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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658
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771973 365809
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Anno XVI n. 1/2014 Trimestrale â‚Ź 10,00
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EDITORIALE
Invasione di campo S
ignori miei, quanti cambiamenti nella nostra vita!
Quanti di noi hanno dovuto modificare le proprie opinioni, le abitudini, i modi di fare, le amicizie, lo stile di vita? A causa dell’ormai protratta contingenza critica, purtroppo molti hanno dovuto adattarsi a un nuovo lavoro, quando non l’hanno perso senza possibilità di recupero. Non sempre il cambiamento dipende dalla nostra volontà, questo è pacifico. Spesso lo subiamo perché decidono altri con i loro comportamenti, le loro scelte interessate, le loro strategie di potere e di governo che si riversano sulle spalle di tutti. Ognuno di noi tutti i giorni percorre la medesima strada e se non trova un intoppo, un “lavori in corso” non la cambia. L’abitudine gliela fa imboccare anche se la destinazione è diversa dalla consueta. Rapiti dai nostri pensieri, capita anche di trovarci – per strade a noi sconosciute – in un altrove dove non volevamo andare, almeno non in quel momento. Vero è che cambiare significa anche innovare. Cambiare uno o più giocatori o addirittura l’allenatore può migliorare le prestazioni sin là deludenti di una squadra, e magari rovesciare i risultati. Non mancano gli esempi di allenatori capaci di operare il rilancio alla grande di un club sottotono. Certo bisogna avere competenza, carattere, onestà e lealtà. Non è raro che la scommessa degli allenatori nasca viziato da un “peccato originale”: essi accettano gli incarichi azzardati per passione, ma soprattutto perché possono guadagnare molto in denaro e in fama. Ai risultati positivi maturati sul campo il compito di sciogliere il vizio d’origine facendo felici dirigenti, giocatori e tifosi della squadra in questione. Abbiamo parlato di scommessa “interessata”, e non vogliamo certo in qualche modo mettere in secondo piano le qualità professionali e il senso di responsabilità che si richiedono al bravo Mister. All’allenatore di razza non possono mancare queste doti, se vuol riuscire nel difficile compito di governare una squadra e fare dunque l’interesse di tutti, anche quando viene chiamato a operare all’estero. Un “allenatore” che si rispetti deve riuscire a fare spogliatoio, motivare i giocatori, affiatarli, farli sentire importanti e renderli determinati a conquistare il successo, che è dell’intera squadra. Anche di chi gioca in panchina. Il cambiamento che innova sta nel mix di scommessa e responsabilità. Senza queste condizioni il rischio di insuccesso è un fatto concreto poiché anche sui campi di calcio le abitudini sono radicate e può succedere che il vecchio sistema annulli i buoni propositi, vanifichi il potenziale positivo del cambiamento, nonostante chi decide assuma le proprie responsabilità. Il nostro made in Italy è imitato da tutti. Ciò significa copiare la storia, le tradizione, la creatività, gli stili di vita italiani. Siamo dei fuoriclasse, dei numeri uno. Dobbiamo crederci, riprendere fiducia in noi stessi, restituire dignità e orgoglio a chi lavora, in tutti i sensi. L’allenatore che ci guida deve lavorare per il sistema paese, e proprio in momenti difficili come questi che stiamo attraversando, è importante che egli sia determinato e sicuro di sé. Potrà subire anche aspre contestazioni per le decisioni che sul momento appariranno singolari e impopolari, dietro le quali si cela tuttavia un coraggioso e lungimirante disegno per arrivare al successo di tutta la squadra. A lui compete rendere credibili e necessarie le sue scelte. Noi tutti c’è lo auguriamo sforzandoci di “stare sereni”, anche se l’espressione un po’ ci insospettisce. Del resto in questa partita si rischia l’invasione di campo a “5 Stelle”.
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MAGAZINE
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Centro Toscano Edizioni srl Sede legale Largo Pietro Lotti, 9/L 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Studio grafico via P. Nenni, 32 50054 Fucecchio (FI) Tel e fax 0571 360592 info@ctedizioni.it - www.ctedizioni.it Direttore responsabile Margherita Casazza direzione@ctedizioni.it Direttore artistico Nicola Micieli Redazione redazione@ctedizioni.it Studio grafico lab@ctedizioni.it Abbonamenti abbonamenti@ctedizioni.it Text Paola Baggiani, Irene Barbensi, Carlo Borsari, Stefano Briganti, Brunella Brotini, Andrea Buscemi, Margherita Casazza, Carla Cavicchini, Andrea Cianferoni, Carlo Ciappina, Carmelo De Luca, Angelo Errera, Federica Farini, Maria Laura Ferrari, Michele Fuoco, Eleonora Garufi, Roberto Giovannelli, Matthew Licht, Roberto Mascagni, Marco Massetani, Paola Ircani Menichini, Nicola Micieli, Ada Neri, Paolo Pianigiani, Fernando Prattichizzo, Elena Profeti, Giampaolo Russo, Domenico Savini, Walfredo Siemoni, Leonardo Taddei, Samuela Vaglini.
Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658
In copertina Roberto Gasperini Ho visto un re, 2010 olio su tela cm 180x160
Reality numero 71 - marzo 2014 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 © La riproduzione anche parziale è vietata senza l'autorizzazione scritta dall'Editore. L'elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze. Ogni articolo firmato esprime esclusivamente il pensiero del suo autore e pertanto ne impegna la responsabilità personale. Le opinioni e più in genere quanto espresso dai singoli autori non comportano responsabilità alcuna per il Direttore e per l'Editore. Centro Toscano Edizioni Srl P. IVA 017176305001 - Tutti i loghi ed i marchi commerciali contenuti in questa rivista sono di proprietà dei rispettivi aventi diritto. Gli articoli sono di CTE 2014 - Largo Pietro Lotti, 9/L - Santa Croce sull’Arno (PI) - tel. 0571 360592 - mail: info@ctedizioni.it AVVISO: l’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, nonché per eventuali, involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o delle foto.
SOMMARIO
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ARTE E MOSTRE In viaggio con Gasperini Buon viaggio, Giuliano Officina pittorica Un vestito d’arte Ori e decori
Dolce colloquio a Ghizzano Gòste tod’à L’arte in Italia
T 36 40 43
L 44 46 48 50 53
letteratura L’amore di un giorno I Monuments Men Una vita di versi Cosa fa la gente Novità editoriali
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territorio e storia Pasqua in Puglia Persiani a Pisa Castelvecchio
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SOMMARIO
S 54 56 59 61 62
spettacolo Al cinema con gli Emiri Andrea Buscemi Pamela Villoresi Proietti, essere o non essere 50 anni di danza
E 65 67 68 73 76 77 79 81 82 84
C 85 87 88 90 92 93 94
COSTUME Matteo il conquistatore Ti pungo, donna Integratori alimentari Aztechi medicine men Mode di moda Vintage, ed è subito storia Pappa al pomodoro
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economia e società Il coaching La moneta? Mario Mulas Alla corte di Regina
Novo concetto di fare banca Cartier, stile e storia Firenze cólor Santa Croce, mister Europa Motori, che passione Il crocevia del futuro
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artista
in
viaggio con
Gasperini
Nicola Micieli
Nel mio cuore e nell’anima. È il titolo di uno dei miei dipinti. Significa che la vera arte sta dentro di noi. Devi essere capace di emozionare chi incontra e si intrattiene con i tuoi lavori. Non basta colpire con l’apparenza, la veste esteriore, la “spettacolarità” dell’opera. Occorre che riemerga quel che della tua interiorità hai calato nell’opera: deve manifestarsi e incidere in modo non superficiale nell’animo di chi guarda. L’arte dura nel tempo perché l’opera conserva quel suo potere di seduzione e di emozione che si rinnova a ogni nuovo contatto. Per i concettuali e gli installatori il mio ragionare non vale. All’opposto, loro eludono ogni emozione; nei loro lavori contano le “idee”, e spesso trovo che siano campate in aria. Gli installatori ti aggrediscono con grandissimi spazi dove tutto è apparenza e coinvolgono il fruitore con il loro spettacolo. Che finisce quando cala il sipario e l’opera si dissolve. La pittura, ripeto, ha soprattutto il compito di emozionare, e ciò è un compito davvero ardimentoso. Mi pare che oggi si sia ormai perso il senso umanistico dell’arte. Mascherone 2010, olio su tela cm 180x160
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a pittura di Roberto Gasperini – pittura tenacemente ancorata ai princìpi di probità sia formatrice sia esecutiva fissati dalla tradizione moderna – viene da lontano, come derivazione storica e come vicenda individuale. Avviato sostanzialmente da autodidatta di sicura vocazione e di non smentito talento, il percorso personale di Gasperini conta ormai oltre quattro decenni. E sono stati decenni di ricerca non monovalente dal punto di vista dello stile e della poetica, per quanto egli abbia mantenuto una contiguità di fondo nelle proprie linee di sviluppo. Peraltro Gasperini si è mosso sempre nell’ambito della figurazione. Certamente diverse, di periodo in periodo, le connotazioni dell’immagine, per modalità del linguaggio pittorico, definizione visiva e appartenenza tra
Roberto Gasperini
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sospensione metafisica e incidenza critica. Ma allo scorcio del secolo scorso e al giro di boa del secondo millennio, si registra un non prevedibile quanto lungo inserto che non può dirsi compiutamente aniconico. Nel senso che Gasperini operava una sintesi astratta collocabile tra la riduzione simbolica del dato reale, derivato per lo più dal mondo naturale e visitato con sguardo ravvicinato o anche attraversato come in microscopia, e la qualificazione emblematica della forma. La quale si mostra allusiva tanto a simulacri e grafemi anche ornamentali delle culture umane, quanto a complessi organismi in figura di nuclei internamente articolati e lacerati, insinuanti tanto da indurre un senso misto di attrazione e inquietudine. Non sfuggirà il carattere rivelatore di
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Trittico tribale 2005, olio su tela cm 150x120, cm 170x120, cm 150x120
interiori e anche oscure subsidenze, in quei simulacri totemici e soprattutto in quei convolvoli nucleari d’un erotismo splendidamente primario e fisiologico. Essi si sono inanellati in oltre un decennio di lavoro svolto soprattutto all’insegna del dripping e della tessitura sfrangiata e atomizzata, definita a zona sul nero prediletto del fondo seicentista (ma non mancano le versioni su fondo chiaro come in negativo) dalla modulazione plastica delle forme visitate dalla luce, dagli andamenti arcuati e pungenti delle linee di confine e dalle scriminature ed emergenze apicali della luce del colore della materia. Alle quali si deve quella sorta di ornato anche finemente trapunto che rende stranamente preziose, quasi criptici monili, queste pur estese ed emotivamente non neutre partiture. Dopo l’inserto astratto-simbolico, si registra il riflusso degli anni recenti, che dura al presente, nel bacino figurale. Gasperini ha rilanciato gli abituali suoi temi con moduli iconografici nei quali certamente si recupera l’abituale sua impostazione a ribalta e a scena dello spazio edificato ove si rappresentano le sue fantastiche storie e agiscono le sue maschere, i suoi personaggi invasati di bizzarri estri istrionici. L’esperienza nucleare della precedente stagione aniconica ha lasciato tuttavia i suoi depositi. Verifico infatti – almeno nei non numerosi dipinti che ho potuto vedere, alcuni dei quali qui pubblicati – come l’impianto scenico che costituisce il piano del fondo, accoglie un piano della figura organizzato in struttura centrale e globulare, appunto. Alle forme astratte di origine soprat-
Senza titolo 2010, olio su tela cm 150x100
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tutto biologica definite a zona, alle lacerazioni e sfrangiature dei precedenti organismi Gasperini ha sostituito un inviluppo di simulacri umani zoomorfi fisiomorfi oggettuali egualmente conformato a struttura nucleare. Sono corpi mozzati e forati di figure femminili e maschili che recitano indecifrabili storie, miste di favola e mito e sempre pervase di sensi e sottosensi erotici. Sono maschere, ircocervi, grilli, emblemi che potrebbero comparire in un codice miniato medievale, qui invero declinato con un gusto araldico arcimboldesco e una ridondanza formale da capriccio barocco. Sono ibridazioni animali e vegetali da zoologia e da botanica fantastiche, e oggetti e specole di scena funzionali
alla teatralità della rappresentazione che peraltro si svolge e si riavvolge su se stessa, con una circolarità che non può prevedere lo scioglimento della storia. Abbiamo discorso delle ultime due stazioni che segnano l’itinerario personale di Gasperini, anticipando i tempi di un viaggio nella pittura che, si diceva, viene da lontano. Alle spalle di Gasperini giovane artista esordiente, alla metà degli anni Sessanta, ma anche di lui pittore ormai avviato e consapevole dei propri mezzi e dei propri obiettivi nel corso dei Settanta e seguenti, ci sono la metafisica e il surrealismo, il realismo magico novecentista e quello critico ed esistenziale maturato in Italia tra anni Cinquanta e Sessanta. Sono movimenti, questi, che variamente si sono
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incrociati e hanno inciso nel seguito dei periodi. Bisogna dire che le proprie “fonti” Gasperini le ha accostate e assimilate per naturale simpatia, non già per un qualche calcolo di appartenenza a questa o quella tendenza aperta nel versante della pittura d’immagine. Del resto, a parte la conoscenza diretta – attraverso le opere presenti in pubblicazioni, gallerie e musei – di movimenti e personalità artistiche ormai storicizzati e comunque acquisiti pur quando ancora attivi, Gasperini ha sempre osservato il panorama artistico italiano da una postazione alquanto marginale della provincia italiana. La sua, difatti, è stata una vicenda artistica di viaggiatore solitario nel residuale “mare magnum” della pit-
La bestia (animale marino) 2008, olio su tela cm 200x200
nella pagina precedente Affabulazione 2010, olio su tela cm 180x210 Partenza per Citera 2011, olio su tela cm 180x160
tura memore, come dicevo, della tradizione moderna che soprattutto negli anni Ottanta, ha avuto in Italia una sua rivisitazione concettualmente motivata, tra neometafisica e citazionismo. Dunque pittore della provincia toscana, Gasperini, certo non disinformato e incapace di discriminazione e di giudizio, ma non meno schivo di abboccamenti artistici e di circolazioni mercantili che avrebbero
potuto in qualche modo condizionare e diversamente orientare le sue scelte stilistiche vocazionali. Gasperini ha insomma gettato le proprie basi operative e culturali acquisendo per elezione i maestri ai quali guardare per cogliere un certo clima formale ed espressivo piuttosto che veri e propri modelli stilistici. Del resto il suo figurare dilatato fino alla visionarietà è di natura introspettiva,
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dunque sensibilmente sottoposto a un coacervo di umori e tensioni psichiche. Si manifestano dunque gli sprofondamenti melanconici e mercuriali, dei quali sono spie convincenti i frequenti controluce che stagliano le forme sugli intensi e assorbenti neri dei fondi, non meno delle espansioni eccitate che permutano lo sguardo introspettivo in proiezione dell’immaginario, e sem-
brano drammatizzare una sarabanda festosa che sulla scena tuttavia mai si rivela di natura solare. Invero Gasperini ha sempre messo in scena, sotto specie di rappresentazione teatrale o di psicodramma che dir si voglia, i propri stati dell’animo come la propria idea della forma pittorica e delle sue figure rappresentative. Un’altalena continua tra introiezione ed estroversione incrociate nel luogo simbolico della scaena picta che è il visibile parlare o il raccontarsi per interposta visione di Roberto Gasperini. Non a caso nella sua iconoteca sono ricorrenti le figure simboliche del labirinto, evidente che sia o sotteso alla complessa struttura della mac-
china scenica, e del vulcano che ha segnato una straordinaria fase del suo lavoro, chiara metafora della compressione psichica in quanto luogo attraverso il quale dallo spazio chiuso o incluso dell’imo terrestre la materia combusta fuoriesce allo spazio aperto e si manifesta nella spettacolarità dell’eruzione. Erano labirinti tecnologici e robotici, stanze di contenzione di figure meccaniche condannate all’azione programmata, le composizioni che hanno segnato il secondo decennio del lavoro di Gasperini. Ed erano spazi chiusi le stanze del successivo periodo ad alta definizione visiva, nelle quali si celebrava non già l’azione, ma la sua sospensione in un congelamento
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ottico generatore di ansia claustrofobica. Sono stati spazi della combustione psichica e sensoriale gli interni con figure e oggetti dalla calda corporeità, poi chiamate a recitare sulle aperte ma avvolgenti scene egualmente visitate da una luce calda e dorata, come poetici angeli annuncianti uno stato di grazia. E hanno conosciuto una spettacolarità teatralmente fastosa e anche ridondante, le numerose e affollate ribalte nelle quali Gasperini ha lungamente riversato come apparizioni e personaggi recitanti, le figure emblematiche enucleate nelle proprie discese introspettive e dal viaggiare mitopoietico del proprio immaginario.
