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ISSN 1973-3658

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Anno XV n.1/2013 Trimestrale â‚Ź 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIALE

1998-2013

15 anni insieme! 2013

Vi ricordate? Ci avevano fatto credere alla fine del mondo: fortunatamente non è arrivata, ma cambiamenti ce ne sono stati molti. Il più interessante da sottolineare è l’arrivo del nuovo vescovo di Roma, come a lui piace chiamarsi: Francesco. Tutto il mondo cattolico e non, è rimasto colpito da questo nuovo Papa. Conclamato quando il suo predecessore è sempre in vita, come papa emerito. Francesco da subito si presenta diverso: non segue in maniera canonica rituali e tradizioni, si esime da schemi; un personaggio che tramite la sua semplicità e modestia, arriva diretto, senza nessuna prevaricazione o superbia. È disarmante, ma così traspaiono la vera forza e la volontà dell’uomo illuminato dalla fede. Si può ipotizzare che questo papa può essere il nuovo, il cambiamento? Colui che può fare da faro, illuminare e dare una nuova rotta a tutti i naviganti della terra. Forse stiamo esagerando, certo è un cammino lungo e duro, ma deve essere di fede. Per noi il 2013 segna 15 anni di attività. Il merito va ai nostri collaboratori, ai partner che con il loro apporto economico permettono la vita e la crescita di questo magazine, e naturalmente a tutti i lettori che rendono valido e utile il nostro lavoro. Reality era già sfogliabile sul nostro sito offrendo così l’opportunità di leggerlo a molti lettori specialmente amanti del web. Da questo anno volendo fare di più, stiamo creando l’applicazione – naturalmente gratuita – su apple-store per arrivare ai massimi della comunicazione in rete. Allo stesso tempo, noi amanti e grandi sostenitori della carta stampata abbiamo creato una nuova veste grafica al magazine. Come da sempre sosteniamo e valorizziamo il nostro territorio, dove sono le nostre radici profonde. Al contempo, come una grande sequoia, i nostri rami arrivano lontani a toccare avvenimenti e accadimenti di tutto il mondo. Con questo binomio carta stampata e web, possiamo dire di far arrivare i nostri pensieri a svariati fruitori. Ci piace immaginare i nostri lettori tranquillamente rilassati con in mano Reality, sorseggiando un bicchiere di rum davanti al camino; oppure di corsa, magari mentre si spostano nel caos metropolitano, sfogliandolo sul proprio smartphone. Abbiamo in programma altre novità, ma se ve le sveliamo subito non aspetterete intrepidi la prossima uscita, e noi ce lo auguriamo. Buona lettura.

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MAGAZINE

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Centro Toscano Edizioni srl Sede legale Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Studio grafico via P. Nenni, 32 50054 Fucecchio (FI) Tel. 0571.360592 - Fax 0571.245651 info@ctedizioni.it - www.ctedizioni.it Direttore responsabile Margherita Casazza direzione@ctedizioni.it Direttore artistico Nicola Micieli Redazione redazione@ctedizioni.it Studio grafico lab@ctedizioni.it Abbonamenti abbonamenti@ctedizioni.it Text

Paola Baggiani, Irene Barbensi, Graziano Bellini, Brunella Brotini, Margherita Casazza, Pierluigi Carofano, Carla Cavicchini, Andrea Cianferoni, Carlo Ciappina, Alessia D’Anteo, Carmelo De Luca, Carlo junior Desgro, Angelo Errera, Federica Farini, Enrica Frediani, Maura Laura Ferrari, Eleonora Garufi, Gianluc, Luciano Gianfranceschi, Roberto Mascagni, Paola Ircani Menichini, Matthew Licht, Luciano Marrucci, Marco Massetani, Nicola Micieli, Claudio Mollo, Ada Neri, Giacomo Pelfer, Paolo Pianigiani, Giampaolo Russo, Domenico Savini, Leonardo Taddei, Samuela Vaglini, Valerio Vallini.

Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.n.c.- Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina Cesare Borsacchi La Creola, 2003-04 olio su tela, cm 134x74

Reality numero 67 - marzo 2013 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 © La riproduzione anche parziale è vietata senza l'autorizzazione scritta dall'Editore. L'elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze. Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero del suo autore e pertanto ne impegna la responsabilità personale. Le opinioni e più in genere quanto espresso dai singoli autori non comportano responsabilità alcuna per il Direttore e per l'Editore. Centro Toscano Edizioni Srl P. IVA 017176305001 - Tutti i loghi ed i marchi commerciali contenuti in questa rivista sono di proprietà dei rispettivi aventi diritto. Gli articoli sono di CTE 2013 - Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) - tel. 0571 360592 - e-mail: info@ctedizioni. it - AVVISO: l’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.



foto Davide Morini

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SOMMARIO

A 12 22 24 26 29 30 33 35 36 40

ARTE E MOSTRE In viaggio con Borsacchi La luce del mondo La peste a Lucca SOS opere d’arte Metti una sera a cena Empoli com’era Uffizi colorati Arte fiera Incontri con l’arte L’arte in Italia

T 44 46 48 50 52 54 56

L 58 60 62 65

LETTERATURA Dino Carlesi Cercando il rosso Dove vanno le balene Novità editoriali

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TERRITORIO E STORIA Quando Santa croce Piazza mia bella piazza

Alla scoperta di antichi fasti Langhe e Roero Parma e dintorni Il dono Anna Maria Luisa Principessa Mary

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Individualità pura alcune vetture accelerano il battito del cuore

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SOMMARIO

S 66 68 70 73 74 77

Spettacolo Due regine per un festival Il corsaro Falstaf e le allegre comari Luciana Savignano Junior Eurovision Gli angeli di File

E 79 81 84 86 88 90 91 93 94 95 97

C 98 99 100 102 104 106 108 110

COSTUME Mode di moda Tacco Segugio maremmano Vittime e carnefici Schiavi pirati e lord

Antico Ristoro Le Colombaie I segreti della pasta Colomba pasquale

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ECONOMIA E SOCIETà Workshop Conciati nel tempo Eccellenze toscane Passione pelle Vent’anni di creatività Trasparenza e correttezza Lilli Gruber I miracoli e la scienza Un’altra maglietta please Ritorno al ciclismo Calcio rosa

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ARTISTA

in

viaggio con

Borsacchi

Nicola Micieli

La notte si tinge di nero, il silenzio avvolge il buio e la mente fugge lontano a inseguire i ricordi. Nella solitudine, l’ansia di dipingere ti attanaglia l’anima. La mano traccia sulla tela i primi segni del tuo pensiero e le dita furiosamente spargono i colori. Gli occhi stimolati dalla scoperta, vanno alla ricerca, fra grumi di colore, di un segno premonitore. È da quel segno ritrovato e sognato che nasce l’opera. Quella piccola traccia è lo spermatozoo pittorico che trova nell’utero della tela l’ovulo che feconderà il quadro. È questo il mistero dell’arte. L’artista, con l’aiuto degli occhi, filtra le immagini e le emozioni all’interno dell’anima. In questo angolo remoto dell’uomo avviene il miracolo della creatività artistica. Se le immagini transitano direttamente dagli occhi alle mani, il mistero dell’arte sfugge alla tela.

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er quanto controllata e persino in parte sigillata in una sorta di visualità araldica, la pittura di Borsacchi possiede comunque una sua immediatezza, una trasparenza comunicativa. La cogli alla prima, per via empatetica, nel dispiegarsi energico e sontuoso della forma, nella sonorità del colore, nei decisi contrasti luministici, nell’incidenza esatta e

Cesare Borsacchi Ricordi di Pisa, 1975, olio su tavola cm 39x29 Pagina a fronte Competizioni per la vita, 2007, materiali vari cm 200 h

Cile, 1998

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fulminante del segno. Non inibiscono la “lettura” sensitiva, che vuol dire di pelle o d’intuito, i simboli disseminati con intenzione nel contesto. Non ostano le allegorie che pure hanno un ruolo non marginale nella genesi e nella definizione dell’immagine. All’apparato simbolico si deve accedere, ed è inevitabile che accada, dopo il frastornamento e l’appagamento dei sensi. Confidente di foreste tropicali e mimetismi animali, Borsacchi usa difatti la capziosità estetica della forma, del disegno e del colore, per catturare lo sguardo al percorso obbligato dietro le quinte del suo teatro visionario. È un teatro, il suo, che ha ormai doppiato il mezzo secolo, essendo cominciato tra lo scorcio degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Allora adolescente e artista in erba, Borsacchi viveva allora con la famiglia nella tenuta di San Rossore dove il padre Luigi era guardiacaccia. Circostanza straordinaria, quella di nascere e avviarsi alla scoperta del mondo in un habitat pressoché incontaminato. La vita e la morte,



la fioritura e l’appassimento, la libertà e la necessità vi si mostravano ancora strettamente intrecciati, iscritti nell’ordine fenomenico della continuità e interdipendenza. Un’oasi naturalistica caratterizzata, inoltre, dall’essere contigua a Pisa, città intrisa di memoria storica e specchio d’una bellezza creata dall’ingegno e dall’immaginazione umani, quale segno di una tensione a durare oltre il limite della vigilia terrestre, e degli affanni, e delle illusioni che la contrassegnano. Furono, quelli di San Rossore, anni essenziali per la formazione umana e artistica di Cesare Borsacchi. I suoi primi disegni e dipinti, eseguiti senza mediazione scolastica, recavano lo stigma dei luoghi del mondo che Borsacchi doveve scoprire e lungamente attraversare nel corso dei decenni. Allora egli idealmente filtrava alla cortina vegetale di San Rossore la visione della stessa città di Pisa, con i suoi celebri monumenti profilati in lontananza, in seguito riproponendoli quali simboli di appartenenza nei diversi scenari pittorici in cui si è fissato il suo atlante di viaggiatore. Dovevano essere davvero promettenti le sue prime prove, se l’ormai celebre

Giuseppe Viviani, che la passione per la caccia conduceva sovente a San Rossore, e nella casa dell’amico Luigi Borsacchi, gli fu prodigo di consigli e incoraggiamento, e si sa che il “principe di Boccadarno” non era persona incline alle blandizie e alle lodi gratuite. Potrei indicare possibili analogie, e corrispondenti distinzioni, tra il mondo pittorico di Borsacchi e quello del suo maestro ideale Viviani, ma non è in discussione un’eventuale derivazione stilistica, che non sussiste. Anche perché la formazione di Borsacchi, voglio dire della sua sensibilità e del suo linguaggio, è stata del tipo che in pedagogia si chiama “permanente”. Ossia è avvenuta per successivi incontri ed esperienze legate a contesti contrassegnati da una forte identità etnografica, oltre che a singole personalità creative incontrate e frequentate nel loro ambiente di vita e di lavoro. L’arte precolombiana e quella tribale africana, la cultura araba e islamica e quella latino-americana hanno contato quanto le opere di insigni grandi maestri dell’arte occidentale conservate nei musei, o la conoscenza sul campo di movimenti quali il muralismo messicano e di artisti di prestigio

Visioni ischemiche, 2000 oli su tela ognuna cm 101x65

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come Siqueiros, che non potevano non impressionare profondamente un pittore come Borsacchi attento alla sinergia tra tradizione culturale autoctona e nuove proposte creative. Quel che conta è che da migrante Borsacchi ha assimilato sempre al proprio nucleo originario l’identità altra dei segni e delle illuminazioni raccolti durante il viaggio. Nel senso che partendo dall’oasi di San Rossore, e dal bacino materno dei monumenti pisani di Piazza dei Miracoli che così spesso si intravedono sullo sfondo del fitto della boscaglia, il suo percorso nei luoghi del mondo si è compiuto, stazione dopo stazione, sempre avendo presenti, interiorizzati, i luoghi nativi, sicché un battistero o un campanile pendente non sembrano spaesati su una spaggia africana o al culmine di un vulcano andino. Ecco, Viviani è stato per Borsacchi un compagno di viaggio presente e silenzioso perché interiorizzato come un nucleo originario di identità, e dunque emerge qua e là, inaspettatamente, come un segno, appunto, nel divenire stilistico e figurale dell’opera, che si ispira alla vita e si compie nel laboratorio interiore della sua immaginazione.


Visione ischemica. Ricordi africani, 2001-02 olio su tela cm 124x70



Le immagini del ciclo che Borsacchi ha chiamato Visioni ischemiche, scaturite da una parentesi di “assenza” ovvero da un viaggio specialissimo nel cono d’ombra della malattia, confermano il carattere squisitamente interiore del viaggio visionario che Borsacchi compie con la pittura. Egli afferma di aver avuto nitide quelle visioni durante lo stato di immobilità incomunicante: tanto vivide e suadenti, da rimpiangerle al risveglio. In esse compaiono flash da immagini precedenti, persino brani di incisioni applicate sul denso sedimento materico. Sono immagini oniriche ma anche, a loro modo, storiche, in quanto documentano, come un palinsesto, un processo di formazione che si compie in interiore homini ove sono i depositi cristallizzati del vissuto. Un viaggio nel profondo, dunque, che ha segnato dolorosamente l’esistenza dell’artista, ma gli ha altresì rivelato la scaturigine interiore dello sguardo che nelle apparenze della realtà scorge e riconosce le impronte della memoria personale e collettiva, ed enuclea simboli visivi di ascendenza originaria alle sommerse scaturigini della vita sulla terra. Una discesa visionaria, dunque, alla quale corrispondono, nella fase attuale della sua ricerca, le proiezioni egualmente visionarie che Borsacchi va realizzando come viaggio cosmico. Dalle Visioni ischemiche è approdato oggi alle Visioni lunari nelle quali quei nuclei originari e originanti della vita sono visualizzati nella profondità dello spazio: come mondi in dinamica interazione che prescindono dalla “scalata” umana dello spazio e dei corpi celesti prossimi alla madreterra, e sono prefigurazioni simboliche spazialiste di una “vita” in estensione universale. Da almeno un decennio la ricerca pittorica di Cesare Borsacchi lasciava presagire un possibile approdo alla concretezza della terza dimensione, cui in effetti è pervenuta da alcuni anni, con esiti assai interessanti. Lo suggeriva anzitutto la tendenziale configurazione totemica di molta parte delle partiture seguite al ciclo decisamente surreale delle Visioni ischemiche, realizzate intorno al 2000 dopo il ricordato periodo di “immersione” nell’assenza, tuttavia oniricamente attiva, della malattia. Intendo le partiture impostate distribuendo su Deposizione. Ripensando al Che Buenos Aires, 1995, olio su tela cm 80x120 Chiapas. Orizzonte di sangue Buenos Aires, 1993, olio su tela cm 80x120 A destra Crocifissione - La vita trafitta, 2010 scultura lignea, resina e colore h 240

foto di zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz


Visioni e magie dell’inconscio. Convegno lunare 2012, olio su tavola cm 50x70

Visioni e magie dell’inconscio. Esplosione lunare 2013, olio su tavola cm 70x100 Visioni e magie dell’inconscio. La luna e il riccio rosso 2012, olio su tavola cm 70x100

un asse centrale gli elementi formali e figurali, quindi per lo più bipartite, non di rado in modo pressoché simmetrico, se non speculare. Nelle quali, peraltro, Borsacchi già simulava una spazialità articolata e pluriplanare, architettonica piuttosto che naturalistica e tanto meno organica. Usava inoltre impasti eterogenei di accentuata matericità, dando spessore e accidentalità a talune superfici e rilievo a dettagli figurali, spesso includendo, tra gli altri materiali formalmente spendibili, addirittura oggetti o cose prelevati dalla natura o dal laboratorio umano. Ricordo che per alcuni decenni Borsacchi ha dipinto immagini la cui base realistica appariva variamente attraversata da elementi fantastici, o comunque dilatata sino ad esiti visionari, sulla scia di un’immaginazione fervida e persino esuberante, paritetica e non antitetica a un sentimento della realtà cui aderire nella pienezza della partecipazione simpatetica. Tale duplicità, per un artista come lui viaggiatore nel mondo e tra le civiltà e le culture del mondo, ha avuto anche una molteplice connotazione etnografica.

Ebbene, dall’originario e protratto statuto figurativo Borsacchi ha grado a grado semplificato la partitura pittorica, giungendo a privilegiare, in parallelo, le componenti concettuali del racconto. È così pervenuto a una sorta di forma sintetica risolta in chiave simbolica, per quanto memore della natura e della figura da cui ha seguitato ad attingere motivazione e senso, e sempre intimamente connessa a un’intenzione di racconto. Il passo dal sintetismo formale alla tridimensionalità della pittoscultura era dunque nelle premesse, vista la matericità e pluriplanarità della partitura, e negli ultimi tempi si è compiutamente realizzato in una serie di opere in legno sagomato, assemblato e dipinto, alcune delle quali di considerevoli dimensioni. Borsacchi le ha condotte felicemente contemperando, sotto il profilo sia tecnico che linguistico, le distinte esigenze della forma pittorica sviluppata sul piano, anche sotto specie di figura, e quelle degli impianti – o strutture che dir si voglia – che occupando uno spazio fisico, da questo si lasciano penetrare determinando molteplici punti di vista

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e, dunque, diverse possibilità di lettura. Data l’evidente corrispondenza con gli analoghi pittorici, per le più o meno imponenti opere realizzate nella terza dimensione non parlo di scultura in senso proprio, ossia d’un organismo giocato su valori squisitamente plastici e volumetrici, per quanto non manchino gli interventi a togliere di scalpello o a modellare le dense mestiche colorate. Parlo piuttosto di strutture nelle quali Borsacchi ha trasposto temi figurativi e simbolici già proposti nella pittura, ma che nel legno e nei diversi altri materiali scultorei qualificati anche dal colore, diventano presenze. Assumono cioè una valenza decisamente totemica, come dicevo, si configurano come luoghi polarizzanti, a loro modo memoriali e sacrali nello spazio in cui si ergono vitalizzandolo. Raccontano storie giocate sui radicali della vita e della cultura, sugli archetipi dalla cui rinnovata visione non si può prescindere, se si vuol ribadire la continuità dell’appartenenza umana anche e soprattutto nell’età nella quale la tecnologia, pur essa frutto dell’uomo, sembra negare legittimità ai princìpi fondativi della civiltà.



Stazioni della memoria 6, 1981 acquaforte mm 395x295 Pagina a fronte Visioni e magie dell’inconscio. Sciame cosmico, 2013 olio su tavola cm 50x70

Visioni e magie dell’inconscio. Il lumacone, 2012 olio su tavola cm 45x60 Visioni e magie dell’inconscio. Nirvana dell’assenza cognitiva, 2012 olio su tavola cm 45x60

Nato nel 1937, è vissuto sino al 1962 nella tenuta di San Rossore dove Giuseppe Viviani, amico del padre, non mancò di seguirlo e stimolarlo fornendogli numerosi consigli e insegnamenti relativi soprattutto alla tecnica dell’acquaforte e della litografia. Tra il ‘65 e il ‘67 soggiorna in Kenya, Venezuela, Panama, Messico, Cuba, Perù, Siria, Libano; nel ‘68 in Etiopia, Algeria, Bulgaria, Egitto, Sudan, Eritrea. Nel ‘69 in Equador conosce e familiarizza con il grande pittore Guayasamin e frequenta un corso di pittura alla Esquela de Artes Plasticas de Quito; infine soggiorna in Cile, Brasile e Isola di Pasqua. Nel ‘70 in Indonesia conosce e frequenta molti pittori locali; quindi va in Australia, Tailandia, Singapore, Algeria e Cile. Nel ‘71 in Messico frequenta la Escuela Nacional de Artes PIasticas, conosce Siqueiros e l’arte e la cultura autoctone, che lasceranno un segno profondo nella sua pittura. Tra gli anni ‘72 e ‘74 è in Sud America, quindi Mosca, Kiev, Giappone, India, Siria, Messico,

Australia, Venezuela, Guatemala, El Salvador. Dal ‘75 al ‘79 risiede in Algeria dove e sviluppa una importante attività pittorica. Viaggia per tutto il Paese. Lo affascinano il Sud, le oasi del Sahara, le tradizioni culturali e sociali. Stringe una profonda amicizia con l’ambasciatore del Messico in

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Algeria, Oscar Gonzales, poeta e uomo di vasta cultura. Frequenta molti pittori locali, in particolare Khadda Khodsa e Martinez con il quale organizza all’Ecole des Beaux Arts d’Algerseminari per gli studenti, sui temi dell’internazionalità dell’arte, e sviluppa corsi di grafica, in particolare acquaforte e litografia. Dal ‘79 all’83 in Angola trova nuove motivazioni pittoriche e culturali. Stringe amicizia con intellettuali e artisti locali e partecipa a importanti manifestazioni di cultura popolare nella capitale Luanda. Tra l‘84 e l‘85 è in Venezuela, Colombia ed Equador dove stringe amicizia con il poeta e scrittore Ivan Onate. Tra l‘86 e l‘87 è in Mauritania e Marocco, Gabon, Costa d’Avorio, Camerun, Cina, Pakistan, Perù e Bolivia. Dall‘88 al ‘94 risiede in Argentina dove stringe amicizie significative con intellettuali e artisti, tra i quali Perez Celis, il più importante pittore contemporaneo, viaggia per tutte le province del Paese e nei Paesi confinanti. Nel 1995 rientra a Pisa dove attualmente vive e dipinge.



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MOSTRA

la luce del mondo Maioliche Mediterranee nelle terre dell’Imperatore

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Ada Neri

Nella foto Rossana Mori, presidente Fondazione Museo Montelupo Fiorentino; Gianfranco Rossi, vice presidente Fondazione CRSM; i curatori Fausto Berti, Marta Caroscio e Marzio Cresci, assessore cultura di Montelupo Fiorentino. Foto Elle per CRSM

alazzo Grifoni di San Miniato al Tedesco, ospita nei propri spazi (fino al 19 maggio), la mostra La luce del mondo. Maioliche Mediterranee nelle terre dell’Imperatore, a cura di Marta Caroscio e Fausto Berti con il coordinamento scientifico di Franco Cardini. Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato e dalla Fondazione Museo Montelupo Onlus, con il sostegno del Comune di Montelupo e del Comune di San Miniato, la mostra fa parte del progetto Il Mare tra le Genti. Rotte di cultura, arte e ceramica tra Islam e Toscana, che si è inaugurato lo scorso anno per indagare le potenzialità di dialogo tra i diversi luoghi del Mediterraneo e riscoprire questo mare come canale di comunicazione fra culture diverse. Il percorso espositivo prende avvio dalla valorizzazione dei bacini (ossia stoviglie come ciotole e catini) un tempo murati nella facciata della cattedrale di Santa Maria a San Miniato, rimossi in occasione del restauro del 1979, sostituiti da copie e oggi conservati presso il locale Museo Diocesano. Le maioliche esposte, così come gli altri ogget-

ti, sono produzioni di ambito mediterraneo. I bacini murati sulla facciata della cattedrale di San Miniato sono importazioni giunte dalla Tunisia, che vengono accostate a manufatti delle terre che all’epoca gravitavano sotto l’influenza politica normanno-sveva, la Sicilia in primo luogo. Terre nelle quali si trasmettevano saperi artigianali e tecniche, grazie al contatto fra maestranze diverse e alla circolazione degli stessi modelli culturali. San Miniato, sede del vicariato imperiale, assume un ruolo di particolare rilevanza. Si tratta di ceramiche rivestite con decorazione in cobalto e manganese di produzione tunisina, databili fra il 1165 e il 1220. Gli stessi oggetti erano utilizzati sulle men-

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se, sebbene, trattandosi di importazioni, si trovassero solo in contesti di un certo livello. L’importanza di queste ceramiche consiste nell’essere un nucleo omogeneo utilizzato in architettura con finalità decorative. La decorazione della facciata, così come di altre parti delle chiese romaniche, con ceramiche smaltate e invetriate, è un tratto comune alle chiese pisane dalla fine del X secolo. Una “moda” che da Pisa si diffonderà anche in altre zone della Toscana, come ad esempio in Valdelsa. Fino al Duecento il ruolo di elementi decorativi è assolto dalle ceramiche d’importazione, che solo da questo momento iniziano a essere affiancate dalle produzioni locali. I contatti di Pisa con il mondo islamico e le importazioni da queste aree sono senz’altro favoriti dal ruolo di spicco della città marinara nei commerci mediterranei. Le immagini dipinte sui bacini della cattedrale sono immediatamente riconoscibili come elementi di matrice islamica: decorazioni zoomorfe, oculi con reticolo (forse un riferimento all’occhio di Allah), motivi geometrici e vegetali

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stilizzati. Questi oggetti, che rappresentano il nucleo centrale della mostra, sono messi a confronto con ceramiche provenienti da altre terre dell’imperatore (come le proto-maioliche siciliane), e con importazioni giunte a Pisa da altri contesti mediterranei. Fra i bacini di San Miniato spiccano due grandi ciotole decorate con felini, un catino con una gazzella colta nella corsa e dipinta con tratti essenziali ma che rendono in tutto la dinamicità del movimento. Il nucleo dei bacini sanminiatesi viene esposto quasi nella su interezza. Questi oggetti sono messi a confronto con alcuni bacini inseriti nelle murature delle chiese pisane e oggi conservati presso il Museo Nazionale di San Matteo. Il percorso espositivo prosegue con ceramiche prodotte in Sicilia, scegliendo di dare particolare risalto alla produzione di Gela, a cavallo tra XII e XIII secolo. Nell’ultima sala un gruppo di ceramiche smaltate provenienti da Fostat (Il Cairo) e databili principalmente al XII secolo, ossia coeve alle produzioni tunisine importate a San Miniato, viene accostato a tessuti di produzione italiana e di altre manifatture mediterranee (Iran, Penisola Iberica). L’intreccio

di scambi relazioni mediterranee è così ripercorso attraverso le decorazioni che accomunano ceramiche e materiali tessili. È proprio il dialogo fra i diversi materiali (tessuto, ceramica, metallo) il filo conduttore che attraversa l’intero percorso espositivo. Il grande catino di rame dorato recante l’iscrizione “Karolus Imperator” è centrale in questo senso e mette in luce anche il ruolo delle manifatture di matrice imperiale e delle committenze cui già abbiamo fatto riferimento. I simboli veicolati dagli oggetti diventano quindi il mezzo privilegiato di circolazione delle idee in una temperie culturale tanto articolata quanto varia.

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La luce del mondo. Maioliche Mediterranee nelle terre dell’Imperatore Palazzo Grifoni, Piazza Grifoni, 12 San Miniato (PI) Dal 2 marzo al 19 maggio 2013 Orari di apertura: martedì - venerdì 10.00/13.00 - 15.00/18.00 sabato e domenica 10.00/18.00 Chiuso lunedì - Ingresso libero Per informazioni: Tel. 0571/445252 - 518993 - 51352 lalucedelmondo@ilmaretralegenti.it info@museomontelupo.it www.ilmaretralegenti.it

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Tra il XII e il XIII secolo cambiano profondamente i rapporti fra il potere temporale e quello spirituale e “La luce del mondo” - epiteto che si riferisce a Federico II di Svevia, ma che richiama allo stesso tempo la figura di Cristo - si propone come stimolo alla riflessione su questo cambiamento. Tra i delicati equilibri che vengono stabiliti e talvolta rotti in questo periodo, c’è quello fra committenza imperiale e committenza ecclesiastica nel campo dell’arte. Il sottotitolo Maioliche Mediterranee nelle terre dell’Imperatore spiega meglio il contenuto della mostra. Le maioliche esposte, così come gli altri oggetti, sono produzioni di ambito mediterraneo.

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1. Facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato. Databile al 1160-1287. Ricordata in una bolla papale nel 1195. 2. Dettagli della facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, con le riproduzioni dei bacini, oggi staccati e conservati presso il Museo Diocesano che costituiscono il nucleo principale della mostra. 3. Esempio di edilizia in cotto della Valdelsa con bacini murati. Pieve di San Giovanni Battista a Monterappoli. 4. Dettagli della Pieve di San Giovanni Battista a Monterappoli. La fondazione della pieve si data al 1165; è un esempio di romanico di stile lombardo, da ricollegare al romanico lucchese. Un’iscrizione riporta «Magister Bonserii, vir probo ex gente lombarda 1165». 5. Dettagli della Pieve di Sant’Ippolito e Biagio a Castelfiorentino. Sull’archivolto della porta laterale destra è scolpita la data 1195, che con ogni probabilità si riferisce alla fine della costruzione. 6. Esempio di edilizia in cotto della Valdelsa con bacini murati. Pieve di Sant’Ippolito e Biagio a Castelfiorentino. 7. 8. 9. Bacini con decorazione in cobalto e manganese, produzione tunisina (11651220). Originariamente murati sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, oggi conservati presso il Museo Diocesano. Decorazioni con motivi geometrici intrecciati. 10. 11. Bacini con decorazione in cobalto e manganese, produzione tunisina (11651220). Originariamente murati sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, oggi conservati presso il Museo Diocesano. Decorazioni con motivi geometrici e fitomorfi (vegetali) stilizzati. 12. 13. 14. nel titolo. Bacini con decorazione in colbato e manganese, produzione tunisina (1165-1220). Originariamente murati sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, oggi conservati presso il Museo Diocesano. Decorazioni zoomorfe (animale fantastico in forma di felino, gazzella, scena di pesca). 15. Bacino con smalto colorato con ramina e decorazione in manganese, produzione tunisina (1165-1220). Originariamente murato sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, oggi conservato presso il Museo Diocesano. Smalto colorato con ramina e decorazione geometrica e calligrafica dipinta in bruno di manganese. 16. Bacino con decorazione in cobalto e manganese, produzione Tunisina (1165-1220). Originariamente murato sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria a San Miniato, oggi conservato presso il Museo Diocesano. Decorazione con elemento circolare campito con reticolo che rimanda al cosiddetto “occhio di Allah”.

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A

MOSTRA

la peste a Lucca un capolavoro di Lorenzo Viani

Enrica Frediani

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a GAMC di Viareggio, Palazzo delle Muse, ospita (fino al 30 novembre) nella Galleria dedicata all’artista concittadino Lorenzo Viani, un suo capolavoro: La peste a Lucca (1913 - 1915). L’opera, un olio su tela di grandi dimensioni, (cm 200x400) proveniente da una collezione privata, è esposta tra due oli delle medesime dimensioni, entrambri della collezione comunale raccolta al GAMC, realizzate dall’artista nello stesso periodo: Il Volto Santo (1913-1915) e la Benedizione dei morti del mare (1914), entrambe rappresentano il compendio dei di-

pinti dedicati al doloroso racconto popolare. Tre tele in cui l’artista narra episodi legati alla sofferenza e miseria popolare. In La peste a Lucca, s’intravedono, sullo sfondo del quadro, oltre la barriera muraria, alcune case e la chiesa con il suo campanile e la croce, simbolo di cristianità, diviene per l’artista metafora di significati che differiscono da quello misericordioso. La scena è fortemente drammatica, ulteriormente evidenziata dalle tonalità cromatiche orientate sui toni scuri e dall’impostazione scenica della raffigurazione rigidamente schematizzata e geometrica, che accentua

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la sensazione di dolore fisico e spirituale dei personaggi. Tutto è desolato e desolante mentre gli ammalati paiono accettare con rassegnazione il loro atroce destino. I loro volti scarni ed emaciati, le membra consunte, esprimono, nella rigidità posturale, la tragicità dell’evento che prelude a esiti infausti. In forte contrasto con i corpi cadaverici degli adulti, si notano infanti in primo piano che, adagiati tra le braccia materne, mostrano forme tondeggianti e carnati non ancora colpiti dall’epidemia, quasi che l’autore ne volesse, nella rappresentazione, risparmiarne la sorte.


