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Quasi sempre, in politica, il risultato è contrario a ogni previsione

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François-René De Chateaubriand di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 23 MAGGIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Aiuti per 50 milioni ai paesi distrutti dalle scosse di domenica: «La rinascita parta da loro», dice il premier

La carica dei trenta miliardi Monti: quattro decreti per la crescita. E per le zone terremotate Il governo vara la restituzione di una parte dei debiti alle aziende in credito con lo Stato. È il primo atto per rimettere in movimento l’economia. Imu sospesa per l’Emilia ferita IL DOPO TERREMOTO

La lezione che arriva dalle amministrative

Il Paese soffre, tutti tengano i nervi a posto

Cambiare o morire I partiti dopo lo tsunami Commentando il boom di Parma, Grillo spara sul Pd: «Bersani? Un morto che cammina». Il segretario democratico: «Stia più calmo». La politica è stata travolta dal voto *****

Massimo Cacciari

«Attenti, l’unica soluzione è il modello Monti» «Vedo che la sinistra continua a subire il richiamo della “foto di Vasto”: così non andrà da nessuna parte. I cittadini sono disorientati. Perciò sono passati da un populista a un demagogo»

di Osvaldo Baldacci

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Il partito di Alfano si astiene

Severino accelera: via libera in Commissione al decreto anticorruzione Il testo della Guardasigilli che vincola chi esercita funzioni pubbliche è stato votato da Pd, Udc, Fli e anche dalla Lega Marco Palombi • pagina 4

Dal Cancelliere tedesco nuove resistenze agli investimenti

L’assedio alla Merkel

Paolo Pombeni

«La politica si rinnovi. Anche cambiando facce» «L’antipolitica non si batte imitando Grillo o il primo Berlusconi che prometteva tutto, ma tornando a fare vera politica, con veri progetti. E magari anche con nuovi volti da presentare»

Alessandro Campi

«Ci vuole un’idea forte o sarà ingovernabilità» «La maggioranza degli elettori percepisce tutte le proposte come indefinite: solo con un progetto alternativo si può battere l’astensionismo. Casini sfidi Berlusconi e si candidi alla guida dei moderati» Franco Insardà e Riccardo Paradisi • pagine 5, 6 e 7 EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

a terra continua a tremare, delle persone sono morte, altre sono in gravi difficoltà, le case crollano, le aziende vedono a rischio il loro futuro lavorativo, e di conseguenza anche l’occupazione. È ovvio che l’emozione e la rabbia prevalgano in questi momenti drammatici. Se si aggiunge lo stato di oggettiva tensione economica e sociale del Paese, e il fatto che in molti, troppi, speculano politicamente sulle difficoltà della gente e sulla conseguente rabbia, ecco che si possono capire anche le stonate contestazioni al presidente Monti. Si possono capire, non giustificare. a pagina 2

Stasera il vertice europeo, Germania isolata di Enrico Singer

Le divisioni da superare

Servono ideali non ideologie

ome far coesistere il Patto di bilancio, voluto da Berlino e già sottoscritto dalla Ue, con il Patto per la crescita voluto da Francia, Italia, Spagna che dovrebbe essere varato dal vertice europeo di fine giugno? Questo è il problema che i leader dei Ventisette affronteranno stasera in una cena a Bruxelles dove si mangerà poco e si discuterà molto perché gli auspici della vigilia non sono fausti. a pagina 10

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• ANNO XVII •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

di Francesco D’Onofrio on si è mai ascoltato o letto tanto sull’Europa quanto in queste ultime settimane. Per un verso, è come se si fosse all’improvviso scoperto che esiste un contesto non solo economico legato al nostro continente. a pagina 10

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 23 maggio 2012

l’Italia dopo il voto Il Consiglio dei ministri vara quattro decreti per promuovere la crescita

Adesso lo Stato paga i debiti Entro l’anno, 30 miliardi alle aziende per favorire nuovi investimenti. Monti in visita dai terremotati emiliani: «Imu sospesa e 50 milioni alla ricostruzione» di Franco Insardà

ROMA. Altri al suo posto, dopo il terribile weekend vissuto dal nostro Paese, avrebbero perso la calma. Il professor Mario Monti, invece, affronta i vari dossier con consapevole determinazione, dimostrando ancora una volta di saper bene dove mettere le mani. Spinge sull’acceleratore per dare “carburante” alle nostre aziende che «affrontano con determinazione la crisi». Precisa, rispetto alle stime dell’Ocse 2012, presentate ieri a Parigi, secondo le quali in Italia la recessione potrebbe richiedere ’“l’adozione di alcune misure di bilancio supplementari”: «Non vedo all’orizzonte una nuova manovra» e aggiunge: «Come sempre l’Ocse ci conforta per quanto riguarda le valutazioni di politica economica e sulle riforme strutturali, con la’conferma delle prospettive di pareggio strutturale».

Rassicura i cittadini dell’Emilia,ancora sotto la pioggia e con l’incubo di nuove scosse di terremoto: «C’è la possibilità di sospendere i pagamenti fiscali. Troveremo coperture adeguate per interventi immediati». E infatti il Consiglio dei ministri ha stabilito che lo stato di emergenza durerà 60 giorni per i territori delle province di Bologna, Modena, Ferrara e Mantova; subito a disposizione 50 milioni di euro del Fondo

per la Protezione Civile per sostenere le spese per i soccorsi, l’assistenza e la messa in sicurezza provvisoria dei siti pericolanti; provvedimenti sui pagamenti fiscali, con un intervento che consenta ai Comuni colpiti un allentamento del patto di stabilità interno e il rinvio del pagamento dell’Imu per le abitazioni e gli stabilimenti industriali che saranno dichiarati inagibili.

Il governo ieri ha messo in campo gli interventi per far ripartire la macchina delle imprese italiane, che, come ha chiarito Monti, sono rappresentati da «quattro decreti che mirano a ridurre lo stock», dei debiti delle imprese verso la Pubblica Amministrazione. Misure con le quali il governo dovrebbe smaltire, ha detto il premier «una quota di 20/ 30 miliardi già nel corso di quest’anno. Il governo intende recepire la direttiva europea sui ritardati pagamenti entro fine anno», in anticipo, quindi, rispetto ai tempi previsti per marzo 2013. Per il premier «il recupero dei credito è una questione importante. Sono le aziende più piccole e innovative che in questa fase non hanno abbassato la testa e stanno affrontando la crisi con determinazione. E sono queste imprese che hanno bisogno di liquidità e di riaccendere il motore». Il presidente del Consiglio ha

Dopo le proteste (non sempre utili) in Emilia

Il Paese soffre, tutti tengano i nervi a posto di Osvaldo Baldacci a terra continua a tremare, delle persone sono morte, altre sono in gravi difficoltà, le case crollano, le aziende vedono a rischio il loro futuro lavorativo, e di conseguenza anche l’occupazione. È ovvio che l’emozione e la rabbia prevalgano in questi momenti drammatici. Se si aggiunge lo stato di oggettiva tensione economica e sociale del Paese, e il fatto che in molti, troppi, speculano politicamente sulle

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difficoltà della gente e sulla conseguente rabbia, ecco che si possono capire anche le stonate contestazioni al presidente Monti. Capire, non giustificare. Non c’è nulla di più fuori luogo. È come il paziente malato, magari anche per responsabilità propria e di chi lo ha avuto prima in cura, che ora se la prende col dottore che cerca di salvarlo. Un piccolo gruppo di cittadini di Sant’Agostino nel ferrarese hanno accolto con fischi e “buu” il premier recatosi a portare le sue condoglianze ai familiari

degli operai morti, contestatori che hanno denunciato il loro disagio per le tante tasse, per l’Imu, insieme al timore che le spese della ricostruzione del dopo terremoto pesino sulla cittadinanza.

Vogliamo sperare che l’emotività del dramma del terremoto abbia contribuito ad annebbiare la lucidità dei contestatori. Non perché non si possa contestare, per carità, siamo in democrazia. Ma proprio perché è particolarmente stonato farlo in quelle circostanze,


l’Italia dopo il voto ribadito «la consapevolezza del ruolo centrale delle imprese nel rilancio della nostra economia in un quadro finanziario risanato, come quello che abbiamo realizzato. Pensiamo sia giunto il momento e ci siano le possibilità tecniche per sistemare parzialmente il problema di liquidità della imprese».

Soddisfazione è stata espressa da Pier Ferdinando Casini: «Oggi è una giornata molto positiva per il governo e per l’Italia. Finalmente in commissione abbiamo approvato il provvedimento anticorruzione che è un segnale forte e importante per tutto il Paese. Nello stesso tempo, il presidente del Consiglio ha annunciato i decreti ministeriali sulla certificazione dei crediti delle imprese nei confronti della pubblica amministrazione. Siamo molto contenti che alle chiacchiere segua la politica dei fatti e che oggi il governo con queste due iniziative abbia dimostrato che questo è il modo migliore per aggredire la crisi e le avversità che si abbattono sul Paese. Benzina nel motore dell’Italia per crescere perché non si vive di solo rigore. Di solo rigore si rischia di morire e finalmente sbloccare i crediti delle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione è quello che si aspettava». Alle parole di Monti si sono aggiunte quelle del ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera: «Oggi si dà una risposta molto concreta e molto forte e anche inaspettata a un problema grave. È stata trovata una soluzione per l’immediato, ma la soluzione definitiva e strutturale è l’adozione della direttiva europea». A sostegno delle misure prese dal governo il presidente dell’Abi, Giuseppe Mussari, ha presentato l’accordo che prevede la messa a disposizione di 20 miliardi per l’anticipazione dei crediti della Pubblica amministrazione varati dal governo. Mussari si è augurato che «le aziende utilizzino questo plafond e che tutte le banche aderiscano così come hanno fatto con la moratoria». Nel suo martedì denso di impegni Monti ha dovuto anche incassare una piccola contestazione a Sant’Agostino, il paese in cui sono morti i tre operai, dove

era in visita con il presidente della Regione Emilia Romagna: «Con il presidente Errani si pensa a un intervento che mobiliti le forze locali, le banche, per aiutare gli imprenditori». Sul decreto di riforma della Protezione civile, all’esame del Parlamento, ha aggiunto: «Questo evento sismico è avvenuto pochi giorni dopo la pubblicazione del decreto legge che noi riteniamo sia un passo importante verso un sistema più razionale ed efficiente di protezione civile, che sta dando buona prova in questa prima occasione. Se ci sono degli aspetti nei quali è possibile migliorare siamo aperti a ogni considerazione ma riteniamo che questo decreto sia un importante passo avanti verso un sistema di protezione civile migliore e che crei in tutti un maggiore senso di responsabilità. Per esempio scoraggiando il ricorso, purtroppo diffuso in Italia, e non mi riferisco a questa situazione specifica, a costruzioni abusive o non in regola».

E mentre Monti era in Emilia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, riferiva alla Camera sulla situazione: «In tutto per il sisma sono state evacuate 5262 persone a fronte di 7mila posti letto messi a disposizione dal sistema integrato della protezione civile». Catricalà ha ribadito l’impegno del governo per i cittadini terremotati, precisando: La deroga al patto di stabilità, il rinvio del pagamento dell’Imu, l’intervento da subito sul patrimonio culturale pubblico non sono gratis, non sono senza spese». Il sottosegretario ha spiegato gli estremi del decreto legge sulla Protezione civile : «Lo stato di emergenza duri di regola 60 giorni nella prima ordinanza, poi prorogabili di regola di altri 40: quel “di regola” significa che può esserci un’eccezione in ragione di particolari e gravi esigenze, valutate dal governo, senza un tetto massimo, per cui i secondi 40 giorni possono diventare 100, 200 o 300». A fine serata il professor Monti a Palazzo Chigi ha incontrato per una cena di lavoro il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Mentre questa sera è atteso a Bruxelles per la cena informale tra i capi di Stato e di governo.

