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ISSN 1973-3658

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771973 365809

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Anno XV n. 3/2013 Trimestrale â‚Ź 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIALE

Pessimismo o fiducia? R

icordi lontani di vacanze, imminenti programmi di lavoro, fervidi preparativi per il futuro, ebbene sì, amici, il nuovo numero di Reality si presenta come un piccolo diario di eventi passati e programmi per la prossima stagione. Ricordandovi i quindici anni del magazine, per chi non ha potuto visitare la mostra allestita a Peccioli per il Festival delle 11 lune, riproponiamo Reality Cover, questa volta ospitati nello spazio espositivo della Cassa di Risparmio di San Miniato, in Palazzo Inquilini. Reality Cover: artisti di copertina in mostra, è la rassegna delle opere originali appositamente eseguite per le copertine della rivista negli ultimi sei anni. La cornice sanminiatese della mostra è splendida, l’occasione della Festa del Tartufo certo favorevole all’incontro di un pubblico numeroso con le ventitré opere – dipinti disegni sculture – che compongono la collezione e che non mancheranno di interessare i visitatori. Purtroppo, e ce ne scusiamo, molti impegni ci hanno negli ultimi tempi un po’ allontanato dal mondo socio-economico locale. Per le difficoltà e diciamo pure la crisi diffusa in questo periodo, come tutti sanno, ogni cosa deve essere programmato e messo oculatamente a segno. Per il buon esito di certi progetti occorre da parte degli interlocutori istituzionali una buona dose di disponibilità, di passione e di cultura, per riconoscere e sostenere le iniziative fondate e producenti. La sfiducia e la dubbiosità verso tutto e tutti porta a chiudersi ognuno nel proprio guscio. Nelle aziende non sono molti i dirigenti e responsabili che con dedizione e amore verso il proprio lavoro, si aprono verso l’esterno e collaborano alla realizzazione di progetti, guardando un po’ oltre un palmo dal loro naso. Sono pochi i soci con i quali confrontarsi e crescere: ognuno crede di possedere la sua giusta ricetta e gli altri sanno e fanno poco. Quindi o si decide e si comanda oppure, se una proposta non interessa, si passa la mano, senza per questo sminuirne il significato e il valore. Di fatto, quel che ha un autentico valore e suscita interesse, viene acquistato, con un buon ritorno in termini di immagine e anche di promozione aziendale, da quanti non vivono in uno stato perenne di depressione e di pessimismo, ma credono in certi valori e sono disposti a scommetterci sopra e investire risorse. Non si tratta di incoscienti o di visionari ma di persone che, nonostante si viva in un mondo pieno di contrarietà, sono forti e motivate a creare e realizzare qualcosa di nuovo. I pigri e gli scettici quali segnali stanno ancora aspettando per cambiare e farci cambiare rotta? Quanti relitti dovranno ancora veder passare portati dai fiumi, prima di impartire nuovi comandi? Quali sono le loro intenzioni e quale meta – augurabilmente di interesse comunitario, non personale – intendono raggiungere?

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MAGAZINE

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Centro Toscano Edizioni srl Sede legale Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Studio grafico via P. Nenni, 32 50054 Fucecchio (FI) Tel e fax 0571 360592 info@ctedizioni.it - www.ctedizioni.it Direttore responsabile Margherita Casazza direzione@ctedizioni.it Direttore artistico Nicola Micieli Redazione redazione@ctedizioni.it Studio grafico lab@ctedizioni.it Abbonamenti abbonamenti@ctedizioni.it Text

Paola Baggiani, Irene Barbensi, Graziano Bellini, Brunella Brotini, Giulia Brugnolini, Vanessa Cappelli, Margherita Casazza, Carla Cavicchini, Andrea Cianferoni, Carlo Ciappina, Carmelo De Luca, Angelo Errera, Federica Farini, Maura Laura Ferrari, Eleonora Garufi, Luciano Gianfranceschi, Francesco Gurrieri, Matthew Licht, Luciano Marrucci, Roberto Mascagni, Paola Ircani Menichini, Nicola Micieli, Ada Neri, Paolo Pianigiani, Fernando Prattichizzo, René, Giampaolo Russo, Domenico Savini, Carlotta Sighieri, Gaia Simonetti, Stefano Stacchini, Bert W. Meijer.

Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.n.c. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina Antonio Bobò Tela gialla, 2002 olio su tela cm 50x50

Reality numero 69 - settembre 2013 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 © La riproduzione anche parziale è vietata senza l'autorizzazione scritta dall'Editore. L'elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze. Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero del suo autore e pertanto ne impegna la responsabilità personale. Le opinioni e più in genere quanto espresso dai singoli autori non comportano responsabilità alcuna per il Direttore e per l'Editore. Centro Toscano Edizioni Srl P. IVA 017176305001 - Tutti i loghi ed i marchi commerciali contenuti in questa rivista sono di proprietà dei rispettivi aventi diritto. Gli articoli sono di CTE 2013 - Largo Pietro Lotti, 9/L - Santa Croce sull’Arno (PI) - tel. 0571 360592 - mail: info@ctedizioni.it AVVISO: l’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.




SOMMARIO

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ARTE E MOSTRE

In viaggio con Antonio Bobò Quando la Madonna Un dragone vulcano ... autentici bastoni di sostegno Rosso Fiorentino Dialoghi d’arte a Peccioli Perseo Montorsoli l’infinito amore Giocare con l’arte Incontri con l’arte L’arte in Italia

T 43 47 48 50

L 52 54 56

letteratura Giuseppe Vannicola Senza il passato Davvero Braccio di Ferro

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territorio e storia Bonaparte Lodovico Cardi Valnerina terra verace!

Dolomiti Val d’Ultimo e dintorni

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o n g o a z z i l a re un

Segheria artigiana Maffei Case in legno su misura e su ruote di Maffei Giorgio & C. Via Valdinievole Nord, 37 56031 Bientina (Pisa) - Tel e Fax 0587 714554 info@segheriamaffei.com - www.segheriamaffei.com


SOMMARIO

S 58 60 65 68

spettacolo Venezia 70 Serena Autieri Livia Castellana Stagione teatrale 2013-2014 Santa Croce sull’Arno

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Ogni nota è illuminata Eurovision Song Contest

E 72 75 77 79 81

C 83 86 87 88 89 90 91 92 94 96 98

COSTUME Liberi tra le maglie Mode di moda Trench un capo storico Ladies day Margherita Hack Eroi per caso Nino Benvenuti Problemi di donne Menopausa cosa sapere Ribollita Lagotto Romagnolo

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economia e società Emanuele Gastel

Guardare con fiducia al futuro Apprendistato o contratto La Banca davvero popolare Lucky Strike Designer Award

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A

artista

in

viaggio con

Antonio

Bobò

Nicola Micieli

Dai giorni cesellanti senza limiti di pareti, porte e tavoli e di quello a portata di ciappola, non un centimetro più distante. Un segnale all’altezza della tempia, così vicino all’occhio da allertarlo. Ecco apparire un bruscolo, una tacchiola, una pipezia che urla per via della luce. Corre con l’unghia il pittore sulla tela, per via trascinarla. No, non è spessore quel che riluce. Prende la lente. Sì, è qualcosa in orizzonte, sopra la linea turcata del mare e riflessa sotto la linea turchese del cielo. Sì, proprio un’isola sembra. Antonio Bobò

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onosco da anni ormai lontani Antonio Bobò, e lo sviluppo diramato, ma di straordinaria tenuta stilistica, dell’intera sua opera. Le tele integre, lacerate, pezzate. Le carte disegnate a matita, impresse da lastre incise con l’ausilio dell’acido, vergate di scrittura, variamente combinate e aggregate. I polimaterici su base per lo più in legno sagomato e intelaiato, ad accogliere frammenti ancora di carte, brani e filamenti di tessuti, oggetti e reperti di cose vissute. La miriade di libri e libretti d’artista, nei quali si incrociano e frizionano – e proliferano schegge visionarie e spunti narrativi – erratici segni, disarticolate figure, frasi destrutturate che nel suo divagare attento ai segnali, Bobò cattura con i loro portati semantici e rilancia, sicuramente esaltandone il potenziale estetico.

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Ho sovente girovagato insieme a Bobò a spigolare segnali e parole. Ci siamo incrociati e abbiamo frizionato nel teatro delle mostre, quando l’arte si fa scena e si rappresenta. Molte messinscena sono state approdi di progetti non di rado enucleati e condotti congiuntamente, complice corsaro quasi sempre Romano Masoni. Il piombo e la piuma, il respiro profondo e lo sguardo a occhi chiusi di Romano. Abbiamo agito con ruoli, o forse meglio parti diverse, evidentemente, per giungere allo snodo dalla privata elaborazione e fruizione alla pubblica espansione dell’arte. Sempre però trovando una propositiva convergenza quanto alle intenzioni, i procedimenti, le finalità mai neutre delle proposte. L’aver condiviso sia pure per qualche tratto il suo viaggio di artista mi consente di dire che Bobò è un


compagno di strada straordinariamente intuitivo e producente. Se lungo la strada rilevi una traccia che sembra testimoniare un passaggio alieno, dunque un possibile itinerario, non fai in tempo a indicargliela che nel suo immaginario già si profila la pista da seguire. La sua infallibile pista. Sempre che si accenda, trovando interessante e praticabile il suggerimento, la sensibile spia della sua intelligenza visiva mirata alla fabula. Se ciò accade, in breve egli imbocca la potenziale pista, ne delinea il percorso, lo visualizza e infine ce lo racconta, tappa per tappa, nelle stazioni delle opere. Intorno al minimo indizio, al ridotto frammento – da un’insegna, un’icona, un materiale o un prodotto della natura o della fabbrica umana – di realtà che faccia scattare e illumini il suo immaginario, Bobò non mancherà di costruire, gemma da gemma una colonia corallina, una costellazione di eventi visivi. Il frammento nelle sue mani è come il mattoncino del costruttore; il segno anche modulare diventa la variabile unità morfologica del compositore di partiture figurali.

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Lei si spoglia 2010, olio su tavola cm 95x125 Il pittore e Lucia (particolare) 2011 olio su tavola cm 95x125


Creola, 1985 olio su tela cm 120x120

Bobò è un raccoglitore e ordinatore meticoloso delle cose che il tempo e l’uso logorano, disaggregano e disseminano ovvero disperdono per ogni dove. Le cose come il continuum del vissuto, del quale esse sono spesso documento. Dunque testimonianze, tessere del palazzo della memoria, oltre che depositarie di una bellezza residuale e obnubilata, che occorre riconoscere e svelare. Il suo studio di pittore, che ha l’ordinata disposizione delle sue partiture pittoriche, è anche uno spazio inventariale, un casellario di reperti. Molti dei quali egli fisicamente

ricompone e ripropone nelle sue opere, quali segni e morfemi di un insieme estetico significante. Si dice che in natura tutto si tiene, niente si disperde. Si intende che ogni cosa formata tende a disaggregarsi e a ricondursi alle sue componenti costitutive. L’organico e l’inorganico sono sottoposti a un processo di trasformazione che con tempi diversi, li fa rientrare nel circolo della materia, e delle energie che la governano innescando sempre nuove formazioni. Tutto si tiene e niente si disperde nel senso che tutto si trasforma.

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Non accade altrettanto per le cose degli uomini: individui popoli civiltà. Dico le cose, ché l’uomo biologico non si sottrae alla ciclicità che presiede il divenire perenne degli elementi naturali. Certo nella sua tracciabile continuità, la memoria del dna registra il percorso evolutivo della specie umana. In questo senso tutto si tiene, per l’uomo come per ogni altra specie vivente. Ma nello scorrere inesorabile e irreversibile del tempo, si disaggregano e si disperdono i molteplici e diversi suoi atti materiali. Dai primordi ai tempi storici a oggi.


La miseria e la nobiltà delle vicende dell’uomo sopravvivono solo nei reperti e frammenti, nei documenti della sua cultura e della sua storia. Un aspetto importante del lavoro di repertazione e vorrei dire di rigenerazione e rilancio di segni, morfemi, immagini del vissuto di cui Bobò investe l’arte sua, segnatamente i polimaterici, consiste appunto nel ricomporre in costellazione le sparse membra di organismi preesistenti, i frammenti di conformazioni già unitarie, i resti usurati di entità materiali già formate e agite dall’uomo e dalla natura. È una sorta di griglia

prensile per catturare e sottrarre alla dissipazione frammenti significativi portatori di memoria e di bellezza, e ricomporli secondo un ordinamento che li racconta e li reinventa in un nuovo contesto, mentre li registra e li classifica come segni e morfemi e simboli e figure del suo repertorio visivo. Basti notare l’importanza che hanno nei polimaterici di Bobò i fili, le corde, i nastri, gli adesivi, gli incastri, gli agganci e altri tiranti e ancoraggi. Essi legano, cuciono e tengono strutturalmente e semanticamente insieme le parti dell’opera – talora veri e propri

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brani o lacerti di cose, immagini, opere d’arte anche recuperate dal proprio magazzino – e sono i nessi dell’inedita storia che Bobò racconta, i collegamenti formali e decorativi della nuova partitura. L’arte, per Bobò, è una nozione allargata e polivalente della pittura, e interconnesso disegno, nel suo caso componente essenziale dell’immagine. Bobò pratica pittura e disegno sia entro il recinto della tela e nel corso della superficie, sia sconfinando nella terza dimensione e contaminando, come usiamo dire, diversi materiali e oggetti. Che

Bianca, 1985 olio su tela cm 120x120


possono essere inclusi a integrazione parziale della superficie dipinta. O costituire la medesima opera pittorica sempre sviluppata sul piano. O essere assunti nella loro fisica autonomia, qualificati e visualizzati dal segno e dal colore, collocandosi alle soglie della scultura, e parlo di soglia perché sui valori plastici o comunque tridimensionali decisamente si impongono quelli squisitamente pittorici. O essere aggregati e articolati in composite strutture, anch’esse invase dal segno e dal colore. I materiali e gli oggetti possono infine essere distribuiti nello spazio in installazioni che includono tele e carte dipinte e disegnate. In questo caso la mostra delle opere si fa davvero teatro della rappresentazione artistica. L’allestimento diviene lo spazio agibile di quella scena che nelle tele dipinte nel corso della superficie Bobò ha sempre simulato. Sotto specie di set o di ribalta da studio pittorico debitamente munito di marchingegni, siparietti, fondali, arredi e attrezzi di scena, e davvero non mancano qui, ben visibili e funzionali, nastri, corde, fili anche carrucolati atti a manovrare l’insieme o anche solo a imprimere andamento lineare per sinuosità e ampie volute, alla scena e alle figure che la abitano. In primis e accentrate le figure femminili, in veste di personaggi propriamente recitanti (ma le direi forse protagoniste canore) o più spesso di modulate modelle ignude o parzialmente vestite. In questo caso i corpetti e le sottovesti, le calze e insomma la varia lingerie che le svela più che in qualche modo coprirle, è puntualmente un inenarrabile intrico di nastri e di fili da complicare anziché scioglierli i percorsi del labirinto, per Teseo desideroso di guadagnare con l’uscita la meta del corpo di Arianna. Le modelle di Bobò, e vorrei dirle effigi della sua musa che è poi la mutevole pittura nella quale si rispecchia l’animo suo, hanno corpi esili e affusolati. Hanno cadenze anatomiche fluenti e sono snodate come contorsioniste capaci di assumere una ricca gamma di posizioni, anche ardite e al limite del probabile. La purezza delle linee che profilano questi corpi permuta la carica erotica, pur sottesa ai loro Il pittore è nel nido (particolare) 2001, olio su tela cm 70x70 Le candele (particolare) 2011, carbone preparatorio Nella pagina a fronte Le candele (particolare) 2011, olio su tavola cm 100x125 Angeli a caccia del buio (particolare) 2009, olio su tavola cm 100x130

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La giapponese 1985, olio su tela cm 120x120 Studio a Piazza dei Miracoli 1981, olio su tela cm 120x120 Nudo disteso 1988, olio su tela cm 80x120 Nella pagina a fronte Il paravento (particolare) 2010, olio su tavola cm 100x120 Il paravento 2010, carbone preparatorio Il paravento 2010, disegni per l’Angelo grafite su carta

atteggiamenti e mascheramenti, in una sensualità più sottile e come mentalmente distanziata, di evidente ascendenza estetica. Per cui le implicazioni psicologiche e i rimandi anche culturali insiti nel rapporto tra l’artista e la sua musa si leggono solo in trasparenza nel composito, e anche complicato, diagramma delle linee, delle forme, dei colori, e delle situazioni figurali consegnate all’immagine. Tra gli altri attrezzi ed elementi dell’arredo scenico, non di rado Bobò colloca il cavalletto e la tela con o senza pittore annesso e in azione, sorta di jolly in acconcio costume capace di inserirsi in modo risolutivo nelle diverse combinazioni delle carte in gioco. Da giocolie-

re questo personaggio muove con grande abilità i fili, questa volta invisibili, della rappresentazione che in ogni dipinto si dà come in un quadro scenico. La sua presenza sulla scena in effige di pittore è il riconoscimento, che possiamo dire ormai dichiarato, del proprio cangiante alter ego nelle figure delle muse/modelle, delle quali si dà un significativo campionario con la scelta iconografica di queste pagine. Lo spazio da Bobò attrezzato, in interno o in esterno, è comunque una riduzione o un adattamento ambientale dello studio ove si specchiano in situazioni emblematiche il mondo e la vita stessa dell’artista. Nell’arco che va dal segno

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inciso al disegno, alla pittura, alla pittoscultura, all’installazione, sempre Bobò si identifica con i segni i materiali le forme i reperti che mette in circolo nelle sue opere. Cambiano i modi degli interventi sul piano o nella terza dimensione, ma immutate rimangono la qualità esecutiva, la ricchezza ed eleganza delle invenzioni e soluzioni formali. Infine il taglio mai prevedibile dell’immagine e la sua interna elaborazione figurale, affidata a una fluente evoluzione della linea e a un décor i cui ascendenti secessionisti d’area viennese, Bobò ha saputo assimilare ed elaborare con una sua inconfondibile cifra grafo-pittorica di approdo immaginativo e di grande capacità fabulatoria.


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Antonio Bobò nasce a Livorno nel 1948, oggi risiede e lavora nella provincia di Lucca. Pittore e incisore espone dal 1966. Dagli inizi degli anni ’70 propone il suo lavoro per cicli. I più recenti sono orientati alla ricerca e allo studio dei materiali sempre però ritornando alle sue esigenze pittorico-narrative. Importante il sodalizio stretto nel 1982 con Romano Masoni e con gli artisti e gli intellettuali animatori del Circolo del Pestival e del Grandevetro a Santacroce sull’Arno con i quali realizza rassegne e mostre tematiche, curando iniziative editoriali, edizioni d’arte, design book e interventi socio-culturali. Numerose le personali e con presenze: Museo Pecci, Prato; Moma, New York; Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze; Museo della Permanente, Milano; Museattivo Costa, Genova; Museo Rosaia, La Spezia; Sporting, Montecarlo. Inoltre: Centro Attività Espressive Villa Pacchiani, Santacroce sull’Arno; Museo Dino Campana, Marradi; Palazzo Ducale, Colorno; Museo Nuova Era, Bari; Fringe Visual, Melbourne; Palazzo Sormani, Milano; Famagusta Gate, Cipro; Limonaia di Palazzo Ruschi, Pisa; Palazzo Pretorio, Volterra; Palazzo Ducale, Massa; Le Ciminiere, Catania; Accademia delle Arti del Disegno, Firenze; Museo dell’Informazione, Senigallia; Cultural Centrum, Anversa; Palazzo Foscolo, Oderzo; Museo Ponzone, Cremona; Palazzo della Signoria, Jesi; Palazzo Ducale, Lucca; Fondazione Collodi, Collodi; Castello Pasquini, Castiglioncello; Rocca Paolina, Perugia; Palazzo Minucci Solaini, Firenze; Museo Civico Le Cappuccine, Bagnacavallo; Centro Allende, La Spezia; Palazzo delle Esposizioni, Torino; Palazzo Strozzi, Firenze; Rocca Estense, San Felice sul Panaro; Palazzo del Carmine, Caltanissetta; Galleria d’Arte Moderna Raffaele De Grada, San Gimignano; Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi, Pisa. Opere in collezioni pubbliche e private. Via le ali via la coda 2011, sequenza di lavoro per il dipinto olio su tavola cm 95x125 Ancora 20 rosso (particolare) 2010, carbone preparatorio Nella pagina a fronte Numero 20 rosso (particolare) 2010, olio su tavola cm 120x130

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RESTAURO

quando la Madonna scopriva il seno il culto della Madonna del Latte a Fabbrica René

Partendo da Peccioli, dalla Porta Volterrana, per una strada che attraversa colline ben coltivate, si giunge a circa sette chilometri di distanza, al paese di Fabbrica, compreso nella Provincia di Pisa, diocesi di Volterra. Fu un antico castello situato sopra una collina alla destra del fiume Era di fronte alla valle della Sterza. Don Socrate Isolani, Il mio paese, 1907

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l campanile, con il suono delle campane, evoca un tempo dove il calendario è il risultato dell’unione di tradizioni legate alla campagna, al ciclo lunare e all’anno liturgico cristiano e riflette le istanze della vita rurale, con le sue feste, i suoi santi, con le penitenze e le preghiere. Adagiata sulle dolci colline pisane, Fabbrica, nel Comune di Peccioli, prende il nome dal cantiere messo in opera per la realizzazione della pieve di Santa Maria Assunta, menzionata nei documenti a partire dal X secolo e corredata di splendide opere artistiche di scuola fiorentina. Fabbrica fu un importante castello, oggetto di contesa tra i vescovi di Volterra e la Repubblica di Pisa. Fu conquistata nel 1163 dall’esercito pisano di Ranieri Gaetani, esponente della famiglia che per secoli sarà protagonista della sua storia e alle cui sorti sarà strettamente legata. Lo stemma della famiglia si trova sulla facciata di una piccola cappella dedicata ai Santi Rocco e Sebastiano e riedificata dopo secoli di abbandono e rovina dopo la costruzione nel 1240 per volontà della famiglia Molesti. Nel campanile della cappella, dopo il terremoto del 1846 fu sistemata la campana fatta fondere da un membro della famiglia Gaetani per

la torre della rocca nel 1478, come ricordano due iscrizioni, con relativo stemma presenti sulla campana stessa. Sull’altare maggiore è collocata un’immagine molto venerata: un piccolo ma preziosissimo gruppo di terracotta del XV secolo con la Madonna nell’atto di allattare il Bambino. Elaborata nell’alveo della cultura artistica bizantina questa evocativa raffigurazione della maternità ha una remota e problematica genesi iconografica, testimone di quel sincretismo di cui è pervaso il cristianesimo fin dalle origini. La Vergine è rappresentata a seno scoperto, colta nell’atto di allattare il figlio in un’immagine dal carattere intimo e materno che esprime la natura umana insita in Cristo assieme a quella divina. L’immagine della Madonna con Bambino iniziò a diffondersi dal 431, dopo il concilio di Efeso, che ribadì la figura di Maria Madre di Dio, oltre che di Gesù. Si trovano molte varianti stilistiche e iconografiche del tema della

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Madonna che allatta, ripreso nelle miniature, pitture e sculture di epoche e Paesi diversi. Il soggetto è tra i più antichi motivi dell’iconografia religiosa, presente anche nelle catacombe romane, forse con richiami a divinità egizie. Il delicato gruppo scultoreo è visibile all’interno del riquadro che si apre in una grande e purtroppo rovinatissima tela con ricca cornice dorata e intagliata. Questa tipologia di pale d’altare con riquadro centrale erano motivate dalla grande devozione popolare per una certa immagine. Nella pala, databile al tardo Seicento, vediamo in basso a destra San Girolamo nell’atto di colpirsi con una pietra in segno di penitenza. Il santo visse nel IV secolo tra l’Italia settentrionale e più precisamente Aquileia dove era nato, Costantinopoli dove aveva studiato, Roma dove divenne segretario del papa che gli affidò la revisione dell’antica traduzione della Bibbia e la Palestina dove si ritirò in un monastero e morì. A sinistra una santa inginocchiata avvolta in un ampio


Prime fasi del restauro e foto a luce radente - foto di Claudio Giusti

mantello che le copre il capo non è bene identificabile. Due angeli in volo sono raffigurati nell’atto di reggere la cornice intorno al riquadro centrale e altri due, sovrastati dalla colomba dello Spirito Santo, sono in atto di incoronare l’immagine racchiusa nel riquadro. Dopo uno smontaggio spettacolare nel mese di giugno a cui ha assistito una folla di fedeli, il gruppo è stato trasportato a Firenze dove è stato sottoposto alle prime fasi di un restauro che richiederà ancora molti mesi e che restituirà all’opera il suo antico splendore permettendo di comprendere dettagli iconografici celati dietro la scura patina superficiale. Le operazione finora condotte si sono dimostrate molto complicate a causa del cattivo stato di conservazione del dipinto, è stata rimossa l’antica tela da rifodero che verrà sostituita con una nuova ed è stata effettuata una prima pulitura dello strato pittorico da polvere e

vernici ossidate. Tutte le fasi del restauro, le analisi condotte e una ricca documentazione fotografica saranno oggetto di una pubblicazione in cui si cercherà inoltre di ricostruire la storia della cappella e del dipinto. In occasione della festività dell’Immacolata Concezione l’opera sarà ricollocata all’interno della Cappella di San Rocco. Tutte le operazioni sono state supervisionate dal dott. Amedeo Mercurio della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Pisa e Livorno, a cui va il più sentito ringraziamento degli organizzatori.

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ARTE

un dragone-vulcano a La Rotta in memoria dei mattonai Nicola Micieli

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a cinque anni a La Rotta, lungo l’Arno alle porte di Pontedera, per la 107a Fiera dei Fischi e delle Campanelle si allestisce all’aperto un forno a legna dalle pareti mobili e si dà fuoco a un considerevole manufatto d‘argilla. Con l’argilla depositata dal fiume, formata e cotta nelle fornaci costruite in loco (nell’Ottocento se ne contano ben quattordici) si è identificata per secoli l’economia e la stessa vita comunitaria dei Rottigiani. Lavoro pesante durante l’intero anno. Fabbricanti di laterizi, fornaciai e mattonai sono stati, sin dall’undicesimo secolo, praticamente tutti i Rottigiani, donne e uomini. Ma non tutti trovavano lavoro nell’ansa d’Arno di casa. A primavera La Rotta si spopolava. In vecchie foto conservate al Museo dei Mattonai de La Rotta, la folla in attesa del treno alla stazione fa pensare a un esodo: i disoccupati partivano per le fornaci della Pianura Padana. Là impastare, modellare, asciugare, cuocere, sfornare laterizi era ancora più duro. Al rientro, in autunno, quei lavoratori stremati portavano in dono ai bambini fischietti e campanelle, e si festeg-

giava il ritorno. A quei poveri ninnoli si intitola oggi la Fiera dei Fischi e delle Campanelle, che si tiene per ricordare l’attività lavorativa e, in definitiva, la cultura tradizionale e popolare del paese. Dove non si fabbricano più laterizi dopo l’incendio che bruciò le fornaci locali, nel 1968. Ma il lavoro artigianale era ormai esaurito, soppiantato dalla produzione industriale. Nella vecchia fornace Braccini a fuoco continuo (una delle prime con il sistema Hoffmann fu impiantata a La Rotta nel 1872 da Capecchi), è stato realizzato dal gruppo culturale Il Mattone appunto il Museo dei Mattonai. Sopravvissuta all’incendio, la straordinaria e bella fornace è una galleria ovoidale voltata, dove si produceva “a catena” poiché si muravano diversi settori e si alimentava il fuoco dall’alto. Vi sono raccolti una quantità di manufatti in laterizio e i documenti visivi che, con grafici e pannelli informativi, consentono di conoscere compiutamente la faticata “epopea” dei mattonai e fornaciai de La Rotta. Nel museo sono anche conservati i grandi manufatti realizzati in collaborazione con i ceramisti di Montelupo

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Fiorentino e cotti nel forno all’aperto nelle precedenti quattro edizioni della Fiera. Quest’anno si può dire che siano state davvero spettacolari la messa in opera, la cottura e l’apertura del forno a fuoco ancora vivo. Molto bella e davvero appropriata anche concettualmente all’alchimia del fuoco, l’opera destinata al forno. L’ha realizzata uno scultore ceramista tecnicamente provetto e artisticamente creativo. Si tratta di Vinicio Zapparoli che vive poco lontano da La Rotta dove dà forma e smalto a maschere, figurati calici, composite, anzi mutagene opere plastiche nelle quali natura e cultura, realtà e immaginazione si incontrano e si ibridano dando luogo a organismi in metamorfosi e a fantastiche creature. È il caso del Dragone in cui si risolve, al culmine, la scultura consacrata dal fuoco nella fornace di La Rotta. E da Dragone, dalle sue fauci spalancate come dal cratere di un vulcano, sprigionavano lingue infiammate che parevano provenire dalle viscere della terra. Serpente e orifiamma, dunque: creatura simbolica di collegamento tra la terra e il cielo.


