ISSN 1827-8817
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 12 MAGGIO 2012
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Unione appare sempre più spaccata in due. Mentre da noi continuano le manifestazioni contro Equitalia
«Avanti anche senza Grecia» Duro commento di Berlino. E Bruxelles rivede le stime dell’Italia Giallo sulla manovra aggiuntiva. Prima la Ue dice che ne abbiamo bisogno, poi si smentisce. E il governo punta alla crescita: 3,2 miliardi per «inclusione sociale, giovani, innovazione e cultura» di Franco Insardà
Il documento recapitato al Corriere da una cellula «informale»
ROMA. Da Palazzo Chigi Mario Monti lancia la Fase 2 nel giorno in cui Bruxelles conferma il pareggio di bilancio dell’Italia nel 2013 che, come ha chiarito il commissario Ue per gli Affari economici e monetari, Olli Rehn, non avrà «bisogno di una nuova manovra». Così quella che, in un primo momento, poteva essere una tegola sul governo si è trasformata in un viatico per il premier impegnato ieri nel Consiglio dei ministri che ha deciso investimenti per 3,2 miliardi per il Sud e i giovani. a pagina 2
LA PROVOCAZIONE
INCOGNITE FUTURE
LE SCELTE DEI PARTITI
Eppure, se Atene Gli errori esce dall’Euro speculari può essere utile di Pdl e Pd
Con il vecchio bipolarismo, Europa addio
di Desmond Lachman
di Enrico Cisnetto
di Francesco D’Onofrio
onostante le stime del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea, è difficile stimare con certezza la situazione economica della Grecia. Lontanissimo dallo stabilizzarsi, il Pil ellenico è precipitato di almeno 16 punti percentuali dal 2008 ad oggi, con un tasso di disoccupazione balzato dal 7 fino al 22 per cento. a pagina 5
e premesse sono chiare. Il risultato delle amministrative era ampiamente scontato; il fenomeno Grillo è semplicemente la conseguenza della totale crisi di credibilità della politica e dei partiti in particolare; il Pdl è via di disintegrazione; la Lega salva la faccia solo per via del risultato di Tosi a Verona, che pure è ottenuto al di fuori del partito. a pagina 3
i avverte una qualche improvvisa riedizione del vecchio bipolarismo che dovrebbe costituire la proposta politica per gli elettori chiamati a votare nelle prossime elezioni politiche generali. Ad una primissima valutazione dei risultati delle ultime elezioni amministrative, è infatti risultato del tutto chiaro il successo del Movimento 5 Stelle. a pagina 8
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Allarme terrorismo: gli anarchici “firmano” l’attentato di Genova. Volantini Br a Legnano
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«Foreign Affairs» paragona la recessione al comunismo
Usa, torna la paura d’Europa Temono la debolezza delle nostre democrazie di Fabio Grassi Orsini he Oltreoceano ci si preoccupi delle sorti dell’Europa, scossa dalla tempesta finanziaria, e che il suo modello sia esposto a pericoli mortali è un fatto incontestabile. Ne è prova la circostanza che per festeggiare il novantesimo compleanno Foreign Affairs dedichi un numero speciale (The clash of Ideas), nel quale si propone un parallelo tra la crisi degli anni Venti e quella attuale, parlando di quando la liberaldemocrazia dovette fronteggiare la sfida del comunismo. a pagina 20
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
«Abbiamo azzoppato uno stregone dell’atomo», recita un messaggio recapitato a Milano Bisogna distinguere il disagio sociale dall’eversione
Anche per questo serve l’unità nazionale di Osvaldo Baldacci on scherziamo. Ci stiamo rendendo finalmente conto di quanto la situazione sia tesa e drammatica? Possibile che ci sia ancora chi preferisce chiudere gli occhi? E peggio ancora chi crede che provenendo da Marte ci siamo improvvisamente svegliati in una realtà nuova ed estranea? Possibile che ci sia chi scusa, giustifica, contestualizza, distingue? Siamo alle soglie del terrorismo, questa è la verità, e ci stiamo arrivando non per caso ma per una serie di concause chiaramente individuabili e che hanno un esplicito sviluppo e delle origini attraverso le vicende degli ultimi anni. C’è qualcuno che lo ha detto da tempo, ma troppi hanno preferito tirar dritto per la loro strada, e ora portano la responsabilità di dove stiamo arrivando. A meno di un porre un argine fermo, immediato, irremovibile. L’unica salvezza è essere uniti e chiari: sì con lo Stato, no con le Brigate Rosse e simili. E non riguarda solo il collateralismo con l’extraparlamentarismo di sinistra. No, l’esempio più eclatante di questi tempi è Equitalia. Equitalia è parte dello Stato: esige debiti non pagati. Non ci possono essere cedimenti che simpatizzino con chi usa la violenza per contrapporsi allo Stato.
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• ANNO XVII •
NUMERO
90 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Il presidente del Consiglio avverte: «Il rigore non è certo finito, ma vogliamo dare il senso di una respirazione civile»
Sfida sulla crescita
L’Unione rivede le stime sull’Italia ma il governo rilancia: stanziati 3,2 miliardi per «inclusione sociale, giovani, innovazione e cultura» di Franco Insardà
ROMA. Da Palazzo Chigi Mario Monti lancia la Fase 2 nel giorno in cui Bruxelles conferma il pareggio di bilancio dell’Italia nel 2013 che, come ha chiarito il commissario Ue per gli Affari economici e monetari, Olli Rehn, non avrà«bisogno di una nuova manovra». Così quella che, in un primo momento, poteva essere una tegola sul governo si è trasformata in un viatico per il premier impegnato ieri nel Consiglio dei ministri. Monti, nella conferenza stampa finale, ha detto soddisfatto: «Mi fa piacere leggere che il vicepresidente Rehn dica che non c’è bisogno di una nuova manovra. Lavoriamo per far crescere in Italia un’economia sociale di mercato altamente competitiva. Il rigore non è certo finito, ma vogliamo dare il senso di una respirazione sociale e civile».
Un messaggio esplicativo delle misure decise ieri dal governo nel cosiddetto piano antipovertà, che prevede 2,3 miliardi di euro per il Sud e 900 milioni per le imprese. Un piano che risponde a quattro priorità: inclusione sociale, giovani, promozione e innovazione delle imprese, attrazione culturale. «La Fase 2 del Piano di azione coesione - si legge in una nota di Palazzo Chigi - sposta fondi sottoutilizzati o allocati su interventi inefficaci o ormai obsoleti, di programmi operativi na-
Proteste, pacchi bomba e scontri. Giovedì il premier incontrerà i vertici della società
Equitalia si difende: «Irresponsabile darci la colpa dei suicidi» ROMA. Equitalia entra di prepotenza nell’agenda del presidente del Consiglio Mario Monti. Giovedì è, infatti, previsto un incontro del premier con la dirigenza dell’Agenzia delle Entrate e di Equitalia. In tutta la penisola continuano le proteste e le tensioni contro la società incaricata della riscossione nazionale dei tributi alla quale vengono in qualche modo attribuite delle responsabilità per i tanti suicidi che si registrano ormai quasi quotidianamente. A questo proposito la società ha diffuso una nota nella quale si legge: «È inaccettabile continuare a scaricare irresponsabilmente su Equitalia la colpa di gesti estremi e situazioni drammatiche, che hanno invece origini diverse e lontane e che stanno esplodendo solo oggi a causa della crisi economica. Eventi tragici da non spettacolarizzare, per i quali Equitalia esprime profonda vicinanza alle famiglie coinvolte». Dal primo pacco bomba del 9 dicembre scorso che ferì il direttore generale, Marco Cuccagna, si sono registrati una serie di episodi. Tra gli ultimi quelli di ieri: un pacco bomba alla direzione generale di Roma, in via Grezar, l’aggressione di due ispettori Equitalia in Lombardia e gli scontri a Napoli. Nel capoluogo partenopeo, circa due-
cento manifestanti hanno organizzato un blocco stradale davanti agli uffici chiedendo la chiusura degli uffici in segno di lutto per gli ultimi suicidi, l’ultimo quello dell’imprenditore a Pompei, avvenuti nel napoletano dopo la consegna di cartelle della società di riscossione. Al rifiuto dei responsabili di Equitalia sono state lanciate uova contenente della vernice rossa, esplosi due petardi e lanciate bottiglie e sassi contro gli agenti del Reparto Mobile schierati. La polizia ha risposto caricando i manifestanti e lanciando alcuni lacrimogeni. Almeno uno dei manifestanti e una decina di poliziotti sarebbero rimasti feriti negli scontri. Subito dopo sono state abbassate le saracinesche ed è stato vietato l’accesso al pubblico.
In Lombardia, invece, due ispettori dell’agenzia di riscossione sono stati aggrediti e malmenati da un imprenditore a Melegnano. I due funzionari erano nello studio di un commercialista, dove ha la sede legale l’impresa dell’aggressore, per procedere a una verifica fiscale. I due ispettori sono stati sono stati presi a calci e pugni, ma non hanno subito lesioni gravi, mentre l’imprenditore dovrà rispondere del reato di percosse.
zionali o programmi operativi interregionali e quindi gestiti dalle amministrazioni centrali dello Stato, per un valore pari a 2,3 miliardi di euro». E Monti ha aggiunto: «Poniamo l’equità in primo piano, con capacità di attenzione a chi rimane indietro. È importante creare circuiti di partecipazione, noi lavoriamo per realizzare pienamente in Italia un’economia sociale di mercato. Nel piano sociale per il Sud c’è una particolare attenzione per alcune regioni del Mezzogiorno dove il problema è più acuto e dove ci sono risorse che si possono usare subito». Sono stati, così, riprogrammati 2,3 miliardi di euro dei fondi comunitari per Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. Di questa cifra 845 milioni sono destinati a obiettivi di inclusione sociale: cura dell’infanzia, anziani non auto-sufficienti, integrazione della politica dell’istruzione contro la dispersione scolastica con azioni per la legalità nel territorio, progetti promossi da giovani del privato sociale.
Il Consiglio dei ministri ha anche varato un’altra serie di provvedimenti che vanno dalle farmacie, con un disegno di legge “correttivo“ delle norme sulle liberalizzazioni, all’editoria, per razionalizzare, semplificare, rendere trasparenti e migliorare la qualità dei contributi pubblici al settore. Nella riunione è stato anche nominato sottosegretario di Stato del-
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Gli errori speculari di Pdl e Pd Il “complesso” del sostegno a Monti e l’illusione di una nuova gioiosa macchina da guerra di Enrico Cisnetto e premesse sono chiare. Il risultato delle amministrative era ampiamente scontato; il fenomeno Grillo è semplicemente la conseguenza della totale crisi di credibilità della politica e dei partiti in particolare; il Pdl è via di disintegrazione; la Lega salva la faccia solo per via del risultato di Tosi a Verona, che pure è ottenuto al di fuori del partito; il Pd ha perso quasi 100mila voti, ma si nasconde dietro l’insuccesso ancor più clamoroso degli altri e laddove vince lo fa grazie ad altre forze; il Terzo Polo (nome sbagliato per un progetto rimasto embrionale) misura l’impossibilità di distinguersi dagli altri solo per il fatto di aver denunciato (peraltro tardivamente) i guasti del bipolarismo. Insomma, tutto prevedibile (e previsto) quanto è accaduto. Molto meno leggibile, per non dire del tutto oscuro, quanto succederà ora.
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La settimana scorsa - prima del voto, proprio perché il suo esito non era così difficile da intuire - ho suggerito un rimpasto di governo che desse un senso compiuto ai mesi che ci separano dalla fine di questa legislatura e preparasse il terreno per la prossima, attraverso l’ingresso di esponenti dei partiti - con un atto di coraggio potrebbero essere gli stessi capi, il cosiddetto trio “AB-C”, a entrare al fine di favorire il superamento delle crescenti difficoltà di rapporto tra esecutivo, parlamento e forze politiche.Vedo ora che, nonostante l’esito del turno elettorale dovrebbe favorire la mia ipotesi, non solo nessuno osa avventurarsi su quel terreno, ma che si pensa di andare in direzione opposta, quasi che il giudizio degli italiani non ci sia stato. Anzi, si fa peggio: in molti, specie nel Pdl, si sono lasciati prendere dalla tentazione di spiegare la propria débâcle dicendo che hanno pagato il prezzo salato dell’assunzione di responsabilità di far nascere il governo Monti e di continuare a sostenerlo nonostante i suoi pessimi risultati. Ecco, questa è la più grande dimostrazione di non aver capito nulla di quanto è successo e sta succedendo nel Paese, che pure avrà rimostranze da fare a Monti - un po’ perché i sacrifici non piacciono a nessuno e un po’ perché qualche motivo di giusta lamentela c’è - ma certo non
rimpiange né il governo Berlusconi né quello Prodi. Ma se questo atteggiamento è riprovevole, non fosse altro perché riduce (azzera?) le possibilità di indurre Monti a qualche scelta più coraggiosa, ce n’è un altro ancora peggiore, anche se apparentemente più logico. Mi riferisco alla linea che sta emergendo nel Pd, in base alla quale sarebbe venuto il momento di prendersi una rivincita elettorale. Frenata solo un po’, ma poco, dal ricordo delle disastrose aspettative frustrate della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, questa teoria si basa sulla seguente sequenza di valutazioni: il Pd ha vinto le amministrative; il Pd era il primo partito già nei sondaggi precedenti il 6-7 maggio, tanto più lo è ora; dunque, si vada alle elezioni (taluno le pensa anticipate, altri le sperano soltanto, altri ancora più moderatamente guardano alla scadenza naturale) per vincerle; di conseguenza, si mantenga in vita l’attuale legge elettorale che consente a chiunque abbia un voto più degli altri di portarsi a casa il 55% dei seggi (unica concessione il ripristino delle preferenze, ma se proprio è necessario e comunque in forma parziale). Si dirà: ma le elezioni servono a stabilire chi vince e chi perde, perché chi si sente in testa non dovrebbe sfruttare il vantaggio? Ammesso, e non concesso, che così sia sembrava certo anche nel 1994, poi è bastato un impresario televisivo a mandare a pallino tutto - perché un conto è vincere le elezioni perché gli altri le perdono e avere la maggioranza in Parlamento (peraltro solo alla Camera, con tutta probabilità) perché c’è un “maialata” di legge elettorale che te lo consente, e un altro è avere una maggioranza politica solida perché tale è il rapporto con il Paese. Se al Pd non basta il clamoroso epilogo delle sue primarie e l’aver perso quasi 100mila voti per capire che vincere in questo modo (sempre ammesso e non concesso) significherà essere schiavo di chi starà alla sua sinistra e tributario di chi lo scavalcherà nel dialogo populistico e giustizialista con la gente, beh allora sarebbe meglio che al governo ci andasse Beppe Grillo. Ma come si fa a non capire che sarà peggio che nel 2006 e che dopo qualche mese si dovrà tornare a votare, come in
Bisogna favorire quanto prima, puntando tutto su forze nuove provenienti dalla società civile, la ricostruzione di una solida area moderato-riformista
la presidenza del Consiglio il prefetto Gianni De Gennaro, che era direttore del Dis, il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che sarà guidato Giampiero Massolo, segretario generale della Farnesina.
Sull’azione di governo si è espresso l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: «Noi siamo qui e voteremo tutte le cose che ci convincono». Convinto e soddisfatto dei provvedimenti adottati dal nostro Paese per il consolidamento dei conti pubblici si è detto il commissario europeo Rehn, chiarendo che «si raggiungerà il prossimo anno il pareggio strutturale di bilancio. L’Italia è in linea con le regole del Patto
di stabilità e crescita che, come ho già ripetuto più volte, non è stupido, ma si concentra sulla sosteniblità delle finanze e tiene conto delle condizioni macroeconomiche e dello spazio di manovra fiscale». In sostanza la manovra aggiuntiva di cui
Grecia? Eppure, ormai quasi tutti gli esponenti del Pd - e non solo in pubblico, ma pure in privato - sostengono questa linea suicida. Così come negano ogni possibilità che l’esperienza del governo Monti possa continuare anche dopo le elezioni politiche, e tanto meno che ci possa essere una “grande coalizione” direttamente gestita dalle forze che appoggiano Monti (che invece sarebbe l’unico modo per i partiti di salvarsi dal sicuro rovescio elettorale che li attende). In questo quadro, che tenta disperatamente di salvare il bipolarismo - inevitabilmente così come lo abbiamo conosciuto, vorrete mica che dei cadaveri lo facciano diventare “normale” quando per due decenni ce lo hanno propinato in questa forma anomala - diventa difficile per chi ha criticato la Seconda Repubblica e concepisce la prossima legislatura come l’inizio della Terza, scegliere una strada che non sia di semplice testimonianza.
Il Terzo Polo, inteso come forza d’interposizione tra destra e sinistra, serve quando il gioco bipolare è forte, non serve a nulla quando è disfacimento. Ora l’Udc e tutti i centristi hanno chiaro che non basta distinguersi, che non è stato sufficiente farsi paladini “senza se e senza ma” del governo Monti, per sopravvivere allo tsunami degli italiani incazzati. E siccome seguire la sinistra sarebbe suicida, non rimane che favorire - puntando tutto su forze nuove provenienti dalla società civile - la ricostruzione di un’area moderato-riformista che impedisca il ritorno sulla scena di Berlusconi (vedrete che ci proverà!), che sganci le forze più estreme (siano esse localistiche, populiste o fascistoidi) e che recuperi quella parte di centro-sinistra che considera suicida il tentativo di vendicare Occhetto 19 anni dopo. Riparliamone. (twitter@ecisnetto)
l’inflazione, occupazione e conti pubblici hanno messo in evidenza che il pareggio di bilancio in termini strutturali potrebbe essere raggiunto nel 2013 grazie a un ulteriore aggiustamento di oltre lo 0,5% del Pil. Secondo Bruxelles l’Italia
previsioni europee, quest’anno schizzerà al 9,5%. «Con il rallentare dell’attività - ha spiegato Bruxelles - economica in Italia, anche la ripresa graduale che si era registrata a fine 2010 nel numero di occupati ha subito uno stop nell’ultimo trime-
Il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca ha sottolineato: «Il bilancio dell’Europa è flessibile: non vengono trasferiti fondi inchiodati a obiettivi, se gli obiettivi si rivelano sbagliati i fondi si spostano» parlano le previsioni per il raggiungimento del pareggio nel 2013 è, come hanno precisato fonti della Commissione Ue, quella già varata. Le consuete previsioni economiche di primavera della Commissione europea su Pil, andamento del-
raggiungerà il picco del suo debito pubblico nel 2012, quando sarà pari al 123,5% del Pil me a partire dal 2013 «grazie all’alto e crescente surplus primario, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere». Note dolenti per la disoccupazione che, secondo le
stre dello scorso anno». Tenendo presenti questi dati il governo ieri ha messo in campo il suo piano che, come ha sottolineato il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca: «Il bilancio dell’Europa è flessibile: non vengono trasferiti fon-
di inchiodati a obiettivi, se gli obiettivi si rivelano sbagliati i fondi si spostano».
Ricordando che «annunciare l’utilizzo di fondi non sarebbe in sé una novità se non ci fossero garanzie per il loro utilizzo tempestivo e efficace», Barca ha aggiunto che l’esecutivo si è mosso sia sotto «l’impulso di mozioni parlamentari che chiedevano di intervenire nella cura di infanzia e anziani sia sotto l’impulso della stessa Ue sul mancato utilizzo dei fondi. In particolare il 30 gennaio l’Europa ci ha chiesto di intervenire con particolare attenzione a giovani nel cui ambito la disoccupazione in Italia è la peggiore tra i paesi europei».