Mentre La peste a Lucca rievoca il dolore della malattia e della morte, il Volto Santo e la Benedizione dei morti del mare celebrano “le grandi liturgie marinare” dove l’artista vuole sacralizzare, attraverso il rito e i simboli cristologici, il popolo viareggino ma anche tutta la gente povera e reietta. Ida Cardellini Signorini, che curò il catalogo generale dell’artista nel 1978, definì La peste a Lucca, l’opera “più programmatica delle grandi composizioni” di Viani. Essa presenta, nella sua struttura, l’essenzialità e la riduzione pittorica dei legni xilografici, nella ricerca di un sintetismo formale tenebroso e arcaico. Raffigura una leggenda medievale connessa al destino dell’emarginazione dei lebbrosi, abbandonati alla morte fuori le mura della città di Lucca, definita dall’artista “la città monastica”. Dopo 25 anni di isolamento in collezione privata, La peste a Lucca riappare al pubblico. Fu a cavallo tra il 1986 e il 1987 che il grande dipinto fece la sua prima apparizione. In occasione del cinquantesimo anniversario della morte dell’artista il Comune di Viareggio organizzò una mostra itinerante curata da Mario De Micheli portando le opere del maestro viareggino anche a Roma, Milano, Parigi e Firenze. Lorenzo Viani nacque a Viareggio nel 1882. Di grande importanza per la sua sensibilità verso la condizione umana fu l’ambiente povero della Darsena in cui crebbe. La passione per il disegno coltivata fin dall’infanzia fu incoraggiata da Plinio Nomellini che nel 1900 circa lo incoraggiò a frequentare l’Istituto d’Arte di Lucca. Nel 1904 s’iscrisse alla Scuola Libera del Nudo all’Accademia di Belle Arti di Firenze. L’incontro con Giovanni Fattori rappresentò un momento significativo per la sua formazione artistica, conducendolo verso la sobrietà e l’equilibrio. Infine, la frequentazione dell’ambiente artistico parigino avvenuta in più riprese, tra il 1908 e il 1911, rappresentò una tappa fondamentale nella sua maturazione artistica ormai indirizzata verso una pittura drammatica, espressionista, istintiva nella forma e nella sintesi compositiva che tende a esaltare al massimo la tensione emotiva. La sua arte tratta i problemi del sociale: i soggetti erano la povera gente, la loro miseria, le angosce e il dolore fisico e spirituale che dominava le loro vite. «Non penso che la mia sia arte sociale nel senso gretto della parola - scrisse Viani nel 1911, al suo quarto viaggio

parigino -, può essere, mi lusingo che sia nel senso vasto della parola solamente. Evito sempre la composizione e la cronaca, da elementi frammentari voglio che l’osservatore ricostruisca in cuor suo il significato animatore dell’opera. Come da macchie di colore discordanti voglio creare un’armonia, considero le cose e i colori schematicamente come pure i sentimenti, seguo diremo così una prospettiva psicologica …». E, a proposito dei riferimenti con i grandi Maestri: «Essi, i grandi, si sono compenetrati nei legamenti essenziali della visione, hanno scortecciato dalla luce le cose per vedere di sotto la concatenazione fondamentale degli elementi costruttivi del tutto, ci hanno rilevato delle costruzioni musicali, ci hanno insegnato che sotto il cobalto, il verde, il rosa, il celeste, c’è ferma e potente una cosa architettata e complicata. Solo ai grandi è concesso vedere il lavoro armonico e solido della natura … non pittura ma costruzione. Certi quadri italiani antichi potrebbero servire come modelli per costruire una città». L’inaugurazione dell’esposizione realizzata grazie a Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e Salov, é avvenuta il 30 novembre 2012, con interventi di Domenico Mannino, Commissario Prefettizio del Comune di Viareggio, Carlo Sisi, Presidente del Museo Marino Marini di Firenze e Alessandra Belluomini Pucci, Direttore della GAMC. Viareggio Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani

Lorenzo Viani, La Benedizione dei morti del mare 1914 Lorenzo Viani, autoritratto 1910/12 c., Firenze, Galleria d’Arte Moderna Palazzo Pitti

1 dicembre 2012 30 novembre 2013

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A

ARTE

sos opere d’arte

quale intervento? proposte per una teoria del restauro dell’arte contemporanea Pierluigi Carofano

Piero Manzoni Achrome

Alcune premesse Un aspetto cruciale, e in qualche modo inedito, nell’ambito della conservazione delle opere d’arte è oggi il restauro dell’arte contemporanea. Merita subito precisare che questo tema, per quanto peculiare e oggettivamente articolato, s’innesta su una linea di continuità rispetto al restauro delle opere del passato, sulla scorta dell’ormai riconosciuta epistemiologia storico-critica propria dello studio dell’arte contemporanea. È un dato assodato che l’impegno storiografico con il quale si studia l’arte contemporanea è il medesimo col quale ci si dedica allo studio dell’arte antica nel segno di quell’unità metodologica degli studi ben delineata per l’arte antica da Ferdinando Bologna e per quella contemporanea da Enrico Crispolti. Una sostenibile teoria del restauro dell’arte contemporanea si basa dunque sulla convinzione di tale continuità nonché, al contempo, su un approccio sganciato da precetti applicabili genericamente, nella consapevole concretezza di dover affrontare problemi nuovi e specifici di volta di volta emergenti dalla fenomenologia della pratica degli interventi conservativi, sino a tentare una verosimile configurazione metodologica. Non a caso, in quello che deve essere considerato il contributo d’apertura su questi argomenti, Heinz Althöfer osserva ad esempio come «la pittura di ogni epoca presenta sempre problemi speciali per il suo restauro. La tecnica volta a volta impiegata esige infatti metodi conservativi sempre diversi. È lampante, per esempio, che la pittura del XIX secolo, con le sue tele sottili, la preparazione ad olio, il pesante impiego di bitumi, le vernicette facilmente solubili e le velature sovrapposte etc., pone al restauratore problemi molto differenti da quella delle epoche precedenti, tanto, che di regola, il restauro di quadri del XIX e XX secolo è sempre più arduo. Inoltre, a mano a mano che si procede verso la contemporaneità, anche i metodi adatti vengono a mancare». Dunque, la questione del restauro dell’arte contemporanea si presenta come un campo aperto di ricerca e di riflessione metodologica.

Quale contemporaneo? Ma a partire da quando è giustificato e ragionevole parlare di contemporaneo e dunque di restauro dell’arte contemporanea? Ai fini di una plausibile periodizzazione, proviamo a prendere in esame due agili volumi oggi assai accreditati presso i corsi universitari. Mi riferisco, in particolare, a La fine della storia dell’arte o l’autonomia dell’arte di Hans Belting e al fortunato Come studiare l’arte contemporanea di Enrico Crispolti. Nel suo volumetto, Belting ha fornito un’accezione decisamente riduttiva del concetto di “contemporaneo”, circoscrivendolo alla fenomenologia figurativa esclusivamente polimaterica, oggettuale e installativa diffusasi a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Con maggiore rigore storico e attraverso argomenti serrati e convincenti Crispolti ha invece ritenuto più opportuno rubricare

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sotto il “contemporaneo” tutte le manifestazioni artistiche formulatesi in modalità formali e tecniche lungo il XX secolo, individuandone a ragione l’origine storica nella congiuntura Simbolismo-Postimpressionismo-Art Nouveau. Da quest’ultima proposta derivano due considerazioni con ricadute basilari nella prospettiva della conservazione: la prima, relativa alle tecniche, è che gli aspetti innovativi polimaterici esperiti a partire dagli anni Sessanta del Novecento risultano in verità già praticati negli anni Dieci-Venti (basti pensare al collage cubista, al polimaterismo futurista, all’assemblage, al readymade dadaista). La seconda, legata alla conservazione e al restauro, è che considerare la produzione del Novecento come “contemporaneo” comporta il confronto con l’arte di fine Ottocento e quindi con una gamma fenomenologica di pratiche


tecnico-materiali di comunicazione espressiva tale da integrare al suo interno sia le tecniche sperimentali che quelle tradizionali. Dunque, estendendo la periodizzazione di Crispolti al nostro tema, il restauro del “contemporaneo” riguarda l’intera fenomenologia delle manifestazioni artistiche pittorico-plastiche sviluppatesi lungo il XX secolo. Va da sé che la periodizzazione adottata da Belting (e subito condivisa da alcuni Curatori di musei d’arte contemporanea come ad esempio Paul Schwartzbaum, Chief Conservator del Guggenheim), assegnando una egemonia “avanguardista” alle tecniche polimateriche ed installative, trascura di fatto tutte quelle innovazioni materiologiche poste all’interno delle opere eseguite con tecniche così dette tradizionali (basti pensare agli oli di Vedova). Al contrario, quella di Crispolti, accogliendo l’intero arco di manifestazioni espressive maturate lungo oltre un secolo - dalla continuità pittorica al polimaterismo, all’assemblaggio, all’oggettualità, all’installazione, ai nuovi media tecnologici - apre a una gamma amplissima di tecniche, sulla quale si fonda in effetti lo specifico della conservazione e del restauro dell’arte contemporanea, così come lo si sperimenta quotidianamente. Insomma, il contemporaneo va considerato dalla discontinuità dialetticamente innovativa di tipologia tradizionale alla discontinuità proposta da nuove tecniche sia manuali sia tecnologiche. A questo proposito Althöfer ha individuato per il restauro del “contemporaneo” cinque campi principali su cui lavorare: 1. opere eseguite con tecniche tradizionali o a queste assimilabili; 2. quadri monocromi; 3. materiali instabili e combinazioni di materiali; 4. opere deperibili e arte transitoria; 5. opere azionate a motore. Delineando poi i tre casi che presenta l’arte contemporanea al restauratore: 1. opere che possono essere considerate e trattate come quelle tradizionali nel senso più largo del termine; 2. opere che presentano problemi tecnicamente inediti e per i quali vanno sperimentati e impiegati materiali e procedimenti nuovi; 3. opere per cui il problema del

restauro richiede una preliminare disamina da un punto di vista ideologico. Le ragioni della continuità La ragione fondamentale della continuità metodologica del restauro dell’arte contemporanea rispetto al restauro delle opere d’arte del passato è nella consapevolezza già di Cesare Brandi che «si restaura solo la materia dell’opera d’arte». Ovvero, nel restauro non si ricostruisce l’immagine, ma si segue il principio della necessaria restituzione testuale e materiale dell’opera, pur tenendo presente che il restauro «deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo». Le ragioni della discontinuità La prima delle ragioni della discontinuità del restauro dell’arte contemporanea rispetto a quello del passato è nella consapevolezza che lungo il XX secolo, e in particolare a partire dagli anni Cinquanta, molti manufatti non rispondono più a quel principio apparentemente universale, formulato da Brandi, che definisce il restauro come «il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro». Quel momento sottintendeva la capacità dell’oggetto d’arte di far emergere la propria specificità estetica entro la sua materia, il suo tempo, il suo luogo (istanza estetica) trascinando con sé una valutazione specifica dell’opera d’arte. Lasciando intendere, dunque, idealisticamente uno iato tra ideazione artistica e materia; al contrario, la ricerca artistica contemporanea tende all’implicazione dell’artisticità nella materialità. Ora, la discontinuità non è verificabile soltanto nella frattura polimaterica e installativa ma anche nell’innovazione interna alle pratiche tradizionali a partire dalla fine del XIX secolo. A questo proposito, Paolo Montorsi sostiene che «oggi non esiste più una tecnica ortodossa, canonizzata in qualche modo o dalla tradizione di bottega o dalla norma dell’accademia. […] Ogni artista del XX secolo ha una sua tecnica, individuale e non trasmissibile. In molti casi la tecnica si identifica

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addirittura con l’artista: Pollock e il dripping, Fontana e i tagli o i buchi, Yves Klein e gli achrome, il bleu Klein»; e ancora: «il primo passo per la corretta conservazione delle opere d’arte del XX secolo è la conoscenza dei materiali e delle tecniche usate. Spesso i materiali di base, una volta trasformati dall’artista, non sono più riconoscibili al semplice esame visivo». È indubbio che la discontinuità si manifesta anche sotto il profilo di una contrapposizione di fragilità e precarietà tecnica e di materiali rispetto alla consistenza e relativa maggiore durata di quelli antichi: un aspetto questo che implica un’urgenza accelerata di restauro. Lo rileva sempre Paolo Montorsi: «le opere d’arte contemporanea sono molto più fragili di quelle antiche. È spesso necessario restaurarle presto, sia per errori di esecuzione tecnica, sia per la natura deperibile dei materiali impiegati, oppure per il concetto stesso di durata limitata introdotto dall’artista nei suoi happening, installazioni, performance». Infine, la discontinuità può porsi anche in termini che travalicano la consistenza materiologica dell’opera, nel passaggio dalla materia all’idea. Una situazione che segna un netto distacco rispetto al restauro delle opere d’arte antica è la possibilità di confronto tra il committente, il restauratore e l’autore dell’opera, sebbene vada subito affermato che il peggiore restauratore di un’opera è proprio il suo autore, sia nell’ambito della pratica di tipologie mediali tradizionali che innovative, nel segno dell’irreversibile evoluzione linguistica temporale che contraddistingue la vita di ogni opera. Ne deriva che tanto maggiore è il rischio di un rifacimento d’autore in un restauro quanto maggiore è la distanza temporale fra realizzazione dell’opera e il suo restauro. Assai utile invece saranno le informazioni che possono venire da scritti o testimonianze operative degli autori, e in qualche caso la loro consultazione, specie per manufatti oggettuali, potrebbe prevedere anche la reintegrazione di elementi rovinati. Significativa al proposito è la testimonianza di Kiefer: «la cenere che utilizzo su molti miei dipinti non è così evanescente come può sembrare […] e il sistema di integrarla non creerà mai problemi. Le ceneri che uso sono sempre di combustioni vegetali (legno, paglia e carta) e possono facilmente essere rimesse». (1)



MUSEO

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Etruschi cena metti una sera a

“A tavola con gli Etruschi” due anni di attività

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omenica 24 marzo 2013 alle ore 18.30, presso il Museo Archeologico di Peccioli la Card Amici del Polo Museale di Peccioli festeggia due anni di attività con A tavola con gli Etruschi, una cena esclusiva a base di piatti etruschi presentata dalla dottoressa Cristina Cagianelli. Una divertente occasione per mettere alla prova il proprio palato alla scoperta di sapori antichi in una suggestiva ambientazione e per capire come il gusto per il cibo si è modificato nel corso dei secoli. Gli Etruschi, che presso i Romani ebbero fama di grandi bevitori dediti ai piaceri della mensa, possono a buon diritto essere considerati i veri progenitori della cucina toscana. La semplicità di alcune tecniche di cottura e la bontà degli ingredienti, infatti, sono due prerogative della cucina etrusca che si sono conservate fino ai giorni nostri. Gli Etruschi furono sicuramente abili agricoltori e dediti alla pastorizia. Poche sono le fonti che abbiamo a disposizione per approfondire la loro alimentazione

e le uniche testimonianze letterarie sono greche e latine di età imperiale. Sappiamo tramite Ateneo, un autore greco del I sec. a.C., che gli Etruschi due volte al giorno apparecchiavano sontuose mense. I principali alimenti erano derivati da suini, ovini, pollame e cacciagione e sicuramente legumi e frutta. In scavi di insediamenti Etruschi sono stati rinvenuti semi di noccioli, ghiande, olivo, fico, orzo, prugna e addirittura resti di fave. La loro cucina era sicuramente basata su aglio che cresceva spontaneamente nelle zone ombrose, cipolla e alloro ritenuti alimenti curativi, afrodisiaci e stimolanti. Gli Etruschi amavano banchettare. Il banchetto o convivio, aveva un doppio significato: religioso, in occasione di cerimonie funebri, e sociale. Il momento in cui si mangiava insieme era seguito da quello in cui si beveva e conversava, dove la domina, a differenza di quella romana, aveva diritto a partecipare al banchetto con il compito di distribuire il vino. E per allietare i convitati venivano organizzati giochi di abilità e spettacoli di suonatori,

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acrobati e danzatori. Per la realizzazione del menu è stata contattata la Pasticceria Ferretti di Peccioli, che rivisiterà per quest’occasione la cucina degli Etruschi facendoci assaporare la nostalgia di sapori antichi all’origine delle tradizioni della nostra cucina. L’incontro conviviale sarà anche occasione per presentare il programma delle iniziative per l’anno 2013, mirate a conoscere le bellezze e le eccellenze del territorio: importanti mostre di livello nazionale e partecipazioni a eventi di celebrazione di importanti ricorrenze. Sono previste infatti una visita guidata dei giardini e delle cantine di Villa Venerosi Pesciolini di Ghizzano, con degustazione di prodotti enogastronomici locali nella limonaia; a seguire, una visita del gruppo scultoreo dell’Annunciazione attribuito a Tommaso Pisano; una uscita per visitare la mostra Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre presso i Musei San Domenico di Forlì; in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, una visita al Museo Nazionale di Busseto (PR); molte altre promozioni attivate in occasione della Rassegna teatrale 11 Lune.

Irene Barbensi

In alto cena etrusca Interno del Museo Archeologico di Peccioli.


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FOCUS

Empoli com’era identità ritrovata in un dipinto del ‘500 Paolo Pianigiani

In alto Sant’Andrea, attribuito a Raffaello Botticini, dipinto su tavola, 1520 ca A destra Particolare dell’Assedio di Empoli, eseguito da Giovanni Stradano sotto la direzione del Vasari

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urante la recente campagna fotografica, realizzata per il nuovo libro dedicato a Empoli, è comparso dal nulla, dimenticato da sempre, questo particolare quasi nascosto sullo sfondo di una antica tavola dipinta, con un bel Sant’Andrea, patrono appunto di Empoli. Esposta nel museo della Collegiata, insieme a un’altra tavola, dedicata a San Giovanni. L’opera è attribuita (Antonio Paolucci, 1985) a Raffaello Botticini, figlio del più noto Francesco, che insieme tenevano bottega in Firenze, fra la fine del ‘400 e il primo ‘500. A loro si devono molte opere sparse nel contado fiorentino, caratterizzate da frequenti richiami alla pittura dei grandi maestri, come ad esempio Botticelli e Leonardo. Di Raffaello si hanno notizie documentate fino al 1520. Questo particolare, assolutamente inedito, potrebbe aggiungere qualche anno in più alle vicende umane di questo pittore. Ma intanto diciamo la cosa più importante: si tratta della visione del castello di Empoli, ritratta sicuramente dopo il

1523. Ed è la parte fino ad oggi sconosciuta del Castello, quella dove appare porta Fiorentina, che si apriva sul Campaccio degli Alessandri (l’attuale piazza della Vittoria) e dove è visibilissima la chiesina della Madonna del Pozzo. Già nel celebre affresco dell’Assedio di Empoli, eseguito da Giovanni Stradano sotto la direzione del Vasari, questa parte era ben rappresentata, ma con vista opposta, di spalle. Proprio dal raffronto dei due dipinti vengono fuori i particolari che più ci interessano. Si tratta indubbiamente dello stesso edificio, ritratto da due angoli diversi; visto da est (Firenze) nel caso della tavola del Botticini, visto da ovest (Pisa) nel caso dell’affresco vasariano. Nel primo caso la chiesina presenta un recinto in muratura sul davanti, mentre nel secondo quel muro non c’è più, abbattuto probabilmente per ordine di Francesco Ferrucci, che non se la sentì di distruggere quell’edificio sacro, che da pochi anni era stato costruito in ricordo di un miracolo, o presunto tale. Anche i rudi soldati si piegavano di fronte ai richiami della fede. Infatti, nel 1523, al posto della chiesina, c’era l’osteria della Cervia, composta da tre edifici contigui, che fu incendiata e distrutta, lasciando perfettamente intatta una edicola con la Madonna e Santi, che faceva bella mostra di sé davanti a un pozzo. Da lì il nome e il creduto miracolo che, per devozione popolare, portò all’edificazione quasi immediata della chiesa della Madonna del Pozzo, chiamata anche Madonna di Fuori dagli empolesi, perché posizionata davanti alle mura, di fronte alla Porta Fiorentina. Quindi, dal momento che quella rappresentata è indubbiamente la stes-

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sa chiesina, la datazione del dipinto di Raffaello Botticini non può che essere spostata dopo il 1523. Ma, al di là delle date e della chiesa, osserviamo la splendida Porta Fiorentina, qui visibile per la prima volta, e che aveva la stessa imponenza della Porta Pisana, probabilmente gemella e insignita anche lei, dello stesso stemma mediceo. E sembra di scorgerla, la Porta Pisana, sullo sfondo in direzione ovest, perfettamente allineata. Sulla vetta della porta è visibile una parata azzurra, forse un tendaggio di decorazione, che dava il benvenuto ai visitatori che arrivavano da Firenze. Magari per il Mercato, che si svolgeva nella piazza centrale del castello, quella davanti alla Pieve.Succede, a volte, e spesso per caso, di ritrovare questi particolari, inediti e misteriosi, lasciati sugli sfondi dei quadri custoditi nei nostri musei. Sono lì da secoli e aspettano solo di essere riscoperti e raccontati. E le antiche città allora riprendono forma, gli edifici, oggi così cambiati, tornano a splendere; mentre la storia degli uomini, per una volta, torna indietro a ricordare… Nella pagina a fianco particolare di Sant’Andrea, foto di Alena Fialová, pubblicate sul volume Empoli - Editori dell’Acero 2012


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MUSEO

Uffizi

colorati parati d’azzurro oltremare e rosso mediceo

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al giugno 2012 sono state ufficialmente aperte al pubblico nove sale espositive situate al primo piano della Galleria degli Uffizi. Queste si aggiungono all’apertura, avvenuta nel dicembre 2011, delle Sale degli Stranieri – dal secolo XVI al XVIII –, dedicate alle opere dei pittori spagnoli, olandesi, fiamminghi e francesi. Gli ambienti recuperati sono stati restaurati dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, nell’àmbito del cantiere Nuovi Uffizi, allestiti a cura del Polo Museale Fiorentino. Una gradazione di azzurro oltremare distingue la decorazione parietale dei capolavori nelle sale dei pittori stranieri: Charles Lebrun, Nattier, Liotard, El Greco, Goya, Rembrandt, Vélazquez e altri. La prima delle due sale, adiacenti alla Loggia dei Lanzi, è predisposta con i marmi ellenistici e l’altra con tre monocromi di Andrea del Sarto, le cui opere sono presentate nelle susseguenti sette sale, con dipinti dello stesso Del

Sarto, Rosso Fiorentino, Pontormo (tra cui la Madonna con Bambino e San Giovannino), una vasta collezione di lavori del Bronzino (ci sono anche l’Allegoria della Felicità, la Sacra famiglia, l’Annunciazione) e sei dipinti di Raffaello, tra i quali spicca la celebre Madonna del cardellino e l’autoritratto del pittore urbinate. In questi ambienti dedicati al Cinquecento fiorentino dòmina, sulle pareti, il crèmisi di medìcea memoria. Lo scorso 28 gennaio è stato infine presentato il nuovo allestimento della Sala 35, detta di Michelangelo, che si distingue anch’essa per le pareti rosse, come quelle dedicate al Cinquecento, dove si conservano i capi d’opera dipinti a Firenze all’inizio di quel secolo. Tra questi il Tondo Doni (1508), unica pittura certa di Michelangelo, fondamentale per la nascita di quella “maniera” che Giorgio Vasari chiamò “moderna”. L’intervento è stato interamente finanziato dall’Associazione Amici degli Uffizi, con un contributo di 130.000 euro. La Sala 35 si trova al secondo piano

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della Galleria. Ai lati del Tondo campeggiano due tavole dipinte da Francesco Granacci, amico di Michelangelo. Sulle pareti di fianco sono esposte le tavole dei maestri che a Firenze costituirono le due principali scuole pittoriche d’allora: a sinistra, la Scuola di San Marco, con Fra’ Bartolomeo e Mariotto Albertinelli; a destra, la Scuola dell’Annunziata, con Andrea del Sarto e il Franciabigio. Di lato alla porta che immette alla sala stanno infine due quadri ascritti allo spagnolo Alonso Berruguete, eccentrico e lirico artista venuto a Firenze agl’inizi del secolo, dove frequentò Michelangelo e Granacci. Al centro della stanza, come novità del nuovo allestimento, si ammira la monumentale statua di Arianna addormentata (copia romana di un originale ellenistico, III sec. d. C.), nota anche col nome di Cleopatra. Proprio con quest’ultimo nome la cita Giorgio Vasari, quando le attribuisce, nel gruppo dei marmi ellenistici, un fascino così intenso da condizionare il corso dell’arte, dando avvio, appunto, alla cosiddetta “maniera moderna”. Il prestigioso obiettivo del Ministero per i Beni Ambientali e Culturali (MIBAC) è quello di raddoppiare gli spazi espositivi con ambienti destinati a una Galleria degli Arazzi, a un’area riservata alla statuaria e a percorsi per mostre non permanenti e servizi aggiuntivi: nuove biglietterie, un ristorante e un book shop. Una volta ultimati gli interventi, gli Uffizi passeranno dagli attuali 6000 a oltre 12 mila metri quadrati. Intanto, entro quest’anno, saranno allestite 13 nuove sale, al momento in fase di restauro, per circa 1300 metri quadrati; in ogni caso, per poter concludere i lavori nel 2016, occorrerà uno stanziamento aggiuntivo di circa 30 milioni di euro da parte del Ministero dei Beni Culturali.

Roberto Mascagni

Le Sale Azzurre degli Uffizi sono dedicate ai pittori europei attivi dal XVI al XVIII secolo. Nella sala 35 degli Uffizi risplende la bellezza del michelangiolesco Tondo Doni e della statua di Arianna addormentata.

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FIERA

Artefiera quando la cucina diventa arte

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rasformare la cucina in opera d’arte e rappresentare gli chef come veri e propri artisti al lavoro. Questo l’obiettivo del progetto Colortaste del fotografo Alfonso Catalano, che ha scelto Arte Fiera, la città di Bologna e la pasticceria Regina di Quadri per una “golosa” e scenografica preview della mostra che arriverà a Palazzo Isimbardi, a Milano, il prossimo 11 marzo. Protagonisti la chef stellata del Ristorante Marconi, Aurora Mazzucchelli, eletta da Identità Golose “migliore chef d’Italia 2012”, e il padrone di casa, maestro pasticciere Francesco Elmi. L’idea dell’artista è semplice quanto efficace: sollecitare i cuochi a proporre i loro piatti come opere d’arte ispirate alla pittura astratta del ‘900, utilizzando, invece di tinte e colori, ingredienti e materie prime, disposti su un piano traslucido, come fosse la tela di un quadro. Il risultato è un “catalogo” della capacità pittorica degli chef stellati coinvolti che diventano così artisti tout-court, trascendendo la sfera gastronomica per appagare a 360 gradi il proprio spirito creativo. Un progetto anche benefico perché il ricavato della vendita delle opere sarà devoluto alla onlus Pane Quotidiano, associazione milanese che da molti anni si adopera per distribuire generi alimentari di prima necessità. Colortaste non è stato l’unico progetto ad animare il panorama di Artefiera. Il Grand Hotel Majestic “già Baglioni” insieme alla Galleria d’Arte Maggiore hanno presentato una mostra di acqueforti di Giorgio Morandi. Una piccola e preziosa esposizione che vanta un illustre precedente storico: la mostra “a cinque” organizzata per un solo giorno, tra il 21 e il 22 marzo 1914, nei sotterranei dell’allora appena inau-

gurato Hotel Baglioni, in cui Giorgio Morandi espose insieme a Osvaldo Licini, Severo Pozzati, Mario Bacchelli e Giacomo Vespignani. Un’esposizione passata alla storia come un momento di cruciale importanza per l’arte italiana, prima mostra di “avanguardia” tenutasi a Bologna, sulla cui scia si sarebbe sviluppato il gruppo futurista. L’esposizione si presenta come un’occasione per scoprire la vocazione per la tecnica dell’incisione che ha accompagnato Morandi durante tutta la sua carriera sin dai primi anni, permettendogli di raggiungere esiti importanti sia per abilità che per resa poetica e facendogli vincere l’ulteriore sfida data dall’incisione: poter giocare sulla bicromia del bianco e nero e quindi sulle variazione del chiaroscuro e della frequenza del segno. Nella 4 giorni di Artefiera oltre quarantamila visitatori hanno varcato i tornelli dei saloni espositivi e visitato le 170 gallerie, quest’anno volutamente in gran parte italiane. Grande interesse ha suscitato l’artista italo-cubano Bobo Ivancich de la Torriente, che ha esposto nello spazio espositivo di Paolo Curti e Annamaria Gambuzzi un’opera dedicata a Lapo Elkann intitolata “San Lapo”. Un’idea di Lapo nelle sembianze di un santo, una persona che ha molte sfaccettature, una vita vissuta intensamente, di grandi agi sicuramente, ma anche di sofferenza interiore. Un’altra opera che sicuramente non è passata inosservata e che probabilmente farà gridare allo scandalo, soprattutto a Montecarlo, è quella dell’artista Enzo Fiore che nello spazio dedicato alla galleria Contini ha esposto una Grace Kelly realizzata con scarafaggi e rami secchi. Una reinterpretazione della principessa fin troppo vicina a madre natura!

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Giampaolo Russo

Successo per la preview di Colortaste in esposizione a Milano dall’11 marzo. Tra gli artisti presenti in fiera Bobo Ivancich con il suo “San Lapo”

Bobo Ivancich de la Torriente con Andrea Cianferoni. Il direttore del Grand Hotel Majestic Tiberio Biondi e Chiara Caliceti. Grace Kelly in versione scarafaggi.

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Incontri CON L’ARTE

A SPASSO LUNGO L’ARNO

DA DÜRER A PICASSO

BRUNO CARUSO

REDINGOTE, CILINDRI E TRINE NELLA PISA DELL’OTTOCENTO

BREVE STORIA DELL’INCISIONE

L’ARTE DEL DISEGNO

mati dal nobile pisano ed appassionato d’arte Francesco Ruschi, documenta invece l’immagine di una realtà nobile più “domestica” e famigliare. Sempre alla stessa mano sembrerebbero inoltre riconducibili le curiose vignette caricaturali che concludono il percorso espositivo, contenute negli album provenienti da un’altra collezione privata (datate agli anni Settanta del XIX secolo). La seconda mostra: Da Dürer a Picasso. Breve storia dell’incisione (a cura del Museo della Grafica) rimanda invece a un clima artistico completamente diverso, in cui è possibile riscoprire il ruolo svolto dalla stampa nella circolazione e diffusione dell’arte visiva nel corso dei secoli. In esposizione una cinquantina di stampe con le quali si è cercato di presentare alcuni esempi degli autori più significativi nella storia dell’incisione e della grafica d’arte: dai bulini cinquecenteschi di Dürer, alla celebre incisione dell’Annunciazione di Barocci, alle seicentesche acqueforti del lorenese Callot, del fiorentino Della Bella e del grande Rembrandt, fino alle vedute settecentesche di Canaletto e di Piranesi, soltanto per ricordare gli autori più noti. Il percorso continua con alcune testimonianze degli esiti piu maturi della stampa ottocentesca (Manet, Méryon, Fattori) e del Novecento italiano (Viviani, Morandi e Bartolini), per poi concludere con artisti delle Avanguardie (Picasso, Braque, Chagall) e contemporanei (Santoro, Desmazières, Ciampini). Le opere esposte, appartenenti in parte alla collezione del Museo e in parte di

collezione privata, documentano in un arco cronologico piuttosto vasto, varie tappe e momenti importanti nell’evoluzione dei diversi generi artistici e delle tecniche grafiche. Infine, a uno degli artisti più significativi e rappresentativi della grafica contemporanea è dedicata la mostra antologica Bruno Caruso. L’arte del disegno (a cura di Caterina Napoleone). La selezione dell’ottantina di opere, tra disegni, acquerelli ed acqueforti, realizzate dal celebre artista siciliano dal dopoguerra a oggi, intende dimostrare le molteplici tematiche affrontate durante la sua lunga carriera artistica. Il percorso inizia dalle opere degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, dove la passione e l’impegno politico portano Caruso a un’attenta e severa indagine sulla realtà (Stop War, 1969), spesso con momenti di forte denuncia sociale (La real casa dei matti, 1975), fino a quelle in cui l’artista indaga con uno sguardo curioso e attento le contraddizioni della società contemporanea (Jungla, 1976). Concludono la mostra le opere dedicate alle “meraviglie” della natura, tema caratterizzante di buona parte della sua produzione artistica (Istrice, 1995).

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aranno aperte fino al 2 aprile le tre mostre in corso al Museo della Grafica di Pisa: tre interessanti appuntamenti con l’arte e con la storia, all’interno della suggestiva cornice dello storico Palazzo Lanfranchi. Comincia tra le sale del primo piano l’inedito e curioso percorso espositivo della mostra: A spasso lungo l’Arno. Redingote, cilindri e trine nella Pisa dell’Ottocento (a cura di Alessandro Panajia e Stefano Renzoni), dove sono state riproposte alcune delle immagini più significative di una serie di schizzi, disegni e acquerelli riprodotti tra le carte di alcuni taccuini ottocenteschi. Fanno parte della personalissima collezione di album appartenuta alla contessa Maddalena Serristori Agostini i disegni (di autori ignoti) che compongono il primo nucleo espositivo, databile tra il 1846 e il 1852. Un genere, quello degli “album amicorum”, assai diffuso nei salotti aristocratici dell’Ottocento: curiosi souvenirs e diari di viaggio, che soprattutto le dame usavano per documentare conversazioni e incontri amicali e che rientrava in quel gusto tipicamente mondanofemminile, in cui vita pubblica e privata s’incontravano per divenire un tutt’uno. È così che nei racconti figurati dei divertenti e originali ritratti caricaturali che formano la raccolta di Maddalena, è possibile riconoscere alcuni dei personaggi pisani più noti, provenienti dalla società colta e cosmopolita pisana pre-unitaria. In mostra, un’altra serie di acquerelli appartenuti alla stessa contessa, datati 1856 e fir-

Valentina Diara

MUSEO DELLA GRAFICA DI PISA SEDE PALAZZO LANFRANCHI LUNGARNO GALILEI, 9 - PISA lunedì: chiuso martedì - venerdì: ore 10:30/12:30 - 16:30/18:30 sabato e domenica: 10:30/18:30

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CLELIA CORTEMIGLIA

FRANCO TARANTINO

L’ASTRAZIONE GEOMETRICA

PERCEZIONI SPIRITUALI

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li artisti milanesi Clelia Cortemiglia e Franco Tarantino hanno esposto la loro più recente produzione pittorica a Palazzo Ducale di Massa (mostra e testi critici a cura di Enrica Frediani). Due importanti artisti che operano nel panorama internazionale dell’arte contemporanea, accendono un appassionante confronto su espressioni linguistiche provenienti da diversa formazione raggiungendo, entrambi, sorprendenti esiti stilistici che stimolano il visitatore a interrogarsi sul loro percorso e sui riferimenti storici connessi attraverso la visione di circa quaranta opere. Clelia Cortemiglia si esprime attraverso l’astrazione, dove figure geometriche, prospettive multiple e rovesciate, ritmica musicalità e sonorità materiche, rappresentano la cifra stilistica di un messaggio artistico basato sui fondamenti della cultura egizia che l’artista rivisita attraverso la poetica cubista e i concetti della lezione spazialista di Lucio Fontana, del quale Cortemiglia è stata allieva e amica. Il segno è plastico, cromaticamente in rilievo; assorbe e respinge le fonti luminose che lo investono creando virtuosismi umbratili sulla raffigurazione rigorosamente bicromatica: bianco e oro, o nero e oro a

simboleggiare purezza e spiritualità, preziosità e luce, e le tenebre dello spazio infinito, dove il tempo resta immutabile. Franco Tarantino, pittore, scultore, grafico, riflette su una creatività che mostra le stratificazioni di un sapere colto e articolato, dove istintive emozioni, percezioni spirituali, gestualità meditativa e liberatrice si fondono con storiche memorie per restituirne i suggestivi incanti. L’indagine sulla fonte luminosa favorisce sensazioni spirituali di Rotkiana memoria sulle quali s’impone il gesto rituale, segno spontaneo e primitivo lasciato cadere da un pennello madido di colore, omaggio a Pollock. Recentemente, Tarantino torna sul concetto di coinvolgimento tra passato e presente realizzando opere portatrici di memorie storiche e immagini classiche su campiture cromatiche estremamente attuali, dove il candore di algidi angeli, cavalli albini e riproduzioni di statue dell’antica Grecia s’impongono agli scuri fondali del campo pittorico creando suggestivi spaesamenti spazio – temporali. Con il patrocinio di: Provincia di Massa Carrara - Ass. F.I.D.A.P.A. di Massa Carrara - Italia Nostra Sez. Massa Montignoso Museo Ugo Guidi e dell’Ass. Amici del Museo Ugo Guidi.

