nostra presenza, al quale si può dare anche un aiuto in denaro (magari con un sms!), senza però dargli lo sguardo, la presenza». Fa di più Enzo Bianchi: dal suo scavo non riporta alla luce soltanto il significato del comandamento dell’amore, ma una grammatica umana dell’amore e della prossimità. Scopriamo così una costellazione di parole che stanno accanto a prossimo: fiducia, responsabilità, cura dell’altro.
Siamo partiti dalla morte del prossimo, attraverso la riflessione di Luigi Zoja. Sembrava non ci fosse rimedio a quella morte. Tutte le forze e le tensioni del tempo, in una corrente impetuosa, confluivano in quel punto. Ci ritroviamo alla fine di questo breve itinerario con una figura che ha ripreso in vita. La sua salute è probabilmente fragile, precaria. Gli egoismi, che ne cancellano o ne occultano la presenza, sono floridi, vigorosi. Mentre il prossimo può avere un profilo sgradevole, scomodo, irritante. Ma continua a marcare l’orizzonte della nostra esperienza. Il prossimo vuol dire che c’è qualcosa o qualcuno al di fuori dei confini della mia vita. Forse non arriverò a riconoscerlo, o dargli nome, non arriverò a toccarlo, ma questo non riduce la sua importanza. Anzi l’aumenta: non c’è neppure la mia vita senza la sua. Per questo il comandamento dice: Ama il prossimo tuo come te stesso. Indica l’essenzialità di un legame che non può essere sciolto. Se muore il prossimo, siamo noi a morire.
ULTIMAPAGINA Appello alla vita per il consigliere torinese dell’Udc ancora in coma dopo l’agguato del 21 marzo
Che la Pasqua ci riporti di Paola Binetti uona Pasqua ad Alberto, una Pasqua piena di speranza e della gioia della Resurrezione, anche se le persone che gli vogliono bene e gli stanno accanto ininterrottamente dal giorno dell’attentato, potrebbero essere spinte a ripetere come il Signore: “La mia anima è triste fino alla morte!”. Anche a loro vogliamo dire: “Buona Pasqua, perché il lieto annuncio che la Pasqua porta a tutti gli uomini è proprio la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio».
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Ogni anno il triduo pasquale ci sorprende per la violenza degli accenti con cui racconta il mistero di iniquità che ha portato alla condanna a morte, e alla morte in croce, del Signore. Ma non possiamo dimenticare che il racconto della passione del Signore è preceduto dal ricordo della cena, l’ultima, che Gesù fece preparare con particolare cura, proprio perché desiderava stare a tu per tu con i suoi amici più cari! Per questo durante la cena compie gesti che possono apparire inusuali, come quando si inginocchia accanto ad ognuno di loro e lava i loro piedi, promettendo di restare per sempre con loro, di non lasciarli mai… I dodici non capiscono, si chiedono cosa significhi tutto ciò; così come non capiscono neppure il riferimento al traditore. La gioia del giovedì santo è attraversata dalle ombre di qualcosa che sta per accadere e di cui però non afferrano il senso. È sempre il mistero della vita di ognuno di noi, anche quando le cose sembrano andar bene, ma si intravvedono all’orizzonte delle ombre! Chissà se Alberto aveva sentore di questa minaccia che poi si è concretizzata il 21 marzo: una sorta di tensione sospesa nell’aria, che impedisce di godere fino in fondo delle cose buone che si hanno, come se ne percepissimo una precarietà, una fragilità estrema.
La Resurrezione segna il passaggio dalla tristezza alla gioia, riaccende ogni speranza, e rinnova la certezza che Dio può fare anche quello che sembra impossibile Il venerdì santo la brutalità dell’arresto, la condanna a morte, la via crucis culminata nella stessa crocefissione, spingono gli apostoli a ripetere le parole che Gesù aveva detto nell’Orto degli ulivi: “La mia anima è triste fino alla morte!”La loro anima è triste, perché nonostante le promesse del Signore, di cui non dubitano, non riescono a capire come potranno realizzarsi. Ecco cosa potrebbe accadere in questi giorni alla famiglia di Alberto. Mentre lui riposa nello stato di coma farmacologico in cui i medici lo tengono, i suoi cari ricordando le sue promesse, il suo affetto, la sua capacità di prendersi cura di tutti e soprattutto dei 4 figli, si chiedono quando si sveglierà, quando risorgerà da questa lunga notte. In questi giorni nel loro cuore si alternano sentimenti di speranza e di tristezza, di smarrimento, ma non di stanchezza. Pasqua è Pasqua proprio perché segna il passaggio dalla tristezza alla gioia, perché permette di sperare contro ogni speranza, e rinnova la certezza che Dio può fare anche quello che sembra impossibile, può farlo: quan-
MUSY do vuole, come vuole e perché vuole. E l’augurio rivolto ad Alberto in questa Pasqua 2012 implica una preghiera simile a quella che Marta e Maria rivolgono a Gesù: Signore, se vuoi, tu puoi! Nella vita di tutti gli uomini ci sono notti in cui la sofferenza appare insormontabile e la speranza sembra essersi dileguata. Qualcuno ha fatto irruzione nella vita di Alberto, con un odio imprevisto e imprevedibile. Non importa tanto chi sia il colpevole, ma resta l’amarezza della violenza subita, inattesa. La domanda che crea la maggiore angoscia in chi conosce bene Alberto è sempre la stessa: Perché? E’ la stessa che ci poniamo davanti alla sofferenza di Cristo sulla croce: perché il male, perché proprio tu?… Non c’è una ragione: il Signore avrebbe potuto redimerci in tanti modi diversi, senza dover soffrire tanto, eppure lo ha fatto come segno di un amore infinito per tutti noi! E Alberto nel dormi-veglia del suo letto d’ospedale riesce ancora ad esprimere l’amore di cui è capace per sua moglie e per i suoi figli, ma anche per quelli con cui ha condiviso il sogno, forse l’utopia, di una politica diversa, fatta di mitezza e di spirito di servizio e di collaborazione. C’è tanta gente che attende, che spera nella guarigione di Alberto, come forma di una resurrezione diversa, quella di chi mette la vita a disposizione degli altri, senza pretendere nulla per sé.
Per i credenti Pasqua è davvero la grande festa della Resurrezione del Signore, una resurrezione che segue alla sua morte in Croce e che ricorda che il male può essere vinto, nonostante la sua ostinata crudeltà e la sua forza assurda e inspiegabile.
Non possiamo negare che pensando ad Alberto Musy nella sua condizione attuale, la tristezza ci avvolga. Ma ci sono molti modi di essere tristi: alcuni conducono al non senso, alla pigrizia, perfino alla disperazione; altri invece possono far scaturire un impegno più deciso per combattere le mille forme del male e dell’ingiustizia, nei modi a nostra disposizione. Combattere la violenza con la non violenza è un messaggio profondamente cristiano, che non significa passività o peggio ancora complicità. E’ un atto di fede convinto nel fatto che sia possibile edificare un mondo migliore, con il contributo di tutti, anche quello offerto da Alberto nel suo letto d’ospedale. Per questo diciamo con convinzione: Buona Pasqua, Alberto! Non è facile cambiare la tristezza in gioia, soprattutto in tempo di crisi, quando tanta gente sperimenta la fatica del vivere e qualcuno è tentato di porvi fine. Anche in questo Alberto ci aiuta, lottando per vivere e per riaffermare con la sua vita un no deciso alla violenza e all’ingiustizia.