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l’approfondimento
L’Europa è sempre più spaccata in due. E a dividere i Paesi sempre di più, spesso, sono proprio i vincoli sovranazionali
Il nuovo Muro di Berlino Schäuble minaccia Atene: «Se non rispettate le regole, siete fuori dall’Euro. E noi faremo a meno di voi». Davvero le cose stanno così? Davvero la Germania può far fallire la Grecia? Il problema dell’Unione è politico, non solo economico di Marco Scotti
on sarà che dietro le bordate che da Berlino partono con cadenza quotidiana in direzione di Atene vi sia una qualche forma di paura? Perché altrimenti la Germania, di gran lunga lo stato più in salute – giovedì le stime di crescita sono state riviste ancora una volta al rialzo – dell’Unione Europea, dovrebbe continuare a lanciare strali contro la Grecia? La situazione ad Atene, è sotto gli occhi di tutti, è – per usare un eufemismo – estremamente travagliata. Il fallimento delle trattative per formare un governo porta dritto a nuove elezioni a giugno, procrastinando di un altro mese la risoluzione dei destini greci. Ma è chiaro che il nodo attorno a cui si sta giocando questa partita cruciale è quello delle condizioni (da rispettare o meno) per ottenere altri aiuti dalla troika: austerità, tagli e “lacrime e sangue”. Condizioni che i greci non sembrano essere più disposti ad accettare. Non ci vogliamo lanciare in
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esercizi di fanta-finanza, ma è ormai dato per assodato che Atene abbia ben più di un piede fuori dall’Europa. Quantomeno, dal sistema di Eurolandia, se non anche dall’Unione Europea. Avvenimento che sarebbe il preludio al definitivo default della Grecia, con conseguenze drammatiche per tutta l’Europa. Per questo, e qui ritorniamo alla nostra introduzione, la Germania sta svolgendo il compito di cane da guardia che, per paura, abbaia continuamente. Fuor di metafora, in un’Europa unita solo da vincoli economici, ma senza un governo comune che ne regga le sorti, qualsiasi collasso di un membro – in questo caso periferico, in futuro chissà – minerebbe alle fondamenta il continente. Non solo, diventerebbe un pericoloso precedente.
Perché la Germania è spaventata dalla piccola Grecia? Intanto, perché una fuga di Atene dagli impegni sottoscritti per ricevere ulteriori tranche di
aiuti, significherebbe che, di fatto, né la Germania stessa, né tantomeno Ue e Bce, rivedrebbero il denaro prestato ad Atene. Almeno, non nell’immediato futuro. Un’uscita della Grecia dall’euro – con conseguente ritorno alla dracma – significherebbe una svalutazione della valuta di circa il 50% del suo valore al momento dell’entrata nella moneta unica. Improvvisamente, quindi, i prezzi raddoppierebbero, con il conseguente e inevitabile collasso
L’uscita dalla moneta unica provocherebbe un buco da 150 miliardi
dell’intero sistema paese. Una nazione allo sbando che non sarebbe in grado di restituire quanto ricevuto dagli organismi internazionali e dagli investitori stranieri e che, di conseguenza, lascerebbe scoperto un “buco” da almeno 150 miliardi di euro. Una cifra enorme che farebbe ammalare le finanze dei paesi più esposti verso Atene: su tutti la Francia, che ha nelle proprie casse – e in quelle delle sue banche – una montagna di titoli di stato greci che si
trasformerebbero in autentica carta straccia. Mentre scriviamo, gli interessi pagati da un buono del tesoro decennale emesso ad Atene sono del 23,54%: in parole povere, quasi 250 euro di interessi annui da corrispondere per ogni 1000 euro di buoni del tesoro acquistati. E la Grecia non è in grado di corrispondere queste cedole agli investitori.
Nonostante la rinegoziazione avvenuta a marzo, che ha permesso di sbloccare una tranche significativa di pagamenti, la Grecia è ancora esposta per una cifra che non solo è enorme in valore assoluto ma che, soprattutto, non esiste fisicamente nelle sue casse. L’unico modo per trovare quel denaro sarebbe condurre una lotta all’evasione fiscale senza precedenti, che permetta di recuperare quelle risorse indispensabili per rifondere gli investitori. Ma, come certificato da una recente analisi, gli evasori fiscali greci continuano ad agire indi-
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L’ex vicedirettore del Fmi suggerisce di fare un passo indietro
Tornare alla Dracma in realtà vi conviene
«Restare nell’Euro alle condizioni del Fondo monetario e della Ue significa solo affondare» di Desmond Lachman onostante le stime del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea, è difficile stimare con certezza la situazione economica della Grecia. Lontanissimo dallo stabilizzarsi, il Pil ellenico è precipitato di almeno 16 punti percentuali dal 2008 ad oggi. Nello stesso arco di tempo, il tasso di disoccupazione è balzato dal 7 al 22 per cento, mentre la mancanza di un’occupazione fra i giovani ha raggiunto una quota elevatissima: il 50 per cento. Dati che rendono - sia economicamente che socialmente - la situazione greca non molto dissimile dalla Grande depressione americana degli anni Trenta. E soprattutto sempre più vicina al collasso. Bce e Fmi nella fase iniziale del loro programma di salvataggio greco, avevano immaginato e raggiunto un importante obiettivo: evitare che la necessità di Atene di dover rinegoziare il debito incidesse drammaticamente sui mercati. Peccato che il continuo deterioramento della situazione abbia pregiudicato questa intenzione e reso evidente a tutti che il Paese non sarà probabilmente mai in grado di restituire le sue obbligazioni, almeno non nei termini che erano stati stabiliti. Dopo che nel 2010 il Fondo monetario era stato irremovibile circa l’assoluta mancanza di necessità di accordare un aiuto finanziario al governo di Atene, l’Fmi tornò sui suoi passi con una serie di misure retroattive per ridurre il peso delle obbligazioni.
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cia frammentata, ma in enorme cambiamento. Benché al momento in difficoltà, non è escluso che la nascita di un nuovo governo sia in grado di paventare al paese delle opzioni di salvezza punto differenti. E soprattutto che sappia dimostrare di non accettare passivamente tutte le prescrizioni del Fondo e dell’Unione destinate, è un dato di fatto, ad affossare e deprimere la Grecia per molti anni a venire, facendo altresì lievitare il suo tasso di disoccupazione. Mi ripeto: la situazione economico-sociale della Grecia non è affatto diversa da quella degli Stati Uniti durante la Grande depressione degli anni Trenta.
L’unica chance di Atene per rompere questo circolo vizioso e invertire la spirale economica discendente, è quella quella di ritornare alla propria moneta nazionale, la Dracma. Questo le offrirebbe l’opportunità di restaurare velocemente la sua competitività a livello internazionale senza dover passare attraverso troppi anni di depressione economica e deflazione. Recuperando rapidamente un peso internazionale, la Grecia potrebbe avere l’opportunità di rivitalizzare sia il suo export sia il settore turistico, i due veri pilastri della sua economia. Gli unici in grado di risollevare le sorti finanziarie del paese. Con questo non voglio dire che la reintroduzione della Dracma sarebbe la panacea di tutti i mali greci. Se il nuovo governo dovesse decidere di uscire dall’Euro i rischi di una super-inflazione sarebbero altissimi. Diciamo che il mercato non tollererebbe alcun errore in una fase così delicata. Ma se i nuovi governanti si rivelassero all’altezza della situazione, la Grecia potrebbe presto tornare “in salute”. O quantomeno, stare molto (ma molto!) meglio di quanto starebbe continuando ad acconiscendere alle richieste vessatorie dell’Fmi e dell’Ue.
«Il Paese ricorda terribilmente gli Usa durante la Grande depressione»
Quando prescrivono una cura, la maggior parte dei dottori non raddoppiano la dose quando capiscono che la medicazione rende il paziente più malato di prima. Una regola disattesa completamente da Fmi e Bce. Incapaci di tornare sui propri passi anche quando l’economia greca ha cominciato la sua caduta libera e il sistema bancario è finito in brandelli, i due hanno continuato ad imporre un’austerità fiscale insostenibile. Che ha costretto il governo ateniese a un ulteriore giro di vite per tentare di far quadrare quei conti (stabiliti evidentemente da altri) che prevedono un aggiustamento del loro bilancio entro il 2014. Le elezioni parlamentari tenutesi in Grecia domenica scorsa hanno confermato quello che dicevano tutti i sondaggi da settimane: nessuna pietà per i partiti politici che hanno votato il pacchetto di aiuti per il Paese. L’esito delle urne, tuttavia, ha presentato al mondo una Gre-
sturbati, tanto che negli ultimi mesi, nonostante l’aggravarsi delle condizioni della finanza pubblica fino a uno stato preagonico, gli ordinativi di yacht e beni di lusso sono addirittura aumentati!
Il fatto che il ministro delle finanze tedesco Schäuble, tra l’altro tra i possibili successori di Juncker al vertice dell’Eurogruppo, si sia lasciato andare a dichiarazioni più da bar sport che non da consesso internazionale, dimostra come la tensione a Berlino sia altissima. Il delfino di Angela Merkel ha sostenuto con violenza che Atene può benissimo uscire dall’euro senza che questo comporti alcuno scossone. È una bugia enorme, e lo sanno anche i sassi. Se davvero la Grecia fosse costretta a lasciare la moneta unica, provocherebbe un disastro senza precedenti. Di cui sarebbe correa la stessa Germania, che ha imposto ad Atene una via di rigore senza precedenti per sbloccare gli aiuti e continua a ventilare sanzioni (sotto forma di mancati pagamenti) qualora i governi futuri decidano di venire meno ai patti di austerità siglati a marzo. Oltretutto, Angela Merkel continua a ripetere che non esistono le condizioni per la creazione degli eurobond, che permetterebbero invece di mettere al sicuro le finanze di Eurolandia dagli attacchi della speculazione. Lo stesso Fiscal Compact, che ha introdotto norme ancora più severe di quanto non fossero quelle stabilite (e puntualmente non rispettate) a Maastricht, rischia così di essere, da speranza per il futuro dell’Europa, la pietra tombale del continente unico. La verità è che nessuno, allo stato attuale, può permettersi di uscire dall’euro. Eccezion fatta per la stessa Germania, in cui una parte sempre maggiore della popolazione invoca il ritorno al vecchio marco. Secondo studi condotti recentemente, se Berlino decidesse di abbandonare la moneta unica, ritroverebbe la sua valuta addirittura più forte di quanto non fosse prima del 1° gennaio 2002. A dimostrazione che la locomotiva d’Europa esiste eccome, ma che non è in grado (come è ovvio) di trainare dietro a sé tutti gli altri vagoni che compongono Eurolandia. È curioso che in queste situazioni estremamente convulse, invece che cercare di riguadagnare la coesione perduta, vi sia un continuo rimpallo di responsabilità che lascia francamente sconcertati. Se perfino un’autorevole testata
come è il britannico Times si permette di dire che per colpa dell’Italia – che non aveva i parametri per entrare nella moneta unica – si è dato l’abbrivio a una corsa al ribasso per l’ingresso in Eurolandia, si capisce che siamo arrivati a un punto di non ritorno. La testata inglese è stata preceduta nella sua intemerata dallo Spiegel, settimanale tedesco che sembra avere particolarmente in uggia Roma e i suoi governi. L’accusa mossa nei giorni scorsi al nostro Paese è che tra il 1997 e il 1998 l’Italia abbia truccato i conti con il placet di Helmut Kohl, padre nobile dell’Europa unita. Da quel momento, anche altri paesi hanno intrapreso la medesima strada. Su tutti, la Grecia.
La giornata di ieri è stata caratterizzata non solo dagli attacchi provenienti dalle testate di cui sopra, ma anche, e soprattutto, dall’uscita – poi immediatamente smentita – del commissario Olli Rehn, che ha rivelato in un primo momento come all’Italia manchino almeno 8 miliardi per raggiungere il tanto agognato (od odiato) pareggio di bilancio. Affermazione ritrattata poco dopo, ma il dubbio che l’obiettivo della comunità internazionale si sia spostato da Grecia, Portogallo e Irlanda (ormai date per spacciate), verso Italia e Spagna inizia a farsi sempre più concreto. La questione, a questo punto, diviene davvero nodale, seguendo un doppio binario. Da un lato, che cosa succederà se Atene – come pare – uscirà dall’euro? C’è chi ha detto con eccessiva leggerezza che anche l’Argentina è fallita ed ora gode di ottima salute. Vero, ma l’Argentina non faceva parte di un sistema complesso come l’Europa: ha potuto negoziare con i propri debitori un rifinanziamento (analogo a quanto fatto ad Atene) senza che questo avesse ripercussioni su un intero continente. La caduta di Atene sarebbe un potente e preciso “gancio” all’Europa vittima della recessione, che si troverebbe improvvisamente senza una cifra pari a circa il 10% del pil italiano. Un colpo da ko? Forse no, ma certamente lascerebbe tramortito il nostro continente. Dall’altro, è davvero così fondamentale il pareggio di bilancio in questo momento? A nostro avviso, proprio no. Anche perché esso rischia di ingenerare una spirale recessiva che porterebbe ben presto alcuni paesi deboli (Italia e Spagna su tutti) a vivere tensioni sociali ancora più forti di quanto non accada adesso. Inoltre, non sarebbe meglio ipotizzare interventi strutturali sul debito (che ogni anno costa all’Italia 80 miliardi di euro solo di interessi) in modo da alleggerire un fardello che frena tutto il continente? La risposta è ovvia, a nostro giudizio. Ma a Berlino, da quell’orecchio, non ci sentono proprio.
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«Abbiamo azzoppato uno degli stregoni dell’atomo» si legge nel documento
La firma anarchica Arriva la rivendicazione dell’attentato di Genova. E intanto a Legnano rispuntano dei vecchi volantini a nome delle Br di Riccardo Paradisi ra c’è anche la firma sull’attentato al dirigente Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi gambizzato a Genova lo scorso 7 maggio da due persone a bordo di uno scooter. A rivendicare l’agguato la Federazione anarchica informale-Cellula Olga (un’insurrezionalista) greca, con un documento recapitato per posta ordinaria al Corriere della Sera. Documento che per i temi e il linguaggio usati – più semplice, immediato e “sentimentale” rispetto a quello usato dalle vecchie Brigate Rosse – sembra attendibile agli inquirenti.
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Anche le modalità di consegna del comunicato, e alcuni particolari, tra cui l’indicazione dell’indirizzo attraverso un’etichetta, fanno ritenere il testo genuino. Stando ai primi accertamenti, il timbro postale indica che il volantino è stato spedito il giorno stesso dell’attentato da Genova, dove potrebbe aver sede questa cellula del nuovo terrorismo di matrice anarchica. Nuovo per modo di dire considerando che la Federazione
berto Adinolfi – si legge nell’incipit del testo – uno dei tanti stregoni dell’atomo dall’anima candida e dalla coscienza pulita. Solo la radicalizzazione del conflitto può condurre a percorsi di libertà individuale e sociale. Individuare l’obiettivo, colpire dove più nuoce, saper riconoscere il nemico anche quando veste i panni dell’agnello. Far lavorare di pari passo le armi della critica e la critica delle armi». Vecchi formulari mutuati da brigatismo e autonomia ma inseriti in un contesto anarchista e aggiornati da una sottocultura eco-apocalittica e messianica. Nel testo si legge anche una lunga e superficiale disamina dell’industria atomica europea e mondiale, in cui si cita anche Fukushima. Ma in particolare si passa al setaccio la figura di Adinolfi, definito in uno dei passaggi, ”grigio assassino”.
Vi è poi la messa a critica del ”binomio scienza-tecnologia” di essere uno strumento delle mani del capitale: «Stato e scienza, capitalismo e tecnologia sono una cosa sola, un unico molo-
«Colpire con azioni che possono andare dal lancio di una molotov all’assassinio. Ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà...». Ecco la tattica dei nuovi terroristi anarchica informale firma attentati a bassa intensità ormai da una decina d’anni. Con la gambizzazione di Adinolfi però gli anarco -insurrezionalisti segnano effettivamente un salto qualitativo. Un escalation annunciata e teorizzata lo scorso agosto con un documento riversato in rete. Il volantino recapitato ieri al Corriere – tre fitte cartelle precedute da una citazione di Bakunin – ha un forte impianto antiscientista e si iscrive pienamente nella tradizione dell’anarchismo politico esistenzialista più radicale e violento. «Abbiamo azzoppato Ro-
ch». Non mancano critiche anche alle ali “moderate”dell’anarchismo italiano accusate di inanità: «con le vostre lotte sociali, con il vostro cittadinismo lavorate al rafforzamento della democrazia». Infine, la chiamata alle armi: «Con il ferimento di Adinolfi proponiamo una campagna di lotta contro Finmeccanica piovra assassina. Oggi l’Ansaldo nucleare domani un altro dei suoi tentacoli, invitiamo tutti i gruppi e singoli Fai a colpire tale mostruosità con ogni mezzo necessario». Una forte dose di esistenzialismo e irrrazionalità caratterizza il do-
La politica deve dare una risposta a questi segnali inquietanti
Anche per questo serve l’unità nazionale Non si possono rifare gli errori degli anni Settanta: occorre distinguere il disagio sociale dall’eversione di Osvaldo Baldacci on scherziamo. Ci stiamo rendendo finalmente conto di quanto la situazione sia tesa e drammatica? Possibile che ci sia ancora chi preferisce chiudere gli occhi? E peggio ancora chi crede che provenendo da Marte ci siamo improvvisamente svegliati in una realtà nuova ed estranea? Possibile che ci sia chi scusa, giustifica, contestualizza, distingue? Siamo alle soglie del terrorismo, questa è la verità, e ci stiamo arrivando non per caso ma per una serie di concause chiaramente individuabili e che hanno un esplicito sviluppo e delle origini attraverso le vicende degli ultimi anni. C’è qualcuno che lo ha detto da tempo, che ha avvisato, che ha cercato di porre rimedio, ma troppi hanno preferito tirar dritto per la loro strada, e ora portano la responsabilità di dove stiamo arrivando. A meno di un porre un argine fermo, immediato, irremovibile. L’unica salvezza è essere uniti e chiari: sì con lo Stato, no con le Brigate Rosse e i loro emuli. Niente compagni che sbagliano, niente equidistanza, niente giustificazioni buonistiche o sociologiche. Certo, bisogna capire il contesto socio-economico drammatico, comprenderlo ma non renderlo giustificazione per azioni riprovevoli. E non riguarda solo il collateralismo con l’extraparlamentarismo di sinistra. No, l’esempio più eclatante di questi tempi è Equitalia. Equitalia è parte dello Stato: esige debiti
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non pagati. Non ci possono essere cedimenti che simpatizzino con chi usa la violenza per contrapporsi allo stato. Non ci possono essere attenuanti. C’è qualcosa che non va nel sistema Equitalia? Si cambino le leggi per rendere non meno serio ma più modulato il rientro di quanto è dovuto. Si smetta invece di usare i casi pietosi per giustificare un clima di rivolta totalmente ingiustificata, illegale e pericolosa. Gli attacchi violenti ad Equitalia sono diventati talmente tanti da essere inferiori per numero solo agli attacchi verbali rivoltile da alcuni politici.
Gli stessi politici che sono in gran parte responsabili di quanto sta accadendo. Responsabili materialmente per aver mal guidato il paese conducendolo nelle difficili condizioni in cui siamo. E responsabili per il degrado del clima umano e politico che si è andato creando. Quel bipolarismo marcio, fazioso e violento che troppo a lungo ci ha accompagnato è stato caratterizzato da toni dove le parole sono state pietre e a volte anche pallottole. Come ci si può stupire che una Paese alimentato a lungo in questo modo trovi qualcuno che passi dalle parole ai fatti? Non possiamo dimenticare queste responsabilità. Soprattutto perché non sono di tutti,ma sono di frange precise del mondo politico. Al contrario l’Udc da anni si è schierato contro questa modalità pericolosa e violenta di
politica A sinistra il dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi colpito dai terroristi lo scorso 7 maggio a Genova. Qui a lato il volantino di rivendicazione anarchica dell’attentato recapitato al Corsera. Sotto documenti Br e un’immagine dei lugubri anni di piombo
seguenza l’impegno a lavorare insieme mettendo da parte le rivalità di fronte a un fine superiore.