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Incontri CON L’ARTE

FIRENZE PER FÉLICIE DE FAUVEAU RISCOPERTA DI UNA SCULTRICE OTTOCENTESCA

4-5 APRILE 2013

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ravestita da soldato, una “madamigella” si aggira nella notte per le campagne della Vandea, fomentando la rivolta contro il nuovo re di Francia, per lei illegittimamente al trono: è Félicie de Fauveau, scultrice francese dagli alti natali e dall’ardente passione politica. Catturata e condannata alla prigione, una volta riguadagnata la libertà Félicie lascerà la Francia, stabilendosi nel 1833 a Firenze in volontario esilio. Ad aprirle le porte della scena artistica fiorentina fu lo scultore Lorenzo Bar-

tolini, ma molte furono le personalità residenti nel granducato, da Carolina Bonaparte ad Antole Demidoff, che coltivarono l’amicizia con l’eccentrica scultrice dal talento raffinato, procurandole importanti commissioni. Una pasionaria dalle radicali posizioni legittimiste, in campo artistico la De Fauveau precorse il movimento dei preraffaelliti, promuovendo la rinascita dell’arte medievale e dello stile trovadorico. L’artista, le cui opere sono state al centro di un significativo restauro, è ora protagonista a Firenze di un importante ciclo di conferenze intitolato Firenze per Félicie de Fauveau. Il complesso di Santa Maria del Carmine farà da scenario al primo incontro, giovedì 4 aprile alle 15.30: Gabriella Tonini (Nike Restauro Opere d’Arte) illustrerà il recente intervento restaurativo sul monumento funebre di Anne de la Pierre, madre dell’artista, realizzato da Félicie de Fauveau nel 1859 e considerato, per la profonda natura psicologica del ritratto, uno dei più alti esempi di scultura del XIX secolo. Il restauro, patrocinato dal Polo Museale Fiorentino, dal Comune di Firenze e dall’Opera di Santa Croce, è stato sponsorizzato dalla Advancing Women Artists Foundation (AWA), un’organizzazione non profit fondata dall’autrice e filantropa statunitense Jane Fortune e impegnata nell’individuazione, il restauro e l’esposizione pubblica di opere d’arte realizzate da donne artiste presenti nei musei, nelle chiese e nei depositi fiorentini. Silvia Mascalchi, autrice della prima monografia in italiano sull’artista (Félicie de Fauveau. Una scultrice romantica da Parigi a Firenze - Leo S. Olschki, 2011) presenterà una relazione riguardante la casa-studio di Félicie de Fau-

Ritratto di Félicie de Fauveau, 1830. Monumento a Anne de la Pierre prima del restauro. Monumento a Anne de la Pierre dopo il restauro. Particolari del monumento sepolcrale di Louise Favreau situato nel loggiato del cortile di Santa Croce.

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veau nell’Oltrarno fiorentino. L’atelier dell’artista in via dei Serragli, una bottega-oratorio di ispirazione medievale dove si lavoravano il bronzo, l’oro, il marmo, la terracotta, l’ebano e il vetro, costituì infatti una vera mecca artistica per i viaggiatori del Grand Tour. E proprio la “bottega” sarà infine l’oggetto della presentazione di Enrico Colle, soprintendente del Museo Stibbert, che introdurrà il suo studio Dal neoclassicismo al neogotico e oltre. Modelli d’ornato e imprenditorialità nelle botteghe fiorentine della prima metà dell’Ottocento. Il secondo incontro, presso la Sala del Cenacolo di Santa Croce (venerdì 5 aprile, ore 15.30), esplorerà un altro progetto conservativo sponsorizzato dall’AWA: il monumento sepolcrale di Félicie de Fauveau in memoria di Louise Favreau, poetessa diciassettenne delle Indie occidentali. Situato nel loggiato del cortile di Santa Croce, il sepolcro viene considerato il capolavoro della scultrice francese. Silvestra Bietoletti, studiosa dell’ottocento fiorentino, affronterà il tema de La maturità artistica di Félicie de Fauveau nella Firenze preunitaria mentre lo storico dell’arte Carlo Sisi parlerà di Félicie de Fauveau e il revival di Dante nella sua conferenza Immagini e trasfigurazioni dantesche nell’arte dell’ottocento. Linda Falcone


PISTOIA DIALOGHI SULL’UOMO QUARTA EDIZIONE

24-26 MAGGIO 2013

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opo il successo della scorsa edizione con oltre 12.000 presenze, torna dal 24 al 26 maggio Pistoia - Dialoghi sull’uomo festival di antropologia del contemporaneo promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e dal Comune di Pistoia, ideato e diretto da Giulia Cogoli. Venti gli appuntamenti che, per tre giornate, animeranno il centro storico di Pistoia: incontri, spettacoli, dialoghi, letture e una mostra fotografica, proposti sempre con un linguaggio accessibile a tutti e rivolti a un pubblico interessato all’approfondimento e alla ricerca di nuovi strumenti e stimoli per comprendere la realtà di oggi. La quarta edizione dei Dialoghi ha come titolo L’oltre e l’altro. Il viaggio e l’incontro, un tema alla base degli studi antropologici e al contempo di inesorabile attualità nell’era della globalizzazione e dei viaggi low cost. Il viaggio e l’incontro con l’altro finiscono per trasformare l’individuo e la sua percezione, perché il viaggiatore si abitua a confrontarsi, a cercare somiglianze e punti di differenza. Il viaggio è anche uscire dai propri costumi, dalle proprie abitudini, perché in un mondo in cui i flussi di persone e di idee sono

sempre più rapidi, viaggi e incontri danno vita a nuovi panorami, diverse visioni del mondo, che si nutrono delle culture d’origine e di quelle d’approdo. E gli incontri possono diventare amicizia, legame, scambio o scontro. Quando il nostro sguardo incrocia uno straniero, o quando uno straniero arriva a casa nostra, di lui vediamo il volto: è tutto ciò che conosciamo di quella persona. Quel volto ci pone inevitabilmente un interrogativo: cosa vogliamo fare di lui o con lui? Abbiamo due possibilità: parlare con lui o considerarlo un nemico. Lo straniero può venire in pace o portare guerra e altrettanto possiamo fare noi, che siamo a nostra volta stranieri ai suoi occhi. Il viaggio, diceva Camus, è come una scienza più grande e grave, che ci riporta a noi stessi. «Se hai vissuto in giro» sosteneva invece Henry James «hai perduto quel senso dell’assolutezza e della santità delle abitudini dei tuoi compatrioti, che una volta ti rendeva felice in mezzo a loro. Hai visto che esistono moltissime patriae nel mondo e che ciascuna di esse è piena di persone eccellenti per le quali le peculiarità locali sono la sola cosa che non è più o meno barbara». Il viaggio crea il comparatista e il relativista e, come scrive Claudio Magris: «Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte». Dialoghi sull’uomo, dunque, perché un dialogo nasce da un incontro ed è più ricco se i dialoganti sono diversi. Per info: www.dialoghisulluomo.com Ufficio stampa Delos 02.8052151 delos@delosrp.it

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L’arte in italia

Carmelo De Luca

STORIE DELLA PRIMA PARMA

PORCELLANA GRANDUCALE

ANTONIO LIGABUE

12 GENNAIO 2013 2 GIUGNO 2013

19 MARZO 23 GIUGNO 2013

2 MARZO 9 GIUGNO 2013

PARMA

FIRENZE

LUCCA

Museo Archeologico Nazionale Strada alla Pilotta 5

Museo degli Argenti Piazza Pitti

Lucca Center of Contemporary Art Via della Fratta 36

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trusca, gallica, romana, Parma vive vicende caratterizzate dalla continuità storica ma, anche, dalla sua rinascita; la posizione di crocevia commerciale, le risorse idriche, il terreno votato all’edificabilità, rappresentano gli ingredienti che le hanno permesso la sopravvivenza. La mostra ripercorre questa realtà attraverso le scoperte archeologiche, che ne evidenziano la multiculturalità grazie alla posizione di confine con Etruschi, Veneti, Galli italicizzati, Liguri, cultura di Golasecca. Il periodo romano coincide con una rinascita di Parma nella sfera sociale e religiosa, come dimostrano i reperti presenti nelle sale espositive, senza perdere il legame con le culture passate. La mostra è suddivisa in quattro sezioni: Sulle tracce degli Etruschi, Vivere in un villaggio dell’età del Ferro, Rituali sacri e funerari, Un nuovo inizio: la romanizzazione.

l Museo delle Porcellane dedica una raffinata mostra alle sue collezioni risalenti al periodo napoleonico e lorenese. La dominazione francese porta un rinnovamento culturale nel Granducato grazie a Elisa Baciocchi, così la storica Manifattura di Doccia trova linfa creativa nelle contaminazioni galliche, supportate da Carlo Leopoldo Ginori Lisci, suo illustre direttore. Quando gli Asburgo-Lorena ritornano in patria, incentivano la politica artistica iniziata dalla Baciocchi, integrando la collezione di Palazzo con alcuni capolavori prodotti a Sèvres, dei quali la Manifattura approfondisce le tecniche nella produzione fiorentina, aiutata dalla presenza in Città di Jean David, Joseph de Germain, Abraham Constantin. La mostra vanta 120 opere e il carteggio relativo alle vendite di quegli anni.

ipinti, disegni, grafiche, sculture raccontano il “selvaggio” dell’arte italiana, colui che ha prodotto autentici capolavori in una dimensione creativa plasmata da originalità, passione, ispirazione, genialità e condizionata da una lucidità discontinua. Personaggio enigmatico per la critica, Ligabue racchiude nelle opere prodotte il segreto legato alla sua grandezza artistica generata, forse, dall’alterazione della mente oppure da una consapevole follia, intrisa dalla genialità creativa o, forse, dalla semplice sovrapposizione tra la dimensione reale e quella onirica. La mostra lucchese permette al visitatore di approfondire questi misteri grazie a molti capolavori, tra i quali si menzionano due inediti Notturni, e di percepire l’istinto di sopravvivenza che il maestro esternava attraverso il suo operato artistico.

GLI ANNI 60 NELLE COLLEZIONI DEL GUGGENHEIM 9 FEBBRAIO - 12 MAGGIO 2013

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VERCELLI

Chiesa di San Marco - Piazza San Marco, 1

apolavori ideati da Robert Rauschenberg, Jean Dubuffet, Cy Twombly, Frank Stella, Andy Warhol e altre celebrità, raccontano gli anni Sessanta attraverso le Collezioni Guggenheim. La Pop Art decreta la supremazia artistica statunitense e il mondo ne riconosce il merito innovativo insieme al ruolo ricoperto dalla comunicazione in ambito culturale, non a caso la pittura monocromatica, il concettualismo, il culto per l’icona, rappresentano i nuovi canoni artistici coltivati dalla scuole di pensiero negli States, esempio per la vecchia Europa. La mostra illustra questo fermento mediante la sperimentazione fatta sulla materia e sul linguaggio, l’espressione ideata attraverso la rarefazione compositiva, la dissacrazione della tradizione visiva, reinterpretata attraverso la rivoluzione iconica e mediatica.

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GRANDI MAESTRI PICCOLE SCULTURE DA DEPERO A BEVERLY PEPPER 6 APRILE 30 GIUGNO 2013 PISTOIA Palazzo Sozzifanti Ingresso Vicolo dei Pedoni, 1

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n mostra la parte più recente della raccolta del collezionista: circa 200 opere, quasi tutte di piccole dimensioni, per un excursus lungo la storia dell’arte del XX secolo. Tra grandi maestri, e interessanti scoperte, l’esposi-

FRANCESCO CREMONI TRASPARENZE DI UN SOGNO 6 - 30 APRILE 2013 FORTE DEI MARMI Museo Ugo Guidi e Logos Hotel

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l sole, la luce, l’aria, il mare, il vento, l’acqua, l’amore nell’accezione più ampia del termine, è parte di un sogno. Il sogno della vita. Francesco Cremoni ne carpisce i segreti più profondi, i significati più intimi traducendoli in forme poetiche il cui lirismo è

zione raccoglie un numero notevole di testimonianze dell’arte scultorea internazionale del secolo scorso. Ciascun movimento artistico è rappresentato da artisti emblematici del panorama mondiale: Espressionismo storico, che ha interpretato le inquietudini e la crisi di una società; il Fauvismo, caratterizzato dalla resa della figura umana a stesure piatte; il Cubismo; il Futurismo; il Surrealismo. Si prosegue con l’esperienza razionale del Concretismo; lo Spazialismo; l’atteggiamento positivo verso le nuove tecnologie incarnato dal Neoconcretismo; l’Informale europeo e la sua concezione trasgressiva dell’arte attraverso le opere. Si esplora il Movimento Nucleare, molto sperimentale e affidato alla gestualità e all’ironia dissacrante; il Nouveau Réalisme; il gruppo sperimentale Fluxus, che ha rifiutato il concetto stesso di “opera d’arte” utilizzando materiali insignificanti per le sue creazioni; il ritorno all’oggetto dell’esperienza quotidiana del New Dada. Per la Pop Art ci sono esempi delle diverse sensibilità: quella inglese che omaggiava la valenza kitch; quella americana che riscopriva il valore positivo e utile nella società e quella italiana, più ironica e spregiudicata.

scritto nella leggerezza del battito d’ali di una farfalla che si libra nell’aria Messaggero; nelle trasparenze di finissime mussole, lacerate da venti impetuosi, che aderiscono alla sinuosità del corpo di Afrodite. Emozioni, sentimenti, stati d’animo entrano nel sogno rendendolo vivo … , i pensieri si affollano nella mente, scavano nel subconscio, affiorano dal profondo turbamenti, suggestioni e tornano vorticosamente in superficie travolgenti emozioni. L’artista riflette sulla statuaria greca, rivisita le immagini di classica memoria, ne coniuga il potere evocativo e simbolico con una scultura che s’investe della più solare e aperta tradizione mediterranea. Fonde l’antico con l’attuale fino ad arrivare a interpretazioni astrali caratterizzate da una sintesi plastica e strutturale che trova la sua dimensione nelle opere monumentali. Nel suo “sentire”colto e appassionato, nell’accorarsi alle sorti dell’umanità, ne studia le civiltà più antiche. E il sogno, l’agognato desiderio di materializzare l’idea e l’impossibile divengono, nella scultura di Francesco Cremoni, realtà. (Sintesi del testo del catalogo della mostra, per gentile concessione dell’artista) a cura di Enrica Frediani

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IL SUCCESSO ITALIANO A PARIGI: LA MAISON GOUPIL 22 FEBBRAIO 23 GIUGNO 2013 ROVIGO Palazzo Revorella Via Laurenti 8/10

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maggio alla Maison Goupel, la mostra ripercorre la gloria della celebre galleria, sopratutto per mano italiana, quando nel 1850 si specializza nella vendita di opere originali, diventando riferimento per mercan-

NOVECENTO 2 FEBBRAIO 16 GIUGNO 2013 FORLì Musei San Domenico Piazza Guido da Montefeltro

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ella prestigiosa sede dei Musei San Domenico, promossa e organizzata dalla Fondazione Casse dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì, una bellissima mostra racconta la rinascita culturale,

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ti, collezionisti, e il Salon parigino. Grazie ai contratti stipulati con artisti internazionali, i suoi ambienti sfornano dipinti dove dominano interni, giardini, vedute, paesaggi, personaggi in costume. Il successo sprona i proprietari alla riproduzione delle opere da destinare al mercato meno abbiente, sopratutto attraverso la fotografia, della quale i Guopil realizzano mezzi riproduttivi all’avanguardia. Pittori impressionisti, di genere, pompiers, barbizzoniers, animano gli atelier messi a disposizione dai proprietari, creando un riferimento per la cultura parigina. Gli anni Settanta, legati al XIX secolo, coincidono con il successo italico in galleria, non a caso Giovanni Boldini, Alceste Campriani, Vittorio Corcos, Eugenio De Blaas, Giacomo Di Chirico, Antonio Mancini, portano nuovo respiro artistico grazie al loro originale operato visibile negli ambienti di Palazzo Revorella. L’esposizione si apre volutamente con Giuseppe De Nittis, in quanto caposcuola e promotore della corrente italiana presso il rinomato atelier; l’artista è presente in mostra con alcune opere, tra le quali si annoverano La descente du Vésuve e La route de Naples à Brindisi.

avvenuta in Italia tra le due grandi guerre combattute nel XX secolo, che coinvolge pittura, scultura, architettura, urbanistica, ebanisteria, oreficeria, grafica, pubblicità, design. In effetti, l’avanguardia cubista e futurista non riesce a immedesimarsi con il nuovo decorso storico, cedendo lo scettro al passato riveduto secondo le nuove esigenze locali, nelle quali il richiamo all’antico viene rivisitato attraverso la costruzione di una mitologia moderna, così Carrà crea una classicità legata alla forma plasmata da una avveniristica geometria, De Chirico si spinge oltre sino a identificarsi con lo stesso ideale classico, creando un filo conduttore tra tradizione e modernità. Alla ricerca di una propria identità culturale, lo stesso Fascismo trova committenze tra le nuove avanguardie rappresentate nel museo domenicano attraverso l’arte murale, le mostre supportanti l’ideologia fascista, la progettazione di edifici monumentali. Severini, Casorati, Sironi, Rosai, Balla, Manzù e altri nomi blasonati, riempiono le sale espositive a dimostrare quella simbiosi creatasi tra architettura e pittura grazie allo studio dell’arte rinascimentale, la cui anima è presente anche nei gioielli, mobili, moda.


GIUSEPPE DE NITTIS 19 mAGGIO 26 MAGGIO 2013 PADOVA Palazzo Zabarella Via San Francesco, 27

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egno tributo a Giuseppe De Nittis, la mostra pavese regala al pubblico 120 opere molte delle quali inedite e mai viste in Italia, basti menzionare le famose vedute londinesi. Pittore apprezzato nella

LA PRIMAVERA DEL RINASCIMENTO 23 MARZO 18 AGOSTO 2013 FIRENZE Palazzo Strozzi Piazza Strozzi

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a mostra celebra la scultura rinascimentale fiorentina, così le sale espositive ospitano la riscoperta dell’antico, i cui albori si intravedono nell’operato realizzato da Nicola Pisano, Arnolfo, dalle

Parigi di fine Ottocento, il maestro si confronta con i colleghi impressionisti, dai quali si distingue grazie a uno stile originale, ottenendo ammirazione e rispetto. L’autonomia dell’arte da ogni condizionamento esterno rappresenta per il pittore un obiettivo coltivato durante la sua brillante carriera, come dimostrano i capolavori dedicati al ritratto, al paesaggio, alla vita quotidiana nelle capitali francese e britannica immortalate durante i suoi soggiorni. Divisa in ordine cronologico, l’esposizione comprende alcuni dipinti appartenenti al periodo napoletano caratterizzato da un innovativo naturalismo plasmante la stessa atmosfera di stagione sovrastante il paesaggio rappresentato, ne sono prova le belle tavolette ritraenti il Vesuvio con i suoi dintorni. La pittura di De Nittis indaga attentamente quanto la circonda cogliendone particolari, aspetti, stili di vita, stati d’animo, rappresentati grazie a un colore intenso utilizzato per ottenere il realismo legato alla campagna pugliese, al Lungosenna o ai boulevard, alla mondanità delle gare ippiche, dei salotti, dei balli, delle passeggiate nei parchi.

contaminazioni legate al gotico francese. La latinità pervade ogni settore sociale, influenzando tematiche inconsuete, come la rappresentazione degli “Spiritelli” tra sacro e profano, anch’essi presenti in mostra, divenendo divulgatrice della libertas repubblicana e ispirazione per il mecenatismo privato mediceo. Il passaggio alla nuova era viene presentato attraverso il Sacrificio di Isacco, due rilievi scolpiti da Ghiberti e Brunelleschi, il modello della Cupola realizzato da quest’ultimo. Seguono la scultura pubblica fiorentina presente in Santa Maria in Fiore, Orsanmichele e in edifici pubblici e privati; la pittura prospettica influenzante la stessa architettura, della quale i bassorilievi rappresentano l’incarnazione; i rilievi marmorei o in porcellana a soggetto devozionale; i monumenti equestri, sepolcrali con i busti. Molti i nomi altolocati ospitati a Palazzo Strozzi, basti menzionare Donatello, Michelozzo, Masaccio, Paolo Uccello, Filippo Lippi, Desiderio da Settignano, Rossellino. Terminato il soggiorno a Firenze, le opere faranno tappa al Louvre.

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LUOGHI E VISIONI

quando Santa Croce era un Castello il nome la fondazione lo stemma Valerio Vallini

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In alto panorama di Santa Croce. In basso Torre di San Tommaso.

e leggende metropolitane sono dure a morire, diceva il professore Sacco, avventuroso relatore per la mia tesi di laurea alla Cesare Alfieri alla fine degli anni Sessanta. Io, lo confesso, non sapevo allora di quali leggende si trattasse. È semplice: uno comincia a dire, e a scrivere che un certo fatto è avvenuto in un certo modo. Il racconto è plausibile perché suffragato da firme autorevoli, così altri ripetono senza verificare la “storia”. Anzi, più il tempo passa e più l’argomento si consolida, diventa leggenda metropolitana, perché riguarda una certa area.

A me accadde proprio in quegli anni Sessanta di imbattermi nella leggenda di Leporaia: «castelletto che si riteneva posto alla sinistra dell’Egola fra Stibbio e Montebicchieri.» Non insisterò più di tanto dato che la questione è descritta in modo, credo esauriente, nel mio In riva d’Arno e oltre, (Centro Toscano Edizioni, febbraio 2011, p. 95). Voglio ricordare soltanto che la collocazione errata di Leporaia era sostenuta da E. Repetti, I. Donati e ripresa in modo acritico da storici locali. Ci sono voluti anni perché la verità fosse divulgata prima di tutti da Paolo Morelli in Le colline di San Miniato, (1997, p. 103). Ma Leporaia è ben poca cosa rispetto alla leggenda che si perpetua fino ai giorni nostri sulla origine e la fondazione del castello di Santa Croce sull’Arno. Il nome non dà adito a dubbi: la sua derivazione è dovuta alla sacralità della Croce e del Volto Santo, copia di quello che si venera da secoli a

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Lucca. Ci si può chiedere quando Santa Croce Vallis Arnis si cominciò a chiamare Santa Croce sull’Arno. Brevemente si può dire che già nello statuto di Santa Croce del 1574, a p. 30, risulta scritto: Sanctae Crucis Vallis Arni inferioris = Santa Croce del Valdarno Inferiore. (La notazione è di F. Salvestrini, p. 30 degli Statuti). Nel 1710 S. Croce era detto negli archivi del collegio Cicognini, Castel S. Croce. La dizione più estesa e vicina alla nostra: Comunità di Santa Croce sull’Arno (mappa catastale ASPisa) risale all’inizio dell’Ottocento. La dizione precisa di Santa Croce sull’Arno si trova nel 1890: Santa Croce sull’Arno, Circondario di San Miniato, Provincia di Firenze, Regno d’Italia. Una curiosità: nel 1907, sulle cartoline si scriveva Santa Croce sull’Arno. Veniamo ora alla questione della leggenda sulla fondazione del castello o meglio della Terra murata di Santa Croce. Sorvolando sulle fantasie di


G. Caciagli circa la derivazione romana di Santa Croce, si affrontano per ora le annotazioni di Otriade Pesciatini, Origine e Cenni storici militari, civili e religiosi di Santa Croce sull’Arno, e di Francesco Dini nel suo Dietro i nostri secoli (p. 107). Il Pesciatini fa riferimento a Giovanni Lami attribuendogli la notizia che «Santa Croce venne cinta di mura per la prima volta nel 1221» (p. 14). Da una carta, in nostre mani, di Don Lelio Mannari, straordinario lettore degli archivi lucchesi, pare trattarsi di un errore notarile quindi il nostro Otriade è assolto. Scrive il Dini: «Nel 1224 non si parla ancora di “castrum” né terra murata, ma di una organizzazione amministrativa ed economica senza che la popolazione si fosse riunita in un’unica cellula urbana». Queste notizie possono aver generato le false convinzioni su una Santa Croce cinta di mura nel 2° decennio del XIII secolo. Queste notizie suffragate anche dal solito E. Repetti, che si basava spesso su corrispondenti e su fonti indirette, non sono mai state sottoposte a verifica dai vari scrittori di storie santacrocesi in questi ultimi anni del Novecento fino al 2012. Eppure fino dal 1983, G. Ciampoltrini, archeologo e sovrintendente, in Frammenti di Storia (Ed. Circolo del Pestival, 1983), aveva dimostrato la fondazione del castello di Santa Croce e di quello di Castelfranco avvenute simultaneamente nel 1252 /1253, per volere di Lucca dopo la sconfitta per opera dei pisani nella battaglia di San Vito in villa d’Elmo a Santa Croce, nel 1252. Non solo. Quasi dieci anni fa, nella ricorrenza del 750° anniversario della fondazione della terra murata di Santa Croce, alla Saletta Vallini del palazzo Vettori, sul tema Il castello nuovo della Santa Croce 1253-2003: la fondazione di Santa Croce fra archeologia e documenti, si tenne un dibattito pubblico con la partecipazione

di Alberto Malvolti, direttore della sezione Valdarno dell’Istituto Storico Lucchese e Giulio Ciampoltrini della Soprintendenza archeologica per la Toscana. In quella sede si ribadirono dimostrandole, le simultanee fondazioni di Santa Croce e Castelfranco negli anni 1252/53. In questi ultimi dieci anni, nonostante il nostro impegno e la nostra divulgazione sulla rivista Reality e su ilbombo.com, sono apparsi numerosi interventi, anche di studiosi di tutto rispetto, che non hanno avuto il tempo o sono stati distratti da altro, per fare le opportune verifiche. Oggi si direbbe che ne è seguito un “assordante silenzio”. O in altri termini una colpevole distrazione. Riguardo allo stemma, sarà bene chiarire quello che a parer mio è stato e continua a essere un grosso equivoco: lo stemma del comune di Santa Croce, ritenuto mezza croce pisana e mezzo giglio fiorentino come segno di neutralità fra Pisa e Firenze. A fronte del parere, sulla neutralità, espresso come probabilità da Giovanni Lami, sta la dimostrazione di Giampiero Pagnini nel

da un rastrello con sei pendenti, cinque gigli e ancor più in alto una croce. Altro sigillo del secolo XVI ha l’arme attuale». Una nota interessante mi pare quella di L. Borgia, nella sua Introduzione allo studio dell’araldica civica italiana con particolare riferimento alla Toscana (in Gli stemmi dei comuni toscani al 1860). A p. 21 si legge «Nelle città

suo: Gli stemmi dei comuni toscani (Edizioni Polistampa 1991). Si legge a p. 32/33: «...Le armi della città e popolo di Firenze (croce rossa e giglio) accollate, furono adottate dagli abitanti di Santa Croce per lo stemma a fine di dimostrare la loro divozione alla repubblica e al popolo fiorentino. In un sigillo del secolo XIV che al tempo del Manni esisteva nella cancelleria della terra di Santa Croce, racchiuso dalla iscrizione Sigillum Comunis Sante Crucis era raffigurato un castello con tre torri, la centrale più alta sormontato

fedeli all’impero la croce è bianca in campo rosso. In quelle antimperiali è l’inverso. Bicromia rosso/bianco usata da Lucca e Firenze nel XIV secolo. Lo stendardo è partito bianco e rosso». È ovvio che dopo la conquista fiorentina delle terre del Valdarno di sotto, anche Santa Croce si sia allineata ai voleri della Dominante e lo stemma è la croce rossa in campo bianco accollata al giglio rosso in campo bianco. Quindi altro che neutralità: sottomissione a Firenze sebbene con qualche impennata di orgoglio.

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In basso a sinistra Stemma in via Turi angolo Corso Mazzini. Nel centro Monumento ai Caduti di Artuto Dazzi. In alto Mappa di Santa Croce.


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LUOGHI E VISIONI

Piazza mia bella piazza

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Luciano Marrucci Nota storica sulla Piazza del Seminario

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Le sentenze della facciata

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noto come il Seminario sorge sul perimetro delle vecchie mura e ciò, probabilmente, comportò anche la demolizione di alcune case costruite su un segmento delle fortificazioni militari. I bastioni occidentali vennero successivamente trasformati per accogliere la sede dei Vicari Fiorentini; a quel periodo appartengono le annesse prigioni e la cosiddetta Torre degli Stipendiari, dove aveva sede il Palazzo di Giustizia e le abitazioni delle guardie. La parola “stipendiario” fa riferimento alla paga assegnata ai soldati destinati alla guardia degli edifici. Nel 1622 San Miniato divenne sede di una nuova Diocesi; alla metà del 1600, il Vescovo Mons. Pichi acquistò alcune botteghe per quello che sarebbe diventato il primo nucleo del Seminario. Successivamente, da Mons. Cortigiani il Seminario fu ampliato, e solo agli inizi del ‘700, Mons. Poggi completò il monumentale edificio nelle forme che possiamo ammirare ancora oggi, inglobando interamente l’antica cortina difensiva. Nel 1713 i lavori vennero terminati, compresi gli affreschi realizzati dal pittore Francesco Chimenti. Le sentenze riportate appartengono alla penna dei Santi Padri o, comunque, di autori cristiani. Tutte quante hanno un carattere universale, ma soprattutto una valenza pedagogica; chi le ha scelte ha inteso esporre un indirizzo di vita che valeva per i seminaristi. Come per dire: esponiamo di fuori ciò che è valido per coloro che stanno

qui dentro. Espressione di un sistema pedagogico proposto dalla cristianità; ma, per il significato che assume l’intero prospetto da un punto di vista urbanistico e culturale, potremmo citare una stupenda sentenza tratta da un grande pensatore dell’antichità: il filosofo Platone. La sentenza recita così: Non tutta la sapienza abita ad Atene; non tutta la forza abita a Sparta e non tutta la bellezza, a Corinto.

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San Miniato, piccolo centro in Toscana, circondato (ma non più assediato) da città che vantano ineguagliabili titoli di cultura e di arte, mostra in questa piazza il suo diploma ad attestare che un po’ della sapienza, un po’ della forza e un po’ della bellezza trovano abitazione anche qui. Foto Francesco Fiumalbi


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Nota: il prospetto delle sentenze con traduzione in 4 lingue (italiano, inglese, tedesco e francese) è riportato su una bacheca presente sotto gli archi della parete est, realizzata in collaborazione con il CTE. 1. Notturno in Piazza del Seminario. La facciata è illuminata in occasione della LXVI edizione del Dramma Popolare. 2. Iscrizione che chiude, nella parte occidentale, la teoria delle 32 sentenze. 3. Prospetto della parete nord con i due portoni di entrata. 4. Veduta del Palazzo Vescovile che si affaccia sulla Piazza. 5. Iscrizione di una sentenza corredata dall’icona. 6. Veduta della Torre degli Stipendiari. Attualmente, il palazzo sito in piazzetta del Castello nr. 1 è sede di una Scuola di logica. 7. Il pittore livornese Giuseppe Landi ritrae il giardino pensile del Palazzo Vescovile.

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LUOGHI E VISIONI

Peccioliper antichi fasti alla scoperta di

un tour per il Capodanno pisano Irene Barbensi

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aga il turista nel buio, gli occhi si abituano piano alla penombra romanica della cattedrale pisana, finché le sue meraviglie non vengono rese manifeste da un raggio di luce che filtra da un’apertura della navata centrale e fa nascere agli occhi socchiusi dell’inconsapevole neofita il capolavoro scultoreo di Giovanni di Nicola, figlio e padre, scultori di origini lontane. Come uno squillo di tromba il raggio di sole annuncia il nuovo anno, e in un attimo siamo catapultati in un’epoca lontana quando il Capodanno coincideva con la ricorrenza dell’Annunciazione della Vergine. Tradizione solo pisana che con un decreto granducale Francesco Stefano di Lorena abolì nel 1749, e il cui ricordo si era perso nello scorrere dei secoli.

La curiosità e lo studio del pisano Paolo Gianfaldoni hanno ridato vita all’antica tradizione dello stile pisano, e a Pisa è già 2014 con nove mesi di anticipo. In tutta la provincia di Pisa le suggestioni e le emozioni rivivono i fasti del passato proponendo balli, duelli di antica reminescenza medievale e da molti appuntamenti nel territorio circonstante. Peccioli, borgo di antica ed etrusca fondazione, castello medievale conteso per la sua posizione strategica tra pisani e fiorentini, che vanta numerosi presenze illustri, dai conti della Gherardesca a Castruccio Castracani, a Uguccione della Faggiola, festeggia il nuovo anno facendo scoprire la sua terra a turisti curiosi. La Fondazione Peccioliper ha organizzato sabato

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23 marzo, alla vigilia del Capodanno pisano, un tour alla scoperta degli antichi fasti, testimonianze storiche e artistiche e usanze, antichi tesori sparsi tra chiese, musei, colline, ristoranti e antiche trattorie in una terra che considera patrimonio comune l’arte e la buona tavola. Un tour alla scoperta del centro storico, tra vicoli e chiassi, seicentesche dimore di nobili fiorentini, reperti etruschi e oreficerie senesi del XIV secolo in un concentrato di toscanità alla ricerca di antiche e forse comuni origini. La pieve di San Verano, imponente nella sua bella semplicità romanica, come per burla volta le spalle alla piazza principale, sede dell’antico Palazzo Pretorio e si affaccia sul paesaggio collinare circostante. Il leggendario patrono francese, che debellò la peste durante un suo passaggio salvando la popolazione dal terribile flagello, è rappresentato in uno splendido dipinto del 1854 che sovrasta l’entrata del Museo d’Arte Sacra in cui sono conservati


inestimabili tesori d’arte provenienti dalle chiese circostanti. Corona l’edificio il bizzarro campanile dall’insolito profilo arabeggiante riprogettato dall’architetto Luigi Bellincioni e che conserva la duecentesca campana. Il tour prosegue con una passeggiata nei vicoli del centro storico che conservano in alcuni tratti aspetti antichi e testimonianze di lontane famiglie nobiliari, di Consoli pisani e Podestà fiorentini. La suggestiva Castellaccia, che ricorda nel nome l’originaria destinazione di rocca del castello medievale, probabilmente formata da due torrioni, che ritroviamo effigiati nello stemma del Comune di Peccioli domina con un panorama mozzafiato il territorio circostante. In questo spazio Vittorio Messina nel 1993 ha realizzato l’opera Acropoli che alludendo all’imponenza delle strutture cultuali del mondo antico, collocate solitamente nel punto più alto della città, restituisce la memoria e l’importanza di un luogo fondamentale per la storia di Peccioli. Ai suoi piedi lo stesso artista ha realizzato Fontana, rimando alla presenza, presso santuari, di fonti per la purificazione. Peccioli rispecchia i caratteri antichi della tradizione toscana, ma felicemente coniugati con la modernità e il piacere di fare cultura.