Le tentazioni di Sant’Antonio Abate 2013, olio su tela cm 160x180
e proprie apparizioni arcaiche e arcane di figure e oggetti simbolici di realtà metafisiche e metapsichiche. Nel decennio trascorso ha condotto una ricerca su forme simboliche nucleari, lanceolate, amebiche con una tecnica pittorica tra action-painting e informale. È stato invitato a rassegne come il premio Sulmona e il premio Marche e ha vinto il premio Sant’Ambroeus di Milano, il Michelangelo di Massa, il Leonardo di Pavia, la Rassegna Salvi di Sassoferrato. Ha tenuto mostre personali in importanti gallerie private e pubbliche, dal Fante di Spade a Milano allo Studio S di Roma, dalla Certosa Monumentale di Calci al Museo Piaggio Giovanni Alberto Agnelli di Pontedera.
Roberto Gasperini, nasce nel 1950 a Ponsacco, dove vive e lavora. Comincia a dipingere nel 1969 dopo aver frequentato per tre mesi il Liceo Artistico di Firenze. L’anno seguente la Galleria Macchi di Pisa espone le sue prime trenta opere, nelle quali si evidenzia un precipuo interesse per la metafisica. Nel seguito condurrà una ricerca appartata intorno alle possibilità di una pittura di immagine di varia assegnazione stilistica ma sempre teatro d’un racconto di rimando simbolico e intensa implicazione psicologica. Dapprima sotto specie di spazi labirintici e costrittivi, quindi di stanze nelle quali le figure appaiono bloccate nelle loro azioni, infine di ribalte aperte a vere
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Il gatto e la volpe 2013, olio su tela cm 180x160
Le tre etĂ di Veronica 2011, olio su tela cm 180x160
L’angelo castiga matti 2012, olio su tela cm 205x180
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buon viaggio, Giuliano UNO SGUARDO IN RICOGNIZIONE AEREA, QUELLO DI GIULIANO GHELLI, UN PRENDERE IL VOLO DAI TRAMPOLINI DELL’IMMAGINARIO E UN PLANARE LEGGERO SULLA TERRA RECANDO MESSAGGI CELESTI. E PER LA TERRA LE FIGURATE COLLINE DELLA SUA TOSCANA, CHE PAIONO DESUNTE DA UN DIPINTO TRECENTESCO, E LE VEDI SOLCATE DA RIVI E COSPARSE DI PIANTE SUI COLTIVI. GIULIANO HA DIPINTO L’OLTRE DEL REALE, IN FIGURA DI SCENA SQUADERNATA. COME QUINTE, DUE ANTE DEL SUO ARMADIO DELLE MERAVIGLIE ASTRONOMICHE BOTANICHE MECCANICHE METEOROLOGICHE E ALTRO E ALTRO ANCORA, SINTESI MORFOLOGICHE DA SQUISITA PASTICCERIA SEGNALETICA, DA GUSTARE CON GLI OCCHI IN SINESTESIA DEI SENSI. NEL SEGNO DELLA LEGGEREZZA E TRAVALICANDO IL CONFINE DEL REALE PER LA FESTA DELLO SGUARDO E LA FINEZZA DELLO SPIRITO. GIULIANO CI HA FATTO VIAGGIARE SUL VELIVOLO IDEATO DA LEONARDO PER DOTARE L’UOMO DELLE ALI GIÀ TENTATE DA ICARO, CONDUCENDOCI LUNGO OGNI POSSIBILE PISTA APERTA AL NOSTRO IMMAGINARIO, E SEMPRE CON IL SORRISO SULLE LABBRA, LA LETIZIA NEGLI OCCHI. GRAZIE PER I TUOI DONI, E CHE LA TERRA TI SIA LIEVE, ORA CHE SEI PARTITO. BUON VIAGGIO, GIULIANO.
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REALITY
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visibile parlare
O fficina
pittorica meditazioni pittoriche su Michelangelo che sospende di scolpire il Mosè per riflettere sul suo lavoro
Roberto Giovannelli
Roberto Giovannelli, 2012, Roberto Giovannelli osserva Michelangelo che sospende di scolpire il Mosè per riflettere sul suo lavoro mentre Niccola Monti lo dipinge in un meriggio estivo del 1838, olio su tavola (primo pensiero) cm 50x35 Roberto Giovannelli, 2014, Meditazione su Michelangelo che sospende di scolpire il Mosè per riflettere sul suo lavoro, da Niccola Monti, 1838, olio su tavola (primo pensiero) cm 90x75
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’invenzione originale emana dal disegno o dalla tela la presenza del suo autore. Sei tu quel Niccola che vedo al cavalletto mentre rappresenta Michelangelo nel suo studio in piedi su un soppalco di legno, come galleggiante a mezz’aria davanti al marmo abbozzato del Mosè, avvolto da uno sciame di pensieri che sono anche i tuoi, e che provo a sfiorare e condividere. Vedo il colore cinerino delle pareti dell’ampio vano prospettico, uno spicchio di cielo vibrante da un’alta lunetta (quasi premonizione dell’azzurra ferita aperta da Cesare Fracassini nel tetto dei suoi Martiri Gorgomiensi), i ferri del mestiere amorosamente sparsi fra minute schegge di marmo ai piedi del maestro, il modelletto in creta del profeta, appollaiato come una civettina sullo sgabello girevole che è al suo fianco, una boccia solitaria gravida
di mistero (una figurina inginocchiata come in atto di preghiera vi s’intravede a pelo d’acqua) sul piano del vicino scaleo, il gesso o il marmo di un torso sull’impiantito oltre il tavolame, sono gli umili ingredienti della tua silente composizione. Immerso in questo severo convegno di cose, in quest’aria densa d’emotività che pare estendersi come ombra al calare del sole, mi pongo nella stanza dipinta dalla parte opposta alla tua e ti osservo davanti alla scena che rappresenti e dipingo a mia volta il rovescio della tua composizione e il tuo ritratto. “Ci si gira dentro”, anche tu avresti potuto dire giunto a un punto avanzato del quadro, ed è così che io mi muovo tra quelle pareti; non per vana curiosità, ma per desiderio di partecipare dall’interno all’azione dell’opera, seguito dal lampo dei tuoi occhi barbaglianti oltre il profilo inciprignito dell’antico scultore.
Roberto Giovannelli, 2014, Meditazione su Michelangelo che sospende di scolpire il Mosè per riflettere sul suo lavoro mentre una luce azzurrina filtra da un alta lunetta, da Niccola Monti, 1838, olio su tavola (primo pensiero) cm 50x35 Visibile parlare. Lavoro in corso a margine della mostra, Disegno segreto. Omaggio a Michelangelo, a cura di R. Giovannelli, introduzione di A. Vezzosi, Accademia delle Arti del Disegno, Firenze, e alla mostra Ri-Conoscere Michelangelo, l’omaggio della Galleria dell’Accademia a cura di M. Maffioli e S. Bietoletti, in previsione di prossimi allestimenti
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Tu mi vedi, io ti osservo e ti ritraggo e anche tu volendo potresti dipingere il mio ritratto da aggiungere nello scorcio della tela che hai per mano, come in un mentale gioco di specchi. Forse non troverò il bandolo della matassa dei tuoi pensieri, ma sono rapito dall’intensità degli umori che aleggiano nel quadro, convertiti in severo disegno e pura superficie dipinta, ove il parsimonioso colore pare affiorare dagli abissi della semplicità. Mi conforta però in questa simulata incursione incrociare ancora il tuo sguardo e avvertire il senso di uno smarrito comune sentire, la corrispondenza di un’attitudine al fare con i poveri procedimenti della pittura (quest’arte «nobilissima» dicesti «la quale più temibile si mostra quanto più si studia e si conosce») per la conquista di nuove favole, miti, sogni, geniali follie.
MOSTRE
Finale Emilia
un vestito d’arte al loggiato ferito le “apparizioni” di Difilippo nel Castello delle Rocche
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cquistano valore di presenze umane le icone di Domenico Difilippo che dal dicembre dello scorso anno si sono “manifestate” al Castello delle Rocche di Finale Emilia. Il terremoto di due anni fa non ha risparmiato questa fortezza dell’architetto Bartolino da Novara, vissuto tra la seconda metà del XIV secolo e l’inizio del XV, al quale si devono pure la ricostruzione del Castello Estense di Ferrara e di quello di San Giorgio a Mantova. Ma è stato possibile utilizzare gli spazi del loggiato e su tre livelli l’installazione ha preso vita, con le 20 immagini che l’artista ha realizzato in vari materiali (carte, cemento, resine, colori, foglia oro...). è un vero spettacolo vederle di sera, quando le sculture polimateriche si connotano, nel filtro della luce, di azzurro, arancio, verde-azzurro, viola, oro. Difilippo le ha concepite non monumentali, non rigide nelle forme. Leggermente inclinate, quasi a esprimere tra loro un atteggiamento colloquiale, esse si offrono come per-
sonaggi della “noblesse” che hanno abitato in tempi remoti il Castello. Figure fantastiche e reali insieme, quasi di fulgido abbigliamento, che rispondono a una scena solenne, di esemplarità aristocratica, e anche profondamente umana. è una rappresentazione che tende a un’idea dell’arte capace di avverare il senso della grazia e della fuggevolezza in luoghi eletti. Luoghi custodi della letizia e della bellezza che l’artista recupera nella memoria culturale. «Si vuol creare - sostiene l’artista - il necessario interesse per la rinascita del monumento estense. L’intento è quello di sensibilizzare il senso di appartenenza a una comunità che si identifica con il suo passato e la sua storia». L’iniziativa ha impegnato anche l’amministrazione comunale e, in particolare, l’assessorato alla cultura. In primo luogo Difilippo che ha voluto rendere omaggio al suo paese (vi è nato 67 anni fa, ma vive e lavora a San Felice), in occasione dei 50 anni di attività artistica, che festeggia con il volume Il fascino della rappresentazione (Edizioni Baraldini), a cura
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del critico pisano Nicola Micieli, che è stato presentato il 18 gennaio presso il Centro di Attività Ricreative e Culturali (CARC) di Finale. Un volume che segna il suo percorso di pittore, scultore, operatore culturale e docente all’Accademia di Bologna. foto di Luciano Calzolari
Michele Fuoco
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FOCUS
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sete e gioielli nel Museo della Collegiata di Empoli Walfredo Siemoni
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alvolta siamo sin troppo frettolosi nel visitare i nostri luoghi museali, complice forse la ricchezza di opere che questi conservano, al punto tale che rischiamo di non apprezzarli in maniera adeguata. Una sosta più meditata, complice l’imparziale occhio di una macchina fotografica, può invece farci scoprire bellezze nascoste e, talvolta, impensabili. è il caso di un museo tra i più significativi tra quelli considerati - a torto o a ragione - minori, tra i molti che la nostra regione conserva, il museo della Collegiata di sant’Andrea a Empoli. Sorto all’indomani dell’unità nazionale, dapprima come semplice luogo atto a custodire quelle opere, principalmente pittoriche, provenienti dalla secolare pieve cittadina dismesse nel corso del tempo, è andato gradualmente assommando numerosi oggetti, taluni anche di grande pregio, in seguito alle soppressioni ottocentesche degli edifici monastici come pure provenienti dall’intero territorio comunale. Spicca, come non pochi critici e storici hanno fatto notare sin dall’Ottocento, una nutrita serie di tavole di gusto tardogotico, bisognose di un restauro che consenta loro di recuperare la brillantezza dei colori. A un’occhiata non superficiale si nota, all’interno di questo gruppo di pitture, scalabili tra fine Trecento e metà Quattrocento, un’insospettata ricchezza decorativa, innegabile quanto tangibile segno di ciò che esse rappresentavano per quella ricca borghesia mercantile sulla cui ricchezza la città di Empoli prosperò a lungo. Un bell’esempio può fornirlo un trittico, spesso ignorato dai pochi visitatori del museo nonostante le sue rispettabili dimensioni, riferito al prolifico
Nicolò di Pietro Gerini, proveniente da un altare di sant’Andrea e databile ai primi anni del Quattrocento (1). In esso, al di là della sobria eleganza che connota Maria - ma non può sfuggire la trasparente purezza di quel velo, quasi impercettibile a occhio nudo, con cui giocherella il Figlio - colpiscono quasi per contrasto le vesti dei due santi sulla destra, particolarmente san Leonardo la cui dalmatica appare magnificamente intessuta a broccato, esibita con sfoggio di una brillante cromia nello sbuffo della manica, al pari di quanto mostra il suo vicino, papa Gregorio magno (2). In effetti, 3
venerato Crocifisso ligneo di ambito Pisano, come ricorda il testo esibito dal san Gerolamo nell’altro pannello superstite. Anche in questo caso assistiamo a un’insospettata ricchezza, anche cromatica, una volta ripulito il colore offuscato, nel piviale stracarico di gigli dorati dell’angioino Ludovico da Tolosa, regalmente accompagnato dalla principessa Orsola il cui manto trapunto di stelline dorate non sfigura affatto al suo fianco (4). Sempre i
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pare proprio di poter affermare come la pittura tardogotica, specie nella sua accezione quattrocentesca, non lesini preziosismi tessili in particolar modo quando deve rappresentare il santo diacono, nelle ampie maniche come pure negli splendidi pettorali (3) quali evidenzia, oltre al detto santo, un altro diacono (Stefano o Lorenzo?) proveniente da quel disperso polittico che in origine incorniciava il
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due diaconi, Lorenzo e Stefano, offrono un ricco repertorio decorativo: dal prezioso esemplare ligneo (5) riferito al senese Francesco di Valdambrino (san Lorenzo e non santo Stefano
grande ancona forse in origine sull’altare della chiesa agostiniana di santo Stefano uscita sempre dalla bottega geriniana di fine Trecento? La bellezza di quei motivi floreali azzurri (8), tutti uguali ma anche tutti diversi, sul
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come sinora ritenuto e come chiarirò in altra sede) al san Leonardo lasciato attorno al 1425 da Bicci di Lorenzo per l’omonimo altare di pieve dipinto per i Guiducci di Spicchio, ricchi mercanti (6). 10
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fondo bianco crema della seta, impreziosisce e in un certo senso allevia il rigore quasi monastico dell’iconico 6a volto bloccato nel rigido soggolo monacale. Splendido, anche in virtù della maggior qualità pittorica, è il brano dell’ aristocraticissima Madonna nel giovanile trittico (1404) dipinto per la chiesetta di san Mamante da quel raffinato creatore di fantastiche immagini che fu Lorenzo Monaco. Ad onta della sporcizia che ne ottunde la raffinata cromia, lascia quasi senza fiato la leggerezza trasparente della veste dal colore indefinibile, tra il grigio, l’indaco e il violaceo, trapunta di minuscoli fiorellini dorati i quali causano quasi un’impercettibile vibrazione cromatica che non può che commuovere l’osservatore (9).