MOSTRA

...autentici

bastoni

di sostegno

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a Vertigine della lista è il titolo di un libro in cui Umberto Eco parla e allude al desiderio dell’Uomo di descrivere, elencare e ordinare tutte le categorie come se ognuna fosse rappresentativa di una collezione virtuale di elementi che condividono tra loro una o più caratteristiche. Ma tutto questo, più che dal desiderio di ordine, a mio avviso nasce dalla esigenza dell’Uomo a collezionare materialmente per poter conservare in ogni collezione un po’ del ricordo della sua vita. Una sorta di agenda da consultare a ritroso per onorare gli impegni che non scadono più. Una traccia del proprio io, inaccessibile agli altri se non nella pura esteriorità degli oggetti collezionati, da conservare almeno per se stessi col sapore romantico delle nostalgie. Così in un armadio nero, foderato di rosso come un utero rassicurante, per la regia di Alberto Bartalini, ho visto di recente un numero ragguardevole di bastoni. Una collezione. Bastoni raccolti per via tra i legni abbandonati nei boschi o sfilati dalle scope non più utilizzate e poi intagliati sovrappensiero durante momenti di intimità, come disegni senza senso tracciati sulla carta, distrattamente, estraniandosi dalla realtà circostante. Intagli impreziositi da colori e da appendici anche non funzionali al bastone, nella loro indiscutibile bellezza, tutti con un senso di profondità personale che sfugge ma che è palese: la bellezza dell’Arte che trascende se stessa e diventa simbolo

universale di comunione. Tavolozze e mondi immaginari, di artisti amici, lasciati su quei bastoni come messaggi personali di affetto tutti da interpretare e da rileggere a piacimento. Poesia visiva in versi a rime baciate, specchiate e reciproche. Una agenda a più mani non di cose da fare ma già fatte e già agite. Invidiare questa collezione a Nicola Micieli che li ha intagliati, nei suoi diporti, e poi decorati, alcuni a quattro

mani con amici artisti, e possederla al posto suo non avrebbe alcun senso, perché il grande valore di Arte che essa indubbiamente racchiude non è niente rispetto al suo valore invisibile, decifrabile soltanto da uno. E il valore più alto, assoluto se vogliamo, della sua storia si perderebbe inesorabilmente e inutilmente lontano dal suo originario possessore. Collezione di autentici bastoni di sostegno. Foto di Alessandro Paladini

Nicola Micieli a quattro mani con Alberto Berti, Maurizio Bini, Antonio Bobò, Cesare Borsacchi, Samuel Bozzi, Giuseppe Calonaci, Stefano Cecchi, Stefano Ciaponi, Lorenzo D’Angiolo, Raffaele De Rosa, Domenico Difilippo, Glauco Di Sacco, Orso Frongia, Marcello Frosini, Andrea Gabbriellini, Renzo Galardini, Roberto Gasperini, Fabrizio Giorgi, Arduino Gottardo, Andrea Guasti, Alì Hassoun, Giuseppe Lambertucci, Massimiliano Lucchetti, Paolo Marcolongo, Franco Marconcini, Gianfalco Masini, Romano Masoni, Elsa Mezzano, Lea Monetti, Gianfranco Pacini, Cristina Palandri, Giampiero Poggiali Berlinghieri, Massimo Pratali, Lori Scarpellini, Enzo Sciavolino, Pietro Soriani, Stefano Stacchini, Gianfranco Tognarelli, Paola Vallini, Vinicio Zapparoli, Luigi Zucconi, Michael Zyw.

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Stefano Stacchini

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MOSTRA

Andrea Granchi

Rosso Fiorentino L’approdo al “luogo prediletto” di una mèta sempre in fuga Francesco Gurrieri

Incontro estremo 2003-2004 affresco tridimensionale armato in alluminio cm 80x80x65

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aramente capita di trovare una convincente ed isotropa armonia tra l’opera (pressoché antologica) di un artista, il luogo e l’allestimento, l’articolazione e i contenuti del catalogo. Questo non facile coagulo si è realizzato a Volterra (agosto / ottobre 2013) nella Pinacoteca Civica con la mostra di Andrea Granchi, Il luogo dove i destini si incontrano. La prima sorpresa è nel garbo e nella proprietà del saluto introduttivo degli assessori Graziano Gazzarri e Lilia Silvi: «Possiamo pensare o quanto meno sperare che questa mostra rappresenti per Granchi l’approdo al luogo prediletto? Quand’anche fosse soltanto un breve tratto del suo viaggio, uno dei tanti luoghi che ha visitato e amato, a noi piace pensare che Volterra costituisca per Granchi

un luogo unico, ineguagliabile, in cui “tutti i destini si incontrano”, e può dunque appagare le sua perenne tensione e ricerca verso l’eccellenza. Con questa lusinga Volterra accoglie la sua mostra.» Altrettanto efficace il Direttore della Pinacoteca, Alessandro Furiesi che, titolando Un connubio fra arte antica e moderna, ci dice che «l’esposizione di Andrea Granchi unisce due racconti: quello del viaggiatore che perennemente si muove e torna nei luoghi a lui cari e quello umano dell’artista che con ogni mezzo a sua disposizione esprime la sua interpretazione dei luoghi.» Già i luoghi. Anzi il luogo: perchè qui è una delle opere d’arte, per eccellenza metastoriche, che ha segnato la memoria di Andrea Granchi, forse conducendolo e spingendolo verso

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quel suo personalissimo viaggio alla ricerca di se stesso: da qui parte, per sua ammissione, la sintesi di passato e futuro che, da spettatore sedentario e attonito, di fronte a quell’inimitabile opera di quel fulmineo “manierismo” (si ricordi Vasari con la licenza e le regole) ispirerà tutta la sua dinamica del viaggio, le fughe delle sue ombre, l’inseguimento al luogo prediletto. Confesso di non aver mai avuto entusiasmo per le “contaminazioni” fra i capolavori antichi e la contemporaneità: le opere odierne ai piedi del David di Michelangelo mi son sembrate una inutile forzatura, buona solo per la stampa e per esaltare la direzione del museo; oggi, con Granchi e la Pinacoteca di Volterra ho dovuto ricredermi: ma forse una ragione c’è ed è proprio nell’avvertibile dialogo – cercato e progettato – sala per sala, con i soggetti dell’Artista. Si avverte, insomma, come i soggetti, la dimensione, la collocazione, l’illuminazione, siano stati faticosamente studiati, senza nulla lasciare al caso. Così, questo Viaggio con Andrea Granchi, come titola Nicola Miceli in


catalogo, «proiezione utopica di una meta sempre in fuga», si rende avvertibile nel suo cronologico svolgimento. Anche gli scenari quasi sempre affollati delle composizioni di Granchi si spiegano ora, verso quell’Incontro estremo (2003-2004) che, per sintesi iconologica, deve esser ricondotto alla suggestione del Gigante di Pratolino. E così siamo ancora al manierismo, a quella trasgressione che legò insieme Buontalenti, Pontormo e Rosso Fiorentino; quel linguaggio trasgressivo (da “licenza”) ripreso da altri, ma anche da quel Savinio e dal suo panmorfismo che è nella filigrana delle opere di Granchi. E allora, mette conto notare come davvero l’intuizione

lega le arti (Koenig), guardando alla coincidenza del Viaggiatore sedentario del nostro Artista e Caos calmo di Sandro Veronesi. Ecco dunque il genotesto di Granchi quale luogo sorgivo della elaborazione profonda della sua poetica: Rosso Fiorentino e l’Appennino di Pratolino. E la narrazione è un continuo ossimoro, ove movimento e tempo implodono ed esplodono in un disperato vitalismo a cui è condannata la condizione umana. E allora, forse, emerge l’asse del linguaggio granchiano, il suo ruolo di interprete di una “condizione del presente” esplorata e non risolta, a cui non è bastevole il “pensiero debole”. Così, lo stream of consciousness, il flusso

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di coscienza dell’Artista è per noi veicolo del tempo e interprete delle nostre confuse accumulazioni verso un mythos, uno o più personaggi sovrumani definitivamente impossibili.

Libro d’artista Le due anime del bianchennero 2004 Sale della Pinacoteca dove ha luogo la mostra con opere dal 1966 al 2013


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MUSEO

dialoghi d’arte a Peccioli IX Giornata del Contemporaneo Irene Barbensi

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econdo la definizione di ICOM (International Council of Museums) «Il Museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Compito degli Amministratori è quello di garantire la conservazione e la valorizzazione della memoria, delle tradizioni e delle tante storie locali,

quelle che in ogni piccolo paese si intrecciano fra di loro e con la grande Storia, storie di personaggi appassionati, sinceri, con un grande amore per la propria terra che non hanno mai voluto lasciare ma arricchire con il proprio patrimonio e contributo. In un momento di crisi economica, dove la cultura non viene ancora percepita come volano della ripresa economica e turistica di un territorio, Peccioli ha fatto propria la convinzione che il museo non debba essere un luogo di semplice esposizione di reperti, manufatti, opere d’arte e di pensiero ma uno spazio che asseconda i cambiamenti

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del suo pubblico, dei suoi gusti, delle sue modalità di comunicazione e recezione per valorizzare l’intera comunità, promuovendone le risorse di creatività e di iniziativa, stimolando l’interesse dei visitatori, cercando la partecipazione, condividendo, interpretando e custodendo collezioni straordinarie; un museo vitale e di respiro globale che rappresenta l’energia dei luoghi e delle persone, che gioca un ruolo attivo nella vita del paese nel presente e nel futuro; un museo che sia un centro di eccellenza e una meta accogliente, ricca di emozioni, sorprendente e innovativa.


ta così testimonianza di un rinnovato legame tra passato e presente e della volontà di costruire consapevolmente il futuro. In occasione della nona edizione della Giornata del contemporaneo promossa da AMACI, sabato 5 ottobre l’ingresso al Museo sarà gratuito. Per informazioni: Fondazione Peccioliper tel. + 39 0587 672158 - www.fondarte.peccioli.net In questa direzione fin dagli anni Novanta Peccioli ha creduto nella possibilità di un dialogo tra l’impianto medievale del territorio e l’arte contemporanea, attraverso un’operazione di introduzione nel tessuto urbano di interventi site specific, come le installazioni “Fonte” e “Chiacchiere” di Vittorio Corsini, oppure “Colonna che scende” di Hidetoshi Nagasawa, fino ad arrivare ad “Acropoli” di Vittorio Messina e “Ospiti” di Fortuyn/O’Brien, solo per citarne alcune. Da oltre venti anni l’arte contemporanea si fonde con lo spazio urbano raccontando un luogo e i suoi abitanti, instaurando un dialogo tra presente, passato e antichi linguaggi iconografici che viene rinnovato con il New Opening del Museo di Palazzo Pretorio. L’antico Palazzo ospita il Museo delle Icone Russe “F. Bigazzi”, che, inaugurato nel 2000, è divenuto negli anni luogo di conservazione ed esposizione di due collezioni di Icone, per un totale di circa 200 opere esposte: la raccolta Bigazzi e quella Belvedere, che vengono periodicamente ampliate attraverso mirati e attenti acquisti di opere selezionate. La Collezione Bigazzi si caratterizza per la presenza di icone prevalentemente russe risalenti ai secc. XVIII-inizi XX, tipiche di una venerazione domestica. La Collezione Belvedere, unica nel suo genere, presenta icone lignee dalla singolare e inconsueta peculiarità: risalenti ai secc. XVIII-XX e provenienti dal tutto il mondo ortodosso sono datate, firmate o con dedica. Un’intera sezione espositiva è inoltre dedicata a croci, icone e polittici di bronzo, tra cui

spicca un rarissimo esemplare di croce battesimale risalente al XV secolo. Il Museo è arricchito dalla Collezione Incisioni e Litografie – Donazione Vito Merlini, una raccolta di opere che spaziano dall’informale al figurativo, alla Metafisica; 279 fogli tra incisioni, litografie, xilografie e serigrafie raccolte da Vito Merlini, medico condotto di Peccioli, che nel 2006 le donò al Comune. L’antico Palazzo, risalente all’epoca medievale e rimaneggiato tra il XVIII e il XIX secolo, simbolo della centralità del potere politico nel corso dei secoli, diventa in questo modo fulcro dell’attività espositiva e museale di Peccioli mettendo a confronto e in dialogo l’arte contemporanea, e un’arte di luoghi apparentemente lontani. Il legame tra contemporaneo e passato viene rafforzato dalla scelta di ospitare all’interno del Museo di Palazzo Pretorio la mostra “Crossing Art vol. 1. Daily Golgotha” di Renato Meneghetti. L’artista concentra la propria ricerca sulle tradizioni artistiche, visive e simboliche del passato riportandole prepotentemente nel presente attraverso un rigoroso percorso di sperimentazione di materie e tecniche. In questa esposizione curata da Francesco Buranelli con la regia di Alberto Bartalini l’artista declina il tema unico “la Croce” in opere che spaziano dalla pittura alla scultura, all’installazione, al video. La croce non solo come simbolo religioso ma soprattutto quale rappresentazione dei sacrifici che l’umanità è chiamata a sopportare e superare nel vivere quotidiano. Il Museo di Palazzo Pretorio diven-

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FOCUS

Perseo due facce della stessa anima nel capolavoro di Benvenuto Cellini

Paolo Pianigiani

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veva un caratteraccio, Benvenuto Cellini. Il padre, maestro Giovanni, era suonatore di strumenti a fiato nelle bande musicali a Firenze, e fin da piccolo mise in mano al figliolo pifferi e istrumenti simili. Ma Benvenuto era nato per l’arte, in particolare l’orificeria e la scultura. Seguì la sua strada, facendosi largo nelle corti fiorentine, papali e francesi, in concorrenza con i nemici che subito si seppe procurare. Fossero questi artisti a lui rivali, come l’odiatissimo Baccio Bandinelli, o amanti di re, come la favorita di Francesco I di Francia. Tornando appunto da quelle terre, dove lo avevano messo in prigione per sodomia, tornò a Firenze, cercando spazio e commesse alla corte granducale. Cosimo e la moglie, la bellissima Eleonora di Toledo, lo accolsero a braccia aperte, e gli commisero un Perseo, da mettersi in piazza insieme alla Giuditta e Oloferne di Donatello e al David di Michelangiolo (allora in originale). Era la grande occasione, e il Cellini ce la mise tutta, pur con le mille difficoltà che subito gli gettarono fra i piedi gli avversari, come per esempio Pierfrancesco Ricci, maggiordomo granducale. Ma quando il Perseo, superati i problemi della tecnica di fusione del bronzo, fu collocato lì dove sta ora, tutta Firenze si accorse della bravura di quel suo figlio un po’ strano, di cui si dicevano cose terribili, ma che era riuscito a regalare a Firenze un capolavoro assoluto. E fu appunto quasi un regalo, perché Cosimo I, spinto dalla moglie, che intanto lo aveva preso in antipatia (le donne son volubili come piume al vento), fece di tutto per non pagare il conto, profittando del fatto che non esistevano contratti scritti ma

solo una stretta di mano fra lui e l’artista. Che se la prese moltissimo per questo trattamento, vendicandosi poi nella “Vita”, la sua autobiografia dettata mentre lavorava, a un ragazzino appositamente assunto in bottega. Ma veniamo a lui, il Perseo. L’eroe alza al cielo la testa della Medusa, ma non grida la sua gioia per la vittoria: è pensieroso e guarda in basso, brandendo ancora la spada. La banda di traverso dove sta scritto il nome del suo artefice, lega indissolubilmente l’autore al personaggio rappresentato. Perseo è Benvenuto e la Medusa tutta l’iniquità del mondo, inclusi i suoi nemici personali. Ma c’è una cosa che nessuno ha mai notato. I due volti hanno gli stessi tratti, sono così simili da far pensare che l’artista abbia rappresentato la stessa persona. Come se più di un omicidio di giustizia, l’autore avesse decapitato una parte di se stesso. Da lì tutta la tristezza che si vede in quello sguardo introspettivo, pèrso nel vuoto dei suoi pensieri. Il copricapo munito di ali, che fanno il paio con quelle legate ai piedi che permettevano all’eroe di volare, ha un fregio a forma di piccolo leone, con la testolina distante dal corpo. Il collo non si vede, quasi fosse anche quello staccato per qualche strano motivo iconografico. L’elsa dello spadone assassino termina anche quella con la testa leonina, definita in tutti i suoi particolari. Questo non può che far pensare a un parallelo con Ercole, che pure si cimentò in simili imprese. Il leone era infatti uno dei simboli del figlio prediletto di Giove. E poi il sangue, che sgorga dal collo a fiotti, e cola orribile dalla testa recisa. La leggenda narra che dalla ferita vennero al mondo Pegaso, il cavallo alato che verrà buono per

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Bellerofonte, e il gigante Crisaore, armato di spada d’oro. Benvenuto però non si complica la vita e questi due ingombranti personaggi: li lascia nel dimenticatoio. Si concentra sull’essenziale: il gesto di Perseo è la Giustizia, che infine arriva a punire i nemici e i colpevoli, lasciando al suolo un bellissimo corpo di fanciulla che si contorce nel nulla. Ed ebbero un bel dire i suoi detrattori, che le gambe di ballerino erano troppo fragili a sostener quel corpo di vecchio, o altre scempiaggini simili, che mandarono su tutte le furie il Cellini. Il Perseo è insieme al David il simbolo di Firenze, e i mille scatti di fotografi e turisti, che lo rubano e lo portano per il vasto mondo, sono lì a testimoniare la grandezza di Benvenuto di maestro Giovanni, per nostra fortuna finito scultore e non suonatore di piffero.


© Alena Fialová


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PERSONAGGI

Montorsoli l’infinito amore all’arte e agli artisti Paola Ircani Menichini

Ritratto di Giovannangelo Montorsoli (da www.artrenewal.org). La cappella dei Pittori nella SS. Annunziata di Firenze (lato nord ovest). La statua più a sinistra è il Mosè del Montorsoli, 1536; al centro della parete l’affresco di Santi di Tito, La costruzione del Tempio di Gerusalemme, 1571.

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ngelo da Montorsoli, figlio di Michele di Angelo da Poggibonsi, nacque nel 1499 a Uccellatoio nella villa che porta lo stesso suo cognome, Montorsoli, posta a cinque chilometri da Firenze sulla strada bolognese - oggi nel comune di Vaglia. Fin da ragazzo dimostrò disposizione al disegno e il padre ne assecondò il talento conducendolo a imparare il mestiere di scalpellino nelle vicine cave di Fiesole. Il 7 ottobre 1530 si vestì dell’abito dell’Ordine dei Servi di Maria nel convento della SS. Annunziata di Firenze, prendendo il nome di fra Giovannangelo e celebrando la prima messa il 2 marzo 1532. Giorgio Vasari, biografo di artisti1, ne narra dettagliatamente la vita il cui lento e ineluttabile svolgersi non fu solo un susseguirsi di viaggi e di commissioni, ma anche il programma di un cammino intrapreso per compiere una vocazione. La Vita racconta ad esempio del ragazzo Angelo, che con Francesco del Tadda, maneggia lo scalpello e lavora le pietre nelle cave di Fiesole; del benvolere con cui lo scultore Andrea Ferrucci gli insegnò per tre anni (1512-1514), vedendolo desideroso di apprendere. Parla di un giovane che lavora alla fabbrica di San Pietro a Roma e che viene ben pagato per dei rosoni sulla cornice maggiore della basilica. Così in breve tempo si fa un nome, viene notato da Michelangelo mentre scolpi-

sce per la Sagrestia di San Lorenzo (1524) e, non ancora trentenne, riceve un salario al pari dei maestri più anziani ed esperti. Il Vasari ricorda anche l’interruzione dei lavori alla Sagrestia nel 1527 - quando Firenze è sconvolta dalla guerra civile e i Medici sono cacciati - e la dimora di Angelo presso uno zio a Poggibonsi. In questo periodo il giovane vede il «mondo essere sotto sopra» e matura la decisione di farsi religioso. Ma non gli piace la solitudine e il silenzio di Camaldoli o della Verna. La sua città è Firenze, e qui trova accoglienza fra i Gesuati, dei quali però non apprezza le attività: «altro che dire paternostri, fare finestre di vetro, stillare acqua, acconciare orti et altri somiglianti esercizii, e non istudiano, né attendono alle lettere». Conosce il loro cappellano, che è fra Martino dei Servi di Maria, e tutto diventa chiaro: entra così nel convento della SS. Annunziata ed è subito incaricato del restauro dello

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stemma e delle immagini ex voto dei Medici rovinate dalla guerra civile. Michelangelo però si ricorda del suo talento, e, nonostante l’abito religioso, nell’aprile 1532, lo chiama a Roma. Giovannangelo alloggia al Belvedere, ripara «il braccio sinistro che mancava all’Apollo et il destro del Lacoonte». Papa Clemente VII gli si affeziona, «massimamente veggendolo studiosissimo nelle cose dell’arte e che tutta la notte disegnava» per avere ogni mattina nuove cose da mostrargli. Il Vasari narra anche di come nell’estate del 1533 il giovane sia di nuovo a Firenze, al lavoro nella Sagrestia di San Lorenzo. Gli viene proposta la scultura del San Cosimo, che completerà nel 1537-38; ma insieme all’importante commissione, purtroppo non mancano «molti invidiosi». Dopo la morte di Clemente VII (25 settembre 1534) il Montorsoli è libero dall’impegno nella Sagrestia. Ter-


mina pertanto l’immagine del duca Alessandro per la SS. Annunziata e va a Roma a lavorare al sepolcro di Giulio II. Si reca poi a Parigi e, per conto di Francesco I, inizia dei modelli di statue; ma presto si sdegna per l’avarizia e il comportamento dei funzionari reali e lascia la capitale. Si ferma a Lione, in Provenza, a Genova e nelle principali città del Nord Italia, dove osserva con piacere le opere d’arte, «talora disegnando, fabriche, sculture e pitture». A Budrio, al capitolo generale dei Servi di Maria (aprile 1535), incontra l’amico p. Zaccaria Faldossi che lo riporta nel suo convento di Firenze e a lavorare per l’Ordine. All’Annunziata scolpisce le due statue del Mosè e di San Paolo per il capitolo (1536), a San Pier Piccolo di Arezzo il sepolcro del p. Angelo generale (estate 1536), al convento di Mergellina il monumento funebre voluto dal poeta Iacopo Sannazaro (1536/7-1542). Giunta l’armata turca in Puglia «fu dato ordine di fortificare la città [Napoli] e … andarono pensando al frate», che però rifiuta, «non parendogli che ad uomo religioso come egli era istesse bene adoperarsi in cose di guerra». Il Vasari continua la sua biografia ricordando il completamento del San Cosimo e la preparazione di altri progetti a Firenze. In città però è ostacolato dallo scultore Bandinelli e dal maggiordomo di corte Pier Francesco Riccio. Si reca allora a Genova (marzo 1539) a lavorare alla statua del cardinale Andrea Doria, a un San Giovanni Evangelista «che

finito, piacque loro tanto, che ne restarono stupefatti» (luglio 1540), alla fontana del Tritone nel palazzo del Principe e ad altre opere. Nel 1547, quando lascia definitivamente la città, ha contratto «molte amicizie di signori et uomini virtuosi» e acquistato «fama e ricchezza». Nel settembre dello stesso anno si reca a Messina, dove per un decennio lavorerà felicemente e lascerà bellissime sculture come la fontana di Orione e la fontana del Nettuno. Le sue opere sono ben eseguite e originali tanto che il Vasari le descrive a lungo e con ammirazione. Il soggiorno finisce nel 1558 quando una bolla di papa Paolo IV impone di nuovo la disciplina claustrale ai religiosi che hanno lasciato l’abito e p. Giovannangelo ritorna a Firenze, deciso a riprendere «a vivere da buono religioso». Prima di rientrare in convento, si occupa della sua famiglia, facendo fare un buon matrimonio ad alcune nipoti povere e assicurando agiatezza ad altri due nipoti, Angelo Montorsoli e Martino Montanini, che lo hanno seguito come collaboratori nei suoi viaggi di lavoro. Fa anche un cospicuo dono alla comunità religiosa e provvede a una rendita per altri due nipoti che sono frati. Nel 1561, con privilegio del priore generale dell’Ordine, esegue l’altare maggiore della chiesa dei Servi di Maria di Bologna. Di nuovo alla SS. Annunziata progetta ed esegue altre sculture ed organizza la bella cappella e sepoltura nel capitolo per sé «e per tutti gl’uomini dell’ar-

te del disegno, pittori, scultori et architettori che non avessono proprio luogo dove essere sotterrati». Tanta «magnifica liberalità» è celebrata la mattina del giorno della SS. Trinità del 1562 con una grande festa e con la traslazione del corpo del Pontormo nella sepoltura della cappella. Dopo una vita di viaggi dedicata all’Arte, p. Giovannangelo è ormai anziano e stanco. Muore all’una e mezza di notte (le 19,30 circa) del 31 agosto 1563, compianto da tutti. Michelangelo ne fa l’orazione funebre e le esequie sono «poco meno che reali». D’altronde, come scrive il Vasari nella sua lunga e ammirata biografia, le Arti gli sono obbligate «per avere loro portato infinito amore et agl’artefici di quelle parimente». La breve lode di Piero di Gherardo Capponi è altrettanto significativa: «El Crin tonduto Angel divenne e’n Cielo Vide questi le forme ond’hanno in terra Vita i suoi marmi, e morto al mondo in terra Visse, hor è morto, e vive in terra, e ‘n Cielo»2 . La statua di San Paolo, 1536 cappella dei Pittori. Note. 1. v. G. Vasari, Le Vite... con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, pp. 629660; B. Laschke, Fra Giovan Angelo Montorsoli: ein Florentiner Bildhauer del 16. Jahrhunderts, Berlino 1993; v. anche L’«infinito amore» alle arti e agli artisti - La cappella dei Pittori e il p. Montorsoli nel 450° anniversario della morte (1563-2013), a cura di P. Ircani Menichini, Firenze 2013. 2. Raffaello Borghini, Il Riposo, Firenze 1584.

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La statua di San Giovanni Evangelista, 1540-1541 nella chiesa di San Lorenzo a Genova. La fontana del Tritone 1540-1543, nel Palazzo del Principe a Genova (da wikipedia.org).


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DIDATTICA

giocare

arte

con l’

di Gustav Klimt Laboratori didattici al museo René

Per informazioni: Fondazione Peccioliper tel. + 39 0587 672158, info@fondarte.peccioli.net, www.fondarte.peccioli.net

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a didattica è una componente fondamentale di un Museo non più concepito solo come spazio espositivo, ma luogo e occasione privilegiata di incontro e di scambio con il sistema dell’arte: un centro di produzione culturale per la città e un laboratorio aperto. La missione del Polo Museale di Peccioli è quella di aprire l’arte e la cultura artistica all’infanzia. Tutto ciò avviene attraverso due circuiti: uno è dato dal processo artistico – rappresentato dallo spazio museale e dalle opere raccolte in collezioni diversificate – e l’altro da un programma educativo – non solo didattico – adeguato alle fasce d’età di riferimento. I bambini, pertanto, in maniera progressiva e sempre diversa, sono portati a vivere e conoscere lo spazio museale e le sue opere e l’eredità storico-artistica del territorio. In questo quadro l’attività didattica diventa un compito importante della Fondazione Peccioliper, proponendosi come strumento di dialogo tra scuola, museo e materiali, basandosi su osservazione, esperienza e comprensione della storia, delle arti e delle tradizioni per trasmettere e riflettere sull’identità del territorio e sugli aspetti che lo qualificano. L’Area Servizi Educativi e Didattici si articola in quattro ambiti specifici, autonomi ma correlati: Scuola, Attività extrascolastiche, Musei, Visite Guidate, proponendo un programma di attività trasversali e progetti in grado di diversificare la propria offerta e coinvolgere pubblici diversi. Il progetto Didattica nelle Scuole propone percorsi negli istituiti del Comune di Peccioli: Scuola dell’Infanzia, Scuola Primaria e Secondaria di primo e secondo grado. Ogni anno vengono strutturati insieme agli insegnanti percorsi educativi per una conoscen-

za dei vari linguaggi artistici attraverso approfondimenti, rielaborazioni e riproduzioni delle opere d’arte e la sperimentazione delle tecniche. I percorsi didattici all’interno dei Musei si articolano in due momenti: una propedeutica visita delle collezioni esposte e l’attività di laboratorio e approfondimento. Partendo dalla conoscenza delle opere, si offre l’opportunità di realizzare manufatti artistici, dipingere un’icona oppure calarsi nel ruolo dell’archeologo partecipando ad uno scavo simulato. Le scuole e i gruppi, su richiesta alla Segreteria Organizzativa, possono usufruire dei percorsi didattici anche al di fuori degli orari d’apertura dei musei e in occasione di importanti eventi espositivi vengono organizzate attività didattiche rivolte alle famiglie durante i giorni festivi, e alle Scuole dell’Infanzia, Primaria e Secondaria di primo e secondo grado nei giorni feriali, con percorsi differenziati per fasce d’età. I laboratori didattici extrascolastici affrontano ogni anno, in orario pomeridiano, la conoscenza della personalità di un artista, della sua tecnica, delle sue opere. Nelle attività offerte i protagonisti sono i ragazzi: utilizzano gli occhi per guardare, la mente per riflettere, le mani per creare e sperimentare. A partire dal mese di ottobre per l’edizione 2013 i laboratori didattici saranno dedicati a Gustav Klimt, l’artista viennese famoso per i fondi oro, le fantasie liberty e “Il bacio”. I bambini saranno invitati ad entrare nel fantastico mondo della Secessione Viennese attraverso la commistione di arti e mestieri, dipingendo e arricchendo i propri lavori con parti in mosaico ed apprendendo i segreti della doratura attraverso l’utilizzo della foglia d’oro e dei pigmenti d’oro e d’argento, che

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daranno lucentezza e splendore a tutti i loro elaborati. Durante gli incontri è prevista la realizzazione di un murales con una porzione del “Fregio di Beethoven”: un affresco lungo trentaquattro metri e sviluppato su tre pareti del Palazzo della Secessione, dipinto da Klimt nel 1902. Il laboratorio si svilupperà in 5 incontri a cadenza settimanale della durata di un’ora e trenta, l’orario sarà concordato sulla base delle esigenze degli iscritti. Nella convinzione inoltre che l’azione formativa abbia un ruolo centrale come strumento attivo e di supporto ai processi di innovazione al fine di “imparare a conoscere”, “imparare ad essere” e “imparare a vivere insieme”, per gli adulti e i ragazzi sarà organizzato un corso di gesso in orario serale, sviluppato in sei incontri: un’arte semplice e che ben si adatta a tutte la capacità manuali ma che permette di realizzare manufatti di vario genere e di spaziare con la fantasia attraverso la modellazione, la decorazione e l’utilizzo degli stampi. I partecipanti potranno cimentarsi nella realizzazione di bomboniere, profuma-biancheria, personaggi di presepi o semplici sovrammobili.