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Cartoline

Langhe e Roero terre d’arte natura vino

Carlo Ciappina

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e Langhe, celebri per il tartufo d’Alba, i blasonati vini Barolo e Barbaresco, le nocciole, racchiudono dolci alture ingentilite da lussureggianti vigneti, non a caso Il territorio è cosparso da segni tangibili evidenzianti lo stretto legame con la vite, visibili nell’architettura, nell’arte, nei riti propiziatori, nella quotidianità. Padre attento, il Consorzio di Tutela protegge i suoi figlioli-prodigio grazie alle soddisfazioni ricevute nel tempo contraddistinte dall’unicità, qualità, tracciabilità; un assaggio di quanto menzionato lo si assapora visitando

Vitigno Nebbiolo

Si ringrazia: Ufficio Stampa Strade del Barolo; Ente del Turismo Alba, Bra, Langhe, Roero; Enoteca Regionale del Roero.

le colline intorno ad Alba e La Morra, lo scenario ideale per trascorrere una vacanza tra paesaggi mozzafiato, magari degustando il decantato Barolo, elegante, profumato, corposo, generato dal vitigno autoctono Nebbiolo grazie al terreno argillo-calcareosabbioso, clima temperato freddo, risorse acquifere abbondanti, versanti ben esposti al sole e alle correnti. Questi incantevoli ambienti sono caratterizzati da declivi ingentiliti da vigneti, coltivati a filari, dalle geo-

metrie bizzarre, un infinito giardino all’italiana avvolgente austeri manieri arroccati presso Barolo, Castiglione Falletto, Grinzine Cavour, Roddi, Serralunga, Sinio, Verduno, insomma un paesaggio da favola dove le siepi di viti generano il famoso “nettare degli dei”. La nomea da VIP coinvolge anche Cherasco, Diano d’Alba, Monchiero, Monforte d’Alba, Montelupo Albese, Novello, Rodello, Roddino, il cui territorio ospita le preziose piante da cui nasce sempre lui, il Barolo. Rimanendo in tema, assolutamente da degustare il Nebbiolo d’Alba, il Langhe Nebbiolo, la Barbera d’Alba, il giovane Dolcetto e, per non perdersi in questo immenso paradiso enologico, i “seguaci di Bacco” possono contare su enoteche, cantine, botteghe, una rete molto organizzata integrante il paesaggio dove degustare la blasonata produzione, magari allietata dai rinomati formaggi che, da questi parti, sono eccezionali! Ah, prima della partenza si consiglia la navigazione sui siti www.langabarolo. it - www.stradadelbarolo.it - www.langhevini.it - www.castellilangheroero. it, dove troverete informazioni inerenti l’enogastronomia, la cultura, l’arte, la ricettività, insomma un vero sancta sanctorum della notizia locale. Il nostro viaggio prosegue presso tre piccoli comuni, Barbaresco, Treiso, Neive, caratterizzati da una scenografica architettura spaziante dal medioevo al tardo barocco, “genitori”di colui che ha legato il proprio nome al primo paese menzionato, il Barbaresco, un vino da lungo invecchiamento, secco, corposo, tanninico, dal profumo assimilabile ai fiori secchi e alla viola. Tornando ad Alba, capitale indiscussa delle Langhe, lo scenario urbano sfoggia austere torri medie-

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vali, memoria della sua storia secolare, la Loggia dei Mercanti, il Palazzo Comunale, custodente la tavola rinascimentale realizzata dal celebre Macrino, la Cattedrale, la duecentesca Chiesa dedicata a S. Domenico, la Via Maestra. Il suo Comune è universalmente associato al famoso tartufo bianco, irresistibile leccornia dove il profumo legato ad aglio, miele, fungo apogeo, spezie, ne esalta le riconosciute caratteristiche culinarie. Difeso da querce, pioppi, tigli, alberi secolari, il tartufo albese è tutelato dal lontano 1932 grazie al Centro Nazionale Studi Tartufo, supporto ideale per la ricerca, la divulgazione, il controllo, la commercializzazione. Da Alba riprende il tour puntando verso il Roero, meta turistica ambitissima, costellato da antichi borghi, palazzi scenografici, manieri, edifici sacri, teatri, accademie, musei, insomma un nutrito assortimento artistico che accompagna piacevolmente l’altro tesoro locale: il vino. Ottenuto dall’uva Nebbiolo con l’aggiunta d’Arnaeis, il Roero ha un sapore asciutto, armonico, persistente, vellutato, rendendolo appetibile agli intenditori e non solo (informazioni dettagliate sono consultabili su www.roeroturismo. it - www.langheroero.it - www.enotecadelroero.it). Ah, dimenticavo la cucina legata a questi magnifici luoghi, ricca di eccellenze gustosissime, basti menzionare la trippa in umido, gli agnolotti al plin, il tajarin, la lepre in civet, le acciughe al verde, il bollito misto con salse e altre prelibatezze tutte da gustare. E per il dolce? Da non perdere il Bonét, il Torrone, la Torta Gentile, così buona da meritare la protezione presso un apposito Consorzio grazie ai sapori ed aromi finissimi, inebrianti, persistenti.


Castiglione Falletto @ Ivan Maenza

Castello di Govone

Castello di Grinzane-Cavour @ Luca Ferrari

Mongolfiera sui vigneti del Barolo @ Davide Dutto

Cane e tartufo d’Alba @ Davide Dutto

Ravioli al Plin @ Davide Dutto

Vigneti del Barolo @ Ivan Maenza

Rocche del Roero


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Cartoline

Parmae dintorni tra arte e benessere

Fondazione Magnani Rocca, esterno

Carmelo De Luca

Si ringrazia: Ufficio Stampa APT Servizi Emilia Romagna; Salsomaggiore; Fondazione Magnani Rocca.

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arma è legata a colei che commissiona il blasonato Teatro Regio, apre al pubblico i giardini della sua augusta residenza, dona alla città una dimensione europea: Maria Luigia d’Asburgo. D’altra parte, la capitale granducale ha tutti i connotati per supportare la sua Signora in questa impresa, ancora oggi visibili ai turisti, basti menzionare la piazza medievale dominata dal bellissimo Duomo, mirabile struttura romanica racchiudente affreschi del Correggio, e dal Battistero. La Pilotta, elaborato complesso architettonico voluto da Ranuccio I Farnese, ospita lo scenografico teatro seicentesco, autentico gioiello in legno unico nel suo genere, insieme alla Galleria Nazionale con opere realizzate da Leonardo, Tintoretto, Giulio Romano e altri nomi illustri. In effetti, Parma riserva molte sorprese tutte da scoprire, la sua urbanistica custodisce angoli costellati da palazzi nobiliari, chiese secolari, strade costeggiate da pregevoli edifici, vicoli minuscoli plasmati dalla storia. Il suo territorio provinciale racchiude realtà affascinanti, dominate da paesaggi incontaminati, borghi dal sapore antico, luoghi di

fede, austeri castelli, blasonate dimore di campagna, come Villa MagnaniRocca divenuto sontuoso “caveau” per opere di ebanisteria napoleonica e artistiche tele dipinte da Antonello da Messina, Tiziano, Van Dyck, Goya, Monet, De Chirico, Morandi, solo per citarne alcuni. La cucina locale non richiede presentazioni, tra l’invitante pasta fatta in casa, il famosissimo formaggio, i salumi, i dolci, c’è da stare attenti a non ingrassare, ma la tentazione è davvero forte! Gironzolare tra cotante meraviglie, rifocillati dagli ottimi prodotti enogastronomici, potrebbe indurre stanchezza, in questo caso si consiglia una puntatina a Salsomaggiore, conosciuta mecca per curare corpo e spirito. Grazie alla sua acqua salsobromoiodica ipertonica, la località ospita centri specializzati nella cura artoreumatica, circolatoria, ginecologica, respiratoria, motoria, salute della bocca, supportate dai salutari fanghi impregnati dal presiozo liquido. Tale tradizione trova il suo epicentro nel Complesso Berzieri, gioiello liberty progettato da Galileo Chini, memoria storica cittadina con i suoi scenografici saloni adibiti a varie mansioni termali, il raffinato albergo,

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il beauty-center, il tutto supportato da tre invitanti specchi d’acqua, mentre il Centro Zoja è ricercatissimo per essere un polo d’avanguardia nell’idroterapia. La cittadina, immersa nel verde, possiede un lusinghiero percorso ciclabile, campo da golf, ottime strutture ricettive. Per l’appunto, gli alberghi vantano camere superaccessoriate, personale qualificato, cucina invitante, piscine alimentate dal prezioso “H2O locale”, rendendo il soggiorno decisamente gradevole, basti menzionare il Grand Hotel Porro, autentico gioiello del lusso e desiderio per il cliente esigente, provvisto di una propria struttura termale immersa in un ampio polmone verde, ma anche l’Hotel Valentini con le sue strutture modernissime, sale per congressi, efficiente centro idroterapico. Rimanendo in tema, il Baistrocchi, incantevole albergo immerso in un parco secolare, racchiude efficienti strutture dedite alla salute termale ma anche al benessere, grazie a professionisti artefici di programmi elaborati sul singolo individuo e al centro massaggi, idromassaggio, vasche hydrospace, idropercorso termale vascolare, attrezzature all’avanguardia.


Salsomaggiore, Complesso Termale Barzieri

Fondazione Magnani Rocca, interno

Fondazione Magnani Rocca, interno

Benessere a Salsomaggiore

Salsomaggiore, Complesso Termale Barzieri

Parma, Piazza Duomo

Parma, Teatro Regio

Parmigiano Reggiano

Prosciutto di Parma


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LUOGHI E VISIONI

il dono di

Anna Maria Luisa

l’ultima dei Medici Samuela Vaglini

Il 18 febbraio scorso Firenze ha commemorato Anna Maria Luisa, Elettrice Palatina

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ome ogni anno, da ormai oltre un decennio, il 18 febbraio scorso la città di Firenze ha reso omaggio all’ultima rappresentante del ramo granducale della casata dei Medici, Anna Maria Luisa, l’Elettrice Palatina, che ha il grande merito di aver salvaguardato, a favore della Toscana, l’inestimabile collezione artistica raccolta in tre secoli di governo dalla famiglia Medici.

Ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici di Antonio Franchi 1689-1691

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Firenze deve, quindi, uno dei suoi maggiori vanti nel mondo a questa donna, illuminata e saggia, che visse gli ultimi anni della sua vita sostenendo con orgoglio il grave peso di dover consegnare il Granducato a sovrani stranieri e che si adoperò alacremente affinché la memoria e la gloria della sua famiglia non si disperdessero. Chi era Anna Maria Luisa de’ Medici? Qual è stato il suo generoso lascito? Occorre saperlo per comprendere il motivo per cui l’amministrazione comunale di Firenze ha incluso la data della sua morte fra le ricorrenze ufficiali della città. Quest’anno, ricorrendo il 270° anniversario della scomparsa dell’Elettrice Palatina, oltre al corteo storico con deposizione di un omaggio floreale sulla sua tomba, le celebrazioni del comune di Firenze hanno previsto l’apertura gratuita al pubblico dei musei comunali, con visite guidate su prenotazione e lo svolgimento di iniziative informative dedicate ai più giovani. Poste Italiane, inoltre, ha emesso un francobollo commemorativo, del valore di 3,60 euro, in 2milioni 880mila esemplari, che riproduce il ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici opera di Antonio Franchi, realizzato fra il 1689 e il 1691 e attualmente conservato a Palazzo Pitti. La secondogenita del Granduca di Toscana Cosimo III e della principessa Margherita Luisa d’Orléans nacque a Firenze l’11 agosto 1667, unica sorella di Ferdinando, principe ereditario, e di Gian Gastone. Nel 1675 la madre, esasperata dal deterioramento del proprio matrimonio, abbandonò il Granducato di Toscana per ritirarsi nel convento di Montmartre, nella natia Francia. I figli vennero affidati alla tutela della nonna paterna, Vittoria della Rovere, donna profondamente religiosa come il Granduca Cosimo III.


Anna Maria Luisa fu proposta in sposa agli eredi al trono di Spagna, Portogallo, Francia e Savoia. In seguito ai rifiuti ricevuti venne combinata l’unione con Giovanni Guglielmo von der Pfalz-Neuburg, Elettore Palatino del Reno, che fu celebrata per procura nel 1691. Anna Maria Luisa lasciò la Toscana il 7 maggio per incontrare per la prima volta il marito a Innsbruck, dove, il 3 giugno, avvenne la cerimonia nuziale. Divenuta Elettrice Palatina, visse a Düsseldorf fino alla morte del marito, nel 1716, dove lasciò una forte impronta grazie alla sua passione per l’arte e al suo mecenatismo. Da questa unione non furono, purtroppo, generati figli. Anna Maria Luisa contrasse la sifilide dal consorte Giovanni Guglielmo, malattia che le provocò aborti e, infine, la sterilità. Rimasta vedova, Anna Maria Luisa fece ritorno in Toscana e si stabilì negli appartamenti nell’ala sinistra di Palazzo Pitti, riservati alle granduchesse di Toscana. Vi rimase fino alla morte, dedicandosi alla sua passione e alla perpetuazione della memoria della sua famiglia. Il triste epilogo della dinastia era ormai chiaro. Il fratello primogenito, erede del Granducato, Ferdinando era già morto nel 1713 senza lasciare figli dal matrimonio con Violante Beatrice di Baviera. Sterile fu anche il matrimonio voluto per Gian Gastone, divenuto a suo volta successore dei Medici. Di tendenze omosessuali, Gian Gastone non generò figli con Anna Maria Francesca di Sassonia-Lauenburg, anzi, la loro fu un’unione talmente infelice che portò alla definitiva separazione dopo undici anni di convivenza. Ugualmente sfortunato fu il tentativo del Granduca Cosimo III di salvare la casata dei Medici procurandole un erede legittimo grazie al matrimonio fra suo fratello minore Francesco Maria - che fu obbligato ad abbandonare il cappello cardinalizio - ed una giovanissima Eleonora Luisa Gonzaga. Vano, infine, fu anche lo sforzo di Cosimo III di rimandare l’inevitabile cercando di far riconoscere il diritto successorio a favore di Anna Maria Luisa: le case regnanti europee, già pregustando il momento in cui avrebbero potuto mettere le mani sul regno granducale, rifiutarono di concederle la successione. Cosimo III morì nel 1723, gli succedette Gian Gastone, ultimo Granduca di Toscana della famiglia Medici che morì nel 1737. Con Gian Gastone, quindi, si estinse la linea maschile della casata. Dal valzer di trattative fra le potenze europee per l’aggiudicazione del Granducato fu scelta la casata franco-

austriaca degli Asburgo Lorena. Il trono passò a Francesco Stefano di Lorena che fece visita in Toscana solo nel 1739 per non tornarvi mai più. Gli ultimi anni di vita di Anna Maria Luisa, ultima del ramo granducale dei Medici, furono anni di vita ritirata, ma spesi a cercare di risolvere l’ultimo suo grande cruccio: cercare un modo per evitare che Firenze fosse spogliata dei suoi beni più preziosi, così come era accaduto invece ad Urbino, che all’estinzione della casata dei Della Rovere era stata letteralmente svuotata dei suoi tesori. E la soluzione fu trovata nel Diritto. Il 31 ottobre 1737 Anna Maria Luisa de’ Medici e Francesco Stefano di Lorena siglarono la Convenzione di Famiglia, documento meglio conosciuto come ‘Patto di Famiglia’, che sanciva l’inamovibilità dei beni granducali ed il vincolo perpetuo alla città di Firenze. L’articolo terzo, infatti, recita così: «La Serenissima Elettrice cede, dà e trasferisce al presente S.A.R. per lui e i suoi successori Gran Duchi tutti i mobili, effetti e rarità della successione del Serenissimo Gran Duca suo fratello, come Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le sante reliquie, che S.A.R. si impegna a conservare, a condizione espressa che di quello che è per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri, non ne sarà nulla trasportato e levato fuori dalla Capitale e dello Stato del Gran Ducato». Il Patto di Famiglia, conservato nell’Archivio di Stato di Firenze, è uno dei primi documenti nella storia volti a tutelare direttamente il patrimonio artistico e culturale di una città (e di uno Stato) consolidatosi nel tempo e che rappresenta l’elemento portante dell’identità del luogo. Ma la sua innovazione sta anche nella finalità pubblica della disposizione voluta da Anna Maria Luisa: il patrimonio dei Medici diventa patrimonio dei cittadini e non solo. Anna Maria Luisa è l’antesignana del turismo come forma di richiamo e di attrattiva che ha riflessi positivi sulla città, in un tempo in cui ancora non si concepiva la possibilità di trarre vantaggi economici dalla curiosità dei Forestieri. Il Patto di Famiglia entrò in vigore alla morte dell’Elettrice Palatina, avvenuta a Firenze il 18 febbraio 1743. Anna Maria Luisa venne inizialmente tumulata nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo da dove venne poi spostata, nel 1858, in un vano ai piedi del pilastro di sud-ovest della cripta delle Cappelle Medicee. Il 9 ottobre 2012 la sepoltura dell’Elettrice Palatina è stata ispezionata per verificare lo stato

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dei resti in seguito all’alluvione del 1966. A un primo esame visivo lo scheletro è apparso intero ed il corredo funebre completo. Le spoglie sono state studiate attraverso una scansione 3D per le analisi antropologiche e della morfologia scheletrica, nonché è stata effettuata la campionatura per isotopi del collagene per paleonutrizione. Le spoglie di Anna Maria Luisa sono state, quindi, ricollocate nell’alveo dove giace dal 1858 e sistemate in una nuova cassa di zinco. Anna Maria Luisa riposa tuttora nelle Cappelle Medicee, la monumentale tomba di famiglia che lei stessa ha fortemente contribuito a realizzare. Riposa dove è giusto che sia: nel cuore di Firenze.

Giovanni Guglielmo von der Pfalz e Anna Maria Luisa de’ Medici di Jan Frans van Douven, 1708 circa Francobollo emesso il 18 febbraio 2013 in occasione del 270° anniversario della morte di Anna Maria Luisa de’ Medici dalle Poste Italiane.


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LUOGHI E VISIONI

principessa

Mary

nei giardini fiesolani

Paola Ircani Menichini

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La principessa Mary e Henry Lascelles (da www.flickriver.com).

n interessante ricordo nelle cronache del convento della SS. Annunziata di Firenze riporta: «18 aprile 1922. Oggi privatamente visita la nostra Basilica la principessa Mary d’Inghilterra in giro di nozze qui a Firenze col visconte di Lascelles suo sposo. Fra Mariano [Cipriani], custode della Madonna, l’ossequia e, coi debiti permessi, scopre loro la venerata Immagine. Essendo però protestante non dimostra nessuna pietà [non compie atti di devozione]. Il giorno dopo il console britannico ringrazia in iscritto

il rettore della Chiesa». La principessa Mary d’Inghilterra citata nel ricordo era l’unica figlia femmina del futuro re Giorgio V d’Inghilterra e di Mary di Teck1. Nata a Sandringham in Norfolk il 25 aprile 1897, benché giovane, era nota alle cronache mondane a causa della sua appartenenza familiare e anche perché durante la prima guerra mondiale si era distinta nel lavoro svolto con la madre negli ospedali e nelle organizzazioni benefiche per il conforto dei soldati e delle loro famiglie. Il 28 febbraio 1922 a Westminster Abbey

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aveva sposato Henry visconte di Lascelles di quindici anni più anziano di lei 2. Nel marzo, in viaggio di nozze, era sbarcata con il coniuge dal piroscafo Biarritz a Calais in Francia, diretta a Parigi e poi a Fiesole, a Villa Medici dove gli sposi erano stati invitati dalla cugina di lui, lady Sybil Scott. Invito, crediamo, accettato volentieri, forse per rinverdire l’esperienza giovanile di Mary di Teck, che, tra i sedici e i diciotto anni, aveva soggiornato e studiato disegno e pittura a acquerello a Firenze, e certamente per la presenza di una nutrita colonia


di aristocratici e ricchi inglesi nelle ville dei dintorni. Da qui la visita alla SS. Annunziata e alla Sacra Immagine, molto venerata anche dagli appartenenti ai ceti più umili, verso i quali la principessa dimostrò una volta di più di avere una particolare sensibilità d’animo. La cugina di Henry, Sybil Scott, proprietaria di Villa Medici, era anch’essa uno dei personaggi più celebri del suo tempo. Figlia di Hamilton Cuffe, pari d’Irlanda, quinto conte di Desart e della seconda moglie Margaret Joan Lascelles, nel 1901 aveva sposato in prime nozze William Bayard Cutting junior, membro di una ricca famiglia mercantile di New York, allora segretario dell’ambasciatore americano a Londra, Joseph Choate. Il 15 agosto 1902, a Birdlip, piccolo centro vicino Gloucester, Sybil aveva dato alla luce una figlia che era stata chiamata con il nome di due fiori: Iris Margaret. Il matrimonio aveva avuto vita breve. Nel gennaio 1910 Cutting, ammalato di tubercolosi, era deceduto mentre si trovava in viaggio sul Nilo. L’anno dopo Sybil, per dare alla figlia l’educazione desiderata dal padre, aveva comperato Villa Medici, dove entrambe si erano trasferite. Nel 1918 poi aveva sposato il brillante architetto e poeta inglese Geoffrey Scott, giunto a Fiesole nel 1907 assieme al collega Cecil Pinsent. Geoffrey era il bibliotecario dell’americano, grande conoscitore dell’arte italiana, Bernard Berenson, che nel 1909 aveva commissionato ai due architetti il restauro della sua villa I Tatti, sempre a Fiesole. Questo lavoro aveva apportato ad entrambi fama e fortuna, specialmente nella realizzazione dei giardini all’italiana, rivisitati secondo la concezione dei disegnatori del XVI secolo. Così nel 1911 e 1913 avevano ricevuto un incarico per villa Le Balze di Charles Strong, un altro ricco americano appassionato di filosofia, e dal 1911 al 1923 era stata la volta del rifacimento del giardino di Villa Medici3. Purtroppo anche il secondo matrimonio di Sybil non fu fortunato. Geoffrey intrecciò una relazione con la scrittrice inglese Vita Sackville West, l’adorata creatura cara a Virgina Woolf, divorziò e nel 1929 morì di tubercolosi a New York. Nel 1926 la donna si sarebbe legata per la terza volta al letterato Percy Lubbock e trasferita con lui nella villa Gli Scafari nel golfo di La Spezia. Il 4 marzo 1924 la figlia di Sybil, Iris Cutting, sposò il marchese Antonio Origo. La cerimonia avvenne nella cappella di Villa Medici e fece anch’essa il giro delle cronache rosa di tutto il mondo. I coniugi andarono a vivere nella tenuta La Foce presso Chianciano, da loro ac-

quistata con il desiderio di contribuire alla bonifica agricola di una delle zone più desolate della Toscana. Avvenne come avevano progettato: nello spazio di circa quindici anni fu realizzata la villa con il suo bel giardino all’italiana, su disegno di Cecil Pinsent, e organizzata una solida azienda agricola con 57 poderi affidati a mezzadria, e con scuola, parrocchia e altri servizi. Dal matrimonio nacquero anche tre figli, dei quali l’unico maschio, Gianni, morì a otto anni di una grave malattia (1933). La seconda guerra mondiale spense molte delle luci del paradiso degli inglesi e degli americani a Firenze4. Già prima del suo inizio, Sybil e Percy Lubbock lasciarono l’Italia e si trasferirono a Vevey in Svizzera, dove la donna morì nel dicembre 1943.

La principessa Mary, che era stata sua ospite nel 1922, durante il conflitto lavorò attivamente per la sua patria come aveva fatto in quello precedente. Ricoprì incarichi importanti nei Servizi Ausiliari Territoriali Inglesi, occupandosi di

mense e di assistenza e, per questo, nel 1956, come riconoscimento, ricevette il rango onorario di generale dell’esercito britannico. Successivamente rappresentò la regina Elisabetta in varie cerimonie e celebrazioni all’estero. Rimasta vedova nel 1947, morì per un attacco di cuore ad Harewood (Leeds), residenza dei Lascelles, il 28 marzo 1965. Iris Cutting Origo non visse né in una nazione sicura, né ebbe posizioni istituzionali di rilievo durante la seconda guerra mondiale. Rimase con la famiglia a La Foce dove ospitò numerosi bambini sfollati a seguito dei bombardamenti di Genova e Torino, e cercò di alleviare le sofferenze dei prigionieri alleati fuggiti e sbandati nella Val d’Orcia dopo l’8 settembre 1943, con grande pericolo per sé e per i suoi5. Signora sensibile e colta, pubblicò romanzi, autobiografie e saggi, anche su poeti come Byron e Leopardi. Oggi è considerata dal Sunday Times “the best writer in English about things Italian” - la migliore scrittrice in lingua inglese di cose italiane -. Nel 1976 rimase vedova del marito e nel 1977, per i suoi meriti, ricevette dalla madrepatria il titolo di Honorary Dame Commander dell’Impero Britannico. Morì a Siena il 28 giugno 1988.

Note 1. Mary era sorella dei re Edoardo VIII e Giorgio VI, e zia dell’attuale regina Elisabetta II. 2. Dal matrimonio sarebbero nati due figli: George (1923-2011) e Gerald (1924-1998). 3. Maria Chiara Pozzana, I giardini di Firenze e della Toscana. Guida completa, Firenze 2011. Pinsent morì il 5 dicembre 1963 a Hilterfingen in Svizzera. 4. Uno degli ultimi aristocratici inglesi che dimorò nei dintorni di Firenze a villa La Pietra fu ser Harold Acton, figlio di Arthur, deceduto nel 1994. 5. Gli avvenimenti sono narrati in Iris Origo, Guerra in Val d’Orcia, diario 1943-1944 (titolo originale War in Vald’Orcia).

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A sinistra il giardino di villa Medici a Fiesole (da Pozzana, cit. pag. 77). Al centro Iris Origo nel giardino de La Foce (da Origo, cit.). In alto la villa La Foce di Chianciano (da www.lafoce.com).


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SCAFFALE DEI POETI

Dino Carlesi la vita oltre i miti delusi Valerio Vallini

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a questo numero lo Scaffale dei poeti assume un nuovo impegno: rileggere i poeti nelle loro opere più significative. Impronte digitali Prefazione di Gilberto Finzi All’insegna del Pesce D’oro Milano MCMLXXXI «Chi è Dino Carlesi, oggi?» – scriveva Gilberto Finzi in una prefazione a Impronte Digitali –. «È uno scrittore che ritrova se stesso nella poesia dopo essersi riconosciuto nella scuola, nell’università e soprattutto nella critica d’arte. Uno che nello spettro amplissimo delle possibilità attuali consuma la figura desueta del poeta per scavare un commosso dettaglio di vita e per ciò antepone la significazione alla catastrofe linguistica. E siccome non gioca che di rado con le parole, tutt’al più può far rimare drammaticamente “sorte” con “morte”. Forse soltanto la sinopia, il disegno preparatorio, il simbolo della separatezza, diventa il “suo” segno. La storia di Carlesi scrittore è, in queste Impronte digitali, una traccia sottile da seguire a rovescio. Dall’antologia di Ungaretti, Poeti prigionieri (1947) ai libri degli anni ‘50’60, la linea del realismo di Carlesi si articola in una figurazione aperta di “uomo impegnato”. Avvolto di memorie e di commozione, di natura e di storia cittadina.» Una stagione possibile Poesie 1983-1986 prefazione di Elio Filippo Accrocca. Giardini Editore e stampato in Pisa. Carlesi non si stanca di fare i conti col passato e, in questa sua indagi-

ne, opera come una macchina del tempo per cui “i miracoli mancati”, gli “entusiasmi inutili”, agiscono come presenze dell’oggi, come se “lo scatto della lucertola” fosse una variabile indipendente dal tempo trascorso o da trascorrere. Il poeta afferma risoluto: «/eravamo dentro una stagione possibile /con traguardi a portata di mano.» Cos’è che ha vanificato questa Stagione Possibile? E oggi quale stagione viviamo o si approssima? Dice Filippo Accrocca: «Ecco il punto che svela la trama di questo nuovo libro di Carlesi: un addentrarsi nella fitta selva di un indugio, nello scegliere le radici e nel non credere in niente.» Per me il dramma di Carlesi è tutto nella percezione della pesantezza dell’essere. Chi abbia letto il suo precedente, Impronte digitali, ha senz’altro avvertito come anche in questo libro la coazione a ripetere, lo scetticismo di fondo, non possano trovare soluzioni: soluzioni in senso teoretico e pratico, s’intende. Le uniche soluzioni che Carlesi prospetta, sono tutte di matrice estetica. Come esteta (e qui il termine sia inteso non nella sua accezione decadente, ma in quella originaria di “percezione sensibile”) egli esprime un disagio che non è solo suo ma di un’epoca; una consolazione nell’elegia perché altro non è secondo lui possibile. Egli è una vittima, e si riconosce tale, del crollo di troppi miti, della perdita di un’occasione di palingenesi, del dissolversi di una stagione ritenuta possibile. Egli potrebbe (ne ha gli strumenti) essere più impietoso e nello stesso tempo più affermativo, ma in fondo le immagini e le metafore restano la sua croce e la sua delizia ed egli non sa staccarsene e

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forse è bene che non se ne stacchi, se in questo dovesse guadagnarci una filosofia “positiva”, ma impoverirsi il canto. Quello che mi preme di considerare, è appunto come Carlesi svolga il suo linguaggio. È la sua fede nella parola che ha il potere di esorcizzare, di sovvertire la sorte. E in questa illusione foscoliana, nel senso cioè che ci aiuta a vivere, la poesia ha il privilegio di significare un senso alla vita e, come lui dice «Solo la parola diviene grimaldello razionale per tentare una decifrazione assurda... basterebbe poco per tradire e stare al gioco. Il ravvedimento sarebbe forse nella rassegnazione. Ma a quel punto sopravviene il “miracolo” della poesia, “la ferita aperta che si nutre di se stessa». La lingua di Carlesi, proprio in funzione della sua poetica, si avvale di forme condensative e nello stesso tempo di una fìguralità controllata. Linguaggio simbolico e allegorico tendono ad armonizzarsi, a mediarsi nella sintesi del poemetto e nella architettura di un verso libero che associa alla scansione dell’endecasillabo, la sobrietà e la sintassi del parlar colloquiato. Destinazione terra Prefazione di Mario Luzi Forum/Quinta Generazione /poesia1992 In Destinazione terra (il nuovo libro di Dino Carlesi, edito da Forum / Quinta Generazione nel 1992), l’architettura della sua poesia, mi pare che si compia, oscillando, intorno a un punto centrale: il ventre morbido della terra visto come ultima dimora, ma anche come terra della sua infanzia, dei luoghi lontani. Certo a questa meta fina-


le il poeta fa resistenza, si maschera in discorsi obliqui, tenta deviazioni e astuzie, cerca consolazioni e alibi. Il percorso procede a sbalzi, si nutre di alterne soluzioni, pone interrogativi, si concede ampi varchi. Ora appare come «un gioco d’azzardo / da legittimare continuando / il montaliano filo da disbrogliare / ...» poi il poeta si chiede: «chissà a chi offriremo l’ultimo pensiero / quale spiraglio / la rima suggerirebbe: al nocchiero / o meglio al mistero». A volte in modo serrato e stringente, altre volte evasivo e sognante, questo libro si svolge come un monologo in più sezioni, un dialogo con un suo alter ego. Riemerge la poetica della parola: il montaliano “fantasma”, e l’urgenza (raccontare con pacatezza e distacco: «e racconteremo com’è andata / questa giornata / girasoli neri / stanchi di seguire in tondo / ogni giorno / il volo del rondone / ...cercare una porta segreta di noi del mondo / ...» C’è una materia fluida, in quest’ultimo Carlesi, dove affiorano momenti consolatori: «i miti autunni rallegrarci di miti bagliori»... dove si spiega la sua vena gnomica, affermativa, sentenziale: «l’illusione è la primavera - la memoria annota sequenze fragili - la saggezza è sempre tardiva -». Carlesi si fa irretire dal suo stesso discorso, accetta le sue contraddizioni, l’ombra estesa del dubbio, la verità inafferrabile e qualche volta respinta: «difficile scoprire tra le pieghe della storia / quale Dio ha ragione / ...l’amore si smarrì nelle teologie / ma c’è speranza di altri imbrogli / e difficile farne a meno». Poi la verità si afferma per sua propria evidenza: «non possiamo non dirci la verità / basta quel colore di foglie cadute / ...quella fissazione ostinata sulla materia invisibile / ... / quella caduta marrone sulla terra umida...». È una verità ultima che parrebbe non concedere più spazio ai dadi truccati, ad alcuna “astuzia lessicale”. Eppure il poeta non si arrende. La realtà, la verità ultima è procrastinata: «sulle strade spegneremo i lampioni / per lasciare spazio alle tenebre / agli abbagli mascherati / agli attesi raggiri». E in questo rimando, messo alle strette dal suo stesso gioco verbale, il poeta si appella alla poesia come a un quotidiano strumento di sopravvivenza: «rimane la poesia un abito dimesso / con cui celiare intorno alla morte / con qualche toppa vistosa / tirata a sorte fra cento colori.»

IMPRONTE DIGITALI

parallelo ai giardini spenti tra le facciate di Orfeo

Lettera di commiato non mi sono neppure chiesto come hai fatto ad andartene in quel pomeriggio, tante volte sei sparito senza lasciare traccia poserai i gomiti la testa fra le mani sui tavoli di qualche bar milanese o sarai a Barcellona o a Atene o andrai per qualche mare un giorno forse sbucherai da dietro una giostra nostra madre presagiva una tua folle partenza: un enorme necrologio al neon e luminoso accendo io oggi per concludere i fuochi artificiali della tua vita un giorno al tuo fischio lungo uscirò da questo cespuglio.

II da riscoprire la città in quei caffè sedeva qui Moamed Sceab che “riposa nel camposanto d’Ivry” in quei caffè dove si leggono le prime pagine dei libri e personaggi hanno ancora speranza di storia posava sui tavoli chiavi e foto josette la modella che si spogliava canticchiando la marsigliese caffé come sale d’attesa di lunghe eterne partenze strani giochi di pensiero

DESTINAZIONE TERRA L’avvertimento i segnali d’allarme registrati sui sismografi della mente lasciano impronte la nube si sfalda il grido si spegne

Ai soli di Saetti Le chitarre suonanti a cerchio dentro fruttiere azzurre e ruote del mulino ritmi di girasoli e segnali offerti alle acrobazie del linguaggio la luna confusa con arabeschi sul muro della coscienza la giustizia tradita i derelitti senza misericordia converrà abbandonare la favola del sole narrante tramonti sulla Giudecca verrà l’autunno si faranno più grigi i fondali l’acqua ferma ai crocicchi il destino disseminato giorno giorno converrà non rivolgersi alle madri quando ti sommergerà il rancore della moltitudine inquieta dei figli.