Casini: «Benzina nel motore dell’Italia per crescere perché non si vive di solo rigore. Di solo rigore si rischia di morire»

durante una visita difficile a chi sta molto soffrendo, una visita destinata a rendersi conto della situazione per operare in funzione di una soluzione. Una visita che ha dato i suoi frutti, perché sono stati presi dei provvedimenti assolutamente auspicabili e necessari ma non scontati in questi momenti difficili. È stata individuata la necessità di aiutare particolarmente il tessuto produttivo. Inoltre da più parti ormai si è resa chiara la necessità di fermare la nuova normativa che prevede il mancato rimborso pubblico ai privati di fronte alle calamità naturali: è del tutto evidente come un principio del genere possa anche essere valido, seppur doloroso, ma ha bisogno di tempo per entrare a regime, anche perché funziona in ragione della stipulazione di assicurazioni private. Invece questo sisma ha colpito troppo presto, è sfortunatamente sopravvenuto quando l’entrata in vigore della norma era di fatto solo teorica, virtuale, senza che ci sia stato il tempo di provve-

dere. C’è poca chiarezza su questa norma troppo recente, e serve un sovrappiù di riflessione. Il premier ha anche assicurato che non ci saranno nuove tasse per pagare la ricostruzione.

Comunque, per tornare al tema politico, anche queste vicende mostrano che c’è senz’altro una insofferenza da parte degli italiani (a prescindere dai pochi contestatori) ma che questa insofferenza è male indirizzata. Si indirizza contro il dottore e contro i sintomi, ma mai contro la malattia. Un comportamento del tutto irrazionale che se può essere compreso quando si innesta su persone il cui equilibrio emotivo è ancora molto scosso, non si spiega allo stesso modo quando è così diffuso nel Paese. è qui che bisogna tenere il sangue freddo, bisogna avere la lucidità di tenere la barra dritta. Quello che va sottolineata è la differenza tra governare e gestire. Il governo ha il compito di governare, la classe dirigente ha il compi-

to di dirigere. Sembrano cose ovvie, ripetitive, ma è quello che è andato perso negli ultimi lustri. E per questo oggi un governo che cerca di governare, cioè di prendere decisioni guardando al bene comune e rifiutandosi di accondiscendere ai desideri di questi e quelli crea reazioni negative. Per troppo tempo la politica si è abituata a gestire, a gestire l’esistente, a inseguire i sondaggi, la pubblica opinione, i desiderata della gente, senza preoccuparsi delle conseguenze. Che ora sono arrivate. E ora è il momento non più di gestire (c’è ben poco da gestire, poche risorse da distribuire, insufficienti a “comprare” il consenso), ma di governare. Se questo comporta dei fischi, non importa. È chi fischia che dovrebbe riflettere, anche se bisogna sempre cercare di capire le ragioni dei fischi. Ma questo non deve fermare. L’Italia va riformata, il Governo agisca con quella prontezza con cui sta reagendo alla tragedia del terremoto.

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l’Italia dopo il voto

In Commissione passa il testo proposto dal ministro della Giustizia. Oltre al Pd, votano a favore anche Lega, Udc e Fli

Severino corre

Primo via libera al decreto anticorruzione con l’astensione del Pdl. E Grillo se la prende con Bersani: «È solo un morto che cammina» di Marco Palombi

ROMA. Il giorno dopo il botto elettorale, alla fine, non è tanto dissimile da quello prima. Si ricomincia, guarda il caso, dalla giustizia, in particolare da quella via crucis che è il ddl anticorruzione, ieri finalmente avviatosi ad uscire dalla commissione II di Montecitorio per approdare in Aula (poi bisognerà ripassare comunque in Senato). Si parla della somiglianza tra il prima e dopo le amministrative non tanto per la cronaca, visto che sul disegno di legge pare si sia trovato un accordo di massima dentro la maggioranza, che è una bella novità, ma perché la materia del contendere è la stessa su cui ci intratteniamo da anni e che, assai di recente, è stata la portata principale del pranzo tra Mario Monti e Silvio Berlusconi. Il Cavaliere aveva ricordato al premier che lui è un perseguitato, che è sotto processo per concussione e se si allungano le pene finiscono magari per condannarlo davvero e, non bastasse, che il reato di traffico di influenza tra P3, P4, processi alla cricca e quant’altro rischia invece di ammazzargli l’intero staff. Ebbene il testo già presentato dal ministro Severino potrebbe riuscire utile al Cavaliere quanto al processo Ruby: il ddl, infatti, punta a distinguere nel reato di concussione tra induzione – cioè diciamo una leggere spintarella a fare qualcosa di scorretto – e la costrizione, con relativa diminuzione di pena nel primo caso (che poi è quello che interessa il nostro, visto che i funzionari della Questura che rilasciarono l’allora minorenne marocchina sarebbero stati indotti, non certo costretti, a violare le normali procedure). Non c’è stato niente da fare, invece, sulla questione del traffico di influenze: alla fine, l’emendamento escogitato ieri dal Guardasigilli non piace proprio al Pdl, che s’è astenuto in commissione rinviando la controffensiva all’aula. La nova formulazione, infatti, punisce da uno a tre anni chiunque,“sfruttando”le sue relazioni con un pubblico

I dati impietosi dell’annuario Istat

Un Paese sempre più spaccato in due tra ricchi e poveri ROMA. La fotografia annuale dell’Italia fatta dall’Istat non ammette mezze misure: siamo un Paese di enormi contraddizioni: appena il 20,3% dei figli degli operai è arrivato all’università, contro il 61,9% dei figli delle classi agiate, della generazione nata negli anni ’80; il 30% dei figli degli operai abbandona le scuole superiori contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. Insomma, la selezione sociale comincia a scuola: con la crisi, poi, le disuguaglianze si sono ampliate a livelli insopportabili per un Paese civile. Infatti, se un “Paese civile” colma le disuguaglianze attraverso la scuola e i servizi sociali, in Italia la scuola prende atto di questa situazione appena si conclude il ciclo obbligatorio, e i servizi sociali aumentano a dismisura le disparità tra Nord e Sud, uomini e donne, garantiti e atipici, giovani e anziani. D’altra parte, che l’ascensore sociale si fosse bloccato da oltre 50 anni non ce ne siamo accorti inizialmente per via dei cambiamenti nella struttura dell’occupazione. Ma neanche il fisco, secondo l’Istat, ha un effetto redistributivo. In particolare perché, dimostra l’istituto di statistica, «gli abbattimenti e le deduzioni dell’imponibile, invece, favoriscono particolarmente le famiglie ad alto reddito e riducono la progressitività».

ufficiale, procura vantaggi per sé o terzi dando o promettendo «denaro o altro vantaggio patrimoniale», pena che aumenta nel caso che il faccendiere sia lui stesso un pubblico ufficiale o se il traffico avviene in relazione all’attività giudiziaria. Basta pensare ai processi per i grandi appalti della Protezione civile o al sistema di intelligence anche giudiziario di Luigi Bisignani e Alfonso Papa per capire quanto siano preoccupati in zona palazzo Grazioli.

Tant’è, ieri era il momento dell’accordo di facciata: alla fine sul testo votano a favore Pd, Udc, Fli e pure Lega, si astiene (ma con “un’astensione fiduciosa”, spiega Enrico Costa) il Pdl e vota contro Italia dei Valori, anche se inizialmente aveva deciso di ritirare i suoi subemendamenti. È il risultato del blitz del ministro Severino, che nel week end e ancora ieri mattina – dicono fonti parlamentari – era arrivata a minacciare le sue dimissioni se l’ostruzionismo del Pdl fosse continuato. Non a caso Pier Ferdinando Casini riconosce il ruolo trainante del Guardasigilli nell’ormai tradizionale commentino via twitter: «Severino si assume la responsabilità di decidere sull’anticorruzione nel nome dell’interesse generale. Bene!». «Cercheremo di arrivare in aula in una situazione che possa portare all’approvazione – mette a verbale invece il ministro - ma non confondiamo l’apertura al dialogo con la disponibilità a correzioni che terremotino il provvedimento, che ha una sua coerenza interna e la deve mantenere». Il mondo berlusconiano, infatti, punta a cambiare le cose proprio nei voti d’assemblea: la corruzione tra privati la vorrebbero procedibile solo su querela, chiedono un abbassamento delle pene per abbassare la soglia di prescrizione e l’addio al benedetto traffico di influenze. Antonio Di Pietro, al contrario, si gioca su questo terreno un altro po’ di propaganda: «È una vergogna, uno schiaffo allo stato di diritto e alla


l’Italia dopo il voto

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Le amministrative hanno lanciato un segnale inequivocabile ai partiti Angelino Alfano ha imposto al Pdl di astenersi in Commissione su quella che è stata chiamata la «Legge Severino», ossia la proposta del governo per combattere la corruzione nella pubblica amministrazione. L’approvazione del testo è stato il primo atto dei partiti dopo le elezioni amministrative che hanno decretato il successo del candidato grillino al miunicipio di Parma

giustizia. Sembra di essere tornati a vent’anni fa. Con artifizi e raggiri il governo e i tre partiti di maggioranza hanno concluso un accordo a ribasso che fa credere all’opinione pubblica di combattere la criminalità, ma invece renderà molto più difficile ostacolarla».

Quanto al resto è stata la classica giornata post-elettorale. La vera novità è che finalmente pare chiaro che il vero obiettivo di Beppe Grillo è il Partito democratico. Ieri, infatti, oltre a festeggiare i cinque o sei sindaci portati a casa tra primo e secondo turno – Parma in testa – il comico s’è dedicato solo alla demolizione di Pierluigi Bersani: «Il non morto (ma quasi) di un partito mai nato Bersani ha detto di aver ‘non vinto’ a Parma, Comacchio e Mira. Chiamate un’ambulanza per un Tso». Finita? Macché. Il segretario del Pd è «il pollo che si crede un’aquila» e deve cominciare a lavorare, perché «in futuro ne avrà bisogno». Lapidaria la replica: «Grillo, stai sereno: ora sei un capo partito anche tu e non basterà bestemmiare gli altri, dì qualcosa di preciso per il Paese». Non è la sola pena del giorno per Bersani: Vendola e Di Pietro – nelle pause in cui non attaccano pubblicamente lui o il suo partito – gli chiedono in privato di formalizzare l’alleanza elettorale PdIdV-Sel, che qualcuno vorrebbe allargata ai comunisti Diliberto e Ferrero (d’altronde questo è lo schieramento che ha conquistato la maggior parte dei capoluoghi in queste elezioni, fanno notare i due). Il tapino, ahilui, non può però formalizzare alcunché, pena un’immediata scissione. Non va meglio va a destra: Santanchè invoca «il ritorno in campo del Cavaliere» che dica a tutti cosa fare e pensare, Cicchitto si autoconvince che «è stata una sconfitta ma non una disfatta», Pecorella sostiene che “la debacle” è colpa dei «troppi inquisiti» e di «un eccessivo garantismo» del Pdl. Chiosa Isabella Bertolini: «Le dichiarazioni che tendono a ridimensionare la scoppola mi preoccupano più del tonfo elettorale. Siamo a rischio estinzione». La soluzione di Berlusconi, si sa, è ricostituire il nuovo fronte dei moderati riportando a casa l’Udc: «Io vorrei chiedere - gli replica indirettamente Pier Ferdinando Casini - quando si parla di area moderata, cosa si intende? L’unità dei moderati che si evoca, serve a fare cosa? Per fare lo sciopero fiscale e mandare a casa Monti? O per appoggiare l’azione del governo? Non so di cosa si stia parlando e non siamo interessati a parlare di cose incomprensibili».