E di fine superiore si tratta, se bisogna salvare l’Italia dal disastro, dal fallimento economico e di conseguenza dal dramma sociale, e a sua volta dalla possibile/probabile conseguenza della deriva violenta. Basta seminare odio, basta a tutti i livelli: basta da parte dei politici faziosi, basta da parte dei media che preferiscono un titolo sensazionalistico a un sussulto di responsabilità e di dignità, basta da parte di chi rimesta nel torbido, di chi mette gli uni contro gli altri, basta a chi se ne approfitta di rendite di posizione.Torna con urgenza la necessità dell’unità nazionale. Prima di tutto in politica, per mettere le migliori energie al servizio del paese e per fare argine senza se e senza ma rispetto alle derive violente. Ma un’unità nazionale che deve andare oltre la somma dei partiti, che deve investire e travolgere i cuori, le coscienze, la mentalità di ogni italiano. Che deve permeare la società, deve smuovere la società civile, deve ravvivare la cultura, deve plasmare le forse sociali. Negli anni Settanta alla fine il terrorismo fu sconfitto anche grazie a uno sforzo di questo tipo, ma non bisogna dimenticare il prima: prima il terrorismo aveva avuto modo di penetrare nel paese, di infettare la società, di lasciare una scia di sangue e ferite non ancora rimarginate. Prima l’unità nazionale in politica e nella società era naufragata, fallita, o quantomeno era troppo debole e fittizia. Il risultato furono gli anni di piombo, fu infine l’uccisione di Aldo Moro. Impariamo da quel periodo per prevenirlo, per costituire oggi quell’unità costruttiva e capace di rilanciare il Paese e al contempo di renderlo impermeabile al terrorismo.
L’esempio più eclatante di questi tempi è Equitalia: un pezzo dello Stato che esige debiti non pagati. Non ci possono essere cedimenti né simpatie per chi usa la violenza per contrapporsi allo Stato fare politica e spaccare il paese, e proprio per questo ha condotto la sua battaglia solitaria (solitaria tra i partiti, ma fortunatamente con sempre in testa il presidente Napolitano) per pacificare il Paese, ricucire l’Italia, moderare la politica, unire gli italiani, mettere insieme per il bene comune le forze migliori dell’Italia. Questa linea dell’Udc è costata prezzi molto alti, sono arrivate le accuse infondate di politica dei due forni, si è rimasti a lungo fuori dal potere, ma forse ora forse ci si rende conto che non erano le poltrone che si cercavano (anzi si è rinunciato a vagonate di poltrone) ma si cercava la via per salvare l’Italia, anche mettendo i propri interessi in secondo piano. Questa è la strada avviata anni fa dall’Udc, seguita poi dal Terzo Polo, interpretata dal governo Monti e faticosamente assunta dalla grande coalizione. Ecco, ora di fronte ad attentati e minacce, prima che sia troppo tardi, la risposta più che mai può essere una e una sola: la serietà, l’assunzione di responsabilità, la comprensione che non esistono nemici in politica se non i violenti e di con-
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cumento: «Gli esseri umani sono fatti di carne e sogno. il nostro sogno è quello di un’umanità libera da ogni forma di schiavitù, che cresca in armonia con la natura. Un sogno che rendiamo vivo nel momento in cui lottiamo per realizzarlo. questo sogno ha per noi un nome: anarchia. e siamo disposti a giocarci tutto per realizzarlo. Non siamo soli in questa avventura, in tutto il mondo una nuova anarchia è sbocciata.
Si diceva che il salto di qualità nel’offensiva armata era stato annunciato dagli anarcoinsurrezionalsiti da un documento programmatico pubblicato sul web nell’agosto del 2011 dal Fai, Federazione anarchica informale. Fronte rivoluzionario internazionale Cooperativa artigiana fuoco e affini. Brigata 20 luglio. «Colpire con azioni che possono andare dal lancio di una molotov all’assassinio ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà...» è uno dei punti della strategia che veniva indicata in quel documento. L’obiettivo annunciato nel testo è una «nuova guerriglia anarchica e nichilista, mille e mille fuochi ovunque
posizionate a breve distanza dalla casa dell’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi; pacchi bomba indirizzati al presidente della Bce Jean Claude Trichet a Francoforte ed alla sede Eurojust dell’Aja. Da allora, la Fai è stata protagonista di altre spedizioni esplosive ed è considerata il pericolo principale della frastagliata galassia anarco-insurrezionalista italiana. Ecco così, che le diverse azioni vengono siglate con differenti nomi: si va da Fai/Brigata 20 luglio a Fai/Sorelle in armi nucleo Mauricio Morales, da Fai/Cooperativa artigiana fuoco e affini a Fai/Nucleo rivoluzionario Horst Fantazzini, fino Nucleo Olga/ all’odierno Fai/Fri. Forte poi la vocazione internazionalista con contatti e alleanza soprattutto in Grecia, Svizzera e Spagna. Nel mirino degli informali volta per volta, le istituzioni europee, le banche, le carceri, le forze dell’ordine. Investigatori e servizi segreti hanno da tempo rivolto l’attenzione su questa realtà, che conterebbe - secondo alcune stime - non più di cento-duecento militanti. Gruppi che intendono alzare il livello di scontro e radicalizzare le lotte
«Nelle prossime 7 azioni, il nome dei fratelli greci incarcerati». Nel loro testo - dove si cita il piacere di sparare - gli anarchici minacciano di colpire ancora e incitano all’insurrezione generale contro il capitale». Sta qui, nella strategia d’azione, la pericolosità del terrorismo anarchico, che non ha scopo se non quello della distruzione dell’esistente e del nichilismo. Ed è su questa linea che gli anarchici sembrano voler agire: «Nelle nostre prossime azioni, il nome degli altri sette fratelli greci, un’azione per ognuno di loro». E vengono indicati i nomi degli altri detenuti in Grecia: Daniano Bolano, Giorgos Nikopoulos, Panayiotis Argyrou, Gerasimos Tsakalos, Michalis Nikolopoulos. Per capire questo neoterrorismo si deve allargare lo sguardo alla realtà internazionale resa più omogenea dall’istantaneità della rete. «Aderiamo ai tantissimi gruppi della nuova internazionale anarchica sparsi per il mondo: Messico, Cile, Perù, Argentina, Indonesia, Russia, Inghilterra, Italia, Spagna, Grecia». Secondo quanto scrivono nella rivendicazione gli attentatori di Genova, «a progettare e realizzare questa azione sono stati degli anarchici senza alcuna esperienza militare». Un’iniziazione che vorrebbe essere foriera ed esemplare per altre. E verso la quale è marciata la scia di fuoco lunga 10 lasciata dalla Fai. La sigla, che imita beffardamente l’ufficiale Federazione anarchica italiana, ha esordito nel dicembre del 2003 con la campagna ”Santa Klaus”: due pentole esplosive
in un periodo di forte crisi economica. Nel corso degli anni la Fai ha rivendicato una quarantina di azioni. Questi i principali obiettivi: commissariato di polizia del quartiere Sturla a Genova (marzo 2004); Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (aprile 2004); Cpt di Modena (Maggio 2005); Ris di Parma (ottobre 2005); sindaco di Bologna Sergio Cofferati (ottobre 2005); Università Bocconi di Milano (dicembre 2009); ambasciate di Grecia, Cile e Svizzera a Roma (dicembre 2010); caserma Folgore Livorno (marzo 2011); Deutsche Bank Francoforte (dicembre 2011); Equitalia Roma (2011).
Sempre ieri per soprammercato sono stati rinvenuti a Legnano dei volantini firmati Brigate rosse. Uno era sulla targa esterna dell’Agenzia delle Entrate, il secondo fuori dall’Inps, gli altri due su una bacheca esterna e un cancello dell’azienda di Franco Tosi. Il testo è la copia di un documento del 1977. Volantini che non sembrano, allo stato, avere alcun legame con l’attentato ad Adinolfi. Che nel frattempo è uscito dall’ospedale San Martino di Genova. «Sto bene - ha detto - Il peggio è passato. Ai miei attentatori non dico nulla, ora l’incubo è alle spalle». Invece per il Paese, che vede tornare il terrorismo, il peggio potrebbe arrivare adesso.
politica
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i avverte una qualche improvvisa riedizione del vecchio bipolarismo (PdPdl), che dovrebbe persino costituire la proposta politica per gli elettori chiamati a votare nelle prossime elezioni politiche generali. Ad una primissima valutazione dei risultati delle ultime elezioni amministrative, è infatti risultato del tutto chiaro il successo, forse non soltanto elettorale, delle liste del Movimento 5 Stelle, che ha finito con il catalizzare l’attenzione - forse persino morbosa - degli analisti politici; dei giornalisti; dei mezzi tradizionali di comunicazione; dei più recenti “social networks”.
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Man mano che si passa ad una più attenta valutazione del risultato amministrativo medesimo, emergono molti altri profili – prevalentemente locali – del voto medesimo. Non è questa la sede per un tentativo di valutazione complessiva del voto amministrativo, proprio perché si è trattato e si tratta di un fenomeno molto più articolato di quel che è immediatamente apparso in termini riassuntivi. Da questo punto di vista, appare comunque evidente che si è trattato di un voto che ha registrato un risultato significativo delle liste del Movimento 5 Stelle, soprattutto nel centro-nord. Questo punto in particolare merita una più attenta riflessione, perché ha dimostrato ancora una volta che le due Italie – centro-nord e centrosud – si manifestano in modo notevolmente differenziato anche nelle elezioni locali. Contestualmente è stata rilevata l’entità rilevante ma non straordinaria delle astensioni dal voto, contrariamente a quanto era apparso deducibile dai sondaggi compiuti nelle settimane immediatamente precedenti il voto amministrativo.Ma quel che più conta in questa sede è la constatazione del sostanziale dissolversi proprio di quel bipolarismo che aveva caratterizzato la vita politica italiana nel corso degli ultimi anni.Sorprende, pertanto, che appaia riproposta l’eventualità di procedere ad un voto politico, in qualche modo anticipato rispetto al 2013, con due schieramenti contrapposti tendenti persino a riprodurre il vecchio scontro PdPdl che aveva caratterizzato le elezioni politiche del 2008. Quelle elezioni avevano infatti rappresentato in un certo senso il punto di arrivo dell’anomalo bipolarismo italiano, che aveva caratterizzato la no-
Non basta guardare al successo del Movimento 5 stelle, bisogna anche capire le sue ragioni
Il vuoto bipolare
Se si torna alla vecchia contrapposizione tra due soli cartelli elettorali, salta ogni progettualità per il futuro di Francesco D’Onofrio stra vita politica dal 1994 in poi.Non si tratta, infatti, di essere contrari in via di principio alla presenza di proposte politiche anche alternative, e quindi non vi è nessuna pregiudiziale avversione ad un esito bipolare della vita politica italiana. Quel che si contestava nel 2008 (e che le ultime elezioni amministrative hanno dimostrato essere vero) è stata proprio la pretesa ideologica di strutturare il sistema politico italiano, o sulla base della vecchia idea marxista del progressismo, inteso in senso di filosofia della storia fondata sulla lotta di classe, o sulla base di un modello – apparentemente americano – del cartello elettorale sostitutivo di una qualunque omogeneità della proposta politica di fondo. Vecchia, dunque, era ed è una proposta politica che nasce comunque da quella filosofia della storia e che quindi vede,
da un lato, coloro che si continuano a definire “i progressisti” e, dall’altro, quelli che finiscono pertanto con l’essere considerati “i regressisti”. Vecchia anche la proposta del bipolarismo costruito, a sua volta, quasi esclusivamente in funzione di un anti-comunismo ormai solo ideologico, capace di tenere insieme soggetti anche culturalmente e storicamente disomogenei, perché sempre utili nella logica del cartello elettorale. Le straordinarie novità con le quali occorre confrontarsi concernono, invece, l’accantonamento – culturale prima ancora che politico – della filosofia della storia, che è stata posta a bas-
smo, quasi che la storia dell’umanità non possa conoscere soluzioni diverse dall’uno e dall’altro.
Il Governo Monti richiama quasi brutalmente alla novità divenuta sempre più impellente: il processo di integrazione europea non consente più partiti e movimenti politici che non pongano l’integrazione europea medesima al centro della propria proposta politica. Le novità del tempo presente dimostrano infatti che anche in Italia occorre essere preventivamente favorevoli o contrari al processo di integrazione medesimo, e che solo in un secondo momento si possono proporre soluzioni di-
Il rischio è quello di cadere ancora nell’ideologismo ottocentesco che ha ingessato il Paese in una lotta manichea, sul genere dell’antico conflitto tra comunismo e anti-comunismo se dello stesso Partito comunista italiano, e che sembra sopravvivere in Italia nonostante le durissime repliche della storia, dalla caduta del Muro di Berlino alla conclusione stessa dell’esperienza sovietica. Vecchio del pari è l’ideologismo di quanti operano nel solco del pensiero ottocentesco, che ha visto contrapporre comunismo ad anti-comuni-
verse le une dalle altre, ma tutte comunque dentro l’orizzonte del processo di integrazione. È questa infatti la straordinaria novità, anche costituzionale del Governo Monti, ed è per questo che appare del tutto stravagante l’ipotesi stessa di andare alle prossime elezioni politiche con i due vecchi Poli. L’uno deve infatti dimostrare cosa significa essere oggi di sinistra dentro il
contesto dell’integrazione europea; l’altro non può contenere al proprio interno chi è favorevole ad un processo di integrazione che assume gli Stati per come essi sono oggi; e chi è invece favorevole ad una scomposizione dell’unità nazionale medesima in più Stati. La scelta europeistica aveva rappresentato una straordinaria novità nel corso degli anni Cinquanta, ed è stata a lungo contrastata, da un lato, da quanti si definivano progressisti in chiave filo sovietica e, dall’altro, da quanti si definivano italiani in senso nazionalistico, in qualche modo sull’onda dell’esperienza fascista. Non è da un lato con la nostalgia di quella filosofia della storia, e dall’altro con questa idea di Nazione, che si può attrezzare l’Italia per una partecipazione dignitosa alla costruzione della fase attuale che il processo di integrazione europea vive nel contesto di una globalizzazione sempre più finanziaria.
Queste sono le sfide di fronte alle quali ci troviamo oggi, e non è certo che esse possono essere vinte con la testa rivolta all’indietro. Non è infatti con il vecchio bipolarismo che si possono affrontare le sfide nuove. Abbiamo bisogno di valori che possono essere anche antichi, ma non di proposte politiche che finiscono con l’essere quelle vecchie.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Patria del best seller e dei tascabili, la Serenissima nel Cinquecento fu il motore del mercato editoriale. Lì si stampava ma, soprattutto, lì si leggeva. Come racconta in un saggio documentato e appassionante Alessandro Marzo Magno
VENEZIA
CAPUT LIBRI di Pier Mario Fasanotti
ell’Europa del 1500 c’erano tre megalopoli, ossia tre città i cui abitanti erano oltre i 150 mila: Parigi, Napoli e Venezia. La città lagunare era l’ombelico commerciale del mondo. Ma vantava un altro straordinario primato: era la capitale del libro. Si calcola che in quel secolo siano usciti dai torchi veneziani oltre 35 milioni di volumi. Se fu un tedesco, Johannes Gensfleisch detto Gutenberg, a inventare la stampa a caratteri mobili, pubblicando a Magonza tra il 1452 e il 1455 la Bibbia, fu un altro tedesco, Giovanni da Spira (Speyer) a portare la stampa a Venezia. Ed è qui che si sviluppa a dismisura il mercato editoriale. Venezia è città libera, aperta agli scambi e formata da una popolazione simile a quel meltingpot che oggi è riscontrabile a New York. Attenzione: pur non avendo una sua università (c’era a Padova, la seconda in Italia dopo Bologna). I germanici scoprirono la tecnologia, ma per fare affari dovettero emigrare nella meta privilegiata dell’Italia, dove c’era un’alta concentrazione di letterati, disponibilità e coraggio imprenditoriali, contatti mercantili con l’intera Europa, e non solo.
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venezia caput
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Quel Corano ritrovato na storia sorprendente. Una giovane studiosa italiana presso la Biblioteca Braidense di Milano, Angela Nuovo, da anni fa ricerche sul tipografo rinascimentale Alessandro Paganini. È certa che da qualche parte esista il primo Corano stampato. E va a Venezia, convinta che l’esemplare potrebbe essere custodito nell’isola di San Michele, noto per essere il cimitero della Laguna (qui riposano Ezra Pound e Igor Stravinskij). Un tempo quella chiesa bianca (costruita con pietra d’Istria) racchiudeva oltre 40 mila volumi e 2300 manoscritti. Il saccheggio di Napoleone e altre vicende hanno fatto sì che quel che restò del patrimonio cartaceo fosse trasferito alla biblioteca Marciana. La professoressa Nuovo, nell’estate del 2008, rincorre ciò che cerca nella nuova biblioteca di San Francesco della Vigna. Il bibliotecario non fa entrare nessuno, per il timore che i suoi amati libri prendano il volo. Ce ne sono cinquemila. La studiosa scorre il catalogo e si ferma alla voce «Alcoranus arabicus sine anno».Tra mille diffidenze, quel libro, il Corano che si credeva perduto, arriva tra le sue mani. L’aveva posseduto (il suo nome è nel libro) uno studioso pavese, Teseo Ambrogio degli Albonesi (1469-1540). Caratteri arabi, ovviamente, forniti non si sa da chi. Una grossa scoperta culturale e filologica, snobbata dai media. Eppure ritrovare il primo Corano mai stampato al mondo non è propriamente una notiziola. Ma è, e rimane, notizia breve sui giornali italiani: ne parlano solo Famiglia Cristiana e il Giornale. La Francia è più attenta: Angela
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Non è proprio un caso che William Shakespeare abbia scritto Il mercante di Venezia. Dicevo di Venezia città libera: difatti non c’era censura. Il pregiudizio etnico era quasi inesistente. Tra i canali arrivavano diverse comunità come ebrei (scampati dalle persecuzioni spagnole), armeni (fuggiti dal dominio ottomano), greci, slavi. Se in Germania la stampa visse sotto l’egida della Chiesa cattolica, a Venezia fu finanziata e protetta da patrizi dei circoli umanistici. Qualche dato: mentre alla fine del 1400 il 45 per cento dei libri europei è a carattere religioso, questa percentuale cala ancora al 32 in Italia e addirittura al 26 a Venezia. L’Inquisizione arriverà in ritardo e, almeno all’inizio, con mano abbastanza leggera (diventò in seguito pesante decretando il declino della città come capitale del libro e del libero pensiero). Quindi a Venezia la libertà di stampa è cosa reale, come scrive Alessandro Marzo Magno nel documentatissimo e affascinante libro intitolato L’alba dei libri (Garzanti, 188 pagine, 22,00 euro). Nei pressi di San Marco, in viuzze strette ora invase da negozi di moda e di grossolani souvenir, c’erano le «botteghe» degli stampatori. Un’idea meno approssimativa si ha sfogliando il Zornale di Francesco de’ Madi (prima edizione maggio 1484; chiuderà quattro anni dopo). Sappiamo così che nella sua bottega erano accatastati 1361 libri suddivisi in 380 edizioni (ossia 3,5 volumi per edizione). Quelli esposti erano oltre il migliaio. Classici latini, un numero ristretto di quelli greci (lingua non stuanno V - numero 18 - pagina II
diata nelle scuole veneziane), opere medievali elevate a classici come Petrarca, Boccaccio e Dante, molte grammatiche, volumi cosiddetti «di svago», ovvero libri in volgare (attorno al 16 per cento del totale), pochi quelli giuridici. Solo nel penultimo decennio del ‘500 prende il via il commercio dell’usato. Un libraio in quattro anni riesce a vendere oltre 12 mila volumi (per 4200 ducati, ossia 14,7 chili d’oro). Attività fiorente, anche perché a Venezia accorrono collezionisti e studiosi da tutta Europa, e la città manda i suoi umanisticommercianti - senza dubbio i più numerosi - nelle due fiere del libro allora più importanti, quella di Lione e quella di Francoforte (città che ha conservato il primato fino ai nostri giorni).