© www.ctedizioni.it

Loriana betti festeggia il 25° anno di attività. La passione per l’arte pasticcera che si è rivelata fin dalla sua infanzia, si è rinnovata anno dopo anno, facendole creare autentiche specialità e raffinate dolcezze.

il tradizionale panettone, impreziosito dall’amaretto alle mandorle santacrocese, si fa sintesi di tradizione e innovazione con il tocco di un tipico prodotto locale. una cascata di gocce di amaretti arricchisce di nuove e più avvertibili note il suo delicato impasto e ne fa un’esperienza unica e imperdibile di fragranza e delicatezza. Lorianabetti - via di PeLLe 1 - 56029 Santa CroCe SuLL’arno - PiSa - teL. 0571 30659


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Incontri CON L’ARTE

LUCA MACCHI LIRICITà e SACRALITà

ANDREA GRANCHI alla pinacoteca di VOLTERRA

a montopoli valdarno seguita l’itinerario d’arte sacra di Macchi

UNA TESTIMONIANZA. Bert W. Meijer, storico dell‘Arte olandese

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uca Macchi non è nuovo alla pittura di soggetto e destinazione religiosa. In ciò continuatore di una tradizione novecentesca che nel territorio di San Miniato, dove egli vive e lavora, ha avuto il maggior rappresentante in Dilvo Lotti. Tra gli altri pittori sanminiatesi, ognuno dei quali ha dato una qualche significativa prova d’arte sacra, Macchi ha certo operato con maggiore continuità. C’è da dire che molta parte della sua opera è pervasa da un poetico senso spirituale, che deriva dal suo avvertire il mistero e lo splendore dell’essere anche nelle più modeste manifestazioni del reale. Una piuma è insomma un annuncio, una foglia reca l’impronta leggera del Creato. Nel Santuario di Maria Madre dei Bimbi a Cigoli, accanto alla parete dipinta nel 1935 dal maestro Dilvo Lotti, Macchi aveva nel gennaio del 2012 consegnato la sua Parete della Restituzione, grande tempera vinilica alta oltre 8 metri, nei cui tre registri sovrapposti si racconta, in cinque stazioni iconografiche, la storia del furto e della riconsegna della sacra immagine della Madre. Nel giugno scorso Macchi ha collocato a Montopoli Valdarno nella cappella privata Gabbanini intitolata a Sant’Antonio da Padova, una pala d’altare concepita con una scena immersa nel paesaggio locale.

i permetto di dare un taglio squisitamente personale al titolo e al concetto a esso inerente, Il luogo dove i destini si incontrano, osservando che per me è relativamente recente l’incontro con l’opera artistica di Andrea Granchi e la sua variegata gamma di elementi d’interesse. Se d’una produzione concettualmente e tecnicamente così varia provo a dire in due parole qualcosa, scelgo un singolo elemento che mi incuriosisce e stuzzica. È la presenza molteplice, o il ritorno continuo, di una figura inclusa in molte opere di Granchi, una figura emblematica e quasi una firma: l’uomo allungato, silhouettato, filigranato, che appare, solido o trasparente, con il mantello lungo e un cappello con bordo largo, raffigurato dall’artista in varianti e versioni innumerevoli e più varie possibili: in cammino, passeggiando, seduto, da solo e in coppia, visto da tergo o di fianco, in direzione opposta o non; schierato in fila o ripetuto in fasce orizzontali di sei, sette, otto o più esemplari,che procedono in avanti come un plotone; o sparsi sull’intera superficie come il motivo ricorrente di un arazzo tessuto; e in tante altre forme e combinazioni ancora, spesso raffigurate proiettando o inseguendo un’ombra reale oppure geometrizzata, di forma più o meno probabile o surreale. Talora queste figure sembrano interrogarsi o esprimere perplessità riguardo a quel che vedono o su ciò da cui sono circondate. Sono realizzate con le più diverse tecniche, su carta, tela, mosaico, legno sagomato; disegnate a inchiostro, carbone o combinando questi elementi. Hanno sempre connotati di lineare eleganza, di destinazio-

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ne incerta, talora anche di purismo catartico. L’associazione immediata che la figura richiama e impone alla mente, è tipologica e rimanda a tutta una serie di personaggi cinematografici, quasi indeterminati e impersonali o fuori tempo, ma di aspetto simile e, almeno da mezzo secolo, presenti in un gran numero di film Western come eroi protagonisti o in ruoli secondari. Granchi li presenta in varianti infinite e, almeno per una parte, sembrano viaggiatori o meglio segni del viaggio e del percorso della vita dello stesso artista, guardiani e portatori delle sue molteplici esperienze vissute e sentite e dei suoi incontri con l’altro. È chiaro che l’emblema di un’opera che rappresenta l’anima, la vita e forse l’immagine del suo creatore, non può essere affidato a queste poche parole. Mi preme comunque accennare alla mia particolare affinità con le opere nelle quali la carta dei libri d’artista o in altre forme usata, svolge un ruolo di fondamentale importanza. Gli interventi su carta evocano effetti di particolare finezza, e sono uno degli elementi determinanti del fantasioso arcobaleno creativo di Granchi.

RAFFAELE DE ROSA A LUCCA ODIERNO PITTORE ED EPICO PALADINO DI PACE PER I 500 ANNI DELLE MURA 6 OTTOBRE - 8 DICEMBRE 2013 TEATRO DEL GIGLIO Piazza del Giglio 13/15 Lucca

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ucca ospita dal 6 ottobre all’8 dicembre, nel foyer del Teatro del Giglio, le tele dell’artista Raffaele De Rosa nelle quali si narrano le gesta del condottiero Annibale. La mostra, curata da Patrizia Baldi, si tiene nell’occasione del cinquecentenario della fondazione delle Mura.


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L’AVANGUARDIA RUSSA

UN MONDO IN TRASFORMAZIONE

27 SETTEMBRE 2013 19 GENNAIO 2014

13 OTTOBRE 2013 12 GENNAIO 2014

FIRENZE

RANCATE - SVIZZERA

IL RINASCIMENTO DA PARIGI A FIRENZE ANDATA E RITORNO 6 SETTEMBRE 2013 31 DICEMBRE 2013

Palazzo Strozzi Piazza Strozzi

Pinacoteca cantonale Giovanni Züst Piazza Santo Stefano

FIRENZE

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’esposizione studia l’importanza avuta dall’oriente euroasiatico sul Modernismo in Russia. Tradizione sciamanica, cultura indiana, semplicità rupestre scolpita nel materiale lapideo appartenente al neolitico, incisioni nipponiche, elaborate stampe cinesi, plasmano il nuovo sapere dal quale attingono ispirazione artisti e letterati nell’impero zarista ormai prossimo alla Rivoluzione del 1917. Un’attrazione fatale, nella quale l’interesse per l’esotico e la paura verso queste dimensioni inesplorate si fondono, animano costruttivamente la nuova produzione artistica russa, grazie alla quale l’arte locale acquista una dimensione eco europea. Léon Bakst, Alexandre Benois, Pavel Filonov, Natalia Goncarova, Wassily Kandinsky, Michail Larionov e Kazimir Malevic, appartengono al parterre fiorentino ospitato a supporto di un’epoca feconda e innovativa.

a mostra ripercorre la storia raccontata attraverso i dipinti realizzati dalla avanguardie lombardeticinesi operanti sul territorio tra il 1835 e 1915. Il vedutismo dedicato a Milano e Lugano, raggiunge livelli altissimi con Giovanni Migliara, Giuseppe Canella, Carlo Bossoli, la cui pittura è attenta ai mutamenti votati al progresso, ne è prova la descrizione minuziosa della frenetica vita milanese avvolgente le tele realizzate da Carcano, Franzoni, Feragutti Visconti, Mosè Bianchi, quasi in contrasto con i dipinti di denuncia sociale ideati con maestria da Luigi Rossi, Pietro Chiesa, Angelo Morbelli, dedicati al mondo rurale che, tuttavia, sono pervasi da una rappresentazione idealizzata della campagna. Le opere in esposizione risentono delle correnti relative alla Scapigliatura, Verismo, Divisionismo, all’ancora acerbo Pre-futurismo.

Villa Bardini, Costa San Giorgio 2

n gradito ritorno in quella Firenze, madre generatrice di quei capolavori, ora, appartenenti alla collezione Jacquesmart-André: Villa Bardini ospita i suoi illustri figli, che qui ebbero dimora prima del viaggio verso la Francia. Artistici manufatti creati da Botticelli, Mantegna, Paolo Uccello, Luca Signorelli, Alessio Baldovinetti, Donatello, Giambologna affollano le sale espositive grazie ai 40 tesori spazianti dalla pittura alla scultura, dalla ceramica ai bronzetti e, anche, al raffinato mobilio, nel quale trionfano intarsi, rilievi, pitture. La mostra pone l’accento sull’interesse avuto dai collezionisti europei e americani verso la produzione rinascimentale, innamorati della cultura italiana e in particolare fiorentina, appoggiandosi ad esperti antiquari come Stefano Bardini, affascinato dalla cultura artistica nata nella Città del Giglio.

I PAESAGGI DI CARRà 22 SETTEMBRE 2013 - 19 GENNAIO 2014

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MENDRISIO - SVIZZERA

Museo d’Arte - Piazza San Giovanni

ogliere la sintesi ed esternarla attraverso la pittura rappresenta la peculiarità caratterizzante i famosi paesaggi dipinti dal maestro, nei quali la sperimentazione coinvolge impressionismo, onirico, realismo, surrealismo: le sale museali ospitano alcuni prestigiosi prestiti come I Nuotatori, Estate, I Contadini della Versilia, tematiche molto care all’artista. Provenienti dall’Archivio Carrà, dal MART, dal Gabinetto Vieusseux, l’esposizione vanta un’altra importante sezione dedicata all’operato dell’artista nel campo figurativo, in particolare la sua produzione teorica ma, anche, quella celebrante il settore pubblicitario, del quale esiste una ricchissima documentazione. La mostra trova degna conclusione nella scuola ticinese che, dal 1920 al 1950, prese Carrà a modello in quanto sinonimo di cambiamento verso il moderno.

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DA DONATELLO A LIPPI 13 SETTEMBRE 2013 13 GENNAIO 2014 PRATO Palazzo Pretorio Piazza del Comune

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itorno in pompa magna per alcune importanti opere rinascimentali create a Prato, fucina prolifica di capolavori conosciuti nel mondo. Palazzo Pretorio accoglie prestiti eccezionali provenienti da istituzioni

ANTONELLO DA MESSINA 13 SETTEMBRE 2013 13 GENNAIO 2014 ROVERETO (TN) Mart Corso Angelo Bettini 43

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agnifica immersione nel Quattrocento attraverso l’operato del maestro, la mostra ne studia la collocazione cronologica dei dipinti, il raffronto con i coetanei ma, soprattutto, la poesia senza tempo plasmante le sue creazioni, sbalor-

italiane e straniere, tra i quali si annovera una splendida pala d’altare, proveniente da Budapest, realizzata da Fra’ Diamante, e l’Assunta creata da Zanobi Strozzi, prestata da Dublino. Ovviamente i “gioielli di famiglia”, ancora appartenenti al patrimonio artistico cittadino, sfoggiano vanitosamente la delicata bellezza che li avvolge, basti menzionare Donatello con la sua tenera Madonna col Bambino fra due Angeli, del quale Prato conserva l’elaborato pulpito collocato all’esterno del Duomo, sorretto dal prezioso capitello bronzeo del Michelozzo, Paolo Uccello insieme alla sua produzione ideata tra gli anni venti e trenta del XV secolo, Filippo e Filippino Lippi (dall’estero, è arrivato il Tondo Bartolini), maestri indiscussi nel Panorama artistico internazionale, ben rappresentati presso la sede espositiva grazie alle eccezionali tele ritraenti la Vergine, Santi, personaggi vari. L’evento coinvolge l’intera città, in particolare il Duomo e il culto per la Sacra Cintola, con i famosissimi affreschi ideati dai citato Filippo Lippi e Paolo Uccello, ma i tesori custoditi presso l’edificio sacro sono innumerevoli, tutti sotto vostri…. occhi.

ditivamente atta a cogliere la personalità recondita insita nel soggetto dipinto. Grazie ad Antonello, luce, atmosfera, dettaglio, caratteristiche care alla pittura fiamminga, si fondono delicatamente con il pensiero artistico italiano dominato dalla spazialità, interpretata, in modo razionale e monumentale, attraverso l’utilizzo della volumetria e della prospettiva. Questa rivoluzione influenza le scuole pittoriche frequentate dal pittore, in particolare quella veneta, dove domina una connotazione tonale decisamente umana. Istituzioni italiane e straniere hanno temporaneamente privato i propri spazi di opere destinate all’importante esposizione, non a caso la Madonna Benson, Ritratto d’Uomo, Salvator Mundi, lasciano per la prima volta i rispettivi musei. L’attualità del genio messinese è riconosciuta dal mondo accademico, non a caso il Mart ha pensato bene di creare una mostra parallela dedicata alla pittura contemporanea, emblematicamente denominata L’Altro Ritratto, nella quale il linguaggio artistico contemporaneo dialoga con l’illustre “Avo”, si confronta, rimarca le differenze maturate all’interno della lezione artistica italiana.

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ZURBARáN 14 SETTEMBRE 2013 6 GENNAIO 2014 FERRARA Palazzo dei Diamanti Corso Ercole I d’Este 21

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urbarán appartiene a una casta privilegiata, quella che ha reso immortale la pittura spagnola nel XVII secolo grazie all’invenzione di un naturalismo delicato, dove il pensiero cristiano si fonde con la

FILIPPO DE PISIS EN VOYAGE 13 SETTEMBRE 8 DICEMBRE 2013 MAMIANO DI TRAVERSETOLO (PR) Fondazione Magnani Rocca

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a mostra racconta l’evoluzione personale del maestro attraverso i luoghi, gli abitanti, la natura che li accoglie, frequentati durante il suo intenso girovagare in Italia ed Europa. Roma, Parigi, Londra, Mi-

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quotidianità, raccontato attraverso apparati scenografici innovativi, intrisi dalla purezza personificante l’essenzialità, plasmati dalla poetica. La mostra ripercorre la sua evoluzione artistica attraverso i numerosi prestiti, provenienti da prestigiose istituzioni, basti menzionare La Visione di San Pietro Nolasco o San Francesco d’Assisi nella sua tomba, dove regna il gioco luci-ombre decisamente caravaggesco. Il virtuosismo rivoluzionario plasmante le tele dedicate ai Santi, è presente in esposizione con Santa Casilda, Beniamino, Sant’Orsula, mentre il raffinato rinnovamento formale domina i dipinti dedicati alle nature morte (Una tazza d’acqua e una rosa) e ai temi allegorici (Agnus Dei), la cui purezza delle forme viene esaltata dalla luce. Ridenti paesaggi ma, anche, ambientazioni domestiche dominano i dipinti dedicati alla Vergine Maria, capaci di trasmettere intimità, candore, estasi, silenziosa religiosità. La mostra trova degno apice nel Cristo Crocifisso con un Pittore, mirabile esempio artistico dedicato al rapporto tra uano e divino.

lano, Venezia, ispirano De Pisis per l’importanza culturale accumulata nei secoli, l’intensa attività prodotta dalle molteplici correnti artistiche presso questi centri, gli importanti mutamenti sociali, per l’appunto, maturati presso queste celebri capitali del vecchio continente, non a caso la sua indole cosmopolita rafforza una pittura intellettuale-moderna, nella quale la forza espressiva trova linfa vitale. Se i grandi centri urbani contribuiscono alla scoperta, alla maturazione, alla pittura quale mezzo espressivo, alla cromia, al perfezionamento dei segni, Cortina d’Ampezzo, la natia Ferrara, l’Adriatico, l’Appennino Tosco-Emiliano influenzano il rapporto simbiotico con la natura e un trasporto verso una dimensione metafisico-letteraria. I suoi paesaggi urbani, le nature morte, i nudi maschili esprimono una vitalità mascherante una pena di tipo esistenziale, che si manifesta attraverso l’inquietudine e il distacco dal mondo, come dimostrano Natura morta con le uova, Quai de la Tournelle, Marinaio francese, La strada di Londra, La casa di Newton, le opere del periodo romano, preziosità presenti in mostra.


WORK IN PROGREsS ALESSANDRO SQUILLONI 26 SETTEMBRE 26 OTTOBRE 2013 SANTA CROCE SUll’ARNO Centro Polivalente di Villa Pacchiani Piazza Pier Paolo Pasolini

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rganizzata dall’Assessorato alle Politiche e Istituzioni Culturali del Comune di Santa Croce sull’Arno, si tiene presso il Centro Polivalente di Villa Pacchiani la mostra fotografica di Alessandro Squilloni Work

LEOPOLDO TERRENI LA CERTEZZA DEL DUBBIO 14 SETTEMBRE 26 OTTOBRE 2013 PONTEDERA Centro per l’Arte Otello Cirri Via della Stazione Vecchia 6

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a certezza del dubbio, come recita il titolo della mostra, è espressione pertinente alla personalità e all’abito mentale di Leopoldo Terreni, artista dalla vita instabile, per non dirla irregolare. Se non “maledetta”, almeno

in progress. L’iniziativa rientra nel progetto di valorizzazione del centro espositivo santacrocese, aperto a tutti i linguaggi e le forme espressive dell’arte, quale luogo di incontro per la crescita e l’approfondimento culturale del territorio santacrocese, e non solo. Le opere fotografiche di Alessandro Squilloni sono presenti in molti musei: The Museum of Modern Art di New York, Centre Georges Pompidou di Parigi, per citare i più famosi. Squilloni ha esposto in numerose gallerie e in luoghi storici e istituzionali molto importanti: a Saint-Paul de Vence, centro particolarmente caro a importanti artisti del Novecento (Chagall, Picasso, Mirò); nella Pinacoteca della Certosa di Firenze; a Torino nel Castello del Valentino. Si sono interessate del suo lavoro tutte le più prestigiose testate giornalistiche di fotografia. La rivista svedese Forum Hasselblad ha pubblicato le sue immagini e nello stesso tempo l’autore è stato selezionato per una proiezione in multivisione itinerante in tutto il mondo. Ha collaborato spesso con Gianna Ciao Pointer, realizzando a “quattro mani” molti lavori.

sottoposta a imprevedibili cambiamenti di rotta, certo non omologate e rilassanti. Si mette in discussione l’uomo, la sua posizione e relazione rispetto alla società con la sua retorica istituzionale. La visione della realtà di Terreni potremmo dirla scettica e venata di ironia. Lo rivelano i dipinti e le più rare strutture scultoree ora esposti al Centro Cirri. Sono opere costruite con una puntualità e una pulizia delle parti che si attribuirebbero a una mente ordinatrice razionale. Vi domina la linea, che compone partiture diremmo tassellate con le sue griglie e sviluppi variamente geometrici. La linea definisce i profili, le sagome di strutture e figure sintetiche che rimandano alla vita di oggi, in immagini da cartoons di grande eleganza decorativa alle quali presiede protagonista la figuretta/origami di una persona anonima che sta per ognuno di noi. Ma l’ordine è uno stato raggiunto con complicatissimi telai lineari. È un equilibrio instabile, una situazione di crisi che potrebbe scompaginarsi appena se ne mettano in dubbio, ironicamente e come raccontando una favola al modo di Terreni, la logica e la congruità. Nicola Micieli

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STORIA

San Miniato

Bonaparte lo zio canonico e il santo cappuccino di famiglia Napoleone, dopo la sua spedizione a Livorno, si portò a Firenze, dormì a San-Miniato presso un vecchio prete dei Buonaparte... (memoriale di Sant’Elena lasciato dal Conte de Lascases, ristampa del 1822-1824. Pag. 149).“Fui verso sera a San Miniato. Lì ci avevo un vecchio canonico mio parente...”(mémoires du docteur F. Antonmarchi, sur les derniers moments de Napoléon, 1825. Pag. 135)

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opo aver occupato Livorno e chiuso il porto alla flotta inglese, il generale Buonaparte andò a trovare a Firenze il granduca di Toscana Ferdinando, il solo fra tutti i principi d’Europa, che ave-

va tenuto fede ai suoi impegni verso la Repubblica. In testimonianza di stima e di confidenza, egli vi andò senza scorta con il suo Stato-Maggiore. Gli furono mostrate le insegne dei Buonaparte scolpite sulla porta di un vecchio palazzo. Egli sapeva che un ramo della sua famiglia un tempo si era esteso a Firenze e che ne restava ancora un ultimo rampollo. C’era a San Miniato un canonico di ottant’anni. Nonostante gli impegni di cui era gravato gli premeva di andarlo a visitare. I sentimenti naturali erano molto forti in Napoleone Buonaparte. Nella vigilia della sua partenza, alla sera, egli si recò con alcuni dei suoi ufficiali a San

Miniato, di cui la collina, coronata di muraglie e di torri si eleva ad una mezza lega a sud di Firenze. Il vecchio canonico Buonaparte accolse con nobile amenità il suo giovane nipote e i francesi con cui era accompagnato. C’erano Berthier, Junot, il Commissario in capo Chauvet e il luogotenente Thézard. Offrì loro un pranzo all’italiana nel quale non mancarono né le gru di Peretola, né il maialino di latte profumato di aromi, né i migliori vini della Toscana, di Napoli e della Sicilia. Lui stesso brindò alle loro armi Repubblicane come Bruto, essi brindarono alla patria ed alla libertà. L’ospite si accordò con loro. Poi volgendosi verso il generale

Traduzione di Luciano Marrucci

L’incontro a San Miniato di Napoleone, impegnato nella presa di Livorno, e l’anziano zio, il canonico Filippo Buonaparte, nel giugno del 1796. Il dipinto di Egisto Sarri (1837-1901) figura nel Palazzo Formichini, sede della Cassa di Risparmio di San Miniato.

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Palazzo Bonaparte a San Miniato Targa posta sulla facciata del Palazzo Bonaparte a San Miniato

che era piazzato alla sua destra: – Mio nipote, gli disse, non siete curioso di riguardare l’albero genealogico dipinto sul muro di questa sala? Vedreste senza dispiacere che noi discendiamo dai Cadolingi lombardi che dal secolo X al secolo XII si onorarono per la loro fedeltà agli imperatori alemanni. Da essi discesero i Buonaparte di Treviso e i Buonaparte di Firenze. Quest’ultimi sono molto più illustri. Gli ufficiali cominciarono a borbottare e a ridere. Chauvet, parlando sottovoce con Junot, non era affatto sicuro che Napoleone gradisse di avere nella storia della sua famiglia dei servi dell’Aquila Bicipite. E il luogotenente Thézard era pronto a giurare che il generale doveva la sua luce a dei buoni sanculotti. Intanto, il canonico Buonaparte vantava con insistenza l’eccellenza della sua casa. – Caro nipote, continuò il vegliardo, i nostri antenati di Firenze meritavano davvero il loro nome. Essi furono del “bon partito” e difesero sempre la Chiesa. A queste parole che il buon uomo aveva pronunciato con una voce alta e chiara, il generale fino a quel momento distratto e ascoltando appena, alzò la testa pallida e magra tagliata sull’antico. E col suo sguardo scintillante bloccò la parola sulle labbra del vegliardo. – Caro zio, gli disse, lasciamo queste noioserie e non sottraiamo ai topi

della vostra soffitta delle pergamene ammuffite. Aggiunse con voce metallica: La mia sola nobiltà sta nelle mie azioni. Essa data dal tredici mese vendemmiale dell’anno IV quando fulminai sui gradini di San Rocco le guarnigioni realiste. Beviamo alla Repubblica! È la freccia d’Evandro che non ricade a terra e diventa una stella. Gli ufficiali risposero con una entusiastica acclamazione. Lo stesso Berthier si sentì in quel momento repubblicano e patriota. Junot era sicuro che Napoleone non avesse bisogno di antenati e gli bastava sapere di essere stato fatto caporale dai suoi soldati a Lodi. Si bevve del vino che aveva il gusto secco della pietra focaia e l’odore della polvere. Ne bevvero abbondantemente. Il luogotenente Thèzard era ormai fuori dall’idea di nascondere il suo pensiero. Fiero delle ferite e dei baci di cui era stato coperto durante questa eroica e gioiosa campagna, annunciò senza giri di parole al buon canonico che, sotto la guida di Buonaparte i francesi faranno il giro del mondo, rovesceranno dappertutto troni e altari, facendo fare dei figli alle fanciulle e trafiggendo i fanatici. Il vecchio prete, sempre sorridendo, rispose che lui abbandonava volentieri alla loro bella furia, non certo le giovani fanciulle che raccomandava di trattare con riguardo, ma quei fanatici grandi nemici della Santa Chiesa. Junot gli assicurò di trattare favorevolmente le religiose che aveva avuto a suo servizio, trovando in loro un cuore tenero e una pelle chiara. […] Non ci sono, disse Berthier, in Italia delle femmine di buona società a cui possiate offrire i vostri servizi nelle feste sotto i mantelli veneziani, così favorevoli agli intrighi? Non è vero che Pietra Grua Mariani, madame Lamberte, madame Monti, madame Gherardi da Brescia sono belle e galanti? Nel momento in cui nominava queste dame italiane, il suo pensiero andava alla principessa Visconti che, non avendo potuto sedurre Buonaparte, si era concessa al suo capo di stato maggiore e l’amava con molle fuochezza, con una studiata sensualità di cui il debole Berthier restava turbato a vita. – Ed io, disse il luogotenente Thézard, non dimenticherò mai una piccola venditrice di cocomeri che sui gradini del Duomo... Il generale, impazientito, si alzò. Restavano appena tre ore prima della partenza. Dovevano partire al primo mattino del giorno dopo.

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– Caro parente, non vi preoccupate per il nostro dormire, disse al canonico. Noi siamo dei soldati. Ci basta un fastello di paglia! Ma il generoso ospite aveva fatto sistemare dei letti. La sua casa nuda e senza ornamenti, era vasta. Egli condusse i francesi ognuno nella sua stanza che era loro destinata e dette loro una buonanotte. Solo nella sua stanza, Buonaparte gettò la spada e la giubba in un angolo e poi scrisse un biglietto a Giuseppina, venti righe poco leggibili, dove gridò il suo temperamento violento e controllato. Poi dopo aver piegato il foglio scacciò bruscamente l’immagine di questa donna, come si chiude un cassetto. Poi dispiegò una pianta di Mantova e scelse un punto sul quale egli avrebbe piazzato l’artiglieria. Era ancora intento nei suoi calcoli, quando sentì bussare alla porta. Credette che fosse Berthier. Era il canonico che veniva a chiedergli un momento di ascolto. Portava sotto il braccio due o tre fascicoli ricoperti di pergamena. Il generale guardò quelle carte con una certa derisione. Era sicuro che fosse la genealogia di Buonaparte e non voleva che sorgesse una inesauribile conversazione. Tuttavia non lasciò apparire alcuna impazienza. Lui non andava in collera se non quando lo voleva espressamente. Ora non aveva alcuna voglia di dispiacere al suo buon parente; al contrario, desiderava essere gentile con lui. E, per di più, non era contrario a conoscere tutta la nobiltà della sua razza. Mentre i suoi ufficiali giacobini non erano più presenti per prendersene gioco o per alimentare dei sospetti. Pregò il canonico di sedersi. Quello prese una sedia, pose i suoi fascicoli sulla tavola e disse: – Caro nipote, io avevo cominciato durante la cena a parlarvi dei Buonaparte di Firenze; ma compresi per ciò che mi avete fatto capire, che quello non era il luogo per parlare di questa cosa. Io mi sono taciuto, riservando per questo momento qui ciò che era essenziale. Io vi prego, caro parente, di ascoltarmi con attenzione.


La branca toscana della nostra famiglia produsse degli uomini insigni, tra i quali conviene nominare Jacopo Buonaparte, il quale è stato testimone del sacco di Roma nel 1527 e fece una relazione di questo evento. E Niccolò, autore di una commedia intitolata “La vedova” che qualcuno vanta come opera di un altro Terenzio. Tuttavia non è di questi lustri antenati che voglio parlarti, sibbene di un terzo che li eclissa in gloria come il sole sbiadisce le stelle. Dovete sapere che la nostra famiglia annovera un beato tra i suoi membri, Fra Bonaventura, discepolo riformato di San Francesco, che nell’anno 1593 morì in odore di santità. Nel pronunciare questo nome il vegliardo s’inchinò. Poi riprese con un calore che non ci si sarebbe atteso né dalla sua età e né da i suoi modi indulgenti. Fra Bonaventura! Ah! Caro parente, è a lui e a questo buon padre che voi dovete il successo delle vostre armi. Egli era vicino a voi, non ne dovete dubitare, quando folgoraste, come avete detto a cena, i nemici della vostra parte sui gradini di San Rocco. Questo cappuccino vi ha condotto in mezzo alle battaglie, state sicuro che senza di lui voi non avreste avuto successo né aMontenotte, né a Millesimo e né a Lodi. I passi della sua protezione son troppo eclatanti per non essere visti ed io riconosco nei vostri successi un miracolo del buon frate Bonaventura ma ciò che qui importa sapere, caro parente, è che quel sant’uomo aveva le sue intenzioni quando dandovi un vantaggio sullo stesso Beulieu vi ha menato di vittoria in vittoria fino a questa antica dimora dove voi riposate, questa notte, sotto la benedizione di un vecchio. Io sono precisamente qui per rivelarvi le sue intenzioni. Fra Bonaventura voleva che voi foste istruito sui suoi meriti, che voi conosceste i suoi digiuni, le sue austerità e i silenzi di una intera annata ai quali egli si condannò. Egli voleva farvi toccare il suo giudizio e la sua corda, e i suoi ginocchi così incalliti ai gradini dell’altare, per cui camminava contorto come una Z. Ed è per questa finalità che egli vi ha portato in Italia dove voi avete l’occasione di rendergli servizio per servizio. Perché, lo dovete sapere, caro parente, se questo cappuccino vi ha molto aiutato, dalla vostra parte voi potete essergli veramente utile. A queste parole il canonico pose le mani su i grossi fascicoli che giacevano sulla tavola e respirò lungamente. Buonaparte attese senza dire niente

il seguito di questo discorso che lo interessava. Non c’era uomo più distraibile. Dopo aver respirato, il vegliardo riprese la parola: – Sì, caro parente, voi potete essere molto utile al buon fra Bonaventura ed in questo caso egli ha bisogno di voi. Beatificato da più di lunghi anni, egli attende ancora di essere inserito nel calendario. Languisce, il buon fra Bonaventura. – E che posso fare io, povero canonico di San Miniato per procurargli l’onore che gli è dovuto? La sua inscrizione richiede delle spese che oltrepassano le mie possibilità e le risorse del Vescovo! Povero canonico! Povero Vescovo! Povero Duca di Toscana! Povera Italia! Voi, caro parente, chiedete al Papa che riconosca fra Bonaventura. Egli l’accorderà. Sua Santità, per riguardo verso di voi, non si rifiuterà di mettere un santo in più nel calendario. Un grande onore convergerà su di voi e sulla vostra famiglia, e la protezione del buon cappuccino non vi verrà mai a mancare! Ignorate la gioia di avere un santo in questa famiglia? E il canonico, mostrando i fascicoli delle pergamene, pregò insistentemente il Generale di metterli nella sua valigia. Questi contenevano la memoria sulla canonizzazione del fra Bonaventura con le pezze d’appoggio. – Promettetemi, aggiunse, che vi occuperete di questa cosa, la più grande che possa interessarci. Buonaparte contenne la sua ilarità. – Io sono piazzato male, disse, per intraprendere un processo di canonizzazione! Voi ignorate che la Repubblica francese sta richiedendo alla corte di Roma la riparazione dovuta per la morte dell’ambasciatore Bassville, vilmente assassinato. Il canonico si ritrasse. – Corpo di Bacco! La curia di Roma farà le sue scuse, caro parente, essa verrà incontro a tutte le riparazioni dovute ed il nostro cappuccino sarà messo in calendario. – Le negoziazioni non vengono svolte in tempi rapidi, replicò il Generale repubblicano. Bisogna ancora che la curia romana riconosca la costituzione civile del clero francese e che rompa con le sue mani l’Inquisizione, che affligge l’umanità e usurpa il diritto degli Stati. Il vegliardo sorrise. – Mio caro figliolo Napoleone, il papa sa che bisogna dare per ricevere. Cede a proposito, egli vi attende. È durevole e pacifico. Buonaparte rimase a pensare, come

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se delle nuove idee venissero a fissarsi nella sua possente mente. Poi tutto d’un colpo: – Voi non conoscete lo spirito del secolo, c’è una forte irreligiosità in Francia. L’empietà vi ha preso campo. Voi ignorate il progresso delle idee di Montesquie, di Raynal e di Rousseau. Il culto è abolito, si è perduto il rispetto, voi ve ne siete accorto dagli interventi scandalosi fatti da i miei ufficiali alla vostra tavola. Il buon canonico scosse la testa. – Oh! Questi amabili giovani sono superficiali, dissipati, storditi! Questo per loro passerà, tra dieci anni essi correranno meno dietro alle ragazze ed andranno a messa. Il carnevale dura pochi giorni ed anche quello della vostra Rivoluzione francese non durerà per lungo tempo. La Chiesa è eterna. Buonaparte confessò che lui stesso era troppo poco religioso per intromettersi in un affare del tutto ecclesiastico. Allora il canonico lo guardò negli occhi e gli disse: – Mio ragazzo, io conosco gli uomini. Io vi conosco, voi non siete un filosofo, occupatevi del beato padre Buonaventura. Egli vi renderà il bene che avrete fatto a lui. Quanto a me, io son troppo vecchio per vedere il successo di questa grande impresa, io presto morirò lasciandola a voi nelle vostre mani, io morirò tranquillo. E soprattutto non dimenticate mai, mio parente, che tutto il potere viene da Dio attraverso la mediazione dei suoi ministri. Si alzò in piedi, alzò le braccia per benedire il suo giovane nipote e se ne andò. Restato solo, Buonaparte sfogliò la voluminosa memoria alla luce torbida della candela; pensò alla potenza della Chiesa e disse tra sé che l’istituzione del papato era più durevole della Costituzione dell’anno III. Qualcuno bussò alla porta, era Berthier che veniva ad avvertire il Generale che tutto era pronto per la partenza. Da Le puits de Sainte Claire, Anatole France, 1895 Il canonico Filippo Buonaparte morì il 24 dicembre 1799 all’età di settantasette anni. Fu sepolto nella chiesa di santa Lucia, presso San Miniato di cui godeva il giuspatronato. La sua tomba, al centro della chiesa, fu sconquassata dalle macerie in seguito al crollo del tetto avvenuto nel 1944 a causa di un bombardamento americano durante la battaglia di Calenzano.