«L’unità dei moderati tanto evocato, in realtà non so cosa sia», ha detto Casini

Cambiare o morire: tre analisi dopo il voto

MASSIMO CACCIARI

«L’unica soluzione è il modello Monti» «I cittadini sono disorientati. Perciò sono passati da un populista a un demagogo» di Franco Insardà ire che crolla il Pdl e Lega e vince Grillo non mi sembra uno scenario attendibile. Non è come dire perde la Merkel e avanza i socialdemocratici, o crolla Zapatero e vince Rajoy. La situazione è drammatica anche dal punto di vista psicologico: è del tutto evidente che chi ha votato per Grillo non pensa che possa rappresentare una soluzione per il governo del Paese». Massimo Cacciari, com’è suo costume, va dritto al cuore del problema che i risultati delle amministrative ha evidenziato. Professore, allora come giudica questi elettori del Movimento 5 Stelle? Analizzando nello specifico i voti, mi sembra chiaro che al secondo turno i grillini hanno ottenuto i voti di chi prima votava per il Pdl e la Lega. Si tratta di persone che in precedenza avevano votato, bene o male, forze di governo. Il grillismo è un fenomeno nazionale o locale? Grillo non è la Lega, è un fenomeno nazionale come lo è stato, mutatis mutandis, un movimento come quello dell’Uomo qualunque. Può prendere voti a Bolzano come a Caltanissetta, questa volta è andato bene dove hanno collassato Pdl e Lega.

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Si possono paragonare i grillini ai Radicali? Non scherziamo. Pannella non è un pagliaccio. I radicali rappresentano una tradizione culturale importante per la storia politica italiana. Avevano venti anni di lotte politiche alle spalle, grande giornalismo e la tradizione culturale europeista di Spinelli. I grillini invece? Il movimento di Grillo è pura protesta, favorito da una situazione di crisi economica e sociale spaventosa, ma soprattutto dall’antipolitica dei partiti che da trenta anni non governano questo Paese. Dal populista Berlusconi al demagogo Grillo? È un rischio. È chiaro che Grillo non ha né la forza, né la struttura, né i soldi di Berlusconi e quindi è difficile che possa accadere qualcosa di simile. Ma si può verificare una situazione analoga a quella della fine

della Prima Repubblica. Cioè? Una crisi dettata dai tempi dei procedimenti giudiziari che apra la strada a soluzioni di tipo demagogico-populistico può essere uno scenario possibile. Il Pdl oggi come la Dc allora? Il rischio è proprio questo: l’uscita dalla Seconda Repubblica con lo sfascio dei due principali partiti, allora Dc e Psi, oggi Pdl e Lega. Mentre sopravviverebbe quella forza che, per storia, tradizione, organizzazione ed eredità ex comunista, è la più solida. Sopravvive e basta, come successe all’ex Pci nel ’92, e sarà costretta ad alleanze improprie che impediranno evoluzioni in senso riformatore. È questa la prospettiva sempre più reale. Si può contrastare questo declino? Occorrerebbe l’intelligenza, le leadership e le capacità di capire che, prima di tutto, non bisogna mettere in crisi il governo Monti. E poi che occorre continuare una politica di coalizione, almeno su quei problemi che non sono stati affrontati, anche dopo il 2013. Potrà accadere? È molto difficile. Penso che più realisticamente i partiti cerchino di recuperare i voti perduti, mettano sotto pressione il governo, per poi presentarsi alle elezioni con un centrodestra moderato contro un nuovo Ulivo. Sarebbe più saggia l’ipotesi di una coalizione larga, ma la saggezza ha poco a che vedere con la politica.

Purtroppo il Pd resta attratto dalla foto di Vasto: ma non basta vincere per poi riuscire a governare

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l’Italia dopo il voto

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Che cosa succede ora a Pdl e Lega? Bisognerebbe interrogarsi piuttosto su quale alternativa si va profilando con la crisi di questi partiti. Vede delle soluzioni? Assolutamente no. E il partito dei moderati? Queste elezioni hanno dimostrato anche una debolezza da parte del Terzo polo, tuttavia credo che la costruzione di un centro moderato si tratti di un tentativo obbligato. Il centrodestra e la Lega invece? Per loro si pone drammaticamente la necessità della totale messa in pensione di Berlusconi e Bossi e il quasi disperato tentativo degli Alfano e dei Maroni di mettere fuori il naso. Ma fino a quando hanno ancora i due cadaveri in circolazione l’operazione è estremamente difficile. Come ha dimostrato questo voto amministrativo, nel quale l’unico che è andato bene è stato Flavio Tosi il quale, al di là della sua forza locale, ha preso le distanze da Bossi già da parecchio. tempo. La debacle del centrodestra ha fatto crollare il blocco del Nord. Parliamo di una coesione cementata da interesse specifico, che non è stato difeso, il patto non è stato rispettato e gli elettori li hanno abbandonati. Non parliamo certamente della fedeltà che c’era al vecchio Partito comunista o alla Democrazia cristiana. Quando il patto viene meno i partiti vengono abbandonati e rimangono soltanto gli “zoccoli durissimi”, come nel caso della Lega. Ha senso ancora parlare di bipolarismo? Nel modo più assoluto no. Sopravvive il Pd che, scioccamente, grida vittoria. Dal punto di vista numerico hanno vinto, ma parlare di vittoria in questa situazione mi sembra assurdo, tenendo conto che al collasso dei partiti di centrodestra non corrispondono i voti al centrosinistra. Una situazione che non eguali in alcun paese europeo. In Germania se perde la Cdu molti voti vanno alla Spd e viceversa. In Italia il centrosinistra non è riuscito a catturare un solo voto in uscita dal centrodestra. Senza parlare del caso di Palermo, delle primarie di Genova e di molti altri casi significativi, anche in zone molto forti. Tipo? Segnalo il caso di Mira, un importantissimo centro della provincia di Venezia, del quale nessuno parla e dove ha vinto il Movimento 5 Stelle contro il candidato del centrosinistra del Pd. Lì, fino a un anno fa, i grillini non avevano neanche un voto. Come vanno interpretate queste cose? Si tratta di segnali di grande allarme, se ci fossero teste ragionanti. Altro che vittorie. Il destino del Pd quale sarà? Sarà inevitabilmente legato alla foto di Vasto. Questo voto amministrativo segna inesorabilmente che il centrosinistra si ripresenterà come “subspecie Ulivo”e dovrà per forza rischiare di vincere. Una situazione non entusiasmante.

La vittoria del Movimento 5 stelle a Parma e quella di Leoluca Orlando a Palermo rappresentano i due casi più clamorosi delle amministrative di domenica scorsa

l Pd, con Bersani, ha detto di avere vinto senza se e senza ma, ma io non sono d’accordo». Carlo De Benedetti commenta così l’esito delle ultime elezioni amministrative dicendosi convinto che quello che per molti del centrosinistra è stato un successo non è che ”un buon risultato”. «Non si può infatti ascrivere al Pd la vittoria di Orlando né, in misura minore, quella di Doria. Tenuto conto delle dichiarazioni di vittoria non vorrei che nel centrosinistra

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PAOLO POMBENI

«I partiti cambino. Anche le facce» «L’antipolitica non si batte imitando Grillo o il primo Berlusconi ma con la politica vera» non ci si rendesse conto della profonda frattura tra i cittadini e la politica. Servono anche nel centrosinistra profondi cambiamenti e lo dimostra proprio l’esito delle elezioni». Anche Paolo Pombeni, politologo dell’università di Bologna è d’accordo con De Benedetti. «Il fatto che Bersani si consoli con alcune vittorie, come quella di Budrio, è imbarazzante. Assomiglia a uno che vede i singoli alberi ma non la foresta».

E la foresta è l’astensionismo crescente, l’antipolitica montante, la vittoria puntuale e sistematica di tutti i candidati di sinistra alternativi o addirittura ostili al Pd. «Sono fenomeni ”anti” - dice Pombeni che non hanno una loro forza propria, ma nascono in parte dal disgusto e dall’ostilità verso i partiti in parte da un sentimento ancora più negativo verso il sistema politico: l’indifferenza. La gente pensa in fondo che le cose possono andare anche senza i partiti. Che se basta un tecnico per governare un Paese significa che i tecnici pos-

sono sostituire la politica. Anche perché la politica non offre più risposte da anni». E non seleziona più una classe dirigente. «Un giovane brillante e di belle speranze che ha iniziativa e passione politica oggi, entrando nel movimento di Grillo, ha buone possibilità di essere individuato e lanciato come è capitato al neosindaco di Parma Pizzarotti. Se lo stesso giovane entra in un partito tradizionale, che sia il Pd, il Pdl o l’Udc farebbe il galoppino tutta la vita. Per questo penso che se i partiti vogliono davvero riacquistare consenso devono aprirsi al contributo di risorse umane esterne al ceto politico. A forze nuove. E questa per i partiti è la cosa più difficile da fare. Però questo è il passaggio necessario se i partiti vogliono riguadagnare un minimo di credito e di agibilità. Del resto il successo della Lega ha consistito in questo, come quello attuale del movimento del comico genovese. Ecco: o i partiti accettano questa sfida o rischiano davvero di essere spazzati via. Ma è una strada che devono percorrere


l’Italia dopo il voto

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ALESSANDRO CAMPI

«Un’idea forte o ingovernabilità» «Contro l’astensionismo, Casini sfidi il Cavaliere per la guida dei moderati» di Riccardo Paradisi ifficile prevedere cosa potrà accadere da qui alle prossime elezioni del 2013. Ancora più difficile immaginare lo schema politico che emergerà dal prossimo parlamento. L’unica cosa che si può fare è ragionare partendo dalla fotografia della situazione politica attuale.

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con radicalità. Per capirci: i partiti devono cambiare facce. Perché il cambiamento ha bisogno anche di una spettacolarizzazione, di essere rappresentato visivamente».

Il sostegno al governo Monti, assimilato al rigore, al calo dei consumi e alle tasse, può aver penalizzato i partiti? «Secondo me no - risponde Pombeni – è piuttosto questo atteggiamento di riottosità nei confronti del governo a renderli superflui agli occhi degli elettori. Insomma i partiti - al netto dell’Udc che invece ha fatto una scelta coerente di pieno sostegno attivo e senza equivoci a Monti – dovrebbero decidere senza ambagi cosa fare. Se costruire consenso per i tecnici affiancandoli e dando un contributo al governo o staccare la spina. Cosa che però si guardano bene dal fare. Primo perché non hanno un’alternativa pronta e secondo perché temono che l’avversario-alleato rimproveri loro la scelta irresponsabile, incassandone intanto i frutti. Inoltre i partiti non possono mettere sul tavolo la loro competenza tecnica né possono portargli in dote voti elettorali, perché ce ne sono sempre di meno». Da qui lo stato confusionale degli stessi partiti, tentati da rinnovamenti di facciata, alleanze inedite o dall’”usato sicuro”, come l’ha chiamato Bersani. Siamo lonta-

ni da una normalità europea, dove due o tre poli in campo si sfidano e si affrontano su programmi diversi chiedendo il consenso all’elettorato. «Noi siamo molto lontani dalla normalità europea per due ragioni soprattutto - dice ancora Pombeni – la prima è di fondo, è una ragione storica. La nostra politica ha un carattere chiesastico. Da noi gli altri, gli avversari sono gli eretici, i demoni, i nemici, i venduti. La seconda è che non essendoci circolazione delle elite, ricambio della classe dirigente, il ceto politico viene visto come un tutto unico. Aggregazione omogenea di interessi consolidati. Da qui la fortuna di Grillo che ha buon gioco nell’additare l’equipollenza di tutte le proposte politiche in campo sui temi dirimenti. È per questa stanchezza che i partiti non hanno il coraggio, la capacità e la legittimità di lanciare una grande controffensiva culturale e politica contro il populismo e la demagogia antipolitica. Gli elettori di Grillo sono una costellazione di persone che legge Il Fatto quotidiano, segue Santoro e le trasmissioni della Guzzanti, attende avidamente gli aggiornamenti del blog del comico. Un sistema mediatico rodato che spara a zero contro la politica e al quale nessuno riesce a rispondere con energia e (r.p.) convinzione».