po dovrà passare prima che vengano corretti i cartellini delle due tavole?) al bordo del piviale nel suo compagno san Lazzaro vescovo o alle protomi leonine del faldistorio imperiale (12) su cui naturalmente siede Maria in un’altra tavola di Lorenzo Monaco in cui l’oro finemente inciso risalta a fatica sul fondo sempre dorato della tavola il cui splendore è rimarcato in modo 6b mirabile dalla splendida seta, sempre dorata, appoggiata al trono in cui sieNon meno preziose appaiono le imde la Vergine, quasi a richiamare lo magini della Madonna: solo in appasplendore serico di Angelico nel celerenza più sobrie, forse in osservanza bre tabernacolo dei linaioli fiorentini. delle leggi suntuarie emanate dalla Questo è solo un esempio di ciò che Repubblica fiorentina nei medesimi è in grado di offrire il piccolo – ma anni, volte a colpire l’eccessivo sfarin realtà grande – museo empolese zo dell’abbigliamento aristocratico; 9 troppo spesso ignorato e abbandoa ben guardare si scorgono eleganti nato a un triste destino di passività, Un vero e proprio unicum lo vediapreziosità come la sottoveste dorata, in parte dipinta e in parte incisa nel mo in un altro polittico, eseguito due ben lontano da ciò che la ricchezza metallo, che fuoriesce nella Vergine decenni dopo da Rossello di Jacopo in esso contenuta potrebbe rivelare a (7) al centro del medesimo polittico Franchi per la pieve di Montrappoli, tutti noi. biccesco. E che dire poi di quel man- dove, nonostante le forti abrasioni del foto di Alena Fialova to che ne avvolge la medesima figu- colore, spicca sull’aristocratica fronte ra mentre dona la propria cintura al alta di Maria un lievissimo diadema sempre incredulo Tommaso, in una al cui centro è un cristallo di rocca (10) incastonato a cabochon, incredibilmente sopravvissuto ai danni del tempo e degli uomini, a ricordarci l’innata purezza della Vergine. Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo: dai mantelli rivestiti e imbottiti di vaio, cioè foderati di preziose pellicce, ad esempio nel sant’Ivo del Maestro di Borgo alla Collina (11), alias Scolaio di Giovanni (quanto tem7
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FOCUS
dolce colloquio a Ghizzano
l’Annunciazione trecentesca di Tommaso Pisano Irene Barbensi
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na leggenda narra che due statue raffiguranti un’Annunciazione siano state recuperate tra le rovine di una vecchia chiesa a Ghizzano, frazione del Comune di Peccioli; trasportate da un carro trainato da buoi, là dove il carro si fermò, si decise di fondare un nuovo piccolo edificio che le ospitasse. Scenograficamente collocate sull’altare maggiore della Cappella della
Santissima Annunziata di Ghizzano, l’Angelo Annunciante e la Vergine Annunciata si presentano in tutta la loro eleganza che si esplicita nella dolce curvatura dei corpi e nella finissima resa dei tratti somatici. Le due statue, scolpite nel corso del XIV secolo, appartengono a quel cospicuo gruppo di statue lignee disseminate nella campagna intorno a Pisa che traggono la loro origine dal divulgarsi della moda iconografica del gruppo dell’Annunciazione e dalla scuola pisana dei figli di Andrea Pisano. Elegante e dolcissimo colloquio collocabile intorno agli anni Settanta del Trecento, sono caratterizzate da un modellato delicato e morbidamente composto nelle movenze. L’angelo sembra sviluppare in modo più personale il tentativo non troppo felicemente risolto di ripercorrere gli aspetti più teneri e dolci delle figure di Nino. La Madonna esilissima con un collo lungo e sottile e un volto affusolato, vive con una grazia accentuata ma
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più cortese e fresca, caratterizzata da un’esasperata sottigliezza delle proporzioni. La semplice veste rossa e la mobilità delle braccia consentivano probabilmente all’opera di essere vestita, nelle solennità, con abiti di stoffa. Queste deliziose opere sono state attribuite in un primo momento a Nino Pisano poi a Tommaso da affinità stilistiche con le statue della Dossale della chiesa di San Francesco di Pisa, unica opera a lui sicuramente attribuibile. A Tommaso, per molto tempo considerato dalla critica come offuscato dalla fama e dalla luce del fratello maggiore, si attribuiscono interventi esecutivi in molte opere di Nino: il modo di trattare le mani, con volumi appena sfaccettati, una più schematizzata descrizione dei capelli e un cadere meno modulato delle pieghe, ma anche certe curiosità decorative. Una bottega, la loro, dove dal padre ai figli si rielaboravano con mille variazioni modelli, schemi, motivi e
morfemi, dove le opere sono frutto di una stretta collaborazione che non sempre si ferma a una rigida divisione dei ruoli, in un’unità dell’attività imprenditoriale. Mentre Nino è alla ricerca di un nuovo linguaggio sulla scia delle soluzioni già realizzate in pittura da Simone Martini con un’acuta sensibilità per le variazioni del sentimento, di Tommaso sono note vicende di vita e notizie di committenze più che opere certe per firma e per attestazioni antiche; tuttavia, partendo dalle indicazioni desumibili dall’unica opera firmata, il dossale marmoreo di San Francesco di Pisa, si è creduto di riconoscerne l’attività in numerose opere di Nino, caratterizzate dalla predilizione per l’esasperazione sino quasi al grottesco o al caricaturale dei tratti dei volti e delle espressioni. Le accentuazioni sentimentali di Nino sono da Tommaso semplificate o irrigidite in un linguaggio che si abbrevia in contrazioni vernacolari. Di più aggiornata cultura è l’impianto architettonico, ispirato dagli altarini francesi; ciò può indicare una maggiore esperienza di Tommaso nel campo dell’architettura, come se nella bottega del padre si fossero specializzati in due diversi aspetti dell’attività paterna, mentre l’oreficeria fu invece attività seguita da ambedue i fratelli e forse in stretta collaborazione.
Per informazioni: Fondazione Peccioliper tel. 0587 672158 www.fondarte.peccioli.net info@fondarte.peccioli.net Facebook: Fondazione-Peccioliper Twitter: @peccioliper
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Bolgheri
installazione
Gòste tod’à contaminazione o gentile invasione di Stefano Tonelli Nicola Micieli
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n rendere visibile per segni agili fluenti radiosi, è il figurare grafo-pittorico di Stefano Tonelli. Segni come captati nel loro trascorrere d’onda dal sensore magnetico della mano che li traccia, ma è come se fossero sempre stati là dove l’artista li ha deposti. Invero sembra che egli non li abbia che svelati. Di nero vestito che sia sul candore del fondo, oppure variegato di colori altri per timbro e qualità, sempre il segno si manifesta vibratile e animato. Lo direi invaso da un suo fervore di animula vagolante, e sprigiona luce riverberante quando gremisce un’area delimitata e induce l’idea d’una forma, diradandosi alla periferia. Luce anche quando la materia pittorica si impasta e il segno inglobato emerge dal suo grembo come dall’abisso dello spazio cosmico. Sono allora nuclei di luce astrale che filtrano da lontane galassie; oppure sono, in figura, entità fiammeggianti, animule, angeli plananti o ali o piume comunque angeliche; oppure vettori radianti o altre emanazioni celesti evocate e riconosciute dallo spirito, dunque portatrici d’un “annuncio”. Non fosse altro – ma è molto altro di esoterico e intrinsecamente poetico – che la propria levità e discendenza dal tripudio delle fibre di energia che animano l’universo.
Il segno di Stefano Tonelli, ecco, è in ogni caso un annunciatore, e per le sue musicali partiture occorre davvero dar credito alla semantica arcana degli aruspici e dei profeti, i quali leggevano messaggi divini nelle manifestazioni dei segni. Stefano Tonelli porta i suoi segni con l’agilità e la puntualità d’un acrobata, l’intero corpo concentrato e partecipe del moto raccolto e scaricato sulla superficie dalla mano che depone i segni. Ci sono nei suoi gesti traccianti la coordinazione, il ritmo e il coinvolgimento corporale del danzatore. Un derviscio il cui vorticoso danzare mira alla consonanza armonica con le sfere celesti. Come in un balletto, proprio a tempo di musica Stefano Tonelli, ripreso da una telecamera dall’inizio alla fine, eseguì un grande dipinto intervenendo sulla tela posta in verticale mediante schizzi, nuclei, scie, filamenti del segno-colore. Nessuna interruzione, nessun pentimento, nessuna ripresa a posteriori di un’immagine di straordinaria organicità e dinamica armonia. Interveniva allora, come sovente fa, su una superficie abbastanza estesa ma pur delimitata, e avrebbe potuto travalicarla e seguitare all’infinito il suo concerto dei segni. Peculiare del suo figurare grafo-pittorico è difatti la proprietà di invadere o di colonizzare per gemmazione ogni superficie disponibile. E se le sue opere si conchiudono entro il recinto di una tela o di una carta – talora un foglietto da appunti o una pagina di libro o di spartito – e nella scena rivelata di un poetico racconto, al quale sovente concorrono l’immagine e la parola, intuisci che si tratta di frammenti di una storia di estensione totale. A proposito di segni invasivi, Stefano Tonelli che recentemente li ha liberati
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a “contaminare” un intero ambiente, li ha chiamati giustamente “gentili”, perché il loro dècor proliferante reca il messaggio della levità e della grazia. Lo ha fatto animando di segni figurali danzanti e diffusi le bianche pareti, il pavimento, gli arredi di “Gòste tod’à” (è un acronimo sillabico, ma vi sarà svelato in loco), singolare e accogliente “ristoro” nell’antico borgo di Bolgheri. Invaso dall’arte che alimenta lo sguardo e lo spirito ma si concede confidente e avvolgente e non disdegna di farsi in qualche modo “gustare” e persino calpestare, “Gòste tod’à” le affida il compito di introdurre il viaggiatore ai propri “segni” d’arte mirati alla sensibilità e al piacere del gusto e dell’olfatto. Sono la gastronomia e l’enologia, due eccellenze così legate al paesaggio antropico e alla cultura di Bolgheri, e alla estesa Toscana. Quale ulteriore germinazione del suo concerto di segni da “gustare”, Stefano Tonelli ha ideato un piccolo scrigno in forma di libro che custodisce segni danzanti e correlate parole, offerte allo sguardo complice del sensibile viaggiatore in sequenza di immagini figurali e verbali. Sono accensioni dell’animo e illuminazioni della mente mirate a rispecchiarsi nell’animo e nella mente di chi vorrà interrogarle, dopo il prelibato “ristoro”, e forse riconoscervi una proiezione di sé in questo o quel incrocio del segno e della parola. Nello spirito del gioco e perché si riveli un dono elettivo, è consigliabile affidare alla provvidenza del caso, dunque al disegno del destino, la “scelta” della pagina sulla quale soffermarsi. E per sottolinearne l’unicità, Stefano Tonelli ha corredato ogni esemplare di un disegno originale che ne sancisce la destinazione “ad personam”.
foto di zzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz
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L’arte in italia
LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA
LE STANZE DELLE MUSE
UMBERTO PRENCIPE E LA TOSCANA
8 FEBBRAIO 2014 25 MAGGIO 2014
11 febbraio 2014 11 maggio 2014
28 febbraio 2014 22 giugno 2014
BOLOGNA
FIRENZE
LUCCA
Palazzo Fava
Uffizi
Fondazione Ragghianti
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Bologna nella sede del Palazzo Fava è l'ultima tappa di un tour mondiale dei preziosi quadri del Mauritshuis, il museo de L'Aia in Olanda. La ragazza sarà però “solo” la star indiscussa dell’elegante mostra di 37 dipinti che le ruoteranno attorno: Il mito della Golden Age. Da Veermer a Rembrandt. Sei le sale che ospitano i capolavori del ‘600 olandese: nella prima i dipinti che ricordano la storia del museo Mauritshuis; la seconda Paesaggi con alcune opere di van Ruisdael; la terza, Ritratti, che comprende dipinti di van Rijn; la quarta, Interni con figure, con Diana e le sue ninfe sempre di Veermer; la quinta, Nature morte, con i capolavori di Pieter Claesz; infine la sesta dedicata interamente al capolavoro de La ragazza con l’orecchino di perla. A giugno 2014 tornerà a L’Aia senza più spostarsi per il resto della sua esistenza.
pprezzato direttore d’orchestra, Francesco Molinari Pradelli ha collezionato capolavori barocchi qualitativamente ragguardevoli, che raccontano un amore raffinato per i dipinti. In particolare, la natura morta rappresenta il genere prediletto, studiato, ammirato dal maestro e una sua elegante selezione occupa il piano nobile degli Uffizi con nomi altolocati: Jacopo da Empoli, Luca Forte, Giuseppe Recco, Cristoforo Munari, Arcangelo Resani, Carlo Magini. Tra le opere in esposizione trovano, altresì, rappresentanza le maggiori scuole attive in Italia nel Seicento e Settecento, basti menzionare Guido Cagnacci, Marcantonio Franceschini, i fratelli Gandolfi, Luca Giordano, Francesco De Mura, Palma il Giovane, Sebastiano Ricci, Bernardo Strozzi, Bartolomeo Biscaino, Giulio Cesare Procaccini, Gaspard Dughet, Pier Francesco Mola, Lazzaro Baldi, Paolo Monaldi.
mberto Prencipe dipinge la natura inseguendo la tradizione ottocentesca reinterpretata con immagini ferme, cromatismi, silenzio intimistico verso l’ambiente, non a caso nelle sue opere l’uomo è assente. Lucca omaggia il pittore con una mostra dedicata al paesaggio e al fermento culturale toscano durante il suo soggiorno nel Granducato. Questa terra affascina il maestro, che ne immortala le meraviglie in una serie di struggenti vedute: Vallombrosa, Barga, Saltino, Viareggio, Massarosa, Bozzano, Forte dei Marmi, la stessa Lucca sono affidate ai colori e alla composizione magistralmente orchestrata dal pittore. L’incontro con i luminari della scuola post-macchiaiola, il pittore Alceste Campriani, il giornalista Ugo Ojetti orientano Prencipe verso il connubio tra l’eredità romantica e la modernità di Cézanne, evidente in molte opere presenti in mostra.