Venezia stampa. Ma Venezia legge anche. Se nella Germania del ‘700 il pubblico dei lettori regolari si aggira attorno all’1,5 per cento della popolazione totale (solo un secolo dopo la lettura diverrà fenomeno di massa), la Venezia cinquecentesca si poneva come un’eccezione: un quarto della popolazione maschile, tra i sei e i 15 anni andava a scuola: una percentuale altrove impensabile. I libri esposti nelle poco illuminate calli veneziane non avevano un prezzo definito. Si contrattava, dopo trattative lunghissime e molte chiacchiere dotte. È certo che il passaggio dal manoscritto al libro causa un abbassamento dei prezzi. Sta di fatto che non manca un punto di riferimento, che allora si chiamava «Frankfurter Tax», elenco dei prezzi decisi durante la fiera sul Meno. La
libri
Nuovo viene invitata all’Institut du monde arabe da poco inaugurato dal presidente Mitterrand. Gli inglesi della Bbc mandano una troupe a Venezia. Insomma, miopia culturale italiana. Nei paesi arabi c’è un certo scalpore attorno al libro, anche se prevale l’imbarazzo dovuto al fatto che sia stata una donna a fare la scoperta. Quel Corano è di carta molto spessa, caratteri nitidissimi, con poche macchie di umido nelle parti esterne del volume. Ora veniamo alla domanda principale: perché mai uno stampatore veneziano decise di stampare il Corano? Chiaro: per diffonderlo nei paesi ottomani. Impresa che andò malissimo, tanto è vero che Paganini fallì. Una fonte tedesca che risale al Seicento (non verificabile) raccontò che «tiratura e caratteri furono mandati a bordo di una nave a Costantinopoli». Pare però che il sultano considerasse quel carico «opera del demonio» e avesse fatto affondare la nave «in acque profonde». Era una «blasfemia degli infedeli». Paganini contava sul fatto che gli islamici non avevano stamperie (vennero impiantate molto più tardi, nel 1706, di qui il ritardo culturale di quella vasta regione). Paganini sottovalutò, o ignorò, un dato importante: il libro sacro dell’Islam doveva essere scritto a mano da un esperto scriba musulmano. E questi, se faceva anche un solo errore, rischiava la decapitazione. Comunque gli esperti arabi hanno risposto tiepidamente alla scoperta della professoressa italiana dicendo che l’opera di Paganini contiene «un altissimo numero di errori» e addirittura «il compositore non riconosce le lettere dell’alfabeto». Sentenza definitiva: un docente arabo dice che il Corano del 1538 è importante dal punto di vista filologico; per il resto si tratta di un’operazione commerciale pura e semplice come ne sono state fatte tante. Dal punto di vista religioso non ha alcun valore. La studiosa italiana muove giuste obiezioni, ovviamente, sui presunti errori. Fatto sta che il fallimento di Paganini dimostrò che i libri non poterono di fatto varcare i confini della Sublime Porta e del mon(p.m.f.) do islamico. Un limite non plus ultra.
roghi favoriti dalla Chiesa. Il 18 marzo del 1559 in piazza San Marco si danno alle fiamme quasi 12 mila volumi. E questo andazzo di fuoco censorio aumenterà con il riavvicinarsi politico tra Venezia e Roma. Tra i più importanti editori ci sono i fiorentini Giunta (poi Giunti, ma slegati dall’odierna casa editrice omonima), i quali si specializzarono in libri sacri e di devozione, non disdegnando di smerciare sottobanco volumi «piccanti» o solo poco graditi dalla Chiesa.
carta incideva anche per il 50 per cento sul costo, e un libro rinascimentale ne consuma in abbondanza: tre risme, ovvero 1500 fogli, al giorno per ogni torchio. Costano molto anche i caratteri, i cosiddetti «punzoni» per i quali ci pensano gli orafi (non è un caso che Gutenberg fosse un orafo). A poco a poco si sviluppa un’industria specializzata in caratteri. Nel 1540 il francese Claude Garamond (da cui l’omonimo carattere, oggi usatissimo) divenne il fornitore di caratteri di quasi tutte le tipografie europee. Gli autori non s’arricchivano, salvo poche eccezioni. Molti, come Pietro l’Aretino, facevano autopromozione. Oggi si direbbe marketing. In ogni caso nel ‘500 nasce il best seller: tra il 1542 e il 1560 Gabriel Giolito de’ Ferrari pubblica ben 28 edizioni dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Il Canzoniere di Petrarca arriva a centomila edizioni. Poi ci sono i libri proibiti e i piccoli capolavori pornografici. Per questi spuntarono roghi casuali oppure
E poi a Venezia sbarca quello che venne chiamato «il Michelangelo dei libri», Aldo Romano Manuzio. Era laziale e in laguna arrivò a 40 anni, dopo aver studiato a Roma e a Ferrara. Simbolo della raffinatezza editoriale, fu anche «inventore»: dei tascabili, del carattere corsivo (ecco perché in inglese si chiama Italic), editore di best seller, rivoluzionario nella punteggiatura diventando il «padre» del punto e virgola (su suggerimento di Pietro Bembo) e dell’apostrofo e degli accenti. Fu il primo a concepire il libro anche come oggetto di svago. Insomma, diffonde il piacere di leggere. Manuzio è un intellettuale raffinatissimo. Con la passione per la letteratura greca.A detta di tutti il più bel libro mai stampato fu suo: l’Hypnerotomachia Poliphili, opera ancora oggi di origine misteriosa, in ogni modo lasciva e di marca pagana malgrado sia stata scritta da un frate domenicano sessantenne, con eleganti ed esplicite raffigurazioni erotiche (talvolta pornografiche). Tra gli acquirenti delle edizioni di Aldo Manuzio ci sono esponenti
di spicco: Federico Gonzaga, Isabella d’Eeste, Lucrezia Borgia e papa Leone X. Tra i suoi amici e consiglieri Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam e Angelo Poliziano. Proprio in una lettera a Poliziano, il tipografo scrive che «Venezia è luogo più simile a un mondo intero che a una città». Manuzio è pignolissimo, quasi maniacale nel suo lavoro, condiviso poi con il suocero. Non è casuale l’abbondanza delle sue grammatiche, compresa anche quella ebraica (1501). Da non scordare un’altra invenzione di questo straordinario promulgatore dei libri: la doppia colonna del testo, riprendendo così l’abitudine degli antichi manoscritti. Usa il carattere Roman, ossia il tondo. Nel 1502 Manuzio ottiene dalla Serenissima il «privilegio» (ossia la concessione) di stampare in greco e latino con caratteri corsivi (occupa meno spazio) in tutti i territori veneziani. Ma la grande diffusione del libro si deve ai libelli portatiles, ossia i tascabili: piccolo formato e senza commento al testo.Vanno a ruba in tute le università europee. I suoi libri sono marchiati con l’ancora e il delfino.
Scrive l’autore di L’alba dei libri: «Manuzio ha definitivamente cambiato il metodo dell’apprendimento in Europa». In vent’anni di attività pubblicò 132 libri. Alla sua morte subentra il suocero Andrea Torresani. Ci furono contrasti tra questi e il figlio. L’attività editoriale riprese con Paolo Manuzio, infine con Aldo Manuzio il giovane, che scompare nel 1597 ponendo fine a una irripetibile quanto raffinata impresa cultural-commerciale.
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arà un difetto quasi professoral-apocalittico-moralisteggiante, ma son proprio queste le mostre che ci interessano (soprattutto in un momento di crisi e di sbandamento di programmi in recessione, ma spesso inutilmente sbrodolati) e che hanno da essere appoggiate e divulgate. Non quelle, dunque, gridate, incompetenti, sbandierate, zoppe, che usano nomi illustri per fare solo un cattivo servizio agli artisti stessi, e quante ce ne sono! Queste due di cui vogliamo interessarci, in fondo, non sono nemmeno «mostre», nel senso abituale e pubblicitario del termine, anche se in realtà «mostrano» moltissimo e aiutano a capire numerose cose del mondo dell’arte e della Storia.Vedere a distanza d’occhio umano come lavoravano le maestranze tardo-medievali fiorentine (e di concerto gli ottimi restauratori di oggi), per esempio nelle brillantissime vetrate che inondano di luce e quasi traforano la pietra possente della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, può essere molto più utile (e più economico) che improvvisare una di quelle finte mostre in cui magari si parla genericamente del Rinascimento a Roma (in stanze incongrue e omicide per le opere stesse) o dementi altri programmi affini, generalisticitv. E questo in un momento critico, soprattutto in Italia, in cui non ci sono fondi debiti per tentare operazioni simili, né vera serietà di studi protratti, ma soprattutto, e giustamente, le vere opere-chiave non possono più circolare, e di conseguenza giungono disperantemente solo opere-croste, pallidamente illuminanti delle varie tematiche.
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Meglio lasciar perdere, allora, o focalizzarsi su mostre-studio, o meglio ancora, su proficue operazioni permanenti. Come questa del restauro delle due magnifiche vetrate di antenati biblici, con disegno del Ghiberti, operato dall’ottima «bottega» moderna del premiato Studio Polloni, in un lavoro di cesello che ha del medievale. Certo, può stupire, chi riconosce solo la plastica rilevanza delle figure scultoree del Ghiberti, nelle vicine figure di Santi aggettanti nelle nicchie delle facciate di Orsanmichele (quel Battista dalle forti pieghe panneggiate) o delle stesse porte del Paradiso (prezioso «epiteto» del non tenero Michelangelo) a un passo, nel Battistero, può sorprendere che un simile maestro della potenza plastica e muscolare si faccia poi così tenero e morbido e fragile, nelle trasparenti fattezze d’una vetrata. Ma non è così, lo stile dell’artista, in parte, si riconosce, così come si riconoscono le paternità di altri grandissimi pastificatori e non meno possenti, imprestati qui al dominio della luce figurata, come Donatello, Paolo Uccello, Andrea del Castagno: una vera
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Riflessi di Fede su vetro e argento di Marco Vallora pinacoteca in vetro. E soprattutto si verifica in Cattedrale, de visu, a pochi millimetri, la verità d’una storia, in fondo insospettata, e d’una evoluzione della manifattura dell’arte medievale (con un debito trionfo di quelle che un tempo si chiamavano con sprezzo «arti minori») in cui l’arte orafa-incisoria penetra tutto: dalla scultura alla pittura, dall’arte vetraria a quella medaglistica, e senza accusar grandi differenze di «valore».
Storia vera fino almeno alla biografia del Vasari, che pur dotatissimo come disegnatore, sin da bambino, però, rimasto orfano, mantiene la famiglia, entrando in una bottega d’orafo, e questa sua «impronta» incisoria la ritroveremo anche nel mutare delle sue molteplici attività. Che poi il Ghiberti contraffaccia la sua biografia (creandosi una paternità alternativa) non è tanto dovuto alla vergogna di nascer dai lombi di quell’attività secondaria, ma a una ben più misera e «moderna» storia di furbizia all’italiana: per giustificarsi di non aver mai pagato le tasse! Però, quando si trova a dover «dialogare» con la luce della fede, lì, allora, diventa irreprensibile! Perché è ovvio che la luce, che mette in contatto l’interno e l’esterno dell’edificio religioso, ma so-
Il restauro delle due vetrate di Santa Maria del Fiore disegnate dal Ghiberti e dell’Altare del Tesoro di San Giovanni a Firenze, mettono in evidenza i tanti sperperi per mostre “gridate” ma incompetenti. E l’utilità di operazioni-permanenti L’Altare d’argento conservato al Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Sopra, particolare del San Giovanni decollato di Andrea Verrocchio (foto di Nicolò Orsi Battaglini). In alto, particolare di una vetrata di Santa Maria del Fiore (foto Antonio Quattrone e Alessandro Becattini)
prattutto il mondo terreno con quello divino, fecondi la pasta vitrea, volendo trasformare la materia in pura spiritualità. Lo ha ben spiegato Enrico Castelunuovo, riilluminando il sistema di gestione delle botteghe gotico-medievali, e offrendo una «luce» diversa di lettura a quello che sin’ora era stato considerato, Huizinga responsabile, un lungo autunno dell’arte e della cultura (ma qui c’è di mezzo, con Marsilio Ficino, la visione religiosa ed estetica del neoplatonismo fiorentino. E solo Proust, allievo di Emil Male, attraverso la traduzione della Bibbia di Amiens di Ruskin, ha potuto dar avvio a un impulso di attenzione diversa al mondo misterioso delle Cattedrali). Se ci allontaniamo di pochi passi ed entriamo in un altro mondo, anche di materia, più ricca e pesante, quale l’argento, ecco che ci troviamo di fronte a un altro capolavoro ancor più sontuoso e in rivalità (perché tra la Cattedrale e il Battistero c’è sempre stata grande competizione, soprattutto artistica). La Croce e l’Altare d’Argento del Tesoro di San Giovanni. E a proposito del Museo del Duomo di Firenze, attaccato alle gonne di Santa Maria del Fiore, come la bambinetta scolpita sull’Altare stesso, terrorizzata di abbandonare la presa materna, durante la Predica del Battista, che Arringa le Turbe, in fondo abbastanza compassate e comprese.
Un altro fiotto di moralismo. Ma come è possibile pensare che un piccolo ma nemmeno troppo e ricchissimo Museo come questo, possa esser disertato quasi, e incomprensibilmente, dai turisti, che invece si affollano trasudati e imbesuiti, d’innanzi le porte assolate dell’Accademia, soltanto per potersi poi trascinare, un attimo-fiammifero, d’innanzi al Calvariopic nic d’obbligo (tutto traforato d’urletti globalizzati), riservato al David ex-michelangiolesco, ormai dolcegabbanizzato da occhi profani, e subito dietrofront, come se l’arte fosse soltanto un tour forzato tra muscoli & titanismo fotografico-sportivo? Ben venga dunque quest’immersione in una simile opera prodigiosa di muscoli d’argento (almeno 250 kg!), di smalti celestiali, d’architettura in miniatura, la cui travagliata «edificazione» (un secolo, praticamente: dal 1367 al 1483, e il gotico si fa umanesimo quasi rinascimentale, sotto mani diverse, intorno al Pollaiolo) segna la fine della grande peste e l’avvio dell’evo moderno. Nei dettagli delle notevoli fotografie di Ghigo Roli, padrone della materia (Panini Editore), Giovanni predica, arringa e muore, tra le spire di Salomè. Magnifico teatro della fede, placcato nella dovizia di dettagli esaltanti, che avrebbero (o avranno?) fatto delirare un Warburg. E noi, modestamente, con lui.
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a Majesté, le Métro! Fu nel 1863 che a Londra entrò in funzione la prima metropolitana della Storia; nel 1875 a Istanbul partì la prima linea interamente sotterranea, ma fino al 1910 tirata da animali; nel 1890 la metropolitana di Londra fu la prima a dotarsi di trazione elettrica; e nel 1896 a Budapest partì la prima linea elettrificata interamente sotterranea. Neanche si può dire che la metropolitana di Parigi, inaugurata nel 1900, sia la più famosa: quella di Londra e quella di New York sono state altrettanto celebrate da cinema, tv e letteratura. Si può anche ricordare che è la New York City Subway la metropolitana più sviluppata al mondo per numero di linee e di fermate, comprese però alcune linee non aperte al traffico di passeggeri; mentre sono quelle di Shangai e di Londra le più lunghe in relazione alle sole linee passeggeri; quelle di Tokyo, Mosca e Seul a primeggiare per numero di passeggeri trasportati. Con 215 km su 16 linee e 301 stazioni e 4 milioni di viaggiatori al giorno il Métro de Paris è solo il nono al mondo e il secondo più affollato d’Europa dopo quello di Mosca. Eppure, in gran parte delle lingue del mondo, compreso l’italiano, anche se esiste anche una parola indigena per indicare i sistemi di trasporto ferroviario
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il paginone
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215 chilometri su 16 linee, 301 stazioni, 4 milioni di viaggiatori al giorno. Alla metropolitana di Parigi, inaugurata in occasione dell’Esposizione Universale del 1900, Lorànt Deutsch ha dedicato un libro che è diventato un best seller da due milioni di copie. E che ora viene pubblicato in Italia mondiale della cultura dimostrò al mondo che si poteva rendere un tempio alla bellezza anche con un tipo di infrastrutture che soprattutto prima dell’elettrificazione erano state associate a immagini di bruttezza fumosa. Ovvero, il sistema di trasporto rapido urbano come biglietto da visita di una città e di una civiltà.
«La Francia sono io», potrebbe dunque proclamare il Metrò di Parigi? Messa proprio in questi termini sarebbe forse eccessiva, ma se non altro dal punto di vista divulgativo la sfida è stata raccolta con un libro che a tre anni dall’uscita è ancora nella classifica dei best-seller, e che dopo essere sconfinato da caso editoriale addirittura a fenomeno di costume è stato ora pubbli-
Ventuno capitoli, per altrettante stazioni, ognuna delle quali rimanda a un secolo che narra la storia della città. Dall’antica Lutezia a oggi urbano rapido, è poi metrò alla francese, spesso con tanto di erre moscia, il relativo termine per antonomasia. Non gli anglo-sassoni Tube, Underground o Subway, malgrado tutto l’inglese che ha invaso le nostre vite.
La ragione? Probabilmente, perché i francesi ebbero la trovata di inaugurare il Metrò di Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1900. Certo, si trattava comunque della prima linea al mondo a essere stata concepita subito per funzionare su una lunga distanza sotto terra e con l’elettricità. Ma all’epoca in cui Parigi era la capitale culturale del mondo e il francese la lingua internazionale per eccellenza, l’effetto pubblicitario fu irresistibile. Inoltre, alla preoccupazione per l’efficienza si affiancò anche quello per il pregio dell’impianto architettonico, affidato al profeta dell’Art Nouveau Hector Guimard. Insomma, la capitale
cato anche in italiano. Metronomo. La storia di Parigi al ritmo del metrò è il titolo (L’ippocampo, 384 pagine, 18,00). Autore, Lorànt Deutsch: un 36enne attore con vaga rassomiglianza a Johnny Depp, che in teatro e in tv si è specializzato a interpretare personaggi storici, da Mozart in Amedeus al giovane Sartre, al favolista Jean de La Fontaine. Ma è anche un appassionato della storia di Parigi, metropoli di cui si innamorò quando ci arrivò adolescente dalla natia Normandia. Lui racconta che da subito iniziò a interrogarsi sul perché le varie stazioni del Metrò si chiamavano in questo o quel modo. «Quella Parigi così anonima, così impersonale, così smisuratamente grande, mi apparve allora una sorta di libro aperto… In quella città dov’ero uno straniero e in cui non conoscevo praticamente nessuno, i miei primi compagni furono i nomi delle strade. Strade che scoprivo con il metrò: era il metrò a for-
nirmi le istruzioni necessarie per scoperchiare il brulicante e abissale formicaio offerto a un piccolo provinciale come me. M’immersi con ghiotta avidità in quell’universo sconosciuto, percorsi Parigi in lungo e in largo, scesi a ogni stazione, mi interrogai su ogni minima cosa: perché “gli Invalidi”? Che cos’era lo “Châtelet”? Quale “République”? Chi era “Étienne Marcel”? Che cosa significava “Maubert”?». Forse lo spunto non è del tutto originale: già nel fumetto e poi nel film d’animazione Le dodici fatiche di Asterix c’è un momento in cui Asterix e Obelix sono presi da stupore per il rumore che fa la metropolitana al passaggio nella stazione di Alésia, proprio subito prima di arrivare a un redde rationem con Cesare. Che, appunto, ad Alesia aveva sconfitto Vercingetorige. Mentre Goscinny e Uderzo si erano però limitati a una gag, Deutsh si è messo a lavorare per cinque anni, fino a costruire appunto questa sua opera prima, che fu stampata in una prima edizione da 8000 copie e ha oltrepassato in tre anni i due milioni.Ventuno capitoli per altrettante stazioni, ognuna delle quali descrive un secolo di storia della città. «La pianta della metropolitana ci svela la spina dorsale di Parigi: su di essa possiamo se-
Sua Ma il Mét di Maurizio Stefanini guire il modo in cui la città si è costruita partendo da un isolotto sulla Senna. Attraverso la sua collocazione e il suo nome, ogni stazione evoca in effetti un lembo del passato e del divenire non solo di Parigi, ma di tutta la Francia. Dalla Cité alla Defénse: il metrò è una macchina per risalire all’indietro nel tempo: sul filo delle stazioni ritroviamo i secoli passati, i ventuno secoli che hanno fatto la città. Per tutto quel tempo Parigi ha accompagnato e talvolta preceduto, l’emergenza e le trasformazioni della Francia per diventare la capitale che conosciamo». La Cité, definita già «la testa, il cuore e il midollo di Parigi» A destra, i lavori del métro all’Opéra di Parigi all’inizio del ’900. A sinistra, la fermata di Châtelet-Les Halles. Sopra, alcune insegne, la copertina del libro di Deutsch e l’attuale mappa dei percorsi sotterranei parigini
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aestà tro nel XII secolo da Gui de Bazoches, evoca il primo secolo: «La culla di Cesare». Lucotetia in gallico e Lutetia in latino, probabilmente da un luto gallico, «fango», collegato al lutum latino «palude»: la città nata dalle paludi attorno alla Senna, fonte di pesce e acqua per irrigare e bere, luogo di transito per i commercianti fluviali ancora evocati dalla nave simbolo della metropoli. Deutsch ci ricorda per la verità come i lavori per la superperiferica A86 nel 2003 abbiano rivelato la clamorosa evidenza archeologica per cui la Lutezia originale non era in realtà sull’Île de la Cité come si era sempre detto ma a Nanterre, piuttosto a
ovest. È comunque arrivando alla Cité con le loro barche che «verso il III secolo i kwarisii, popolo celtico delle cave, diventano qui i Parisii gallici, con la k celtica che si trasforma nella p gallica». Lutetia diventerà dunque Lutetia Parisiorum, Civitas Parisiorum e infine Paris, in italiano Parigi. Deutsch descrive con piglio cinematografico la battaglia con cui i romani di Tito Labieno nel 52 a.C. sterminano i guerrieri di Camulogeno e riducono la prima Lutezia a un cumulo di cenere. «Molto più tardi, nel medesimo punto in cui riposano i resti del capo gallico e dei suoi uomini, fu innalzata la Tour Eiffel… come un tumulo eretto in onore di quegli intrepidi guerrieri. I parigini vi vengono la domenica a sgranchirsi le gambe come se niente fosse, ignari di stare calpestando una terra che da oltre venti secoli ha inghiottito le ossa dei Parisii immolatisi per il loro popolo».