Da questo sguardo muove il ragionamento che il politologo Alessandro Campi fa con liberal sugli scenari che potrebbero scaturire dalla lenta consunzione della Seconda Repubblica. «Il dato è che ad oggi manca un’offerta politica. Galli della Loggia una volta ha usato l’immagine del menu del ristorante. C’è una variazione delle offerte, ma limitata a quelle contenute nella carta. Adesso siamo nella condizione che non c’è nemmeno il menù. Non sappiamo cosa sarà il centrodestra fra un anno, né se ci saranno ancora il Pdl e la Lega per come li conosciamo. Non sappiamo nemmeno se e come a sinistra si coalizzerà una costellazione di forze, come evolverà il centro politico, se ci saranno dei nuovi ingressi in campo di outsider. Non sappiamo nulla». Intanto sappiamo che il movimento di Beppe Grillo ha fatto il boom e che è probabile che il risultato dei Cinque stelle possa replicarsi alle politiche. «Il movimento di Grillo sarà sicuramente in parlamento ma si deve fare attenzione – dice Campi – a non confondere i piani tra amministrative e politiche, soprattutto ragionando d’un movimento politico con le specificità che presenta il Cinque stelle. Grillo è stato abile a proporre lo schema dei cittadini che si autoeleggono, si scelgono tra di loro, e fanno rete sul filo della fiducia e della credibilità. Ma si tratta di uno schema che va molto bene e ha senso a livello locale. Già trasferirlo sul piano nazionale, dove si giocano partite più grandi, è sbagliato. L’elettore grillino, che a Parma per dire ha inteso punire i partiti tradizionali, non voterebbe con la stessa disinvoltura per Grillo se dovesse affidargli il governo del paese. Insomma tutti accettano la battaglia sulla rete telefonica o sugli sprechi ma si diventa più cauti quando

si parla di un progetto d’uscita dall’Europa che è uno dei temi forti che agita Grillo». Insomma potrebbe di nuovo cambiare tutto nei prossimi dodici mesi e molto dipenderà anche dalla legge elettorale. «È anche questa aleatorietà che porta alla crescita dell’astensionismo. Non c’è solo la protesta o il disgusto verso la politica e il suo personale ma anche l’incapacità di individuare possibili progetti politici da sostenere. Da questo dato si può anche trarre la misura dello stato confusionale in cui versano i partiti. Il fatto del resto che ognuno dei principali soggetti politici sia potenzialmente aperto a qualsiasi soluzione è spiazzante. Insomma gli elettori sentono ipotesi che vanno fino ad un’alleanza tra Fini e Bersani è evidente che non funziona, che si producono dei corto circuiti. Peraltro questa interscambiabilità di ruoli, funzioni, progetti e alleanze è un altra freccia all’arco di Grillo. La totale fungibilità delle forze politiche legittima insomma lo slogan qualunquista del “siete tutti uguali”». Ma non era proprio quello che si chiedeva ai partiti: deporre le differenze per sostenere il governo istituzionale? «Nessuno ha mai chiesto ai partiti di confondersi e annullarsi in un blob indistinto. È stato chiesto loro di dare sostegno a questo governo per fare delle cose necessarie e improcastinabili che i partiti da soli non avrebbero mai avuto la forza di fare. Ciò non impedisce che i partiti debbano mantenere una loro ragione sociale. Peraltro l’indistinzione delle forze politiche non nasce con il governo tecnico: abbiamo assistito a una transumanza continua da uno schieramento all’altro nell’ultima legislatura. Certo, anche in Germania s’è fatta la grosse koalition ma a nessuno verrebbe in mente di dire che la Cdu sia interscambiabile con la Spd. Pur nella collaborazione permangono le differenze. Qui c’è una tendenza all’amalgama tanto da avere ormai una democrazia senza dialettica». La dialettica dovrebbe dunque essere riaccesa per rivitalizzare i partiti tradizionali: «Bisognerebbe ritornare a un confronto vero tra i partiti, che do-

vrebbero differenziarsi sulla base di un programma, aggregarsi su una base di omogeneità politico culturale, cercando di coagulare dei blocchi sociali connotati. Non stiamo parlando di cose astruse: è esattamente quello che avviene in Europa. Chi l’ha detto del resto che dal laboratorio italiano debbano venir fuori modelli sconvolgenti? Ecco si tratterebbe di arrivare alla normalità. Un partito di centrodestra liberal conservatore, un partito di centrosinistra progressista con forze minori più radicali che si potranno aggregare». E il centro? «Secondo me Casini dovrebbe rompere gli indugi. È chiaro che l’Udc non può attraversare un’altra legislatura con la politica dei due forni. Il centro polemizza con il bipolarismo: ma non è questo che ha prodotto Berlusconi, è Berlusconi che ha reso selvaggio e inconcludente il bipolarismo italiano costruendo un partito personalistico che è ancora tale malgrado il momento di difficoltà che vive il Cavaliere».

È questo l’equivoco che dovrebbe superare Casini «lanciando un offerta politica al campo dei moderati e puntando con decisione a rappresentarlo. Non si può attendere che Berlusconi faccia il passo indietro alla Sarkozy. Non lo farà. Casini fece bene nel 2008 a non salire sul predellino con Berlusconi, ha vinto lui quella sfida. Ora però dovrebbe andare fino in fondo e candidarsi a rappresentare quell’area. Muoversi lui senza indugi senza passare per Letta o per i tatticismi di Pisanu e Scajola. In ogni paese europeo c’è un polo conservatore, la tipicità italiana è un polo liberale e cattolico che oggi non è rappresentato, si tratta d’aprire una partita per costruirlo e aprirgli spazio. Senza attendere l’uscita dell’ennesimo coniglio dal cilindro come Montezemolo». In questa ottica, secondo Campi, occorrerà superare anche l’opzione dei governi tecnico-istituzionali. «È chiaro che il governo Monti sta perdendo progressivamente forza. Viene avvertito dalla gente ancora più lontano e ostile di quanto siano percepiti i partiti. Occorre un governo politico vero, che esca da uno scontro politico democratico legittimante. Il modello francese è indicativo. Si mettono a confronto delle ricette e poi gli elettori decidono».


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u il 23 maggio del 1992, esattamente cinque giorni dopo aver compiuto il suo 53esimo compleanno, che Giovanni Falcone morì in quella che è passata alla storia come la strage di Capaci. Come ogni fine settimana, tornava da Roma: 53 minuti di volo su jet di servizio da Ciampino a quell’aeroporto di Punta Raisi che oggi porta il suo nome, e poi lo spostamento finale su un convoglio di tre Fiat Croma blindate. Ma vari deputati, senatori e delegati regionali siciliani impegnati nella defatigante procedura per l’elezione del successore di Cossiga alla Presidenza avevano “approfittato”del passaggio, la riservatezza in qualche modo era venuta meno, e al passaggio delle auto al km 5 della A29 cinque quintali di tritolo furono fatti esplodere da Giovanni Brusca, il sicario di Totò Riina. Molte furono le conseguenze di quel massacro.

F

Dal punto di vista politico, venne appunto sbloccato il processo per la designazione del nuovo Presidente, impantanato dal 13 maggio per i contrasti tra i partiti. Quello stesso 23 maggio al quindicesimo scrutinio c’erano state 397 schede bianche, contro i 235 voti al giurista Giovanni Conso, portato dal Pds, i 74 al leghista Gianfranco Miglio, i 51 all’altro giurista Ettore Gallo, i 23 a Cossiga, i 22 a Spadolini, i 20 al socialista ex-sindaco di Milano Aldo Aniasi e i 17 allo stesso Scalfaro, per limitarci ai più votati. Il 25 Scalfaro fu plebiscitato con 672 voti, contro i 75 di Miglio, i 63 di Cossiga e i 53 dello scrittore Paolo Volponi, portato da Rifondazione. Per chi ha presente quale sarebbe stato il ruolo di Scalfaro nel pilotare il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, è un interessante dubbio storico comprendere cosa sarebbe potuto succedere senza l’attentatuni, come pure sarebbe stata chiamata la strage. Dal punto di vista della criminologia, poi, come ricordò un episodio del telefilm Ncis - Unità anticrimine, i mozziconi di sigaretta incautamente lasciati dagli attentatori permisero per la prima volta nella storia di inchiodare colpevoli in Tribunale con la nuova prova del dna.Tra parentesi, la citazione ci ricorda anche dell’immenso prestigio che la figura di Falcone ha ancora negli Stati Uniti. Era stato nel maggio del 1980 che Falcone si era visto affidare da Rocco Chinnici le indagini contro Rosario Spatola, che coinvolgevano anche criminali operanti in territorio Usa. Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, in modo da ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un quadro complessivo. Partendo dal dato che gli stupefacenti venivano venduti in Nord America, chiese così a tutti i direttori delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di cambio valuta estera dal 1975 in poi. Saltò fuori un assegno da 100mila dollari cambiato presso la Cassa di Risparmio di piazza Borsa di Palermo, da cui la prova che Michele Sindona si trovava in Sicilia: alla faccia del finto sequestro che la mafia siculo-americana aveva orga-

il paginone

1992-2012 A vent’anni dalla strage di Capaci, viaggio nella storia, nella politica (e nelle polemiche) italiane attraverso una delle ferite più profonde del nostro Paese

Giovanni e i su di Maurizio Stefanini

nizzato per sottrarlo al giudizio. Nei primi giorni del mese di dicembre ’80 Giovanni Falcone si recò dunque per la prima volta a New York, per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est. Segnò l’inizio di una straordinaria collaborazione, culminata in un rapporto diretto con l’allora procuratore distrettuale di New York Rudolph Giuliani. Da Joe Petrosino a Giuliani, per gli italo-americani in generale e i siculo-americani in particolare è sempre stato importante mostrare all’opinione pubblica wasp eroi anti-mafia della loro stessa stirpe appunto per smentire il pregiudizio sull’identificazione tra italiani e delinquenti, e anche Falcone sotto questo punto di vista è stata un’icona esemplare. Un siciliano martire, come appunto già ai suoi tempi Petrosino. E “martire della causa della giustizia” è stato appunto il titolo che il 29 ottobre del 2009 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha erogato a Falcone nel corso di una seduta solenne: dopo che già il 4 giugno del 1992 il Senato di Washington aveva voluto esprimere a caldo la sua indignazione col votare una risoluzione volta a rafforzare l’impegno di

quel gruppo di lavoro italo-americano di cui Falcone era stato componente.

Ma Falcone due anni dopo la morte sarebbe finito anche secondo a San Remo, attraverso quel memorabile “Minchia signor tenente”di Giorgio Faletti con cui per una volta il festival si occupò di chi moriva per difendere la legge. «...Minchia signor tenente che siamo usciti dalla centrale/ Ed in costante contatto radio/ Abbiamo preso la provinciale/ Ed al chilometro 41

presso la casa cantoniera/ Nascosto bene la nostra auto c’asse vedesse che non c’era/ E abbiam montato l’autovelox e fatto multe senza pietà/ A chi passava sopra i 50 fossero pure i 50 di età/ E preso uno senza patente/ Minchia signor tenente faceva un caldo che se bruciava/ La provinciale sembrava un forno/ C’era l’asfalto che tremolava e che sbiadivo tutto lo sfondo/ Ed è così tutti sudati che abbiam saputo di quel fattaccio/ Di quei ragazzi morti ammazzati/ Gettati in aria come uno straccio caduti

All’epoca, tra i suoi colleghi, Falcone aveva dei nemici. «Voi lo avete fatto morire, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; ora qualcuno ha il coraggio di andare ai suoi funerali», gridò Ilda Boccassini nell’aula magna del Tribunale di Milano


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Alcune immagini della strage di Capaci. Giovanni Falcone con la moglie, Francesca Morvillo. Una foto di Oscar Luigi Scalfaro. Il magistrato Ilda Boccassini. Falcone con Paolo Borsellino

uoi fratelli

lezione al Quirinale del magistrato Scalfaro? È un caso se in capo a pochi mesi quello scandalo di Tangentopoli avrebbe portato a un completo affondamento della classe dirigente della Prima Repubblica, in un contesto in cui sono sembrati spesso proprio i “giudici” i nuovi governanti del Paese? Il bello è che forse sarebbe stato proprio Falcone il primo a rimanere sconcertato da questa evoluzione. «È proprio dei regimi totalitari il concetto di voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia, mentre in tutti i regimi liberali esso è considerato come un organo del potere esecutivo». Non è una frase sua, ma del Costituente Bettiol. Falcone, però, la citò in un testo dattiloscritto del 1989 su Il pubblico ministero nel nuovo processo penale, presente in una raccolta di suoi Interventi e proposte (19821992) pubblicata nel 1994 da Sansoni.