STORIA

Lodovico Cardi È davvero nato a Cigoli?

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uò sembrare paradossale porsi la domanda sul luogo di nascita di un pittore che prende il nome proprio dal borgo natio. Nell’anniversario dei 400 anni dalla scomparsa di Lodovico Cardi, avvenuta a Roma l’8 giugno 1613, il Comune di San Miniato ha istituito un comitato per i festeggiamenti e sono in corso diversi eventi culturali per rinverdire l’interesse verso la pittura dell’illustre concittadino. Ma il luogo esatto di nascita del Cigoli non è noto. Sappiamo che nacque nel Castelvecchio di Cigoli il 21 settembre 1559 da Giovanni Battista Cardi e da Ginevra Del Mazza, ma approfondite ricerche archivistiche di Anna Matteoli, pubblicate nella sua ampia monografia del 1980, condussero soltanto alla conclusione che la villa detta “Castelvecchio” dovrebbe essere passata dai Cardi ad altri proprietari all’epoca del trasferimento della famiglia a Empoli (1568-1570) e che successivi proprietari della villa furono i Malaspina, i Marescotti e i Grifoni. Nel ‘700 i Cardi, denominati Cardi-Stefani per aver ereditato i beni e il cognome degli Stefani (antichissima famiglia samminiatese), rientrarono in possesso di Castelvecchio,

che passò successivamente ai pisani Venerosi-Pesciolini, ai samminiatesi Conti e, sul finire del XIX secolo, a Giorgio Sonnino, (fratello del più famoso Sidney), che fu sindaco di San Miniato dal 1876 al 1882. La Matteoli non effettuò ricerche urbanistiche e non trasse conclusioni definitive. Dall’attuale situazione urbanistica si intravede, invece, una possibile soluzione al problema. La vecchia costruzione in angolo tra via Giuseppe Gori e Via Tosco-Romagnola Est possiede un’ampia corte, delimitata da mura verosimilmente castellane, e, nella memoria dell’attuale proprietario, comprendeva all’angolo una serie di lavatoi, prospicienti una ex-cappella religiosa. La costruzione era sede di una scuola materna, gestita da suore. In corrispondenza della vecchia cappella, sulla parete visibile dall’interno della corte, un antico portale in pietra riporta l’iscrizione «Filippo di Gio di Gio Dell’Antella di di Giovanni E 1622». Di potente famiglia fiorentina, schierata dalla parte dei Medici, Filippo Dell’Antella nacque da Giovanni Dell’Antella e da Fiammetta Pandolfini, ricoprendo un ruolo di primo piano tra i funzionari del governo mediceo. La sua volontà di erigere la cappella di Castelvecchio, testimoniata dall’iscrizione sul detto portale, fa ipotizzare un preciso interesse da parte dei Dell’Antella nei confronti dei Cardi. Con quest’assunto collima perfettamente la notizia certa dei rapporti intercorsi tra suo figlio Niccolò Dell’Antella (15601630, nato dal matrimonio con Maria Capponi) e Giovanni Battista Cardi (1592-?), nipote del pittore per essere figlio del suo fratello Ulivieri e testimone-biografo della sua vita. Nel 1608 Niccolò Dell’Antella ottenne

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la nomina a senatore e poi divenne anche luogotenente del Granduca nell’Accademia del Disegno, dalla quale dipendevano gli architetti, i pittori e gli scultori. Nel 1702 Filippo Baldinucci ricorda a proposito della possibilità di stampare la biografia del Cigoli scritta dal nipote: «E non è da tacere come, fino l’anno 1628, doveasi dare quest’opera alle stampe: onde si vede essere stata, nel giorno 6 di Febbrajo dello stesso anno, rivista da Fra Clemente Egidj, Generale Inquisitore, e da un Canonico della Metropolitana per l’Arcivescovo di Firenze; e finalmente, nel giorno 15 dello stesso mese e anno, dal Senator Niccolò dell’An-

tella per lo Sereniss. Gran Duca». Quindi esiste documentazione storico-urbanistica della relazione tra i Dell’Antella e i Cardi, tendente a far supporre che Lodovico Cardi detto il Cigoli sia nato nell’attuale edificio in San Miniato tra Via Giuseppe Gori e Via Tosco-Romagnola Est, rappresentante verosimilmente un angolo strategico della villa di Castelvecchio, in quanto posto al confine con l’antica via Fiorentina, che garantiva i transiti tra Pisa e Firenze. La volontà di erigere una cappella in Castelvecchio da parte dei Dell’Antella non potrebbe essere altrimenti spiegata.

Fernardo Prattichizzo

In alto Il Cigoli, autoritratto Firenze, Galleria degli Uffizi Antico portale situato nella vecchia cappella della costruzione posta in angolo tra via G. Gori e via Tosco Romagnola Est a San Miniato

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CARTOLINE

Umbria Valnerina

terra verace!

Carlo Ciappina

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olosi, tenetevi forte! Norcia diventerà capitale indiscussa del prosciutto, rinomata specialità locale, dove presenzieranno le eccellenze prodotte in tutto il mondo. Dal 31 ottobre al 3 novembre, il visitatore scoprirà le invitanti differenze di questo nobile salume confezionato da piccoli produttori e consorzi blasonati, il tutto condito con degustazioni, seminari, workshop e, ovviamente, non mancheranno i vini umbri accompagnati da tanta musica. L’invitante rassegna trova un proseguo nella manifestazione dedicata ai sapori realizzati con lo zafferano di Cascia, ospitata nella nobile cittadina dal 1 al 4 novembre. Lo storico abitato riporterà agli antichi splendori questa secolare tradizione, coinvolgendo le attività ristoratrici, commerciali, le vie del centro, grazie a invitanti piatti tradizionali, pietanze reinterpretate, dolci squisitissimi, gelati, yougurt: una vera delizia per gli occhi ma, sopratutto, per la gola! Rimanendo in tema gastronomico, la Valnerina partorisce pregiati tartufi, richiesti anche fuori confine, funghi porcini, il famoso “turino”, mentre i suoi boschi brulicano di fragole, more, lamponi, asparagi selvatici, lupari: l’autunno non è la stagione adatta per la crescita di alcune eccellenze, ma le numerose aziende specializzate nella trasformazione e conservazione garantiscono al turista gustosi assaggi. Ah, dalla fioritura montana si ricava un ottimo miele, adoperato nella produzione dolciaria e non solo! Per il pesce, nessuna paura: il fiume Nera con i suoi affluenti ospitano la trota e il gambero, leccornie utilizzate per ricette decisamente invitanti, basti menzionare la famosa trota al tartufo, mentre gli amanti della cucina salutare trovano nel Farro di

Monteleone (il paese merita una visita grazie alla sua struttura urbanistica perfettamente conservata, con tante rilevanze di epoca medievale ed edifici sacri) e nelle lenticchie di Castelluccio, due supporti nutrienti, dietetici, squisiti. In autunno, una spedizione in Valnerina e dintorni non può limitarsi alle delizie enogastronomiche, sarebbe un vero peccato. Queste storiche terre offrono attrattive conosciutissime fuori dai confini nazionali, diventerebbe quasi superfluo osannarle, tuttavia consigliamo alcuni percorsi, soprattutto, adatti per coloro che amano il romanticismo emanato dal paesaggio. Si parte dal Monte Vettore che, insieme al circondario, costituiscono l’incantevole Parco dei Monti Sibillini, un paesaggio unico dove boschi lussureggianti, fauna rigogliosa, prati sterminati, contribuiscono a creare quella magia unica, già riconosciuta dagli antichi che, qui, indicavano la dimora della veneratissima Sibilla. Passeggiando per i suoi panoramici sentieri è facile avere incontri ravvicinati con l’aquila reale, il falco pellegrino, il lupo, oppure essere colpiti dalla Sindrome di Stendhal nell’ammirare i deliziosi borghi dal sapore antico saldamente arroccati sulle pendici o le austere abbazie dominate da un religioso silenzio. Rimanendo in territorio montano, Castelluccio rappresenta un’altra realtà umbra tutta da scoprire grazie al suo panoramico altipiano! Purtroppo giugno è alle spalle, altrimenti il turista avrebbe avuto modo di scoprire un miracolo della natura: il suo sterminato manto verde ricoperto da una miriade di fiori coloratissimi, che si dispongono, quasi, a costituire un prezioso tappeto persiano! Fate tesoro di questo suggerimento per il prossimo anno. Campi, importan-

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te nucleo appartenente al comune norcino, è parte integrante di questo idilliaco comprensorio, assolutamente da visitare per le sue rilevanze storicoartistiche, basti menzionare le tracce appartenenti alle mura medievali con la monumentale porta trecentesca, la storica chiesa dedicata a S. Andrea, la fonte annessa nella loggia pensile cinquecentesca, una miriade di edifici sacri davvero interessanti. A proposito, abbiamo menzionato l’evento dedicato al prosciutto, ospitato a Norcia, pertanto una visita all’abitato è assolutamente obbligatoria. La sua storia plurisecolare è testimoniata da monumenti unici, ma la nostra attenzione si rivolge a Piazza S. Benedetto, nato in questo magnifico luogo e fondatore dell’ordine monastico conosciuto in tutto il mondo. Dominato dalla pregevole statua dedicata al Santo, tale spazio racchiude il salotto buono cittadino, ne sono degna rappresentanza l’austero Palazzo Comunale, il Portico delle Misure, la Basilica dedicata al grande Frate, eretta nel XII secolo: un vero concentrato di arte e fede. Il suo territorio comunale riserva sorprese inaspettate sotto l’aspetto naturalistico, a tal riguardo si consiglia una capatina nella Val di Pescia o presso Le Marcite. Il tour trova degno proseguo a Vallo di Nera: piccolo gioiello medievale, il paese conserva chiese romaniche affrescate, stradine tortuose fiancheggiate da caratteristiche abitazioni d’epoca, spesso, ospitanti pitture dedicate al culto Mariano o al Santo Patrono, il tutto racchiuso nelle possenti mura munite di torri ed accessi monumentali, insomma un autentico gioiello apprezzatissimo da studiosi, amanti dell’arte, turisti, vacanzieri. Allora, cosa aspettate? La Valnerina vi aspetta!


Piazza San Benedetto (Norcia)

Tartufo

Giardino Palazzo Seneca

Zafferano

Chiesa San Giovanni Battista (Vallo di Nera)

Complesso monastico

Paesaggio montano

Sorgente Tullia


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CARTOLINE

Gitschberg Jochtal

Dolomiti Val d’Ultimo e dintorni Carmelo De Luca

Foto da archivio Dolomiti.it

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In autunno, le alpi trentine regalano una natura fantastica grazie ai colori che vestono la vegetazione alpestre, cangianti dal giallo al marrone perfettamente a pendant con l’ambiente circostante, arricchita dalle sempre verdi piante aghiformi. Questi splendidi tappeti proteggono cime rocciose, specchi d’acqua, paesini dal sapore antico, una fauna decisamente ricca, insomma un ambiente da fiaba che si tramuta in realtà presso il comprensorio montano dello Gitschberg Jochtal. Consigliato in questa stagione per lunghe passeggiate o escursioni, in inverno, l’arcigno rilievo propone due aree sciistiche con 16 impianti di risalita, 44 km di pista, snowpark, snowkite, pattinaggio, spazi attrezzati per bambini, rifugi dove gustare la cucina locale (i cosidetti locali Après Ski). Il suo circondario è un vero eden, basti menzionare Val Pusteria, Val di Valles, Valle Isarco e i loro caratteristici abitati, ne sono degna rappresentanza Rio di Pusteria, incantevole cittadina circondata da mura medievali a difesa di nobili palazzi, storici edifici mercantili, originali architetture private; nel suo territorio sorge la frazione di Maranza, soleggiata terrazza protetta dallo Gitschberg, adatta per praticare camminate, parapendio, trekking, mountain bike, mentre nella stagione invernale dominano lo sci, sci di fondo, slittino. Il borgo ospita una cabinovia collegata, attraverso la seggiovia, alla cima della celebre montagna con vista su tutto il circondario. E cosa dire di Spinga? Famosa per il suo orgoglio patriottico contro l’invasore napoleonico, l’abitato possiede una posizione privilegiata sugli ambienti naturali sottostanti, clima temperato nella bella stagione, natura incontaminata, quotidiano all’insegna della tranquillità. Per gli amanti dei manieri, da non perdere Rodengo

con il suo austero castello, custodente preziosi affreschi trecenteschi, prati sterminati, boschi lussureggianti, la famosa Alpe, delizia per gli escursionisti ma, soprattutto, per gli amanti dello sci, grazie alle piste superaccessoriate! Rimanendo in tema, anche Valles e Vandoies rappresentano la meta ideale per coloro che amano la natura e gli sport invernali godendosi panorami mozzafiato sulla vallata, ma l’abitato offre attrattive tutto l’anno grazie al suo interland decisamente ricco di campi, malghe, ghiacciai, aria salubre: da qui partono percorsi diretti verso la Malga Fane (fiabesco villaggio tutto in legno circondato da spazi verdi dove pascolano mucche e pecore), il rifugio Bressanone, l’alta Via di Fundres con i suoi caratteristici Masi (l’abitato urbano, dal quale trae origine il percorso, è famoso per l’attività artigianale, la gastronomia, l’architettura), il Picco della Croce, il Lago Selvaggio. Per informazioni si consiglia di visionare i siti www.gitschberg.com, www.dolomitisupersky.com, www.valleisarco.com. Dal Trentino Alto Adige non ci si distacca senza aver visitato la Val d’Ultimo. Attraversata dal torrente Valsura, il suo territorio si estende sino a Fontana Bianca e Lana, protettrici di una natura variegata dove dominano boschi fittissimi, spazi verdi, paesaggio rurale costellato dai Masi. Indicato in autunno per girovagare tra luoghi incontaminati fermi nel tempo come una cartolina d’epoca, il paesaggio ha una bellezza indescrivibile, ne è degna testimonianza Proves con le sue selve, le malghe, i pascoli, la chiesetta dedicata a S. Nicola, insomma un paesaggio bucolico tutto da scoprire. Due laghi artificiali fungono da baluardo alla vallata insieme alle vette appartenenti all’Ortles Sud-Orientale, una sorta di fortezza racchiudente caratteristici abi-

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tati alpini, ad iniziare da S. Pancrazio con il suo campanile in stile gotico, munito di orologio, e le sculture adornanti il portale. Per gli amanti della tranquillità, S. Valburga è l’ambiente ideale, tutto agghindato con percorsi naturalistici e punti ristoro dove consumare ottimo speck e pane casereccio, caratteristiche che l’accomunano a S. Gertrude, richiesta dai turisti per la vicinanza con il Parco dello Stelvio, i romantici laghetti, il panorama mozzafiato da ammirare presso il piazzale antistante la chiesa paesana. L’arte trova degna dimora presso S. Niccolò grazie al suo museo, le cui sale custodiscono gelosamente mobilio, sculture, vestiti, la trecentesca Parrocchiale, il Maso con dipinti misteriosi persino ai suoi abitanti, In questi luoghi regna una fauna prolifica, non a caso il turista potrà avere incontri ravvicinati con l’orso, l’aquila reale, il gallo cedrone. Lauregno è una miniera d’oro: ruscelli scroscianti interrompono il silenzio irreale regnante nelle foreste di abeti mentre, dagli spazi aperti, la visione delle Alpi Brenta e Maddalena riempiono il cuore. Rigogliose distese di larici abbelliscono S. Felice, una realtà dove la natura ma, anche, la mano umana sono state prodighe, generando la bellissima cascata, il Lago S. Maria, l’antica chiesa dedicata a S. Cristoforo, paesaggio alpestre con vista sulle Dolomiti e la Val d’Adige. Gli amanti del bello e i credenti non possono perdere Senale con il complesso architettonico dedicato al miracoloso simulacro della Madonna con il Bambino: un trionfo del gotico adornato da altari baroccheggianti. E in inverno? Parlare di neve in questi luoghi significa mirare all’eccellenza, qui troverete tutto: provare per credere! Maggiori informazioni le troverete su www.valdultimo.org e www.ultentaldeutschnonsberg.info.



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LO SCAFFALE DEL POETA

giuseppe

Vannicola 1877-1915 Paolo Pianigiani

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acque a Monte San Giorgio il 18 novembre 1877, da famiglia romana; studiò a Napoli, al Conservatorio, e gli rimase per sempre quello spirito scanzonato che l’aria di quella straordinaria città regala a chi la comprende a fondo. Così Papini ricorda l’amico, che conobbe durante le sue frequentazioni fiorentine, sia nei tempi belli che in quelli brutti: Giuseppe Vannicola, uomo peccante verso sé e altri, ha pagato con la morte le sue colpe. E forse l’aveva già pagate colla vita che fu, specie negli anni ultimi, tristissima, misera e travagliosa. E nessuno potrà fargli i conti addosso, né ora né mai, e chi gli ha voluto bene specialmente. Come me, ad esempio, che non l’ho conosciuto soltanto mal ridotta figura curva e verlainiana, cercante invano riposo e dimenticanza di città in città, di caffè in caffè, di casa in casa, ma anche lo vidi e l’amai nei giorni più belli, quando ancor dritto nella persona sperava ostinato in ideali di purezza e godeva dell’arte sua pienamente — cioè della musica, ch’era l’espressione più naturale della sua anima. Qui c’è tutta la sua vita, la parabola di un artista che nella musica cercò il suo mondo, per poi trovarlo nel bianco delle pagine di splendide edizioni a stampa. Si trasferì, com’era quasi d’obbligo allora per gli artisti, a Parigi; e rimase impigliato e protagonista in un famoso dipinto di Lionello Balestrieri, Beethoven. Vannicola vi è raffigurato mentre esegue la Sonata a Kreutzer; è questa la testimonianza più vera e significativa che rimane del suo

periodo francese e della sua virtuosità come violinista. Dopo l’esperienza in terra di Francia ha una crisi mistica, che lo spinge a rifugiarsi nell’abbazia di Montecassino, da dove però ben presto si trasferirà a Milano, dove spera in un ingaggio stabile alla Scala, e dove incontra Marinetti, iniziando a collaborare alla più bella rivista di letteratura dell’epoca, “Poesia”, diretta dal fondatore del Futurismo. Incontra l’amore della sua vita, la bellissima Olga de Lichnizki, raffinata nobildonna russa, ricca di fascino e di soldi. Che servirono, anzi furono indispensabili, nel 1904, quando la coppia si trasferì a Firenze e fondò la «Revue du Nord» (1904-1907); vi collaborano Papini, Prezzolini e Giovanni Amendola. Suoi testi compaiono in questo periodo anche su diverse pubblicazioni, tra le quali: «L’Alba», «Il Regno», «Leonardo», «Poesia», «La Voce», «Lacerba», «Il Mattino». Dopo l’esperienza fiorentina i due si trasferiscono a Roma, dove viene fondata la rivista “Prose”. Ma la separazione dalla compagna e l’insorgere di una terribile malattia, provocherà la discesa verso il basso, fra uso di alcool e indicibile povertà. Che però seppe affrontare sempre con dignità, e trovando in qualche amico che gli rimase fedele fino alla fine quel conforto che il mondo non seppe né volle più dargli. Cercando un clima più mite, e per stare comunque vicino a quell’ambiente un po’ dandy e un po’ bohemien che amava, si trasferisce infine a Capri, dove muore il 10 agosto 1915. Muore su uno scoglio, sul mare. Abbandonato da tutti, con il sole e illuminargli il volto e a riscal-

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dargli l’anima. Come muoiono gli eroi, o i santi. Le sue opere Trittico della Vergine (1901) Sonata Patetica (1904) De profundis clamavi ad te (1905) Da un velo (1905) Corde della grande lira (1906) Kundry (1907) Distacco (1908) Elsa l’abbandonata (1909) Arte d’eccezione (1911) Il veleno (uscito a Firenze, presso la casa editrice Baldoni & C. nel 1912 come primo numero della raccolta «Prose»).


Da De Profundis calmavi ad te (1905) Gettate lo scandaglio nel più profondo di voi. Inginocchiatevi sull’abisso e scrutate.... Ascoltate se lo scandaglio incontra il fondo... Silenzio! Misurate la gioia e il dolore di cui è capace il cuore dell’uomo. Ascoltate se lo scandaglio incontra il fondo.... Silenzio! Silenzio! Contate le attitudini conosciute e sconosciute della gioia e del dolore. Scrutate le capacità di gioia e di dolore. Ascoltate se lo scandaglio incontra

il fondo... Silenzio! Silenzio! Silenzio! Beethoven è l’uomo del silenzio. L’uomo che la parola può appena avvicinare; l’uomo che, avviluppato di silenzio, ispira e comanda il silenzio; l’uomo per cui il silenzio è atmosfera musicale. Le montagne s’alzano nel suo profondo su le montagne; le montagne gettano nel suo profondo un’ombra densa e vastissima; le montagne nel suo profondo fanno silenzio. Un silenzio che abbraccia tutto nelle sue profondità. Un silenzio che non determina, ma che riposa e comprende. Un silenzio che comprende nel suo riposo le musiche che hanno aperto al silenzio orizzonti nuovi, le musiche per cui il silenzio si solleva sul silenzio e le montagne su le montagne, in un Infinito più infinito, in un Silenzio più silenzioso.

entrano in scena Mirabella e Alina) Mirabella - Partiti, sono partiti! Alina, non lo vedrò più! Come sono infelice! È partito, non lo vedrò più! (Si lascia cadere sul sedile con la testa fra le mani nello stesso atteggiamento di Elsa). Alina - Piangi?... Povera amica! Lui era più bello e non mi ha nemmeno guardato! (Va sulla roccia a scrutare il fiume) Li vedo! Mirabella - (Alza vivamente la testa) Li vedi? dove sono? Alina - Sono già nella barca (Mirabella ricade abbandonata) Ecco che partono... Come palpitano le vele! Si direbbero le ali di un cigno, di un cigno meraviglioso...

Da Elsa l’abbandonata, testo teatrale (1909) L’ Autore - (Sorridendo). Sì, a fior di nervi... Una piccola malinconia delicata... La Caricatura - Come le tue migliori pagine... Allora, andiamocene! sento dei passi e non vorrei che fosse... (Trascinandolo). Andiamo, coraggio!... (Poco dopo che sono scomparsi

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Lionello Balestrieri Beethoven. Vannicola vi è raffigurato mentre esegue la Sonata a Kreutzer.


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RACCONTO

Senza il passato Graziano Bellini

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ove si trovava? Questo era il punto! Niente le era familiare, conosciuto, abituale. Solo i vestiti che indossava li sentiva “suoi”, il resto, tutto il resto che le stava girando intorno le era sconosciuto. All’improvviso si era ritrovata in quella realtà come se fosse provenuta dal niente. La cosa strana era che la mancanza di risposta sulla sua attuale localizzazione e sulla sua provenienza non la preoccupavano affatto. Helen si sentiva in uno stato di incosciente leggerezza e di lucida serenità. Come quelle sensazioni che abbiamo durante i sogni. La realtà di quel momento però era una serata in un luogo senza tempo. Il suo presente erano i rumori di una festa chiassosa e colorata. Forse un castello, forse un borgo antico, sicuramente un’aria che non la riportava ad esperienze vissute. Perché lei aveva vissuto, questo era certo! Ma non sapeva cosa aveva vissuto, anche se, come già rilevato nei primi momenti di coscienza di quella sera, questo vuoto non le procurava nessuna ansia, nessun

timore. Più che in un presente, Helen si sentiva dentro una dimensione. Gli occhi della gente non la incrociavano ma le loro bocche sorridenti incontravano i suoi occhi. Adesso tutti cantavano, ballavano, in un orgia di ritmi e inibizioni abbandonate. Lei assisteva divertita a questa rappresentazione dell’allegria e della gioia di vivere. La

parte e più lunghi dall’altra, con un taglio obliquo che proseguiva dai due lati. Aveva un leggero gilet verde militare su una maglietta bianca che le metteva in risalto un seno generoso, una carnagione chiara, lineamenti del viso delicati. Non sapeva dire se era bella di una bellezza certa. Di sicuro la trovava intrigante. I suoi movimen-

musica di una banda di strada, frenetica e assordante, era la migliore compagna di quelle visioni. Adesso anche lei ballava travolta dal fiume di umanità che la circondava. Si limitava a muovere le mani a tempo di musica perché il suo corpo seguiva da solo le ondulazioni ritmiche imposte dalla massa umana che si muoveva intorno a lei. Tutto era inebriante e sensuale. Mentre si abbandonava a questa danza quasi animalesca, dettata dalla grancassa e dai fiati della banda, per la prima volta incrociò lo sguardo di una persona. Era una ragazza molto particolare, con i capelli corti da una

ti erano sinuosi e lenti, quasi come se stesse seguendo una sua cadenza ritmica diversa da quella imposta dalla banda, ma sempre comunque a tempo. Quella ragazza era l’unica che non sorrideva in quel marasma, ma i suoi occhi fissavano Helen mentre la sua mente sembrava cercare il tempo dentro al suo corpo. Helen si rese conto di guardarla con la passione che avrebbe dedicato a un uomo. Questa riflessione la fece precipitare in una bolla di silenzio dove si concentrò sui suoi pensieri: se era rimasta sorpresa nel guardare una donna anziché un uomo con un sentimento conturban-

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te voleva dire che la consapevolezza di questo confronto veniva inconsciamente dal suo passato. Un passato che, in quell’attimo di passione, aveva svelato la propria inevitabile esistenza. Quindi la sua attrazione per una ragazza era per lei inconsueta secondo i canoni del suo misterioso passato ma questo non impediva, in quel momento, che quell’attrazione fosse decisamente forte cosi come si era rivelata. Quella ragazza le si avvicinò increspando un leggero e rassicurante sorriso sulle labbra. Quando le fu vicino le prese la mano e la invitò a seguirla. Helen sapeva che doveva farlo. Si lasciò guidare da quella sconosciuta nel mezzo alla folla. Per non perdere il passo e il contatto, le loro mani si stringevano sempre di più. Helen si sentiva stranamente al sicuro. Sentiva che quella ragazza non le era estranea, non era estranea al suo destino. La gente si affollava sempre di più in quella strada caotica, ora intorno a un mangiatore di fuoco, ora intorno a dei giocolieri, ora intorno a intrattenitori di ogni tipo. Quella ragazza sembrava avere in mente un luogo preciso da raggiungere ed Helen le stava dietro a fatica, a volte perché qualcuno faceva da ostacolo alle loro figure a volte perché Helen inciampava nella sua gonna troppo lunga. Per non perdere il contatto spesso Helen le stringeva la mano con entrambe le sue. Ogni tanto quella ragazza si girava per incrociare lo sguardo di Helen. Quando lo faceva il suo volto si illuminava con un sorriso sempre più dolce e la sua bellezza ne acquistava valore. Arrivati davanti all’androne di un palazzo signorile vi entrarono decise. Oltrepassarono un cancello aperto per metà e si ritrovarono all’interno di un giardino protetto interamente da quattro

mura. Li dentro, il rumore della strada non arrivava. Improvvisamente lo scenario era cambiato. Una musica funky in sottofondo dava armonia ad un balletto di ninfee sull’acqua; ragazze seminude che danzavano con movimenti leggeri e sinuosi all’interno di piccoli terrazzamenti colmi d’acqua e intorno ad essi. Le luci non erano più colorate e forti come lo erano sulla strada, erano di un delicato blu che rendeva l’atmosfera decisamente evanescente. Tutto sembrava sfuggevole in quel giardino. Solo le loro mani unite rappresenta-

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vano qualcosa di saldo. La ragazza si appoggiò al muro per assistere allo spettacolo mentre accolse fra le sue braccia il corpo di Helen che, continuando a guardare anche lei il balletto, appoggiò la sua schiena al seno di lei come se fosse il nido più accogliente dove rifugiarsi. Le braccia della ragazza le cingevano l’addome, Helen teneva le sue mani su quelle di lei. La ragazza avvicinò le labbra ai suoi capelli: «Io mi chiamo Helen», le sussurrò. Grazie a Letizia Grazzini Foto di Graziano Bellini


L

racconto

B

lettura per ragazzi

davvero

Matthew Licht

diFerro E

siste un gioco nel quale ti viene chiesto chi ti piacerebbe conoscere, se fosse possibile incontrare un protagonista della storia dell’umanità. Maestra Watley faceva spesso questo gioco con la sua classe di quinta elementare. Era un modo, spiegava, per poter capire e valutare le loro personalità in via di sviluppo. Sceglieva momenti strani per iniziare il gioco degli incontri storici, per prenderli alla sprovvista. Nel mezzo di un esame di matematica, per esempio, o quando erano pronti per la carica al refettorio. Affamati, erano costretti a ripassare l’elenco dei personaggi famosi che avrebbero voluto intervistare. Matt Ferguson sapeva che bisognava dire Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Marilyn Monroe o Babe Ruth, però diceva sempre che gli sarebbe piaciuto conoscere Braccio di Ferro. Questa sua risposta faceva ridere tutti. A parte Maestra Watley. Lei inevitabilmente si arrabbiava. «Dico sul serio, giovanotto. Quando ti deciderai a rispondere alla mie domande in modo più maturo?» Era difficile rispondere a quella domanda. Infatti Matt voleva davvero incontrare Braccio di Ferro. Non gliene importava nulla di conoscere uno stupido presidente o generale o stella del cinema o giocatore di hockey. Voleva stringere la mano gonfia che roteava balene, metteva KO il mostruoso Ork alato e alla fine stendeva sempre anche il perfido Bluto. Quelle mani, capaci della violenza più inaudita, poi offrivano mazzolini di fiori alla signorina Olivia e stringevano un ridicolo berrettino da marinaio al petto striminzito contenente un cuore colmo del rispetto e devozione che si addice ai gentiluomini.