L’OSSEsSIONE NORDICA 22 febbraio 2014 - 22 giugno 2014
ROVIGO Palazzo Revolella
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ributo all’arte nord-europea dominante le prime edizioni della Biennale veneziana, l’esposizione ne racconta il contributo innovativo in un panorama dominato dall’accademismo e dal genere pompier. Apprezzato negli ambienti culturali nostrani, il nordico suggestiona per i cromatici paesaggi silenti carichi di interiorità e inquietudine, per le raffinate ambientazioni domestiche, per le sfaccettature della psiche umana descritte attraverso bellissimi ritratti e maschere, per le evocazioni mitologiche e l’interpretazione simbolista dei miti. Larson, Munch, Zorn, Boecklin, Hodler, Klimt, Klinger, von Stuck, Khnopff, raccontano con l’operato presente in mostra il Simbolismo e il Secessionismo, che tanto hanno influenzato gli italianissimi De Carolis, De Maria, Sartorio, Laurenti, Bonazza, Sacchi, sino al klimtiano dei paesaggisti nostrani: Wolf Ferrari.
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Carmelo De Luca
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LIBERTY 1 febbraio 2014 15 giugno 2014 Forlì Musei San Domenico
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l Liberty rappresenta lo stile aggregante l’Italia post risorgimentale ancora dominata dai provincialismi. Un nuovo ideale del bello trova ispirazione nel progresso scientifico e tecnologico senza
PONTORMO E ROSSO FIORENTINO 8 MARZO 2014 20 luglio 2014 FIRENZE Palazzo Strozzi
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l termine rivoluzionario si presta benissimo per riassumere il contributo dato alla pittura cinquecentesca da Pontormo e Rosso Fiorentino. Considerati dallo stesso Vasari innovatori della “maniera”, i
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dimenticare la tradizione rinascimentale, ereditandone la fierezza eroica michelangiolesca e il sentimento delicato botticelliano. L’esposizione forlivese racconta tali peculiarità grazie a un parterre di opere spazianti dalla pittura alla scultura, dalla grafica all’editoria, dall’architettura alle arti applicate. Il nuovo stile trova negli elementi strutturali caratterizzanti la natura la fonte da studiare, interpretare, rappresentare, creando forme lineari sinuose e dinamiche attraverso l’utilizzo di cromie delicate, nuovi materiali, superfici lavorate, l’astrazione. Allegoria, mito, paesaggi quasi simbolisti, accomunano Andreotti, Baccarini, Boldini, Canonica, Casorati, Chini, Segantini, Previati, Boldini, Sartorio, De Carolis, Longoni, Morbelli, Nomellini, Kienerk, Chini, Zecchin, Bistolfi, Trentacoste, ne sono testimonianza le opere presenti in mostra insieme a quelle di molti colleghi stranieri. La sinergia tra le arti maggiori e le altre tecniche trova dimostrazione presso il convento domenicano grazie a capolavori in ceramica, ferro battuto, couture, mobilio, arazzi.
due maestri apprendono il mestiere grazie ad Andrea del Sarto, ereditandone l’importante esperienza artistico-culturale, in modo assolutamente originale. Non a caso il loro operato evidenzia indipendenza e creatività sgombre di limitazioni espressive. Pontormo rivoluziona la tradizione compositiva grazie alla spiccata attitudine per la sperimentazione aperta a linguaggi nuovi, alcune volte decisamente spregiudicata, e la ferma reazione al classicismo pittorico. Al contrario, Rosso Fiorentino rimane legato alle composizioni equilibrate del suo maestro, tuttavia ne accentua talmente le forme da farle divenire emblema di un mondo inquieto, esoterico, legato alla cabala. Palazzo Strozzi celebra i maestri con una mostra dedicata al confronto tra queste due personalità anticonformiste, innovatrici, artefici dell’arte contemporanea nel XVI secolo, le cui complesse qualità artistiche sono messe a nudo grazie agli eccezionali prestiti provenienti dall’Italia e dall’estero, tra i quali si annovera la celebre Visitazione di Poggio a Caiano, sapientemente restaurata per l’occasione.
ARTE E PERSUASIONE 7 MARZO 2014 29 settembre 2014 TRENTO Museo Tridentino
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alazzo Pretorio, antica residenza dei vescovi tridentini, ospita la mostra sulle arti figurative realizzate dopo il famoso Concilio locale, condizionante la sfera storica, artistica, sociale, politica del mon-
Giulio Guiggi 8 MARZO 2014 8 aprile 2014 LIVORNO Fondazione Livorno
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iulio Guiggi è stato uno dei maggiori scultori livornesi del Secondo Novecento. Volterrano di nascita e sin da giovinetto avviato
do papalino. In effetti, i nuovi dettami in materia religiosa orientano il culto per l’immagine verso una dimensione intima: pietas cristiana, sostegno alla fede degli avi, informazione, persuasione, diventano parametri da “imprimere” al simulacro e, attraverso esso, trasmettere ai credenti. Nelle sale espositive, due secoli raccontano la comunicazione visiva cattolica in Trentino attraverso opere realizzate da importanti maestranze, basti menzionare le Bibbie in latino, italiano, tedesco, tra le quali si annovera la Sisto-Clementina, documenti stilati durante il Concilio sul culto per l’immagine e relativi trattati, censure al nudo nell’arte, artistici manufatti personificanti la Madonna, Cristo, Santi, capaci di smuovere una coscienza devozionale e confermare la supremazia della Chiesa sul Protestantesimo. L’assenza di scuole locali giustifica le commissioni ad artisti provenienti da fuori confine e, tra essi, in mostra si annoverano Jacopo Palma il Giovane, Martino Teofilo Polacco, Francesco Frigimelica, Fra Semplice da Verona, Donato Mascagni, Pietro Ricchi.
alla scultura in alabastro, trasferitosi a Livorno trovò sin dai primi anni ampia possibilità di lavoro come ritrattista e autore di fregi e rilievi monumentali. Durante il fascismo, nel dopoguerra e nei decenni successivi, egli è stato sicuramente l’autore livornese maggiormente incaricato di opere pubbliche, civili e religiose, talché l’immagine della città ne è stata pregevolmente segnata. E con le opere pubbliche , una miriade di sculture specialmente consacrate alla figura della donna, i volti e i corpi fissati nella più ricca articolazione delle espressioni e delle posture, rese con un linguaggio plastico di impostazione classica ma declinato con una visione oblunga della forma e una complessità spaziale dei movimenti dietro ai quali si indovina la lezione del grande manierismo toscano. Come omaggio al maestro Giulio Guiggi, la Fondazione Livorno che ha acquisito alle proprie collezioni una importante scelta di sculture e disegni, propone ora nella propria sede una antologia compiuta della suo opera scultorea e disegnativa.
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Smens. La xilografia in rivista 1 marzo 2014 26 aprile 2014 ravenna Corridoio Grande della Biblioteca Classense
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a mostra Smens. La xilografia in rivista, che racconta l’avventura della rivista Smens, così atipica nel nuovo millennio per la sua impostazione artigianale che ne prevede la stampa tipografica in poche copie,
Ali Hassoun FOWARD 6-21 MARZO 2014 FIRENZE Palazzo Panciatichi
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alazzo Panciatichi ospita la mostra Forward del libanese Ali Hassoun, promossa dalla Regione Toscana e dal Comune di Pontedera. L’artista espone 16 opere di grandi dimensioni selezionate tra
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su un torchio a braccia e con i testi composti con caratteri di piombo. Unica nel suo genere anche per metodo di riproduzione delle figure, che sono tutte incise su matrici di legno. Xilografia. Un’arte, peraltro, che raggiunge esiti di straordinaria qualità nelle preziose xilografie quattrocentesche delle raccolte classensi, e che idealmente si legano a queste opere contemporanee nel segno della stessa tecnica. Xilografia, arte meravigliosa e attuale, classica e rivoluzionaria, che ha permesso di stampare i tessuti in Corea duemila anni fa e i manifesti della rivoluzione a Praga del 1968; «Smens - dicono i redattori Schialvino e Verna - è stata un’idea vincente per la sua caratteristica di essere fuori moda. I protagonisti sono gli autori dei testi e delle figure, tanto sorpresi per essere invitati a partecipare a un viaggio verso l’ignoto quanto pronti a inviarci i loro elaborati sui temi proposti. Le pagine e i legni arrivano da tutto il mondo. Occorrono un coltello, un pezzo di legno, un po’ di inchiostro e carta oltre alla volontà di parlare liberamente di poesia, mirare al bello, cercare un ideale da realizzare».
quelle già presentate al Museo Piaggio. Nell’occasione vengono inoltre esposte due delle opere che gli studenti dei licei scientifico e classico di Pontedera hanno realizzato lo scorso anno sotto la supervisione di Ali Hassoun. L’esperienza didattica voleva essere un contributo all’integrazione culturale e artistica dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, una esaltazione dei valori di fratellanza che prescindono dalle divisioni religiose e politiche. Il tema più evidente fra quelli che emergono nella ricerca pittorica di Hassoun è un’idea di “umanità” come qualità universale e comune fra tutti i popoli, fondata su una spiritualità originaria che precede le diversificazioni religiose e politiche. Così l’artista si fa interprete di culture diverse ma confrontabili, che convivono nello spazio perfettamente orchestrato delle sue tele coloratissime. Come dice l’artista stesso, «Forward è un ulteriore passo avanti su un percorso fluido attualmente in corso sulla strada dell’affermazione di una volontà di libertà e nella speranza e fiducia negli esseri umani per l’autodeterminazione del proprio destino».
PURI SEGNI 22 febbraio 2014 3 aprile 2014 LIVORNO Galleria Peccolo
consentono di percorrere le diverse tappe e gli sviluppi dell’arte astratta dai primi anni del dopoguerra ai nostri giorni. La prima è dedicata alle esperienze legate all’informale del dopoguerra. Vi compaiono tra le altre numerose, opere di Vedova, Scanavino, Accardi e Dorazio, per giungere fino a Fontana e Agnetti. Nella seconda si mettono invece a fuoco gli anni Settanta e si approda ai nostri giorni, attraverso la pittura analitica, la nuova astrazione americana degli anni Novanta fino alle più recenti esperienze grafiche quali quelle di Mimmo Paladino e Domenico Bianchi. Nell’ambito della rassegna Giancarlo Bertoncini, Elio Cappuccio e Roberto Peccolo hanno presentato il libro di Demetrio Paparoni II bello, il buono e il cattivo, Edito da Ponte alle Grazie.
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n’ampia rassegna di opere su carta dedicata all’arte astratta degli ultimi settant’anni. Curata da Roberto Peccolo e introdotta in catalogo da saggi di Elio Cappuccio e Demetrio Paparoni, è stata allestita alla galleria d’arte Peccolo di Livorno, ordinata in due sezioni che
stefano cecchi 17 maggio 2014 1 giugno 2014 LIVORNO Fortezza Nuova
Cecchi approda nelle sale voltate della Fortezza Nuova di Livorno. La mostra è una ridda di immagini giocate sul filo dell’assurdo, venate di grottesco e di umor caustico come per un delirio dell’immaginazione. Renzo Margonari definisce surrealpop il linguaggio misto di graffitismo, fumetto, art brut, espressionismo che Cecchi sciorina con una tale scioltezza di conduzione pittorica e proliferazione di invenzioni figurali e ircocervi o aberrazioni fantastiche della realtà, da stupire e attrarre in una ridda di paradossali e si direbbe mostruose situazioni visive, talora di apparenza anche oscena e truculenta, se non precipitasse la scena sempre sotto il bisturi affilato dell’ironia. Nel catalogo (Bandecchi & Vivaldi) note critiche di Paolo Diara e Marco Tonelli.