Nello stesso testo, Falcone osservava che «comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigare a tutti gli effetti per il pubblico ministero, arbitro della controversia il giua terra come persone/ Che han fatto a pezzi con l’esplosivo/ Che se non serve per cose buone/ Può diventar così cattivo che dopo quasi non resta niente». Giorgia Meloni ha detto che fu proprio l’indignazione per le uccisioni di Falcone e Borsellino a portarla ancora ragazzina a iniziare l’impegno politico che l’avrebbe condotta a essere ministro di Berlusconi: testimonianza significativa, in quanto proveniente da una sponda politica che normalmente non è fra quelle cui più si pensa, quando viene rivendicata l’eredità del giudice martire. Come ci testimonia una lunga tradizione letteraria che va da Pinocchio a

Per chi ha presente quale sarebbe stato il ruolo di Oscar Luigi Scalfaro nel pilotare il passaggio dalla Prima Repubblica alla Seconda, è un interessante interrogativo storico comprendere che cosa sarebbe potuto succedere senza quell’attentato De Andrè, in Italia a livello popolare i giudici non erano mai stati troppo popolari, scusate il bisticcio, fino al martirio di Falcone, e ancora nel 1987 un referendum diretto proprio contro gli errori dei magistrati aveva ricevuto un’approvazione a valanga. È un caso che la risposta della politica all’attentatuni sia stata proprio l’e-

dice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispet-

to a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti». Insomma se fosse sopravvissuto e se non avesse cambiato le proprie idee, forse anche Falcone sarebbe stato accusato di voler delegittimare la magistratura. Certamente, all’epoca tra i suoi colleghi aveva molti nemici. «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali», gridò Ilda Boccassini nell’aula magna del Tribunale di Milano.

Poiché lei stessa è poi diventata un leader emblematico del virtuale “partito dei giudici”, la Boccassini merita di essere ricordata anche per quanto testimonia sul fatto che Falcone era malvisto proprio perché credeva che dovere dei magistrati fosse di lavorare col governo investito della legittimazione democratica, e non di farlo saltare. «Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’Anm. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un’altra, come hanno fatto il Csm, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione». Ancora la Boccassini: «Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: “Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali”». Così la Boccassini a Repubblica in occasione dell’affissione della targa per i 10 anni dalla strage: «Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento». È notorio che uno dei futuri leader del partito di Tangentopoli ai suoi tempi più feroce contro Falcone fu Leoluca Orlando. «Ha infangato mio fratello», ha detto di lui Maria Falcone. Orlando in effetti ammette, dicendo che in qualche modo Falcone se l’era cercata. «L’isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale». Vent’anni dopo, l’Italia è di nuovo sommersa da un’ondata di fango che ci sta portando dalla Seconda alla Terza Repubblica. E contro una scuola intitolata a Falcone e alla moglie è appena stato fatto un attentato dai tratti ancora misteriosi, ma se possibile anche più odioso di quello di Capaci. In compenso, proprio in concomitanza con questo ventennale, Orlando è ridiventato sindaco di Palermo. Un senso probabilmente tutto ciò ce l’ha, ma forse bisognerà ancora aspettare parecchio per capire quale.


mondo

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ome far coesistere il Patto di bilancio, voluto da Berlino e già sottoscritto dalla Ue, con il Patto per la crescita voluto da Francia, Italia, Spagna – e da quasi tutti gli altri Paesi dell’Unione – che dovrebbe essere varato dal vertice europeo di fine giugno. Per usare una formula: come mettere d’accordo il fiscal compact con il growth compact. Questo è il problema che i leader dei Ventisette affronteranno stasera in una cena a Bruxelles dove si mangerà poco e si discuterà molto perché gli auspici della vigilia non sono fausti. Già quando si è costretti a convocare un vertice per preparare un altro vertice, vuol dire che la strada per l’intesa è in salita. Il vero obiettivo dell’incontro informale di oggi è quello di raggiungere almeno un compromesso per evitare uno scontro, o peggio, un fallimento, tra poco più di un mese. Ad aumentare la tensione è arrivato anche il “ni” di Angela Merkel a un altro summit preparatorio: quello che Mario Monti sta organizzando a Roma per le prossime settimane. Doveva essere un trilaterale Italia-Germania-Francia, messo in cantiere già dopo l’ultimo incontro a tre (allora c’era ancora Nicolas Sarkozy) che si tenne a Strasburgo, ma durante il G8 si è aperto alla partecipazione del nuovo premier spagnolo, Mariano Rajoy, e la Cancelliera tedesca si è sentita accerchiata e ha fatto dire al suo portavoce che «un invito c’è, ma non c’è ancora una risposta, né una data».

C

Un modo nemmeno tanto diplomatico per far capire che la Germania non ci sta a farsi isolare da chi le chiede di accettare misure che diano respiro alle economie meno in salute di quella tedesca e che è ben determinata a continuare la sua difesa del rigore a ogni costo. A

Al via il vertice straordinario dei leader dei 27

L’Europa assedia la Merkel sulla crescita Bruxelles tenta la via del compromesso per evitare uno scontro. Occhi puntati sulla Cancelliera (che dice “nein” a tutto) di Enrico Singer questo punto è prevedibile che tutto il seguito degli incontri che dovrebbero facilitare un accordo al vertice europeo del 28 giugno dipende dall’esito della cena che il presidente del Consiglio della Ue, Herman Van Rompuy, ha organizzato inviando ai capi di Stato e di governo dei Ventisette una lettera d’invito che è lunga ben tre pagine e che è una specie di manifesto programmatico per una possibile soluzione. «Poiché non prenderemo alcuna decisione formale, vi incoraggio a essere il più possibile franchi e aperti», ha scritto Van Rompuy. Come dire, se dobbiamo litigare facciamolo adesso. E, soprattutto, parliamo di tutto. «Credo che non ci dovrebbero essere tabù nel discutere le prospettive di lungo termine per rilanciare lo sviluppo e l’occupazione». I tabù più grossi

sono due: gli eurobond e la tassa sulle transazioni finanziarie. Sul primo capitolo il messaggio lanciato ancora una volta da Berlino è di chiusura netta. Il vice ministro delle Finanze, Steffen Kampeter, ha parlato di «ricetta sbagliata nel momento sbagliato con conseguenze sbagliate». Più duri di così è difficile essere.

Ma il compromesso che si tenterà stasera è di far digerire ad Angela Merkel almeno i project bond che sono dei titoli comuni europei da mettere sul mercato per finanziare la realizzazione di grandi progetti strutturali. Questo tipo di strumenti finanziari è stato messo a punto dalla Commissione europea, ha avuto il via libera anche dalla presidenza di turno danese della Ue e passerà adesso alla discussione dell’Euro-

parlamento per finire sul tavolo del vertice del 28 giugno dove è attesa la luce verde più importante: quella dei governi. Se anche Berlino dirà sì, la Ue comincerà a sperimentare una leva finanziaria simile a quella degli eurobond e a Bruxelles sono in molti a credere – quantomeno a sperare – che i project bond possano essere l’inizio della marcia verso emissioni comuni dell’Unione per finanziare il debito pubblico e non soltanto le nuove grandi opere. Da Parigi i più stretti collaboratori di François Hollande fanno sapere che il nuovo presidente francese insiste particolarmente su questo dossier e si augura di poter vincere la resistenza della Merkel, al fianco della quale ci sono anche olandesi e finlandesi. Tra l’altro, i project bond s’inserirebbero bene nel disegno ge-

Ci vuole una salda leadership politica per tenere vivo lo spirito comunitario di Adenauer, De Gasperi e Schumann

Un continente diviso fra ideali e ideologie on si è mai ascoltato o letto tanto sull’Europa quanto in queste ultime settimane. Per un verso, è come se si fosse all’improvviso scoperto che esiste un contesto non solo economico legato al nostro continente. Per altro verso, si è assistito e si assiste ad una sostanziale rivendicazione di una sorta di ormai utopica sovranità nazionale, quasi che l’Italia fosse immersa da sola in un oceano disabitato. Allorché, infatti, si passa a discutere dell’ultimo turno amministrativo, assistiamo da un lato, all’affermazione (forse ancora troppo timida) della necessità di una sostanziale conti-

N

di Francesco D’Onofrio nuità europeistica, mentre dall’altro vi è chi sostanzialmente continua a ritenere che quella del Governo Monti è stata soltanto una parentesi, o che esso

sul fatto che l’Italia fa parte, non da oggi, del processo di integrazione europea, al quale essa stessa ha dato vita quasi sessant’anni fa. Si tratta so-

quella che condusse Adenauer, De Gasperi e Schumann ad immaginare che soltanto un autentico processo di integrazione europea avrebbe potuto costi-

«Le azioni politiche del dopo Monti devono essere ispirate da una scelta che vede nel rafforzamento del processo europeo un punto fondamentale di indirizzo e orientamento» è servito soltanto perché ha messo fuori gioco il Governo Berlusconi. In questo ultimo senso, infatti, rileviamo con rammarico che si discute ancora troppo poco

stanzialmente di una questione di classe dirigente, politica e non soltanto politica.

Fu infatti una straordinaria capacità di leadership politica

tuire una salda remora per nuove guerre intraeuropee, perché rigidi nazionalismi avevano dato vita alla prima e alla seconda guerra mondiale. L’ideale europeistico, pertanto, ha vissuto e

vive diverse stagioni e diverse velocità, come dimostrano analisi attente della Commissione europea, del Parlamento europeo e del Consiglio europeo. La lunga stagione della Guerra fredda aveva infatti finito con il radicare in alcuni Paesi europei continentali una sorta di ideologia comunista, che per lunghi anni ha rappresentato un tentativo di combinare internazionalismo filo-sovietico e nazionalismo anti-europeo. La fase attuale del processo di integrazione europea costituisce, pertanto, un punto di scontro più volte già sperimentato tra i sostenitori di un vero e proprio processo comunitario europeo e i soste-


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A sinistra, in senso orario: Francois Hollande, David Cameron, Mariano Rajoy ed Herman Van Rompuy. In basso, Angela Merkel e Mario Monti

Si tenterà di far coesistere il Patto di bilancio, voluto da Berlino e già sottoscritto dalla Ue, con il Patto per la crescita voluto da Francia, Italia, Spagna e da quasi tutti gli altri Paesi dell’Unione nerale di un piano per la crescita perché potrebbero rimettere in moto cantieri fermi da tempo. Gli altri punti del possibile compromesso indicati nella lettera di Herman Van Rompuy sono il rilancio dell’attività della Bei (la Banca europea degli investimenti) che sarebbe anche l’autorità di emissione e di controllo delle nuove «obbligazioni a progetto» e che potrebbe essere ricapitalizzata con l’iniezione di ulteriori 10 miliardi di euro, una nuova direttiva sull’efficienza energetica e il definitivo lancio del brevetto europeo che è bloccato dalla stupi-

da disputa nata sulla sede della sua Corte (tra Francia, Germania e Gran Bretagna). L’Italia, si sa, insiste su un altro capitolo che potrebbe risultare decisivo per dare sostanza al growth compact.