co monumento a Giove il re Childerico erige il primo nucleo della grande cattedrale, per dimostrare l’attaccamento della dinastia merovingia alla Chiesa. Saint-Germaindes-Prés, in tempi recenti cara ai cultori dell’esistenzialismo, è però associata alla tappa del VII secolo: epoca di nascita del quartiere e apogeo della dinastia merovingia, con quel «buon re Dagoberto» che peraltro una canzone infantile ricorda per una bislacca rima, insinuando che si era messo i calzoni a rovescio. Basilique de Saint-Denis è l’VIII secolo: per quel Fulrad, abate di Saint-Denis, che ottenne da papa Zaccaria l’avvallo al golpe con cui Pipino il Breve nel 751 depose Childerico III, e i Carolingi presero il posto dei Merovingi. La nuova dinastia conquisterà l’Europa, ma trascurerà Parigi, ponendo la capitale del Sacro Romano Impero nella germanica Aquisgrana. Espo-
Ma d’altronde, non è con l’anno 1000 che le arti manuali si risvegliano? Philippe Auguste è il XII secolo: quando appunto il grande re contemporaneo e nemico di Riccardo Cuor di Leone prova a riunificare la Francia feudale. Maubert-Mutualité è il XIII secolo: quando di qui l’Università di Parigi spicca il volo. Hôtel-deVille è il XIV secolo: quando nasce quel Terzo Stato di cui il municipio di Parigi è l’espressione. Pure del XIV secolo è Château de Vincennes, inaugurato nel 1380: ma è pronto in tempo per far da rifugio nella «Parigi pericolosa» del secolo XV, nel periodo più feroce della Guerra dei Cent’Anni. Palais-Royal-Musée du Louvre invece è il XVI secolo: in realtà il PalaisRoyal è fatto costruire da Richelieu nel XVII e il Louvre l’abbiamo visto sorgere al tempo dei primi franchi: ma è con Francesco I, il protettore di Leonardo da cui riceverà in dono la Gioconda, che inizia a diventare il più splendido museo del mondo, oltre che il più grande edificio della città.
La stazione Invalides ov-
Place d’Italie è poi associata al II secolo. «Quando la Lutezia voluta dall’invasore romano s’insediava sull’Île de la Cité, il luogo era attraversato da una strada che portava a Roma». Notre-Dame-desChamps evoca il III secolo, e la leggenda del martire san Denis, il cui corpo decapitato avrebbe camminato per due leghe e mezza con la testa in mano fino al luogo in cui voleva essere seppellito. SaintMartin è una stazione chiusa dal 1939, ma Deutsch ne parla lo stesso perché associata al soldato romano che prima di diventare vescovo regalò metà del suo mantello a un povero tremante di freddo, e che passò per una Parigi del IV secolo che la presenza di Giuliano e Valentiniano aveva reso sede imperiale. LouvreRivoli ci ricorda il V secolo, con l’invasione dei franchi e il lower, nella loro lingua «piazzaforte», che avevano stabilito di fronte a Parigi per sorvegliarla prima di impadronirsene. Saint-Michel-Notre-Dame, dove è il punto zero delle strade di Francia, è il VI secolo: quando sul sito di un anti-
sta alle micidiali scorrerie vichinghe, la città deve fornirsi del sistema difensivo di castelli e castelletti appunto evocato nella fermata di Châtelet-Les Halles: il IX secolo. Ma proprio il modo in cui le fortezze di Parigi riescono infine a respingere i pirati dimostra che è la città la chiave di volta della difesa dell’intera Francia, e esalta il ruolo dei conti di Parigi Capetingi, fino al punto in cui nel 987 Ugo Capeto dà inizio a una nova dinastia. X secolo e fermata La Chapelle. Dalla cappella dove santa Geneviève si era fermata a pregare sulla via per il sepolcro di san Denis: ma «cappella» verrebbe dal luogo dove Carlo Magno a Aquisgrana custodiva una cappa di san Martino; e forse dalla stessa cappa brandita come bandiera contro i vichinghi sarebbe derivato anche il nome dei Capetingi. Arts et Métiers è l’XI secolo: dal priorato di Saint-Martindes-Champs, qui trasferito appunto a quell’epoca, e trasformato con la Rivoluzione francese nel Conservatorio nazionale d’arti e mestieri.
viamente è il XVII secolo, con i mutilati delle sue innumerevoli guerre cui il Re Sole volle offrire questo ospizio. Il XVIII secolo è per antonomasia rappresentato dalla stazione Bastille, anche se la famosa fortezza proprio in quel fatidico 1789 fu smantellata. Non del tutto, ha però scoperto Deutsch: una segreta superstite è stata trasformata nella cantina di un ristorante. République è il XIX secolo: anche se, curiosamente, Deutsch è un nostalgico della monarchia, sia pure restando gauchiste. Nel libro non lo dice apertamente, ma traspare in continuazione sia la sua ammirazione per gli antichi re, sia il suo disappunto per lo spirito iconoclasta con cui i rivoluzionari hanno tentato spesso di distruggere i ricordi del passato. Il XX secolo è poi ChampsÉlisées-Clemenceau. «Perché non aggiungervi anche de Gaulle e Churchill, visto che le statue di questi due illustri personaggi della seconda guerra mondiale sono venute a raggiungere il Tigre, semiallegorica figura della prima?», suggerisce Deutsch. E il XXI secolo è La Défense, capolinea della linea 1, in un quartiere di cui de Gaulle decise la costruzione nel 1958, e che si delinea come l’asse di espansione della Partigi di domani. Curiosamente, proprio quella Nanterre dove sorgeva la Lutezia gallica. «Forse il XXI secolo vedrà Parigi ritornare a Lutezia e ritrovare, a oltre duemila anni di distanza, l’ansa del fiume nella quale la città gallica nacque».
altre letture di Riccardo Paradisi
Spiegare Dio ai bambini bambini ci guardano. E ci fanno domande. Domande complicate a cui non è possibile dare risposte semplici. Soprattutto in quella dimensione che alcuni genitori si ostinano a cercar di trasmettere ai loro figli: la religione. E così di punto in bianco capita di sentirsi chiedere: «Che aspetto ha Dio? E perché non si vede? Oppure: se abita in cielo perché la sua casa non cade giù? E come fa Gesù a entrare nel pane? Dio ama anche i malvagi?». Non è che puoi impugnare la teologia di San Tommaso per dare spiegazioni. Soccorre però e bene un intelligente manualetto a cura di Eugen Runggaldier dal titolo: Ma dove si nasconde Dio? (Athesia, 95 pagine, 7,90 euro) che contiene risposte sagaci e di buon senso. Provare per credere.
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Una rivoluzione tradita a rivoluzione conservatrice in Italia (Sugarco, 334 pagine,18,80 euro) è una ricognizione di Marcello Veneziani sugli anni che vanno dalla nascita dell’ideologia italiana alla fine del berlusconismo. Un saggio che rivede la luce rivisto e aggiornato oggi. E che passa in rassegna le figure che hanno segnato l’ideologia italiana: da Papini a Pareto, da D’Annunzio a Malaparte, da Gentile a Del Noce. Berlusconi - dice Veneziani - ha incarnato a suo modo l’ideologia italiana: un populista ma non un autoritario. L’accusa che gli si può rivolgere semmai è di avere assecondato l’Italia, così com’è, rispecchiandone la sua indole e i suoi vizi.
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Democrazia e giornalismo log, free-press, internet, Tv. L’informazione assume velocità e perde di profondità. Che il giornalismo si stia trasformando in intrattenimento? Che i giornalisti stiano perdendo di autonomia e dignità confezionando giornali sempre più pensati per operazioni di potere? In I fondamenti del giornalismo (Lindau 293 pagine, 19,00 euro) Bill Kovach e Tom Rosenstiel a queste domande rispondono sì: al giornalismo sta capitando tutto questo. Ed è pericoloso perché senza giornalisti veri non c’è informazione e non c’è democrazia. Per questo i giornalisti, dicono Kovach e Rosenstiel, devono continuare a fare i giornalisti. Pretendendo dagli editori l’assoluto rispetto della loro autonomia e da se stessi della deontologia professionale.
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Narrativa
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libri Irene Di Caccamo L’AMORE IMPERFETTO Nutrimenti, 160 pagine, 15,00 euro
amore imperfetto è il titolo del romanzo d’esordio di Irene Di Caccamo scrittrice romana, doppiatrice come primo mestiere. Un libro maturo e dallo stile sicuro e persino sfrontato nella sua decisa combinazione della forma, asciutta e dura, con la storia, dolorosa e complessa. Più naturale infatti sarebbe stato avere a che fare con una voce monologante, piu intensa ne sarebbe uscita la voce, mentre la terza persona tende a raffreddare la storia portandola al sicuro da facili derive di patetico o lirico. Niente sfiora né l’uno né l’altro, lo stile asciutto del testo, la costruzione della storia, la lingua tesa e senza eccessi. La storia in realtà non è lontana da molte indagini narrative degli ultimi tempi, l’improvvisa assenza di una persona, un lutto e la conseguente elaborazione del pensiero attorno al significato del morire. Siamo di fronte quasi a un topos contemporaneo che ha voluto riportare al centro dell’attenzione il mistero della morte come sottrazione di certezza ma soprattutto come fine di una presenza anche corporea, fisica. La Di Caccamo scrive dunque questa storia che diciamo in breve. Gioia, la protagonista, viene abbandonata dal marito, il quale la sera prima di lasciarla decide, per motivi incomprensibili se non letti in chiave di affettuoso addio, di dormire e di fare l’amore con lei un’ultima volta. È un rapporto anche questo, come tutto nel testo, raggelato, contenuto in una sorta di necessità di bloccare le azioni, di renderle quasi ferme. L’autrice tenta di fermare il testo e la storia, di arrestarne quel movimento mortale. Ma va da sé che la storia deve andare avanti e il giorno dopo il marito di Gioia s’alza per uscire e lasciare la casa e la moglie, sale sul motorino e dopo pochi metri ha un incidente mortale. Fermiamoci qui con la storia per lasciare al lettore ancora le altre vicende da scoprire. Ma non saltiamo questo punto che è cruciale: un uomo lascia la moglie e la casa da lui fino a poco tempo prima abitata e lasciandola non apre una nuova vita, come tutti
L’
Filosofia
Le due facce di un addio “L’amore imperfetto”, opera prima di Irene Di Caccamo, ruota intorno a un topos della contemporaneità: il significato del morire di Maria Pia Ammirati
avrebbero potuto immaginare, ma finisce egli stesso; aulicamente diremmo, perisce. Abbandono e morte coincidono in maniera letterale benché l’azione forte del testo resti l’abbandono e non la morte. L’abbandono è un’azione attiva, è l’espressione della volontà del personaggio, la morte un’azione passiva. In realtà la decisione di separarsi aveva già fatto morire (dal punto di vista dell’azione del romanzo che avrebbe estromesso il personaggio), uscire di scena il marito di Gioia, ma la morte ha ampliato questa assenza, l’ha materializzata. Anche in questa sequenza il tempo raggela l’azione, Gioia viene congelata nel ruolo di moglie, perché il marito non ha avuto il tempo di creare un’altra storia, e proprio quando tutto era maturo per la separazione questa cambia di segno. Non può più trattarsi di separazione ma di altro, di una forzatura sentimentale che tira da due parti opposte. Gioia resta la moglie che riconosce il cadavere, che riceve le ultime cose del marito, che riceve le condoglianze: il tempo ha fermato gli effetti di qualcosa che era già stabilito, gli effetti di un’altra vita. Il ragionamento della storia che è montata in maniera cinematografica, facendo balenare e comparire scene d’improvviso che alternano presente e passato recente, accesi e rapidi flashback, si allarga su questo nodo che abbiamo già citato tra ciò che accade e quello che sarebbe potuto essere, snaturando di fatto il termine abbandono. L’abbandono si declina in assenza. La separazione in morte. Restano le tracce troppo visibili della vita precedente, disseminate in casa, documenti di un amore imperfetto.
Tra nascita e morte, dove inizia e finisce il mondo er recensire questo libro e per dare al lettore una bussola per meglio orientarsi ho bisogno di citare Leopardi e Sofocle con le due frasi che sono messe a mo’ di infernale insegna dantesca all’inizio del testo: «Per me si va nella città dolente/ per me si va nell’eterno dolore/ per me si va tra la perduta gente». Il nostro Giacomino recanatese dice: «Non c’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non sono». Poi, Sofocle: «Non essere nati è la condizione che tutte supera; ma, una volta apparsi, tornare al più presto da dove si è venuti, è certo il secondo bene». Ecco, siamo giunti al punto che ci preme e che dà il titolo al libro che qui si recensisce: Il secondo bene di Flavio Ermini, edito da Moretti e Vitali (con un sottotitolo significativo ed esplicativo che suona: Saggio sul compito terreno dei mortali). Già dovrebbe essere quasi tutto chiaro: se il non essere è il bene e se una volta venuti all’essere o nati è meglio morire al più presto ne viene che tra il non essere e la morte c’è la vita o esser-ci e Il secondo bene di Ermini è il saggio che si presenta alla maniera di un’«analitica esistenziale» e ci parla dei momenti costitutivi della vita: la caduta, il naufragio, la co-
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di Giancristiano Desiderio sta lontana, lo smarrimento, la stanchezza, il declino e il ritorno in quel non essere che compie l’esistenza senza che se ne abbia piena esperienza o esperienza rappresentabile. Tra il nulla da cui si viene e il nulla in cui si va - l’altalena dei «due nulla» che farebbe inorridire Emanuele Severino - c’è di mezzo la vita che siamo e che Ermini considera senza infingimenti. Dice al principio, come a voler avvertire il lettore che si avventura nella lettura: «Questo saggio segue il vivente dotato di parola nel suo faticoso percorso terreno e segnala che proprio attraverso l’esperienza della parola potrà riconoscere che la vita consiste nella devastazione che giorno dopo giorno subiamo. Non c’è altro». Così: non c’è altro. Non ci sono illusioni da difendere o speranze da coltivare: c’è solo una devastazione che subiamo e «non c’è altro». Un diario di una storia che degenera: «Il secondo bene mette in scena una morte senza illusione, sullo sfondo del nulla che interminabilmente ritorna sul confine oscillante tra dolore e angoscia. È una pagina di quel diario sterminato che non ha futuro: quello della nostra distruzione. È il
“Il secondo bene” di Flavio Ermini: riflessioni (dolorose) sull’esistenza umana
diario di chi agisce privo di qualsiasi fede e avanza sapendo di non poter eludere il vuoto». Vorrei continuare a raccontare e illustrare il libro di Flavio Ermini in cui si mette a tema il «tema dei temi» ossia la vita di ognuno di noi che «è gettato nel tempo ed è condannato a vivere» e vivendo nel tempo matura la consapevolezza della propria distruzione. Però, questa è una cosa che potete fare anche da soli procurandovi il libro e leggendolo. Invece qui vorrei soffermarmi sull’autore che non conosco di persona ma che, pur non condividendo di lui non poche cose, sento vicino come si sentono vicini gli uomini nel dolore. Il libro di Ermini non è un testo scritto solo per la pubblicazione - l’autore è il direttore della collana in cui esce il suo scritto - ma un’opera che è pensata per provare a vivere secondo un senso possibile, almeno fino a quando l’impossibile non fa valere definitivamente i suoi diritti. È proprio qui che prendo un’altra strada: non nell’illusione o nella speranza ma nel trasportare la morte - il secondo bene - nella vita per non farne solo l’inizio e la fine, l’origine e lo sfondo. Tuttavia, che bella questa frase sulla «creaturalità»: «In questo primo istante dopo la nascita è racchiusa tutta la storia del mondo». Il mondo inizia ogni volta che qualcuno nasce, finisce ogni volta che qualcuno muore.