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ipinti di eccitazione visionaria a grande schermo e carte figurate come vignette di fumetti non meno dilatati dall’oblò d’uno sguardo visionario, sono le opere con le quali l’artista pisano Stefano
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CARTOLINE
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Pasqua in Carmelo De Luca Carlo Ciappina
Riti pasquali a Oria
Puglia Yes L
a Pasqua in Puglia si confonde con le tradizioni, basti menzionare la scenografica rappresentazione della Passione a Oria: occasione per rinnovare la fede avita, tramandata ai posteri anche attraverso il patrimonio religioso presente in città, del quale la barocca Chiesa Matrice ne rappresenta degno emblema. Le Processioni dei Misteri trovano in Francavilla Fontana il loro apice. Qui le confraternite locali, agghindate nei sontuosi costumi dal sapore antico, scortano in religiosa contemplazione la statua dell’Addolorata che, sin dal mattino, percorre le vie cittadine tra la folla silente e, all’imbrunire, i simulacri dei “Misteri” abbandonano le divine dimore tra le note struggenti della banda musicale e i penitenti in costume, le cui membra reggono compostamente il peso delle Croci in legno. Il folklore pasquale grecanico non ha rivali nei paesi salentini di origine “ellenico-ortodossa”: Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano dei Greci, Corigliano, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollino Alessano, Galatina omaggiano il Figlio di Dio attraverso canti dalle connotazioni bizantine. A proposito di Galatina, visitate il sontuoso patrimonio architettonico barocco, una risorsa meritevole di essere inserita tra i percorsi; turistici che contano insieme alla romanica Chiesa dedicata a Santa Caterina Riti pasquali a Bisceglie
d’Alessandria. Forse sarete stanchi da cotanto girovagare? Niente paura, le miracolose terme di Santa Cesarea ritemprano mente e corpo. Custodite in quattro grotte calcaree, le preziose acque salso-bromo-solfuree- iodiche-fluorurate, sgorganti alla temperatura di 30°, sono indicate per malattie respiratorie, epidermiche, artriti, traumi post-operatori e, ovviamente, wellness! La cittadina vanta rilevanti edifici dallo stile eclettico ospitati sulle alture rocciose vanitosamente affacciate sul Canale d’Otranto. Altra tappa obbligata per gli amanti dei percorsi religiosi è il celeberrimo Santuario eretto a San Michele, presso Monte Sant’Angelo, sintesi armoniosa di stili diversi, fede, storia, leggenda, racchiuso nella grotta dove apparve il divino Guerriero al vescovo di Siponto, dominato dallo scenografico campanile costruito nel 1274. I chilometri che lo separano dal Salento sono ripagati dalla mistica bellezza che avvolge la struttura. In verità, la Puglia diventa un groviglio di suoni, colori, profumi, visioni, già dalla primissima primavera ed Erchie ne rappresenta testimonianza con lo scoppiettante falò innalzato per onorare San Giuseppe, tra tavole sontuosamente imbandite con gustose pietanze voracemente consumate dagli intervenuti in effetti la qualità gastronomica di questa cittadina è decisamente allettante! E cosa dire di
Castro? Arroccato su un arcigno strapiombo, il borgo antico vanta un’inespugnabile fortezza inserita lungo le mura cinquecentesche dominanti un mare azzurrissimo, che abbaglia la “Grotta Zinzulusa” impreziosita da stalattiti e stalagmiti, così rinomata da meritare la tutela dal Karst Waters Institute. Arte, storia, natura, riassumono l’anima di Nardò, nobile abitato dal passato illustre come testimoniano il turrito castello, l’enigmatica “Osanna”, la Cattedrale in stile romanico-gotico, l’immenso patrimonio barocco; tutt’intorno regnano incontrastati siti rupestri inseriti nel Parco Naturale di Porto Selvaggio e Palude del Capitano, mare limpidissimo grazie ai bassi fondali di sabbia bianca, arcigne scogliere. Protetta da Capo d’Otranto, Guirdigagnano stupisce il visitatore per l’immenso “giardino megalitico” di dolmen e menhir, un unicum in Italia insieme alla necropoli romana di età imperiale. Lasciato il Salento, dirigiamoci a nord per l’escursione speleologica a Castellana, nelle celebri Grotte. Qui la meraviglia sintetizza il sentimento davanti al tripudio di stalattiti e stalagmiti creanti architetture bizzarre, eccentriche, estrose, grazie alle quali la natura ha generato un’arte unica al mondo. 3 Km di autentica bellezza animano corridoi, canyon, caverne dove regna il silenzio interrotto grazie all’armonico suono orchestrale il
Riti pasquali a Francavilla Fontana
Trani
Nardò
Galatina
Santa Cesarea Terme
Castello, Barletta
Erchie
Monte Sant’Angelo
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cui unico solista è l’acqua gocciolante dalle penzolanti formazioni calcaree che abbelliscono le volte. Basti avventurarsi nella Caverna della Lupa con la sua argentea pioggerellina o in quella dedicata ai Monumenti così accademica da sembrare un museo e, girovagando per i tortuosi meandri danteschi, forti emozioni riempiono la mente nell’ammirare luoghi suggestivi chiamati Grotta Bianca, Caverna della Civetta, della Torre di Pisa, della Cupola. Riprendendo il viaggio verso settentrione si raggiungono Andria, Barletta, Trani, la cui magia paesaggistica si perde nella storia e la memoria imperiale rivive nel patrimonio artistico lasciato da Federico II. Basti menzionare l’andriese Castel del Monte, meraviglia Unesco, simbolo di perfezione geometrica, architettonica, ambientale, la cui fama sconfina nell’esoterismo medievale. Anche i poderosi manieri ospitati da Trani e Barletta raccontano un passato glorioso, dinastie belligeranti pronte a difendere con le unghie i loro possedimenti, la consapevole di essere state protagoniste nella storia grazie alla celebre “Disfida” contro i cavalieri francesi. Questi luoghi magnifici meritano attenzione dagli operatori turistici affinché un’utenza più vasta possa conoscere il patrimonio artistico-culturale, del quale la Cattedrale di Trani rappresenta l’emblema. In
stile romanico pugliese, l’edificio sacro costituisce una rarità architettonica in tema estetico, accentuata dallo splendido scenario che la racchiude: un’ampia piazza, mare cristallino alle spalle, cielo sconfinato. Il nostro tour ha avuto inizio con le mete pasquali. Salutiamo il lettore deliziandolo con le attrattive offerte da Bisceglie, conosciuta per le rinomate spiagge di Scalette e Salsello, il cui patrimonio urbano ospita la celebre Processione del Bacio, incontro simbolico e ricco di suggestione tra la statua della Madonna e quella di Gesù, prossimo alla crocifissione, la mattina del venerdì santo, animante le storiche vie cittadine custodite nelle mura aragonesi. Giurdignano
Castel del Monte
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Castro
Grotte di Castellana
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STORIA
Persiani
Pisa
a
Ser Anthony Shirley e Hossein Ali Bey ambasciatori alla “corte” pisana di Ferdinando I Paola Ircani Menichini
I
l granduca di Toscana Ferdinando I (1549-1609) di solito dimorava nella splendida reggia di Palazzo Pitti, ma spesso e volentieri si trasferiva con la corte a Pisa per passare l’inverno in un luogo dal clima mite e curare agevolmente gli interessi dello stato legati al traffico commerciale marittimo. Dopo aver lasciato Firenze, in genere, faceva una sosta alla villa dell’Ambrogiana (Montelupo Fiorentino) e di lì, salito in barca, seguiva il corso dell’Arno fino a San Romano dove desinava e forse si riposava. Montava quindi in carrozza e raggiungeva Pisa e il palazzo reale. Questo bell’edificio, progettato dal Buontalenti, è ancora presente in città, trasformato in un museo. Si affaccia sul lungarno Pacinotti ed è delimitato dalla chiesa di san Nicola e da piazza Francesco Carrara. Il 7 dicembre 1600 il granduca ritornò a Pisa dopo aver sostato per neanche un mese a Firenze. Questo perché
nell’ottobre passato aveva dovuto curare il sontuoso matrimonio per procura della nipote Maria (1573-1642) con Enrico IV re di Francia. A conclusione dei memorabili giorni delle feste, aveva fatto imbarcare la figlia di Francesco I e di Giovanna d’Austria nel porto di Livorno sulla galera reale costruita appositamente e per l’occasione scortata da altre 16 galere. E aveva permesso che nel viaggio le facesse compagnia la moglie Cristina di Lorena. Sbarcata a Marsiglia, la giovane era stata consegnata al suo ineluttabile e controverso destino di madre di Luigi XIII, mentre la granduchessa era ritornata in Toscana. Ferdinando dunque, dopo aver sistemato gli affari fiorentini, accompagnato dal figlio Cosimo (1590-1621), era partito di nuovo per Pisa dove sarebbe rimasto fino al 19 maggio. Questo lungo periodo di tempo probabilmente era necessario per istruire nel governo dello stato il giovane
1. Ser Anthony Shirley in un’incisione del sec. XVII 2. L’ambasciatore Hossein Ali Bey
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principe - che non era mai stato nella città della Torre - e per seguire i lavori alla fortezza di Livorno, ai quali il fratellastro don Giovanni Medici, figlio di Cosimo I, aveva partecipato come uno degli architetti. Passato qualche mese dall’arrivo a palazzo reale, il granduca ricevette degli ospiti speciali: l’inglese ser Anthony Shirley e Hossein Ali Bey, ambasciatori plenipotenziari dello scia di Persia Abbas I il Grande della dinastia Savafide. Erano accompagnati dai segretari Oruj Bey, figlio del sultano Ali Bey, Ali Quli Bey nipote di Hossein, Buniyad Bey e da altri due compatrioti. Shirley conosceva già l’Italia. Nel 1598 si era arruolato volontario con il fratello Robert e altri gentiluomini in soccorso dei ferraresi nella contesa sulla devoluzione della città allo Stato della Chiesa. Arrivato tardi, nel maggio 1599 si era imbarcato a Venezia alla volta della Persia per promuovere il commercio dell’Inghilterra della regina Elisabetta I (1533-1603) con questa nazione. Lo scia ne aveva apprezzato l’impegno e lo spirito avventuroso e lo aveva incaricato di un’ambasciata presso le corti europee e quella di Boris Godunov imperatore di Russia per ottenere l’appoggio dei cristiani in una guerra contro l’impero ottomano. Il viaggio era cominciato nel luglio 1599 e aveva avuto come tappe Astrakan (15 settembre), Mosca (2 ottobre), Praga (autunno 1600), Monaco (primi del 1601) e… l’Italia (Roma, aprile 1601). Gli ambasciatori si fermarono anche a Pisa, alla corte di Ferdinando I. Il loro arrivo e la sosta sono ben descritti nel «Diario» manoscritto di Cesare Tinghi, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze1. Vi si narra di
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come il 20 marzo 1601 don Giovanni Medici, Francesco del Monte e Enea Vaini, maggiordomo del granduca, andassero incontro all’insolito corteo alla porta fiorentina della città. L’inglese2 - scrive il cronista ricordando i particolari più evidenti - era vestito alla «cristianescha» e i suoi compagni alla persiana (con caftano e turbante). La comitiva di benvenuto, che i tre avevano organizzato, era formata da più di 30 carrozze piene di gentiluomini, da tutti i cavalli della corte e dai cavalleggeri senza lance. Giunto così scortato a palazzo reale, Shirley fu trattato secondo il protocollo usato per gli ospiti di riguardo. In qualità di capo dell’ambasciata fu preceduto da don Giovanni a «manritta» (a destra) e condotto assieme ai persiani alla porta della sala grande dove Ferdinando li attendeva. Fatte le debite riverenze al modo cristiano e al modo orientale (levandosi il cappello e lasciando in testa il turbante), gli ospiti furono poi alloggiati nelle stanze dei
forestieri situate verso la piazza san Nicola e messi a tavola: Shirley fu servito dal cavaliere Porta Savella e dai paggi reali; i persiani invece fecero da soli seduti su un tappeto «alla turchesca». Il 21 marzo Ferdinando concesse agli ambasciatori udienza pubblica in una «salotta» del palazzo dove fu collocato il baldacchino e disteso sul pavimento il tappeto grande «senza budella» sul quale furono sistemati in aggiunta uno strato di tela d’oro e una sedia. Il granduca sedette per primo sotto il baldacchino e poi nell’ordine sedettero Shirley e Hossein che si levò le scarpe «con destro modo». Fece da interprete messer Angelo d’Aleppo. Il colloquio durò tre quarti d’ora e, per perorare l’alleanza dei cristiani con lo scià contro i nemici turchi, Hossein presentò a Ferdinando due lettere «alla persiana rinvolte in due sachettini lunghi e stretti, uno di drappo d’oro e l’altro di raso biancho». Dopo l’udienza gli ambasciatori restarono ospiti a palazzo reale ancora qualche giorno. Il 24 marzo furono condotti in visita a Livorno da don Giovanni e dal Vaini. La sera del 25 marzo – che era anche il giorno del capodanno dei fiorentini e dei pisani - Ferdinando, tramite il maggiordomo, regalò a Shirley «una catena d’oro fatta alla francese di valuta di scudi 700 et una medaglia con impronta di SA d’oro», mentre a Hossein donò una catena d’oro simile ma che valeva 300 scudi e con la stessa medaglia. Il 26 marzo, prima di pranzo, il granduca ricevette di nuovo gli ambasciatori nella «salotta» di sei giorni prima, ma questa volta tutti i presenti rimasero in piedi e gli ospiti «si licentiarono». Il giorno seguente partirono di buon’ora e privatamente, cioè senza nessun corteo di rappresentanza. Solo Enea Vaini li accompagnò «alla porta» della città3.
2 Note 1 Diario fiorentino di Cesare Tinghi, vol. I (1600-1615), Biblioteca Nazionale di Firenze, fondo Magliabechiano, Gino Capponi 261.1, ff. 9v e ss. 2 Ser Anthony Shirley (1565-1635), fratello di Robert e di Thomas, fu un intraprendente viaggiatore inglese. Raccontò le sue avventure in Sir Anthony Sherley: his Relation of his Travels into Persia. 3 In Spagna Ali Quli Bey, Oruj Bey e Buniyad Bey si convertirono al cristianesimo diventando rispettivamente don Filippo di Persia, don Juan di Persia e don Diego di Persia.
1. Pietro Francavilla, Ferdinando I di Toscana soccorre la città di Pisa, 1594, Pisa, piazza Francesco Carrara 2 e 3. Palazzo Reale a Pisa. Fu edificato a partire dal 1583 per volere di Francesco I
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“C’è qualcosa che va oltre a un lavoro eseguito a regola d’arte... ci sono la dedizione al risultato e il piacere del compimento...”
STORIA
Castelvecchio la villa ai tempi di Lodovico Cardi, il Cigoli
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a ricorrenza dei 400 anni dalla scomparsa del famoso pittore Lodovico Cardi detto Il Cigoli, ha stimolato la ricerca del suo luogo esatto di nascita. Dalla biografia scritta dal nipote Giovanni Battista Cardi, sappiamo con certezza che Lodovico nacque nella villa sita a Castelvecchio di Cigoli il 21 settembre 1559. L’attuale esistenza in detta località della villa Sonnino ha ingenerato l’erronea convinzione che tale villa sia il posto di nascita del pittore; ma la villa Sonnino fu costruita soltanto ai primi del ‘700, quindi la “villa” di cui parla il biografo è un’altra. In un mio precedente articolo apparso su Reality ho ipotizzato che la “villa” sia l’attuale immobile sito tra via ToscoRomagnola Est, via Giuseppe Gori e via Castelvecchio, ove un antico portale in pietra attesta l’erezione della cappella nel 1622 a opera di Filippo Dell’Antella. Dal Baldinucci sappiamo che nel 1628 il senatore Niccolò Dell’Antella, figlio di Filippo, in qualità di luogotenente del Granduca nell’Accademia del Disegno, autorizzò la pubblicazione della biografia del pittore, per cui esisteva una relazione importante tra i fiorentini Dell’Antella e i samminiatesi Cardi. Nella seconda metà del ‘500 Castelvecchio faceva parte del villaggio di Fabbrica, che aveva il suo centro spirituale nella Pieve di San Saturnino e San Giovanni Battista al Molino d’Egola. Tale appartenenza deve aver ispirato la famiglia Cardi all’inserimento nello stemma gentilizio di una ruota al molino d’azzurro a sei pale. Recenti ricerche di Manuela Parentini potrebbero avvalorare la mia tesi, in quanto nel 1780 i Cardi Cigoli avevano la casa familiare “à uso di villa” nella zona definita “la Porta” e da un
rogito del 1817 risulta che la “villa” confina con la via maestra che porta a San Miniato, si trova nei pressi della porta del castello di Cigoli ed è contornata su tre lati da un orto, in parte delimitato da un muro. Ulteriori conferme di quanto sin qui tracciato possono nascere dalla considerazione che al Molino d’Egola è presente l’oratorio romanico di Sant’Jacopo in Sant’Albino, che dipendeva dalla Pieve di San Saturnino e che contiene tre affreschi, già attribuiti dal pittore samminiatese Dilvo Lotti a Giovanni Mannozzi, detto Giovanni
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da San Giovanni. Costui si interessò Fernando Prattichizzo alla pittura del Cigoli e fu incaricato da Niccolò Dell’Antella di coordinare i tredici artisti che affrescarono il loro famoso palazzo degli Sporti in piazza Santa Croce a Firenze. Quindi, i Dell’Antella operarono nel villaggio di Fabbrica, stimarono e intrattennero rapporti con i Cardi e le ricerche catastali confermano che la “villa” dei Cardi non era posta in collina, dove si erge l’attuale villa Sonnino, bensì nel piano, proprio sulla via pisana, nell’edificio ove è presente il portale di Filippo Dell’Antella.