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Jeff McCluskey, il migliore amico di Matt, disse, «Senti, imbecille... Braccio di Ferro è solo un personaggio dei fumetti. Facci un favore la prossima volta, e dille che vorresti conoscere John Kennedy. Insomma, chi se ne frega? Ci farà saltare l’ora di ricreazione in eterno, se continui a risponderle così.» «Ma Braccio di Ferro lo vorrei conoscere sul serio», disse Matt. «Beh, mi dispiace dirtelo, ma... Braccio di Ferro non lo conoscerai mai. Perché non è una persona vera, testa di rapa. È solo inchiostro su carta, o immagini in tivù.» «E allora? Jenny Fulbright non conoscerà mai Alessandro Magno. E tu probabilmente non ti troverai a pranzo con Nikola Tesla, anche se è vero che si è fatto teletrasportare su Venere anziché morire.» «D’accordo. Non ha alcun senso, questa storia. Però promettimi che dirai di voler giocare a dama con Cavallo Pazzo, la prossima volta che ci vuole fare la psicanalisi, OK?» «Va bene, va bene...» Nonostante la promessa, Matt Ferguson rispose Braccio di Ferro quando gli toccò di nuovo fare il concorrente al Favoloso Quiz sui Personaggi Celebri della Maestra Watley. Era più forte di lui. Era un Braccio di Ferro di troppo, per Maestra Watley. Non disse nulla. Non si arrabbiò. Si aggiustò gli occhialoni neri e scribacchiò sul suo taccuino. Telefonare genitori Matt Ferguson. Coordinare riunione con Professor Hipswitch, psicologo scolastico. «Stavolta hai chiuso, scemo», sussurrò Jeff McCluskey. «Ora verrai espulso. Te l’avevo detto». Matt aveva due giorni, prima del


fatidico incontro con il temuto psicologo. Gli sembrava che tutti lo guardassero strano, che gli sussurrassero dietro le spalle, e aveva ragione. I suoi genitori gli chiesero cosa c’era che non andava, se gli dava noia qualcosa. «Ehm, insomma, veramente è tutto a posto, credo.» Si vergognava di confessare che il guaio era successo perché avrebbe preferito conoscere Braccio di Ferro piuttosto che il presidente Nixon. La riunione si svolse dopo scuola. Il padre di Matt si mise una cravatta, cosa per lui insolita. Sua madre si vestì e si truccò da festa, ma le riunioni con lo psicologo scolastico non avevano nulla di festoso. Maestra Watley e il Professor Hipswitch erano sobri e seri, ma soprattutto bramosi di capire. Solo Matt aveva mantenuto il suo solito aspetto, e ciò lo rendeva ancora più apprensivo. Non riuscì a seguire la discussione. Venivano usate parole strane, tipo “dissociazioni”, “costrutti fantastico-realisti fuori registro”, “barriere alla socializzazione”. In testa, vide Braccio di Ferro circondato da giganti minacciosi, con due teste ciclopiche ciascuno, e niente spinaci inscatolati in vista, e niente Olivia. I giganti palleggiavano Braccio di Ferro come fosse un pupazzo, sopra una vasca piena di piranha e pesci-rasoio, quando Matt udì la Maestra Watley dire, «Siamo un po’ in pensiero per vostro figlio, ecco tutto». Poi tutt’attorno a lui vennero strette mani adulte. In macchina, sulla via di casa, Matt guardò un tramonto invernale. La cena quella sera era a base di polpettone e spinaci. Inutile dire che a Matt piacevano da morire, gli spinaci. Anche il polpettone non era male. Matt si rese conto che i suoi genitori

lo stavano osservando mentre lui e la sorella Kate mangiavano. «Dimmi una cosa, Matt», gli disse suo padre, proprio quando aveva la bocca piena di spinaci. «Sai distinguere tra persone vere e fumetti, vero?» Gulp. «Certo che sì.» «E sai anche che le cose che vedi in tivù non sono vere, vero?» «Certo che lo so.» «Allora perché insisti col dire alla maestra che vuoi conoscere Braccio di Ferro? Ci ha detto che non le sembra che tu la stia prendendo per i fondelli.» «Infatti non lo sto facendo. Lei ce lo chiede, e secondo me vuole che le rispondiamo sinceramente. Le dico la verità. Braccio di Ferro è il personaggio che vorrei conoscere, magari per fare quattro chiacchiere e mangiare un boccone insieme. Un piatto di spinaci, come stiamo mangiando ora. Jeff McCluskey dice che vorrebbe incontrare Mark Twain, o quella maestra astronauta che morì nell’esplosione dello Space Shuttle, perché sa che è quello che la Maestra Watley vuole sentire. E così fanno anche tutti gli altri. Sono solo più onesto, ecco tutto. Volete che mi inventi delle cose finte solo per far contenta Maestra Watley?» «Ehm... no. Ma capisci la differenza? Mark Twain era una persona vera. Anche quella povera donna astronauta. So che sono morti entrambi, ma...» Matt disse di capire la differenza. Per il dolce, c’era gelatina al lime. Troppo polpettone o troppi spinaci gli fecero avere incubi. O forse era colpa di quella ciotolona troppo piena di gelatina color veleno. In ogni caso, Matt Ferguson sognò di essere alla deriva in mezzo ad un mare burrascoso, di notte. (1) Tratto da Sognilandia (OTTO Luogo dell’arte)

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cinema

Venezia 70 Gianfranco Rosi vince l’Italia di

Andrea Cianferoni e Giampaolo Russo

Il Leone d’Oro al documentario sul Grande Raccordo Anulare. A Elena Cotta la Coppa Volpi per la miglior interpretazione.

Gianfranco Rosi

N

essun riconoscimento al cinema a stelle e strisce, due premi (e quelli più importanti) al cinema italiano. Si colloca tra questi due poli opposti il verdetto della giuria della 70esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia: Leone d’Oro per il miglior film a Gianfranco Rosi per Sacro GRA, Coppa Volpi per la migliore interpretazione a Elena Cotta in Via Castellana Bandiera di Emma Dante. Un verdetto atipico, quello della giuria presieduta da Bernardo Bertolucci, che sceglie di incoronare due prodotti da sempre ai margini del grande cinema: il cinema documentario (di Rosi) e la prova di un’attrice di teatro (la 82enne Cotta) protagonista della pellicola pur rimanendo muta per quasi tutta la durata del film. Scommessa vinta anche per il direttore della Mostra Alberto Barbera che, mettendo Sacro Gra in concorso, aveva rischiato di prendere una cantonata. «Grazie, grazie. Non mi aspettavo di arrivare a Venezia e ringrazio Barbera della fiducia. Tantomeno pensavo di vincere un premio così importante. Si è aperta una breccia: il documentario è cinema e d’ora in poi la parola non farà più paura», dice Rosi, più emozionato che mai mentre la sala esplode in un’ovazione. Forse liberatoria: tra tanti film cupissimi a base di violenze familiari, pedofilia, crisi economica e suicidi, rappresentano una boccata d’ossigeno le storie bizzarre, autentiche e umanissime dei personaggi che gravitano intorno alla superstrada romana. È lo stesso Bertolucci a spiegare le ragioni del verdetto: «Il Leone d’Oro è stato dato a Sacro Gra da tutti i giurati con grande entusiasmo», dice il maestro. «Non ricordo se ci sia sta-

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ta unanimità al primo voto ma non ricordo nemmeno che qualcuno abbia proposto un altro film». Perché l’opera di Rosi si è imposta sulle altre? «Volevo essere sorpreso e Sacro Gra è senz’altro sorprendente, girato con grande stile. Come suggerisce il titolo, il modo del regista di avvicinare gli spazi e i personaggi ha qualcosa di francescano, una purezza e una forza poetica che hanno incantato la giuria», ha concluso Bertolucci. Il documentario di Gianfranco Rosi, pur con numerosi inserti di fiction, è il racconto corale della vita di Roma: frutto di due anni di lavoro, il film è stato costruito dal regista girando e perdendosi per più di due anni con un mini-van sul Grande Raccordo Anulare di Roma. «Per scoprire – come afferma lui stesso – i mondi invisibili e i futuri possibili che questo luogo magico cela oltre il muro del suo frastuono continuo». Nel mosaico composto da Rosi compare di tutto, l’Italia di ieri e quella di oggi: intorno al GRA si aggirano un nobile piemontese e la figlia laureanda assegnatari di un monolocale in un moderno condominio ai bordi del Raccordo, un principe dei nostri giorni che con un sigaro in bocca fa ginnastica sul tetto del suo castello, assediato dalle palazzine della periferia informe a un’uscita della tangenziale. «Soltanto Bertolucci poteva premiare un film così» ha concluso Rosi ricevendo il Leone d’Oro dalle mani del regista. La giuria, presieduta da Bernardo Bertolucci, dopo aver visionato tutti i 20 film in concorso, ha deciso di assegnare il Leone d’Argento per la migliore regia al greco Alexandros Avranas per il film Miss Violence, che è valso a Themis Panou la Coppa


Volpi per la migliore interpretazione maschile. Il Gran Premio della Giuria è stato assegnato a Jiaoyou di Tsai Ming-liang, coproduzione tra Taipei cinese e Francia, mentre il favorito della vigilia, Philomena di Stephen Frears, è stato premiato per la miglior sceneggiatura firmata da Steve Coogan e Jeff Pope. Tra le iniziative della Mostra di Venezia di quest’anno grande successo ha riscosso la presenza di Toscana Castelfalfi Resort che, grazie alla sua pubblic relation manager Cecilia Sandroni, ha portato ogni sera sulle tavole della Villa degli Autori al Lido di Venezia centinaia di scatoline personalizzate contenenti i celebri cantucci toscani appositamente preparati dallo chef Francesco Ferretti. Una delle scatole della fortuna conteneva il premio in palio (un esclusivo weekend nella tenuta) ed è stato proprio Riccardo Scamarcio a “pescare” la fortuna. Il Ceo di Toscana Resort Castelfalfi, Stefan Neuhaus ha voluto salutare e festeggiare anche la Presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo, Doris Pack che alla Villa degli Autori era “padrona di casa” per salutare gli autori finalisti del Prix Lux. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con Ettore Scola. Riccardo Scamarcio e Alberto Barbera. Bertolucci presidente di giuria. Eva Riccobono madrina del Festival. Golshifteh Farahani. Elena Cotta. Xenia Rappoport. Gelasio Gaetani d’Aragona e Aline Coquelle.

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A tu per tu

Serena AUTIERI La SCIANTOSA Ada Neri

foto di zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz

I

n occasione del Festival 11 Lune a Peccioli, abbiamo avuto il piacere di incontrare Serena Autieri, cantante e attrice italiana di successo che non smette di stupire per la sua versatilità e la sua bravura. L’abbiamo vista nel 2003 a fianco di Pippo Baudo nella conduzione di Sanremo, poi nei film Notte prima degli esami oggi e Femmine contro maschi, fino ad interpretare la moglie di Leonardo Pieraccioni nel film natalizio Un fantastico via vai. Dal 18 settembre è madrina dell’edizione 2013 del Roma Fiction Fest. Quest’estate ha debuttato con il teatro della Belle Époque a Spoleto al Festival dei Due Mondi, facendo in seguito tappa proprio a Peccioli. Dopo il debutto de La Sciantosa a Spoleto, ha scelto Peccioli e 11 Lune come seconda data. Ci può dire il perché? Ho girato due film in Toscana: dopo il Festival dei Due Mondi di Spoleto volevo fare una data in questa regione. Peccioli ha un anfiteatro naturale bellissimo e così ho accolto l’offerta della Rassegna 11 Lune. Cos’ha in comune con Elvira Donnarumma, il personaggio che lei interpreta ne La Sciantosa? Sicuramente la grande passione per la propria città natale e l’obiettivo di trasmettere la tradizione napoletana. La sua carriera e il suo talento spaziano dal teatro al canto, dal cinema alla fiction: in cosa si sente più realizzata?

Nel teatro, soprattutto quello che unisce la parte cantata a quella recitata. La Sciantosa è proprio il tipo di spettacolo in cui mi sento più appagata. Il cinema non mi dà quell’emozione della “diretta” che invece dà il teatro. Quanto influisce la sua città natale, Napoli, nella sua produzione artistica? Tantissimo. La ricchezza che dà Napoli non ha eguali, per me: le sfumature, gli stati mentali complessi e divergenti. Napoli ha la capacità di prendere un dramma con leggerezza e viceversa. A Peccioli ha portato suo marito e sua figlia. Come riesce a conciliare successo e famiglia? Ci riesco bene, per ora mia figlia

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Giulia non va a scuola, la porto con me e la allatto. Sebbene il Teatro sia stressante, un impegno di 12-14 ore al giorno, nell’arco della giornata, magari quando provano i ballerini, riesco a ricavarmi quei momenti da dedicare alla bambina, che sono momenti d’oro! Poi non potevo non portarla in Toscana, sarebbe stato un sacrilegio... Lo spettacolo-concerto che ha portato a Peccioli è un estratto musicale di quello integrale che porterà nei teatri d’inverno. Ci può dare qualche anticipazione? Per la verità non lo sappiamo neanche noi, è un continuo divenire. Possiamo solo dire che sarà ricco, un “one woman show”.



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Per saperne di più... Elvira Donnarumma Nacque a Napoli il 18 marzo 1883 da Alfonso, sarto di professione e mediocre attore dilettante. Frequentò, col padre che indossava la maschera di Pulcinella, modesti teatrini. In questo ambiente la Donnarumma maturò il suo interesse per il mondo dello spettacolo. Il primo debutto avvenne casualmente nel 1891 al teatro Petrella, quando si offrì di sostituire la protagonista de Le due orfanelle, un dramma popolare che le consentì di rivelare le sue doti di attrice. Successivamente scoprì la sua attitudine per il canto e a soli nove anni interpretò la sua prima canzone, E cerase, una nenia dei fratelli Valente. Dotata di una voce limpida ed espressiva, anche se non molto potente, interpretò ben presto il repertorio popolare e le canzoni di Piedigrotta, destando, non ancora decenne, l’attenzione del pubblico che affollava i teatrini di Mergellina. Passata allo Scottoionno, un teatrino nella galleria Principe di Napoli, ottenne i primi successi e poté così superare i confini dei teatri di quart’ordine. Si esibì nella più famosa birreria di don Giovanni all’Incoronata, accanto a Ersilia Sampieri e al macchiettista Davide Tatangelo, poi passò in piccoli teatri di varietà e successivamente in locali di maggior prestigio. Autentica bambina prodigio, seppe creare uno stile personale con cui fu in grado di sottolineare le mille sfumature del ricco e multiforme repertorio musicale napoletano: riusciva a passare con estrema disinvoltura dalla canzone drammatica alle espressioni vivaci della tradizione popolare. Praticamente autodidatta, la sua formazione del tutto istintiva si sviluppò nell’ambito del café-chantant e suo modello ideale fu Emilia Persico. Nel 1894 apparve con un suo programma al Circo delle varietà, dove fu presentata come “piccola canzonettista”; scritturata poi dai fratelli Resi, impresari del café chantant Eden, si esibì in numeri “a solo” e in duetto con il Tatangelo. Piccola di statura e non molto bella, era però dotata d’una straordinaria carica di simpatia e di un entusiasmo trascinante, ottenne nei primi anni del secolo scorso un grande successo che la fece conoscere anche al di fuori di Napoli. Nel 1908 il suo nome apparve in cartellone all’Olimpia di Roma, in cui si avvicendavano i maggiori esponenti del teatro leggero internazionale. Da questo momento iniziò la sua ascesa come massima interprete della canzone napoletana. Per oltre venti anni fu contesa dagli impresari e, dopo essere apparsa alla sala Umberto di Roma, fu al teatro Balbo e al Carignano di Torino, al Morisetti di Milano e in altri teatri italiani. Restò comunque legata soprattutto a Napoli, dove riscosse i maggiori consensi. La Donnarumma è considerata la più rappresentativa interprete della canzone napoletana: protagonista di un periodo tra i più felici della tradizione canora partenopea, seppe rendere come nessun’altra lo spirito della canzone popolare, cantando l’amore, la poesia, il dolore, la morte con una forza espressiva che non aveva eguali. Donna del popolo, vicina spiritualmente alla sensibilità della sua gente; per rendere con maggiore efficacia il significato delle sue interpretazioni indossava l’antico costume popolare, affidando non soltanto alla voce ma anche alla mimica il variare delle situazioni psicologiche suggerite dai testi e dalle sfumature dell’espressione musicale. Al suo nome furono legate le canzoni più belle del repertorio napoletano del primo Novecento e che, da lei interpretate per la prima volta, divennero poi successi internazionali. Si ricordano in particolare: Chiarastella, Uocchie c’arraggiunate, Chiove, Come facette mammeta, Piscature ‘e Pusilleco.

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A TU PER TU

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IVIA astellanA

i cento volti di un’attrice Passa disinvoltamente da Shakespeare a Mario Tobino, da Goldoni a Moliere a Machiavelli, senza disdegnare proficue incursioni nel teatro contemporaneo con Alberto Severi o Woody Allen: è Livia Castellana, attrice fra le più intense e interessanti del panorama teatrale non solo toscano, “colonna” storica dell’ormai affermata compagnia PeccioliTeatro diretta da Andrea Buscemi. Una grande attrice che ha scelto la difficile strada del teatro per raccontare le tante sfaccettature dell’essere umano. Reduce dai recenti trionfi estivi della messinscena di due grandi classici come Mandragola di Machiavelli (dove è stata un’apprezzatissima Sostrata) e Tartufo di Moliere (dove ha deliziato la platea con la convincente e divertentissima interpretazione della serva Dorina), impegni in mezzo ai quali ha continuato a sfoderare l’ottima caratterizzazione di Saetta (tutto recitato in maschera) nell’Avaro di Moliere condiviso con lo stesso Buscemi e Eva Robin’s, Livia non dimentica quello che è probabilmente il “suo” spettacolo per antonomasia, col quale continua a calcare i palcoscenici e raccogliere dappertutto esiti che sono autentici trionfi: quel Le libere donne di Magliano scritto dal mai abbastanza compianto Mario Tobino, che fu psichiatra e scrittore, e che con questo libro ha raccontato con struggente poesia il dramma delle “matte” da lui avute in cura per tanti anni nel celebre manicomio sopra Lucca. Un tuffo nell’universo del disagio e della diversità che l’attrice compie ogni sera con passione e intensità, in un percorso che è quasi una catarsi, e che tiene incollati gli spettatori stupefatti di tanta adesione.

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ubblico e critica rimangono sempre impressionati dalla tua perfetta immedesimazione con i ritratti di una decina di malate del racconto di Tobino, e non c’è occasione in cui gli spettatori alla fine non si alzino tutti in piedi emozionati. Come ti spieghi tanto successo per un’opera all’apparenza così difficile? Io credo che le persone abbiano sete di emozioni. La gioia, la risata, la commozione, il pianto sono probabilmente il motore che ci spinge a confrontarci con noi stessi e con gli altri. A teatro l’attore ha la fortuna e il

grandissimo privilegio di rappresentare tutto questo senza limiti, senza paura di esagerare… tutto è consentito. Questo spettacolo è sì difficile, ma allo stesso tempo semplice perché restituisce allo spettatore quella parte istintiva che ognuno di noi ha e che spesso viene messa a tacere. Com’è nata quest’avventura? Quale ruolo ha avuto la Fondazione Mario Tobino? Un pomeriggio aiutavo mia sorella a riordinare una libreria. C’erano tantissimi libri e questo di Mario Tobino, mi è letteralmente caduto in testa.

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Sono rimasta colpita dal titolo e così ho cominciato a leggerlo. Scorrendo le pagine mi sono appassionata, ho fatto una piccola ricerca sul dottor Tobino, ho saputo dell’esistenza della Fondazione Mario Tobino e ho proposto ad Andrea Buscemi di valutare la possibilità di farne uno spettacolo teatrale. Ho cominciato ad estrapolare quelle parti che mi sembravano più adatte a una messinscena teatrale, e in pochi giorni è venuto fuori il testo. Abbiamo poi contattato la Fondazione Mario Tobino e tutti si sono subito dimostrati entusiasti del

Carlotta Sighieri

Foto di Sergio Fortuna

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Foto Archivio Fotografico Fondazione Peccioliper


progetto supportandoci in tutto e per tutto. Lo spettacolo ha debuttato con mia grandissima gioia al Teatro del Giglio di Lucca il 16 gennaio del 2011. Stiamo preparando un video dello spettacolo che spero uscirà al più presto. Cosa prova un’attrice quando si immedesima in storie tanto dolorose? Io ho sempre pensato che se un giorno avessi avuto la possibilità e il coraggio di mettere in scena un monologo, avrei voluto fare proprio uno spettacolo di questo genere. Il tema della pazzia è certamente un argomento delicato e va trattato con grande rispetto , però regala la possibilità di buttare fuori tutti gli aspetti dell’essere umano. Un sospiro, un grido, una risata, diventano vivi più che mai. Considero questo spettacolo “catartico” non solo per me, ma anche per chi lo guarda. Preferisci il teatro dell’impegno “civile” come Le libere donne di Magliano o quello “classico” dei vari Shakespeare e Moliere che accompagnano il tuo percorso? Preferisco… tutto. Mi diverto con le commedie e mi emoziono con i testi più impegnati. La possibilità di variare fa apprezzare meglio tutto. Il tuo rapporto artistico con Andrea Buscemi è diventato ormai un sodalizio. Com’è lavorare con lui? Ad Andrea Buscemi devo tutto il mio ringraziamento. Ho cominciato a fare teatro “sul serio” con lui tredici anni fa e spero di portare avanti ancora tanti progetti. Andrea è un bravissimo attore e un raffinato regista. Sa cogliere le caratteristiche delle persone e sa metterle in evidenza. Sa fare il suo mestiere. Cosa significa pensare e allestire spettacoli in un luogo come Peccioli, che da dieci anni ormai è il vostro punto di riferimento produttivo? Peccioli è quasi una seconda casa ormai. Il grande supporto di tutti, e sottolineo tutti, è davvero straordinario. La stima e la fiducia che in tutti questi anni ci ha dimostrato è per me e per tutta la compagnia la certezza che abbiamo fatto un buon lavoro. Quando è nata in te la voglia di calcare il palcoscenico? Io sono sempre stata molto introversa e timida. Quando vedevo gli attori e le attrici pensavo: mamma mia che coraggio! Vorrei essere così. Sono sempre stata attratta dai teatri, dal palcoscenico, dalla magia che si crea quando si spengono le luci e le persone possono diventare… qualunque altra persona. Ho vinto la timidezza, ho cominciato col teatro amatoriale e poi ho conosciuto Andrea Buscemi e ho cominciato a pensare che era l’occasione per vedere quanto fossi in grado di mettermi in gioco e soprattutto alla prova.

A parte il ruolo di attrice, vorresti mai scrivere o fare regie? Mi piace molto leggere i testi e adattarli. Mi è piaciuto tantissimo costruire il testo teatrale de Le libere donne di Magliano. Però alla scrittura vera e propria e alla regia non ho mai pensato. Mi piace stare sul palcoscenico. Nella recitazione teatrale è più importante la tecnica o l’istinto? L’istinto muove l’anima, il cuore, i piedi, le mani, la voce. La tecnica poi ti permette di utilizzare tutto questo nel modo migliore. Cosa pensi della situazione teatrale Toscana? Credo che la Toscana offra buone opportunità di fare teatro. Purtroppo la crisi economica non ci fa stare tranquilli, però penso che sia molto importante continuare a far girare le idee, allacciare nuove collaborazioni e fortificare quelle già esistenti, insomma… non fermarsi. Che ruolo può avere oggi il teatro in italia? È un eccellente mezzo di aggregazione, un veicolo di cultura, un portatore sano di emozioni. A prescindere dalla pièce tobiniana, che sembra restare per te un impegno irrinunciabile della tua carriera, quali sono i prossimi impegni teatrali? Nel prossimo futuro ci sono tanti impegni di lavoro. Ad ottobre saremo a Valdottavo, Lucca al Teatro Colombo per una replica dello spettacolo di Mario Tobino e per le riprese del video dello spettacolo stesso. Poi ancora, sempre al Teatro Colombo riprenderemo un altro bellissimo spettacolo Anna e le altre - frammenti di una strage di Alberto Severi, tratto dal libro di Paolo Pezzino Sant’anna di Stazzema storia di una strage. Un bellissimo spettacolo che affronta il tema drammatico dell’eccidio avvenuto a Sant’Anna di Stazzema, per mano dei tedeschi, il 12 agosto del 1944. In questa occasione condivido il palcoscenico con Martina Benedetti, bravissima attrice della Compagnia Peccioli Teatro e preziosa collaboratrice e amica. Poi ancora teatro impegnato in occasione della giornata della memoria il 27 gennaio, un nuovo monologo La casa delle bambole. La storia vera di una giovane ragazza ebrea che come tante altre venne usata come prostituta per i tedeschi nei campi di concentramento. Naturalmente c’è spazio anche per la commedia, replicheremo infatti L’avaro di molière al Teatro Le Laudi di Firenze, poi ancora altre date in Toscana. Dai un consiglio ai giovani che si approcciano oggi al teatro. Penso che il teatro sia una sana passione da coltivare. Fa bene all’anima. Soddisfatta di quanto hai fatto sinora? Molto soddisfatta. Ci mancherebbe! Ultime tre foto Archivio Fotografico Fondazione Peccioliper

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Teatro Verdi Santa Croce sull’Arno STAGIONE TEATRALE 2013-2014

mercoledì 27 novembre GIOCANDO CON ORLANDO

di Marco Baliani con Stefano Accorsi e Marco Baliani. Produzione Nuovo Teatro

MARTEDì 21 GENNAIO ZIO VANJA con Sergio Rubini e Michele Placido

di Anton P. Cechov. Regia: Marco Bellocchio e con Pier Giorgio Bellocchio, Anna Della Rosa. Produzione: Goldenart

GIOVEDì 27 FEBBRAIO Sogno di una notte di mezza sbornia

di Eduardo De Filippo (liberamente tratta dalla commedia La fortuna si diverte di Athos Setti) con Luca De Filippo, Carolina Rosi, Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo e (in ordine alfabetico) Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Paola Fulciniti, Giulia Pica. Regia: Armando Pugliese Produzione Elledieffe – Compagnia di Teatro Luca De Filippo

venerdì 13 dicembre TICKET & TAC

divagazioni in pillole semiserie su salute e benessere con Katia Beni e Anna Meacci. di Alessandro Bini, Katia Beni, Donatella Diamanti, Bruno Magrini, Anna Meacci. Produzione Fac.Totum Art/Fondazione Sipario Toscana Onlus - La Città del Teatro di Cascina con il patrocinio della Regione Toscana

mercoledì 5 FEBBRAIO LAVORI IN CORSO

con Ale e Franz scritto da Ale & Franz e Antonio DeSantis. Produzione ITC2000

MERCOLEDì 12 MARZO UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE con Rocco Papaleo e 5 musicisti di Rocco Papaleo e Valter Lupo. Produzione Nuovo Teatro

DOMENICA 16 FEBBRAIO LA CANTATRICE CALVA venerdì 10 GENNAIO Come tu mi vuoi

di Luigi Pirandello con Lucrezia Lante della Rovere. Libero adattamento Masolino D’Amico con Crescenza Guarnieri, Simone Colombari, Raffaello Lombardi, Arcangelo Iannace, Andrea Gherpelli, Francesca Farcomeni. Regia: Francesco Zecca. Produzione: Teatro e Società.

di Eugène Ionesco con Francesco Borchi, Valentina Banci, Mauro Malinverno, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio. Regia: Massimo Castri. Produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana.

GIOVEDì 27 MARZO LA SCUOLA di Domenico Starnone con Silvio Orlando, Marina Massironi, Roberto Nobile,Antonio Petrocelli, Vittorio Ciorcola, Roberto Della Casa, Maria Laura Rondanini. Regia Daniele Luchetti. Produzione Cardellino s.r.l.