Pop a stiamo perdendo, ragionavo fra me e me osservandola sul palcoscenico del Teatro Ariston, al Festival di Sanremo. Intonava alla bell’e meglio, infagottata e un po’ intronata, The Flame: versione inglese dell’indimenticabile Almeno tu nell’universo di Mia Martini. Reggeva il moccolo, non s’è mai scoperto se più fumata o più bevuta, a Gigi D’Alessio e a Loredana Bertè. La quale Bertè, al confronto, è sembrata una ragazzina. Ahi ahi, Macy Gray. Che figuraccia, pensavo mentre la ripensavo al debutto, la cantante dell’Ohio dalla voce acidula e screpolata capace di mescolare soul, jazz e urban contemporary. Gran bell’album On How Life Is del 1999: sette milioni di copie vendute e almeno un paio di pezzi, I Try e Do Something, a far da traino. Notevole The Id del 2001 con Sexual Revolution e Sweet Baby, in coabitazione con Erykah Badu. Pareva non doversi fermare mai, Macy: caracollava da una collaborazione alll’altra (Fatboy Slim, Carlos Santana, Justin Timberlake, Natalie Cole, Fergie dei Black Eyed Peas, i rapper will.i.am e Nas) e intanto metteva a segno The Trouble With Being Myself (2003) e Big (2007), temperamentosi e lunatici quanto lei, e poi The Sellout (2010): enciclopedicamente soul, divertente, rilassato. E adesso cosa ti combina, per tentare di riscattarsi dal flop sanremese? Quello che fanno tutti, quando l’ispirazione latita e la carriera langue: un bel
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spettacoli
Macy come Nina: la cover c’est moi
L
Teatro
12 maggio 2012 • pagina 15
di Stefano Bianchi
disco di cover. Ci siamo, bye bye Macy Gray. Prima di cestinarlo, però, leggo per curiosità chi lo produce. È Hal Willner, l’artefice dei memorabili tributi jazz & rock a Thelonious Monk, Cole Porter e Nino Rota, nonché del discusso e geniale Lulu firmato Lou Reed & Metallica. Praticamente una garanzia. Poi scorro i titoli in scaletta, quasi tutte canzoni tratte dal repertorio indie-rock dell’ultimo decennio, e mi rendo conto che Macy non sta bluffando. Anzi: si merita ancora una chance, a maggior ragione dopo aver scoperto che s’è ispirata alle cover di Nina Simone, straordinaria voce jazz e suo mito in assoluto, dichiarando: «Lei non si è mai preoccupata di ciò che i critici avrebbero pensato o come l’avrebbero confrontata con altri. Ogni volta che Nina prendeva una canzone la faceva sua, diventava sua. Nel mio piccolo, ho cercato di fare altrettanto». E c’è davvero riuscita, a cominciare da Here Comes The Rain Again degli Eurythmics vissuta quasi sottovoce con l’elettronica a
farle da contrappunto, proseguendo con CreepSmoke Two Joints, del gruppo reggae The Toyes, rivisitata in stile Red Hot Chili Peppers e Teenagers dei My Chemical Romance, giocosa con quel pianoforte a farle compagnia, il retrogusto rhythm & blues e un coro di bimbi in sottofondo. Azzeccatissimi, poi, il restyling di Nothing Else Matters dei Metallica fra epiche orchestrazioni e un salubre respiro da ballata; l’atmosfera folk-blues di Sail, dal repertorio dei misconosciuti Awolnation; il passo sempre più spinto, a un’incollatura dal punk, di Maps degli Yeah Yeah Yeahs; i guizzi creativi del medley fra Lovelockdown di Kanye West e Buck di Nina Simone; le morbide evanescenze di Bubbly, della cantautrice statunitense Colbie Caillat; l’energia tribale e i vezzi calypso di Wake Up, iconico brano degli Arcade Fire. Ideona: fra una cover e l’altra, si intromettono dialoghi radiofonici, libere improvvisazioni, campionamenti elettronici e rap assortiti. Tanto di cappello, rediviva Macy Gray. Macy Gray Covered 429 Records Universal Music 14,99 euro
Fenomenologia (romana) del Living Theatre
i è da poco conclusa Il geroglifico di un soffio in cui sono stati mostrati - in prima mondiale - i percorsi paralleli di costruzione e memoria di Serge Ouaknine e Ferruccio Marotti, ispirati al lavoro teatrale del regista polacco Jertzy Grotowski, e subito ecco affacciarsi un altro mito del teatro del Novecento: il Living Theatre. Siamo nel 1943: dall’incontro tra Julian Beck, fino ad allora fondamentalmente artista visivo, e Judith Malina, allieva di Piscator, prende forma l’idea che si concretizzerà solo quattro anni dopo, di un gruppo di artisti riconoscibili con il nome di Living Theatre. La loro prima produzione risale al 1951. Dieci anni dopo lo stesso Beck così stigmatizza la sua prioritaria motivazione di esprimersi attraverso il mezzo teatrale: «Un luogo di esperienze intense, metà sogno, metà rituale, nel quale lo spettatore si avvicini a una sorta di visione della comprensione di se stesso che superi il livello della coscienza per arrivare all’inconscio, a una consapevolezza della natura di tutte le cose». In netta contrapposizione con il tea-
S
di Enrica Rosso tro ricco ma morto delle mega produzioni commerciali di Broadway, la peculiarità del Living consisterà nell’essere un gruppo aperto, in continua mutazione. Provocatori, fortemente innovatori ed estremi rispetto all’epoca, anarchici, pacifisti e sognatori, fautori di happening in cui il pubblico veniva chiamato a partecipare in modo determinante, useranno il mezzo teatrale per dare voce alle loro convinzioni politico-culturali. La mostra che si è inaugurata ieri a Roma, alla Casa dei teatri Villa Doria
Un bozzetto di Julian Beck esposto alla mostra di Roma
Pamphilij - Villino Corsini, presenta una serie di materiali di varia natura disegni, fotografie, video, suoni, incontri - legati ai sette anni «italiani» di Beck: molti spesi in tournée (scandite da lunghe permanenze a Cosenza e a Torino), fino all’approdo nel ‘75 alla Biennale Teatro di Venezia con il controverso Sette meditazioni sul sadomasochismo politico, Sei atti pubblici, La torre del denaro. Un itinerario sensoriale ricco che si sviluppa nelle quattro sale del Villino con un avvicinamento graduale. La prima sala accoglie immagini statiche: locandine e articoli d’epoca tra cui svettano, per la prima volta in mostra, i bozzetti dei costumi che Julian Beck disegnò per il suo penultimo spettacolo The Yellow Methusalem. Nella seconda ci confrontiamo con quattro monitor che restituiscono vita, prove e spezzoni di spettacoli del Living. La terza sala è dedicata alle suggestioni beckiane, per concludere il percorso nella quarta sala, con le foto e
i testi rivelatori di quella sensibilità artistica e poetica mista a un profondo senso di appartenenza a un’epoca che hanno prodotto una realtà talmente radicata che tutt’oggi, ventisette anni dopo la scomparsa di Julian Beck, il Living prosegue ancora la sua ricerca sotto la direzione artistica di Judith Malina e Hanon Reznikov. Inoltre oggi pomeriggio alle 15 sarà possibile incontrare Catherine Marchand, un pilastro del Living e il gruppo degli italiani Motus, mentre domani alle 11,30 il professore di Storia del teatro Franco Ruffini incontrerà il pubblico a proposito di Paradise Now!, storica produzione del gruppo cosmopolita. E ancora, a cura della Biblioteca della Casa dei Teatri, a richiesta, durante tutto il periodo della mostra sarà possibile visionare ulteriori documenti e video.
Immagini del Living Theatre - il segno di Julian Beck a Roma, Casa dei teatri Villa Doria Pamphilij - Villino Corsini, fino al 24 giugno, Info: www.casadeiteatri.culturaroma.it - tel. 06 45460693
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cinema
La vera storia di Bernie Tiede D di Anselma Dell’Olio
ue commedie di valore sono uscite nei giorni scorsi a New York: The Five Year Engagement ha inaugurato il festival di Tribeca, Bernie quello di Los Angeles. Il primo racconta un accidentato viaggio all’altare lungo cinque anni, ed esce dalla fucina comica di Judd Apatow, scrittore, regista, produttore (40 anni vergine, Suxbad, Funny People, Le amiche della sposa). Il trentenne Nicholas Stoller (I Muppet, In viaggio con una rock star) è regista e autore del copione, insieme con la star Jason Segel (Amici di letto, Molto Incinta, Non mi scaricare). La storia inizia dove molte commedie romantiche finiscono, con una proposta di matrimonio. Violet (Emily Blunt) e Tom (Segel) sono trentenni a San Francisco, fatti l’uno per l’altra. Lui è uno chef in ascesa, lei psicologa, e presto saprà se ha vinto una borsa di studio post dottorato all’Università del Michigan. Alla festa di fidanzamento, Alex (Chris Pratt), il miglior amico di Tom, un pasticcione dedito a scherzacci lunatici, presenta agli ospiti un montaggio fotografico di tutte
bor, la provincia profonda. In cambio chiede solo una bollente notte di passione, un vero signore. Intanto Suzie (Alison Brie, la spregiudicata Trudy Campbell di Mad Men), sorella della sposa, spigliata e un po’ zoccola, ruba la scena con destrezza.Violet, in ansia per la febbrile organizzazione delle nozze, è consolata da Suzie: «Dai, divertiti; di matrimoni nella vita non te ne spettano più di tre o quattro!». Alex cerca di rimorchiarla e l’altera Suzie lo condisce via come indegno clown; ma impulsiva e fertile com’è, dovrà sposarsi molto prima della sorella. Nel Michigan si gela, Tom trova lavoro solo in un fast food, Alex è promosso chef al posto suo a San Francisco e Violet è insidiata dal capo della facoltà, un Rhys Ifans (I love Radio Rock, Anonymous) in stato di grazia. Il film è lungo per una commedia (oltre due ore), con un ritmo non frenetico e permette che la frustrazione per le buone intenzioni andate a male maturi. Proprio quando il film pare impantanarsi, arriva una scena incisiva e si ride molto. La storia affronta con compassione e senza
da tutti? A Carthage, nell’East Texas, è successo proprio questo nel 1996. Richard Linklater, regista e autore (Prima dell’alba, Prima del tramonto, A Scanner Darkly - un oscuro scrutare) è nativo della regione. Il vero Bernie Tiede (che vediamo in coda) è paffuto, con una voce d’angelo, un essere involontariamente comico e imperscrutabile; Jack Black nel ruolo è la perfezione (Linklater ha diretto anche School of Rock, con Black insegnante di musica con aspirazioni da rockstar, che trasforma la sua classe in una band). Bernie è un meticoloso direttore di pompe funebri debordante empatia, compassione e una minuziosa attenzione a necessità, preoccupazioni e sofferenze del suo prossimo. È un omosessuale coperto, con una passione particolare per le signore in età, forse per aver perso la madre da piccolo. Canta in chiesa come un usignolo, dirige commedie musicali con talento locale, porta fiori e cioccolatini alle vedove il giorno dopo il funerale. La sua voglia di consolare, coccolare e servire le compaesane (i maschi sono più scettici) sembra senza fine. Poi
nando quando le pare per interrompere le altre attività culturali e sociali cui il mite, accondiscendente essere tiene moltissimo. Bernie è un uomo opaco, ma compiacere e rendere felici gli altri è la sua ragione di vita.
Un giorno Marjorie lo riempie di improperi mentre si avvia all’auto, e qualcosa scatta nell’angelico cicisbeo. Afferra un fucile usato per sparare agli armadilli e abbatte la bisbetica, collerica vedova con quattro pallottole nella schiena. Per sei mesi racconta che lei è indisposta, e con poche eccezioni sono tutti contenti di non vederla in giro. Nel sud degli Stati Uniti, l’inciviltà è imperdonabile, la forma è tutto. Bernie regala soldi a chi ne ha bisogno: per aprire un’attività, fare un intervento chirurgico, comprare un’altalena da giardino per bimbi ma nulla per sé. L’unico sospettoso è il commercialista della Nugent e il borioso procuratore Davidson (Matthew McConaughey, felice sorpresa del film) che alla fine scopre il cadavere nel congelatore di casa. Il racconto è intervallato da
La bizzarra vicenda del gentile direttore di pompe funebri che uccise nell’East Texas un’odiosa megera, magistralmente interpretata da Jack Black e Shirley MacLaine. Buona anche la commedia “The Five Year Engagement” con Emily Blunt e Jason Segel le precendenti fidanzate di Tom. Non mancano le convenzioni romcom, ma oltre a darci la solita comitiva di squinternati amici e parenti degli sposi e rock classico in colonna sonora (qui è Van Morrison), esamina gli incidenti di percorso imprevedibili che ostacolano le nozze di due persone per bene e innamorate. Quando Violet vince la borsa di studio, Tom lascia senza fiatare il posto da chef in carriera in un buon ristorante per trasferirsi per due anni ad Ann Ar-
ideologia la difficoltà di conciliare due carriere, in un mondo in cui l’identità femminile è sempre più legata alla professione anziché alla moglitudine.
“Bernie” è un film assai diverso, una commedia a modo suo «romantica», ma con la comicità di una bizzarra storia vera. Il film pone una domanda insolita: si può perdonare un omicida, perché la vittima era un’odiosa megera, e l’assassino un uomo simpatico, generoso e adorato
muore il facoltoso marito di Marjorie Nugent (Shirley MacLaine), un’anziana tirchiaccia che tiranneggia i concittadini con sfuriate incandescenti. Bernie, con pazienza e buon umore, conquista la sua fiducia e diventa suo intimo e business manager. Iniziano a viaggiare insieme, sempre in prima classe e con tutti i lussi che la vedova si può permettere. Fa di Bernie il suo erede universale ma gliela fa pagare cara. Lo tratta come un tirapiedi, con ordini perentori continui, telefo-
testimonianze con i veri abitanti di Carthage, signore con capelli silver blue, forme generose e abiti a fiori, che ancora difendono Bernie a spada tratta. Vogliono solo lui per il trucco nella bara. In carcere, Bernie organizza attività e assistenza per i detenuti esattamente come faceva con le signore di Carthage. Nel film il suo gesto resta un mistero, ma credo che Marjorie sia morta perché era l’unica donna che Bernie non riusciva ad accontentare.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Tre soluzioni per limitare il rischio dell’antipolitica
LO SHOW DI GRILLO Sono rimasto piacevolmente impressionato, perché era ciò che pensavo e avvertivo anche incontrando la gente sul territorio, da un sondaggio Swg di pochi giorni fa su Grillo. Il 35 per cento degli intervistati sul “fenomeno” del momento ritiene Grillo “lievito”. Mi spiego. Grillo costringe i partiti al vero cambiamento. Questo di per sé non è un male, come non sono un male i “grillini” impegnati, distinti e separati da Grillo che catturano un altro 20 per cento semplicemente perché divertiti dal suo modus operandi. Pura satira politica, a metà tra lo show e la denuncia semiseria di una questione molto importante per la vita presente e futura di molti Stati, uomini e donne che vivono questo determinato momento storico. Quindi se prendiamo per buona la prima percentuale ed eliminiamo la seconda, capiamo che, la vera forza di Grillo e dell’antipolitica è nell’immobilismo. Nella capacità di non essere “lievito” per il proprio e necessario cambiamento. Introducendo come parte attiva i tanti giovani o meno giovani, seri e preparati presenti in tutti i partiti, oggi più che mai necessari per quel cambio di passo e di costume richiesto alla politica ad ogni livello di governo e di partecipazione. In altre parole, evitare che i figli si mettano contro i padri, obbligando quest’ultimi a fare un piccolo passo di “lato”, a credere ed investire sui propri figli, accettando una realtà che ci consegna grandi conquiste sociali, ma anche grandi fallimenti. Fallimenti del passato e del presente, per i quali non è più possibile rinviare la definitiva trattazione e risoluzione attraverso metodi e meriti nuovi e diversi. Per concludere: se la politica oggi fa piangere, l’antipolitica fa ridere, ma così non si risolve il problema. Intelligenti pauca. Vincenzo Inverso C O O R D I N A T O R E NA Z I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L
LE VERITÀ NASCOSTE
Antipolitica è il sostantivo che si è sentito ripetere più volte in questi ultimi giorni. Certo è che quando le crisi hanno una lunga durata e una forte incidenza, come quella attuale che attanaglia l’economia europea, il distacco fra “il palazzo”,“gli addetti ai lavori”e la popolazione aumenta notevolmente. Il rischio maggiore, e più pericoloso, è rappresentato dall’esasperazione di problemi settoriali, territoriali, perché possono favorire l’affermazione di moderni Masaniello. La soluzione o meno di problemi settoriali o territoriali senza una visione di insieme ritarda la soluzione della crisi globale, per cui i problemi apparentemente risolti tornano ancora più aggravati. Per aggredire in modo più efficace la crisi e limitare il rischio dell’antipolitica e del populismo, la classe politica, con molta umiltà, dovrebbe muoversi principalmente in tre direzioni: 1) Riacquistare la credibilità perduta, ridimensionando la spesa della politica a cominciare con l’abolizione degli enti inutili, dei carrozzoni e da una riduzione delle indennità anche dei consiglieri comunali. Altro segnale positivo è quello di dare voce alla base dei partiti, rivitalizzando le sezioni in modo che tornino ad essere centro propulsivo e di controllo. 2) Programmare delle priorità, mettendo al primo posto la ripresa economica che deve essere legata al diritto al lavoro che consenta di guardare il futuro non con angoscia ed apprensione. 3) Realizzare una più equa pressione fiscale, che non può e non deve colpire eccessivamente i redditi dei lavoratori e delle imprese che danno lavoro, ma richieda – per una migliore giustizia sociale – maggiore contribuzione a chi più ha e più può e cioè alle rendite di capitale e ai grossi patrimoni.
Luigi Celebre
LA LEZIONE DI FRANCESE CHE DOBBIAMO IMPARARE Il socialista Hollande ha vinto anche grazie ad una campagna in cui la difesa dell’indipendenza nazionale e dell’identità della Francia, contro un’Europa tecnocratica che pretende di scegliere infischiandosene dei popoli, ha avuto un ruolo centrale. Si può riflettere su un leader di sinistra che utilizza argomenti di destra, ma questo è un altro discorso. Il punto è che tutti, da destra a sinistra, dalla Le Pen a Mélenchon, si sono rappresentati come parte di un’unica Nazione. La politica e la Nazione. Ecco due cose che in Italia mancano e che potrebbero aiutarci ad uscire dalla crisi. È la lezione di francese che dobbiamo imparare.
Enzo Nardi
I PARTITI E LA COSTITUZIONE Non c’è democrazia senza i partiti. Per questo non si può che riprendere il cammino seguendo il solco che ha indicato da tempo il Presidente Napolitano. Il sistema dei partiti, se vuole uscire dal letamaio nel quale sembra sempre più dibattersi, deve riformulare i suoi programmi, la sua credibilità, la sua capacità di generare consensi e rinnovare i suoi gruppi dirigenti. Deve ispirarsi a un punto fermo, quello dei contenuti del più grande progetto politico che l’Italia contemporanea ha pensato e costruito, la Costi-
tuzione della Repubblica: il rispetto e la salvaguardia dei diritti umani e ambientali, il lavoro come pilastro della società e come valore etico e politico al tempo stesso, il rifiuto della guerra, il sostegno alle categorie sociali più deboli, il rispetto delle differenze sessuali, razziali, religiose, di genere, la laicità dello Stato.
Davide Cacciapuoti
DALLA PARTE DI MONTI E DEL SUO ESECUTIVO A differenza di alcuni miei amici, coi quali mi diletto a discutere di tanto in tanto sulla panchina del parco vicino casa, credo nella determinazione del premier Monti e dei suoi collaboratori. A cominciare dal rigoroso e saggio ministro Giarda, che sta procedendo a una seria revisione delle spese dello Stato per disboscare la giungla di quelle inutili e persino dannose. E credo anche che la piena credibilità dell’attuale esecutivo – garantita da chi lo compone e dalla vasta maggioranza trasversale che lo sostiene – abbia dato forza decisiva all’azione dell’Italia per far cambiare linea alla Germania e a tutta l’Unione europea.
Celestino Rossi
DOVE SONO I TAGLI ALLE SPESE?
VINCENZO INVERSO COORDINATORE NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
L’obiettivo, c’è. Le regole, pure. E non manca nemmeno il premio in palio. Quelle che si disputeranno a Milano e Napoli per tutto il mese di maggio, però, non sono discipline olimpiche. Ma gare di riciclo, con l’obiettivo di migliorare la raccolta differenziata di carta e cartone. Promosse da Amsa e Comune di Milano, e sponsorizzate da Comieco (Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base cellulosica), le Cartoniadi - così è stata ribattezzata l’iniziativa - coinvolgeranno le nove zone del Comune di Milano, che si contenderanno lo scettro di “campione del riciclo” a suon di imballaggi spezzettati e stralci di carta infilati nel bidone bianco. La zona più solerte, che raccoglierà una maggiore quantità di carta e cartone rispettando il regolamento fornito, si aggiudicherà un premio di 50mila euro messo in palio da Comieco, da utilizzare a beneficio della collettività. Anche le scuole potranno cimentarsi nell’impresa: per loro è stato indetto un minipalio con un premio di 1000 euro che andrà all’istituto più virtuoso. L’evento si svolgerà, in contemporanea, anche a Napoli, dove a sfidarsi saranno le diverse municipalità.
te, diminuisce semplicemente le spese. I nostri professoroni, bravi, hanno messo le mani nelle tasche degli italiani per aumentare le entrate, ma le spese diminuite dove sono?
Carla Simoni
A PROPOSITO DI TECNICI E SUPERTECNICI Non vorrei essere irrispettoso, ma trovo veramente pazzesco che i tecnici del nostro governo abbiano chiesto non solo l’aiuto dei cittadini, invitandoli a segnalare sul web gli sprechi da eliminare, ma addirittura hanno individuato dei supertecnici per scovare ulteriori tagli da fare. Queste due trovate, secondo me, si commentano da sole.
Enzo Egollino
Quando una famiglia non ce la fa ad andare avanti e non ha modo di aumentare le entra-
L’IMMAGINE
LOTTA ALL’EVASIONE NAZIONALE E INTERNAZIONALE Il governo si è concentrato soprattutto nella lotta all’evasione fiscale interna con controlli a tappeto su tutto il territorio italiano, che hanno l’obiettivo di verificare il corretto adempimento delle norme in materia fiscale e tributaria. Ma la politica anti evasione, oltre a essere fatta sul fronte nazionale, andrebbe fatta anche sul fronte internazionale per colpire gli evasori di grande portata che assicurerebbero maggior gettito alle casse dello Stato.