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LETTERATURA
l’amore di un giorno Dino Campana
Paolo Pianigiani
Dino Campana Collezione famiglia Bàusi, Firenze Bianca Lusena, Collezione Eleonora Chiarugi, Volterra La pittrice Bianca Fabroni, in arte: Donnabianca. Collezione Cristina Andreani, Firenze
A
partire almeno dal primo di aprile del 1916, data che figura in una lettera al fratello Manlio, Dino risiede insieme ai genitori, che vi si erano trasferiti per la nomina del padre Giovanni a Direttore Didattico, a Lastra a Signa, presso l’Albergo Sanesi. Convalescente per una malattia di sette mesi, il poeta si trasferisce il 28 di maggio del 1916 a Livorno, in via Malenchini n. 9, presso la signora Fortunata Natali e frequenta la villa della pittrice marradese Bianca Fabroni, ad Antignano; che era più nota con il suo nome d’arte: Donnabianca. Si porta dietro alcune copie dei Canti Orfici, con la
speranza di venderle, contando anche sulla pubblicazione dell’articolo di Emilio Cecchi, uscito sulla Tribuna del 21 maggio. Viene quasi subito fermato (31 maggio) da un maresciallo di finanza, e scambiato per una improbabile spia tedesca, perché aveva chiesto a due signore indicazioni sulla ubicazione del Cantiere Orlando e della Regia Accademia Navale. Chiarito l’equivoco viene rilasciato. Dino rimane a Livorno fino al 20 giugno, quando viene di nuovo arrestato, questa volta dalla Polizia Municipale, per aver fatto in pubblico discorsi incomprensibili. Viene rilasciato, ma espulso immediatamente da Livorno. Comunque, durante una delle sue visite alla villa dell’amica pittrice, nel giugno 1916, Dino ha la ventura di incontrare una croce-
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rossina, Bianca Lusena, ospite anche lei ad Antignano. Per lui sarà amore a prima vista… per lei una imbarazzata conversazione: era in attesa di ripartire per il fronte e aveva appena ricevuto la notizia della morte del suo fidanzato: aveva altro a cui pensare. Per far colpo sulla signorina, oltre a presentarsi come poeta (le donò una copia del suo libro), le scrisse lì per lì, una poesia “patriottica”, dicendole che era improvvisata, nata dall’emozione di quell’incontro. Citata appena nelle prime biografie dedicate al poeta, Bianca fu rintracciata da Gabriel Cacho Millet a Roma, nel 1977, e intervistata con tatto e umanità: il biografo non ebbe il coraggio di svelarle che la poesia da lei sempre ritenuta scritta all’impronta, in realtà era già stata pubblicata un mese
prima, il 1° maggio, sulla rivista “La Riviera ligure” e dedicata al direttore della stessa, Mario Novaro. Bianca conservava ancora la copia dei Canti Orfici che il poeta le regalò, con dentro ben ripiegato quel testo manoscritto, intitolato “All’Italia”, che Dino le scrisse sotto il grande fico che occupava il giardino della Villa. In occasione della recente pubblicazione del carteggio campaniano, curato da Gabriel Cacho Millet, Lettere di un povero diavolo, ed. Polistampa Firenze, 2011, ho avuto modo, dando una mano per l’iconografia del libro, di conoscere una nipote di Bianca, Nora Chiarugi, professoressa di lettere classiche nata a Empoli e
residente a Volterra. Mi ha raccontato tutto di “zia Bianca”, condividendo con me documenti e fotografie. In particolare mi ha portato il ritratto a olio, eseguito da Donnabianca a Trieste, nel 1939. Titolo: Intimità. è comprensibile che Dino Campana si sia perso quello sguardo ampio e misterioso, nero come la notte, e che abbia fatto di tutto per lasciare un segno in quell’animo gentile. Anche dire una bugia. Bianca era figlia di un generale ebreo, Leonardo Lusena, per un certo periodo residente a Empoli, dirigente industriale e fondatore, nel 1926, della locale Pubblica Assistenza. La sua famiglia si trasferirà nel villino liberty, già appartenuto a Renato Fucini, in via Giovanni da Empoli. La figura del generale, piccola in verità, è rimasta immortalata nella foto ricordo della inaugurazione del monumento alla Vittoria, avvenuta nel 1925. Il fratello di Bianca, Umberto, sarà una delle vittime delle Fosse Ardeatine. Scrisse una lettera alla moglie, poco prima di morire e se la mise in tasca. Sarà ritrovata e pubblicata, ed è uno dei documenti più commoventi che ci sono rimasti di quello spaventoso eccidio. Bianca rimase sempre legata alla Croce Rossa, diventando una dirigente di spicco. Sarà lei a coordinare le ambulanze durante il bombardamento alleato di Roma. Ma torniamo a Dino
Campana: non furono una vera truffa quei versi scritti lì per lì, sotto al fico, come per partecipare al dolore della bellissima Bianca; semplicemente si era perso in quegli occhi d’infinito, e voleva solo rubarle un po’ d’attenzione. E forse, il cuore.
Bianca Lusena a una manifestazione della Croce Rossa, insieme al Principe Umberto Donnabianca: Intimità, Trieste 1939. Olio su tela Donnabianca: Il fico, 1964. Collezione Centro Studi Campaniani Enrico Consolini, Marradi
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storia
iMonument s Men italiani Rodolfo Siviero
Samuela Vaglini
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n dibattuto film, uscito nelle sale cinematografiche italiane nel febbraio scorso, scritto, diretto, prodotto e interpretato dal ben noto attore George Clooney, ha il merito di aver riportato alla ribalta dell’attenzione pubblica una vicenda poco nota legata alla Seconda Guerra Mondiale: il salvataggio delle opere d’arte a opera di una task force sotto l’egida degli Alleati. Si tratta di Monuments Men: con questo nome erano identificati circa 350 volontari di 13 nazionalità diverse, tra uomini e donne, esperti d’arte, critici, direttori di musei, architetti, che lavorarono con i militari per tutelare l’immenso patrimonio culturale e artistico europeo minacciato dalla distruzione della Grande Guerra, dal saccheggio dei Nazisti e dai sogni maniacali del loro Führer. I Monuments Men operavano nell’ambito della sezione MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives) costituita nel 1943 e legittimata dal genera-
le Eisenhower, che raccomandò alle forze armate in campo il rispetto dei siti di importanza storico-culturale ed il supporto logistico a favore di questo gruppo. Anche conosciuti con il nomignolo Venus Fixers, gli “aggiustaveneri” erano stati arruolati e addestrati per individuare e mettere in sicurezza le opere d’arte e i monumenti annoverati nelle lunghe liste compilate prima di intraprendere questa campagna. Il loro compito era anche quello di seguire le tracce delle opere trafugate e nascoste per recuperarle e poi ricollocarle dove erano state sottratte. Fu così che, tanto per citarne alcuni, Fred Hartt contribuì a salvare i tesori degli Uffizi in ville e rifugi di fortuna, Deane Keller si prodigò a Pisa e Perry Cott si occupò del patrimonio della Pinacoteca di Brera. Grazie all’opera impagabile dei Monuments Men sono stati restituiti oltre cinque milioni di oggetti rubati tra libri, disegni, sculture, dipinti e oggetti sacri. Altrettanto poco conosciuti ma ugualmente fondamentali sono stati i Monuments Men nostrani, civili italiani che misero a repentaglio la vita per la salvezza del patrimonio del Belpaese e che rischiano oggi di essere sottovalutati perché la luce dei riflettori non arriva a illuminarli adeguatamente. Francesco Arcangeli, Giulio Carlo Argan, Gian Alberto Dell’Acqua, Palma Bucarelli, Noemi Gabrielli, Emilio Lavagnino, Bruno Molajoli, Giovanni Poggi, Ugo Procacci, Pasquale Rotondi, Rodolfo Siviero sono solo alcuni fra quanti si spesero per la salvaguardia e il recupero del patrimonio artistico italiano negli anni della Seconda Guerra Mondiale e nel periodo post-bellico.
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Questo breve articolo non ha la pretesa di fornire un approfondito resoconto dei fatti e l’elencazione esaustiva dei loro pregevoli artefici, ma si propone semplicemente di fornire all’interessato qualche spunto conoscitivo per successivi autonomi approfondimenti e a coloro che “ignorano” di rivelare questo insolito, ma non meno reale, risvolto della guerra. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la propaganda nazi-fascista cercò di fare leva sul timore degli Italiani per la propria incolumità e per la conservazione del proprio territorio e del patrimonio nazionale. I Tedeschi istituirono in Italia un Kuntschutz, ufficio di protezione artistica che raccoglieva le opere italiane per portarle in Germania, dove – assicuravano – sarebbero state meglio protette e più al sicuro dalla depredazione degli Alleati. Molti funzionari italiani, assuefatti alla propaganda, ne intuirono subito le reali intenzioni e capirono che, invece, l’unica salvezza del patrimonio italiano avrebbe potuto essere garantita solo dalle forze in arrivo oppure affidandole a Pio XII che le accolse in Vaticano e, addirittura, ricoverandole in rifugi di fortuna. Si potrebbero raccontare le peripezie del romano Emilio Lavagnino, storico dell’arte e ispettore che portò in salvo in Vaticano oltre 700 casse contenenti migliaia di opere oppure si potrebbe accennare al milanese Gian Alberto Dell’Acqua, il soprintendente che nascose le opere della Pinacoteca di Brera nelle Isole Borromee o, ancora, si potrebbero ricordare le gesta rocambolesche di Pasquale Rotondi, il soprintendente che riuscì a trasferire un tesoro ine-
stimabile di opere d’arte nella Rocca di Sassocorvaro nelle Marche, nel Palazzo dei Principi di Carpegna e nel castello di Urbino. Una scelta, però, va fatta e allora ho scelto di soffermarmi sulla figura di Rodolfo Siviero, la cui vita e le cui imprese sono legate a doppio filo con la città di Firenze e la Regione Toscana, cui ha lasciato per volontà testamentaria la sua casa in Lungarno Serristori, divenuta il museo a lui intitolato. Rodolfo Siviero nacque a Guardistallo, in provincia di Pisa, nel 1911, ma si trasferì ben presto a Firenze, dove si formò culturalmente e dove operò a lungo. La breve adesione giovanile al Fascismo, da cui si distaccò nettamente con la promulgazione delle “Leggi razziali”, non adombra il valore delle sue imprese. La sua attività di agente segreto per le forze alleate la collaborazione con i partigiani che stabilirono la propria centrale operativa nella palazzina acquistata da Siviero in Lungarno Serristori, da dove controllavano e ostacolavano la spoliazione ad opera del Kuntschutz;
infine, le torture subite dalla milizia fascista di Mario Carità durante la prigionia nella Villa Triste di via Bolognese contribuirono certamente alla nomina, nel 1946, a capo dell’Ufficio Interministeriale per il Recupero delle Opere d’Arte. Fu un incarico che svolse con ampio successo. La sua cultura, il fascino legato a una certa spregiudicatezza, la concretezza del suo agire unito alla rete di conoscenze e contatti che si era saputo creare, gli valsero il soprannome di “007 dell’arte”. Con il suo intervento l’Italia poté recuperare le opere trasportate illegittimamente in Germania, quelle razziate dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 oppure quelle “alienate” ai gerarchi nazisti con il beneplacito dei fascisti. Esemplare fu il salvataggio dell’Annunciazione del Beato Angelico
all’inizio del 1944. Venuto a conoscenza che il Kuntschutz avrebbe prelevato l’opera per conto di Goering che la voleva per la sua collezione, Siviero fece portare via e nascondere il dipinto il giorno prima dell’arrivo dei militari Tedeschi. Oggi il dipinto si trova nel Museo della Basilica di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno. Un travestimento gli consentì di prendere e nascondere i quadri di Giorgio De Chirico che i Tedeschi volevano requisire. Il pittore, infatti, sposato con un’ebrea, era dovuto fuggire dalla sua villa di San Domenico di Fiesole per non incorrere nei rastrellamenti. A Siviero si deve anche il recupero dei tesori degli Uffizi. Durante la guerra, per proteggerle dai bombardamenti, le opere dei musei italiani erano state ricoverate in depositi nella campagna. Il 3 luglio 1944 il Kunstschutz fece evacuare il deposito della villa Bossi Pucci a Montagnana vicino a Montespertoli dove si trovavano 260 dipinti della Galleria degli Uffizi e di Pitti. Le pitture presero la direzione dell’Alto Adige, territorio annesso al Reich, e furono depositate nel tribunale di San Leonardo di Passiria. Siviero organizzò un servizio di osservazione lungo le strade che consentì di far sapere ai comandi alleati dove, come e quando le opere erano trasportate. Ciò contribuì al trasporto incolume dei dipinti e permise, dopo la fine della guerra, di ritrovare facilmente più di 600 capolavori dei musei fiorentini, che gli alleati restituirono alla città il 22 luglio 1945. Stessa sorte nel 1944 e identico felice finale lo ebbero le sculture degli Uffizi e del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, che erano state depositate nella chiesa di Sant’Onofrio a Dicomano, nonché le sculture del Bargello, del castello di Poppi e della villa Bocci di Soci con altre opere dei musei fiorentini depositate nella Villa di Poggio a Caiano. Le sculture furono avviate verso nord e si fermarono in Alto Adige, dove furono depositate nel castello di Campo Tures. Il servizio
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informativo di Siviero controllò questi movimenti permettendo agli Alleati di ritrovarle e restituirle a Firenze nel luglio del 1945. La missione diplomatica condotta da Siviero nel 1947 si concluse con la restituzione delle opere dei musei napoletani depositate a Montecassino e da lì tradotte in Germania, che l’opera salvifica del Vaticano non era riuscita a trattenere. Nel 1953 Siviero intercedette per la realizzazione di un accordo tra il capo del governo italiano De Gasperi e il cancelliere della Germania Federale Adenauer, che prevedeva la restituzione di tutte le opere ritrovate in Germania alla fine della guerra. Negli anni seguenti proseguì la caccia agli oltre 600 capolavori di cui si era perso traccia. Da ricordare il ritrovamento a Pasadena, negli Stati Uniti, delle tavolette che raffiguravano le Fatiche di Ercole di Antonio del Pollaiolo. Le tavolette, conservate agli Uffizi, erano state trafugate con le altre opere dei musei fiorentini dal deposito di Montagnana e da lì portate nel Tribunale di San Leonardo di Passiria in Alto Adige. Da lì erano svanite perché alcuni soldati tedeschi, poi emigrati in America, erano riusciti a impossessarsene. La narrazione dei fatti legati ai ritrovamenti di cui Siviero fu artefice potrebbe continuare a lungo. Ciò che preme ricordare è la totale abnegazione che caratterizzò la sua missione e il principio che la ispirò, secondo cui il patrimonio artistico e culturale di un Paese è un bene inalienabile in quanto elemento fondante della identità di quella Nazione.
Rodolfo Siviero e la Leda del Tintoretto Rodolfo Siviero con alcune opere recuperate
Pagima a fianco Rodolfo Siviero Un ritrovamento dei Monuments Men nel castello di Neuschwanstein
L
lo scaffale del poeta
una vita
di versi
Hart Crane Paolo Pianigiani
C
hi muore giovane è caro agli dei, dicevano gli antichi greci. E Hart morì giovane, a 32 anni, lasciandosi cadere dalla tolda del piroscafo Orizaba, che attraversava il Golfo del Messico. Suicida. Il suo corpo non sarà mai ritrovato, scomparso nel nulla del mare. Cibo per i pesci. è uno dei rari scrittori che non si nasconde, la vita è sempre dentro alla parola scritta. Ha lasciato il segno, profondo, lui diverso, sognatore, aristocratico e solo. Con il suo dono fra le mani: la poesia. Recentemente Polistampa, nella collana “Biblioteca del Caffè” ha pubblicato Il Ponte, insieme all’ode La torre spezzata, mai tradotta in italiano, e quindi inedita per i non specialisti, a cura di Giacomo Trapani. Attenta e intrigante la traduzione, che riproduce il testo a fronte con musicalità e assoluta fedeltà. Non è facile tradurre Crane, il poeta che più di altri ha scavato nell’anima del sogno americano, da sempre alla ricerca di una sua identità perduta per sempre, nella lontana Europa, da dove tutto ebbe origine. Il dialogo fra l’originale e la traduzione italiana è vivace, cerca nella nostra lingua rimandi e forme epiche, visionarie. Da togliere il respiro. Ma veniamo a il Ponte, il libro unico di Hart: «La sola giustificazione della mia vita», come disse Campana dei suoi Canti Orfici. Il viaggio comincia nel
mezzo dell’Oceano Atlantico, in ascolto dei pensieri di Cristoforo Colombo. Crane fa nascere il suo libro quando tutto ebbe inizio: nel sogno, che è incubo e invocazione, nella mente e nelle parole del grande viaggiatore, che in fondo scoprì la nuova terra per un suo errore. Lui cercava le Indie. La strada breve. Trovò il nuovo mondo, l’altra metà del cielo. Le immagini si dilatano subito verso confini che non esistono, per chiudersi al termine sulle ali dei grandi uccelli bianchi che annunciano la
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terra, piena di mistero e promesse. Si chiude nell’età contemporanea, nel mezzo del ponte di Brooklin, al punto di arrivo di una ricerca piena di evocazioni, simboli, miti perduti e ritrovati, dove la cultura del poeta trova alimento e nutrimento per i suoi versi nervosi, fluttuanti come le onde del mare, o il sorriso sempre uguale degli sguardi. C’è forse, come nell’Ulysses di Joyce, l’intravista speranza, a termine della strada: «sussurri d’antifona ondeggiano nell’azzurro». Il viaggio è finito, si può riposare, in equilibrio, instabile; quanto instabile, lo sanno solo i poeti. Il testo La torre spezzata è l’anticipo della fine. Non ci può essere promessa realizzata, nel nostro mondo. Tutto è un vortice verso il nulla. Ci salva solo la musica, che rimane, delle parole che abbiamo ascoltato e scritto. Una vita che brucia, come quella di Rimbaud, che non si uccise come uomo nel mare, ma come poeta sì, disperdendo i suoi deliri fra le strade di Parigi. E trasferendosi in Africa, a commerciare armi. Crane resta nel mondo anglosassone come un segno nero, mai completamente compreso, sempre temuto, come devono essere temuti i desideri oscuri. Un poeta che fa pensare e che ci lascia, intero, il suo mistero. Che va oltre la bellezza classica dei suoi versi, dove affonda intera la sua vicenda umana.