UNA STAGIONE POSSIBILE

i segnali della vita della morte s’annunziano in queste foglie / l’orma non era concordata eppure segnava 10 strano passaggio 11 minuscolo segreto si tramutava in un boato ora l’arcobaleno annunzia passi di cavalli ronzìo di menti incrinate, il segno lieto di Kandinskij scende sul foglio a creare disordine nel calendario lunare il tuo respiro l’avvertimento supremo che non si calpesta invano la terra. Parola come rinascita la parola è al limite precipita per eccesso di sensi inventare i gesti per trovar loro un suono un segno mordere le cose chiamandole per nome

Parigi Ferrosa e irrazionale non è una città di pietra e di fiato i sottili pensieri delle avanguardie alimentano libertarie dissennate avventure all’ombra di Apollinaire, gli abbaini un ricordo con in cima tre vetri inclinati di neve, la gente respirando l’inverno gli ultimi credenti nella favola illuministica intristendo fra i gatti sull’orlo dei tetti e tu vai camminando a cercare quel numero

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il cesto fiorito sul prato / la tua gonna dipinta / il bianco bastone brancola nel buio immaginato e come far ricominciare il mondo balbettare come se tutto intorno procedesse consunto il gioco di parola in parola trovandone altre e poi altre ancora ma accorgersi che è come rinascere.


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STORIE DI SCATTI

cercando il

Graziano Bellini

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rosso

avid vedeva solo in bianco e nero. Dalla nascita. Aveva una malattia congenita rarissima, l’acromatopsia, che la scienza non poteva curare. Per lui il mondo era come lo vediamo noi nei vecchi film. Una successione di neri e bianchi, chiari e scuri. Per David le parole che descrivevano i colori non avevano senso perché non poteva capire a cosa si riferivano. Se in vita sua aveva percepito qualche volta una sorta di commiserazione intorno a se, del tipo “poverino, non sa cosa si perde” lui non ne era mai rimasto ferito perché, non conoscendo niente di diverso dal suo mondo in bianco e nero, non soffriva della perdita di qualcosa che per lui non esisteva. Un giardino autunnale aveva sempre avuto

altri: la neve era bianca, i tronchi degli alberi nei boschi erano neri. Il resto, tante tonalità di grigio. Come per tutti. In quei momenti non c’era più differenza con chi gli stava intorno. Adorava anche le giornate di pioggia perché sapeva che anche in quei momenti i colori accesi si stemperavano e cosi, se gli capitava di vedere uno spicchio di cielo nuvoloso e carico di pioggia da una finestra, sapeva che era esatta-

quelle tonalità bianche e nere e nei suoi parametri, sperimentati nella sua esistenza, quello era l’autunno. E quando nevicava gli avevano detto che non c’era nemmeno tanta differenza nella visione della natura rispetto a tutti gli

mente come lo vedeva chiunque altro in quel momento. David aveva la passione per la lettura e per la musica, passioni che gli regalavano emozioni senza bisogno dei colori. Un’altra sua grande passione era la fotografia. Si, la fotografia, che non trova la sua forza nei colori bensì nella luce. E per David la luce era la misura delle emozioni visive. Le sue foto avevano una forza emotiva particolare


grazie a questa sua sensibilità. Aveva vinto anche un premio nazionale con una foto che raffigurava degli alberi riflessi su un vetro bagnato. Quasi sempre riportava tutte le sue foto in bianco e nero con l’ausilio di programmi fotografici ma anche quando lasciava le foto nei loro colori originali i suoi scatti venivano apprezzati. David lavorava di giorno nella Biblioteca Comunale, la sera come speaker in una radio privata e nel weekend si divertiva a fare il Dj in una discoteca. Un sabato notte, stanco della serata in discoteca ma ancora riluttante ad andare a letto, si fermò sul divano a guardare

la televisione e rimase attratto dal film Schindler’s list. Con gli orecchi che ancora gli fischiavano a causa dalla musica ad alto volume appena ascoltata cercò di concentrarsi su quel film fino a quando gli capitò una cosa sconvolgente: all’improvviso vide un colore!!! All’improvviso, come un flash, vide una bambina con il cappotto di un colore più forte dei bianchi e neri conosciuti, come niente di ciò che aveva mai visto fino allora, diverso. E poi la rivide quella bambina, la riconobbe dal colore del suo cappotto nella carretta nella quale i nazisti trasportavano i prigionieri uccisi. Sempre e solo quel colore. David era sconvolto, impaurito, emo-

zionato. Decise di svegliare la sorella più piccola senza dire niente ai genitori per il momento. Andò a corsa in camera della sorella, accese la luce e si sedette sul letto. «Clarissa! Svegliati! Ho visto un colore! Non ce la faccio a parlare, ho il fiato che mi chiude la gola! Ho visto un colore!» Clarissa si svegliò di soprassalto, turbata da quello che gli stava dicendo suo fratello. «Hai visto un colore? Che vuol dire?» «Stavo guardando il film Schindler’s List e a un certo punto, fra tutti quei colori, ne ho visto uno, uno soltanto ma nitido e luminoso, l’ho visto benissimo. Era il colore del cappotto di una bambina.» Clarissa era smarrita davanti a quelle parole, capi che c’era del vero in quello che diceva ed era anche lei sconvolta. «David, Schindler’s List è un film in bianco e nero! E l’unico colore diverso che si vede in tutto il film è il rosso! Il colore del cappotto di una bambina. David, quel colore che hai visto è il rosso! Cavolo, non ci posso credere! Hai visto davvero un colore!» Forse le luci della discoteca, sparate negli occhi in modo cosi intenso e forte gli avevano scatenato una reazione nella sua retina, una reazione provvisoria, momentanea, che per pochi attimi gli aveva permesso di esaltare solo il rosso, l’unico colore che per un gioco del destino appariva in quel film. Quella notte non riuscì a dormire. La mattina successiva andò a visitare un mercatino. Sperava di rivedere di nuovo quel colore in quella moltitudine di prodotti di ogni genere. Scrutava attentamente i toni delle ceramiche, dei vestiti, delle cornici dei quadri, di qualunque cosa gli passasse sotto lo sguardo. Ma nessun colore diverso dal bianco e dal nero risaltava ai suoi occhi. Nessuna traccia del rosso. Erano passate ormai due settimane da quella visione notturna ma lui non aveva perso le speranze di rivedere quel colore. Aveva riguardato il film ma, niente, il colore del cappotto della bambina era soltanto grigio. Un sabato pomeriggio, in un centro commerciale, mentre stava avviandosi alla cassa, lo rivide! Una ragazza aveva tirato fuori un portafogli dalla borsetta e lui aveva rivisto il colore rosso. Fu un attimo, un flash. La ragazza dopo aver pagato aveva rimesso il portafogli dentro la borsa e si stava avviando verso l’uscita ma lui non aveva nessuna intenzione di perderla. Usci di corsa e raggiunse la ragazza. «Mi scusi! È molto importante! Devo parlarle!» Mentre diceva queste cose aveva tirato fuori il certificato che attestava la

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sua malattia e cercò di spiegare la sua situazione. «Io non vedo i colori dalla nascita. Vede, questo è il certificato che spiega la mia malattia.» «E cosa mi vuol dire con questo?» cerco di capire la ragazza. David la guardò più attentamente. Come era bella. Un viso solare, labbra sensuali, occhi grandi. «Ora le spiego – cerco di tranquillizzarla lui – le sembrerà assurdo quello che sto per dirle, forse potrà sembrare anche un tentativo goffo di raggirare una persona in un centro commerciale, ma la prego di provare a credermi. Io non ho mai visto un colore diverso dal bianco e dal nero in vita mia fino a due settimane fa. Però, due settimane fa, per la prima volontà, e per una volta soltanto, ho visto il colore rosso in un film alla tv. Ma adesso l’ho rivisto quel colore, grazie a lei!» «Scusi ma non capisco.» disse la

ragazza, incuriosita da questa storia e predisposta a fidarsi di questo sconosciuto perché conquistata dai suoi modi gentili e dal fascino particolare che emanava. «Le faccio una domanda. Lei ha un portafogli rosso nella sua borsetta? Non importa che lo tiri fuori, voglio tranquillizzarla, non sto cercando di fare una rapina, mi basta che mi dica se il portafogli che ha usato per pagare alla cassa è di colore rosso.» La ragazza lo guardò negli occhi. Lui abbassò leggermente lo sguardo e poi incrociò di nuovo quello di lei. Lui accennò un sorriso imbarazzato. Lei accennò un sorriso di sorpresa. «Si! È rosso!» disse la ragazza un po’ emozionata. Un brivido percorse la schiena di lui. Gli occhi gli si bagnarono dall’emozione. La guardò di nuovo. Un brivido percorse la schiena di lei. Foto di Letizia Grazzini

Questo racconto (come altri pubblicati in passato su Reality dall’autore) è il risultato di un metodo che Graziano Bellini ha sperimentato insieme agli amici fotografi del gruppo FDMDB e consiste nello scrivere una storia, un racconto, prendendo spunto solamente dalle foto che il fotografo ha messo a disposizione di chi scrive. Perciò non sono racconti illustrati da alcune foto scattate successivamente, come potrebbe sembrare al primo sguardo, ma sono racconti nati ispirandosi alle foto che ne rappresentano la traccia primaria dalla quale prende forma la fantasia della storia.


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RACCONTO

alene

dove vanno le

seconda parte

Matthew Litch

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i era tuffato senza pensarci. Nuotò più veloce che poteva, verso le balene. Voleva vedere dove andavano, cercare di capire cosa fanno quando nessuno le guarda. Vide le balene sotto di lui, nell’acqua. Gli sembrava di essere in una grandissima sala, tipo una stazione dei treni, ma deserta, capovolta e ancora più grande. Così grande che il soffitto non si scorgeva. Aveva la sensazione di volare, come in quei sogni che sbatti le braccia e voli via. Le balene volavano piano verso il basso. Dalle loro bocche uscivano bolle come nugoli di pesci argentei. Jack quasi urlò, «Ehi! Aspettate!» Urlò davvero, ma le balene non si girarono. Forse perché non hanno il collo. Né si fermarono per aspettarlo, né rallentarono. Per quanto sembrava che andassero lente, non riusciva a

raggiungerle. Jack smise di nuotare. Inspirò più forte poté, puntò le braccia e si lasciò sprofondare. L’acqua in superficie era fredda. Sotto, lo era parecchio di più. Jack sentì rallentare il battito cardiaco, sentiva tamburellare il sangue nelle orecchie. La vasca della piscina comunale era profonda solo cinque metri e mezzo, o almeno così dicevano le mattonelle blu sul bordo. Cominciava a fare buio. Le balene sembravano fantasmi, forse se le immaginava soltanto. Gli facevano male le orecchie, i denti, tutto il corpo. «Anche se riuscissi ad arrivare dove sono diretti, e non credo di riuscirci, non saprei comunque cosa fanno quando nessuno le guarda perché le starei guardando io.» Gli bruciavano i polmoni. Era ghiacciato. L’acqua non era più blu, era

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nera. Le balene erano scomparse. Jack era a quasi trenta metri di profondità. Non riusciva a scendere ancora. Doveva respirare, uscire dall’acqua. Non era un posto dove poteva stare. «Non lo saprò mai», pensò. «Ma probabilmente non importa.» Gli scoppiarono le orecchie quando emerse alla luce, all’aria, al caldo. Sbuffò come un tricheco, immaginò di emettere una nuvoletta di vapore. Vide le navi, sentì urlare, specialmente sua sorella, Emma. Era troppo stanco per nuotare fino alla nave. Stette a galla mulinando gli arti. Sapeva che se smetteva, sarebbe colato a picco. Un gommone arancione slittò rapido da dietro la Spanker. Il motore faceva un gran frastuono. Forse era stata Emma ad avvistarlo per prima, come con la prima balena. Forse avrebbe vinto un altro premio. Un uomo tutto vestito di bianco issò Jack nel gommone come un pesce all’amo. Disse, «Togliti quei vestiti fradici e mettiti questa coperta.» Non sembrava arrabbiato. Jack obbedì. L’uomo disse, «Sai, a volte ho voglia di farlo anch’io. Ti capisco. Ma non ci riprovare.» Avvolto nella ruvida coperta grigia, Jack si afflosciò contro il bordo arancione del gommone e guardò i gabbiani che morivano dal ridere nel cielo blu. Era imbarazzante trovarsi nudo sotto una coperta mentre tutti a bordo lo guardavano, ragazze comprese. La madre di Jack lo baciò e l’abbracciò come fosse ancora un bebè. Suo padre scuoteva la testa perché suo figlio era impazzito. Emma urlò, «ho salvato la vita al mio fratello ritardato!» Ma Jack rideva comunque.



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NOVITà EDITORIALI

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luoghi e i tesori della storia di Empoli sono raccolti in uno splendido volume che ha voluto coprire un vuoto in contesto storico, antropologico, religioso, civile e militare. La struttura dell’opera e la rigorosità dei testi permettono di fissare dei punti fermi che potranno essere assimilati da tutti coloro che sentono il bisogno di approfondire e meditare sulla sostanza delle radici di Empoli, dare forma a un’identità cercando di dare una traccia per la ricostruzione storica di un centro che vanta ben ventuno secoli di storia. Immagini che mostrano la storia di questa città, dei suoi edifici. Scorci di piazze che raccontano la storia del passato e del presente. Leggere le pagine di questo volume sarà come farsi prendere per mano e accompagnarci nella storia, in un percorso emozionante che aiuterà a conoscere e a capire gli abitanti della città di Empoli.

Angelo Errera

EMPOLI I luoghi e i TESORI DELLA STORIA di Alessandro Naldi, Paolo Pianigiani, Leonardo Giovanni Terreni Edizioni: Editori dell’Acero

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FOTOGRAFIA

n libro fotografico, con un testo critico introduttivo di Giuseppe Mercenaro, in cui sono raccolti 47 scatti. Marcello Mattesini fotografo fiorentino, classe 1937, è uno specialista della camera chiara, appassionato di mezzi digitali fin dal loro ingresso nel mondo della fotografia. Si ispira al principio che «l’opera fotografica non debba rispondere bensì interrogare», l’autore diffonde la sua sfida allestendo mostre e vincendo numerosi concorsi fotografici in Italia. Foto scattate dall’alto di un aereo che confondono la realtà con l’illusione, fotografie come risultato di qualcosa che la momentanea distrazione impedisce di vedere come ad esempio una foto fatta a una palude di mare che diventa agli occhi di chi la osserva un albero con rami spogli, giochi di luci e ombre attraverso vetrate che trasformano realtà in altrettante immagini illusorie.

Sfida al senso della vista di Marcello Mattesini Edizioni: Polistampa

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n volume che rende omaggio a Rossana Pescaglini, ricercatrice storica dell’università di Pisa del Dipartimento di Medievistica, da parte dai suoi colleghi, raccogliendo i suoi innumerevoli scritti. L’autrice percorre il cammino non facile delle ricostruzioni genealogiche di grandi famiglie titolate, individuandone gli interessi pubblici e privati, la formazione e l’incremento del patrimonio, i vari legami socio politici attraverso una ricerca spaziale nei territori Toscani nord-occidentali, le dinastie delle TOSCANA città di riferimento: Pisa, Lucca, San Miniato, Pistoia e Firenze. Venti saggi che seguono la cronologia delle pubblicazioni degli MEDIEVALE studi fatti. L’ultimo dei quali La famiglia dei signori di San Minia- PIEVI, SIGNORI, CASTELLI, to, edito per la prima volta. Le curatrice Luigina Carratori Scolaro MONASTERI (secoli X-XIV) e Gabriella Garzella si sono concentrate sulla rilettura dei testi dandone un’organica sistemazione redazionale, e uniformando- di Rosanna Pescaglini Monti ne le citazioni bibliografiche. Edizioni: Ricerca Pacini Editore

STORIA

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aura Baldini autrice del volume si interroga sul senso e sulla strada che il Teatro dello Spirito dovrà seguire nel terzo millennio, ripercorrendo la rassegna di drammaturgia sacra nata nel 1947 dall’intuizione di alcuni intellettuali sanminiatesi decisi a risollevare le sorti della cittadina distrutta dalla guerra. Nella prima parte si delineano in maniera documentaria le origini, attingendo dall’archivio della Fondazione Dramma per cogliere le direttici culturali a cui si era ispirato. La seconda parte è una riflessione sulla realtà dell’uomo di oggi, gli idoli che si crea, il deserto spirituale che troppo spesso vive e il rinnovato bisogno di sacro. Il libro costituisce un prezioso contributo anche di carattere divulgativo per il Dramma Popolare perché sia sentito come un patrimonio di tutti e una realtà da salvaguardare. Nella foto l’autrice insieme al presidente della Fondazione Marzio Gabbanini

TEATRO

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LE RAGIONI DELLA SPERANZA di Laura Baldini Fondazione Istituto Dramma Popolare

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CINEMA

due

regine festival per un

Andrea Cianferoni

Sei giorni di Cinema internazionale per la prima edizione del San Marino Film Festival. Premio alla Carriera per Sofia Loren e Lucia Bosè

foto di zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz

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l Palace Hotel di San Marino, di proprietà dell’imprenditore mecenate Roberto Valducci, si è trasformato in palazzo del Cinema e ha ospitato per la prima volta, sotto la direzione artistica del regista Romeo Conte, conosciuto anche per essere l’ideatore del Salento Finibus Terrae, le più importanti produzioni cinematografiche internazionali in occasione della prima edizione del San Marino Film Festival. Un inizio decisamente di buon auspicio grazie alla presenza di due protagoniste indiscusse della storia del cinema mondiale: Sofia Loren, in apertura del festival, e Lucia Bosè nei giorni conclusivi della manifestazione. Entrambe sono state accolte al palazzo dei Capitani dal capo del cerimoniale Marcello Beccari con gli stessi onori attribuiti ai Capi di Stato, per ricevere dalle mani dei Capitani Reggenti Teodoro Lonfernini e Denise Bronzetti l’onorificenza di Cavaliere Grand’Ufficiale dell’Ordine Equestre di Sant’Agata. Ad aspettarle i picchetti d’onore e una folla di fotografi e giornalisti. Gli stessi che durante una settimana hanno calcato il tappeto blu in onore della bandiera sammarinese, e non rosso come di consueto, del nuovissimo palazzo del Cinema. Un festival innovativo. Infatti come ha dichiarato Romeo Conte «La selezione dei film ha intercettato un filo rosso importante: una scelta oltre le logiche dei classici format televisivi. Siamo andati oltre e non ci siamo piegati agli schermi e agli schemi ma abbiamo dato spazio a filmati di registi giovani, opere prime, e a nuove forme di cinema contemporaneo senza mai dimenticare il passato che oggi è rappresentato dal grande poeta e sceneggiatore romagnolo Tonino Guerra, pioniere e sperimentatore delle nuove forme cinematografiche».

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E anche Sofia Loren ha ricordato l’amico Tonino Guerra conosciuto durante la serata dell’Oscar. Alla grande attrice è stato attribuito il Premio San Marino per il Cinema consegnatole durante la cerimonia di inaugurazione del nuovo palazzo del cinema, di cui ha tagliato il nastro. L’altra grande diva del festival è stata Lucia Bosè, ospite alla manifestazione per un omaggio cinematografico. È stata lei la protagonista della serata con il film Le ragazze di piazza di Spagna di Luciano Emmer. Di casa al festival anche Ivano Marescotti che da attore si è trasformato in giudice,


anzi presidente di giuria per i corti. Ad affiancarlo l’attore italiano Giorgio Colangeli. Tra gli eventi speciali la proiezione di Scuderia Filibusta, la nascita del motociclismo a San Marino di Francesco Ceccoli, giovane cineasta sammarinese. Il documentario racconta della Scuderia Filibusta, la prima ‘squadra corsÈ di San Marino, che ha aperto la strada alla generazione di crossisti degli anni ’70 e a tutti i piloti che hanno preso in mano il manubrio prima degli allori di Manuel Poggiali. La giuria del festival, presieduta da Pupi Avati ha deciso di assegnare il Titano d’Oro come miglior film a Io sono Li, film di Andrea Segre con la seguente motivazione: «deve essere incoraggiato il cinema che va oltre i pregiudizi e oltre le singole comunità che convivono nel nostro paese». Quella di Segre è una pellicola sulla vita difficile di una madre cinese che per riabbracciare suo figlio, prima confeziona camicie

nella periferia di Roma e poi si trasferisce a Chioggia dove conosce il pescatore-poeta slavo Bepi, con il quale impara l’impara l’italiano e gli italiani, scontrandosi contro il pregiudizio della gente. Il premio per la miglior regia è andato a Pippo Mezzapesa per il film Il Paese delle Spose Infelici, il premio al miglior attore a Luca Zingaretti, per la piccola rivelazione La Kryptonite nella borsa, film che ha vinto anche il premio come miglior sceneggiatura. Miglior documentario è Il Mundial dimenticato di Lorenzo Garzella e Filippo Macellonio. Giusto riconoscimento per un prodotto che ha fatto luce su uno dei più misteriosi eventi calcistici avvenuti nel 1942 in Argentina, proprio nello stesso periodo in cui in Europa si consumava la tragedia della seconda guerra mondiale. Mentre la giuria del Premio Tonino Guerra per la sceneggiatura ha assegnato il premio al film interpreto da Lucia Bosè dal titolo Alfonsina y el mar dei giovani registi Davide Sordella e Pablo Benedetti. «Spero che questo festival ideato in un paese estero che sta nel cuore della mia terra romagnola, diventi il fulcro di interesse per gli autori di cinema e che possa sostituire o aggregare tutti i festival del territorio che sono spariti negli anni» ha dichiarato Ivano Marescotti, l’attore romagnolo a cui è stato consegnato un premio per il cinema italiano. Tra i partner del Festival Bellussi Valdobbiadene che da 4 anni con il progetto Bellussi ama il cinema collabora con la Fondazione La Biennale dei Venezia per la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

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La famiglia Valducci. Palace Hotel San Marino. Sofia Loren riceve l’onorificenza. Lucia Bosè riceve il Premio alla Carriera. Nella pagina a fianco Sofia Loren con Marcello Beccari a Palazzo dei Capitani. L’imprenditore Roberto Valducci e il regista Romeo Conte. L’attore Ivano Marescotti.


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TEATRO

Il corsaro al Teatro Verdi di Trieste i dipinti di Franco Fortunato Nicola Micieli

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andato in scena al Teatro Verdi di Trieste, lo stesso nel quale l’opera di Giuseppe Verdi debuttò il 25 ottobre 1848, un’edizione de Il Corsaro rivisitata, come suol dirsi, in chiave di attualità. Nel senso che il maestro Gelmetti ha fatto agire, in una storia incentratata sul rapporto non pacificato tra Occidente e Oriente, immagini e personaggi estrapolati da situazioni conflittuali e figure del nostro tempo, nel quale si ripetono tensioni e violenze - e guerre guerreggiate - proprie del libretto di Francesco Maria Piave e dell’epoca storica e delle vicende cui l’opera verdiana si riferisce. Tra le “novità” di questo allestimento prodotto dalla Fondazione del teatro triestino assieme all’Operà di Montecarlo, c’è il dato scenografico di squi-

sita risoluzione pittorica. Lo scenografo Pier Paolo Bisleri, per il suo allestimento lineare nell’ordine della geometria, si è avvalso dei costumi di Giuseppe Palella che compie lui pure un viaggio nella storia proiettandosi verso il futuro, di immagini di guerra e violenza non datate, infine di scene da fondale eseguite come veri e propri “quadri pittorici” da Franco Fortunato. L’artista romano è nuovo al teatro, ma la sua immagine, il suo mondo visionario è da considerarsi intrinsecamente scenografico. Nel senso che sempre vi si ambienta un luogo ove si compie un’azione, si ipotizza una storia da raccontare, della quale si danno in termini poetici gli elementi essenziali. La scenografia degli artisti non è certo una novità. Non occorre risalire a Pablo Picasso scenografo, nel 1917 al Théâtre du Châtelet, del celeberrimo Parade. Nemmeno al primo Maggio Fiorentino (1933) quando Giorgio De Chirico con le sue Muse inquietanti per I Puritani di Bellini, si faceva capofila di una vera e propria tradizione, che doveva mettere in campo nella manifestazione fiorentina, quali scenografi, tra i maggiori artisti italiani. In tempi più recenti non dimenticherei le scene e i costumi di Lucio Fontana per il Ritratto di Don Chisciotte di Goffredo Petrassi, alla Scala nel 1967. Recentissimi gli allestimenti del Festival Pucciniano con Scolpire l’opera, affidati a scultori di primissimo piano quali, Cascella, Mitoraj, Yasuda, Adami. Ma Franco Fortunato è intervenuto puramente da pittore: ha messo in scena immagini concepite come quadri, certo idealmente congrue con la vicenda rappresentata, ma ricorrendo esclusivamente al proprio repertorio di forme e figure di appartenenza poetica e immaginaria.

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Foto Fabio Parenzan

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TEATRO

Falstaff

e le allegre comari di Windsor uno spettacolo di Andrea Buscemi con Roberto Ciufoli

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opo una serie di fortunate anteprime in vari teatri toscani, ha debuttato al Teatro Goldoni di Livorno il nuovo spettacolo di Andrea Buscemi: Falstaff e le allegre comari di Windsor di William Shakespeare. La commedia farà tappa a Firenze, Montecarlo, Bagni di Lucca, Casciana Terme, fino al Verdi di Pisa; per poi essere ripreso a Roma e in varie piazze italiane. Una teatralità prepotente fa de Le Comari di Windsor una delle commedie più celebri di Shakespeare, e a essa una grande fortuna sulle scene di tutto il mondo. Adesso torna in scena nella versione sanguigna di Andrea Buscemi affiancato dalla travolgente comicità di Roberto Ciufoli. La tradizione vuole che Shakespeare abbia scritto la commedia in sole due settimane, per ingiunzione della regina Elisabetta, che smaniava di vedere il popolare grassone impegnato sulla scena in una vicenda erotica. Qualche spunto della storia attinge alla novellistica italiana, ma certamente alla straordinaria padronanza dello spazio scenico del Grande Bardo è dovuta la grande abilità di costruzione e la vivezza degli effetti comici, di cui la commedia è continuamente nutrita. Falstaff, vecchio bandito incapace di andare in pensione, tenta la sua ultima ribalderia: sedurre alternativamente la Comare Ford e la Comare Page, ricche e avvenenti, per procurarsi doppio piacere. Ne nasceranno situazioni comiche entrate nella leggenda del Teatro, fino alla beffa finale contro di lui esposto al ludibrio popolare. Un’opera tutta giocata sul filo del doppio registro “alto” e “basso”, come vuole la migliore tradizione shakespiriana, col personaggio di Falstaff stavolta affidato alle istrioniche corde di Buscemi e quello di Ford all’ironia di Ciufoli, affiancati da un ensamble di interpreti eccellenti: Comare Ford Alessia Innocenti; Comare Page Livia Castellana; Ford Roberto Ciufoli; Page Mauro Tommasi; Annetta Martina Benedetti; Caius Renato Raimo; Fenton Gabriele Valentini; Quickly Simona Generali; Falstaff Andrea Buscemi; Pistola Alessio Sardelli; Bardolfo Giovanni Meozzi.




A TU PER TU

Luciana

Savignano un soffio in punta di piedi

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a figura è quella: scriminatura centrale, passo felpato, aria eterea e tanta, tanta determinazione. Luciana Savignano, la grande etòile, ha un’espressione molto dolce ed è estremamente affabile. Racconta che la passione per la danza l’ha sempre avuta, fin da quando… era in pancia di mammà. Da piccola, appena sentivo la musica, automaticamente mi muovevo, mi scioglievo, improvvisavo, così… per conto mio, senza nessuna pretesa. Poi, un caso, mah… mio padre mi iscrisse alla Scuola della Scala e da lì ho iniziato in punta di piedi. Più tardi mi sono resa conto che potevo inserirmi in questo anche se, inizialmente, mi sembrava fuori dalla mia portata. Troppo modesta. La sua carriera le è riconoscente. Mah… sembra! Sembra sì! Di lei hanno scritto: «La Savignano è l’antologia della passione, un raggio carico d’energia che conduce e illumina le vie delle emozioni più profonde, un canto che unisce anime e corpi in un’unica dimensione. Ha lavorato al Bolshoi, nel ’71 è diventata prima ballerina alla Scala e nel ’75 ètoile. Gode d’un repertorio accademico di gran rispetto; l’abbiamo ammirata per Cinderella, La bisbetica domata, Il lago dei Cigni. La singolarità del suo stile sinuoso le ha permesso d’interpretare vere e proprie perle quali la Carmen, Bolero, Leda e il Cigno, Giulietta e Romeo, Jules et Jim, La Lupa, Tango de Luna, etc. Quante ore dedica alla danza? Ed è vero che tale disciplina regala una bella postura nonché un bell’incedere? Dunque: iniziamo dalla prima domanda. Per far questo ci vuole disciplina, metodo, passione, ma anche umiltà e pazienza, senza disdegnare una buona

calma interiore con consapevolezza che ciò che fai non è cosa facile e dal risultato immediato. Resta inteso che ti arricchisce dentro donandoti qualcosa che ti fa stare in uno stato di grazia particolare, in un mondo un po’ sospeso, irreale, dove avverti che c’è il pubblico ma nel contempo non lo vedi, non lo senti, però lo percepisci e quindi si instaura un dialogo ed un rapporto speciale. Praticamente ti eleva, vivi in uno stato di grazia bellissimo. Mi ha parlato con gioia interiore, con quegli occhioni vivi, lucenti, d’enorme espressività, e io, per qualche attimo, mi sono trovata seduta in platea a vederla volteggiare completamente rapita. Rientro in me. Prosegue sulle mie domande, sui consigli da dare, sui grandi danzatori, chi erano i suoi modelli. I suggerimenti o altro, sono difficili da dispensare: ognuno vive la propria arte come se la sente addosso. Bisogna essere consapevoli delle difficoltà, dei percorsi lunghi, però le soddisfazioni sono intense. Non è facile, forse perché niente è facile. Quanto ai grandi danzatori, è una cosa molto personale. Li conosciamo tutti i grandi - ma che vocina gradevole che tiene! - quello che suscita emozioni, quello meno… personalmente, nella mia carriera, ho ballato con tante eccellenze. Quanto ai miei modelli, da piccola sentivo il bisogno d’un impatto che mi regalasse una emozione viscerale più che estetica. I migliori? No, non posso rispondere così, ognuno si distingue, è una domanda complessa. Ce ne sono senz’altro e tantissimi, osservo però che “bravobrava” non basta, non è sufficiente. Devi spiccare il volo e farti distinguere dagli altri.

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Signora esilissima, quant’è profonda! Passiamo a qualcosa di più leggero. Com’è che si mantiene così in forma? Colazione ricca di dolci e cioccolato a pranzo. Chiaramente scherzo. però sono golosa e, per fortuna, molto meno di prima. Anche se, via via, ho le mie impennate. Ride di gusto terminando. Meno male che ‘brucio’ molto, però quel languorino presente che sento spesso mi indica proprio che ho bisogno di qualcosa di dolce e quindi.. non li abolisco . È la personalità che eleva o la cioccolata?

Carla Cavicchini

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MUSICA

Junior

Eurovision Song Contest dalla Russia con amore... o quasi Leonardo Taddei

Palco dello Junior Eurovision Song Contest 2012. Anastasiya Petryk durante la finale.

L

’Eurovision Song Contest, noto anche come Eurofestival, è una manifestazione musicale nata nel 1956 su modello del Festival di Sanremo, e organizzata dall’EBU, l’Unione Europea di Radiodiffusione: i cantanti, uno per nazione, devono avere almeno 16 anni e sul palco non sono consentite più di 6 persone. Per quanto riguarda la canzone presentata, non deve superare i 3 minuti, deve essere inedita e non contenere messaggi politici, pubblicitari od offensivi.