Daniele Colla
DOVE CI PORTERÀ LA “FOLLIA RINNOVABILE”
APPUNTAMENTI Venerdì 18 maggio ore 11- Piazza Pilotta 4 Centro Convegni Matteo Ricci - Roma CONSIGLIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Cartoniadi, le olimpiadi del riciclo
Tele da spiaggia Altro che passare ai posteri: questo artista ha scelto di combattere contro le maree, sapendo di perdere in partenza. Ma quello che riesce a realizzare, per quanto temporaneo, è un vero capolavoro. Lui è Andrei di San Francisco e come tela per i suoi quadri ha scelto la sabbia di suggestive spiagge che ricerca su Google Heart. Disegna forme geometriche, mosaici e simboli servendosi solo delle sue mani e di un rastrello
Hanno messo all’asta le isole Tremiti. Anche gli Appennini sono in offerta al 3x2 per prossimi cantieri eolici. Infatti stupendi crinali boscosi fra Romagna e Toscana – e non solo – rischiano la devastazione per l’insediamento di “palazzi”dai palettoni pigri – spesso immobili – che insultano il paesaggio e l’intelligenza in un contesto povero di vento ma ricco di“follia rinnovabile”. Prepariamoci a due fregature: nessun vantaggio energetico e la rovina definitiva del paesaggio.
Fabio Ravenna
mondo
pagina 18 • 12 maggio 2012
Al vertice in programma il 18 e 19 maggio a Camp David andrà Medvedev. Fra Mosca e Washington torna il gelo
Putin l’antiamericano Diserta il summit con Obama, ostacola ogni azione in Siria, protegge l’Iran e non vuole lo scudo anti-missile di Enrico Singer hi l’avrebbe mai detto che a più di vent’anni dalla fine dell’Urss sarebbe riaffiorata un po’ di nostalgia per quelle parate del 9 maggio – il dien pobiedy, il giorno della vittoria – dell’era sovietica quando si scrutava il palco con le autorità schierate sulla balconata del mausoleo di Lenin, nella piazza Rossa, a caccia di novità nel regime comunista. Da un personaggio assente, da un volto diverso, da un posto mutato, da una fila guadagnata o perduta si poteva capire che cosa si muoveva dietro le mura del Cremlino. Ormai, la scena si ripete identica da anni: Medvedev e Putin, Putin e Medvedev. Fianco a fianco. L’unica cosa che cambia è la disposizione: a sinistra di chi guarda il palco c’è il presidente, a destra il premier. E quattro giorni fa la staffetta si è ripetuta. Come previsto. Attorno soltanto comprimari: generali in carica e veterani coperti di medaglie. Sempre di meno e sempre più anziani: dalla vittoria sul nazismo nella Grande Guerra Patriottica – come i russi chiamano la seconda guerra mondiale – sono passati 67 anni e il tempo, inesorabile, fa il suo corso. Nella sfilata, invece, la potenza delle armi non invecchia. Anzi, si rinnova e si moltiplica. Missili sempre più potenti e mezzi modernissimi. Per la prima volta sono comparsi anche i “Lince”italiani, assemblati su licenza negli stabilimenti di Voronezh e preferiti ai “Tigr”della Uaz che se ne andranno in pensione. Una prova di forza preparata nei minimi particolari: 14mila uomini, centinaia di carri, passaggi a bassa quota di elicotteri e di aerei, batterie di razzi.
C
Dai mastodontici Topol-M, vettori intercontinentali a testata atomica, agli Iskander – che la Nato ha battezzato Ss-26 “Stone” – che sono i missili nucleari tattici che Mosca sta per schierare anche a Kaliningrad, da dove terranno sotto tiro gli interi territori di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca e, soprattutto, metà della Germania. Fino a Berlino.
La risposta, sul terreno, al progetto di scudo missilistico che l’Alleanza atlantica sta per varare nel suo vertice di Chicago, il 20 e 21 maggio.Vertice al quale Putin non andrà (anche se era stata ipotizzata una riunione della struttura di contatto Nato-Russia). Così come non andrà al G8 di Camp David con Barack Obama, la prossima settimana, dove si farà rappresentare dal fedele Medvedev. Un’assenza che ieri il presidente russo ha confermato anche a Mario Monti durante un colloquio telefonico in cui è invece stata riaffermata «l’eccellenza dei rapporti bilaterali» tra l’Italia e la Russia, ribadita la volontà di mantenere il vertice bilaterale a Roma all’inizio del prossimo ottobre e concordata
naccia per Mosca». Ma lo stile è cambiato. Come l’ordine delle poltrone al Cremlino e sul palco della piazza Rossa. Anche il discorso di Putin, breve, ma pieno di retorica patriottica, ne è stato la prova. Con una parola-chiave: uvazhenije, rispetto. Rispetto per il ruolo dell’Urss nella guerra – più di 20 milioni di morti, otto dei quali militari, tutti gli altri civili – dimenticato, quando non messo in discussione, specialmente nei Paesi dell’Europa centro-orientale che si ritrovarono poi nell’orbita sovietica a patire il dominio di Mosca e a covare rancore. E rispetto per la Russia di oggi. «Abbiamo il diritto morale di difendere strenuamente la nostra posizione e di attuare una decisa
La Casa Bianca fa buon viso a cattivo gioco e “crede” alla scusa ufficiale (un calendario pieno d’impegni per definire il nuovo governo), che Mosca ha riferito per spiegare la mancata partecipazione la visita del nostro presidente del consiglio al Cremlino il prossimo luglio.
Sommando il mini-strappo del G8 – “mini” perché, comunque, è già previsto un incontro tra Putin e Obama in margine al G20 che si terrà dal 17 al 19 giugno a Los Cabos, in Messico – con la spettacolare dimostrazione di potenza militare sfoggiata a Mosca il 9 maggio, si ottiene come risultato un segnale, pesante, di avvertimento. Una specie di colpo sparato davanti alla prua della nave per dimostrare che non si scherza. Con Vladimir Putin presidente, la Russia vuole essere di nuovo protagonista e torna a fare la voce grossa. In realtà, non aveva mai smesso, perché anche il tecnocrate Dmitri Medvedev aveva più volte definito lo scudo missilistico euro-americano «una mi-
poteva avere occasione migliore per inaugurare la sua terza presidenza. E di sicuro non è un caso che per l’insediamento – avvenuto lunedì scorso a più di due mesi dalle elezioni del 4 marzo – si sia attesa la vigilia del dien pobiedy. Così come era prevedibile l’inasprimento dei toni in politica estera. Adesso a Washington, e non solo, ci s’interroga sulla reale portata della virata che il capo del Cremlino sembra voler imporre alla linea di Mosca.
La Casa Bianca
politica di sicurezza poiché il nostro Paese è passato attraverso prove molto dure», ha detto Putin che ha toccato tutti i tasti più sensibili, ancora oggi, tra la popolazione (il 70 per cento dei russi ha almeno un familiare morto nell’ultimo conflitto mondiale) nel giorno della vittoria che, al di là delle divisioni politiche e delle contestazioni degli oppositori, è la festa più sentita con le donne e i bambini che regalano fiori ai soldati. Putin non
preferisce fare buon viso a cattivo gioco e fa finta di credere alla scusa ufficiale – il calendario molto denso d’impegni per definire il nuovo governo – che il portavoce di Putin ha riferito per spiegare la mancata partecipazione al G8. E dire che Obama aveva deciso di spostare la sede del vertice dei Grandi da Chicago a Camp David proprio per non mettere in imbarazzo Vladimir Putin. Secondo il programma originario, infatti, il G8 si doveva tenere, il 18 e il 19, nella capitale dell’Illinois dove, il 20 e il 21, ci sarà il summit della
Nato in cui si discuterà di Afghanistan (e il nuovo presidente francese, François Hollande, annuncerà l’anticipo di un anno del ritiro del contingente del suo Paese), ma dove si parlerà anche del sistema di difesa missilistico in Europa.
Spostare il G8 nella residenza presidenziale del Maryland era una cortesia, secondo quanto riferiscono i diplomatici Usa, per evitare una situazione potenzialmente scomoda per Putin. Il quale, però, ha deciso di tagliare la testa al toro mandando al suo posto Medvedev. Gli americani, tuttavia, sottolineano che Putin ha anche firmato un decreto sulle linee guida di politica estera nel quale ha ribadito la volontà russa di «aumentare la cooperazione con Washington a un livello veramente strategico». Come dire che la volontà di dialogo rimane intatta. Ma in quello stesso documento è scritto che le relazioni devono essere basate sulla «uguaglianza, la non-interferenza e il rispetto per gli interessi degli uni e degli altri» e che i progetti missilistici Usa non devono «minare la sicurezza della Russia indebolendo la sua deterrenza nucleare». Il contrasto, insomma, c’è ed è evidente. Ci sono anche gli strascichi della tensione che si era manifestata prima e subito
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Il Capo di stato maggiore delle forze armate russe, il generale Nikolai Makarov, è arrivato a dire che Mosca giudica la realizzazione del sistema di difesa anti-missile della Nato come un pericolo inaccettabile per la propria sicurezza nazionale. E ha riesumato un’espressione – «illusione d’immunità» – lanciata da Jurij Andropov (che fu capo del Cremlino dal 1982 al 1984) quando Ronald Reagan inseguiva la sua idea di “scudo stellare”. Secondo Makarov, «la natura di un sistema missilistico di difesa può essere destabilizzante se crea l’illusione che un attacco può essere lanciato impunemente perché l’avversario non ha poi la capacità di replicare». Ecco, allora, che per contrastare il mini-scudo della Nato la Russia sarebbe costretta a mettere a sua volta in campo gli strumenti in grado di «distruggere preventivamente la difesa missilistica in Europa» con il dispiegamento degli Iskander nella regione di Kaliningrad, l’enclave russa nel Baltico. È vero che il 27 marzo scorso, durante il vertice di Seul sulla sicurezza nucleare, in un fuori onda che ha fatto il giro del mondo, Obama ha chiesto a Medvedev di essere paziente perché, se rieletto a novembre, avrebbe assunto un atteggiamento più «flessibile» sulla questione dello scudo. Ma è anche vero che i russi non si fidano delle promesse: che siano nei colloqui ufficiali o fuori onda. Un grande esperSopra, Barack Obama e Vladinir Putin durante un vertice del 2009. Sotto, il nuovo primo ministro Dmitri Medvedev. A sinistra, la locandina del prossimo summit della Nato a Chicago, dove verrà confermato l’avvio dei lavori per la costruzione dello scudo anti-missile
dopo le elezioni presidenziali russe. Putin ha accusato Washington di avere appoggiato – addirittura di avere finanziato – i movimenti di protesta e i portavoce americani, da parte loro, hanno più volte espresso il «turbamento» della Casa Bianca per la violenza della polizia russa durante le manifestazioni degli oppositori. E c’è una profonda divergenza di vedute sulle altre due grandi crisi in atto: quella siriana – Damasco rimane il miglior alleato di Mosca in Medioriente – e quella del programma nucleare iraniano che è in gran parte sostenuto proprio con tecnologie e mezzi messi a disposizione di Teheran dalla Russia.
Si tratta di situazioni esplosive che, tra l’altro, sono appese alle continue minacce di veti al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma l’elemento di maggiore criticità è e rimane la questione del sistema di difesa anti-missile in Europa. Anders Fogh Rasmussen, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ha confermato di fronte ai ministri degli Esteri e della Difesa di tutti i Paesi membri, nell’ultima riunione preparatoria del vertice di Chi-
L’assenza al vertice è stata ieri confermata dal neo-presidente anche a Mario Monti. In una telefonata i due hanno ribadito la volontà di incontrarsi a luglio a Mosca e a ottobre a Roma
e di cronach
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cago, che lo scudo si farà. Anzi, che si inizierà subito a elaborare uno scudo provvisorio. «Sarà un primo passo, ma molto concreto», ha detto l’ex premier danese. Il “cervellone” che dirigerà tutto il sistema sarà ospitato nel centro di controllo aereo Nato di Ramstein, in Germania. Polonia, Romania, Spagna, Olanda, Francia e Turchia hanno già dichiarato che parteciperanno con mezzi e strutture a terra (radar e rampe di missili). Questa accelerazione del progetto non va giù a Putin, il quale non ha mai creduto che la Nato voglia realmente contribuire alla difesa del territorio russo dai missili degli “Stati canaglia” (l’Iran e la Corea del Nord), ma è convinto che si tratti di un modo per accerchiare la Russia. In definitiva, per minacciarla nei suoi interessi vitali di difesa. Anche se la Nato ha cercato di spiegare che lo scudo, per come è stato concepito, è in grado di contrastare la minaccia proveniente da una piccola potenza nucleare, non certo dalla Russia. Ma il Cremlino continua a pensarla così.
to dell’equilibrio del terrore nucleare, Peter Vincent Pry, autore di War Scare (uno studio sulla mentalità paranoica dei comandi sovietici prima e russi poi), sostiene che esiste una sostanziale continuità nel pensiero militare di Mosca. Andropov era convinto dell’imminenza di un attacco nucleare americano e ordinò una vasta operazione di spionaggio contro i Paesi della Nato che fu chiamata in codice “Ryan” (acronimo russo di “attacco nucleare preventivo”) e che doveva individuare i sintomi di un attacco per dare a Mosca il tempo di lanciare per prima i suoi missili. Come racconta il dissidente del Kgb, Oleg Gordievskij, “Ryan”, portò il mondo sull’orlo della guerra atomica nel novembre del 1983, quando un’esercitazione della Nato (la Able Archer) fu scambiata per il preludio di un attacco. Morto Andropov,“Ryan” ha perso gradualmente la sua priorità, ma è rimasta attiva fino al 1992, con Boris Eltsin già presidente della Russia postsovietica. Putin la vuole, forse, rilanciare adesso?
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mondo
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«Foreign Affairs» esce con un parallelismo tra la congiuntura degli anni Venti e Trenta del Novecento e quella attuale
La paura dell’Europa Con la crisi economica, negli Stati Uniti d’America si sono risvegliati i vecchi fantasmi sulle debolezze delle nostre democrazie (e sulle possibili conseguenze) di Fabio Grassi Orsini he Oltreoceano ci si preoccupi delle sorti dell’Europa, scossa dalla tempesta finanziaria, e che il suo modello sia esposto a pericoli mortali è un fatto incontestabile. Ne è prova la circostanza che per festeggiare il novantesimo compleanno Foreign Affairs dedichi un numero speciale («The clash of Ideas»), nel quale si propone un parallelo tra la crisi degli anni Venti e Trenta del Novecento e quella attuale: allora la liberaldemocrazia dovette fronteggiare la sfida del comunismo, del fascismo e del nazismo; oggi quella della globalizzazione, dell’emergenza di regimi autoritari fortemente
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passato, l’ottimismo è la migliore carta che si possa giocare sul lungo periodo».
La prima sezione del periodico, intitolata «Ecco come siamo arrivati qui: la nascita del nuovo ordine», riguarda il periodo che va dall’ascesa delle dittature totalitarie al crollo dell’impero sovietico e ripropone saggi di suoi collaboratori a favore e contro il totalitarismo, tra i quali spiccano quelli di Giovanni Gentile, Croce e Laski sul fascismo, ancora di Laski e di Trosky sul comunismo e di altri poco conosciuti ma non meno importanti sul nazismo e di Isaiah Berlin sulle idee del Novecento; la seconda sezione, si riferisce
Allora bisognava fronteggiare la sfida comunista, fascista e nazista; oggi quella della globalizzazione, dell’emergenza di regimi autoritari competitivi sul mercato e del fondamentalismo islamico competitivi sul mercato internazionale e del fondamentalismo islamico.
Il fascicolo, che si articola in due sezioni è introdotto da un editoriale del direttore Gideon Rose il quale, ricordando come le potenze alleate riuscirono a sconfiggere il mostro del totalitarismo, fornisce una risposta sostanzialmente incoraggiante circa il futuro della democrazia. Scrive in proposito: «Noi viviamo una crisi ideologica: gli Stati Uniti sono intrappolati in uno stallo politico ed in una disfunzione del suo sistema; quello europeo si è rotto o in via di rottura. La Cina autoritaria è in ascesa; i contestatori occupano le strade dei Paesi industriali ad economia avanzata, ma ricordando gli ostacoli molto maggiori che sono stati superati nel
alla situazione attuale con articoli di autori più noti come F. Fukuyama, C.A. Kupcan e S. Avineri ed altri egualmente autorevoli. Il discorso sul totalitarismo si apre con un intervento di Laski del 1923 che disegna due biografie parallele: quella di Lenin e quella di Mussolini. I medaglioni sono molto ben riusciti ma l’interesse del saggio sta nella diagnosi precoce sul carattere totalitario del fascismo, ancora prima che gli stessi osservatori italiani (salvo Amendola e Ruffini e pochi altri) fossero giunti a queste conclusioni. Laski rileva la miopia dei governi occidentali, che avevano ostracizzato Lenin dal momento della sua presa del potere, avevano,invece, accolto con diffuso entusiasmo il governo Mussolini e critica gli uomini d’affari che sognavano di po-
ter applicare la ricetta fascista per far mettere la testa a posto ai loro operai. Lo studioso fabiano riteneva che i due dittatori erano arrivati ad imporsi, usando la violenza, ma mentre Lenin aveva guidato una rivoluzione fatta in nome dei lavoratori investendo di autorità un gruppo di uomini che esercitavano una dittatura senza riguardo alla volontà del popolo; Mussolini aveva creato in Italia, accanto al governo costituzionale, un’organizzazione extralegale che avrebbe abbattuto lo stato liberale alla prima occasione favorevole; ma Laski, faceva notare, da una parte, come la Nep avrebbe fatto fallimento essendo incompatibile con il comunismo e, dall’altra, che il fascismo, pur avendo lasciato in essere almeno formalmente un regime rappresentativo, avrebbe instaurato un regime a partito unico (un partito-esercito). Tra i saggi ripubblicati, come si
è detto,figurano uno scritto di Giovanni Gentile («Le basi filosofiche del fascismo») del 1928 ed una risposta di Croce («Of Liberty»), a quattro anni di distanza. Il filosofo siciliano riconosceva il carattere “totalitario” della dottrina fascista e sosteneva che autorità dello stato e libertà dei cittadini era un circolo continuo perché l’autorità presupponeva la libertà e che la libertà poteva esistere solo nello stato. Secondo Gentile il libe-
ralismo avrebbe rotto questo circolo, ponendo l’individuo contro lo stato e la libertà contro l’autorità.
Paradossalmente queste critiche sono le stesse che oggi provengono da sponde opposte contro il preteso individualismo dei liberali. Croce,invece, pronunciava una difesa senza tentennamenti della libertà contro il comunismo e contro il fascismo ed esprimeva la fiducia che
mondo di altrettanto grande spessore. Tuttavia ne segnaliamo alcuni come quelli di Victor Chernov, un leader socialista rivoluzionario su Lenin, di William Chamberlin, corrispondente da Mosca del Christian Science Monitor ed autore di “Soviet Russia” da cui esce un quadro inquietante di un comunismo già fallito nella sua promessa di liberazione dell’uomo dallo sfruttamento del capitalismo: fallimento che preludeva a quello che sarà lo stalinismo. Al tempo stesso, da quegli scritti viene una richiesta pressante alle democrazie liberali, invitandole a superare la contraddizione creata dal capitalismo, che sarebbe stato capace di risolvere il problema della produzione di massa ma non della distribuzione e dell’eguaglianza. Anche al nazismo, come è comprensibile, è riservata una parte importante della prima sezione del numero speciale, con articoli su Hitler («Fenomeno e portento») di Paul Scheffer , corrispondente da Washinghton del Tageblatt di Berlino e di Hamilton F. Amstrong, («Terzo Reich»), allora direttore di Foreign Affairs e di Erich Koch - Weser ex ministro della Giustizia tedesco e leader del Partito Democratico («Forze radicali in Germania»).
in Europa, dopo la ventata totalitaria, vi sarebbe stata una rinascita del liberalismo, ma non si sarebbe trattato di un ritorno all’indietro. Croce non dava, infatti, per scontato che certe istituzioni del “vecchio”liberalismo sarebbero state restaurate, ma anzi sosteneva che esse dovevano essere rinnovate o rimpiazzate con qualcuna più adatta ai tempi e che nuove classi dirigenti sarebbero emerse per imporre queste riforme. Il filosofo napoletano si diceva, inoltre, convinto che le esperienze vissute avrebbero favorito il prevalere di nuovi concetti e fatto adottare nuove direzioni più confacenti alla volontà del popolo e che in questa nuova atmosfera sarebbero stati ripresi in considerazione i problemi sociali. Lo scritto conteneva, inoltre, una profezia - già peraltro vaticinata nella “Storia d’Europa” - che era rivolta sia agli avversari del liberalismo sia a coloro che in Italia e nel mondo si opponevano al totalitarismo: rispondendo a chi gli domandava che futuro avrebbe avuto l’ideale della libertà, affermava che la «libertà ha più che un futuro, ha l’eternità».