Da: La torre spezzata …. Ed erige, all’interno, una torre che non è pietra (nessuna pietra può incamiciare il cielo) – ma impasto di ciottoli, – ali visibili di silenzio disseminate in azzurri circoli, che si ampliano mentre aspergono la matrice del cuore, e abbassano lo sguardo che consacra il quieto lago e accresce una torre... l’ampia, alta dignità di quel cielo dissigilla la sua terra ed eleva l’amore nella sua pioggia. Da: Il Ponte …. Bianco travaglio delle sartie del cielo, che in sacri anelli aduni tutte le vele che si avventano alle lontane distese sommesse e rilucenti e al fremente pendulo grano della conoscenza,– attorno alla tua fronte ora scoperta – la fiammante Corona! Avvinti ai poli e incrociati dalle vele dispiegate, i meridiani dipanano il tuo intendimento – una riva ancora oltre il desiderio!
Da Il Ponte …. Così la memoria, che cava una rima da una scatola o trae un profumo di fiori a caso da un vetro – è questa la sferza strappata dal lillà che usò su di me mio padre un giorno a primavera, o forse il sabbatico, inconscio sorriso che quasi mi riportò mia madre dalla chiesa un giorno e uno soltanto, se ricordo bene –? Baluginò dal paraneve, ciecamente la abbandonò all’entrata, e già se n’era andato prima che io potessi lasciare la finestra. Col bacio non ritornò nell’atrio.
Notizia Nato in una piccola cittadina dell’Ohio, fu l’unico figlio di una coppia male assortita, che divorziò nell’aprile 1917. Suo padre, Clarence, era un facoltoso uomo d’affari e si occupava del commercio di dolci. Fu uno dei grandi industriali che dettero vita al sogno americano: inventò la caramella con il buco. Dopo il divorzio dei genitori, il giovane Hart fu affidato alla madre, che iniziò a sfogare su di lui tutta la rabbia e la frustrazione per il fallimento del suo matrimonio. All’età di 17 anni convinse i suoi genitori a trasferirsi a New York per prepararsi al college. Cominciò a occuparsi di poesia moderna e trovò ispirazione nella poetica di T. S. Eliot e di E. Pound. Tramite questi modelli, si avvicinò ai simbolisti francesi e fondendo queste influenze compose la sua prima raccolta di liriche, intitolata White buildings (Bianchi edifici, nel 1926). In questi versi emerse anche una espressione dell’amore vicina a quella platonico-romantica di Shelley. Anche lui, vittima consapevole del mare. L’opera successiva, The Bridge, è del 1930. Si rivelò ambiziosa quanto riuscita, impregnata di un sentimento di ottimismo nei confronti del futuro del suo Paese. Il ponte indicato nel titolo è il noto Brooklyn Bridge newyorkese, introdotto nelle liriche come simbolico attraversamento tra il passato e il futuro e come punto di saldatura fra il mondo della natura e quello delle macchine. Dopo aver ottenuto una borsa di studio in Messico e dopo esservisi trasferito per qualche tempo, durante il viaggio di ritorno si suicidò gettandosi in mare. Era il 27 aprile del 1932.
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Matthew Licht
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na persona che porta la divisa blu scuro col distintivo scintillante e una pistola nella fondina, dà multe a chi è parcheggiato male, e arresta chi infrange le leggi è un agente della pace. Una persona che gira in un grosso camion puzzolente nel retro del quale getta sacchetti di plastica pieni di immondizia è un operatore del verde. Ma come si potrebbe chiamare una persona che sta in mezzo a Times Square con addosso nient’altro che un paio di mutande bianche, un cappello e stivaletti da cowboy, anche se fa molto freddo, suonando la chitarra e lasciandosi fotografare dai turisti per un dollaro a scatto?
Quale potrebbe essere il titolo ufficiale di chiunque adorna i lampadari con schegge scintillanti di vetri e ceramiche rotti? Chi paga il salario dello sconosciuto che crea elaborate targhette di gomma e le conficca nell’asfalto fresco per informare i pedoni che i morti possono resuscitare sul pianeta Giove? Una signora anziana lavora a tempo pieno nella biblioteca comunale sulla 5a Avenue. Non è una impiegata della biblioteca, né una volontaria, ma il suo posto di lavoro è comunque lì. È sempre presente quando i custodi aprono le porte. È sempre elegante. Si porta appresso una ventiquattrore di cuoio e un ombrello, che piova o meno. Monta diversi piani di scale per accedere alla sala lettura dei periodici arretrati. Siede a uno dei lunghi tavoli più vicini alle finestre che danno sulla 5a Avenue. Che fuori faccia freddo o caldo, apre una finestra. Le piace l’aria fresca. Non le piacciono, evidentemente, gli ascensori o l’aria condizionata. Non fa caso a chi le dice che l’aria proveniente da un affollato e trafficato viale metropolitano non è poi tanto fresca. La finestra rimane aperta finché uno dei bibliotecari viene a chiuderla. Le regole vogliono così. Una volta che la finestra è stata ufficialmente richiusa, la signora anziana non si ribella. Non è mica anarchica. Dalla ventiquattrore estrae una sveglia digitale, tante matite letalmente affilate
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e svariate pagine di giornale nitidamente ripiegate. Questi fogli contengono cruciverba. La signora anziana riempie i caselli con lettere maiuscole fino all’ora del pranzo, poi rimette tutte le sue cose nella valigetta e va nel parco dietro la biblioteca per mangiare. I suoi pranzi sono frugali e salubri: una mela o una banana, uno spicchio di formaggio, una fetta di pane integrale. Se piove, mangia stando in piedi sotto la pergola dell’ingresso; è severamente proibito mangiare o bere dentro la biblioteca. Dopo la pausa pranzo, la signora anziana torna dentro e completa altri puzzle fino a chiusura. Poi torna nel posto dove abita. Una volta le chiesi dove otteneva gli enigmi. Li prendo, rispose, da giornali che la gente molla nel parco, o sui treni della metropolitana, o sugli autobus, o sul marciapiede. Stacco le pagine dei cruciverba e butto il resto nell’apposito cestino. Poi le chiesi della sveglia. Avrei pensato che preferisse un modello più vecchio, a carica manuale, con la campanella. «Recherebbe fastidio ad altre persone,» disse. Non le va di passare più di due ore su un puzzle. Quando scade il tempo, ripiega la pagina e ne inizia un altro. La signora anziana parla con accento francese. Rispose di sì quando le chiesi se era francese. Allora le chiesi perché faceva cruciverba solo in inglese. Non è facile trovare giornali francesi a New York, rispose, ma ne aveva, di puzzle francesi. Li metteva in un compartimento speciale della ventiquattrore, tenendoli a parte per una giornata di pioggia. Guardai verso la finestra. Fuori pioveva forte. «Non per questa giornata di pioggia,» disse. «Per un’altra.»
Risolve enigmi in inglese, francese, tedesco, polacco, spagnolo e italiano. Non l’ho mai vista consultare un dizionario. Al piano di sotto, c’è una stanza piena zeppa di dizionari in tutte le lingue del mondo, ma la signora anziana non scende mai a quel livello. Avrà stabilito una regola personale contro l’uso dei dizionari per riempire i cruciverba, e non è tipa da infrangere regole. Un signore che frequenta la stessa biblioteca infrange spessissimo la regola che impone il silenzio. Fa il comico. Il suo lavoro è di far ridere la gente: un mestiere difficile. Il Comico passa tante ore in biblioteca ad aspettare il momento giusto per raccontare l’ultima barzelletta. Mentre aspetta, si inventa nuove barzellette, o pensa a cose divertenti da fare. Quando il suo senso del tempismo comico gli fa capire che è giunto il momento, e se c’è abbastanza gente nella sala lettura, emerge dagli scaffali per fare la sua battuta. Il Comico ha una voce forte, e un denso accento del Queens. «Ero venuto in biblioteca per incontrare una bella signorina, ma deve avere scoperto che venivo.» I bibliotecari lo zittiscono sempre, però ridono. Non lo fanno mai sloggiare. Il Comico fa boccacce mentre si scusa per aver recato disturbo. Poi scompare tra le librerie finché
non lo scuote un’altra ispirazione. Una pista ciclabile sfila lungo il fiume Hudson. Mi piace pedalarci, di pomeriggio. Vedo spesso cose interessanti: uccelli che sembrano fuori posto, sculture fatte di legnacci e spazzatura, velieri. Una volta vidi lo scheletro di uno storione lungo più di un metro, steso sulle erbacce. Non riuscii a capire se il pescione era volontariamente saltato fuori dall’acqua inquinata, o se qualcuno l’avesse pescato e poi, inorridito dal suo aspetto primitivo, l’avesse lasciato lì a marcire. Avrò visto lo Spazzaspiagge tante volte prima di essermi accorto di lui. La spiaggia preferita dello Spazzaspiagge non è sempre visibile. Va e viene con le maree: il fiume Hudson, essendo un estuario, ne è soggetto. Si tratta di una spiaggia di sabbia e di rocce parecchio unte. La sabbia è sempre ricoperta di spazzatura. Cigni, oche e anatre convergono nella piccola baia per un attimo di tregua dalle correnti. Ho visto lì anche martin pescatori e aironi. Nessuno, a parte cani, nuota al largo della spiaggia. Lo Spazzaspiagge è bassotto; non ha una buona postura. Porta vestiti lerci, e stivaloni rovinati, ma forse sono solo i suoi indumenti di lavoro. Magari indossa lo smoking e pantofole di vernice quando non è sulla sua spiaggetta.
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Una mazza da golf è il suo unico attrezzo. Lo usa per grattare via muschio, alghe, catrame, nafta e mucilagini varie dalle rocce grige che spuntano con la bassa marea. La mazza è adunca e affilata dall’usura. Lo Spazzaspiagge lo usa per raccattare detriti, e per togliere tutto ciò che non sembra appartenere ad una spiaggia che si rispetti. Mi sembrava bello che questo omuncolo ricurvo si fosse dato la missione di mantenere pulita come meglio poteva l’orrenda spiaggetta. Le alte maree portavano sempre più catrame e plastico, quindi il vecchietto aveva sempre da fare. Poi notai che Lo Spazzaspiagge usava la mazza da golf anche per scavare sotto la sabbia e le rocce. Più che pulire, sembrava che stesse frugando per trovare un tesoro nascosto.
«Stai cercando qualcosa?» chiesi, urlando. C’era forte vento. Lo Spazzaspiagge smise di scavare e raschiare. Si drizzò, aiutandosi con la mazza da golf. «Ieri,» rispose. «Buona fortuna.» Di fortuna ne ho avuta tanta,» disse. «Tu cosa stai cercando?» Non mi ero reso conto di essere alla ricerca di nulla. «Aria fresca,» dissi. «Un po’ di sole, forse qualche idea.» «Buona fortuna, allora.» Lo Spazzaspiagge ridacchiò e torno al lavoro. L’unica volta che vidi Lo Spazzaspiagge lontano dalla sua spiaggetta, era sul ponte pedonale che attraversa l’autostrada Henry Hudson Parkway, all’altezza della 181ma Strada. Attraversava il ponte quasi di corsa, più in fretta possibile per le sue gambine storte. Reggeva la mazza da golf come fosse una lancia. Lo salutai, ma non se ne accorse. Il tempo e le maree non aspettano nessuno.
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NOVITà EDITORIALI
V
oluto dalla Misericordia di Empoli, che si sta prendendo cura della chiesa conventuale di Santo Stefano degli Agostiniani a Empoli. è un libro bello per le immagini, grazie alla fotografa boema Alena Fialová che ha eseguito la campagna fotografica, e per il testo dell’autore, Walfredo Siemoni. Attraverso un puntuale riferimento alle fonti, l’opera delinea la storia del complesso di Santo Stefano degli Agostiniani ricostruendo l’evoluzione storica della chiesa e del convento a partire dall’originario insediamento extraurbano. La chiesa è una dei più importanti edifici religiosi del territorio, ed è stata recentemente di nuovo aperta ai cittadini. In passato era rimasta a lungo chiusa e utilizzata solo in alcune occasioni. Si sofferma anche sulla “vita” del complesso agostiniano, analizzando la nascita delle due compagnie laicali affiliate al convento, quella della Croce e quella dell’Annunziata, ma soprattutto la presenza degli artisti che vi lasciarono il segno: i Bicci, lo Starnina, Masolino da Panicale, Bernardo Rossellino, Cresti da Passignano, Rutilio Manetti.
STORIA
SANTO STEFANO A EMPOLI
di Walfredo Siemoni foto di Alena Fialová Edizioni: Polistampa
Q
ARCHITETTURA
uesto volume non è il tradizionale libro di immagini fotografiche dedicate ai paesaggi o alle architetture artistiche del passato. È uno strumento visivo che rappresenta la Toscana in chiave nuova e moderna, che in pochi conoscono, attraverso le immagini dei luoghi dove si vive e si lavora. Liberata dalle tradizionali visioni ormai consuete, la nostra terra diventa così una testimonianza delle scelte fatte dalle imprese, sia pubbliche che private, attraverso il racconto fotografico dei luoghi e degli insediamenti più recenti e coraggiosi. È il catalogo dei simboli architettonici delle eccellenze, di un sistema economico e sociale che intende esercitare un richiamo forte verso l’esterno. E si raccontano le attività degli architetti, impegnati a inserire le nuove strutture in un contesto territoriale sempre di grande fascino. Estetica ed Etica possono così rinnovare il paradigma “del bello e del buono”, che trova il suo fine ultimo nel lavoro dell’uomo in tutte le sue espressioni.