Per informazioni: Ufficio Cultura Comune di Santa Croce sull’Arno Tel. 0571 30642 - 389956 Teatro: via G. Verdi 7 Santa Croce sull’Arno Tel. 0571 30898


MUSICA

a t ognino

Peccioli

lluminata

Accademia Musicale Alta Valdera

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lla musica si attribuiscono molti effetti positivi: è piacevole, emozionante, rilassante, aiuta la concentrazione. Ma recenti studi di neurofisiologia dicono qualcosa di più interessante: l’ascolto di un brano musicale agisce su molte aree del cervello, migliorandone le capacità cognitive, anche nei bambini più piccoli. Il popolare detto “canta che ti passa” sottolinea quindi i benefici dell’ascoltare e fare musica. L’Accademia Musicale Alta Valdera inaugura il nuovo anno accademico 2013-2014, come di consueto con la Borsa di studio in memoria di Albertina Chesi Cambi, lunedì 30 settembre presso la Propositura di San Verano con il doppio concerto di enfants prodiges Lucilla Mariotti e Beatrice Zanon che eseguiranno musiche di Mozart e Mendelssohn accompagnate dall’Orchestra Florence Symphonietta e dirette dal Maestro Grazia Rossi. Beatrice, nata nel 1995 in Provincia di Treviso dimostra in tenera età un grande amore per il canto ed essendo al contempo prematura per tale disciplina è stata avviata allo studio del violino. Vincitrice di molti concorsi sin dalla

tenera età è stata scelta quale violino solista, al Conservatorio “Benedetto Marcello di Venezia” effettuando più di 50 concerti come solista in prestigiosissimi teatri; attualmente frequenta il 2° anno presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Lucilla Mariotti, nata nel 2001, ha iniziato lo studio del violino all’età di 5 anni con la M° Nicoletta Del Carlo. Attualmente prosegue i suoi studi musicali presso il Conservatorio Statale di Musica C. Frescobaldi di Ferrara nella classe del M° Alessandro Perpich e frequenta il Corso di Alto Perfezionamento di Violino con il M° Maurizio Sciarretta presso l’Accademia di Imola, studiando regolarmente con il M° Marco Fornaciari. All’età di 9 anni ha tenuto il suo primo concerto da solista e in varie altre occasioni ha avuto modo di esibirsi accompagnata sia da pianoforte sia da orchestra in importanti città italiane. Costituita nel febbraio 1993 e patrocinata dal Comune di Firenze, dalla Provincia di Firenze, dalla Regione Toscana e dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, la Florence Symphonietta si è presto imposta come uno dei sog-

getti più dinamici del panorama musicale fiorentino, proponendo un’orchestra sinfonica, un’orchestra d’archi, una di fiati e vari ensembles cameristici. Un’attenta selezione del corpo docente ed il costante aggiornamento dei programmi e metodi didattici, in collegamento con quelli dei Conservatori limitrofi e dei principali centri specializzati nella formazione professionale, hanno contribuito alla crescita che l’Accademia ha costantemente registrato. E in questo anno accademico L’Accademia Musicale Alta Valdera si illumina con una grande stella del panorama musicale internazionale, la pianista praghese Božena Steinerová che nei mesi di ottobre e novembre svolgerà una masterclass a tutti gli allievi indipendentemente dal loro livello di preparazione. Conosciuta a livello internazionale per il suo impegno concertistico e per l’intensa attività d’insegnamento svolta in diversi paesi europei, Božena Steinerová vanta un repertorio musicale ampio ed impegnativo che spazia dagli autori classici del Settecento e Ottocento ai più noti compositori contemporanei.

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Irene Barbensi

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MUSICA

Eurovision Song Contest belle canzoni e immancabili polemiche Leonardo Taddei

L’esterno della Malmö Arena, sede del concorso La danese Emmelie de Forest solleva il trofeo della vittoria. Petra Mede, la presentatrice della manifestazione, durante la serata finale

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al 6 al 18 maggio 2013 si è svolta, nella città svedese di Malmö, la LVIII edizione della manifestazione musicale Eurovision Song Contest, nota in Italia con il nome di Eurofestival, un concorso canoro ideato sul modello del Festival di Sanremo, in cui ciascun paese europeo partecipa scegliendo come proprio rappresentante un cantante o un gruppo, composto al massimo da sei persone, che si esibisce dal vivo su base musicale. Nei giorni di martedì 14 e giovedì 16, presso la Malmö Arena, si sono tenute le due semifinali, in occasione delle quali i trentatre paesi in competizione hanno gareggiato per ottenere l’accesso alla finale di sabato 18. Ad essi si sono aggiunte le cinque teste di serie,

i Big Five, ovvero Francia, Germania, Spagna, Inghilterra e Italia, già qualificate di diritto all’ultima serata, e la nazione ospitante, la Svezia. Nei giorni antecedenti gli eventi aperti al pubblico, nello stesso palazzetto hanno avuto luogo le prove tecniche, condotte in maniera meticolosa da un’attentissima e impeccabile organizzazione, capace di tenere alto il buon nome dell’efficienza nordica. Fin dal principio è però stata captata, tra i circa mille giornalisti della sala stampa provenienti da tutti e cinque i continenti, la sensazione che si sarebbe assistito a una serie di illustri defezioni, poiché il livello dei brani in gara è apparso subito molto alto e il feroce e spietato meccanismo della competizione avrebbe, di lì a poco, eliminato molte belle canzoni: difatti, delle trentanove nazioni pronte ai nastri di partenza, trentatre in gara nelle semifinali e sei già qualificate, come appena detto, solo ventisei avrebbero potuto prendere parte alla serata finale. È stata negativamente sorprendente, purtroppo, l’eliminazione della sammarinese Valentina Monetta, alla sua seconda partecipazione consecutiva, che rappresentava la piccola Repubblica con il brano in italiano Crisalide (Vola), molto apprezzato dal pubblico presente in sala e dalle giurie tecniche, ma non dal televoto, che l’ha relegata beffardamente al primo posto tra gli esclusi della seconda semifinale. Falcidiata, invece, durante la prima serata la canzone Shine dell’austriaca Natalia Kelly, una delle voci più apprezzate, evidentemente penalizzata dall’ordine di esibizione, che quest’anno è stato deciso a tavolino ed in piena libertà dal network svedese che trasmetteva l’evento e non sorteggiato come nelle edizioni precedenti.

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Molta attenzione era anche rivolta alla carismatica cantante nederlandese Anouk, la preferita di molti in sala stampa, che si presentava in gara con il brano Birds, soave e raffinato, ma, forse proprio per questo, poco adatto al concorso, di cui si temeva l’eliminazione e che invece ha sorpreso non solo per la qualificazione in finale ma anche per il nono piazzamento complessivo. Tra le teste di serie, l’Italia è stata rappresentata dal fresco vincitore del Festival di Sanremo, Marco Mengoni, con la canzone L’essenziale, di cui hanno particolarmente colpito il rigore dell’esecuzione vocale, la sobrietà della presentazione sul palco e la bellezza della melodia, tanto da ottenere un lusinghiero settimo posto finale. Il Regno Unito ha giocato nuovamente la carta della notorietà e dell’esperienza del proprio rappresentante, scegliendo Bonnie Tyler, la pluripremiata e ben nota artista che nel corso della sua lunga carriera è stata nominata per tre volte ai Grammy Awards, gli Oscar della musica. Mossa che però, anche quest’anno, proprio come nel 2012 con Engelbert Humperdinck, non si è rive-


lata vincente, dato il diciannovesimo piazzamento nella classifica finale ottenuto dalla cantante gallese, nonostante presentasse la bella canzone Believe in me. Sorte simile per la Germania, che ha puntato tutto su Cascada, il gruppo dance campione di vendite in Europa: con l’orecchiabile e ballabile ma non troppo originale Glorious, il paese della cancelliera Angela Merkel non è andato oltre un deludente ventunesimo posto. La Spagna ha portato invece in gara il gruppo asturiano El sueño de Morfeo, di cui fa parte la cantante Raquel del Rosario, che aveva già duettato nel 2011 al Festival di Sanremo in coppia con Luca Barbarossa e che è però ben più nota alle cronache mondane per essere l’ex moglie del pilota ferrarista di Formula 1 Fernando Alonso, atteso tra il pubblico della manifestazione svedese. Nella parte alta della classifica, alla fine, non si sono registrate grosse sorprese. Anche quest’anno, come accade sempre più spesso ultimamente, il verdetto atteso alla vigilia della manifestazione è stato rispettato, e le tre nazioni favorite, Danimarca, Azerbaijan e Ucraina, hanno occupato, proprio in quest’ordine, i tre gradini del podio. Su tutti ha infatti primeggiato la cantante Emmelie de Forest, che con il brano Only teardrops si è aggiudicata sia la propria semifinale che la vittoria generale, permettendo così al suo paese di poter ospitare la prossima edizione del concorso, quella del 2014. Per quanto concerne i tre premi della critica, i Marcel Bezençon Awards, quel-

lo della sala stampa è stato assegnato alla coppia georgiana formata da Nodi Tatishvili e Sophie Gelovani, il premio artistico all’azero Farid Mammadov, ed il premio per il miglior compositore agli autori del brano You dello svedese Robin Stjernberg. Il vincitore, infine, dell’ironico ed anche molto irriverente riconoscimento intitolato a Barbara Dex, riservato al più brutto abito dell’evento, è stato scelto come di consuetudine su internet dai fans della manifestazione e conferito al gruppo serbo delle Moje 3, di cui una cantante, Sara Jovanovic, è nata e ha vissuto per alcuni anni a Roma. Purtroppo non sono mancate neppure le note dolenti, soprattutto legate a una serie di polemiche e critiche mosse ora da questo, ora da quel paese. Al di là degli immancabili dissapori tra due nazioni tradizionalmente ostili come Armenia ed Azerbaijan, e della sterile polemica contro l’originale vocalità del sopranista rumeno Cezar, ciò che ha appesantito il clima dell’evento, almeno per chi lo ha vissuto a pieno dall’interno, sono state le recriminazioni contro le persone omosessuali e le

associazioni GLBT, storicamente molto affezionate a questo concorso. Già si erano avute delle avvisaglie fin dal Dicembre 2012, quando, dopo la selezione nazionale svizzera, i rappresentanti del gruppo Heilsarmee erano stati obbligati dagli organizzatori a cambiare il loro nome con l’acronimo T.A.K.A.S.A., poiché volontariamente ispirato all’Esercito della Salvezza ed alle sue finalità cristiano metodiste. E l’atmosfera è diventata addirittura incandescente quando alcuni stati di religione musulmana, Turchia ed Azerbaijan, e l’ortodossa Russia, a seguito anche della recente approvazione di una legge che vieta in quel paese qualsiasi propaganda di amore omoaffettivo, si sono scagliati contro la rappresentante finlandese Krista Sigfried, rea di aver concluso la sua esibizione con un bacio saffico elargito a una delle coriste, e contro gli stessi organizzatori che lo avevano permesso, ignorando completamente il fatto che la canzone, dal titolo Marry me, fosse,

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in realtà, una richiesta di matrimonio rivolta al proprio fidanzato da parte della stessa cantante. I tre stati integralisti hanno minacciato di non trasmettere né la semifinale incriminata né l’evento finale, in caso la Finlandia fosse riuscita ad accedere alla

finale, come poi si è verificato. E così è stato per la Turchia, oltretutto neppure in gara quest’anno per protesta contro l’immoralità dei paesi scandinavi, tra cui pure la Svezia, paese ospitante del concorso, che consentono il matrimonio tra persone dello stesso sesso, e addirittura anche con cerimonia religiosa. Gli organizzatori hanno però fatto fronte alla situazione, replicando nel migliore dei modi possibili: a suon di musica. E con l’autoironia, ma anche la fermezza di posizione, che contraddistingue una grande nazione, quale la Svezia è, hanno volutamente fatto esibire, durante la serata finale, l’eccezionale conduttrice Petra Mede, che si è cimentata in una simpaticissima presentazione canora dei pregi del proprio paese, scegliendo, come conclusione, la celebrazione scenica di un matrimonio gay, con tanto di bacio tra novelli sposini, questa volta due uomini, e il consueto vissero felici e contenti di rito. Foto di Albin Olsson, Zimbio

Il gruppo serbo delle Moje 3, vincitrici del Barbara Dex Award . L’ucraina Zlata Ognevich, terza classificata, con il suo “gigante buono” durante l’esibizione finale. ll duo georgiano, vincitore del premio della sala stampa L’azero Farid Mammadov, secondo classificato Il nostro Marco Mengoni si esibisce durante la serata finale.


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PRIMO PIANO

Emanuele Gastel sodalizio italiano tra olio e vino

Domenico Savini

Emanuele Gastel Fotografia di Matteo Gastel

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manuele Gastel è nato a Milano, ma il suo “luogo dell’anima” è la campagna toscana. Oggi ventiquattrenne, ricorda con nostalgia l’infanzia trascorsa nel versante senese del Chianti in compagnia dei nonni materni Piero Stucchi Prinetti e Lorenza de’ Medici d’Ottaviano, dove, nella fattoria di Coltibuono, hanno continuato a produrre, con dedizione, i prodotti tipici della Toscana: l’olio e il vino. Una tradizione tutta familiare che lo scorrere del tempo non ha intaccato. Dalla madre Emanuela ha ereditato il nome proprio e una solida passione per la terra e i suoi frutti; con il padre Luchino Gastel, regista e nipote di Luchino Visconti, Emanuele condivide l’importanza della signorilità, di quel conversare che perfino nei momenti più cordiali conserva una nobiltà così serena da intimidire anche i più espansivi. Sedicenne, dopo un breve passaggio nell’Istituto agrario della vicina Siena, Emanuele entra nello Scientifico per acquisire un’istruzione più completa, consapevole di voler approfondire in seguito le sue conoscenze agrarie. Coltibuono, così quieta e familiare, immersa nella campagna, è comunque il suo punto di riferimento. Quando sua madre Emanuela parte per svolgere gli impegni aziendali, raccomanda il figlio a una coppia di contadini, nata e cresciuta nelle terre di Coltibuono: Romola e Virgilio. Nel giovane Emanuele questi due “nonni putativi” rafforzano il rispetto per la terra e l’amore per la campagna. «Oltre ad avermi insegnato – aggiunge – il linguaggio toscano più elegante, quello arcaico!».

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Compiuti gli studi liceali a Firenze, parte per gli Stati Uniti per impegnarsi in un tirocinio nella ditta De Medici Imports importatrice di generi alimentari di lusso europei, ma prevalentemente italiani. Ormai libero e attivo, nel “nuovo mondo” può esprimere al meglio il suo temperamento, l’inglese diventa la seconda lingua madre. Rientrato in Italia si iscrive all’Università di Firenze, ma si tratta di «un periodo inconcludente», ammette, tuttavia questo temporeggiare lo aiuta a trovare la sua strada: «Decisi di iscrivermi nella fiorentina Scuola di Scienze Aziendali. Subito mi piacque per la sua modernità ed efficienza, estremamente ben inserita nel mondo del lavoro, perché si apprende molto dai professionisti di ciascun settore, che oltre all’aspetto teorico insegnano gli aspetti pratici e hanno una visione attuale di come si muovono le aziende. Si va a scuola tutti con giacca e cravatta, rigore e dedizione al lavoro sono punti di riferimento, valori che, ahimé, non vedevo nell’ambiente universitario». Nel 2011 torna a New York. Il soggiorno fa parte del suo programma di studi, che prevede stage presso la nota azienda di pubbliche relazioni Sally Fisher PR, con sede a Columbus Circle. Infine, il diploma conseguito nel 2012 nella Scuola di Scienze Aziendali segna il passaggio definitivo dal mondo della scuola a quello del lavoro. Si guarda intorno. Nel giugno dello stesso anno comincia a lavorare come stagista nella Tenuta di Capezzana, a Carmignano, poi ottiene l’assunzione nel settore commerciale e presto si occupa anche di quello estero, che alterna alle varie mansioni in azienda. Frequenti sono le trasferte in vari Paesi, dove rappresenta i prodotti di Capezzana. Mediamente, ogni viaggio lo impegna per due settimane. Dopo aver raggiunto gli Stati Uniti nel febbraio e nel maggio di quest’anno, Emanuele vi tornerà per la terza volta nel prossimo ottobre; a novembre farà il giro dell’Asia in tre settimane, raggiungendo Hong Kong, Singapore, Cina e Vietnam. «Il motivo principale per cui faccio questo lavoro è l’orgoglio con il quale sono sicuro di ben rappresentare all’estero un prodotto italiano di eccellenza. Portare nei paesi esteri l’immagine dell’Italia che continua a lavorare e produrre nonostante le odierne difficoltà, è per me un incentivo che si rinnova nel tempo e mi incoraggia verso nuove mète».

Acquistata dai conti Contini Bonacossi nel 1920, la Tenuta di Capezzana può vantare la citazione del topònimo in una pergamena datata 804, conservata nell’Archivio di Stato di Firenze. Si tratta di un contratto di affitto che documenta come già 1200 anni orsono, a Capezzana, si producessero l’olio e il vino.

Quando Emanuele elenca le sue tappe professionali e umane si anima, e ne attribuisce i risultati a una «musa ispiratrice»: Linnèa, svedese ma fiorentina di adozione, forte e determinata, che lo «spinge e incoraggia laddove ce ne sia bisogno». È solo un frammento, ma in questo frammento si vede la natura del loro sodalizio. Il lato absidale della Badia a Coltibuono. Già dal 1115 proprietà dei monaci vallombrosani, il suggestivo edificio è compreso nel territorio del Comune di Gaiole in Chianti. La Tenuta di Capezzana nel comune di Carmignano. Villa di Capezzana, imbottigliato per la prima volta nel 1925, è prodotto oggi dalla quinta generazione della famiglia Contini Bonacossi.

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ECONOMIA

guardare con

fiducia al futuro Cassa di Risparmio di San Miniato S.p.A. approva la semestrale 2013, con un utile di periodo di 3.9 milioni di euro

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l Consiglio di Amministrazione della Cassa di Risparmio di San Miniato, banca da sempre vicina alle imprese e alle famiglie nei territori di operatività, ha approvato all’unanimità la “semestrale 2013”. I dati della semestrale sono in miglioramento rispetto allo stesso periodo del 2012 e rappresentano il risultato della costante applicazione dei principi di sana e prudente gestione che, in un contesto di mercato così complesso, sono fondamentali per proseguire nella costruzione di solide basi per il consolidamento e lo sviluppo futuro della Banca. Dati positivi sia nell’attività di core business della Banca (raccolta, impieghi, nuovi clienti), sia nei canali telematici (servizi on line e monetica), per i quali si è registrato un trend in crescita, segno di dinamismo e di attenzione anche all’evoluzione delle esigenze della clientela. I cambiamenti organizzativi intrapresi, tesi ad aumentare ulteriormente il livello di efficienza, le iniziative commerciali e di marketing, rivolte al consolidamento della clientela e all’acquisizione di nuovi correntisti, e i risultati già conseguiti, tra cui il rafforzamento patrimoniale, testimoniano l’impegno dell’Istituto sanminiatese nell’affrontare le sfide che il difficile momento economico presenta quotidianamente. In uno scenario di mercato che si preannuncia ancora difficile e sempre più competitivo, la Cassa è fermamente intenzionata a proseguire nel percorso virtuoso di abbinamento delle dinamiche aziendali con la responsabilità sociale verso le realtà medio – piccole locali, per un equilibrato sviluppo economico e culturale dei territori di riferimento, ricambian-

do la fiducia dimostrata dalla clientela. Nei prossimi mesi la Banca attiverà una serie di interventi, programmati nel Piano Industriale, di razionalizzazione della rete distributiva, di stretto controllo dei costi, di efficienza e digitalizzazione dei processi di vendita, di sviluppo dei canali multimediali. Il rafforzamento del percorso di crescita

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avviato e il costante aumento del numero dei soci e dei clienti, unitamente ad una graduale normalizzazione del contesto operativo, rappresentano le basi per continuare ad essere al servizio del territorio, in totale indipendenza ed autonomia. Valori questi sempre più importanti per la Cassa di Risparmio di San Miniato.

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FORMAZIONE

apprendistato professionalizzante o CONTRATTO di mestiere Formazione di base e trasversale gratuita: chi cosa come dove perché

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offerta formativa pubblica per tutta l’Area Pisana è stata affidata dalla Regione Toscana al Progetto A. L. F. A. Apprendistato Lavoro e Formazione d’Area presentato da Copernico scarl in partenariato fra gli altri con il Polo Tecnologico Conciario Po.Te. Co. di Castelfranco di Sotto, l’Agenzia Formativa Fo.Ri.Um di Santa Croce sull’Arno e ITS C. Cattaneo di San Miniato. Destinatari della formazione I destinatari degli interventi formativi sono tutti gli apprendisti assunti dal 26 aprile 2012, con contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere, che devono svolgere la formazione per l’acquisizione delle competenze di base e trasversali usufruendo dell’offerta formativa pubblica (gratuita per le aziende). Caratteristiche dell’offerta formativa La durata complessiva dell’attività formativa è pari a 120 ore complessive. La formazione è ridotta nei seguenti casi: · per gli apprendisti in possesso di

una qualifica e/o diploma professionale a 90 ore; · per gli apprendisti in possesso di un diploma (quinquennale) o di laurea a 60 ore. La formazione tecnico-professionale è invece disciplinata dai CCN di Lavoro ed è rimessa alla progettazione da parte delle imprese (che possono avvalersi comunque della nostra consulenza e assistenza per la gestione tecnico amministrativa: redazione del profilo formativo, assistenza per la certificazione della formazione erogata, individuazione e formazione del tutor, verifica della corretta compilazione della documentazione). L’offerta formativa a catalogo L’offerta formativa a catalogo è composto da moduli formativi brevi che costituiscono il catalogo regionale dell’offerta formativa pubblica e possono essere scelti dall’apprendista in coerenza con il proprio piano formativo, fra le seguenti tematiche: · Competenze chiave per l’apprendimento permanente di cui alla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre

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2006 (2006/962/CE “Key Competences” europee). · Norme relative alla salute e alla sicurezza sui luoghi di lavoro · Pari opportunità e disciplina del rapporto di lavoro Procedure a carattere amministrativo L’Azienda, sulla base delle preferenze dell’apprendista e di quanto previsto dal Piano Formativo Individuale, deve trasmettere alla Provincia di Pisa la comunicazione riguardante lo svolgimento della formazione entro 30 giorni dall’assunzione. Se l’Azienda decide di realizzare la formazione gratuitamente usufruendo del finanziamento regionale deve compilare il modello 1/A. La Provincia di Pisa, ricevuta la comunicazione: · associa ciascuna richiesta di cui al modello 1/A all’Agenzia Formativa · attiva il buono individuale (voucher) da utilizzare per usufruire della formazione Sedi · 7 sedi su Pisa · 2 sedi su Volterra · 6 sedi sulla Valdera · 5 sedi sul Valdarno

Vanessa Cappelli

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ECONOMIA

Banca popolare

la

davvero

Enzo Marconcini nuovo presidente della B.P.Laj

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opo i quarant’anni ininterrotti di presidenza dell’avvocato Enrico Fabbri, l’industriale pontederese Enzo Marconcini, per tredici anni vicepresidente, prende il timone della Banca Popolare di Lajatico. Un ruolo onorevole ma tutt’altro che semplice, soprattutto in periodi, come questi, di estrema difficoltà per famiglie ed imprese, in cui erogare crediti diventa molto rischioso. Ma Marconcini crede nella Bp di Lajatico e nel suo territorio, ed è, perciò, pronto a vincere la sfida. Per farlo, intanto, ricorda, giustamente, le origini: «Il credito popolare porta i servizi bancari dove altrimenti non arriverebbero. Era senz’altro così alle origini del credito popolare, nella seconda metà dell’Ottocento: non c’era una banca, e neppure uno sportello bancario, a Lajatico, nel 1884, quando i soci fondatori dettero vita all’istituto, spinti dal sogno di portare progresso e sostegno economico alle famiglie di operai e contadini». Il marchio della Banca di Lajatico, l’aratro, ricorda infatti il suo passato e la sua identità. Oggi, mentre il cosiddetto credit crunch, cioè il calo significativo dell’offerta di credito e l’innalsamento dei tassi di interesse, non sembra

aver fatto altro che inasprire la recessione e mettere in ginocchio anche quelle imprese che avevano investito nel territorio toscano, Marconcini e il resto del Consiglio intende andare controcorrente e perciò presenta un’iniziativa contro la disoccupazione: a ogni azienda, che assume, con un contratto di lavoro di durata almeno annuale, Bp di Lajatico anticipa un finanziamento a copertura dell’intero costo del dipendente rimborsabile in diciotto mesi a tassi agevolati. “+ x Pisa” è, poi, il progetto presentato nei giorni scorsi: si tratta di un plafon di 10 milioni di Euro da erogarsi attraverso finanziamenti da 100 a 200 mila euro per sostenere sia le esigenze di liquidità che i nuovi investimenti per imprese commerciali, turistiche e dei servizi. Non sarebbe la prima volta che la Banca Popolare di Lajatico sfida il trend generale: in piena recessione economica lo scorso anno gli impieghi sono cresciuti del 4,6 per cento. Un altro dato in controtendenza che Marconcini riconduce a quei valori e a quel capitale umano che ha avuto modo di conoscere durante gli oltre venti anni di operato, in qualità di membro del Consiglio di Ammistrazione dell’Istituto. Sostenere imprese e famiglie non preclude, tuttavia, un’adeguata selezione dei beneficiari del credito: ed anche in questo caso entrano in gioco quelle che sono peculiarità di una banca locale, che, forte della maggior conoscenza del tessuto imprenditoriale, è in condizione di effettuare una valutazione del merito creditizio più aderente alla realtà. «Il porre al centro sempre la persona» commenta il Presidente, a tal proposito «non ci esime dall’essere rigorosi nella concessione del credito – dob-

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biamo esserlo per salvaguardare la nostra stabilità – ma, allo stesso tempo, ci aiuta a selezionare con equità il merito creditizio e le iniziative imprenditoriali individuali da sostenere,

a dare risposte in tempi rapidi e mai burocratiche alle esigenze del singolo e della comunità». In un periodo in cui sembrava che la ricetta per la ripresa fosse nient’altro che l’austerity, Lajatico conferma un modo di “fare banca”che mette al centro del proprio operare persone e valori.

Margherita Casazza

Il nuovo presidente Enzo Marconcini insieme a Ugo Nespolo La sede della Banca a Lajatico

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DESIGN

lucky strike

designer award fatevi sotto, talenti toscani!

È

partita la macchina organizzativa della 9ª edizione del Lucky Strike Talented Designer Award, famoso contest di design ideato e organizzato dalla Raymond Loewy Foundation Italy, che a meno di un anno dal decimo compleanno introduce alcune novità: al vincitore assoluto, autore della migliore tesi, quest’anno verranno premiati anche 5 progetti, rappresentativi di cinque diverse categorie di design, e sarà assegnato un ulteriore riconoscimento dal pubblico online ad uno dei progetti finalisti. Per i riconoscimenti destinati alle categorie, le aree oggetto del concorso saranno: interior design, web/grafica, environmental/urban design, fashion e product design. Inoltre è previsto un contest on line per il miglior video sul progetto di tesi presentato. Il premio sarà assegnato dal pubblico del web ad uno dei progetti finalisti e potrà cumularsi sia al primo premio che

premio in denaro Link al bando http:// www.raymondloewyfoundation.it/documenti/bando_di_concorso_IX.pdf

Gaia Simonetti

Tommaso Bay

ai premi di categoria. Il montepremi complessivo di 30mila euro, messo in palio con lo scopo di facilitare l’avviamento alla carriera o gli studi successivi dei giovani designer, sarà suddiviso in 16mila euro per il primo classificato, 2.500 euro per i vincitori di categoria e 1.500 euro per il miglior progetto del contest on line. Il Lucky Strike Talented Designer Award è rivolto a tutti gli studenti che abbiano concluso o siano in procinto di chiudere un corso di laurea o di post diploma in tutti i rami del design. Per l’edizione 2013 saranno prese in esame le tesi discusse tra il primo novembre 2012 e il 31 ottobre 2013; il bando di concorso è scaricabile dal sito www.raymondloewyfoundation.it. Le domande di partecipazione, che potranno essere presentate da singoli candidati o da gruppi di studenti, dovranno essere inviate alla segreteria del concorso entro e non oltre il 15 novembre 2013. Ogni anno sono decine gli studenti toscani che partecipano al contest Lucky Strike Talented Designer Award, organizzato dalla Raymond Loewy Foundation Italy. L’anno scorso tra i 13 finalisti sono arrivati Tommaso Bay (nella foto) dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze e Serena Barbini di Roma, ma laureata all’Università di Firenze. In tempo puntare su un progetto in cui si crede e riuscire a vincere un cospicuo

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Serena Barnini

Tommaso Bay

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COSTUME

liberi tra le

maglie

Incontro con Cristina Giorgetti storica dell’abbigliamento

I

ncontro Cristina Giorgetti, storica dell’abbigliamento, per continuare la nostra conversazione. Dopo quella dedicata alla sua collezione di borse storiche, proseguiamo parlando dei lavori fatti a mano con la maglia. Non so niente di maglia, però l’esecuzione mi stupisce e il risultato mi affascina. Iniziando a parlare di maglieria e dell’importanza di quella realizzata a mano, esprimo l’intenzione di chiamarla “lavorare ai ferri”, attività generalmente ritenuta minore perché evocatrice di lavori casalinghi d’uso quotidiano, questo fin dall’Enciclopedia dei lavori femminili di Thérèse de Dillmont, un trattato in auge dalla fine del XIX secolo a oggi. Ciò si conferma nell’età presente con l’espansione di Internet, ad esempio You-tube, dove persino nei video italiani spesso quest’arte viene indicata con l’anglicismo “knitting”, da “to knit” cioè “lavorare a maglia”, oppure con il gallico “tricottare”, da tricot, di uguale significato. In italiano esiste un’altra ben più antica definizione oltre al “lavorare a maglia” o “lavorare ai ferri”, sussiste un verbo dei nostri artigiani che già nel Cinquecento erano maestri “ad ago o aghi”, ovvero a ferri. Il nostro verbo perciò è “agucchiare”, poiché l’ago, tra le più grandi invenzioni umane, era il termine base per qualsiasi strumento idoneo a lavorare artisticamente un filo, e

le nostre nonne usavano chiamare “l’uncinetto” “ago torto”. Di questo lavorare con gli aghi da calza, cioè il gioco di ferri a punta doppia, o aghi da maglia, i due a punta unica, abbiamo bellissime immagini storiche, tuttavia ritengo essenziale, per iniziare un discorso sulla maglia manuale, non porre il punto sul dibattito storico delle origini, tuttora comunque incerte e confuse, e forse perse nella notte dei tempi. Chiariamo che il lavoro ad ago o a ferri, è diffuso in tutto il mondo con tecniche diverse e strumenti talvolta peculiari che presentano delle divergenze, perciò l’origine è incerta. Si parla di una tecnica speciale in India, in Persia, e persino di tecniche dall’antico Egitto e dalla Cina. Basti pensare che il lavoro a maglia sussiste anche col semplice ausilio dei due indici delle mani, e tutt’oggi questa tecnica viene usata. I primi sporadici ritrovamenti archeologici ci portano in Medio Oriente, e rivelano tecniche alternative alla vera maglia. Insomma, col termine antico “agucchiare” s’intendevano cose diverse da quelle che s’intendono oggi, si pensi a ferri con la cruna o ai ferri con punta ad ago torto. Oggi c’è grande fermento in questo settore per la ricerca e la rivalutazione di tecniche arcaiche, nonché l’ampio settore della maglia manuale con telai. L’ago comunque rimane centrale, perché sempre dall’ago si parte e a quello ci riferiamo.