In questo scritto vi sono contenuti i prolegomeni del “nuovo liberalismo” e veniva riaffermata la fede nella “religione
della libertà”. Sarà questa la fede che sosterrà gli antifascisti nella loro lotta contro la dittatura e che prevarrà sulla certezza che il duce nutriva di aver “messo in soffitta” l’ideale della libertà. Sarebbe troppo lungo descrivere il dibattito sul nazismo e sul comunismo rievocato in questo numero della rivista che è
In queste pagine: la copertina del nuovo numero di «Foreign Affairs»; la locandina del film «The day after tomorrow»; un manifesto dell’Urss di Stalin; Mussolini e Hitler
Completano questa rassegna sul totalitarismo e la crisi delle democrazie liberali alcuni altri articoli dovuti ad intellettuali che andavano allora per la maggiore sulle prospettive di una ripresa del liberalismo. Tra questi merita una citazione quello di C. H McIlwain, («La Ricostruzione del Liberalismo», 1937), professore di Scienza del Governo ad Harvard, il quale proponeva una soluzione: rifondare un regime di libertà economica temperato da un sistema di welfare, nel quadro di uno stato costituzionale; quello di Geoffrey Crowther, direttore dell’Economist, del 1944
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(«Libertà e Controllo») il quale osservava che il divorzio tra liberalismo e democrazia aveva aperto la strada al totalitarismo e l’abbandono dell’economia di mercato aveva portato al controllo dello stato. Se l’economia libera aveva difficoltà ad assicurare l’eguaglianza e la piena occupazione, l’economia di stato si era dimostrata incapace a garantire la libertà.
Tuttavia le democrazie anglosassoni erano le uniche a resistere alla sfida totalitaria, perché erano riuscite a trovare un equilibrio tra l’eguaglianza e la libertà. L’unico modo con cui era possibile, secondo l’eminente giornalista britannico, evitare l’assassinio del liberalismo, da parte del fascismo e del nazismo era la nascita di una nuova fede nella democrazia. Mancherà poco più di un anno alla
si medie? Come si supererà l’impasse dell’ingovernabilità creato dalla globalizzazione per cui si è creato un divario tra ciò che chiedono gli elettori in termini di occupazione, di sicurezza sociale , di benessere economico e ciò che devono fare i governi per mantenere sotto controllo i bilanci? Infine, come dare una risposta vincente alla sfida del populismo interno, del fondamentalismo islamico e all’emergere di grandi potenze autoritarie ma fortemente competitive? Per Francis Fukuyama («Il futuro della storia») la stagnazione dei salari e la crescente ineguaglianza rischia di destabilizzare le liberaldemocrazie e detronizzare l’ideologia democratica. Ciò di cui vi è bisogno, secondo lui, è una nuova ideologia populista che rafforzi una società di classi medie; Charles Kupcan («Il malessere
Il fascicolo è introdotto da un editoriale del direttore Gideon Rose il quale, ricordando come le potenze alleate riuscirono a sconfiggere i nemici, dà una risposta comunque incoraggiante sul futuro sconfitta del nazi-fascismo, anche se ce ne vorranno più di quaranta per vedere la caduta del comunismo. Non è possibile dare conto, infine, di quegli articoli, inclusi nella seconda sezione, che cercano di rispondere ad una serie di domande, che ci dobbiamo porre dinanzi all’attuale crisi e che cerchiamo di riassumere senza aver l’ambizione di esaurire l’inventario delle cause che la hanno determinata: la liberaldemocrazia sopravviverà al declino delle clas-
democratico») nel segnalare con allarme il malessere crescente nei Paesi democratici che è destinato a creare una situazione di instabilità, se i governi non si dimostrassero capaci di mettere ordine nei loro conti. Slomo Aviri nel suo saggio («Lo strano trionfo del liberalismo») fa la tara alle illusioni che si erano nutrite al momento della caduta del muro di Berlino su una vittoria finale del liberalismo nei confronti del comunismo ed invita il mondo occidentale non pensare che il fondamentalismo liberista, le privatizzazioni radicali e la paura dello stato siano delle risposte idonee per fronteggiare la crisi e per creare un nuovo ordine moderno. E forse, pensiamo noi, un ritorno al keneysismo non sarebbe sufficiente per innestare la crescita con un deficit spending ma forse potrebbe affossare ancora di più gli stati oppressi dal debito sovrano: forse tagli selettivi alla spesa corrente e liberalizzazioni potrebbe meglio servire allo scopo.
Ha ragione G. Rose a ostentare ottimismo sulla tenuta a lungo termine del modello liberaldemocratico ma, a differenza di quanto accadde negli anni Venti e Trenta, quando le democrazie rappresentative sembravano dover essere definitivamente sconfitte, sta nel fatto che alla marea montante del totalitarismo si oppose una resistenza da parte di chi conservò la fiducia in quel modello, in Inghilterra ed in America, ma anche, da parte di chi sotto la scure del totalitarismo continuava a credere nella libertà. Oggi questa fiducia in Europa sembra venir meno, e la salvezza difficilmente ci potrà venire ancora una volta dall’esterno.
parola chiave MERAVIGLIA
È metafora dell’umanità, la possibilità data all’uomo di raggiungere Madre Natura. Un percorso etico ed estetico che include il “maggio odoroso”, le Piramidi, il Taj Mahal, l’Odissea... di Franco Ricordi iamo in maggio, il mese più bello, da sempre celebrato anche nel senso delle sue naturali meraviglie. Così l’ispirazione corre proprio verso questa parola, meraviglia, di cui evidentemente stentiamo a comprendere il vero significato. Un ricorso alla poesia e alla filosofia sarà d’obbligo, anzi è proprio quello che ricerchiamo: maggio, questo mese definito da Heinrich Heine wunderschoen, appunto meraviglioso, è stato in realtà decantato in tal senso un po’ da tutti i poeti. Pensiamo a Leopardi, quando ricorda il «maggio odoroso» della bella Silvia, e il riferimento ai fiori e in particolare alle rose ha coinvolto quasi tutti i maggiori compositori di rime nei secoli. Evidentemente la stessa “ispirazione”, nel senso olfattivo del termine, è legata a quel fattore odoroso che Leopardi attribuisce al maggio, pertanto potremo pensare anche a una quintessenza fisiologica di questo nostro mese delle meraviglie. Ma il termine meraviglia viene spesso associato, e in tali casi anche tradotto, con incanto, prodigio, o con ancor più affinità, “miracolo”; e quest’ultimo, pur essendo molto vicino, ha certamente un significato di-
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verso. La meraviglia è comunque legata a un fattore che possiamo definire estetico; anche se, per inciso, raramente ne abbiamo letto nei grandi trattati filosofici, da Kant a Hegel fino ai nostri giorni: laddove i concetti di bello e di sublime sono oggetto dello studio critico, e invece il meraviglioso sembra essere qualcosa che supera tale dimensione. E forse non a caso: la stessa filosofia, con Platone nel Teeteto poi nella Metafisica di Aristotele, «nasce dalla meraviglia» (Thauma è la parola esatta, anche se alcuni hanno contestato la traduzione con tale parola), tuttavia è pure evidente che l’accezione filosofica possa riferirsi a una meraviglia in senso negativo, ovvero sconvolgente - la meraviglia dell’essere qui, del poter semplicemente vivere al mondo - e non precipuamente al senso estetico.
Tuttavia i due sensi della meraviglia e del miracolo non si escludono, ma il rimando al miracolo include necessariamente qualcosa di più religioso o teologico. Quando Emmanuel Levinas parla della famiglia come di un miracolo (ma per la verità in francese è scritto proprio merveille), il rimando etico,
ma anche religioso, è implicito. Pertanto in tal caso ci troviamo su di un piano in cui etica ed estetica, religione e immaginazione, in qualche maniera coincidono, si coniugano l’una nell’altra. Questo è forse il livello che potremmo definire “positivo” della meraviglia, che naturalmente ci spinge a una riflessione ulteriore sulla famiglia come quintessenza nucleare dell’umanità stessa, quindi alle possibilità del prosieguo di questa nostra meravigliosa, inesplicabile ancorché tragica, avventura umana; laddove invece Hannah Arendt fa presente come le ideologie novecentesche rimangano “in superificie”, e non si interessino mai del miracolo, ovvero della meraviglia dell’essere: si accontentano della storia. Ma proprio il senso del tragico incalza dall’altra parte, spingendoci a considerare la meraviglia come lo stesso stupore assoluto dell’essere, che corrisponde alla possibilità del non-essere. È quello che dice Otello a Desdemona quando, dopo la tempesta che lo ha colto in mare, finalmente la ritrova nell’isola di Cipro: «La meraviglia di vederti qui è tanto grande… e se dovessimo morire questo sa-
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per saperne di più
hanno detto Aristotele
Omero Odissea Einaudi
Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori.
Platone Teeteto Laterza Aristotele Metafisica Laterza
André Breton Il meraviglioso è sempre bello, anzi, solo il meraviglioso è bello.
Shakespeare Otello Einaudi
Thomas Carlyle La meraviglia è la base dell’adorazione.
Martin Heidegger Introduzione alla Metafisica Mursia
Platone La meraviglia è propria della natura del filosofo; e la filosofia non si origina altro che dallo stupore.
Hannah Arendt Le origini del totalitarismo Edizioni Comunità
Tacito Tutto ciò che è ignoto si immagina pieno di meraviglie.
Emmanuel Lévinas Totalità e infinito Jaka Book
Oscar Wilde Il pensiero è meraviglioso, ma ancor più meravigliosa è l’avventura.
Emanuele Severino La Gloria Adelphi
rebbe il momento più felice… la gioia suprema, che mai il destino potrà darne un’altro eguale». La più grande gioia corrisponde alla consapevolezza tragica dell’essere nel mondo. In maniera analoga si esprime Martin Heidegger quando, all’inizio della sua Introduzione alla metafisica, afferma come la domanda perché vi sia l’essere piuttosto che il nulla possa sorgere, in realtà, anche nei momenti di più grande e assoluta gioia.
La “gioia tragica” di Nietzsche è tradotta da Heidegger nello stupore del poter essere, in quei pochi casi della vita in cui tutto sembra andare talmente bene che, alla fine, si dubita se tale situazione possa semplicemente esistere; così anche Emanuele Severino dedica al concetto di gioia gran parte dei suoi scritti, la gioia dell’essere in quanto tale, che mai potrà essere inteso come divenire: quindi un essere assoluto, parmenideo, che esclude per sua quintessenza la stessa possibilità del nonessere, e che riguarda tutti gli enti che sono. Ma certo il fattore estetico non è di minore importanza e, potremmo asserire, di fronte a certe “meraviglie del mondo” la stessa contemplazione estetica sembra condurci al di là del bello e del sublime, ovvero in una dimensione che sembra amalgamare l’uno nell’altro: la vista della Piramidi in Egitto, non a caso una delle sette meraviglie dell’antichità, può provocare questa sensazione. Anche se oggi l’allargamento delle “meraviglie del mondo” (addirittura 25,
Giambattista Vico La maraviglia è figliuola dell’ignoranza.
La città di Venezia, concreta e marina, costruita su palafitte dell’essere, rappresenta un riferimento assoluto nell’ambito del meraviglioso. Sembra avvicinare la vita all’arte e l’arte alla vita
forse un po’ troppe) può apparire sinonimo di una mercificazione di tale ambito, tuttavia non si potrà dubitare della forza maggiore, estetica ma anche cognitiva, di alcune grandi creazioni: il Taj Mahal è certamente un monumento che descrive, e rappresenta, l’India. E così si può pensare di ulteriori creazioni o costruzioni umane. Tuttavia la quintessenza del meraviglioso ci riporta anche alla narrazione e all’immaginazione; e in questo senso non
possiamo non risalire a quell’opera omerica, l’Odissea, che forse meglio di ogni altra ci ha insegnato, in Occidente, l’esLe Piramidi di Giza. Sopra, particolare di una veduta di Venezia di Canaletto. Nella pagina a fianco, una scena dal film “Alice in Wonderland” e un fotomontaggio col Taj Mahal, una delle attuali 25 meraviglie del mondo
senza della meraviglia: il coniugarsi dell’avventura epica con la geografia proprio di quell’opera - allora in parte reale in parte immaginaria - ci regala qualcosa di assolutamente meraviglioso, che affascina e ha affascinato anche i bambini di ogni tempo, ma che poi è stato oggetto di sedimentazioni letterarie in tutte le epoche. Sullo sfondo dell’Odissea spumeggia il mare, quel mare Mediterraneo, o Mare Nostrum, che meglio di ogni
altro assurge a “mare dell’essere”, nella narrazione tragica ma anche solare, calma e profonda. Ed è proprio questo grande “mar dell’essere”, in ultima analisi, che rappresenta l’ultimo stadio della meraviglia; e non a caso viene ripreso da Dante, che ne fa la prima essenziale visione paradisiaca, e ancor più fortemente da Leopardi, quando descrive l’amore come «il piacer maggiore che per lo mar dell’essere si trova».
È evidente come in tali casi il concetto stesso del meraviglioso superi il suo specifico naturale, le varie “meraviglie della natura” che ci è dato riscontrare nella nostra esistenza, ma anche quelle più contingenti della storia, attraverso le quali l’umanità forse ha saputo interpretare la stessa natura. Così a nostro avviso la città di Venezia, concreta ma nel contempo marina, costruita su palafitte dell’essere, rappresenta un riferimento che si può dire assoluto nell’ambito del meraviglioso. E non è nemmeno un caso che nel XX secolo Venezia sia divenuta sede dell’esperienza artistica per eccellenza, con la sua Biennale dell’Arte. L’esperienza estetica veneziana sembra davvero avvicinare la vita all’arte e l’arte alla vita. In tal senso la meraviglia è forse la prima e più grande attestazione umana, la possibilità che soltanto l’uomo ha di raggiungere lo stesso livello della sua infinita madre, la natura. Pertanto la meraviglia è la prima e vera grande metafora dell’umanità.
ULTIMAPAGINA Approvata una legge che permette (ad adulti e minori) di scegliere a quale genere appartenere
Argentina, dove il sesso è di Luisa Arezzo è chi la chiama una svolta. In Argentina giovedì notte il Senato ha approvato una legge sull’identità di genere. La norma, approvata con 55 voti a favore ed un solo astenuto - in questo caso una donna, Graciela di Perna - aveva già passato il vaglio della Camera dei deputati nel dicembre scorso. E da ieri, davanti a una piazza in festa, è entrata in vigore. «L’identità di genere è un’esperienza intima e personale, che può corrispondere o meno con il sesso assegnato al momento della nascita», recita il testo, che evidentemente interpreta come casuale e non stigmatizzante la scelta di madre natura. Da oggi ogni argentino sarà libero di cambiare sulla propria carta d’identità il sesso a seconda della propria percezione personale. Liberamente dopo la maggiore età (18 anni), e con il consenso dei genitori se minori (ma solo dopo gli otto anni, che prima la percezione di genere potrebbe essere errata). «Ogni persona potrà rettificare legalmente il sesso, il cambio di nome e di immagine quando non corrispondono con l’identità di genere autopercepita» cita la norma, e per facilitare il “passaggio” saranno anche garantiti a tutti gli specifici servizi sanitari a carico dello Stato. Ma attenzione, non necessariamente. Un uomo o una donna potrebbero percepirsi intimamente del sesso opposto e chiedere di “saltare il fosso” senza doversi sottoprre a nessuna operazione o cura ormonale, come oggi spesso accade. Per ottenere carta d’identità e certificato di nascita nuovi, basterà fare una semplice richiesta amministrativa: e il cambio sarà fatto. Se ancora non fosse sufficientemente chiaro, l’Argentina ha approvato una legge che di fatto cancella la differenza biologica fra gli esseri umani. Sessualmente parlando, noi non siamo più ciò che nasciamo, ma scegliamo cosa diventare, come se il sesso fosse soltanto una sovrastruttura culturale e il nostro corpo una scatola neutra che ci è permesso modellare a nostro piacimento. «Io sono quello che voglio essere» insomma, secondo i dettami del più estremo relativismo etico. Ma c’è di più: la legge è molto ambigua. Perché non entra nel merito del genere scelto. Ad oggi il cambio è fra maschio e femmina, ma nulla vieta che qualcuno possa un domani chiedere di essere riconosciuto come trans od omosessuale. E questo certamente accadrà. A voler essere superficiali, potremmo limitarci a giudicare l’Argentina come un territorio bio-eticamente compromesso (o all’avanguardia, dipende dai punti di vista). Ma non è così.
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FAI DA TE
«Ogni persona potrà rettificare nome, identità e immagine» secondo la propria percezione personale. Di fatto il governo Kirchner ha cancellato la differenza biologica fra gli esseri umani
Perché questa deriva arriva da lontano ed è stata ipotizzata prima e pasciuta poi soprattutto in seno al movimento neo femminista, che col tempo è riuscito ad imporre che sui documenti degli organismi internazionali comparisse, infiltrandosi dappertutto con la velocità di una pianta infestante, il termine “genere”. Che significa: non esiste un’unica differenza sessuale (quella maschio/femmina), ma tante differenze, legate all’orientamento sessuale, alla razza, alla cultura e alla condizione sociale. Su questi presupposti si è sviluppato il vero e proprio pensiero ”gender”, che si allarga fino a destituire totalmente di significato la dualità maschio/femmina, operando una separazione sempre più netta tra la differenza sessuale biologica e la costruzione dell’identità, sociale e psicologica. Il fatto che a maschi e femmine venga assegnata un’identità sessuale definita in base ad alcuni caratteri anatomici è, per i sostenitori del “genere”, solo una convenzione, una costruzione culturale, a cui contribuiscono
potentemente i condizionamenti messi in atto dalla società e dalla famiglia. La differenza maschio/femmina, insomma, non ha alcun fondamento nella realtà: si tratta solo di un “discorso” connesso alle pratiche del potere, e fondato sull’esclusione di chi è diverso.
L’adozione indiscriminata del termine più che mai ambiguo di gender da parte delle Nazioni Unite prima, e dell’intero universo occidentale poi, ha avallato una spaventosa confusione generale. Che gli organismi internazionali si sono forse illusi di poter maneggiare e che invece, Argentina docet, gli è sfuggita di mano. Perché una volta sfondato l’argine della differenza biologica, il corpo diventa un’astrazione e il fiocco rosa o celeste messo sulla culla diventa un marchio, uno stigma da demonizzare. Quello stigma, ieri, il Senato argentino lo ha crocifisso e questo apre a prospettive tetre. «La normativa rappresenta una conquista per le comunità gay, lesbica e trans argentine», dicono i quotidiani argentini. Che la riconoscono come un enorme passo avanti in ambito dei diritti umani e civili. La senatrice Sonia Escudero afferma che «la comunità trans ha una speranza di vita di 35 anni e più del 90% si trova in situazioni precarie come la prostituzione e l’abbandono della scuola. Finora, senza questa normativa circa 22mila persone in tutto il paese erano state completamente escluse dai diritti umani fondamentali».