I cantanti si esibiscono live ma su base musicale, dato che dal 1999, per problemi organizzativi, non è più presente l’orchestra che suona dal vivo. Nella storia dell’evento l’Italia ha ottenuto due vittorie, nel 1964 con l’allora sedicenne Gigliola Cinquetti e la sua Non

ho l’età (per amarti); nel 1990 con Toto Cutugno e la canzone Insieme: 1992. Dopo una lunga assenza, il nostro paese è rientrato in concorso nel 2011 con Madness of love (Follia d’amore) di Raphael Gualazzi e, l’anno scorso, con Out of Love (L’amore è femmina) di Nina Zilli, ottenendo lusinghieri piazzamenti. L’attuale sistema di punteggio prevede che ogni paese assegni un certo numero di punti alle 10 canzoni preferite: da 1 a 7 rispettivamente dalla decima alla quarta, 8 punti alla terza, 10 alla seconda e 12 alla prima. Ogni paese non può votare per la propria canzone e redige la sua classifica in base ai voti di una giuria tecnica e del televoto, ripartiti equamente al 50%: la sommatoria di tutti i punteggi decreta la nazione vincitrice, che è chiamata ad ospitare l’edizione successiva. Con un meccanismo molto simile, a partire dal 2003, è stata creata la versione Junior dell’Eurovision Song Contest, ma con alcune differenze. Innanzitutto i cantanti devono essere di età compresa tra 10 e 15 anni, le canzoni avere una durata massima di 2 minuti e 45 secondi ed essere interpretate in una delle lingue ufficiali del paese, anche se è ammessa la registrazione dei cori sulla base audio. Inoltre la nazione vincitrice non ha l’obbligo di ospitare l’evento successivo. L’edizione 2012 dello Junior Eurovision Song Contest si è tenuta il 1 Dicembre sul palco dell’Heineken Music Hall presso la Bijlmer Arena di Amsterdam, nei Paesi Bassi, dove a trionfare è stata, davanti a Georgia ed Armenia, l’Ucraina con la canzone Nebo (Cielo), interpretata dalla non ancora undicenne Anastasiya Petryk: con la sua angelica immagine contrapposta ad una

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graffiante voce da consumata interprete rock, la piccola ha vendicato la sorella Victoria, che aveva tentato di mettere le mani sull’ambito premio nel 2008, ma si era dovuta accontentare della seconda posizione alle spalle dei rappresentanti della Georgia. Le competizioni, lo sappiamo bene, non vanno a finire mai come previsto, ed il risultato, che anche stavolta sembrava scontato per tutta la sala stampa, è stato sovvertito completamente. Quest’anno era lei la favorita: la quattordicenne Lerika dalla Russia. Alta, bella, bionda e dagli occhi di ghiaccio, bravissima, con un’estensione vocale incredibile, una canzone dance dall’arrangiamento molto accattivante e, soprattutto, alla sua seconda partecipazione nella competizione, dopo il sesto posto dell’anno precedente per la Moldova. Lei che possiede la doppia cittadinanza, lei che poteva sembrare la trasposizione giovanile di una delle tante Bond Girl della storia del cinema, magari, perché no, proprio di Tatiana Romanova, eroina del film Dalla Russia con amore dell’agente 007 James Bond, interpretato da Sean Connery, si è vista portar via la vittoria dallo scricciolo dell’Ucraina, che ha sorpreso tutti quanti con la sua grinta impressionante. Per il momento l’Italia non ha mai preso parte alla manifestazione, ma forti sono gli interessi della Rai nei confronti di questo evento. Come confermano i vertici aziendali, negli ultimi anni abbiamo assistito, su tutte le reti nazionali, ad una presenza sempre maggiore di programmi per bambini, e, tra questi, un’attenzione particolare è stata riservata allo show Ti lascio una canzone, condotto da Antonella Clerici su Rai 1, a testimonianza del fatto che i piccoli artisti in


televisione fanno audience, soprattutto quando cantano e si cimentano in brani da adulti. Molti di questi bambini, tra cui anche alcuni provenienti dalla Toscana, hanno ottenuto una notevole visibilità, e, come dimostra il successo dei tre piccoli tenori del gruppo Il volo, anche in campo internazionale: dopo essersi esibiti addirittura oltre oceano ad American Idol e al Jay Leno’s Tonight Show, il loro album di debutto è salito al decimo posto nelle classifiche statunitensi. In più la manifestazione dello Junior Eurovisio Song Contest, trascinata dal successo della sorella maggiore, viene trasmessa anche in tanti paesi extra europei, come ad esempio l’Australia, ed è seguito in streaming live su internet da tutto il mondo: l’idea di una possibile e imminente partecipazione italiana risulterebbe quindi accattivante anche dal punto di vista della risonanza internazionale. La Rai avrebbe già in mente anche l’eventuale struttura che potrebbe ospitare l’evento in Italia, e si tratterebbe proprio del PalaSpecchiasol di Montecatini Terme, che già ha ospi-

tato il concorso di Miss Italia nelle ultime due edizioni. I membri della delegazione italiana fanno notare come ci siano però anche delle difficoltà oggettive da superare prima di dare l’assenso definitivo. Innanzitutto lo Junior Eurovision si svolge tra fine Novembre ed inizio Dicembre, in un periodo in cui la Rai è molto impegnata, dal punto di vista organizzativo e finanziario, a causa della vicinanza del Festival di Sanremo, che solitamente ha luogo in Febbraio. Inoltre dovrebbe occupare un sabato sera, andando a sostituire la puntata del programma abbinato alle premiazioni settimanali della Lotteria Italia, e con inizio alle 20:15, orario da sempre affidato allo spazio dell’informazione. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di trasmettere il concorso sul canale Rai YoYo, specificamente dedicato all’intrattenimento per bambini: è una formula che ancora deve essere messa a punto, ma sembra che i tempi siano abbastanza maturi. In più, anche San Marino, il cui network di Stato, San Marino RTV è al 50% di proprietà della RAI, e che già ha preso parte a tre edizioni della manifestazione Senior, potrebbe essere interessata anche alla versione Junior. D’altra parte molti sono i collegamenti tra l’Italia e le manifestazioni organizzate dall’EBU, che sempre hanno riscosso molto successo negli anni. Renata Mauro, colei che annunciò, peraltro in Eurovisione, assieme a Mike Bongiorno al pubblico del Festival

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di Sanremo del 1967 la triste notizia della morte di Luigi Tenco, presentò l’Eurovision Song Contest del 1965, tenuto per la prima volta in Italia, a Napoli, e dal 1967 al 1970 anche la celeberrima Giochi senza frontiere con Enzo Tortora e Giulio Marchetti, trasmissione il cui storico conduttore Ettore Andenna è stato commentatore per l’Italia proprio all’Eurovision Song Contest nel 1993 e nel 1997. Inoltre la presentatrice dell’edizione Junior 2008, la cantante ucraina Ani Lorak, che aveva a sua volta partecipato, vestita dallo stilista Roberto Cavalli, alla gara Senior nel 2008 giungendo seconda, battuta dal russo Dima Bilan, che sarebbe poi stato sconfitto agli MTV Europe Music Awards del 2010 dall’italiano Marco Mengoni nella cate-

goria Best European Act, ha recentemente vinto il Golden Gramophone Award con una cover di È l’amore che conta della nostra Giorgia, scritta dall’americano Busbee, già autore per Katy Perry, Timbaland e Anastacia, e prodotta insieme a Michele Canova Iorfida, collaboratore, tra gli altri, di Tiziano Ferro, Jovanotti, Eros Ramazzotti, Fabri Fibra, Biagio Antonacci, Giusy Ferreri, Adriano Celentano, Max Pezzali, Loredana Errore e Irene Grandi. Ani Lorak e Dima Bilan sono stati anche ospiti, nel 2008, dell’amatissima trasmissione televisiva Carramba che fortuna! della mitica Raffaella Carrà, già commentatrice per l’Italia della edizione 2011 dell’Eurovision Song Contest e possibile presentatrice di un’eventuale manifestazione Junior a cui il nostro paese potrebbe presto, ci auguriamo, prendere parte.

In alto Lerika, rappresentante della Russia allo Junior Eurovision Song Contest 2012. In basso Anastasiya Petryk firma gli autografi dopo la vittoria. A destra tutti i partecipanti dello Junior Eurovision Song Contest 2012.


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PRIMO PIANO

gli angeli di

file

Fondazione Italiana Leniterapia Onlus

F

ile è l’acronimo della Fondazione Italiana Leniterapia Onlus nata per individuare e reperire risorse umane e finanziarie con lo scopo di aiutare la persona malata e la sua famiglia nell’affrontare l’ultima e più difficile fase della vita. Costituita nel 2002, File è attiva con le sue équipe sanitarie a Firenze e a Prato, e nelle loro province, per fornire assistenza completa, a domicilio e presso strutture pubbliche dedicate ai malati in fase terminale (in prevalenza oncologici) e ai loro familiari. Le équipe sanitarie di File offrono numerosi servizi di assistenza e operano sia autonomamente sia a sostegno delle aziende sanitarie del territorio. Ogni anno File si prende cura professionalmente e con umanità di centinaia di persone. «Cerchiamo di “sburocratizzare” la burocrazia ospedaliera» spiega Donatella Carmi Bartolozzi, presidente della sezione File di Firenze dal 2002, anno della sua costituzione come Fondazione. Laureata in filosofia, la presidente è da anni volontaria in Cure Palliative.

«Uno dei nostri impegni prioritari – continua – è la formazione delle persone che dovranno assistere i malati. Inoltre, per mezzo di borse di studio abbiamo qualificato numerosi operatori sanitari e ricevuta l’adesione di medici psicologi attivi in tutta Italia. «Attualmente – spiega Donatella Carmi Bartolozzi – finanziamo 7 medici, 5 psicologi e 3 fisioterapisti, oltre a una operatrice socio-sanitaria. Chi desidera informazioni può rivolgersi alla nostra segreteria di Firenze, in via San Niccolò 1, telefonare allo 055 2001212, oppure visitare il nostro sito www.leniterapia.it, o inviarci una mail a file@leniterapia.it». Nel tentativo di rendere più comprensibile il vero significato del termine cure palliative, File ha creato il neologismo Leniterapia, dal verbo latino lenire, legato all’idea di dolcezza, di cura, di solidarietà riconosciuto dall’Accademia della Crusca. Una terapia lenitiva, infatti, rispetta l’uomo, i suoi affetti, il suo dolore, la sua volontà e la dignità della sua vita. Le cure palliative trovano una loro

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collocazione nell’ambito della medicina grazie a Dame Cicely Saunders (classe 1918), assistente sociale, poi infermiera nel primo ospedale per pazienti tumorali a Londra e infine medico, che nel 1967, dopo 19 anni dall’incontro con il paziente David Tasma, realizza il primo hospice: il St. Christopher’s Hospice a Londra. Prima di morire scrisse: «Sono stata infermiera, sono stata assistente sociale, sono stata medico. Ma la cosa più difficile di tutte è imparare ad essere un paziente». L’obiettivo di File non è solo quello, di aiutare concretamente, con tutte le sue risorse, i pazienti affetti da malattie croniche in fase terminale, ma vuole inoltre promuovere la cultura della Leniterapia per fornire la giusta preparazione ai professionisti del settore, sensibilizzare la popolazione con eventi e iniziative sull’importanza di dare valore e dignità alle persone fino all’ultima fase della loro vita. Negli ultimi anni File si è posta un altro progetto ambizioso: aprirele cure palliative a campi non solo oncologici, riservando un’attenzione particolare all’ambito geriatrico. Infatti, considerati l’innalzamento dell’età media della popolazione del mondo occidentale e la crescita di gravi malattie neurologiche, sempre più spesso la geriatria dovrà confrontarsi con le cure palliative. Di fronte a questo invecchiamento, non privo di patologie, dovranno essere pensate nuove risposte sanitarie e sociali per dare sollievo alla sofferenza dei malati e delle loro famiglie.

Domenico Savini

In basso Donatella Carmi Bartolozzi presidente della sezione File di Firenze. In alto Dame Cicely Saunders capostipite del movimento delle cure palliative.

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PRIMO PIANO

Workshop San Miniato ospita il Becoming protagonists of tannery life

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al 4 all’8 marzo a San Miniato si è svolto il workshop internazionale dal titolo Becoming protagonists of tannery life – Diventare protagonisti della vita in conceria –, organizzato dal Comune di San Miniato e finanziato dall’European Lifelong Learning Programme Grundtvig. La tematica del workshop è proprio la conoscenza del Comprensorio del Cuoio, con un approccio “full immersion”, da cui il titolo del progetto e nasce dall’idea di far conoscere “l’arte delle pelle”, simbolo di questo territorio, con particolare attenzione ai risultati raggiunti in tema di rispetto ambientale e di sviluppo sostenibile, sperimentando di persona la “tradizione conciaria” e le innovazioni nel campo della pelletteria. Obiettivo di questa iniziativa, che rappresenta per l’Amministrazione Comunale la prima esperienza nel Programma LLP (Lifelong Learning Programme) per l’apprendimento permanente, è quello di far conoscere il nostro distretto, le sue caratteristiche, le sue potenzialità, i protagonisti che vi operano (imprenditori, operai, ricercatori, tecnici) proponendo ai partecipanti un percorso che li coinvolga completamente nella vita conciaria del Comprensorio del Cuoio. Dopo il loro arrivo i venti partecipanti stranieri provenienti da diversi Paesi (Grecia, Spagna, Romania, Turchia, Francia, Germania, Belgio, Finlandia, Lituania, Estonia e Lettonia) hanno avuto una settimana di lavori, articolata tra attività di laboratorio, visite sul territorio, incontri tematici ed istituzionali, momenti di scambio di esperienze. La Sala del Bastione, adibita a laboratorio dove i partecipanti hanno creato con la guida di un insegnante Mariachiara Marcori piccoli oggetti di arti-

gianato in pelle, usando tecniche e strumenti tradizionali della lavorazione della pelle e del cuoio, utilizzando scarti di lavorazione della pelle, del cuoio e materiale di recupero. L’assessore Giuditta Giunti ha dichiarato «partecipando al bando della Commissione Europea con un proget-

sempre più all’Europa, farsi conoscere e far conoscere le sue eccellenze, ma anche sostenere i suoi cittadini nella conoscenza di altri paesi europei, oltre che scambiare sempre più idee, esperienze e buone pratiche.» L’amministrazione comunale ha gestito la progettazione insieme alla Aca-

to innovativo, che si è posizionato al sesto posto su oltre trecento domande pervenute; una opportunità per far conoscere in Europa il nostro territorio e le sue peculiarità, verso una collaborazione sempre più intensa con la Commissione Europea. - inoltre -vorrei far conoscere sempre più le opportunità, i benefici, i diritti di cui godiamo come cittadini europei ed i programmi di mobilità europea con cui è possibile finanziare scambi e opportunità formative e di lavoro, rappresentano in questo senso importanti opportunità, soprattutto per i cittadini con minori possibilità. San Miniato vuole aprirsi

demyNkey area servizi per la formazione della società Nkey srl, alla quale è stato affidato anche il coordinamento delle attività, e grazie anche al contributo reso alla realizzazione del progetto dal Consorzio Conciatori, Cuoiodepur, Po.te.co, ITS “C. Cattaneo”, Slow Food e l’Associazione tartufai.

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Nella foto, i partecipanti al workshop con: Giuditta Giunti assessore al Turismo di San Miniato, Giuseppe Volpi Presidente Consorzio Conciatori di Ponte a Egola, Leonardo Volpi Amministratore Delegato Po.te.co, Alessandro Frosini Dirigente scolastico ITS “C. Cattaneo” di San Miniato, Lucia Alessi Fiduciario Slow Food San Miniato, Salvatore Cucchiara Presidente Associazione tartufai delle colline sanminiatesi,Carla Sabatini società Nkey srl, e Mariachiara Marcori curatrice dei laboratori.

Ada Neri

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pRIMO pIANO

conciati nel tempo capolavori degli Amici per la Pelle

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velati i lavori realizzati quest’anno dagli studenti del Comprensorio per Amici per la Pelle, originali elementi d’arredo ispirati al design di epoche diverse che ad aprile verranno esposti in un’apposita sezione della fiera Lineapelle di Bologna. Ed ora… alcuni di loro sognano un futuro da artista, altri sperano che le proprie opere vengano conosciute da un pubblico sempre più vasto, tutti si godono i complimenti ricevuti per i propri capolavori: sono i giovani studenti del Comprensorio del cuoio, “artisti” per il concorso di idee Conciati nel Tempo promosso nell’ambito del progetto Amici per la Pelle che anche in quest’ultima edizione è riuscito a coinvolgere le nuove generazioni del distretto conciario toscano in un viaggio affascinante tra i segreti dell’industria della pelle. Divertiti ed entusiasti gli oltre 400 studenti toscani che han-

no partecipato ad Amici per la Pelle 2012\13, alunni delle classi seconde medie degli Istituti “ICS Banti” di Santa Croce sull’Arno, “ICS Montanelli Petrarca” di Fucecchio, “ICS L. Da Vinci” di Castelfranco di Sotto ed “ICS Buonarroti” di Ponte a Egola di San Miniato. Amici per la Pelle e la sinergia tra le forze del territorio Ispirato al tema dell’evoluzione del design, il concorso Conciati nel Tempo ha visto gli studenti realizzare e impreziosire con la pelle oggetti d’arredo curiosi ed originali, svelati nel corso delle tre giornate conclusive dell’evento, poi esposti in un’apposita mostra a Villa Pacchiani. «Ogni anno i lavori che vengono fatti dagli studenti per Amici per la Pelle - dice il sindaco di Santa Croce sull’Arno Osvaldo Ciaponi - colpiscono per il loro pregio e per la loro cura e danno il senso dell’entusiasmo con cui i ragazzi vivono questo progetto, che si conferma in grado di renderli sempre più consapevoli della ricchezza espressa dalla locale industria conciaria. Da lodare la sinergia che si è affermata intorno ad Amici per la Pelle tra mondo della scuola e tessuto socio-economico del Comprensorio - aggiunge il sindaco di Castelfranco di Sotto Umberto Marvogli - ciascuno ha dato al progetto un contributo utile e originale». Gli studenti in viaggio tra i segreti dell’industria conciaria Partito nel 2010 su iniziativa del Gruppo Giovani conciatori del Comprensorio del cuoio, il progetto ha ottenuto un successo crescente: esteso a livello nazionale dall’UNIC anche agli altri due distretti italiani della pelle Amici per la Pelle si con-

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clude ogni anno con un’esposizione dei lavori degli studenti in una sezione dedicata della fiera Lineapelle di Bologna, tra gli appuntamenti più importanti, a livello internazionale, per l’industria conciaria. «L’opportunità per gli studenti di vedere le loro creazioni in mostra a Lineapelle e la stessa partecipazione a quell’evento - dice Stefanella Foglia,

coordinatrice del progetto - è per loro motivo di ulteriore entusiasmo: molti dei ragazzi partecipano emozionati a quell’evento di cui spesso hanno sentito parlare come uno dei più importanti per l’industria conciaria, anche questo diventa per loro

Carlo Junior Desgro

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un’ulteriore bella esperienza da condividere». Circa mille gli allievi del Comprensorio del cuoio coinvolti dalla sua prima edizione ad oggi, altrettanti quelli provenienti dagli altri distretti della pelle che hanno aderito al progetto, e il brillante risultato di ragazzi giovani sempre più sensibilizzati sulle molteplici potenzialità dell’industria conciaria. La creatività dei giovani artisti Amici per la Pelle «Sollecitare nei giovani la creatività e l’ingegno ed avvicinarli contemporaneamente alla cultura e alle tradizioni locali del Comprensorio del cuoio - dice il presidente Assoconciatori Franco Donati - sono alcuni dei motivi del successo di questo progetto: non solo i ragazzi imparano o approfondiscono nozioni legate al territorio e alle sue risorse ma vivono esperienze utili per la loro maturazione condividendo momenti istruttivi e divertenti. Rendere le nuove generazioni consapevoli delle potenzialità dell’industria conciaria, che tanto rappresenta per il nostro Distretto, si rivela tanto più utile anche nell’ottica di riuscire a contribuire a poter offrire loro un quadro più completo delle scelte che potranno

effettuare nel proseguire gli studi o nell’avvicinarsi al mondo del lavoro». «Ogni anno gli studenti riescono a creare veri capolavori - dice il sindaco di Fucecchio Claudio Toni - che meritano tutto il nostro apprezzamento. Complimenti alle loro intuizioni e ai docenti in grado di coordinarli in questa loro attività». «Le opere create dagli allievi - aggiunge il primo cittadino di San Miniato Vittorio Gabbanini - stupiscono per il loro pregio e per la capacità che hanno di rimandare al patrimonio di tradizioni del nostro territorio, che il progetto Amici per la Pelle ha il merito di valorizzare». Tra le creazioni degli studenti per Amici per la Pelle quest’anno sedie, tavolini, panche e lampade dagli stili più diversi e originali, frutto della loro creatività e del paziente lavoro

modo all’iniziativa confrontandosi con gli studenti e spiegando loro il legame tra industria conciaria, storia ed economia del territorio. Lineapelle Bologna ultima tappa di un viaggio tra creatività e pelle «Anche quest’anno il progetto Amici per la Pelle - dice Francesca Signorini, coordinatrice del Gruppo Giovani conciatori - si è avvalso di una macchina organizzativa complessa che grazie all’impegno di tutte le parti coinvolte, è riuscita a produrre un risultato importante, come dimostra il lavoro che i ragazzi sono riusciti a fare con il contributo dei loro docenti e di tutti quanti a vario titolo hanno dato il proprio contributo». Soddisfazioni e anche tanto impegno nel coordinare al meglio il progetto, come conferma Roberto Giannoni, vicepresidente Assoconciatori, tra i principali

di coordinamento con cui i docenti delle scuole coinvolte li hanno seguiti, tra gli altri i professori Mariangela Amoretti, Isabella Bacchi, Angelo Barbaro, Marco Battaglia, Monica Billeri, Gabriele Falchi, Marisa Giorgi, Simone Gorelli, Maria Grazia Morini e Roberta Vaglini. Con loro i dirigenti scolastici, le professoresse Renata Lulleri per l’Istituto comprensivo di Santa Croce, Daniela Di Vita per l’Istituto di Ponte a Egola, Lia Morelli per l’Istituto comprensivo di Fucecchio e il professor Pietro Vicino per l’Istituto comprensivo di Castelfranco di Sotto: tutti “orgogliosi” dei loro giovani artisti auspicano che in futuro il progetto possa crescere ancora, e con loro se lo augurano i numerosi imprenditori, rappresentanti delle istituzioni, del mondo del credito e di tutta la comunità locale che hanno partecipato in qualche

sostenitori dell’iniziativa sin dalla sua prima edizione. «Amici per la Pelle - afferma Giannoni- rappresenta un’esperienza bellissima, non solo per i ragazzi, che ne sono i veri protagonisti, ma anche per tutti noi che grazie al progetto ci confrontiamo con loro, un’esperienza che richiede comunque molti sforzi nel coordinare il lavoro di ognuno e nel riuscire a confrontarsi con ragazzi molto giovani trovando il miglior modo per comunicar e lavorare con loro». Svelati i lavori degli studenti del Comprensorio del cuoio, terminata la mostra degli stessi presso Villa Pacchiani, la prossima e ultima tappa del viaggio di Amici per la Pelle sarà a Bologna, dove verranno confrontate tutte le creazioni realizzate nell’ambito del progetto nei tre distretti italiani della pelle con la scelta dell’opera più rappresentativa tra tutte.

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Corsi gratuiti finanziati per migliorare le competenze professionali

PO.TE.CO. Polo Tecnologico Conciario

L’Agenzia Fo.Ri.Um. Sc di S. Croce sull’Arno, si è affermata in questi anni come soggetto in grado di dare risposta ai bisogni di formazione, consulenza e innovazione provenienti dal tessuto economico produttivo locale promuovendo numerosi progetti in collaborazione con il Polo Tecnologico Conciario, le Associazioni di Categoria, gli Istituti scolastici, l’Enti locali, coinvolgendo esperti e professionisti nei vari settori di intervento. Per l’esperienza decennale maturata e per le collaborazioni instaurate garantisce un elevato standard qualitativo degli interventi proposti per tutte le tipologie di utenti interessati ad intraprendere percorsi di aggiornamento e qualifica professionale. Ecco dunque che stanno per partire alcune nuove offerte in partenariato con Po.Te.Co. Scarl. Sono in tutto 3 i progetti di formazione professionale gratuiti per occupati, finanziati dalla Provincia di Pisa con le risorse del Fondo Sociale Europeo nel quadro del P.O.R. ob. 2 2007-2013. Al termine dei percorsi formativi sarà conseguito l’attestato di frequenza.

Forium Sc. Via del Bosco 264/F 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Tel. 0571 360069 - info@forium.it PO.TE.CO. Scarl Via W. Tobagi, 30 56022 Castelfranco di Sotto (Pi) Tel. 0571 471318 info@polotecnologico .com

Tutti i dettagli sono comunque disponibili su siti www.forium.it e www.polotecnologico.com

PERCORSO DI FORMAZIONE

Commercio e lingue straniere

Tecnico delle fasi di produzione del processo conciario

Modelleria calzaturiera e Cad/Cam

Titolo corso:

Titolo corso:

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PERCORSI DI AGGIORNAMENTO SULLE TEMATICHE DEL COMMERCIO E DELLE LINGUE STRANIERE NELLA FILIERA DELLA PELLE

PERCORSI DI AGGIORNAMENTO PER TECNICI ADDETTI AI BOTTALI ALLA RIFINIZIONE ALLE LAVORAZIONI MECCANICHE E PER LA GESTIONE DELLE SOSTANZE PERICOLOSE REACH E CLP

AGGIORNAMENTO DI MODELLISTI E PROGETTISTI NELL’AMBITO CALZATURIERO E DI ADDETTI ALLA GESTIONE DEI CICLI DI PRODUZIONE DELLA CALZATURA CON APPLICAZIONI CAD E DI GRAFICA BIDIMENSIONALE

Corso gratuito:

Corso gratuito:

Corso gratuito:

Il corso è finanziato con determina Determinazione Dirigenziale n. 5092/2012 della Provincia di Pisa con le risorse del Fondo Sociale

Il corso è finanziato con determina Determinazione Dirigenziale n. 5092/2012 della Provincia di Pisa con le risorse del Fondo Sociale Europeo nel quadro del P.O.R. ob. 2 2007-2013.

Il corso è finanziato con determina Determinazione Dirigenziale n. 5092/2012 della Provincia di Pisa con le risorse del Fondo Sociale Europeo nel quadro del P.O.R. ob. 2 2007-2013

>> DURATA

>> DURATA

>> DURATA

275 ore

269 ore

175 ore

5 percorsi ciascuno di 55 ore

>> PERIODO

- 120 ore per il percorso A. Lavorare in conceria - 120 ore per il percorso B. La rifinizione della pelle - 29 ore per il percorso C. Gestione delle sostanze pericolose: REACH e CLP

A. Modellisti e progettisti di calzature (118 ore) B. Addetti alla gestione dei cicli di produzione della calzatura con applicazione del CAD e di grafica bidimensionale. (57 ore)

Marzo 2013 - Febbraio 2014

>> PERIODO

>> PERIODO

>> FREQUENZA

Marzo 2013 - Aprile 2014

Marzo 2013 - Aprile 2014

La frequenza è obbligatoria

>> FREQUENZA

>> FREQUENZA

La frequenza è obbligatoria

La frequenza è obbligatoria

>> N° UTENTI E REQUISITI D’INGRESSO

è previsto il 30% di ore di assenza

è previsto il 30% di ore di assenza

N. 50 persone (10 x percorso) occupate

>> N° UTENTI E REQUISITI D’INGRESSO

>> N° UTENTI E REQUISITI D’INGRESSO

N. 30 persone (10 x percorso) occupate in aziende con sede in Provincia di Pisa. Imprenditori, dipendenti a tempo indeterminato, determinato, lavoratori atipici, lavoratori in C.I.G., titolari, responsabili produzione, tecnici operativi nella azienda della filiera pelle.

N. 24 persone (12 x percorso) occupate in aziende con sede in Provincia di Pisa. Imprenditori, lavoratori dipendenti, responsabili di produzione, tecnici operativi.

è previsto il 30% di ore di assenza

in aziende con sede in Provincia di Pisa. Imprenditori, dipendenti a tempo indeterminato, determinato, lavoratori atipici, lavoratori in C.I.G., titolari, responsabili produzione, tecnici operativi nella azienda della filiera pelle.


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UNIVERSO MODA

eccellenze Toscane Pitti Immagine Uomo 2013

Leonardo Taddei

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Firenze, come di consuetudine, gennaio rappresenta il mese della moda. Trascorse le festività natalizie e archiviati i festeggiamenti per l’anno nuovo, ci si concentra immediatamente per l’evento più importante del settore: Pitti Immagine Uomo, che in questa edizione, dall’8 all’11 di gennaio, ha celebrato il suo 83° genetliaco. Una manifestazione ultra ottuagenaria che però col passare degli anni non perde affatto in dinamicità, ma anzi incrementa il suo successo abbracciando mercati sempre più vasti. I dati finali indicano un ammontare complessivo di circa 30.000 visitatori e un aumento del 5% dei compratori esteri, provenienti, oltre che da Germania, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca e Norvegia, soprattutto dalle nazioni extra europee, quali Giappone, Turchia, Cina, Russia, Stati

Uniti e Corea del Sud. All’interno del tessuto urbano della città, in luoghi storici e di suggestiva bellezza, si sono alternate magnifiche presentazioni e sfilate di grande spessore, dedicate sia a case di moda già affermate che a stilisti emergenti. Al marchio sportivo Reebok è stato affidato il compito di aprire le danze, l’8 gennaio, presso lo spazio Alcatraz della Stazione Leopolda, in occasione del lancio della nuova calzatura Sneaker Classic Leather PF1999, disegnata in edizione limitata insieme al gruppo dei Planet Funk, che con la loro esibizione live hanno voluto rendere omaggio al 30° anniversario dell’iconica scarpa. Mercoledì 9 gennaio è stata la volta di Ermanno Scervino, che nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio ha presentato sia la nuova collezione uomo che la pre-collezione donna, all’interno del Pitti Special Event di quest’anno. Il 10 gennaio, invece, c’era grande attesa per Kenzo al mercato centrale di San Lorenzo: un autentico mix di freschezza creativa e joie de vivre. La maison è stata scelta come Guest Designer della manifestazione 2013. Nello stesso giorno, sapori d’Oriente anche per il Guest Designer delle collezioni donna, Maison Kitsuné, che ha presentato i propri abiti presso la splendida struttura di Palazzo Capponi, e per l’apprezzata innovazione di White Mountaineering alla stazione Leopolda. Tra le tendenze di quest’anno torna l’aristocratico british dandy style del periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, con tessuti dalle fantasie a quadri, principalmente nelle sfumature del bordeaux e nelle tonalità del verde scuro, mentre nell’abbi-

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gliamento sportivo predominano i capi che combinano tra loro idee e materiali diversi, con una particolare attenzione alla ricerca ed alle innovazioni tecnologiche. Giacche destrutturate e molta maglieria abbinata ad inserti in pelle, con forme slim-fit oppure dagli ampi volumi, ma mai scomode: per il prossimo autunno/inverno i tessuti diventano infatti sempre più leggeri e la predilezione è per capi dalla vestibilità confortevole. Ma Pitti Immagine non è solo passerelle e couture, ma anche moda declinata nella letteratura e nell’arte figurativa. Il 10 gennaio, il Museo Gucci in Piazza della Signoria ha infatti inaugurato, con Early works dell’artista Cindy Sherman, la terza esposizione temporanea di opere d’arte appartenenti alla Collezione François Pinault. Per la letteratura, invece, anche quest’anno è stata rinnovata la partecipazione di Mondadori con il suo Spazio Appointment presso la Fortezza da Basso, mentre RCS era presente con il proprio stand in Piazza della Repubblica. D’altra parte, I libri e la passione per la lettura non è stato soltanto il tema dei saloni di questa edizione di Pitti Immagine, ma anche quello della quarta edizione di Firenze&Fashion, manifestazione culturale organizzata proprio dal gruppo RCS ed alla quale ha collaborato,


mettendo a disposizione le proprie opere, anche Polimoda, che possiede una delle più vaste ed importanti raccolte letterarie del settore. Di RCS fa parte anche Gazzetta dello Sport, che ha dato il suo contributo all’evento creando un capo esclusivo insieme al marchio City Time della società Textura: una giacca sportiva per la collezione primavera estate 2013, presentata il 9 gennaio. Per tutta la durata della manifestazione, inoltre, Polimoda ha organizzato il contest PolimodaTalent, la piattaforma nata per supportare gli ex allievi della scuola e futuri talenti della fashion industry. Tra questi Erik Bjerkesjo, stilista che coniuga l’innovazione scandinava alla tradizione artigianale toscana. Lo svedese ha vinto infatti l’edizione 2012 di Who is on Next? Uomo, concorso organizzato da Altaroma, il consorzio dell’alta moda capitolina, in collaborazione con Pitti Immagine e l’Uomo Vogue, ed ha potuto presentare la sua collezione autunno/inverno 2013/2014 in anteprima internazionale a Villa Favard, in qualità di New Performer. Già in precedenza Andrea Pompilio, anche lui ex allievo Polimoda, aveva vinto l’edizione 2011 del contest ed era stato quindi invitato a Pitti Immagine Uomo 2012 come New Performer, mentre quest’anno ha finalmente potuto portare in passerella la prima attesissima personale con il nuovo marchio, a cui ha dato il suo nome. Il giovane stilista giapponese Yojiro Kake è invece il vincitore del 2013: si è aggiudicato così la possibilità di esporre a Villa Favard le sue nuove creazioni invernali. D’altronde, come ci spiegano il Presidente Ferruccio Ferragamo ed il Direttore dell’Istituto Linda Loppa, Polimoda è un centro di alta formazione, riconosciuto a livello internazionale, ed è in grado di formare tutti i principali profili del settore moda, dal design al marketing, dal management alla comunicazione, mantenendo un costante contatto con il mondo delle imprese. Nato nel 1986 da un’iniziativa ideata e finanziata dai Comuni di Firenze e Prato, in collaborazione con il Fashion Institute of Technology della State University di New York, Polimoda è membro dell’I.F.F.T.I., l’International Foundation of Fashion Technology Institutes, e si avvale di un corpo docenti dall’esperienza pluriennale, composto dai maggiori esperti e professionisti del fashion system per garantire una formazione sempre aggiornata ed in linea

con i continui mutamenti del settore: creare, analizzare, comunicare e studiare moda sono gli obiettivi principali. Le tre sedi, quella nuova di Villa Favard, con le sue sale suggestive e le moderne strumentazioni, il Design Lab in Via Baldovinetti e Le Scuderie di Villa Strozzi, sono strutture prestigiose e storiche in grado di dare un sapore del tutto speciale all’esperienza didattica dei circa 1200 studenti, provenienti da tutto il mondo, che ogni anno possono scegliere la tipologia di corso più adatta alle loro esigenze. Il lavoro d’equipe, peraltro, è una caratteristica che accomuna entrambe le istituzioni toscane, Pitti e Polimoda, appunto, e ciò che permette ogni anno di realizzare manifestazioni internazionali di questa portata è un impegno quotidiano che dura tutto l’anno. Oltre a Pitti Immagine Uomo, infatti, vengono organizzati a Firenze anche Pitti Immagine Donna Pre-Collezioni, Pitti Immagine Bimbo e Pitti Immagine Filati, tutti e tre sia a gennaio che a giugno, l’evento enogastronomico Taste a marzo, Modaprima, la presentazione del fast fashion e della moda a basso costo, a maggio ed a novembre, ed il salone della profumeria Fragranze a settembre. Inoltre, Pitti Immagine è presente a Febbraio ed a Settembre anche alla Fiera di Milano con il progetto Super, dedicato agli accessori ed al prêt-à-porter donna. Un impegno arduo ed assiduo che consente di garantire sempre un ottimo risultato finale, soprattutto quest’anno, come testimonia Raffaello Napoleone, amministratore delegato di Pitti Immagine. «Le collezioni presentate erano tutte molto belle, all’insegna della ricerca e di altissima qualità, e questo vale non solo per i marchi già affermanti, ma anche per tutti i nuovi progetti che hanno debuttato a Firenze in questi giorni. I dati finali sono un segnale indubbiamente soddisfacente per la moda maschile e per il Made in Italy, nonostante la sovrapposizione di date con la fashion week di Londra: l’economia è trainata in questo momento dai mercati stranieri, ed in particolare da quelli extra europei, e per questo una crescita dei compratori esteri è per noi di gran lunga più significativa del calo, peraltro atteso, di quelli italiani, un chiaro riflesso delle difficoltà interne e della grande trasformazione in atto nel sistema della distribuzione». Foto Paola Rita Ledda, Polimoda, Pitti Immagine.

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A TU pER TU

pelle

passione

Giacomo Pelfer

Luca e Andrea Grasso.