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Sull’ago c’è probabilmente molto da dire. Voglio ricordare che l’ago è lo strumento più importante che l’uomo abbia inventato insieme con quelli da taglio e da raschiatura. Il concetto dell’ago ricavato da spine di pesce, osso, avorio, cartilagini varie e così via, ha rivoluzionato il vivere umano, dal “coprirsi” con la semplice pelle o pelliccia alla forma precisa del “vestirsi”. In ogni caso dobbiamo ricordare che tutti i popoli in zone a clima continentale o temperato, in origine indossarono capi di pelle o pelliccia cuciti, talvolta realizzati con striscioline intrecciate con le dita. La creazione e l’utilizzo di un filato è una conquista relativamente recente, risale infatti a circa 15.000 anni fa. Comunque è utile ripercorrere gli ultimi decenni del lavoro a maglia, e capire perché questa tecnica è andata più o meno di moda. Fin dal Seicento si producevano e vendevano oggetti fatti a macchina, per lo più calze e copricapo, ma la maglieria pregiata, quella bella, era fatta a mano; poi tra l’Ottocento e il Novecento il lavoro a macchina prese il sopravvento per sovvenire a vaste richieste, sebbene questo settore prendesse sviluppo in particolare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nonostante ciò, molte magliaie a mano continuarono a lavorare capi anche per magazzini, per confezioni da neonato, bambini e pregiati da donna.

Roberto Mascagni

Le “maglie” che illustrano questo servizio sono opere ideate e realizzate da Cristina Giorgetti Lunga sciarpa-stola femminile in lurex poliestere punto foglie e punto Incas a uncinetto, ispirata a indumenti ecclesiastici con motivo neoclassico.

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Sciarpa maschile a filato melange in pura lana vergine, maglia a due ferri e uncinetto, lavorata in vari pezzi e ispirata ai motivi decorativi delle coperte da sella arabe. Pagina a fronte 1. Panciotto maschile in shetland di pura lana vergine, maglia circolare a due ferri, ricamo a punto maglia, tecnica recuperata dagli anni Trenta del ‘900, scelte cromatiche e disegno ispirati a Gustav Klimt. 2. Vallet purse, borsa a calza, filo di Scozia in puro cotone mercerizzato, maglia bassa a uncinetto, perline lavorate ad ago borsetta di piccole dimensioni ispirata a modelli del XIX secolo. 3. Borsetta a mano eseguita a punto croce, canovaccio da tappezzeria, fettuccia di puro cotone, fodera in fustagno di cotone, manico in resina, borsetta tapestry ispirata a modelli Decò. 4. Borsa a bulbo maglia bassa a uncinetto, fettuccia di puro cotone, rosa di taffettà, fiocco in carta, mezze perle, lavorata in un solo pezzo con tecnica circolare, ispirata alle borsette da passeggio in paglia anni ‘50. 5. Borsetta a cintura tipo balantine, maglia bassa a uncinetto, lana sport in pura lana vergine, perle in resina, festoni e rifiniture ad ago, ispirata a modelli fine XIX secolo.

Gli anni seguenti alla fine della Seconda Guerra Mondiale tracciano allora una demarcazione? Sì, da allora, con macchinari sempre più specializzati e col crescere della richiesta, il lavoro a mano divenne sinonimo di oggetto fatto in casa, piuttosto spesso, non leggero come quello fatto industrialmente o artigianalmente a macchina. Cominciarono in più ad affacciarsi negli anni Cinquanta maglie e vesti fatte da creatori, quindi il fatto a mano divenne “il non firmato”, il prodotto che non era d’autore. Considerato anonimo, non concepito da uno specialista ma copiato dalle riviste di maglieria, un lavoro manuale sembrava meno interessante di quello progettato per la macchina. L’affermarsi della grande meccanizzazione sembrò il rimedio di tutto, così larghe fasce di consumatori potevano fruire di oggetti seriali, creativi e diversi a ogni stagione. Il migliorare della tecnica industriale equivalse alla perfezione del capo stesso, se non del modello, nella struttura, la maglia era unita, tutto era uguale; e questo, sicuramente, costituì un punto di forza. Esempi tuttavia di grande creatività devono essere ricordati, e tra questi possiamo citare Albertina e certamente i Missoni. Le loro creazioni partivano dal concetto del lavoro d’arte a mano per trasportarlo poi nelle tecniche meccaniche. Una rivoluzione, da una parte la maglieria elegante e d’alta moda di Albertina, dall’altra la fantasia e l’ingegno dei Missoni per capi d’ogni tipo, eleganti e sportivi. La maglieria manuale ridiventò apprezzabile a cominciare dalla seconda metà degli anni ’60 e ai primi dei ’70, quando sull’onda del femminismo e della riscoperta delle abilità femminili, tutte le lavorazioni iniziano a essere valorizzate e accostate alla moda. Troviamo tante pubblicazioni degli anni ’70 che riscoprono tecniche dando consigli per una moda alternativa, perché a quel punto si cominciò ad andare contro le proposte della meccanizzazione. Fu il fenomeno della “contromoda”, che non era l’antimoda degli artisti come critica al sistema moda ufficiale, era il voler essere “autosufficienti” anche nel vestire, ritenendo quest’atto unico, personale e irripetibile. Negli anni ’70 l’abbigliamento è stile alternativo, quindi ecco i maglioni

lavorati a punto “legaccio”, grossolani, con ricami naïf, con motivi folk, perché si riscoprono altre culture, quindi la maglia, fino al 1974-1975, ha vissuto un periodo singolare, tuttavia proprio allora furono trascurati i veri lavori di grande raffinatezza e tradizione, ovvero quei manufatti che nell’Ottocento erano destinati alle classi abbienti. Le riviste di maglieria continuarono a proliferare sia alla fine degli anni ’70 come a tutti gli anni ’80, proponendo modelli ispirati alle passerelle, oppure decisamente fuori moda tuttavia molto complicati, riservati a esecutrici che sapevano lavorare perfettamente a maglia, perché allora, anche tra le giovani, si poteva contare sulla pregressa tradizione diffusa nelle scuole durante le ore ricreative, oppure nelle ore di applicazione tecnica. Fino ai primi anni ’70 alle ragazze veniva ancora insegnato l’abc della maglia, e spesso l’apprendimento progrediva in famiglia. Le riviste suddette, e anche le varie enciclopedie che si rivolgevano a un pubblico che era già a conoscenza non solo dei rudimenti della maglia, accompagnavano il percorso. Tuttavia, decadendo l’insegnamento di base a favore di altre attività, sia a scuola che a casa, negli anni ’80 e ’90, e fino al 1996-98, la maglia fatta a mano passò di moda, perché se negli anni ’70 andava la maglia grossolana delle controculture e quindi “facile” da fare, quello stile “nature” non rispondeva più a quello modaiolo dello stilismo imperante negli ’80 e ’90. Molte ragazze non sapevano più i rudimenti, anzi, accedendo la donna all’istruzione superiore e universitaria, divenne quasi un vanto, dire “Ah, io non so attaccare neppure un bottone!”. Come se l’acquisito status di laureata quasi si fondasse sulla perdita di abilità millenarie. Non ho mai capito questo snobismo e ho sempre mantenuto un contatto tra la mente e le mani. Oggi i neuroscienziati lo ritengono fondamentale per lo sviluppo continuo dell’intelligenza e per il mantenimento delle facoltà intellettive in età avanzata. Quando si può parlare di un ritorno dello stilismo? Lo stilismo raggiunge il trionfo delle griffe negli anni ’90. È il momento in cui l’Occidente si veste con tutte le firme, specialmente le nostre: Versace, Armani, Gianfranco Ferré, Moschino, Valentino e ne potrem-

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mo nominare molti altri. Mi limito a nominare questi perché furono quelli che raggiunsero l’acme della notorietà. Nella maglieria tra gli anni Ottanta e Novanta, benché i suoi inizi risalgano agli anni Sessanta, Krizia fu una firma che alle maglie dedicò moltissimo e, pur avvalendosi di procedimenti meccanici, ha dato l’idea di una maglieria estremamente versatile con la quale riusciva a ottenere figure di animali ed effetti veramente originali. Possiamo citare qualche altro nome? Un altro nome che negli anni ’80 e ’90 offrì moltissimo, creativamente, alla maglieria, fu il giapponese Junko Koshino, che produsse maglieria tagliata e cucita realizzando capi veramente molto eleganti, anche per la sera. Insieme con lui un altro grande giapponese: Yohji Yamamoto. Altro genere, un fautore delle manipolazioni manuali. Altri esempi italiani da ricordare? Negli anni ’70 e ’80 ci fu il boom di Benetton, che propose la maglia per tutti e di tutti i colori. I negozi Benetton in quegli anni erano una festa per gli occhi. Il lambswool fu tipico della loro produzione e, anche se in minor parte, lo shetland, ma Benetton era il lambswool, tinto in capo e non in filo, una rivoluzione. Era una produzione meccanica ma un po’, all’inizio, aveva imitato il fatto a mano tipo legaccio o jacquard, perché nei primi anni ’70 si volevano gli stili etnici e rustici, nel decennio successivo esplose invece questa parte vincente del colore. Dal 1986, tuttavia, fu come se il mercato dello stilismo d’improvviso cominciasse a saturarsi, come se alla gente fosse passata la grande sbornia “dell’avere” e dell’ “easy”. La moda subì un primo rallentamento e dagli stili divertenti ci fu il passaggio alla ricerca dell’eleganza. Fu il quinquennio dell’apparire. Il fatto a mano cominciò di nuovo a declinare, e con esso la maglieria fatta a mano, anche perché nel frattempo, come ho già detto, le nuove generazioni si stavano allontanando dalla manualità. Un recupero della maglia, e di vari oggetti bricolage fatti a mano, lo operò lo stile Grunge, americano, di Seattle. Loro, i giovanissimi di allora, riscoprirono gli hippy e la dedizione verso le lavorazioni fai da te: dalle maglie, ai vestiti, ai gioielli. Iniziò l’epoca del riciclo, tornò l’affezione verso l’usato d’epoca e la moda offrì un volto


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davvero eclettico. Nonostante ciò nel 1996 la crisi economica coincise con una crisi creativa dello stilismo, ovunque si vedevano molti colori scuri, il nero divenne dominante. Il limite erano stati gli stili citazionisti, il Medioevo, il Settecento, poi il Rinascimento, poi il Vittoriano, poi la confusione tra queste influenze accompagnata da una buona dose di carenza culturale. Comunque e ovunque persisteva la presenza di un filone etnico ad ampio spettro. Producendo di tutto e di più, ci si era sbizzarriti con tutti i tipi di epoche fino ad arrivare a rielaborazioni sterili con consistenti limiti creativi. Ci sono state altre realtà? I problemi furono dettati proprio dall’economia. Vede, un creativo ha il diritto sacrosanto anche di sbagliare, perché creare è un esercizio. Ma le realtà industriali, i grandi gruppi avevano la necessità imperante di non fallire mai una collezione, nell’abbigliamento come nella maglieria. Così, il tutto fatto a macchina cominciò a presentare delle crepe: dopo aver avuto tutto, il consumatore aveva bisogno di qualcosa di più personale. Ci sarebbe stato bisogno di una creatività più spontanea, più a rischio, diversa. Invece pian piano le grandi tendenze dettavano un appiattimento del prodotto mentre sulle riviste proprio la parola cultura dilagava per ogni oggetto. In questo contesto si affacciò di nuovo la lavorazione a maglia manuale, non solo per le firme, ma anche a livello privato. Il consumatore diveniva lentamente fautore del suo stile.

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TENDENZE

mode di moda pillole sulle tendenze 2013

Eleonora Garufi

MINO IL PIU GERO LEG ULTRA

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e sei mamma tuttofare, giovane studentessa o signora sportiva, ci sono giorni in cui si va di fretta. Per coprirsi dal freddo imminente e essere comode ti consigliamo il Piumino Leggerissimo di OVS. In vendita negli Store OVS a partire da ottobre (da 49,90 euro), è creato da Dafne Maio, emersa nel progetto OVS#Fashion for Young Gene-ration, un’iniziativa dedicata ai giovani talenti della moda.

E HICCH C E U D ICCO DI CH

ni MOcassi OUT PART PASSE

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ulle passerelle e tra le stelle del cinema, impazza l’amore per le scarpe collegiali. Il mocassino torna alla ribalta e si adatta ad ogni stile di donna. Raso terra, per essere eleganti e mixare lo stile maschile a quello femminile. Ad altezza media, portati benissimo con minigonna e dolcevita per uno stile Lolita, altrimenti un pantalone con risvolta per dare slancio al collo del piede. Alti per uno stile da passerella e per dare slancio al corpo. Insomma mocassini per tutte le esigenze.

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ei negozi Chicco tantissimi servizi a disposizione per i neo genitori, per i nonni e per gli zii. Oltre al Servizio Lista Nascite, i genitori potranno essere seguiti da un personal shopper per avere il necessario per l’arrivo del bebè e consultare direttamente dal portale l’andamento degli acquisti. Per le mamme da settembre un omaggio: il cofanetto felicità con mille sorprese colorate per allietare il dolce momento e per la festa del bebè, Chicco offre una personalizzabile e divertente torta pannolino! Coccoliamo prima le mamme e poi i piccini!


simboli

u n c ap o s t o ri c o L’

estate è volata nel vero senso della parola. Il tran tran invernale è sulla linea di partenza. Scuole in apertura, vetrine allestite con capi pesanti e quelle giornate che si accorciano sempre di più con fare malinconico. Nel cambio di stagione Reality è con voi. Storie di moda e pillole di curiosità per essere sempre al passo con i tempi. Per prepararci alle prime giornate di pioggia e alle prime raffiche di vento, oggi vi raccontiamo la storia di un capo che “deve” essere nell’armadio di ogni donna e perché no, di ogni uomo. Stiamo parlando del trench: un cappotto impermeabile, generalmente lungo fino ai polpacci, estremamente chic nella sua autenticità e nei suoi dettagli. Il significato del suo nome evoca l’origine dell’indumento: trincea. Sì perché questo capo è passato dai campi di guerra alle passerelle. Fu ideato nel 1901, quando il Ministero della Guerra inglese richiese un indumento da fornire ai soldati per ripararsi sul campo.

L’incarico venne affidato alla maison Burberry. Il geniale Thomas Burberry aveva già creato il gabardine, un tessuto particolarmente adatto per proteggere dall’umidità. Questo venne rafforzato sull’impermeabilità, ma in che modo rimane un segreto. Il genio riprese il design dei vecchi cappotti da ufficiale inglesi già realizzati arricchendoli con il nuovo tessuto, aggiunse delle spalline e degli anelli in metallo, et voilà: era nato il trench – coat, cappotto da trincea! Un capo maschile quindi che, una volta uscito dai campi di guerra, si insinua nella vita civile per non scomparire più. Una forma e un taglio immutati nel tempo: sei pezzi in gabardine, doppiopetto, spalline, sottogola – per evitare che l’acqua entri nel colletto –, fodera tartan, mantella corta sulle spalle per ripararle maggiormente dal freddo, falda triangolare di stoffa sul davanti che, sovrapponendosi all’allacciatura, permette una chiusura migliore, maniche regolabili intorno ai polsi per mezzo di cinturini con fibbie, cintura con anelli di ottone, lungo spacco posteriore chiudibile con un bottone. L’eleganza del capo conquista ben presto la sfera femminile: sarà Greta Garbo nel film Destino, che nel 1928 lo consacra come indumento d’obbligo nell’armadio di una donna. La celebrità del capo cresce, sull’onda del cinema: nel 1942, Humphrey Bogart indossa un trench

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nelle scena mitica del film Casablanca in cui convince Ingrid Bergman a salire sull’aereo che la porterà lontano. Audrey Hepburn, in Colazione da Tiffany, lo renderà un capo storico, così come il mito della catena di gioielli e la stessa attrice. Per arrivare poi in tempi recenti al trench elegante, chiaro di Donna Karan, indossato da Meryll Streep nel film Il Diavolo veste Prada. Tra gli anni ‘70 e ‘80 , i punk s’impadroniscono del soprabito rendendolo un passe-partout classico, indossato da intellettuali di tutte le categorie. Sarà di nuovo Burberry negli anni ‘90 a valorizzarne di nuovo l’eleganza e l’originalità: Roberto Menichetti, il direttore artistico al momento, stampa sul nuovo modello il famoso motivo tartan, che fino ad allora aveva caratterizzato la fodera del trench Burberry. Il trench diventa un cult e subisce una spietata contraffazione. Ma per essere stilosi non si accettano copie: ci vuole l’originale! Adatto a tutte le stagioni, versatile sia per il giorno che per la sera, il trench racchiude la sensualità della donna nella compostezza dell’uomo. Adatto a tutte le mise questo semplice soprabito impermeabile, lo si porta con i jeans, con un tailleur, una gonna a tubino. Rigorosamente da evitare svasature o abiti che fuoriescano dall’orlo. Il colore classico è il beige, che si mischia bene con tutti i toni di colore, ma è meglio evitare di accostarlo alle stampe. Adatto al corpo di ogni donna, basta annodare la cintura in vita se sei alta e magra e lasciarlo aperto se sei più formosa. Un capo eterno, che risulta sempre attuale e che non può davvero mancare nel guardaroba. Se non lo hai ti consigliamo di metterti in pari segnandolo tra i primi acquisti dell’autunno!

Eleonora Garufi

Il trench coat, cappotto da trincea, durante la guerra ideato da Burberry nel 1901. Humphrey Bogart e Ingrid Bergman nel film Casablanca del 1942. George Peppard e Audrey Hepburn nel film Colazione da Tiffany, nel 1961. Meryll Streep nel film Il Diavolo veste Prada, 2006.

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SOMMARIO

senza confini 23° raduno nazionale Z3mendi Enrica Frediani

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Ignis am, ver sed te magna cor giate vulluptat velis alit lum quatumm Unt praessed eu feugiametuer alit augiat. Ostrud modiamcore odipit la conullamet acipis dolor sum erit iusto et lorting ea facip essent feum dipis nim vercinim veli- quis am quat. Volor am zzriusci er iustin eui te consed tet, con vendre quat. Tatum nit wis nulluptat, sustio atum nullum ex eum delit veliquat commy niatum illuptat ute dolum doet veliquate dolortisi tat, si eu feu aliscin henim do odionsectem do lortisi euipsum sandit venibh eu feuifeui blan erosto etum verilisl dolore exercip ea faci tem qui ercip eugait sci exer sis dolessi et nos del dolorem magna facinci liquat. Accumsan ve- iustin endionsenis augiat. Eliquat, si. ilit at incilla feuguero dio od dion volissequisi tio commy nos duipit do- La feummod oluptat. Pero duisis nisit lore modio dolor sum volorti ncidunt lore minissi tet laor iriustrud te mo- luptat num am, qui enit adipit illaore venisis nit, verostrud el ip exerci tadigniamcor sequat, velit augait in he- min henim nulputat dolesenisit adip ting endit, velit, commy nibh eugait nibh euguer suscil ullaoreet, core feu enis ad tat. Eliquatio doloborem ip- iril ut wis at adiam, conulla feugait feugiamcon velit in ullandre euisl ea susto euisim do do od tem ver sum ing eugiam velendre do con volutat feugait, quipisi et lum nonseniamet, augait nulput lum dignim quat, volo- lor seniamet la feugiam nibh esse tat, commod tat. Exercin ea feumsan bortie dolorperos nit dolor summo- velit aliquate magnis nim autem irilit henisit wissis nit ilit dit incidunt ute dolor si. Tue dolore dolore ming et utpat vullam nullute feum inci blaodolobor eriliquatie tetum dunt lam- iure commod tionsenit non hendre re dio ercilluptat laor alit vel dolore conum inim nostio con eugait dolen- mincil ut irit ad tio dolesenit augue dolesequat aut aci blaor init lorpercin dipit at, quip elit nim in ulla feu feum consed enim nos nisim dolorpero ex etue conullut nummod elit ing eugait zzril dolorpe riuscin ute min ullamco ea commodi psuscidunt ad tat, co- augait vulputpatem iusci tetuer iusto rtionsectet, quat nonsendre delis del nulluptat, sit praestisisit in utat, sum dolor sectem eniam zzrit lor sed miGiampaoloea Russo iliquam quat atio od ex enibh er ip nis autpat am, quat acilis dionsenis nim zzrit adignim quisciliquis feui ent dolenis nisi bla conulputet, co- nim del utpat. Nos nisl iurer sustin blan enis eugueri ureetuerilla facil bordo piscina de Ilreros Negresco, storico albergo della quipit Versilia, nobili e industriali hanno sfilatovel conilit originali cappelli paglia, confezionati confacifioaci bla corpero stionse ea aliqui eum quat. Olorem at. delestie di tiscipsuscin eumsandre ri, frutta, foglie d’edera, pizzi e ricami. Per il ‘Ladies day’, che ha ricevuto il patrocinio del Comune di Forte dei Marmi, ogni signora ha dato sfopraessed magna feuis nos nulla con- Molorero enim do consecte consed lit niam, vercilis nos nisit nosto odolor go alla propria creatività dall’armadio vecchi rivisitandoli, a scovare in qualche sequis tirando dolore fuori dit autate magnibh ea cappelli do et della iriustononna, od etum dit nostooppure odo- andandoli augueriure enismod digna boutique con vel griffata della Versilia. Duecento i partecipanti alla serata durante la quale sono stati assegnati il premio “Mazzetti d’Altavilla” per l’eleganza maschile, facilissim num alit nismolor aliquisisl loboreet la core delessi tat. Ut nul- esequipisit, con ulla facipsum aciduis il premio “Il Bisonte” perutla vullaor creazione il premio “Frantoio Santa Tea” per il cappello vintage originale, il premio “Il Negresco” per ad più tisl originale, et, ver adit nim veputem vel utpat. Putpatue tatinci bla piùdolorti onsenis molorem in ea feugue l’eleganza femminile. A giudicare i migliori cappelli una giuria composta dalla principessa Elettra Marconi, figlia del grande scienziato inventore della lis nit el estissi elis aliquip ismodol facinim ing endignibh ea con hendi- vel et, quam zzriusto digna ad modit radio, che da sempre frequenta Versilia.uptat. La serata, allietata presenza delizie pasticceria di Viareggio, è stata presentata orpero la dionull Mincin utemdallagnibh enitdelle veliquat. Ut della il dolor augue Patalani wis non ver ipsumsandip endrer sit dalla conduttrice televisiva Anna Tossani, ed hafaccumsan fatto da anteprima a ‘Toscana Arcobaleno d’Estate’, nata laer scorsa impulso quip ex Maria ent accum dolore dolobore diamcommy nos diat wissi. l’iniziativa wismolendip sum estate il ut eusu feuismod delle categorie economiche per rilanciare il turismo toscano e subito supportata dall’assessore alla Cultura della Regione Toscana, Cristina Scaletti. utatin henisi. in hent nullaore minci- Rud exer incillandip et lan veliquam dolore dolenit lorem ilisim voluptat li quisit ex et lumsandre tin exerius zzriusto eratums andrem dolobore at. Ut eraesendip eugiatu mmodio In alto Guglielmo Giovannelli Marconi e il sindaco di Forte dei Marmi Umberto Buratti; L’hotel Il Negresco location dell’evento cipit, vel il ullaorperos ea corerating consecte min utatum volor summod do eros dolorper secte diamcon seWanny di Filippo e Vittoria Colonna di Stigliano; Monica Picedi Benettini, Luisa Sarti e Livia Giovannucci Fernandez; Maria Riva Christiansen e Nicola Gnesi; enisit lutatNim incinim am, sustion dio odolortie magnisit venim auguero quatum vel utem iriuscilisl ut venit ullutpat lum autem del ullummod doluptatuer sed molestrud modipsu dipsumm erostrud magna auguercip exer am, msandre ea facidui ssequissed ex ea cor suscidunt vulla feugiat loreetuer aliquis num vullamet augiame tumsim quipisl iusto od tatueros atum- san ulput praessit, cor augiamet num my nullamc onseniscil iniamconsed nim velenim diam zzrit lore commomin hendre molorpero dui blam, si. lorem zzriliquam, consequ atumsan Rit vulla faci tion henim vel ulla feui te eui blamcom modiate facidunt ad magna alit eu facipit lut incing eum- tio commolor sim acilit nit nissequat. my niam inibh esto conse faccumm Xer sim ex estio odolorper sis nullaodolorercip eugait wis et am adit in metum quat ipsumsa ndignis eugue foto di zzzzzzzzzzzzzzfoto di zzzzzzzzzzzzzzvullutatum zzrit loborperil ea feum- con henibh eniatin utem quis diam in zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzsandrem zzriustrud ming ex exer au- exercip suscilisi exerosting er si. zzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzz

Ladies day

Sfida a colpi di cappelli!

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PERSONAGGIO

Margherita

Hack

grande lezione al Teatro Verdi a Santa Croce sull’Arno La previsione più certa è che gli atomi che compongono il nostro corpo, come il nostro pianeta, si disperderanno nell’universo, e nel tempo contribuiranno a formare anche nuovi esseri viventi.

M

argherita Hack, nata a Firenze in via delle 5 stelle, ha vissuto 91 anni, è morta a Trieste lo scorso mese di giugno. Era figlia di madre cattolica e padre protestante, entrambi aderenti alla Società Teosofica italiana. A 11 anni aveva conosciuto Aldo De Rosa, che ne aveva 13, poi professore di letteratura italiana. Era atea, però su Gesù aveva questa opinione: «Non so se era il figlio di Dio, ma certamente un grande maestro dell’umanità». Dal cui insegnamento aveva preso «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te», e «ama il prossimo tuo come te stesso». Al teatro Verdi di Santa Croce sull’Arno, una mattina dell’anno 2007, Margherita Hack tenne una conferenza agli studenti delle scuole medie. L’oratrice era al centro del palcoscenico, i giovani la seguivano con attenzione come gli adulti quando c’è uno spettacolo della stagione di prosa. Tutti stavano attenti alle parole della Hack. Anche il marito Aldo De Rosa, nel primo palchetto, quello più ac-

canto al palcoscenico, seguiva la conversazione della moglie con attenzione, pur se l’aveva sentita chissà quanto volte in circostanze analoghe. A un certo punto Margherita Hack disse: «C’è un fenomeno che va quasi oltre la nostra capacità di comprensione…». Come l’avrebbe spiegato, a quel pubblico giovane? Continuò più o meno così, mettendo al centro del tavolo un panettone. «Per farsi un’idea dell’espansione dell’universo, immaginiamo che sia come questo dolce, ma che al posto delle uvette abbia le galassie. Quando il dolce lievita, e cuoce, si dilata e così le uvette si allontano l’una dall’altra. Eppure senza muoversi da dove si trovano. È il panettone che s’ingrossa… Ossìa è l’universo che si espande, istante dopo istante, e così le distanze tra le galassie aumentano sempre di più, ogni secondo che passa. Da quando avete visto per la prima volta il panettone, a ora, anche se sono passati pochi minuti, l’universo è diventato più grande». I ragazzi applaudirono, ma soprattutto avevano capito. Merito di chi sa raccontare cose che possono sembrare inverosimili, che stimolano la fantasia, ma che dalla sua bocca sono verità. «Qualcosa si sa, ma non si sa bene il perché», aggiunse fissando una ragazzina in prima fila, nella quale forse si rivide. E continuò a raccontare – affascinando anche qualche adulto accompagnatore – che «l’universo è tanto immenso quanto misterioso». E che «tutto quel che esiste in natura, gli esseri animati e ciò che è inanimato, anche se può sembrare incredibile, è composto di carbonio, azoto, idrogeno, ossigeno… proprio gli elementi di cui sono composte le stelle. Anche noi siamo fatti di materiale costruito

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nelle stelle. È da lì che ha avuto ori- Luciano Gianfranceschi gine tutto, circa 13 miliardi e mezzo di anni fa. Il come lo sappiamo bene, ma non sappiamo il perché. Dunque non bisogna stancarci di ricercare, tra i misteri delle stelle e dell’universo». Spiegò anche come era giunta, la scienziata, alle attuali convinzioni: «Una supernova è un’esplosione gigantesca che comporta la quasi totale disintegrazione di una stella supergigante nelle fasi finali della sua vita. Sono le supernove che fabbricano tutti gli elementi presenti nell’universo. Lo si è capìto perché l’universo primordiale, prima che si fossero formate le stelle, conteneva solo idrogeno e elio. E tutti gli altri elementi? Per formarsi hanno bisogno che avvengano reazioni nucleari, ma le reazioni nucleari possono avvenire solo in luoghi molto caldi e molto densi, come sono gli interni delle stelle. Dunque s’arriva a capire che l’universo permette la formazione di grandi stelle, che costruiscono gli elementi, stelle che poi esplodono alla fine della loro vita di miliardi di anni e arricchiscono l’universo di questi elementi che servono per formare i pianeti e gli esseri viventi. Ecco che si capisce anche la nostra origine, perché gli elementi di cui siamo fatti sono stati costruiti dentro le stelle. Ma siamo qualcosa di più che figli delle stelle: siamo degli osservatori dell’universo, che hanno sviluppato la capacità di capire l’universo». Resta questo concetto della sua lezione, davvero “lectio magistralis”: «L’atomo di idrogeno è praticamente immortale, e pertanto le mie e le vostre molecole resteranno e si sparpaglieranno nell’atmosfera. Non saremo più noi, ma serviranno a costruire un’altra persona, chissà…».