Si tratta della regola aurea sugli investimenti strutturali da stornare nel computo del deficit pubblico: una misura che si muove nel solco e nella logica dei project bond, ma che lascia molto fredda Berlino. C’è, poi, la questione aperta della Tobin tax sulle transazioni finanziarie, forse l’unico punto sul qua-

nitore di una stagione prevalentemente intergovernativa. Il primo ha trovato e trova sostegno soprattutto nella Commissione europea, mentre la seconda vede nella difesa della sovranità statale un punto di forza ineludibile. Il Parlamento europeo oscilla tra l’una e l’altra ipotesi, anche se cerca comunque di tener viva la dimensione di una ipotetica democrazia politica europea, della quale esso sarebbe in qualche modo il testimone e il garante.

Questo è sostanzialmente il bipolarismo istituzionale europeo, del quale sembra peraltro non esservi traccia nel dibattito politico italiano, nel quale sopravvive in qualche modo un simulacro almeno del vecchio ideologismo comunista. In questo contesto le azioni politiche del dopo Monti devono pertanto essere ispirate da una scelta che vede nel rafforzamen-

le Hollande è in sintonia con quanto aveva proposto Sarkozy. Anche su questo, però, la Germania – con il pesante appoggio della Gran Bretagna – ha delle riserve come Van Rompuy ha ammesso apertamente nella sua lettera: «So che esistono divergenze, ma non dobbiamo rinunciare a uno scambio di opinioni e, magari, arrivare a una pragmatica soluzione per andare avanti». Ma, al di là dei punti specifici di dissenso, la preoccupazione maggiore espressa dal presidente del Consiglio europeo è che «scatti una dinamica nella quale austerità alla tedesca e crescita alla francese siano messe a confronto». L’Europa non deve spaccarsi ancora una volta in due fronti contrapposti: dovrebbe mettere da parte le polemiche e «individuare le misure necessarie per aiutare la ripresa dell’economia». Questo è l’augurio di Van Rompuy – e non solo – ma il rischio è che accada l’esatto contrario. Qualsiasi previsione è azzardata. Di sicuro, però, crollato l’asse MerkelSarkozy non si è ancora definito un nuovo equilibrio. Con ripercussioni dirette su scelte che incombono, come quella della nomina del successore di JeanClaude Juncker alla presidenza dell’Eurogruppo. Se ne parlerà stasera anche perché il nuovo “mister euro” dovrà entrare in carica dal primo luglio e questo significa che la sua designazione dovrà essere formalizzata nel vertice del 28 giugno. Il candidato più forte è il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che ha incontrato l’altra sera a Berlino il suo collega francese, Pierre Moscovici, il quale è stato prodigo di complimenti, ma ha glissato sulla questione-nomine dicendo che «sarà parte di un

rismo si è collocato nella storia europea il confronto tra popolari e socialisti, anche se nel corso degli anni il loro scontro ha finito quasi con il diventare una sorta di contrapposizione tra centrodestra e centrosinistra sul piano della cultura stessa dell’economia sociale di mercato e, quindi, del ruolo che in essa svolgono lo Stato e i poteri pubblici da un lato, e la persona e le comunità intermedie dall’altro.

to del processo europeo un punto fondamentale di orientamento, pur tenendo conto della durezza con la quale gli Stati ten-

dono a conservare ancora una parte sostanziale della propria sovranità. Solo all’interno di questo bipola-

Di questo bipolarismo integralmente europeo non sembra esservi ancora nel nostro Paese una compiuta consapevolezza, proprio perché sembra che si insegua da un lato qualcosa che assomiglia al vecchio ideologismo comunista, e dall’altro si continua ad ignorare che integrazione europea e Partito popolare europeo sono stati due prodotti di classi dirigenti nazionali ed europee, e non soltanto prodotti di questo o

pacchetto di decisioni personali». Da Parigi, tuttavia, è arrivato un siluro contro Schäuble dalla ex compagna di Hollande (ed ex sfidante di Sarkozy nel 2007), Ségolène Royal, che ha definito «un cattivo segnale» l’ipotesi di affidare al ministro tedesco la presidenza dell’Eurogruppo, ruolo per il quale «ci vorrebbe qualcuno con più immaginazione». È vero che Ségolène Royal è rimasta fuori dalla squadra di governo di François Hollande, ma è pur sempre una esponente di primo piano del partito socialista e il suo giudizio, espresso in un’intervista alla tv Canal+, non è stato apprezzato in Germania.

Di questa vicenda il settimanale tedesco Der Spiegel ha dato una versione ricca di retroscena (come sempre da verificare) secondo la quale la designazione di Wolfgang Schäuble sarebbe scontata, ma «la riluttanza francese, sostenuta da Italia, Portogallo e Spagna, sarebbe una mossa strumentale per far pesare ancora di più il proprio sì e strappare qualche concessione ad Angela Merkel». Un anticipo della battaglia sulle nomine c’è già stato per la presidenza della Bers (la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo): Berlino aveva ritirato il sostegno al presidente uscente, il tedesco Thomas Mirow, con l’obiettivo di favorire un francese e rafforzare, così, la candidatura di Schäuble all’Eurogruppo, ma poi è stato eletto il britannico di origine indiana, sir Suma Chakrabarti. Anche perché, a quanto pare, Parigi punta a mettere un suo uomo al posto di un altro tedesco – Klaus Regling, attuale presidente del Fondo di stabilità finanziario – nel grande risiko delle poltrone europee. quel partito politico. È dunque in questo contesto che si può collocare anche la questione, oggi molto acuta, del rapporto tra rigore e crescita. Non esiste un processo di integrazione europea che si sostanzi esclusivamente in un rigore solo fiscalmente interpretato; così come non è ipotizzabile alcuna ipotesi di stabile e non velleitaria crescita senza l’acquisizione di adeguati comportamenti personali, fiscali e non fiscali, sociali e non corporativi, familiari e non familistici, capaci di essere ad un tempo italiani ed europei. Una riflessione accurata – e non soltanto emotiva – sui risultati del primo e del secondo turno amministrativo che abbiamo alle spalle impone dunque di saper utilizzare il tempo che ci separa dalle prossime elezioni politiche per dar vita proprio ad un grande soggetto politico di ispirazione europeistica, saldamente ancorato alla realtà italiana.


mondo

pagina 12 • 23 maggio 2012

Dopo 15 mesi dalle rivolte di piazza Tahrir tutto è pronto per eleggere il nuovo presidente. Ma cosa faranno i militari?

Il voto della Sfinge Oggi e domani urne aperte in Egitto. Il Paese chiede una svolta, ma pesa l’incognita islam di Antonio Picasso nfine si vota. Oggi e domani 50 milioni di elettori egiziani si recheranno ai quasi 10mila seggi aperti in tutto il Paese per scegliere il prossimo presidente. Il primo dalla caduta di Hosni Mubarak. Il primo eletto direttamente dalla popolazione. Le urne saranno aperte dalle otto di questa mattina fino alle venti. Ma per i risultati bisogna aspettare la prossima settimana, martedì 29 maggio. È assai probabile che si dovrà andare al ballottaggio – forse questa è una delle poche

I

previsioni fondate – fissato per il 16 e il 17 giugno. I concorrenti al trono del faraone – vale ancora questa formula allegorica dell’Egitto che fu? – sono dodici. All’inizio erano oltre i venti. Poi tra defezioni, divieti e ritiri spontanei, il cerchio si è di gran lunga ridotto. L’Assemblea nazionale è riuscita a negare la candidatura di personaggi troppo compromessi con il passato regime. Primo fra tutti, quel generale Omar Suleyman direttore dell’intelligence per Mubarak e, a suo tempo, ritenuto il suo discendente in pectore. Un’altra assenza rumorosa è quella di Khaiter el-Shater, leader dei Fratelli musulmani.

Tra i nomi più significativi meritano una segnalazione invece quello di Ahmad Shafik, l’ultimo primo ministro del rais – chissà perché lui sì e Suleyman no - Hamdeen Sabbahi, nasseriano, e l’avvocato attivista per i diritti umani Khaled

Ali. Ma sono soprattutto l’ex diplomatico Amr Moussa e l’islamista dissidente Abdel Moneim Abul Fotouh a far la parte dei leoni. Dissidente, quest’ultimo, perché prima era al vertice della Fratellanza musulmana, poi, una volta candidatosi, il suo partito lo ha messo alla porta. È sul loro nome che i bookmaker puntano. In realtà, le previsioni sono tutte da vagliare. Il Paese è ancora troppo pencolante fra il passato autoritarismo e l’euforia democratica. Entrambi vanno smaltiti. I ripetuti rigurgiti di violenza contro la giunta militare, che governa da oltre un anno, sono sintomi da tenere sotto controllo. Quanto le Forze armate sono disposte a cedere di fronte a una forma di governo che non le porrà più al centro del potere? Mubarak era un soldato. Come lo erano Sadat e Nasser. Gli uomini in uniforme hanno sempre svolto un ruolo politico fondamentale. Dai più alti in grado fino all’ultima delle reclute. Nell’Egitto dell’ancien regime, l’uniforme suscitava più rispetto di una laurea in ingegneria. Lo hanno sempre saputo gli Stati Uniti che, solo dal 2008 al 2010, hanno girato alla difesa egiziana un qualcosa come 1,6 miliardi di dollari. E se il nuovo Egitto democratico non dovesse piacere alle Forze armate? Se queste deci-

che lo stesso Mubarak è stato vittima di putsch. In ogni caso, la democrazia non esposta solo alla presenza dei carrarmati nelle piazze, ma anche alla reazione altrettanto “di pancia” dell’opinione pubblica.

Piazza Tahrir infatti resta ancora il nucleo della protesta, la quale può dirsi sedata, ma non

Ong e osservatori internazionali e locali, schierati per evitare brogli. In ogni seggio ci sarà un giudice, mentre 1200 magistrate verificheranno l’identità delle elettrici in Niqab, il velo islamico dessero di fare come è successo in Turchia, o peggio ancora nella Germania di Weimar, per cui un candidato scelto dal popolo che non si rimettesse ai desideri militari va preso ed eliminato? La reazione golpista al Cairo non è ancora scagionata. Non dimentichiamoci

A destra, Hosni Mubarak, il raìs egiziano deposto dopo settimane di rivolta a piazza Tahrir. In alto, la piazza che esulta. A destra, Amr Moussa e Abdel Moneim Abul Fotouh

debellata. In una fase di transizione, ad avere la meglio sono i capipopolo. Lo si è visto con elBaradei, il quale per un po’ si è trovato a proprio agio nell’arringare la folla. E le perplessità circa il futuro ruolo dell’esercito si adattano anche alla società civile ancora esagitata. Il prossimo capo dello Stato egiziano sarà chiamato a prendere delle decisioni impopolari. Sul fronte economico, ma anche politico. Finora il Paese ha fatto da ago della bilancia nel processo di pace israelo-palestinese. Adesso quest’ultimo è

congelato. Ma non si potrà andare avanti a lungo. Quando al Cairo si renderanno conto che qualcosa, forse poco, ma qualcosa di Mubarak dovrà essere recuperato, è lecito chiedersi come potrà reagire l’opinione pubblica. Tutti questi dubbi sono nelle mani di 50 milioni di elettori. È giusto che sia così. Finalmente è così per l’Egitto. Bisogna accogliere positivamente la volontà di un popolo, quando questa è virtuosa. Ma soprattutto spontanea. È ormai appurato che la primavera araba, in Egitto e in Tunisia, non ha avuto nessuno dietro. Il fatto che passerà alla storia senza il nome di un grande eroe lo conferma. Attenzione però alle ingessature ideologiche e ai preconcetti occidentali.