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assione e amore sono le chiavi di lettura per un lavoro che ancora conserva il sapore della creatività , della realizzazione di sé, della tradizione di un artigianato che diventa arte. Questo traspare dalle parole di Luca Grasso, 33 anni, il quale ci accompagna all’interno del suo mondo lavorativo, la conceria Tecnologie Mangusta Pellami Srl, in via Meucci a Santa Croce, guidata assieme al fratello Andrea. Una piccola realtà, dal taglio giova-

ne e innovativo, ma che eredita una tradizione lunga quarant’anni. Era il 1973, infatti, quando Elio Grasso, entrato in conceria già a dieci anni, e terminati gli studi di specializzazione conciaria, decideva di tentare l’avventura in proprio: prima la conceria Emilia, poi l’arrivo della Man-

gusta, che diventa una delle aziende più importanti e attrezzate di Santa Croce. Alla fine degli anni Novanta, l’ingresso dei figli Andrea e Luca ha segnato l’ennesima svolta, per un’azienda che oggi rappresenta un’eccezione in un ricambio generazionale che nel distretto sembra scarseggiare. Oltre a Elio, con i figli Andrea e Luca ormai al timone di comando, la Conceria Mangusta ha al suo attivo una squadra composta da sette dipendenti: «Un team di ragazzi – lo definisce Luca – che abbiamo scelto e selezionato nel corso degli anni». Attiva sul mercato, costantemente presente alle più importanti fiere del settore, la Tecnologie Mangusta Pellami srl si caratterizza oggi per la produzione di mezzi vitelli per calzatura e pelletteria e mezzi gropponi per cinture, che rappresentano il punto di eccellenza dell’azienda, «con prodotti particolari e innovativi – spiega Luca – che ormai sono un po’ il nostro biglietto da visita». Un biglietto da visita che da quest’anno conta anche 40 anni di esperienza. Insomma, una bella fetta di storia della conceria. Quanto è cambiato il settore rispetto agli anni del grande boom? «È un altro mondo. La conceria è cambiata completamente, soprattutto a partire dagli anni ’90. Un tempo erano sufficienti 3-4 articoli a stagione, adesso è necessaria un’articolistica molto più ampia e che si arricchisca costantemente, con campioni di tantissimi colori e con la necessità di dedicarsi tutto l’anno alla ricerca di nuovi prodotti. E anche questo talvolta non basta: se non hai una rete commerciale valida non ce la fai a spiccare nel settore. Negli ultimi anni, non a caso, l’importanza

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delle fiere è cresciuta tantissimo». Come mai il ricambio generazionale scarseggia? Semplicemente perché questo non è un lavoro che si impara alla scrivania, e i ragazzi non hanno più interesse a dedicarsi ad esso. Non è vero che a Santa Croce manca il lavoro, manca piuttosto la voglia di imparare un mestiere che necessariamente richiede tempo, fatica, impegno, e anche una certa capacità di sapersi assumere delle responsabilità». Alla Mangusta, però, rappresentate un’eccezione. «Bisogna dire che io e mio fratello in conceria ci siamo praticamente cresciuti. Anche se all’inizio, l’ingresso in azienda non è stato semplice, sono convinto, che se un lavoro ti piace alla fine riesci a raggiungere degli obbiettivi importanti». E cos’ha di speciale questo mestiere? «È un lavoro che ti offre l’opportunità di stare ogni giorno a contatto col settore della moda, che ti fa viaggiare per tutto il mondo, ma soprattutto che da libero sfogo alla propria creatività, creando un prodotto tuo, frutto della passione e dell’impegno. A me questo lavoro affascina , perché non è mai noioso, mai ripetitivo, e non capisco come un ragazzo giovane possa non prenderlo a cuore. È un’attività artigianale, che richiede estro e fantasia. E la creatività, non lo dimentichiamo, è l’unica cosa che ci salva». Si sente sempre ripetere che l’unica strada è quella di investire sulla qualità. Ma nel concreto cosa significa? «Personalmente credo che dovremmo toglierci dalla testa l’idea di essere degli industriali, perché siamo prima di tutto artigiani e dobbiamo investire sulla nostra creatività. San-


ta Croce non può (e non deve) diventare come Arzignano; la nostra forza sta in un tessuto produttivo fatto di tante piccole aziende. È questa, del resto, la dimensione che ci ha permesso di portare il nome di Santa Croce nel mondo. Qualche anno fa, entrai in un calzaturificio cinese e mi chiesero da dove venivo: gli dissi Toscana e non capivano, nominai Santa Croce sull’Arno e sembrava che arrivassi da Hollywood. Ancora, però, non siamo riusciti a valorizzare abbastanza il nostro nome nel mondo». Tanti punti di forza, una creatività invidiabile, eppure il distretto ha vissuto e sta vivendo una fase

complicata. Cosa è mancato? Quali sono i difetti? «È mancata la coesione. Dopo anni di crescita ci siamo illusi di poter andare avanti come avevamo sempre fatto, senza rendersi conto che l’eccessiva concorrenza, la continua lotta al ribasso di prezzo fa soltanto l’interesse del committente, creando un danno a tutto il distretto. In pratica, non abbiamo saputo collaborare. Conciatori e terzisti devono prendersi per mano, perché è proprio in questa dimensione che sta la nostra carta vincente. Una maggiore collaborazione avrebbe permesso anche di affrontare meglio le questioni ambientali e sindacali,

che oggi pesano nel bilancio delle aziende in modo forse eccessivo, con costi fissi che non consentono margini d’investimento». La crisi ha avuto ripercussioni per la vostra azienda? «Solo nei primi mesi del 2009 abbiamo avuto un po’ di difficoltà, dopo di che il lavoro non è mai mancato. Chi ha mantenuto la propria identità di conceria, investendo e creando prodotti sempre nuovi, non è mai stato intaccato gravemente dalla crisi ed è riuscito a superare questo particolare momento, grazie all’impegno, alla dedizione, alla passione e al grande amore per questo lavoro».

Elio Grasso con i figli insieme allo staff dell’azienda.

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ANNIVERSARIO

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anni di creatività

qualità, servizio e innovazione tecnica sulla pelle

Luciano Gianfranceschi

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uando nel 1993 Pasqualino D’Adamo, perito chimico montopolese, lasciò la multinazionale di prodotti chimici in cui lavorava a Santa Croce sull’Arno, per mettersi in proprio fondando la Kemiter, il primo cliente fu il perito chimico fucecchiese Andrea Bonaccorsi, all’epoca titolare di una rifinizione conto terzi. Che racconta: «La primissima tanica di colorante

che uscì dalla Kemiter vent’anni fa, sancì un’amicizia che un anno dopo ci vide soci in affari». E D’Adamo rievoca perché si era messo in proprio. «Il comparto produttivo del Distretto industriale santacrocese stava cambiando, aveva accelerato. Ma le multinazionali restavano lente nell’assecondare le richieste. Occorreva più flessibilità, seguire la moda, intervenire prontamente in caso di problemi, proporre novità. Le multinazionali non erano in grado di seguire il cambiamento, ma valeva la pena di farlo. La mia pri-

ma location fu a Fucecchio, a metà strada per Ponte a Cappiano, poi nel 2004 il trasferimento nella nuova spaziosa sede al macrolotto di Castelfranco di Sotto». In zona ci sono rivenditori per la produzione di coloranti. Ma, alla Kemiter, D’Adamo e Bonaccorsi vanno orgogliosi di essere l’unica azienda che, con piccoli reattori, ha iniziato a produrre coloranti per le concerie in tutt’Italia: oltre che nel Distretto industriale di Santa Croce sull’Arno, anche ad Arzignano e Solofra. Ora richiesti anche in mercati come Cina, India Bangladesh Giappone Sudamerica, e per quanto riguarda l’Europa Spagna e Portogallo. «Sia produzione di coloranti – aggiungono, con soddisfazione – sia altri ausiliari della rifinizione. Che ora abbiamo allargato anche a ricerca di nuovi articoli, e di tendenze moda. Abbiamo sempre proposto qualcosa di nuovo ai clienti, oltre che come fornitori anche da collaboratori. Siamo stati i primi produrre coloranti, e poi anche pigmenti metallizzati». Un doppio percorso che ha lasciato il segno tra i pellami di qualità. Infatti in sala campionaria c’è una distesa di pelli, per la prossima stagione autunno-inverno 2014-15. «Mentre le pelli per Lineapelle di aprile 2013, le abbiamo proposte sei mesi fa, affinché le aziende conciarie nostre clienti avessero tempo e modo di adeguarle ai propri articoli, o di caratterizzarle. Differenza che ormai fa la fortuna delle concerie toscane». Cosa è più richiesta, la moda o l’innovazione tecnologica? «Pellami belli e rifiniti bene, con anche innovazione tecnologica. Le pelli stanno avendo prestazioni ritenute impossibili. Una perfezione che

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va dalle pelli agli articoli finiti, per pelletteria, calzatura, abbigliamento. I clienti finali vogliono il meglio, pertanto cerchiamo di assecondare tutte le fasce del mercato». In questo, continuando quella che è sempre stata la caratteristica del distretto conciario locale: riuscire a valorizzare ciò che per gli altri risultava scarto. Grazie a una lavorazione con prodotti chimici sempre all’avanguardia. E anche la Kemiter s’è inserita in questa linea difficile ma fruttuosa. «Basta dire distretto conciario di Santa Croce sull’Arno, ed è già un’apri porta in tutto il mondo. Il resto poi lo fanno le nuove proposte. E anche per noi, che lavoriamo con le migliori concerie, è importante avere gli input che arrivano dalle aziende. Abbiamo tutti le antenne dritte, noi fornitori e le concerie produttrici. Il legame con questo territorio è indispensabile, per essere sempre innovativi nella ricerca. Al quale aggiungiamo il servizio tecnico ai clienti, anche per consulenza. Dal doppio primato della tecnologia e della ricerca nascono le belle pelli che si producono soltanto qui».


Prima, ieri e oggi La forza lavoro attuale è di 18 persone. Kemiter è stata in Italia la prima azienda a gestione privata a introdurre la produzione e commercializzazione di coloranti liquidi in soluzione acquosa. Successivamente, ha iniziato una propria produzione comprendente una gamma completa di prodotti per la rifinizione delle pelli. Dal 1996 ha consolidato la fisionomia produttiva orientandosi ai mercati mondiali. Nel 2003 l’azienda ha creato la nuova struttura ubicata a Castelfranco di Sotto (Pisa), nella nuova zona industriale Macrolotto: 6 mila metriquadri totali, di cui 3500 coperti, dove è stato ampliato il reparto produttivo fornendolo delle più moderne tecnologie impiantistiche e di controlli automatizzati. L’azienda mette a disposizione della clientela un reparto specifico composto dal laboratorio di ricerca e sviluppo e da quello di applicazione che, lavorando in stretta sinergia, assicurano un’assistenza tecnico-stilistica completa. Si tratta di strutture altamente attrezzate e in grado di riprodurre tecnologicamente tutto il processo di rifinizione, inclusi i test e i controlli di riferimento. Il deposito di materie prime e quello dei prodotti finiti assicurano alla clientela una vasta gamma produttiva, sempre disponibile per evadere tempestivamente qualsiasi richiesta. L’azienda presta molta attenzione alle problematiche ambientali tanto da aver sviluppato una linea di prodotti non tossici a base acquosa. Qualità e servizio sono gli obiettivi primari di Kemiter che vengono perseguiti attraverso controlli rigorosi, che assicurano la costanza del prodotto e un’assistenza al cliente che parte dalla ricerca e proposta di tendenze e colori, fino ad arrivare alla formulazione di prodotti ad hoc. KEMITER via del Faggio, 2 - 56022 Castelfranco di Sotto (Pisa) Tel. 0571 471102 - Fax 0571 489901 info@kemiter.it - www.kemiter.it

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ECONOMIA

trasparenza e correttezza

il nostro obiettivo

chiude il 2012 con un utile netto di 6,2 milioni di euro Marketing CARISMI Alessia D’Anteo

Da sinistra il vice direttore generale Alberto Silvano Piacentini, il presidente Alessandro Bandini e l’amministratore delegato Divo Gronchi (22 marzo, presentazione dei risultati di Bilancio 2012). In alto l’agenzia Carismi in Via Roma a Porcari. In basso l’agenzia Carismi in Via Repaci a Viareggio. In alto destra la sede della Filiale Carismi di prossima apertura in Via Veneto in centro a Lucca.

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n uno scenario senza dubbio complicato sia per le famiglie che per le imprese, in un contesto nazionale ed internazionale caratterizzato da instabilità e tensioni economiche e finanziarie, l’utile netto di 6,2 milioni di euro conseguito dalla Cassa di Risparmio di San Miniato nel 2012 rappresenta un elemento di sicura soddisfazione. La Banca ha attivato un importante processo di rilancio ed efficientamento che la vede sempre più attiva nell’affiancare le famiglie e le impre-

sa controtendenza rispetto a quanto fatto registrare dal sistema bancario (-1,3%), conferma il ruolo fondamentale della Cassa, soprattutto in un periodo economico difficile, nel supportare le imprese e le famiglie del proprio territorio. Dati che parlano della volontà di espandersi in tutte le aree territoriali della Toscana importando quel modo di fare banca tipico della banca locale; quel modo di fare banca che caratterizza l’operato della Cassa di Risparmio di San Miniato da oltre 180 anni. La presenza nella Regione si è ampliata dall’inizio del 2012 con 3 nuove filiali nella provincia di Lucca, una a Porcari e 2 a Viareg-

se della Toscana, nei confronti della quale vuole conquistare il ruolo di banca leader, autonoma ed indipendente al servizio dello sviluppo della Regione. I dati fondamentali mostrano una azienda in espansione sia per numero di clienti (+3.641 ovvero +3,0%) che per masse intermediate (la raccolta totale raggiunge i 5 miliardi di euro facendo segnare un incremento del +7,6% e gli impieghi con clientela salgono a 2,4 miliardi di euro con una crescita del +6,0%). In particolare, la crescita dei crediti erogati (+136 milioni di euro), in deci-

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gio, alle quali a breve si aggiungerà uno sportello nel centro di Lucca in uno dei più prestigiosi palazzi della città. Anche sul fronte della presenza territoriale, quindi, una banca che va controcorrente ricercando una copertura sempre più capillare delle zone toscane. Le politiche attuate vanno nella direzione del consolidamento patrimoniale, del decisivo contenimento dei rischi in un’ottica di assoluto rigore gestionale. I momenti che stiamo vivendo non sono certo facili e per il 2013 si prevedono ulteriori segnali recessivi. Porci di fronte ai nostri clienti con un atteggiamento di cautela, di trasparenza e di grande attenzione alla correttezza gestionale e relazionale, è il nostro obiettivo per confermare la vicinanza di una banca nei confronti della quale la fiducia reciproca deve essere un must irrinunciabile.


A TU PER TU

Lilli Gruber macché striscia... qui corre la notizia!

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rriva la bomba che scoppia e rimbomba, ah ah, si tratta di te! Dai reggiti forte che…” Ricordate? Era la canzone di Dorelli fortemente ritmata che riscosse un buon successo. Adesso a spegnere la miccia ci penso io, in quanto Frau Lilli appare calma e sorridente, anche se in quegli occhietti pieni di grinta sprigiona una energia che rende incandescente ciò che tocca. Magra, ma dotata di ‘belle labbra’, la signora dalla fulva chioma è una buona poliglotta, grazie anche o soprattutto all’educazione ricevuta, per divenir poi cittadina del mondo. Signora, la ricordiamo quando venne a Fucecchio… Sì… qualche annetto fa. Nel luogo natio del grande Montanelli. Ricordo bene questa figura capace di lavorare in autonomia, ma anche con grande passione. Persino Biagi venne a Fucecchio, se non erro per la cittadinanza onoraria: un caro amico, fondamentalmente serio, bravo e onesto; non a caso parliamo di due vere e proprie colonne del giornalismo. Beh… lei ha tutti i numeri per muoversi bene in tale ambiente, tra l’altro è una profonda conoscitrice del Medio Oriente. Vedi, il difetto che abbiamo è che siamo tutti troppo restii, e invece è fondamentale non aver paura di ciò che non conosciamo. Bisogna conoscerci, incontrarci per un buon atteggiamento culturale. Ho scritto e continuo a scrivere libri su questo mondo musulmano che non è mai monolitico: non c’è un solo Islam, come non c’è un solo popolo arabo. Osservo questo metro e sessanta di donna nel suo fisico da mannequin, ricordando la sua espressione di tempo addietro quando, conclu-

sa per libera scelta l’esperienza nel partito, dichiarò d’esser stata una “giornalista prestata alla politica”. Non solo: dimettendosi da eurodeputata, in una intervista del 2008 dichiarò la sua rinuncia allo stipendio di 11.800 euro lordi mensili, con perdita del diritto di pensionamento, in quanto dimessasi prima della fine della legislatura. Però! Chissà se altri… Proseguo. Donne martoriate nel corpo e nella mente. Ad una paladina dei diritti civili dal momento che l’infibulazione è una pratica non ancora sconfitta… Stiamo parlando di un rito barbaro nel quale mi rifiuto assolutissimamente di vedere una tradizione, che purtroppo si attua in troppi paesi. Ma per l’amor del cielo! Sono sciocchezze per non dire peggio! I diritti umani son sempre gli stessi, in ogni epoca storica e in ogni paese del mondo: è la donna che deve decidere che fare del proprio corpo! Si parla tanto… La cara inviata con l’immancabile “pashina” adesso gesticola armoniosamente mostrando mani piccole e curate, senza quegli artigli che ormai siamo abituati a vedere. Ascolta, mi dovevi fare una domanda e vedo che… non voglio essere scortese ma ho fretta. Ok, sarò più veloce della luce. Volevo chiedere dei diritti che sono… che dovrebbero esserci nel giornalismo. Le garanzie di libertà dei giornalisti vanno rispettate; in un paese democratico si fa, e si dovrebbe fare così! E delle donne in campo cosa risponde? Parlo dei campi di guerra, dove il gentil sesso è sempre in aumento, mettendo in conto anche i fatti tragici che purtroppo possono accadere. Sono accaduti e possono accadere

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a tutti… uomini e donne. I rischi ci sono, è inevitabile. Ricordiamo tutti i fatti della Sgrena Eh… ma tu sei tosta! Debbo proprio scappare… Giuliana Sgrena la conosco bene. È una donna che non si è mai accontentata di raccontare le cose dall’albergo e quando si verifica da vicino, chiaramente, i rischi sono maggiori. Lei fu catturata, poi rilasciata, ma… dopo successe il dramma a Calipari. Già, Nicola Calipari. La osservo mentre se ne va, con quei capelli rouge tipici delle donne guerriere, nonché sguardo dritto all’ingiù, quale caratteristica d’occhio intrigante. L’aria adesso è più tiepida, tanto che si respira il sacro fuoco dell’…, ma che arte? Di giornalismo si parla, e di quello tosto assai!

Carla Cavicchini

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PRIMO PIANO

i miracoli e la scienza

L

a scienza può talora essere chiamata a esaminare eventi non spiegabili, in un’epoca nella quale si pretende di poter conoscere e spiegare tutto: non è cosa da poco accettare la finitezza dell’esperienza umana: così ha detto il dottor Sandro De Franciscis, nominato presidente del Bureau des Constatations Medicales di Lourdes, primo medico non francese a ricoprire tale incarico. Il Bureau è un’istituzione creata nel 1883 per registrare, studiare, verificare scientificamente le guarigioni che tutt’oggi vengono dichiarate dai pellegrini al santuario mariano di Lourdes. Esso conserva in archivio le cartelle cliniche di settemila guarigioni ritenute dai medici eccezionali e di queste sessantotto sono state dichiarate un miracolo. Nel 2012 sono andati in pellegrinaggio a Lourdes circa cinquantamila malati, assistiti da duemilacinquecento medici, milleseicento infermieri, trecento farmacisti. Un alto numero di sanitari, quindi sia credenti che non credenti, giunti da ogni parte del mondo. Il Bureau è unico nel suo genere: nel mondo ebraico, musulmano e nelle grandi religioni orientali non esiste niente del genere. Non esiste in nessun altro luogo di pellegrinaggio la presenza di una commissione medica permanente per la verifica di eventi ritenuti miracolosi. Se una persona ritiene di essere stata miracolata, deve rivolgersi al Bureau: il

dottor De Franciscis l’ascolta, la esamina, studia le sue cartelle cliniche per poi portare il caso all’attenzione del collegio medico. L’iter è molto lungo e meticoloso, circa quindici anni: vengono considerati sette criteri: 1. Se della malattia c’era una diagnosi 2. Se la prognosi era sfavorevole 3. Approfondimento della componente psichiatrica e psicologica della malattia suddetta 4. Il fatto che nessuna terapia possa spiegare la guarigione

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5. Che la guarigione sia stata improvvisa 6. Che la guarigione sia completa 7. Che la guarigione sia durevole nel tempo Poi il caso viene sottoposto alla Commissiona Medica Internazionale di Lourdes, che si compone di trenta medici di diversi paesi del mondo. Un membro della commissione viene nominato relatore e ha a disposizione diversi anni per approfondire la questione e poi presentarla di nuovo alla commissione. Se almeno i due terzi dei medici convengono che si tratti di una guarigione inspiegabile, secondo le attuali conoscenze scientifiche, allora la parola passa alla Chiesa. L’ultimo caso di guarigione inspiegata è quello di una suora italiana riconosciuta miracolata l’11 ottobre 2011. Secondo me, che sono stata a Lourdes in pellegrinaggio nel luglio 2011 con l’UNITALSI, è già un miracolo la pace, la serenità, l’allegria che ti riempie il cuore allorché entri nel santuario. Pur in mezzo a tanta sofferenza, un piccolo gesto, una buona parola, un sorriso ripagano del lavoro massacrante i tanti volontari uomini e donne, che accompagnano i malati in questi viaggi della speranza. Un mondo sommerso, ma vivo e vero: vale la pena fare, almeno una volta nella vita, questa esperienza.

Brunella Brotini

foto dal sito ufficiale del Santuario di Lourdes it.lourdes-france.org

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Sport

un’altra maglietta

please

torna a Santa Croce sull’Arno il prestigioso torneo internazionale giovanile di tennis Marco Massetani

Il talento australiano Ashleigh Barty, protagonista dell’edizione 2012. In alto la croata Ana Konjuh, oggi n.1 juniores a livello mondiale.

P

r i ma di raggiungere l’erba di Wimbledon, ho giocato il famoso torneo di Santa Croce sull’Arno. A questo punto, forse, sarebbe necessario cambiare maglietta. Meglio, stamparne un’altra, per dare seguito, tramite una vera e propria collezione primaveraestate, a una delle tante, brillanti idee dell’indimenticato Mauro Sabatini, l’inventore di questa splendida sfilata di campioni del tennis. Prima di raggiungere il Plexicushion di Melbourne, ho giocato il famoso torneo di Santa Croce sull’Arno, ad esempio. Confondere l’erba più celebre del pianeta con il sintetico australiano può anche creare qualche turbamento ai seguaci dei gesti bianchi, ma pur sempre di Grand Slam si tratta, e la realtà attualizzata, che si voglia o no, è questa. Più passa il tempo e più il il Torneo internazionale giovanile under 18 di Santa Croce sull’Arno si diffonde e si afferma nel Mondo, con i suoi partecipanti che nel giro di pochi mesi dall’esibizione al Cerri confermano il proprio valore e il proprio talento sui courts di Wimbledon o di Parigi, di New York o di Melbourne. Nord-Sud-OvestEst, insomma. E non solo a livello juniores. Dunque, un torneo sempre più globalizzante, che è diverso da globalizzato. La riprova l’abbiamo avuta anche l’anno scorso quando a sfilare sull’argilla del Tennis Club Santa Croce

sono state, tra le altre, due autentiche promesse del tennis del futuro, la croata Ana Konjuh, classe 1997, e l’australiana Ashleigh Barty, solo un anno più giovane, non a caso finaliste dell’edizione 2012. La prima, dopo il successo del Cerri, che seguiva il trionfo di Firenze ben più agile e meno probante per la limitata concorrenza, ha inanellato una serie impressionante di vittorie nello World Junior Circuit ITF, vincendo un parigrado in Germania, collezionando due trofei di prestigio negli States quali l’Eddie Herr e l’Orange Bowl, e poi alzando al cielo l’Australian Open 2013 di Melbourne, risultato che le è valso l’attuale primo posto tra le juniores mondiali. Ancora più impressionante per esplosività giovanile l’australiana Ashleigh Barty, fino a pochi mesi fa seguita come junior dal preparatore atletico pisano Stefano Barsacchi, ora in forza alla Federazione australiana. La Barty, che dopo Santa Croce non ha più messo piede nel circuito under 18, mentre scriviamo siede sul 177° gradino della classifica professionistica WTA, dove in meno di due anni ha scalato circa 500 posizioni. Ma non solo. Il talento unico del momento, che gli appassionati del tennis toscano hanno avuto il privilegio di vedere all’opera solo a Santa Croce sull’Arno, vanta già (non ancora diciasettenne) due vittorie in tornei da $25.000 e $50.000, un exploit in Hopman Cup

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sulla nostra Francesca Schiavone, pur sempre una vincitrice di Slam, e la finale nel doppio pro agli Australian Open in coppia con la connazionale Casey Dellacqua. Non male. Tutti dati che confermano l’assoluto livello tecnico, la forza catalizzatrice del torneo internazionale giovanile “Città di Santa Croce sull’Arno” Mauro Sabatini, uno dei pochi tornei juniores al Mondo che non ha perso lo smalto delle prime stagioni e non sembra soffrire di quella crisi “tecnica” che tante altre competizioni giovanili attraversano, complici le nuove precocità dei talenti della racchetta. La prossima edizione sponsorizzata Banca Mediolanum, Tuscania, Sammontana, MibPell, Conceria Caravaggio sarà di scena dal 13 al 18 maggio (oltre che a Santa Croce si giocherà anche a Villanova Empoli e Pontedera), e si ripresenta come un appuntamento imperdibile per quanti amano il tennis giovanile e per tutti quelli che si divertono ancora a scoprire il campione del domani. Un gioco che a Santa Croce sta diventando sempre più facile. Vista l’abbondanza.


SPORT

ciclismo ritorno al

Pitti Shoes con gli juniores del New Project Team

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esta del ciclismo, con tanti sportivi nonostante il tempo non fosse primaverile, la corsa a Torre di Fucecchio in cui si sono stati protagonisti anche gli juniores del New Project Team A.S.D. Mancava da anni una squadra locale, soprattutto a livello dello sponsor Pitti Shoes, tornato protagonista sulle maglie, come già negli anni Settanta, quando l’attuale team manager Massimiliano Mori, proprio con la maglia di Giampiero Ferri & C., vinse il titolo iridato di campione del mondo. «La passione per il ciclismo è nel dna fucecchiese, come nelle persone che mi hanno affiancato rinverdendo il mio attaccamento a questo sport, in primis Alessandro Testai, attuale presidente. Ma ho visto volentieri anche i miei figli assistere alla partenza», racconta Ferri. Hanno creduto nel progetto anche altri partner, quali VAR group soluzioni informatiche, Guidoni parchi e giardini, Tenax, Grafiche ILCA, Global System, conceria Zabri, Streda costruzioni meccaniche, Beta autotrasporti, C.S.I. srl, TRE ZETA group srl, Antares lavorazione pelli, Vi.FRA, Salice Occhiali, Cicli Franceschi srl, BMC, ErgomotionCenter di Fulvio Valentini. Per essere un team all’esordio, è piaciuto come Giampiero Fer-

ri ha incontrato la squadra: ognuno con la divisa sociale, le biciclette tutte nuove. L’immagine di un’organizzazione. Analoga considerazione l’aveva espressa il sindaco Claudio Toni alla presentazione ufficiale, svoltasi nell’Auditorium La Tinaia, presso il Parco Corsini, alla presenza del ct Rino Di Candido, che terrà d’occhio i giovani che indossano la maglia giallo e rossa. La benedizione è stata impar-

vato campioni. Ora puntano su l’ex campione toscano allievi Marco Ciacchini, il figlio d’arte Linas Rumsas (suo padre è l’ex prof. Raimondas), il debuttante plurivittorioso Massimiliano Susini, l’esordiente Dario Bellini, e tre promettenti: Dario Puccioni, Armando Giomi e Matteo Degli Innocenti Il consiglio direttivo è completato dai consiglieri Raffaele Ruggiero e Primo Mori. Soci: Rino Testai, Simone

tita da monsignor Andrea Cristiani. Alla fine un aperitivo a tutti, per un cin-cin benaugurale. La squadra è guidata dal tandem tecnico Primo Mori e Renzo Martelloni, che in categoria Juniores hanno alle-

Testai, e Luca Pertici. Lo staff tecnico è composto da Renzo Martelloni, e Luca Franceschi. Meccanico, Cicli Franceschi. Medico, dottor Roberto Rempi. Accompagnatori: Rino e Simone Testai.

Gianluc

NEW PROJECT TEAM A.S.D. via dello Spedalino 4 50054 Fucecchio Tel. e fax 0571 122928 www.newprojectteamasd.it newprojectteamasd@gmail.com

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Stop!

alle zanzare e agli inSetti!

ImpIantI antIzanzare a nebulIzzazIone per aree commercIalI, rIcettIve e resIdenzIalI Le zanzare possono rappresentare un grave problema durante la stagione estiva per chi gestisce attività all’aperto o per i proprietari di giardini e grandi spazi verdi frequentati da persone. La risposta è l’impianto antizanzare MistAway Il sistema a nebulizzazione Gen III, è facile da installare, sicuro ed economico, può essere posizionato ovunque e necessita solo di una presa elettrica e di un attacco alla rete idrica. Durante il giorno eroga un insetticida sicuro, di alta qualità e rispettoso dell’ambiente, che colpendo il sistema nervoso degli insetti, libera l’area dalle zanzare principalmente uccidendole e non agendo da repellente. Una volta installato il sistema è in grado di funzionare in modo autonomo. Il principio attivo Il principio attivo dell’insetticida usato dal sistema Insectec deriva dal crisantemo. Il principio è autorizzato dal Ministero della Sanità, nei modi e tempi consigliati. Il quantitativo di zanzaricida miscelato è talmente blando e leggero che non ci sono controindicazioni per persone, e animali domestici. L’assenza di solventi lo rende atossico e non irritante. I prodotti sono specifici per essere erogati a contatto con la vegetazione. In Giardino snc è dealer ufficiale degli impianti antizanzare a nebulizzazione Insectec. Per un preventivo gratuito e non impegnativo o per avere maggiori informazioni chiamateci o visitate oggi il nostro sito web:

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SPORT

calcio Lega Calcio Pro

rosa

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nche il calcio si colora sempre più di rosa. È il caso della Lega Pro, la Lega 
Calcio Professionistico o ex Serie C, che in squadra può contare su tante donne. Sono, infatti, oltre 150 le quote rosa, con una buona percentuale di Under 40, tra presidenti di club con Alena Seredova (Carrarese), Paola Cavicchi (Latina), Tiziana Tonello (Castiglione), segretari, addette stampa, addette alla sicurezza, responsabili marketing e amministrazione. Rappresentano tutta l’Italia. E molte sono toscane, come la “new entry”, il direttore sportivo del Pontedera, squadra che milita in Seconda Divisione. È Giulia Tanini, che non è nuova al mondo del pallone. Si è, infatti, avvicinata al calcio nel 2005. Classe ’75, originaria di un piccolo paese in provincia di Pisa, Santo Pietro Belvedere, confessa: «Mi sono avvicinata al mondo del calcio per caso, ma poi il pallone è diventato la mia passione. Aver raggiunto la qualifica di direttore sportivo è per me un tra-

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Mancava da dieci anni, dall’esperienza professionale con la società viola, ed è rientrata nel mondo del pallone. «È un settore affascinante, coinvolgente, che ti assorbe - dichiara Gaia Simonetti - e se siamo pronti a viverlo come una sfida, con i suoi lati positivi (tanti per fortuna), ma anche i momenti difficili, di responsabilità e di decisioni anche immediate, allora guardo importante, ma sono ancora all’inizio di questo percorso». C’è anche il team delle addette stampa che fanno squadra non solo in ufficio, ma anche in campo. Mettendosi in gioco con umiltà e con uno scopo benefico. È nato con questo intento il progetto delle responsabili della comunicazione dei club di Lega Pro, che hanno dato vita a una squadra, non tecnica, ma impegnata sul campo per la solidarietà. La rosa è composta da: Iris Travaglione (Benevento), Letizia Lavorini (Borgo a Buggiano), Chiara Balloni (Gavorrano), Elisa Neri (Gubbio) e Federica Monarchi (Gubbio), Carla Polverino (Paganese), Rosanna Fella (Perugia), Donata Zaghis (Portogruaro), Silvia Stillitano (Aurora Pro Patria), Laura Casetta (San Marino), Veronica Bon (Venezia), Elena Francesconi (Viareggio), Vanessa Paola (Vigor Lamezia). Al loro fianco lo “staff tecnico”, composto da Gaia Simonetti (Responsabile Comunicazione Lega Pro) con un passato di addetto stampa alla Fiorentina Calcio e Nadia Giannetti (Area Comunicazione Lega Pro). Sessantotto anni in due. Gaia Simonetti, dopo varie esperienze con il Coni di Firenze, Confindustria Toscana, nelle tv regionali toscane e nel gruppo Starhotels, è tornata nel calcio.

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la prova è superata. Merita scendere in campo». E il marito ne è meno felice. «In casa ci sono due televisioni - racconta Gaia - una accesa sui film di azione, l’altra sulle partite di calcio». Sareste pronti a scommettere che la tv con il canale sul calcio è del marito? È, invece, quella della moglie. Quanto sono lontani i tempi in cui Rita Pavone cantava «perché, perchè, la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita di pallone…».

Ada Neri

In alto le addette stampa della Lega Pro in allenamento al Centro Tecnico di Coverciano. A sinistra Gaia Simonetti, responsabile comunicazione e Nadia Giannetti, area comunicazione Lega Pro (foto Mezzelani).


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TENDENZE

mode di moda

pillole sulle tendenze 2013

Eleonora Garufi

Cari amici, come Reality ha cambiato la sua veste anche noi abbiamo deciso di cambiare il modo di scrivere la moda! Da oggi vi regaleremo chicche, curiosità, approfondimenti e pillole di novità per cercare, come sempre, di distinguerci e di evolverci, perché, diciamoci la verità... questo è moda... questo è Reality!

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ODA FACEBOOK

Sapete qual è il rompicapo che attanaglia milioni di facebookiani? Si chiama Ruzzle. Il nuovo gioco a spassatempo, scaricabile come applicazione da tutti gli sma rtphone, tablet e iphone e collegato al famoso social network, è diventato il tormentone dei momenti morti. Con un inconfondibile scampannelio, sfiderete i vostri amici a trovare più parole possibili in un quadrato di lettere da unire. Se sentite quell’inconfondibile suonino, nella sala di attesa del dentista, in fila alla cassa, o sul treno, non vi sbagliate, è qualcuno che sta “Ruzzellando”!