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GRAFOLOGIA

Eroi

per caso Giuseppe Valenzi Maria Laura Ferrari

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n occasione della commemorazione dell’8 settembre, vorrei rendere omaggio ad un “eroe della gente comune”, uno dei nonni che in tante famiglie italiane si ricorda con orgoglio. Anche nella mia ce n’ è stato uno: Salvatore Larini, che se ne è andato la notte di san Valentino di due anni fa, a più di novant’anni, attorniato dall’amore di moglie, figli, nipoti e pronipoti. Quando ho incontrato Emilio Mei, che ha raccolto e pubblicato le memorie di guerra di suo nonno, Giuseppe Valenzi, (ll nonno racconta ai nipoti: ricordi di una guerra tanto grande quanto assurda) è stato come riassaporare, attraverso il suo racconto, un’esperienza già vissuta. Valenzi, in più, ha lasciato al nipote un “tesoro” di sette quaderni, scritti fitti fitti, nei quali ricorda gli anni terribili ma anche meravigliosi, perché legati alla sua giovinezza, della seconda guerra mondiale. Ma che tipo di personalità viene fuori, oggetto questo dello studio del grafologo, dalla scrittura presente nei diari ed in altri documenti di mano di Giuseppe Valenzi? Emilio Mei e i diari, detto senza falsa modestia, ci hanno dato ragione… Vediamo la grafia: forme semiangolose, strette, inclinate, parallele, regolari, prolungate in alto e in basso, legate,

si muovono con ritmo leggermente cadenzato ma con tenuta del rigo morbida, in uno spazio ordinato e ben gestito. La pressione è vellutata e con rilievi. Da notare: sopraelevazioni, gesti “a conchiglia”, nodi, la “d” lirica, la “r” ben disegnata. Cosa rivela questa scrittura? In generale l’approccio alla realtà è molto equilibrato. Sentimento e azione, non priva di prudenza, vanno a braccetto. Tutto questo alcool però non mi convinceva e consigliai ai miei compagni di non abusarne perché era evidente che doveva servire a toglierci lucidità. La costanza e la determinazione sono tali da potersi tramutare in ostinazione. Il bagaglio energetico è notevole e ben gestito. La ricerca dei contatti umani è basilare e facilitata da doti di mediazione e adattabilità. Il tutto condito da una profonda nota di dolcezza e umanità. Rivolto a un compagno in difficoltà: Allora lo presi per un braccio e trascinandolo lo misi davanti alla fila; poi gli dissi che se al tre non fosse partito non saremmo partiti nemmeno noi. Non manca una nota di orgoglio e narcisismo e il desiderio di attrarre l’attenzione su di sé che ben si sposano, del resto, con la capacità di assumer-

Inizio del diario

Maria Laura Ferrari. Grafologo giudiziario del Tribunale di Lucca. Socio AGP (Associazione Grafologi Professionisti). maria.laura.ferrari@tiscali.it info@marialauraferrari.com

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Firma (su cartolina del 1940)

si ruoli di responsabilità e leadership. L’intelligenza è di tipo logico ma sa anche trovare soluzioni semplificatrici e talvolta originali. …Avevamo bisogno di mangiare, ma cosa? I viveri a secco erano finiti e come procurarsene? Si dice che la fame levi il lupo dal bosco; ed è vero! Ebbi un’idea, ma per realizzarla ci voleva il benestare del comandante della compagnia. Particolarmente rivelatrice è la firma: omogenea rispetto alla scrittura, segno questo di personalità non camuffata ma spontanea e sincera ma soprattutto è il rapporto tra le tre zone della scrittura – superiore, media e inferiore – a darci interessanti indicazioni sul carattere del soggetto. Queste tre zone infatti, come teorizzò il grafologo svizzero Max Pulver, hanno ciascuna un ben preciso significato simbolico. La superiore è la zona degli ideali, delle aspirazioni ma anche, da un punto di vista psicologico, del Super-io, del dovere, del padre interiorizzato, la zona media rappresenta invece l’Io, il quotidiano, il concreto, la realtà, infine l’inferiore è sede delle pulsioni, dell’Es direbbe Freud, delle origini, degli istinti. Nella sua firma troviamo: gancetti in zona superiore, rigonfiamenti in zona inferiore con affondo ed uncino finale, zona media solida. A significare una personalità completa, a 360°, dove gli istinti danno vigore agli ideali, senza mai perdere in concretezza.


A TU PER TU

Nino

Benvenuti campione d’uomo

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uomo che non invecchia. Avere 75 anni e non sentirli. Questo è Nino Benvenuti, sempre alto, dritto, atletico, dal sorriso perenne. Ancora un bel fusto. Non ha un filo di ciccia e quando glielo facciamo osservare: «Non ho trucchi: mangio e bevo in maniera sana. Chiaramente qualche eccezione la faccio, come quella d’aver scelto genitori giusti!» Col suo piglio ironico prosegue dichiarando che cammina molto, “per bruciare calorie, accelerare il battito cardiaco, perché al nostro cuore bisogna voler bene!” Siamo a Firenze, al Salone dei Cinquecento in quel di Palazzo Vecchio durante l’evento del Premio Filo d’Argento dove appunto il grande pugile – ma quale ex…! – riceve l’onorificenza assieme ad altri personaggi illustri. È un grande onore per me essere in questo magnifico salone colmo di opere d’arte e dai meravigliosi affreschi. Essere in questa meravigliosa città è come “vincere sempre”, ho apprezzato moltissimo le parole del Presidente del Consiglio Comunale Eugenio Giani e, anche in fatto di cucina, non siete secondi a nessuno. Poc’anzi, alle Giubbe Rosse, ho pranzato divinamente. Ci racconti la sua vita, le celebrità conosciute, i pugni presi, queste donne che salgono sul ring, ed altro ancora. È inevitabile parlare di Mohammed Alì, nonché di Rey Robinson: figure enormi e carismatiche che hanno fatto la storia del pugilato mondiale: tempi in cui mi rese particolarmente orgoglioso l’essere stato loro amico. Mazzinghi è stato il mio avversario più glorioso e importante, mai conosciuto uno così tenace, potente e forte; ha fatto la storia del pugilato nazionale.

Con Cassius Clay mi fregio d’aver fatto le Olimpiadi di Roma: ci frequentavamo spesso, adesso come sappiamo è molto malato, tra morbo di Parkinson, Alzheimer… è in condizioni terribili, eppure col suo sguardo riesce a dirti delle cose che altre bocche non sarebbero capaci. Anche la figlia di Clay tira a box. Sì, nonostante tale sport sia prettamente maschile, sa… prima le donne vivevano in regimi quasi musulmani, oggi non è più cosi, accedono ovunque, anche ai vertici della politica. Ecco. Rimane tuttavia una pratica violenta. Lei crede che una donna non sia adatta a questo? Ma, andare in giro col naso spaccato. Ecco. Intercala spesso con questo “ecco” col suo bell’accento istriano. Mi scruta e… Voi in virtù delle vostre sembianze fisiche e morfologiche già dai tempi remoti avete sviluppato meno la muscolosità, però oggi con le palestre si recupera e non poco, diventate splendide atlete, pronte anche a salire sul ring: mi creda, ci sono donne che fanno un gran bel pugilato. Perché lei lasciò? Perché trovai uno più bravo di me che me menò ben bene! Monzon, per l’appunto! Lo dice allargando le braccia. Che vuole, avevo maturato più di vent’anni, dai 13 ai 33, avevo vinto di tutto, dai novizi ai mondiali, per cui mi ritrovai alla metà dei traguardi imposti superati brillantemente e finii come lei mi vede: felicemente, ecco. Tuttavia prosegue osservando che nella vita non bisogna mai e poi mai deporre le armi: con volontà e sacrificio si arriva ovunque! Una cosa che non dimenticherò mai è legata agli anni ’60, a Roma, quando ricevetti la medaglia d’oro e il titolo di Campione

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Olimpico; in quel momento raggiunsi tutto… potevo anche morire… beh, non proprio! Che dice di quel gigante chiamato Carnera? Lo conobbi molto bene, è un uomo che ha fatto la storia del pugilato; sono molto amico della figlia, Giovanna Maria. A questo campione del mondo anche dei superwelter e dei pesi medi, chiediamo se si occupa anche del sociale. Tutti lo fanno… chi del vicino di casa, chi con un amico per il quale ha combattuto 45 riprese tipo Griffith… il resto è storia. Dopo la morte di Emile Griffith a cui Benvenuti era legatissimo: Emile era così sensibile che quando mi colpiva involontariamente… “sorry, sorry”, del resto quando ti trovi faccia a faccia col tuo avversario, o scatta un grande odio, oppure una grande stima. Ecco.

Carla Cavicchini

In alto Nino Benvenuti a New York vince il Titolo Mondiale di Campione dei Pesi Medi contro Emile Griffith nel 1967 In basso Nino Benvenuti oggi

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MEDICINA

donne problemi di

la vescica iperattiva

Brunella Brotini

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escica iperattiva vuol dire forte urgenza della minzione, associata al fatto di doversi alzare la notte più volte a fare “pipì” e ad incontinenza. A risentirne sono soprattutto le donne che riferiscono spesso una limitazione nelle relazioni sociali e nella vita sessuale oltre a un vero e proprio condizionamento negli spostamenti, per la necessità di avere a portata di mano i servizi igienici. L’incontinenza si traduce in una dipendenza dal bagno e quindi in una progressiva perdita di libertà. Stare senza bere per affrontare un viaggio può risolvere (o meglio diminuire) il problema per un giorno o percorsi brevi). L’incontinenza può provocare un forte impatto sulla qualità di vita, soprattutto in soggetti della terza età, fino a minane l’autostima e l’equilibrio psicofisico. Troppe donne ancora pensano che tale patologia vada nascosta, che sia un evento naturale da sopportare in silenzio, così come si faceva con la menopausa fino a qualche anno fa. Da un’indagine condotta su 1560 donne dai 35 ai 70 anni, il 43% ha riferito di avere disturbi a urinare. L’età media è 58 anni tra coloro che ne soffrono, ma una su tre ha detto che il disturbo rende meno attraente e compromettente la femminilità.

L’incontinenza urinaria può essere da sforzo, durante l’attività fisica oppure quando si ride, si starnutisce, si tossisce, ciò è dovuto a una perdita pelvica per invecchiamento dei tessuti, oppure a urgenza, cioè il bisogno urgentissimo di urinare provocato da contrazioni incontrollabili della vescica. Fortunatamente esistono oggi farmaci in grado di aiutare la donna a superare questo, eliminando così il fastidio con minori effetti collaterali, quali bocca secca e costipazione. Essi sono dovuti al fatto che i recettori che si trovano nella vescica (e su cui agiscono i farmaci) si trovano anche nelle ghiandole salivari e nell’intestino. È auspicabile pertanto che tra il medico e il paziente ci sia un buon dialogo e che sia il medico ad aiutare la

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donna a esporre i sintomi che ella, per pudore o semplicemente perché li sottovaluta, tende a nascondere.


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alimentazione

menopausa

cosa sapere

Paola Baggiani

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a menopausa è un periodo fisiologico della vita della donna in cui cessa l’attività riproduttiva; coincide infatti con la fine delle mestruazioni, avviene in modo naturale in genere tra i 48 e i 55 anni in seguito ad una diminuita produzione di follicoli e di ormoni estrogeni da parte delle ovaie. La menopausa porta con sé una serie di cambiamenti che coinvolgono non solo la sfera fisica, ma anche quella psicologica. Viene diagnosticata quando le mestruazioni sono scomparse da circa un anno. Se si verifica in età inferiore ai 45 anni viene definita menopausa precoce; mentre si parla di menopausa chirurgica quando avviene in donne che sono state sottoposte a trattamenti chirurgici come l’asportazione dell’ovaio

e/o dell’utero. La scomparsa del ciclo mestruale può essere influenzata da fattori genetici; nelle donne fumatrici la menopausa può avvenire anche con alcuni anni di anticipo; anche un indice di massa corporeo inferiore alla norma e uno scorretto regime alimentare favoriscono l’insorgenza della menopausa. La menopausa non insorge bruscamente ma in un arco di tempo piuttosto lungo compreso tra i cinque e i dieci anni in cui i cicli mestruali variano come durata, flusso e si possono interrompere per diversi mesi e poi tornare. Il periodo che passa tra i primi sintomi e la cessazione del mestruo è detto climaterio. La riduzione e cessazione dell’attività ovarica determina tutta una serie di variazioni a carico di molti organi e tessuti; alterazioni

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dell’equilibrio ormonale, dell’apparato cardiovascolare e del sistema nervoso. Fra le manifestazioni a livello vasomotorio le vampate di calore sono le più frequenti: sono episodi di improvvisi sbalzi di temperatura, accompagnate da un aumento della frequenza cardiaca, con arrossamento e sudorazione soprattutto alla testa, viso e collo con successivo calo di temperatura fino alla sensazione di freddo. Si manifestano anche la notte dove contribuiscono a determinare un sonno disturbato e persistono di solito per alcuni anni dalla menopausa. Gli isoflavoni e i derivati della soia si sono dimostrati una terapia efficace per migliorare i sintomi. Tra i fattori psicologici più importanti insieme ai disturbi del sonno, sicuramente c’è la depressione che colpisce un 50% delle donne, soprattutto nei periodi iniziali della menopausa, ma che può presentare ricadute nel tempo correlate al calo dell’estradiolo. A livello cutaneo l’epidermide e il derma si modificano assottigliandosi e con diminuzione del collagene; la cute diventa meno elastica e disidratata, ciò causa un aumento delle rughe; a carico degli organi genitali l’atrofia della mucosa vaginale può portare a secchezza e prurito; disturbi dell’apparato urinario, con cistiti e uretriti, la cosidetta sindrome urologica della menopausa, con disuria e pollachiuria, fino ad episodi di incontinenza soprattutto notturni e a seguito di sforzo fisico. La diminuzione del desiderio sessuale, sempre legato ai cambiamenti ormonali, è accentuato per la secchezza con dispareunia. Fra le manifestazioni più tardive della menopausa ci sono dolori muscolari e articolari, e la diminuzione della massa ossea che determina osteopenia e osteoporosi: la riduzione degli estro-


geni favorisce una demineralizzazione delle ossa che divengono più fragili ed esposte al rischio di fratture anche a seguito di traumi di lieve entità. La diminuzione degli estrogeni comporta maggior rischio per ipertensione, ipertrigliceridemia, diabete e obesità. Durante l’età fertile la presenza degli ormoni sessuali esercita un’azione protettiva in quanto sembra avere un ruolo importante nei meccanismi di vasodilatazione soprattutto a livello delle arterie coronariche, e sulla concentrazione del colesterolo ematico. La mancata produzione degli ormoni in menopausa determina quindi un aumento del rischio cardiovascolare che nell’età matura è quattro volte superiore rispetto a quello esistente in età fertile, e dunque simile a quello maschile. Il periodo in cui la donna vive nello stato di menopausa comprende una buona parte della sua vita complessiva, circa un terzo, essendo l’aspettativa di vita media sempre maggiore; da qui l’importanza di avere un adeguato stile di vita e la necessità di eventuali terapie farmacologiche e non. Esiste una terapia sostitutiva con somministrazione di estrogeni spesso in combinazione con progestinici che si rende necessaria per la cura di sintomi troppo invadenti, spesso invalidanti. Accanto ai benefici di queste terapie come la diminuzione dei vari sintomi della menopausa, la diminuita incidenza di osteoporosi e di carcinoma del colonretto; bisogna tuttavia ricordare anche i rischi, come aumento dell’incidenza del carcinoma mammario, di ictus, di demenza, mentre per quanto riguarda le patologie cardiovascolari esistono studi controversi fra i benefici e i rischi di cardiopatia. I rischi e gli effetti indesiderati dipendono ovviamente dalla quantità somministrata e dalla durata della terapia, quindi è importante valutare la singola e specifica situazione e il rapporto rischio/beneficio. I fitoestrogeni (isoflavoni, genisteina, daidzeina), sono composti che si estraggono dalle piante di soia e trifolium pratense la cui azione nell’organismo ricorda quella degli estrogeni ovarici; gli studi

effettuati indicano un effetto positivo sui sintomi come le vampate e sulla circolazione. Uno degli approcci più efficaci per affrontare i cambiamenti, ridurre i disturbi e arginare i rischi che la menopausa comporta, consiste nel seguire un adeguato stile di vita: fare una quotidiana attività fisica come la camminata, bicicletta, nuoto o comunque ogni attività scelta in base ai propri gusti ed esigenze. Soprattutto seguire una terapia nutrizionale imparando a scegliere e abbinare gli alimenti adatti al proprio stato di salute, considerando che la menopausa è spesso il momento in cui le donne vanno incontro a un aumento di peso. Parlare di una dieta della menopausa ha senso solo relativamente poiché seguendo un regime alimentare equilibrato come la cosiddetta dieta mediterranea, saranno necessari soltanto alcuni cambiamenti e integrazioni. Uno dei fattori nutrizionali che rivestono notevole importan-

za nella prevenzione e nel trattamento della patologia osteoporotica, è l’introduzione di calcio, minerale fondamentale nel mantenimento della massa ossea. In menopausa il fabbisogno alimentare di questo minerale è di 1200-1500 mg./die e l’introduzione può essere fatta attraverso la dieta e con specifici integratori. Alcuni alimenti particolarmente ricchi di calcio sono i formaggi soprattutto grana, parmigiano, emmenthal, fontina; il latte; la frutta secca e oleosa; legumi come la soia, ceci, fagioli ; alcune verdure come broccoli, cavoli, rucola, insalata belga. È importante ridurre la perdita di calcio con le urine limitando il consumo di proteine animali, di caffè, soprattutto del sale. Il sodio presente negli insaccati e salumi, nei cibi in scatola, nei dadi, nei formaggi fermentati, favorisce la perdita di calcio con le urine, per cui è consigliabile non superare i 6 grammi di sale al giorno. Le acque minerali scelte in modo opportuno possono costituire un’importante integrazione

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dell’apporto giornaliero raccomandato di calcio, con il vantaggio di non dover assumere contemporaneamente anche grassi saturi, colesterolo, proteine animali e sodio come avviene invece con il calcio di latte e derivati. Sono acque che contengono oltre 300mg./l di calcio altamente assimilabile (disponibili anche nelle grandi distribuzioni). Anche se a volte è difficile da affrontare, la menopausa non è una malattia, ma un periodo fisiologico della vita della donna, un periodo complesso con cambiamenti nella sfera fisica, psichica e sociale. Negli ultimi decenni il rapporto delle donne e della società con la menopausa è cambiato radicalmente passando da un iniziale e passivo disinteresse a una eccessiva strumentalizzazione ai fini commerciali. Questo crescente interesse e sensibilità è almeno in parte il frutto del business che la menopausa e i suoi sintomi creano, fatto di farmaci, integratori, supplementi dietetici, istituti di estetica, riviste e pubblicazioni di ogni genere. Questa strumentalizzazione finisce col provare e spesso travolgere l’emotività di molte donne che pur conoscendo le strategie per affrontare gli eventuali problemi legati alla menopausa, la temono e spesso non l’accettano. Se i cambiamenti ormonali della menopausa spingono il corpo verso un processo di senescenza, su un piano psicologico, la menopausa segna l’inizio di un nuovo periodo, di un’altra tappa della vita della donna e un’occasione per crescere. www.baggianinutrizione.it


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GUSTO

ribollita un piatto povero dall’anima ricca

quando la tradizione si sposa con la semplicità Federica Farini

È

il fiore all’occhiello della tradizione gastronomica fiorentina ma non chiamatela (solo) zuppa, perché in lei si mescolano gusto, arte e storia: il suo nome di battesimo è ribollita. Come indica l’appellativo, questa specialità nasce dal minestrone che i contadini toscani usavano riscaldare per giorni, dopo averlo preparato con verdure di fortuna, avanzi, pane: la minestra acquistava ad ogni riscaldata maggiore sapore e prelibatezza, come tipico delle verdure. La sua storia risale al medioevo, quando i feudatari, dopo aver consumato i loro banchetti ricchi di carne spesso adagiata su pane azzimo, destinavano gli avanzi ai servitori: i resti di pane finivano bolliti nei pentoloni insieme alle verdure che si erano reperite nelle campagne. Non mancava quasi mai il cavolo nero, toscano e riccio – che la tra-

dizione vorrebbe cotto solo dopo che almeno una gelata intenerisca le sue foglie – e i fagioli cannellini, messi a bagno una nottata prima di essere gettati in acqua; per aromatizzare il tutto veniva aggiunto il timo, il cosiddetto “pepolino”. Consumata in inverno ma adatta in realtà a ogni stagione, la ribollita è diventata negli anni un pilastro culinario molto apprezzato nel periodo della quaresima: perfetti gli alimenti che la compongono al fine di osservare la regola del venerdì “di magro”. La sua consistenza è densa, a causa della lunga cottura del pane, tratto che distingue la ribollita sia dai minestroni che dalle zuppe; oggi viene arricchita, rispetto alla povertà del piatto più antico, solo da un goccio di olio extravergine d’oliva. Molte sono le sagre che la consacrano – per esempio nell’area di Montevarchi o del Lampredotto – per merito della gustosa semplicità che è capace di regalare anche ai turisti. Tracce della ribollita compaiono anche all’interno di dipinti, come ne La Ribollita di un anonimo toscano del XIV secolo, nei manoscritti italiani contenenti ricettari di cucina – nel corso degli ultimi secoli del Medioevo, il XIV e il XV – marcando una cultura già definibile italiana. La sua ricetta è stata certificata nel 2001 dall’Accademia Italiana della Cucina (delegazione di Firenze), che la consacra un bene insostituibile per la storia delle terre che l’hanno vista nascere. Pellegrino Artusi – scrittore, gastronomo e critico letterario italiano – la cita ne La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, come zuppa toscana di magro alla contadi-

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na, precisando che «questa zuppa che, per modestia, si fa dare l’epiteto di contadina, sono persuaso che sarà gradita da tutti, anche dai signori, se fatta con la dovuta attenzione.» Da notare che nella versione della sua epoca, la ribollita si valorizzava con ingredienti più ricchi, come “cotenne di carnesecca o di prosciutto tagliate a striscie”, senza venire “ribollita”, come invece la tradizione del piatto appartenente alla classe più povera esigeva per necessità. È solo nel 1910 che Cougnet, L’arte culinaria in Italia e il francese Monod, in Cousine Florentine, la tratteggiano come minestra di magro alla fiorentina, ma soltanto nel 1931 La Guida gastronomica d’Italia del Touring Club consacra questo piatto esattamente come lo apprezziamo oggi: zuppa di fagioli alla fiorentina lasciata raffreddare e fatta ribollire con aggiunta di nuovo olio. Immancabile l’abbinamento di questa intramontabile pietanza con un bicchiere di vino rosso fermo, di medio corpo: perfetti i toni dei Chianti dei colli fiorentini e senesi. Chiudete gli occhi e… assaporate un gusto senza tempo!


RIBOLLITA 400 g. di pane toscano raffermo (meglio se casalingo, cotto a legna) 400 g. di passata di pomodoro 1 rametto di timo sale olio extravergine di oliva pepe nero 500 g. di fagioli cannellini secchi 500 g. di cavolo nero riccio di Toscana 500 g. di bietola 2 patate medie 2 o 3 carote 2 o 3 coste di sedano 1 porro 1 cipolla rossa

Lessare i fagioli (già messi a bagno il giorno prima) e cuocerli a fuoco lento (per non sfaldarli) con un pizzico di sale, due o tre cucchiai di passata di pomodoro, uno spicchio d’aglio, salvia e olio extravergine d’oliva. Dopo la cottura passare metà dei fagioli e diluire la purea ottenuta con un po’ della loro acqua di cottura. Pulire il cavolo nero e la bietola, tagliandole a listarelle e lasciare le altre verdure a pezzi grossolani (solo la cipolla e il porro sono da tritare per fare il soffritto). In una pentola dai bordi alti far soffriggere porro e cipolla in abbondante olio extravergine d’oliva fino a doratura delle verdure. Aggiungere metà della passata di pomodoro e insaporire alcuni minuti. Aggiungere cavolo, bietola, carote, sedano,

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patate e il resto della passata di pomodoro. Cuocere fino all’appassimento delle verdure, aggiungere la purea di fagioli, salare e far cuocere per circa un’ora, fino a che il cavolo non appare ben cotto. Poco prima del termine della cottura aggiungere i fagioli interi, pepe nero e timo. Mentre la cottura procede: affettare il pane a fette alte un centimetro e disporle a strati in una zuppiera, alternandoli con la zuppa, facendo in modo che le fette assorbano bene. Far riposare per una giornata e quando è ora di consumare la ribollita riscaldarla in una padella, aggiungendo alla fine un goccio di olio extravergine e pepe a piacere. Per chi lo desidera è possibile aggiungere qualche fettina di cipolla rossa fresca.


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amici dell’uomo

Lagotto l’infallibile fiuto che stana i tartufi Foto Francesco Sgherri

Federica Farini

In alto Angelica Nardi titolare dell’allevamento insieme a uno dei suoi cani

Allevamento LA CIVETTA di Angelica Nardi Loc. Moriolo – San Miniato (Pisa) - Tel 347 188 4691

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ome riuscire ad appropriarsi di un gioiello che da sempre solletica interesse e fantasia, che può essere bianco oppure nero, amato dai greci, “diamante” dei banchetti romani e rinascimentali? Chiedetelo al cane Lagotto, fidandovi del suo fiuto per il… tartufo! Le origini di questa razza vanno ricercate nel Barbet e molto prima nel Canis Aquaticus, già presente nella classificazione redatta da Linneo, frutto dell’incrocio di segugi con cani da pastore. L’antico ceppo del Lagotto Romagnolo, il cui nome deriva dall’espressione romagnola “can lagòtt” – cani da caccia di palude o d’acqua dal pelo riccio e ispido – affonda le sue radici nel 1600, tra le pianure di Comacchio e le zone acquitrinose di Ravenna: il suo compito era di cercare la selvaggina abbattuta tuffandosi in acqua e, ovviamente, riportarla al padrone. La bonifica del territorio obbligò i cacciatori a trovare un’attività alternativa ai loro fidi compagni di avventure. Fu così che la dedizione e l’addestrabilità di cui solo un cane estroverso e disponibile come il Lagotto può disporre, hanno portato questa stupefacente razza all’eccellenza nella ricerca del prezioso fungo ipogeo. L’addestramento è condotto spesso impregnando oggetti come una pallina dell’odore del tartufo: fingendo il lancio il Lagotto sarà costretto a scavare al fine di trovare l’oggetto. Quando il compito è svolto in maniera corretta, il cane viene premiato per rafforzare la sua passione alla mansione.

Alcune scuole di pensiero ritengono che il Lagotto debba assaggiare i tartufi per riconoscerne meglio odore e sapore, altre preferiscono evitare, per non abituare l’animale a danneggiare il tartufo nel riporto o addirittura fare in modo che il cane lo divori anziché restituirlo. Il Lagotto tuttavia, a differenza dei cani da caccia, viene difficilmente distratto dal proprio lavoro, perché gli istinti venatori sono stati soppressi nel tempo, eliminando in questo modo anche la tendenza a marcare il territorio e aggredire, tutti aspetti che non possono intervenire nell’indebolimento dell’addestramento alla caccia al tartufo. Storicamente l’abitudine era di incrociare soggetti geneticamente consanguinei anche con setter, pointer, spinoni, al fine di ottenere esemplari sempre migliori: quest’attività rischiò di disperdere e danneggiare il prototipo di Lagotto iniziale. Alla fine degli anni Settanta un gruppo di cinofili iniziò un lungo e faticoso lavoro di ricerca e selezione, fino ad arrivare nel 1993 all’approvazione della razza da parte dell’ENCI e nel 1998 alla fondazione a Imola del CIL “Club Italiano Lagotto”: la razza è oggi ufficialmente la tredicesima in Italia e inserita nella categoria dei cani da riporto, nella sezione dedicata ai cani d’acqua. Il carattere del Lagotto è giocherellone, simpatico, intelligente e dolce proprio come il popolo romagnolo stesso, da cui questo cane ha ereditato l’aspetto e l’atteggiamento rustico, frugale e semplice, fattori che lo portano per indole a vivere la cerca

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ai tartufi come una sorta di gioco, nel quale applicare però sempre efficienza e competenza. La razza risulta vincente anche per l’attitudine sportiva e l’ottimismo contagioso, quest’ultimo perfetto per la vicinanza di bambini. Non è un cane con cui litigare perché non è conflittuale e il suo istinto lo porta sempre a compiacere gli altri. È fondamentale impartire regole precise sugli spazi e i doveri e non lasciarlo mai da solo, perché potrebbe intristirsi: coinvolgendolo sempre il Lagotto saprà amare incondizionatamente. La taglia è medio-piccola e i colori ammessi dallo standard sono il roano, il marrone fegato uniforme, l’arancio unicolor, il bianco sporco uniforme e il bianco con macchie marroni. Da ex-lagunare ama l’acqua ma si adatta perfettamente anche in montagna e in climi freddi: il suo mantello riccio e finissimo lo protegge perfettamente evitando che la pelle si bagni. Il Lagotto è praticamente esente da muta, ma il pelo tende tuttavia a infeltrirsi, è necessaria pertanto una tosatura completa ogni anno e spazzolature periodiche. L’arte è conta-


Foto Marco Leonardi

giata dalla presenza di Lagotti: questo cane non manca di comparire accanto al marchese Ludovico Gonzaga, riprodotto dalla sublime mano del Mantegna nel 1456, nello splendore della sua arte rinascimentale. Il pittore olandese del 1600 Jan Asselijn, che visse in Italia per alcuni anni, si ispirò a tal punto da ritrarre nell’opera Il cigno minacciato un cane sorpreso a spaventare un cigno: l’espressione e i tratti rendono inconfondibile l’identificazione con la razza del Lagotto. Anche il pittore romagnolo Guercino (Giovanni Francesco Barbieri), di scuola Bolognese del ‘600 – che sviluppò l’af-

fermazione della pittura italiana barocca – ritrae una scena domestica dove il cane gioca il ruolo del protagonista assoluto: un uomo, una donna e un Lagotto, nell’affetto di un cammeo di vita famigliare felice in compagnia del proprio animale preferito. Gli affezionati amanti della razza sono pronti a scommettere che anche in un lontano futuro il Lagotto sarà parte integrante e fondamentale di una cultura che lo amerà sempre, non potendo né volendo in alcun modo affievolire il bene che istintivamente si è portati a nutrire per un irresistibile “batuffolo dal pelo arricciato”… semplicemente Lagotto.

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Reality Cover a cura di Margherita Casazza e Nicola Micieli

Palazzo Inquilini San Miniato

9 novembre 8 dicembre 2013


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