All’ombra delle piramidi si sta consumando un’evoluzione socio-culturale dai contorni imprecisi. Il Paese resta il faro del laicismo e del progresso nel cuore del Medioriente? È davvero ancora così, oppure le sacche di arretratezza, che si incontrano attraversando le campagne e le città dell’Alto Nilo, sono più povere di quanto si


23 maggio 2012 • pagina 13

Amr Moussa, già ministro degli Esteri sotto il Raìs

L’ex amico di Mubarak che serve all’Occidente Se oggi fossimo a fine maggio del 2010 e parlassimo bene di Amr Moussa nei circoli diplomatici europei e degli Usa, quasi certamente verremmo rimbrottati. Da un decennio, l’ex diplomatico numero uno di Mubarak non vantava una grande stima da parte dei suoi colleghi occidentali. Moussa è stato ministro degli Esteri egiziano dal 1991 al 2001. Una volta abbandonato quell’incarico è stato nominato segretario generale della Lega araba. Ruolo che ha lasciato lo scorso anno perché deciso a diventare presidente dell’Egitto post rivoluzionario. Prima domanda: cosa c’è di rivoluzionario in un grand commis del vecchio regime, nato nel 1936? Se lo chiedono i giovani di piazza Tahrir, ma anche i cittadini del Cairo e di Alessandria, che con la deriva violenta della rivoluzione non voglio avere a che fare. Moussa non piaceva all’Ue e agli Usa perché critico della nostra politica, a suo giudizio, troppo filo-israeliana. Oggi però questi precedenti attriti sono stati insabbiati. Senza tante cerimonie, abbiamo voltato le spalle a Mubarak. Lo stesso abbiamo fatto con Mohammed el-Baradei: candidato anch’egli un po’ troppo anziano e forse opportunista. Ma quando l’ex capo dell’agenzia atomica Onu, l’Aiea, si è sfilato dalle presidenziali, noi non lo abbiamo pressato altrimenti. Ora Moussa sembra essere il nostro uomo. Ma perché di candidati migliori non ce ne sono. Quindi è il meno peggio. Forse questo non è il modo migliore per conservare l’amicizia con l’Egitto.

Abdel Moneim Abul Fotouh, il candidato del popolo

Sono 13 i candidati in lizza e, nel caso nessuno dovesse ottenere la maggioranza assoluta al primo turno, è previsto un ballottaggio il 16 e 17 giugno. Alle urne andranno 52 milioni di persone creda? Al tempo si guardava al Cairo e ad Alessandria come due esempi della riuscita convivenza religiosa. Ma è proprio in quelle due megalopoli che salafiti e copti non si risparmiano colpi su colpi. Agli attentati fuori dalle chiese, gli estremisti cristiani – sì, ci sono anche loro – replicano aprendo le loro santebarbare. Nel mentre attendono che uno dei loro monacisantoni vada a ricoprire la cattedra vacante di papa Shenouda III, scomparso il 17 marzo scorso. In tal senso, al-Fotouh ha sfoggiato una machiavellica desinvoltura nel promettere che, in caso di sua vittoria alle presidenziali, sceglierà proprio tra i copti il suo vice. Mossa effettuata per accaparrarsi il voto dei cristiani ora e la loro stessa benevolenza tra un paio di mesi. Tuttavia, per l’affermazione di una democrazia non sono sufficienti i tatticismi, le convinzioni preconcette e, per assurdo, nemmeno le elezioni.

Bensì è necessario uno sviluppo progressivo nel tempo di tutto questo. Il voto è importante sì. Ma se la popolazione si dimostra poi non all’altezza di questo nobile incarico? Tra il 1950 e il 1953, il liberale Mohammad Mossadeq divenne primo ministro dell’Iran. Il personaggio, con le sue idee progressiste, non piacque agli inglesi e con essi agli americani. Mossadeq cadde e a Teheran tornò lo scià, il cui impero anacronistico e corrotto spianò la strada per l’avvento di Khomeini. Come sempre la Persia ci offre uno spunto di confronto. La storia di questi avvenimenti si è sviluppata per oltre un ventennio. Non aspettiamoci quindi che la rivoluzione in Egitto venga risolta ad appena quindici mesi dal suo scoppio. La Persia la si credeva una nazione fatta e finita, con una struttura sociale più che adeguata per fare il grande balzo in avanti e diventare una demo-

crazia. Il Paese invece non riuscì a difendersi dagli attacchi esterni – Gran Bretagna e Stati Uniti – e nemmeno dall’autoritarismo di Reza Pahlavi.Tre anni di instabilità con Mossadeq, al quale si riconoscono le buone intenzioni, e poi un flash back nell’oscurantismo dello scia e degli Ayatollah.

Chi è pronto a dire, senza nessuna ombra di dubbio, che l’Egitto non sia esposto a questo stesso destino? Si calcola che, di quei 50 milioni di elettori, il 41% sia analfabeta. Tant’è che tutti i candidati, sulle schede, vengono indicati anche con un simbolo. Moussa ha scelto il sole, Fotouh il cavallo. È molto pittoresco. Ma certo non hanno nulla a che vedere con l’elefantino e l’asinello di repubblicani e democratici in America. Piaccia o no, siamo di fronte a un Egitto che, in questi anni, ha messo la retromarcia. La responsabilità è tutta di Mubarak e della sua gerontocratica intellighenzia. Bisogna però prendere atto delle difficoltà attuali e gestirle. Speriamo che ottimismo e buona volontà possano far invertire la rotta e fugare le perplessità.

Il vecchio rivoluzionario che piace alla piazza Ha la barba, ma non è incolta come quella dei salafiti. I capelli sono bianchi. Ma i suoi 61 anni di età non sono poi tanti, rispetto agli over 80 che hanno dominato con il regime di Mubarak. E tutto sommato sono anche pochi se messi a fianco dei 75 di Amr Mussa. Se non fosse che l’Occidente non intende concentrarsi sulla linea moderata espressa in questi ultimi strali di campagna elettorale, Abdel Moneim Abul Fotouh potrebbe già il prossimo 29 venire eletto presidente. Invece è assai probabile che si dovrà andare al ballottaggio. La piazza ammira al-Fotouh. Perché non è vecchio, bensì anziano. Quindi saggio. È un rivoluzionario. Ma non estremista. Ha studiato fisica e medicina all’università del Cairo. Come da prassi per gli innovatori della middle class nazionale. Lo scorso anno ha avuto il coraggio di dissociarsi dai Fratelli musulmani. Ha voluto candidarsi alla presidenziali senza l’ok del suo partito. Questo lo ha espulso, ma alFotouh ha avuto la meglio. Poi però le sue dichiarazioni hanno fatto chiacchierare. Il messaggio passato in Occidente è stato di rivedere il trattato di pace con Israele, introdurre la Shari’a (la legge islamica) e addirittura definire l’operazione in cui è stato ucciso Osama bin Laden come un «atto di terrorismo». Si è poi ricreduto però. Almeno per quanto riguarda Israele. Il vicino è stato indicato come «una realtà con cui il dialogo, per l’Egitto, deve essere prioritario». Insomma, possiamo fidarci al-Fotouh? E se lasciassimo il diritto di replica agli egiziani?


società

pagina 14 • 23 maggio 2012

Il monito del cardinale va letto come un richiamo a quei rappresentanti delle istituzioni che sembrano voler ostacolare il lavoro del governo Monti

Italia, rialzati e cammina Ecco perché l’appello di Bagnasco a una profonda rigenerazione politica e partitica non può rimanere inevaso di Luigi Accattoli alla fine del collateralismo Chiesa-Dc - che possiamo far risalire al 1963: «Pacem in Terris» e primo governo Moro - mai nessun esecutivo aveva goduto di tanto appoggio da parte del nostro Episcopato come il governo Monti. Quell’appoggio, manifestato a chiare lettere fin dalla costituzione del Gabinetto a metà novembre, è stato confermato e rafforzato dalla prolusione all’Assemblea della Cei tenuta lunedì pomeriggio dal cardinale Bagnasco. Un rafforzamento che si è espresso con il forte monito rivolto ai partiti tentati - sei mesi dopo la formazione del governo - di “volersi ritrarre”dal sostenerlo: «Nessuno si illuda che il Paese tolleri facilmente di ritornare alla condizione “quo ante”. Si deve piuttosto scommettere sull’intelligenza dei cittadini, ormai disincantati e stanchi».

D

Il cardinale, che già una volta, in gennaio, aveva qualificato il governo Monti come «esecuti-

Attraverso la sua prolusione, ha dato una sferzata all’Italia affinché «reagisca alla tentazione dello scoraggiamento» vo di buona volontà», è entrato nel vivo di questioni brucianti, dai suicidi degli imprenditori alle responsabilità di «chi doveva vigilare e non lo fece a sufficienza», svolgendo nell’insieme un deciso appello alle forze politiche perché resistano alla tentazione di porre fine alla faticosa impresa del risanamento dei conti e del rilancio della nostra economia. Con la prolusione Bagnasco ha dato concretezza propositiva al monito del Papa - formulato domenica 13 ad Arezzo - «perché l’Italia reagisca alla tentazione dello scoraggiamento». L’elemento di più viva novità - rispetto ai pronunciamenti precedenti dello stesso Bagnasco - va cercato, come dicevo, nella diretta diffida rivolta ai politici che ogni giorno di più sembrano ostacolare il governo che pure sostengono: «Stupisce l’incertezza dei

partiti che, dopo una fase di intelligente comprensione delle difficoltà in cui versava il Paese, ma anche delle loro dirette responsabilità, paiono a momenti volersi come ritrarre». Sviluppando questo ricamo a due facce dell’incoraggiamento al governo e del monito ai politici, il cardinale ha toccato quasi tutti gli aspetti della nostra crisi economica e di sistema ma si è fermato soprattutto su quelli per i quali la Chiesa dispone di qualche strumento conoscitivo proprio e di una sperimentata possibilità di influenza. Il disagio sociale, per esempio, che vuol dire sia disoccupazione, sia suicidi degli imprenditori e degli inseguiti dal fisco. «Urgono iniziative che portino crescita e assorbano disagio sociale: c’è bisogno di lavoro, lavoro, lavoro» ha detto Bagnasco, segnalando su questo fronte una prima possibilità di intervento della Chiesa: «Vanno appurate con diligenza le cause concrete di questi fenomeni, e vanno approntati “sportelli amici” a cui possa rivolgersi con fiducia chi è disperato». «Com’è noto - ha esemplificato - su questo fronte la Chiesa italiana e le varie Diocesi da tempo sono mobilitate in modo operativo e concreto per creare - più fitta e resistente - una rete di protezione della vita di tutti e di ciascuno». Per Bagnasco, come sempre nel caso di suicidi seriali, anche nell’Italia di oggi provata dalla crisi «è difficile sottrarsi alla percezione che vi possa essere un involontario, perverso effetto emulativo» nei confronti del quale è urgente esercitare una funzione di dissuasione comunitaria e interpersonale. Secondo il cardinale questo è un altro settore nel quale i cattolici possono svolgere un ruolo importante: «Nel rispetto assoluto di ogni situazione, noi abbiamo il dovere di ricordare che nulla vale il sacrificio della vita: essa è sacra, nessuno ne può disporre a piacere e neppure a dispiacere». Più in

generale si tratta di svolgere nei confronti dell’intera popolazione italiana un’opera pedagogica di stimolo alla fiducia e all’impegno: «Al cittadino nostro fratello che si sta misurando con una crisi assai più ampia di ogni previsione, vorremmo saper dire parole non scontate di incoraggiamento e di speranza, inquadrando i rischi nei quali stiamo incorrendo, ma anche i segnali positivi e le potenzialità che realisticamente sono alla nostra portata». Su una questione l’attitudine conciliante del cardinale si fa combattiva, se non polemica, quando evidenzia l’illusione di un «avanzamento continuo e illimitato» nella quale ci siamo cullati a lungo e «quando qualcuno segnalava un rischio o l’incongruenza di certi atteggiamenti - ha ricordato con una punta di rivincita personale veniva facilmente tacciato di

In queste pagine: uno scatto dei fedeli giunti in piazza San Pietro a Roma. Una benedizione di Benedetto XVI. Un’immagine del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana. Durante la sua prolusione, all’Assemblea della Cei tenuta lunedì pomeriggio, ha esortato i politici italiani ad attuare un profondo processo di rinnovamento

disfattismo: finchè non è arrivato il momento della verità» È inevitabile leggere in controluce un riferimento all’inossidabile ottimismo berlusconiano, ma il cardinale segnala anche, in altra parte della prolusione, il sogno «illusoriamente progressista» di un «processo comunitario» europeo che avrebbe risolto tutti i nostri problemi ed ecco che per una «serie di stagioni ci siamo sforzati di credere che, come altre volte, la ripresa fosse a portata di mano, che tutto sarebbe stato in qualche modo superato».