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ODA BAMBINI

Ecco l’ultima novità di Chicco per i nostri gnometti. LullaGo è la nuovissima culla ideata dal brand per rendere ancora più confortevole il sonno dei piccini e più pratica la vita dei ge-

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nitori. La culla è leggera, smontabile e pieghevole, ideale in casa e per viaggi verso nuovi luoghi da esplorare. L’estrema facilità di chiusura in soli tre movimenti permette alle mamme e ai papà di portarla ovunque grazie anche ai preziosi accessori in dotazione: la borsa per il trasporto supercompatta ed il comodo materasso ripiegabile. www.chicco.com

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ODA CAPELLI

Avete notato che molte ragazze, donne e adolescenti in pieno inverno hanno i capelli così chiari sulle punte che sembra, abbronzatura a parte, siano appena tornate dal sole bruciante dei Caraibi? Bene, in relatà sono andate tutte dal parrucchiere per farsi fare lo Shatush. Una schiaritura del capello che sembra naturale come quella del sole. La ricrescita scura di due dita non fa più effetto... sembriamo tutte tornate da una bella vacanza al mare!


SIMBOLI

Tacco

storia e follie di un simbolo

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ccoci qui a parlare di quello che per molte donne è qualcosa di indispensabile e per altre è una vera tortura. La scarpa col tacco emblema di seduzione, di femminilità ha una storia lunghissima alle spalle forse non conosciuta dalle tante donne, che sin da bambine, hanno sognato la scarpette di cristallo di Cenerentola. L’origine storica di questo mito al femminile sembra non essere estetica ma piuttosto pratica. Greci, Romani ed Egizi, usavano scarpe “zeppate” per non sporcarsi i piedi nei lavori di tutti i giorni. La data più probabile che vede diventare il tacco una calzatura femminile sembra essere il 1553 quando Caterina de’ Medici scelse una scarpa con rialzo per il suo matrimonio a Parigi con il Duca di Orléans. Arrivati all’epoca francese dell’ancièn regime, il tacco simboleggia ricchezza, potere, prestigio e autorità. È infatti indossato da uomini potenti che, come Luigi XIV, si fanno confezionare scarpe decorate con tacco su misura.

In Italia il tacco arriverà come moda delle nobiltà intorno al XVI secolo e da quel momento, la scarpa del desiderio diventa passione delle donne, ma anche degli uomini, di tutte le classi in tutti gli ambienti. Il mondo della moda non potrebbe esistere senza. Quale donna dopo aver visto Sex and the City non ha gridato al mondo «Voglio un paio di Jimmy Choo?». Per non parlare delle famosissime Manolo Blahnik, a cui va il merito

di aver riportato in voga il potente tacco rosso ostentato proprio dal nostro Re Luigi! Le star del cinema, dello spettacolo e della televisione lo ostentano come feticcio di tendenza da adattare ad ogni circostanza ed evento, facendo l’invidia di noi donne comuni mortali! Perchè sia chiaro: il tacco di marca costa! Insomma una semplice scarpa, se dotata di un tacco, sia esso squadrato, a spillo, da 4 o da 12 centimetri, racchiude in sé un simbolo. Connota lo stile, l’intento, la vita di una donna. Un tacco può essere elegante, può essere aggressivo, può essere austero o sfacciato. Quel che è certo è che il tacco è moda, ed è donna!

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Eleonora Garufi

Nel testo Luigi XIV, Re Sole con i talons rouges, i tacchi alti dipinti in rosso. Scarpa di Jimmy Choo foto ufficio stampa Jimmy Choo. In alto Lipstick Heel di Alberto Guardiani. A fianco Flutterby di Alberto Guardiani. Blond Ambition Coffee? Slide Miao di Kobi Levi.

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Amici dell’uomo

maremmano

segugio

un tuffo nella tradizione delle campagne della maremma Federica Farini

In alto Nabucco segugio maremmano pelo forte. In basso Pippi segugio maremmano fulvo.

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rutto della Toscana più genuina e verace, il segugio originario del cuore di Maremma presenta una storia ricca di significati e tradizione. Questa peculiare razza canina, non così famosa come il suo parente pastore maremmano, fu selezionata a partire dalla fine del 1800 non tanto in base a specificità morfologiche desiderate, quanto alla sua predisposizione per la caccia, in particolare per la seguita e il fermo del cinghiale. L’ENCI riconosce ufficialmente la razza

del segugio maremmano nel 2003. Di taglia media e occhi scuri nella loro intensa espressività, il suo mantello può essere di colore nero-focato, fulvo oppure tigrato (meno diffuso), con pelo liscio oppure ruvido. La coda è corta o assente dalla nascita: lo standard ne consente il taglio a metà della sua lunghezza. Di temperamento rustico, schietto, socievole e fedele, la sua non è una bellezza elegante e nobile, quanto più combattente e terra-terra, capace di stimolare immediata simpatia ed empatia. Il suo affetto è spontaneo, docile, in particolare verso chi lo

nutre ma soprattutto verso chi lo conduce a caccia, sua grande vocazione. Il proverbiale coraggio del segugio maremmano lo rendeva, fin dall’inizio della sua storia, particolarmente temerario anche di fronte a specie selvatiche e pericolose, contro le quali l’audace segugio cominciava ad abbaiare insistentemente senza sosta. Due secoli fa le famiglie toscane povere ma più fortunate potevano contare su questo cane abile e utile per l’ausilio nella caccia alla selvaggina, alla lepre o al cinghiale, spesso risolvendo il loro problema della tavola vuota. Questa razza si distingue ancora oggi anche nella caccia alla lepre, grazie all’ottimo olfatto che affina il suo naso sul terreno, percependo dove la lepre è stata in pastura, anche se non tutti i segugi sono idonei: solo i soggetti particolarmente tranquilli e calmi sono in grado di rimanere sulla pastura concentrati sui dettagli e quindi avere successo in questa attività. Negli anni Cinquanta del 1900, con il boom economico, anche le famiglie modeste riuscirono a cominciare a viaggiare, dando modo al segugio maremmano di venire conosciuto e apprezzato. Le sue migliori qualità vengono lodate dai cacciatori, attenti osservatori del loro fido compagno di avventure: la cerca, l’accostamento, l’abbaio a fermo, la seguita, spesso in contesti boschivi di macchia mediterranea fitta e impenetrabile, habitat prediletto dal cinghiale, che ivi si ripara per partorire e difendersi. Il segugio approfitta del segnale del vento per mettersi alla ricerca della sua preda: se da Nord fresco nei mesi temperati e caldo-secco in quelli estivi, se da Sud, specie per i boschi vicini al mare, il vento aiuta il segugio trasportando particelle saline in grado di imprigionare maggiormente l’usta.

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Il segugio maremmano sa accostarsi alla preda con destrezza, emettendo un segnale vocale che traduce l’avvio dell’azione, non demordendo né in presenza di consistenti gruppi, né di cinghiali particolarmente aggressivi. Nel fermo questa razza manifesta la sua intelligenza nel continuo abbaiare con decisione e temerarietà, tenendo testa con la sua grinta, costanza e caparbietà, talvolta anche per svariate ore, nell’attesa di un aiuto esterno, sia da parte del suo conduttore come di uno o più compagni di caccia. Particolare è il timbro della sua voce: non troppo profondo (toni bassi) ma neppure ululante, a favore di un tono secco, deciso e squillante, che spesso sa mettere in fuga il cinghiale per poi rincorrerlo e stancarlo nella stessa modalità. Per un cane così libero e abituato a considerare i boschi come la sua casa, la migliore collocazione per un inserimento adeguato e felice di questa razza sarebbe senza dubbio un ambiente domestico dotato di una cuccia all’esterno dell’abitazione, dove potrà costantemente annusare l’aria per coglierne stimoli, odori e


suoni. Tuttavia, la sua vita all’interno di un appartamento potrebbe essere compensata attraverso percorsi di Agility Dog, perfetti per sfogare la necessità di muovimento tipici della razza e ideali per rafforzare il rapporto con il padrone, non necessariamente cacciatore, nell’educazione al comando. Per quanto concerne la salute, il padrone del segugio maremmano dovrà prestare attenzione ad acari e zecche, che spesso si attaccano tanto più quanto più a lungo l’animale è abituato a frequentare luoghi selvatici all’aria aperta, e per la stessa ragione andrà anche sorvegliato il suo mantello per non incorrere in piccole escoriazioni, con riguardo anche per la pulizia degli occhi e della cannula nasale. È la biblioteca de La Vigna che raccoglie le storie dei segugi della

Pisa, dal 1600 al 1930, nel poemetto di Conte di villa Pisa, Gianbattista Orazio Porto: «… quella squadra di segugi, generosi, magnanimi, era ben educata, era fedele e onorava il vero, non abbaiava invano, non mentiva, non confondeva l’orme con altre orme, scovata perseguiva sempre quella, la rimetteva e di nuovo l’inseguiva,non le permetteva riposo, sempre addosso fino all’affanno… Ma sopra tutti ve ne era una, così volante e snella, per senno, ingegnosa e scaltra, e per onorare tutti i segugi, a vivaci colori in tela venne dipinta. Io la vidi e la conobbi, e il vero dipinto vidi. Amorosa era il suo nome, alto e sottile stendeva il suo piede, veloce e alato, di stirpe era segugia, al passo era levriera». Segugio maremmano, sinonimo di carattere e coraggio, come traman-

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dato dalla storia dei nostri Partigiani della zona del Cornia: nel 1945 l’esercito americano si trovava a sopravvivere perlustrando la zona nei boschi affacciati su Montebamboli; a capo il tenente Tom Dudley, che riuscì anche grazie all’aiuto del cane Tommi, trovato dopo l’attraversamento del fiume Ombrone, segugio maremmano che permise agli americani di restare in vita grazie alla sua capacità di scovare cinghiali, prezioso sostentamento. L’esercito fu costretto ad abbandonare Tommi a causa della guerra. Ma la sua fotografia giunse con altre nel 1963 dalla città di Williamsburg in Virginia direttamente all’Associazione dei Partigiani, onorando la fedeltà e la dignità legate ad una razza canina straordinaria come quella del segugio maremmano.

In alto Tobia seguio maremmano tigrato. Foto concesse da Allevamento Amatoriale del Segugio Maremmano Formigine (MO) www.gigipaone.it


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Grafologia

vittime e carnefici per la giornata della memoria Maria Laura Ferrari

La Seduzione del Male La cosa peggiore non è che Hitler fosse un Mostro, ma che fosse un Uomo. Il Male fa parte dell’Uomo: non possiamo espellerlo parlando di Mostri. Joachim Fest

Firma di Primo Levi da anziano

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l 29 gennaio, in occasione della giornata della memoria sono andata a recuperare dall’archivio del fotografo Giovanni Canale la firma in originale di un ormai anziano Primo Levi e a rispolverare la sua biografia. Lo scrittore, nato nel 1919 a Torino, è un eccellente studente, uno dei migliori, grazie alla sua mente lucida ed estremamente razionale. A questo si aggiunga, come poi dimostreranno i suoi libri, una fantasia fervida e una grande capacità immaginativa, tutte doti che gli permettono di brillare sia nella materie scientifiche che letterarie. È comunque già evidente in Levi la predilezione per la chimica e la biologia, le materie del suo futuro professionale. Deportato nel 1943 ad Auschwitz racconterà questa esperienza con dovizia di particolari, ma anche con un grandissimo senso di umanità e di altezza morale, nonché di piena dignità, nel romanzo-testimonianza, Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947, imperituro documento delle violenze naziste, scritto da un

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uomo di limpida e cristallina personalità. Primo Levi morirà suicida l’11 aprile 1987, probabilmente lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si ingenera negli ebrei scampati all’Olocausto: di essere cioè “colpevoli” di essere sopravvissuti. Firma: Vorrei sottolineare l’estrema elasticità e flessibilità del tratto, nonostante si tratti di una firma di un Levi già avanti negli anni. La grafologa tedesca Rhoda Wieser, esperta di criminologia del Tribunale di Vienna, che per decenni osservò le scritture di delinquenti e deviati, giunse alla conclusione che tutte queste scritture mancavano di “Grundrhytmus”, cioè ritmo fondamentale, ritmo di base, vale a dire “ritmo di profondità dell’essere”. Tale ritmo segnala la presenza nella personalità di un principio d’amore superiore”, quello che i greci chiamavano agapé. Questo aspetto è invece fortemente presente e caratterizzante la firma di Primo Levi. I tratti sono agili ma fermi, pulsanti e variati ma saldi; sono tracciati con duttilità e flessibilità, danno l’impressione di saper resistere all’urto di qualsiasi flessione e contorcimento, senza mai spezzarsi, accompagnando ogni movimento senza mai deformarsi. Un tratto così costituito in elasticità è la testimonianza più sicura, secondo gli insegnamenti della Wieser della ricchezza spirituale dell’essere e del suo valore interiore. È un tratto talmente significante che riscatta, dal punto di vista del valore umano, qualsiasi tipo di scrittura.


Vediamo invece le scritture di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler, organizzatore delle SS e criminale nazista. Nelle firme e nella scrittura si riflette sadismo e crudeltà per via della rigidità estrema della scrittura, la pressione infangata e gli angoli violenti e la totale assenza di ritmo di base appunto.

Firma di Adolf Hitler, 1933

Firma di Adolf Hitler, 1940

Firma di Heinrich Himmler gerarca nazista, firma a 50 anni

Nella stessa direzione portano gli studi del tedesco Rudolf Pophal, (1893-1966), medico, neurologo e grafologo che cercò di ricondurre i gesti grafici ai principi della fisiologia del movimento e collegare la tensione del gesto con la pressione espressa nel tracciato. Secondo Pophal il gesto rigido avviene quando il movimento è sovraccaricata da una stimolazione di contrazione dei muscoli antagonisti. Nella scala dai lui creata al GRADO IV A (distensione insufficiente) colloca le scritture – di cui sono un esempio quelle di Hitler ed Himmler - che si presentano regolari, tese, con ritmo scandito, cadenzato, qualche volta stilizzate rigidamente, artificiali, spesso picco-

le o molto piccole, magre, ad arco e angolo, con tratto poco elastico, piuttosto nitide e con forme poco flessibili. La persona che scrive in questo modo si sente in un mondo ostile e trova difficoltà ad uscire da sé. Manca la sicurezza in se stessa, ma tende a difendere la propria opinione con una certa asprezza e con una scarsa comprensione per quella altrui, volendo dirigere e affermare la propria volontà di potere. Il punto di forza è la capacità di difesa. Manifesta durezza e mancanza di elasticità psichica, nessuna spontaneità; è convenzionale. Anche se è alto il senso di responsabilità e coraggio, ha bisogno di stabilire relazioni per affermare il proprio potere.

Errata Corrige Nell’articolo di grafologia apparso nel n.66 a p. 69 Tre re alla porta erroneamente è stata inserita l’illustrazione della firma di Paolo Bonolis al posto di quella di Walter Zenga. Maria Laura Ferrari Grafologo giudiziario del Tribunale di Lucca Scuola Ce. S.Graf. Centro Studi Grafologici www.marialauraferrari.com maria.laura.ferrari@tiscali.it

Firma di Walter Zenga

Con l’occasione si ringrazia il fotografo Giovanni Canale per averle fornito gli autografi in originale di Zoff e Buffon.

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Rudolf Pophal


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pIACERI

Schiavi pirati e lord Rum distillato della melassa di canna da zucchero Margherita Casazza

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ono stati proprio gli schiavi, che lavoravano nelle piantagioni di zucchero delle colonie caraibiche, i primi bevitori di questo distillato; altrettanto vero è che pirati, marinai e bucanieri, oltre a consumarne in grandi quantità, hanno contribuito alla sua diffusione in tutto il mondo. Il suo nome e la sua storia si intrecciano alla canna da zucchero, il cui nome scientifico è “saccharum officina rum”. Il distillato viene ricavato dalla melassa che non è nient’altro che lo scarto della lavorazione della canna da zucchero. Molte sono le storie legate al suo nome. Si narra che nel 1655 l’ammiraglio Penn, della marina britannica lo distribuiva ai suoi marinai; più tardi nel 1731 la Royal Navy adottò una razione di mezza

pinta di rum per ogni marinaio, rimanendo un punto fermo per la flotta inglese fino al 1969. A partire dalla fine del Settecento si sviluppò un forte commercio di esportazione dai Caraibi all’America del Nord e in Europa e iniziò così anche sulla terra ferma il suo consumo; oggi il rum è un distillato internazionale e molto alla moda, grazie anche al turismo e al suo utilizzo per creare cocktail a base di frutta e long drink. Anche se per la sua, ottimale degustazione andrebbe servito a una temperatura tra i 12° e 14° in balloon di cristallo o in bicchierini da cherry. Il modo migliore per assaporare le sue qualità organolettiche, e l’aroma è liscio. Magari davanti a un caminetto con un bel sigaro. I paesi caraibici in cui si producono i miglio-

ri distillati sono Barbados e Martinica; Barbancourt di Haiti è il rum più conosciuto poiché è stato il primo disponibile sui mercati europei. Alle Barbados si trova la più antica distilleria di rum esistente al mondo, la Mount Gay. Risale al 1663 ed è ancora attiva. Oggi coloro che visitano l’isola hanno l’opportunità di gustare l’aroma del rum di Barbados in tutta la sua pienezza e di osservare il processo di distillazione, partecipando a uno dei tour quotidiani che partono sia dal centro visitatori del Mount Gay Rum, sia da quello del Malibu Rum, che si trovano nel distretto di St. Michael. Il rum ha sempre avuto un ruolo da protagonista nel folklore, nei racconti popolari, nelle storie della vita dei marinai e oggi viene celebrato in tutto il mondo dalla Mount Gay che sponsorizza oltre 120 regate all’anno, tra le quali la “Mount Gay Boatyard Regatta”, che si tiene a maggio sull’isola di Barbados.


Raccolta nelle piantagioni di canna da zucchero. Canna da zucchero.

Lo sapevate che...

· L’ammiraglio inglese H. Nelson, eroe della battaglia di Trafalgar e grande intenditore di rum, quando morì nel 1805, venne immerso nel distillato per essere conservato integro fino al ritorno in patria. · Rhum Boulevard non è il nome di una strada ma quello della fascia di mare al di là delle tre miglia che delimitavano il confine delle acque territoriali degli Stati Uniti a sud della Florida, nel periodo del Proibizionismo, su quella rotta incrociavano tutte le notti molte barche a motore di ogni genere e stazza, che portavano i bevitori statunitensi a La Havana. La capitale cubana si trasformò nel centro mondano delle celebrità, frequentata da scrittori, pittori, politici e attori. · La pianta della canna da zucchero non è originaria dell’America, bensì della Cina dove veniva coltivata già duemila anni a.C., la sua coltivazione fu introdotta in Medio Oriente da Alessandro Magno, in seguito Cristoforo Colombo la esportò nei Caraibi dove il clima si rivelò ottimale per la sua coltivazione.

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Invecchiamento del Rum in botti di legno di quercia americano. Baia dei Caraibi.


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GOURMET

Antico Ristoro

Le Colombaie I profumi e i sapori delle terre di San Miniato Claudio Mollo

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uando si ha voglia di assaggiare un po’ di cucina Toscana, un po’ di territorio, quando si vuole la certezza che quello che si assaggia è “strettamente legato” al territorio, l’Antico Ristoro Le Colombaie diventa una garanzia indiscutibile. Daniele Fagiolini (nella foto), chef e proprietario, pone quotidianamente nella ricerca delle cose buone, un impegno incredibile e nel suo ristorante si possono trovare molti prodotti provenienti dai dintorni di San Miniato e del resto della provincia pisana. Naturalmente non mancano prodotti provenienti anche da altre parti della Toscana e d’Italia, sempre d’eccellenza. Ma il territorio è l’indiscusso protagonista nei menù di Daniele. Volutamente a base di carne, legumi e verdure, la sua cucina è un piacevole ritrovo di sapori schietti, di stagioni che si alternano con fantasia, di nuove proposte, sempre interessanti. Parlare di San Miniato “a tavola” è parlare soprattutto di tartufo, pregiato tubero spesso presente nel menù del ristorante. Bianco, marzuolo o nero, il valore aggiunto che riesce a dare a dei semplici tagliolini al burro è innegabile. Ottimo anche in più ardite interpretazioni a base di carni e altro, sempre molto interessanti, sempre molto intriganti. In zona il tartufo

si trova anche durante altri periodi dell’anno, e anche se il prodotto non si presenta proprio al massimo delle sue proprietà, come quello che nel mese di novembre invade tutto il circondario sanminiatese, a Daniele, nei suoi piatti piace far assaggiare anche questi fuori stagione; più delicati sì, ma anche più abbordabili in quanto a prezzo. Grande attenzione anche nella scelta delle carni, provenienti da allevamenti vicini, super controllati e garantiti per quanto riguarda l’alimentazione e la macellazione. E poi, pasta artigianale, salumi d’autore, extravergini provenienti da diversi cultivar; insomma, un percorso culinario gestito con molta professionalità e rafforzato anche dall’appartenenza di Daniele a noti concetti Slow sulla produzione e gestione delle migliori produzioni agroalimentari nazionali. Anche la scelta dei vini non manca perché San Miniato è anche terra di vini, rossi e bianchi e in carta si possono trovare etichette locali molto interessanti, affiancate da tante altre dell’intera provincia pisana, molte delle quali di fama nazionale. Vini che si abbinano molto bene ai piatti che escono dalla cucina, dove la carne e

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i salumi sono i maggiori protagonisti. Il locale, disposto su due piani, è arredato con gusto: colori caldi e punti luce studiati ad arte che danno vita ad ambienti accoglienti e intimi. Ricavato da un casolare in stile rustico, è situato in aperta campagna, proprio ai piedi di San Miniato, circondato da un ampio e pratico giardino che fa da cornice alla struttura e che, nella buona stagione, amplifica le capacità di accoglienza del ristorante, mettendo a disposizione degli ospiti uno spazio esterno attrezzato che rende ancora più piacevole la sosta all’Antico Ristoro, con San Miniato, sullo sfondo, a testimoniare ancora di più l’appartenenza, di quel che si sta mangiando, a una zona ben definita, della bella Toscana.


A n t i c o R i s t o ro L e C o l o m b a i e - V i a G i u s e p p e M o n t a n e l l i , 5 - 5 6 0 2 8 L o c . C a t e n a - S a n M i n i a t o ( P I ) - Te l . 0 5 7 1 4 8 4 2 2 0


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Alimentazione

segre ti

Paola Baggiani

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a t s a p della

a Pasta, eccellenza gastronomica del made in Italy, è l’alimento principale della cucina italiana e della Dieta mediterranea. L’Italia è il primo paese produttore di pasta al mondo con ben 3.350.000 tonnellate, seguita a debita distanza dagli Stati Uniti, dal Brasile, dalla Russia. Anche per il consumo il nostro paese continua a rimanere primo e incontrastato, con ben 26 kg di pasta pro capite l’anno. La pasta, un cibo naturale e semplice, è costituita da semola di grano duro e acqua senza nessun conservante perché l’essicazione del prodotto consente una duratura conservabilità. Per la produzione di pasta viene utilizzato esclusivamente grano duro, mentre il

grano tenero e la farina da esso ottenuta, viene destinato ai panifici e alla produzione dolciaria. La semola di grano duro e l’acqua vengono impastati e trafilati in appositi stampi che conferiscono alla pasta gli innumerevoli e fantasiosi formati; il sistema di trafilatura al bronzo è il migliore poiché si riflette sulle proprietà della pasta quali porosità e resistenza alla rottura, determinando una consistenza più rugosa e tenace; qualità ricercate dal consumatore perché la rugosità richiama una maggiore quantità di condimento, che fornisce maggior sapore. Soppiantato con l’introduzione di trafile in teflon, ultimamente anche i marchi industriali con maggiore notorietà hanno ripreso a utilizzare tra-

file in bronzo. L’ultima fase di essiccamento serve a togliere l’acqua ancora presente nella pasta: le fasi di essiccamento si svolgono in ambienti ventilati, e possono svolgersi per periodi prolungati a basse-medie temperature (50-60°C), oppure a alte temperature (80-90°C), tecnica quest’ultima che favorisce la denaturazione delle proteine del glutine. L’essiccamento a basse temperature invece consente alla pasta di mantenere il colore tipico della semola, l’integrità nutrizionale e il contenuto di aminoacidi essenziali; questa lavorazione tipica dei pastifici artigianali, ma anche di alcuni industriali, permette alla pasta di grano duro di avere inoltre un indice glicemico basso. Una buona pasta si riconosce se ha un co-


lore giallo ambrato limpido; la consistenza al tatto deve essere rugosa e farinosa; meglio se si spezza più facilmente. I valori e i principi nutritivi del chicco del grano rimangono invariati attraverso le varie fasi di lavorazione. Tali restano nella semola, e tali nella pasta. La composizione della pasta di grano duro è: Acqua 12% Proteine 11,5% Grassi 1,2% Carboidrati 74%. In una dieta equilibrata circa il 70% delle calorie giornaliere dovrebbe provenire dai carboidrati di cui un 55% complessi proprio come quelli provenienti dalla pasta, il 20% dai lipidi e il 10% dalle proteine. Un piatto di 100 grammi di spaghetti o altra pasta sconditi fornisce 350 calorie, quindi che faccia aumentare di peso è un luogo comune. Può essere mangiata senza problemi anche tutti i giorni, una porzione di 80 g., preferibilmente a pranzo; in questo modo si metabolizza più velocemente e si forniscono le giuste energie a cervello e muscoli. Importante è fare attenzione ai condimenti che dovranno contenere pochi grassi, meglio se vegetali; l’ideale per ottenere senso di sazietà con una bassa densità energetica sono i condimenti a base di verdure fresche e di stagione con l’aggiunta di olio extra vergine d’oliva. L’abitudine a condire la pasta aggiungendo il formaggio sia esso parmigiano o pecorino rende il piatto di pasta un cibo completo ed equilibrato: infatti le proteine della pasta sono da considerarsi squilibrate per ciò che riguarda la composizione aminoacidica, mancando quasi totalmente un aminoacido essenziale, la lisina. Basta però un cucchiaio di formaggio ad elevare sufficientemente il livello

di lisina e a rendere un piatto di pasta un cibo completo. Oltre alla classica pasta di grano duro tipica della cucina italiana, esistono numerosi altri tipi di pasta: pasta di mais, di riso, di soia, di khamut, ovviamente da consigliare negli intolleranti al glutine essendone queste totalmente prive, e che risultano più digeribili con una riduzione dei tempi di svuotamento gastrico. La pasta integrale viene prodotta con farina ricavata dai chicchi integri cioè non privati del germe, il “cuore” del grano, e non privati della crusca . Questo tipo di pasta è ricco di antiossidanti, sali minerali, acidi grassi; soprattutto le peculiarità benefiche sono date dalla fibre di cui è ricca che danno un maggior senso di sazietà e favoriscono la peristalsi intestinale. Per garantire digeribilità alla pasta è necessario cuocerla in modo corretto: più la cottura sarà al dente, più la pasta sarà digeribile! La cottura della pasta è un processo meccanico basato sull’osmosi, è necessario che l’acqua penetri nell’amido facendolo aumentare di volume; la bollitura ad alte temperature permette all’alimento di muoversi continuamente e di essere colpito in ogni suo punto dall’acqua che rende omogenea la cottura, trattenendo al suo interno l’amido e gli altri importanti elementi nutritivi. Il Prof. Angel Keys studioso americano noto per aver dimostrato già alla fine degli anni ‘50 le numerose proprietà per la salute della cosiddetta “dieta mediterranea” con le sue ricerche lanciò al mondo un avvertimento: se

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volete vivere più sani e più a lungo nutritevi come si sono sempre nutriti i contadini dell’Italia Meridionale, con pasta condita con i frutti mediterranei: olio d’oliva, pomodoro, verdure; consumate legumi, pane frutta, pesce e poche carni. Il consumo della pasta offuscato dal dilagante boom americano del fast food, dell’hamburger con patatine, del panino farcito, e più recentemente delle cosiddette cucine

etniche, è oggi ovunque nel mondo rivalutato e apprezzato. Che siano spaghetti, penne o rigatoni, poco importa… alla pasta non si resiste! Cavour scriveva: «Nel fare gli italiani la pasta è riuscita a fare di più dei manzoniani legami d’arte, di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor.» www.baggianinutrizione.it


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GUSTO

colomba

pasquale

l’icona della pace più dolce che ci sia Federica Farini

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ualcuno sosteneva che gli ultimi sarebbero stati i primi. E quale migliore frase può essere di buon auspicio per chiudere in maniera soave il pranzo pasquale con il dolce simbolo di questa tradizione? La colomba pasquale, non solo leccornia per il palato, ma anche sinonimo di pace e bene. Fu l’azienda milanese Motta negli anni trenta del Novecento a sperimentare un dolce celebrativo della Pasqua, come il Natale poteva disporre del panettone, con il suo manifesto che apparve ufficialmente nel 1930 con lo slogan “Colomba pasquale Motta, il dolce che sa di primavera”, nel suo impasto originale che resta ancora

oggi fedele alla tradizione, a base di zucchero, farina, uova, burro, buccia d’arancia candita e glassatura alle mandorle. L’antichità regala un dolce antenato della colomba già ai tempi di Greci, Egizi e Romani, i quali durante le cerimonie sacre preparavano un pane dalla forma di colomba, la quale venne identificata successivamente dai Cristiani come simbolo di Pace, dovuto al fatto che nella Bibbia, dopo il diluvio universale, la colomba inviata da Noè tornò all’arca portando nel becco un rametto di ulivo (fecondità e armonia). E perché no, anche la sagra del giorno d’oggi celebra il volo della Colomba Pasquale, ad esempio a Pian degli Ontani Cutigliano (PT), dove artisti del luogo rappresentano una colomba gigante fatta volare sopra i tetti del paese, la quale si schiude lasciando libere cinque colombine vere in nome dei cinque continenti, lanciate nel cielo come sinonimo di fratellanza e augurio di pace per il mondo. La prima leggenda della storia del dolce della colomba risale all’epoca medievale, quando Re Alboino scese in Italia alla conquista di Pavia in compagnia delle orde barbariche, riuscendo a entrarvi solo dopo un assedio di tre anni, alla vigilia della Pasqua dell’anno 572, ricevendo come segno di sottomissione alcuni regali, tra cui dodici fanciulle. Fu un anziano artigiano a regalare al re un dolce a forma di colomba, così squisito da convincere il sovrano a promettere e concedere salvezza a tutti, comprese le dodici ragazze. Una seconda leggenda lega la nascita della colomba pasquale alla regina longobarda Teodolinda e a San Colombano, il quale nel 612 insieme ai suoi mona-

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ci si recò a Pavia e venne ricevuto dai sovrani longobardi con un ricco pranzo di benvenuto. L’abate irlandese e i suoi optarono tuttavia per il rifiuto, che fece offendere la regina Teodolinda, la quale non comprese la natura del loro gesto, motivo per cui Colombano, per recuperare lo sgarbo, dichiarò diplomaticamente di poter consumare il pasto solo dopo la benedizione di quest’ultimo. Fu proprio durante il segno della croce che le pietanze si trasformarono magicamente in colombe di pane, bianche come le tuniche dei religiosi, miracolo che convinse la regina a donare il territorio di Bobbio, dove nacque l’abbazia di San Colombano. La colomba bianca fu eletta emblema del santo, sempre rappresentata sulla sua spalla. In un’altra leggenda ancora, risalente al XII secolo, protagonista è Federico Barbarossa, condottiero del Carroccio, il quale vide due colombi appoggiarsi sopra le insegne lombarde nel corso della battaglia, segno che lo convinse a infondere ai suoi uomini il nobile spirito di quegli uccelli, facendo confezionare in segno di devozione del pane a forma di colomba. Da allora questo dolce fatto di semplici ingredienti è entrato nella tradizione pasquale mantenendo la forma dell’uccello beneaugurante di cui porta il nome, come sinonimo di purezza, innocenza, divino (yohnàh, colombo), come evocano vari episodi biblici, ad esempio nel Vangelo di Matteo (3,16), dove la colomba viene vista scendere dal cielo da Giovanni Battista durante il Battesimo di Cristo. Colomba come cibo per il corpo, che offre uno spunto di riflessione profondo anche per la mente, e non solo in occasione della Pasqua.


INGREDIENTI PER L’IMPASTO: 300 grammi di farina 00, 300 gr. di farina Manitoba, 180 grammi di burro, 180 grammi di zucchero semolato, 5 tuorli e 1 uovo intero, scorza grattugiata di 1 limone, 1 bicchiere di latte, 70grammi di scorze di arancia e cedro candite, 50 grammi di lievito di birra, 1 pizzico di sale. INGREDIENTI PER LA GLASSA: 1 albume, 150 gr. di mandorle pelate, 50 gr. di zucchero, zucchero in granelli. PREPARAZIONE: mescolare insieme le due farine e versare in una ciotola la metà della farina miscelata. A parte sciogliere il lievito di birra nel latte tiepido e aggiungere un cucchiaino di zucchero. Una volta che schiuma, unire alla farina e impastare finché

la pasta sarà elastica, formare una palla, metterla in una terrina, coprire con pellicola trasparente e lasciare lievitare lontano da correnti d’aria fino a volume raddoppiato. Nel mentre in un’altra ciotola sbattere burro, uova, zucchero, un pizzico di sale, fino a ottenere una crema. Riprendere l’impasto lievitato, stenderlo, inserire nel centro la crema di burro, e poco alla volta amalgamare anche la metà rimanente di farina, fino a ottenere pasta elastica. Coprire ancora con la pellicola e rimettere a lievitare per 6/8 ore in un luogo tiepido. Riprendere l’impasto, lavorarlo aggiungendo la scorza del limone e i canditi leggermente infarinati. Ricavare un panetto più grande e uno più piccolo: dal piccolo ricavare due strisce

(le ali della colomba), dal grande il corpo. Spostare l’impasto nello stampo imburrato e far riposare. Nel frattempo frullare le mandorle (lasciandone alcune intere), unire lo zucchero e frullare ancora. Montare a neve l’albume, unire la farina di mandorle mescolando bene, spennellare la colomba con la crema ottenuta. Distribuire le mandorle intere sulla colomba e spolverare con una manciata di zucchero in granelli. Coprire con un telo lo stampo e lasciare riposare fino a lievitazione alta il doppio dello stampo. Infornare a 200° per 15 minuti, coprire successivamente la superficie della colomba con carta di alluminio per evitare bruciatura, abbassare a 180° e terminare la cottura. Sfornare e raffreddare.


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