Come già aveva fatto il 23 gennaio - ad apertura della sessione invernale del Consiglio Permanente della Cei anche lunedì il cardinale ha fatto suo il logo centrale dell’esecutivo tecnico, che è «salvare l’Italia», in particolare quando ha lodato «l’iniziativa governativa di messa in salvo del Paese, in grado di scongiurare il peggio». La vicinanza linguistica è stata ancora maggiore in un altro passaggio nel quale Bagnasco ha affermato la necessità che «la politica si rigeneri nel


società

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in bocca al cardinale in quest’ultima occasione è suonata così: «Riconoscendo che ieri qualcosa di importante ci era sfuggito o era stato sottovalutato». L’appoggio del presidente della Cei all’esecutivo tecnico è favorito dalla sua non appartenenza a uno degli schieramenti che si contendono la scena ma anche dal fatto che l’episcopato guarda con grande favore a questa stagione di “pausa” che spera favorisca una qualche decongestione della rissosità politica e della contrapposizione ideologica che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni della nostra politica e che gli uomini di Chiesa hanno percepito come fumo negli occhi. Come già osservavo sopra, in Benedetto troviamo lo stesso atteggiamento di favore nei confronti del governo Monti mostrato dal cardinale Bagnasco.

«Occorrono iniziative volte alla crescita e al contrasto del disagio sociale: c’è bisogno di lavoro» segno della sobrietà e della capacità di visione». Basterà ricordare un qualsiasi appello montiano per avvertire la consonanza tra il linguaggio del premier e quello del Presidente dei vescovi, che del resto hanno la stessa età e non mancano di assonanze formative: la cultura umanistica che si insegnava nel liceo del Leone XIII di Milano e in quello del Seminario arciveCOMUNE DI MONTECORVINO PUGLIANO

Bando di gara CIG: 40715025BC CUP: F63D11000820001 Il Comune di Montecorvino Pugliano - Via Roma 1 C.a.p. 84090 - c.a.: Ufficio Informatica www.comune.montecorvinopugliano.sa.it indice Procedura aperta per la realizzazione del Sistema di videosorveglianza del Comune di Montecorvino Pugliano (SA). Quantitativo: euro 344.000,00 IVA inclusa. Offerta economicamente più vantaggiosa. Termine offerte: 09/07/2012 ore 12:00. Apertura offerte: 11/07/2012. Finanziamento: PON Sicurezza per lo Sviluppo Obiettivo Convergenza 2007–2013. Spedizione avviso: 18/05/2012 Il responsabile del procedimento dott. Domenico Langerano

scovile di Genova circa il 1960 non doveva essere granchè diversa. Ma le ragioni di convergenza sono molto più consistenti di quanto non rivelino le affinità linguistiche. Alla base c’è innanzitutto una comune avvertenza della gravità della crisi: «Ancora non c’è

ovunque la percezione di quanto grave sia la situazione attuale», ha detto il cardinale e il Premier lo dice continuamente. Comune è anche la chiamata dei politici all’autocritica che

Monti e il Papa si sono incontrati cinque volte in sei mesi: il 19 novembre (a Fiumicino partendo il Papa per il Benin), il 14 gennaio (Monti in visita in Vaticano), il 24 marzo (a Fiumicino partendo il Papa per il Messico e per Cuba), il 18 aprile (Monti in visita per il compleanno e l’anniversario dell’elezione del Papa), il 13 maggio (ad Arezzo). Ma più che dalla frequenza, la sintonia va cercata nel tono e nelle parole degli incontri, bene riassunti dalle parole con cui Benedetto avviò la conversazione - a microfoni dei media ancora aperti - il 14 gennaio: «Lei ha cominciato bene, però in una situazione difficile, quasi insolubile». La Chiesa ha un vivo interesse a sostenere Monti in questa situazione «quasi insolubile». Abbiamo visto le ragioni di quell’interesse, alle quali va aggiunta la necessità di una soluzione negoziata della questione Ici-Imu, che non è ancora completa. Ma che può fare, in concreto, la Chiesa per Monti? Sommando insieme i gesti e i moniti papali ed episcopali possiamo individuare almeno tre assist alla strategia di salvataggio dei nostri conti e dell’intera nostra barca approntata dal governo tecnico: favorire la reciproca fiducia tra i tre o quattro o cinque poli del nostro sistema politico dilacerato, aiutare a mantenere la pace sociale di fronte alle nuove emergenze economiche e conflittuali, accompagnare la sollecitazione italiana per la creazione di una governance planetaria dell’economia. I più rilevanti tra questi apporti sono i primi due, miranti - per usare le parole del Papa negli auguri in lingua italiana formulati il Natale scorso - ad aiutare «gli abitanti dell’intero Paese a crescere nella reciproca fiducia per costruire insieme un futuro di speranza, più fraterno e solidale». La reciproca fiducia tra gli italiani è la carta fondamentale per la tenuta di questo governo. www.luigiaccattoli.it

e di cronach

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ULTIMAPAGINA In Sassonia, Brandeburgo e Turingia la gente sta cominciando a tornare

Basta Berlino! Adesso gli “Ossi” vogliono vivere di Bartosz T. Wielinski ebastian Müller, ingegnere sulla trentina, non aveva motivo di lamentarsi del suo posto di lavoro presso la fabbrica Audi di Ingolstadt, vicino Monaco, dove guadagnava oltre 4.500 euro al mese. Eppure, come ha spiegato allo Spiegel, ha deciso di tornare dove è nato, nella regione di Lusitz nella Germania orientale, e di lavorare per un piccolo produttore di componenti per auto: «Lavoro meno, ma qui sono più felice che all’ovest». Müller non è un caso isolato: quest’anno centinaia di persone hanno già deciso di lasciare la Germania occidentale per tornare nell’ex Repubblica democratica tedesca in quella che il prestigioso Istituto per la riceca sull’impiego (Iab) di Norimberga ha definito «un’inversione di tendenza». Fino a poco tempo fa, era la Germania est a subire un processo di costante spopolamento: ora accade il contrario.

S

ne, si sono diretti a Monaco, Düsseldorf e Amburgo. Il cambiamento nell’ex Repubblica democratica tedesca è stato esemplificato platealmente dalla demolizione degli enormi condomini in stile comunista, completamente privi di inquilini (sono stati abbattuti circa 130mila appartamenti), e dalla chiusura delle scuole rimaste senza alunni. Sostenuta dalla fuga di cervelli in direzione dei Länder in Occidente, che ha costretto molte aziende a chiudere definitivamente i battenti, la disoccupazione ha continuato ad aumentare. Soltanto pochi anni fa la maggior parte degli esperti prevedeva che entro il 2015 l’ex Germania est sarebbe stata colpita da una grave crisi demografica, ma la catastrofe non sembra destinata a realizzarsi.

Secondo lo Spiegel, infatti, l’anno scorso sono tornate in Sassonia tremila persone in più di quante se ne siano andate. Anche il Brandeburgo il saldo è in attivo, e in Turingia la bilancia della migrazione è ferma sullo zero.

suno li ha mai davvero accolti a ovest. Considerati cittadini di serie B, oggetto di innumerevoli battute sul fatto di essere cresciuti in epoca comunista e di essere incapaci di adattarsi agli usi e costumi occidentali, molti di loro si sentono ghettizzati, con pochissimi contatti con i “Wessi” (tedeschi dell’ovest), e vivono in preda a una nostalgia alleviata solo in parte dalle specialità tipiche della Germania est comprate in appositi negozi online spuntati come funghi per l’alta richiesta. Ancora oggi capita che la stampa parli dei nuovi Länder come se si trattasse di paesi diversi. Nel 2010 ha fatto scalpore il caso di una contabile di Berlino est che si era presentata per un

a DRESDA posto di lavoro a Stoccarda: la sua richiesta è stata respinta e qualcuno sul suo curriculum ha scritto “Ddr”. La signora ha presentato un esposto perché si è sentita vittima di discriminazione, ma ha perso la causa perché la corte ha stabilito che l’etnia tedesca orientale non esiste.

Dopo la riunificazione i cittadini dell’ex Germania orientale sono emigrati in massa verso ovest in cerca di lavoro. Oggi il divario non solo si è ridotto, ma il flusso comincia a invertirsi

Nell’estate del 1990, poche settimane prima della riunificazione tedesca, il cancelliere tedesco Helmut Kohl promise di trasformare gli stati orientali in «paesaggi in fiore».

Anche se nell’arco dei dodici anni seguiti alla sua dichiarazione nella regione sono stati versati circa 1.500 miliardi di euro, i fiori non sono sbocciati. Le industrie che in precedenza erano state amministrate dallo stato si sono rivelate non competitive e la popolazione all’improvviso ha vissuto l’amara esperienza della disoccupazione. Circa due milioni degli abitanti dei cosiddetti “nuovi stati tedeschi” hanno abbandonato le proprie case e sono andati a ovest: nel solo 1990 la Sassonia ha perso 130mila abitanti. L’esodo di massa si è rivelato devastante: i lavoratori più qualificati (circa il 60 per cento degli emigrati dal Mecleburgo-Vorpommern aveva una laurea in tasca), molti dei quali don-

«Provate nostalgia? Levate l’ancora e partite. Non ve ne pentirete!», è lo slogan di uno spot su MV4You, un sito web il cui nome è l’acronimo di “Mecklenburg-Western Pomerania for you”. Nel tentativo di attirare i migranti di ritorno, il sito pubblica anche un lungo elenco di posti di lavoro. Anche la Sassonia ha lanciato una campagna simile, il cui slogan è “Sassoni, tornate a casa!”. Dieci anni fa questi progetti, che nel migliore dei casi attiravano qualche decina di persone l’anno, erano visti con scetticismo. Oggi le cose sono cambiate e anche i politici locali stanno unendosi allo sforzo. All’inizio di aprile Reiner Haseloff, ministro-presidente della Sassonia-Anhalt, ha percorso in lungo e in largo l’ex Germania occidentale per cercare di riportare a casa cinquemila emigrati. I sindaci delle cittadine sono impegnati nella stessa missione, e si iniziano a vedere i risultati: secondo lo Iab oggi starebbero meditando di tornare indietro due emigrati su tre. Gli “Ossi”stanno tornando indietro perché nes-

Nell’ex Germania est nessuno discrimina gli Ossi e – cosa ben più importante – adesso ci sono posti di lavoro disponibili. Il tasso di disoccupazione resta alto, spesso il doppio di quello dell’ex Germania ovest (in MecleburgoPomerania arriva al 15 per cento), ma le industrie locali hanno urgente bisogno di ingegneri e specialisti in tecnologie informatiche. La previsione di Kohl ha iniziato quindi a materializzarsi, e si prevede che alla fine dell’attuale decennio i nuovi Länder avranno recuperato il distacco in termini di standard di vita rispetto ai cittadini dell’ex Germania ovest. Gli edifici storici restaurati e le università brulicanti di vita e iniziative fanno già l’invidia di molte città della Germania occidentale. Dresda, per esempio, è entrata nel novero delle dieci città tedesche a più rapida crescita, e chi vi fa ritorno non deve sperimentare nessuno shock dal punto di vista del reddito. © Gazeta Wyborcza


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