La Toscana all’opra intenta Editori dell’Acero
I
l libro è una guida alle vicende, alle opere e ai luoghi dei due maestri del primo Cinquecento, oggi celebrati dalla grande mostra a Palazzo Strozzi a Firenze. All’interno del racconto biografico e storico-artistico, tracciato da Ludovica Sebregondi, sono evidenziati i luoghi oggi visitabili dove sono conservati dipinti, affreschi, disegni e testimonianze del Pontormo e del Rosso Fiorentino. Delineandosi così degli itinerari culturali che da Firenze attraversano gran parte della Toscana, con alcune sortite fuori dal territorio regionale, da Città di Castello a Roma a Parigi. Concludono il percorso due contributi, quello di James Bradburne, Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi, incentrato sull’allestimento della mostra e il saggio di Antonio Natali, Direttore della Galleria degli Uffizi e co-curatore dell’esposizione, dedicato al rapporto tra il Pontormo e un artista contemporaneo a lui conterraneo, Marco Bagnoli.
Pontormo e Rosso Fiorentino a Firenze e in Toscana Maschietto Editore
ARTE
N
on una raccolta di cartoline, ma un insieme di immagini e testimonianze che raccontano la storia di Pontedera e dei pontederesi. Un lavoro di ricerca di foto e cartoline inedite, Attingendo da due importanti collezioni: quellE di Renato Cavallini, presidente del Gruppo Collezionisti della Valdera, e di Sergio Vivaldi tipografo storico di Pontedera. Un ITINERARIOgeografico lungo le vie e le piazze e una serie di testimonianze per un viaggio visivo e storico nel passato della città. Un libro corale che parla non solo di un luogo, ma di un insieme di luoghi che hanno fatto parte di una ”strada” percorsa insieme.
PONTEDERA E PONTADERESI
di Michele Quirici e Renato Camilli Edizioni: Tagete
CURIOSITà
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S A
cinema
al cinema con gli
emiri Festival di Dubai
Andrea Cianferoni
Mufida Tlatli, Sceicco Mansoor bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, Masoud Amralla Al Ali
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esta di compleanno per il Dubai Film Festival, che quest’anno ha festeggiato i suoi primi dieci ani di vita. Nonostante la prima edizione risalga solamente al 2004, è il più antico festival cinematografico della regione del Golfo. Nel corso degli anni ha saputo affermarsi anche a livello globale ospitando opere cinematografiche provenienti da tutto il mondo e noti personaggi di rilievo del panorama cinematografico internazionale. Il festival mira a favorire una migliore comprensione culturale tramite la diffusione di differenti opere cinematografiche. Allo stesso tempo mantiene fede al suo obiettivo originale, offrendo nuovi stimoli alla creatività cinematografica dei Paesi mediorientali e contribuendo allo sviluppo economico e culturale della regione. Il Dubai International Film Festival ha anche intrapreso numerose iniziative per sviluppare l’industria cinematografica. Con il progetto Dubai Film Market, che si tiene in concomitanza con il festival, la città di Dubai è diventata un importante centro economico anche per questo
settore, e ogni anno partecipano circa 1.700 professionisti provenienti da 90 Paesi. Attraverso i suoi eventi, workshop e seminari, il festival copre tutti gli aspetti legati al cinema, dalla sceneggiatura allo studio delle tecniche cinematografiche, allo sviluppo professionale di nuovi talenti fino alla commercializzazione dei film. Negli anni il festival ha visto crescere a ogni edizione la quantità di film e partecipanti e il prestigio internazionale. In dieci edizioni sono stati proiettati 1670 film, di cui 144 prodotti dagli Emirati e 395 anteprime mondiali; si sono tenuti 300 workshop e sono sfilate sul red carpet oltre mille star di tutto il mondo. Un compleanno festeggiato nel segno della tradizione e innovazione allo stesso tempo. Una tradizione impersonata dal principe ereditario Mansour bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, davanti a un parterre delle grandi occasioni a Madinat Jumeirah, il centro congressi che si trova davanti alla Vela, l’hotel simbolo degli Emirati. Il festival ha la peculiarità, sin dalla sua fondazione, di essere un ponte tra occidente e oriente. Parlando di numeri sono 174 film provenienti
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da 57 Paesi (103 da quelli arabi), parlati in 46 lingue, il 40 per cento di registe donne, tanti ospiti, una serie di eventi. Quest’anno apertura con un film arabo, Omar del palestinese Hany Abu Assad. Sul red carpet una serie di celebrità: Cate Blanchett, presidente della giuria IWC che ha premiato il saudita Waleed Al Shehhi regista di Dolphins; la leggenda hollywoodiana Martin Sheen; Naomi Watts protagonista femminile del film Mandela – Long Walk to Freedom; Jim Sheridan; Sanyat Suri; Michael B. Jordan; Scotto Cooper; molti attori di Bollywood. Tra i film in rassegna anche La grande bellezza di Sorrentino, Abus de faiblesse di Cathérine Breillat, il cartoon Frozen, The railway Man di Jonathan Teplitzky, Fruitvale Station di Ryan Coogler, The Lunchbox, Challat of Tunis, Walking with Dinosaurs 3D. Sul tappeto rosso il regista palestinese Hany Abu – Assad autore di Omar. Ad
accompagnarlo i membri del cast di Adam Bakri , Eyad Hourani e Waleed Zuaiter. Omar è una storia incisiva di amore, amicizia e tradimento sullo sfondo del conflitto israelopalestinese; gran parte dell’azione si svolge all’ombra del muro che divide Gerusalemme. Un film coraggioso e senza compromessi che ha già suscitato polemiche e di critiche in egual misura. Omar ha vinto il Premio Feature Muhr Arab. Nella stessa categoria, Yasmine Raees ha vinto il premio come miglior attrice per il film egiziano Factory Girl. L’Attore indiano Irrfan Khan ha vinto il premio come miglior attore per il film The Lunchbox. Un ennesimo riconoscimento al poliedrico attore. Il regista del film ha ricevuto una menzione speciale. Applauditissimo dal pubblico, The Lunchbox racconta di Ila, una casalinga appassionata di cucina che spera, con le sue ricette saporite e speziate, di ridare un po’ di vitalità al suo matrimonio. E di Saajan, un modesto impiegato a pochi mesi dalla pensione, che si vede recapitare sulla sua scrivania, inaspettatamente, tutte le mattine, il lunchbox che Ila amorevolmente prepara ogni mattina per il marito. Ila non sa che il suo lunchbox è finito sulla scrivania sbagliata! Insospettita
dalla mancanza di reazione del marito ai suoi manicaretti, infila nel portapranzo un biglietto, nella speranza di risolvere il mistero. Sarà solo l’inizio di un lungo scambio di messaggi tra Ila e Saajan che lentamente si trasformerà in un’affettuosa amicizia. Pian piano i loro messaggi diventeranno brevi confessioni sulle loro solitudini, sulle loro paure, sui ricordi e sulle loro piccole gioie. Scriversi diventerà un modo per sentirsi vicini in una metropoli come Mumbai che spesso distrugge speranze e sogni. Pur rimanendo estranei, Ila e Saajan intrecciano una relazione virtuale che potrebbe compromettere le loro vite reali. Altro film molto apprezzato, che ha messo in luce l’attrice Yeo Yann Yann, premiata come migliore attrice femminile, è stato Singapore Ilo Ilo - la storia di una cameriera filippina. A fine festival il presidente della manifestazione Abdulhamid Juma ha detto: «Dopo dieci anni, stiamo raccogliendo i frutti d investimenti fatti nel cinema arabo, creando non solo professionisti del cinema ma anche appassionati. Questo è il risultato di anni di lavoro fatto dal nostro team per scoprire, coltivare e promuovere il talento del mondo arabo». Cate Blanchett e Georges Kern Yasmin Raes Raya Abirached Rooney Mara Abdulhamid Juma Sceicco Mansoor bin Mohammed bin Rashid Al Maktoum, Abdulhamid Juma Chairman Abdulhamid Juma e Martin Sheen Ranveer Singh, Priyanka Chopra, Ali Abbas Zafar, Arjun Kapoo Fouad Baroudi
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teatro
BUSCEMI
fra stalking (?) e teatro
Andrea Buscemi
P
uò oggi nell’Italia di questi anni Duemila un cittadino onesto, un artista serio e impegnato, incensurato e rispettoso della legge e perfino timorato di Dio, sostanzialmente sicuro di non aver mai voluto il male di nessuno né naturalmente di averlo mai voluto perpetrare, ritrovarsi improvvisamente accusato di un delitto infamante e ripugnante, così lontano dalla sua personalità da ritenerlo stupefacente? A giudicare dalla disavventura che il sottoscritto sta vivendo non c’è alcun dubbio la risposta è affermativa. Assieme alle consuete belle prospettive artistiche, il ritorno dell’autunno mi riporta infatti alla triste realtà di un processo che incombe su me: articolo 612 bis, atti persecutori e molestie, quello che la banalizzazione mediatica sintetizza col termine stalking. La querelante è una donna di quarantaquattro anni, divorziata e con un
figlio ventiseienne, e la sua denuncia parla di un lasso di tempo conclusosi nel 2009. Una querela che vivo appunto come una manciata di fango in faccia, un sopruso che non merito di subire. E chi conosce me e la vicenda lo sa perfettamente. Inutile dire della profonda tristezza e dello stupore per essere arrivati al rinvio a giudizio (ma è la Legge, e non si discute) su una vicenda del tutto infondata, e che poggia il suo essere su un trucco vecchio come il cucco: una banale – ma non inefficace, se non la si ferma in tempo – messa in scena di vicende costruite ad arte; un curioso ma anche blasfemo riadattamento della realtà oggettiva, suffragato da prove e provette messe insieme a tavolino, arbitrarie interpretazioni dei fatti, varie e vaste manipolazioni, offensive illazioni che compongono una stupefacente ed enfatizzata querela, che altro scopo non ha che intorbidire le acque della Verità, gettare discredito su me, tentare di farmi punire dalla Legge per un reato mai commesso, fungere financo da traino a quella crociata quasi ideologica a cui il reato in questione presta spesso il fianco in questo momento in Italia. L’infondatezza dell’accusa si basa su un fatto vistoso: la querelante fa di me il ritratto di un autentico mostro, un pervertito senza legge né morale, un autentico psicopatico (sic!). Uno stalker smisurato degno di un cartone animato. Mi si lasci dire, a tratti nemmeno un essere umano, ma un autentico imbecille, autore di un comportamento che a tratti sfiora la pochade: l’avrei picchiata sovente e di santa ragione (già che c’ero, anche la sorella e il fidanzato di questa!), umiliata, mortificata, vessata, sfruttata, pedinata in continuazione
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e in ogni città andasse (anche con l’ausilio di vari complici), impedito di vedere il figlio, drogata, rapinata (delle chiavi di casa sue e di tutta la sua famiglia!), scippata, minacciata, ingiuriata, molestata, sequestrata (anche con la complicità di una famosa attrice romana!), controllato perfino le mutande per paura di non so quali tradimenti(!), attaccato il chewing-gum ai capelli(!!), insultata con regolarità, minacciata di morte, lei e la famiglia(!!!), impedito di vestirsi e di acconciarsi i capelli a proprio piacimento, isolata da tutti e costretta a una vita di incubi e di terrore. Nel rapporto di coppia un violento, un tiranno, un prevaricatore, un plagiatore, insomma un delinquente. Tale e tanta mole di soprusi ha fatto sì inoltre che al figlio della “vittima” insorgessero terribili tic nervosi(!) e che la sorella perdesse per sempre la capacità di procreare(!!). No, dico, mettetevi un attimo nei miei panni: se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Ma lascio a chi mi conosce l’onere di giudicare. La querelante esibisce una perizia psichiatrica di parte che le assegna il 20% di invalidità psichica permanente, e soprattutto una richiesta al sottoscritto di 161mila (leggasi centosessantunomila) euro e spiccioli. Essere accusati ingiustamente di un delitto è una delle sofferenze più profonde che un uomo possa subire, e ancor di più quando l’accusa è così infamante e proviene da una persona a cui si è voluto bene, con la quale si è perfino condiviso un cammino. Quando poi per questo si è esposti alla gogna (anche mediatica) perché soggetti a dir poco temerari hanno ordito un tranello contro di te per scopi strumentali e speculativi, è an-
cora più squallido e avvilente. E pensare che, nel mio lungo percorso artistico, è sempre stata prioritaria per me l’attenzione verso la donna (che io, nonostante questa disavventura, continuo a considerare migliore dell’uomo), la sua bellezza, la violenza e i disagi subiti nei secoli da una società che assai tardivamente ne ha riconosciuto appieno i diritti. Ne fanno fede la messinscena di spettacoli teatrali come Arsa di Giuseppe Manfridi, Elisa di Ernesto Ferrero, Le libere donne di Magliano di Mario Tobino, La casa delle bambole di Yehiel Le-Nur, Anna e le altre di Alberto Severi, La signorina Else di Schnitzler, tutte pièces a cui come regista ho dedicato passione e impegno, convinto come sono sempre stato che raccontare l’universo femminile sia una delle opportunità più fertili che l’artista abbia a disposizione. La violenza sulle donne è un atto contro natura, un fenomeno esecrabile e terribile che la società non può, non vuole e non deve tollerare. Lodevoli sono le recenti iniziative di legge intese a tutelare le vittime e a reprimere gli atti criminosi. Ma purtroppo lo spauracchio dello stalking viene a volte brandito come una vera e propria arma anche da persone assai disinvolte che non esitano a invocare – anzi pianificano – l’uso dello strumento di legge per un proprio tornaconto personale, animate non solo da odio e rancore ma soprattutto da un freddo e lucido calcolo di interesse. I dati parlano chiaro: secondo il Ministero dell’Interno, ogni anno in Italia oltre il 50% delle denunce per stalking si rivela infondato. Le motivazioni di una denuncia per falso stalking: le più disparate. Ma che impongono all’accusato il dazio del tormento psicologico, ingenti spese e spesso l’insulto della gogna mediatica. Nel bene e nel male, un uomo di teatro condivide la propria sorte con il suo pubblico. Per questo, come uomo libero e rappresentante del mondo dello spettacolo quindi persona pubblica, credo di avere il dovere, ancor prima che il diritto, di combattere fino in fondo per far emergere la verità e far crollare il castello di carta delle accuse costruite ad arte nei miei confronti. Non sono in gioco solo il mio buon nome e la mia sorte personale: è in gioco la sofferenza di tutte le donne che sono davvero vittime di molestia e violenza e che sono violentate una seconda volta ogniqualvolta persone senza scrupoli costruiscono false accuse come questa per proprio mero tornaconto. Naturalmente confido appieno nell’operato della Magistratura. Al processo (dove immagino ci saranno momenti di autentico teatro: e non per forza eseguito da attori profes-
sionisti: mi si informa che querelante e sorella sono impegnate da un po’ in un tour dove, nel raccontare i miei misfatti, esibiscono una stupefacente tendenza all’irrefrenabile commozione) vedremo cosa ci dirà la sfilata di testimoni a carico di entrambe le parti (i miei sono 140 e mi sono limitato, dato che mi vengono contestati ben due anni e mezzo durante i quali avrei commesso gli esecrabili crimini di cui sopra). Per correttezza di informazione, vale la pena di ricordare che il Codice Penale Italiano prevede per il 612 bis una pena che va da sei mesi a quattro anni (se l’eventuale reato è stato commesso prima delle modifiche del 2013); quella per il 368, cioè la calunnia, recita: “chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza diretta all’Autorità Giudiziaria, incolpa di un reato qualcuno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con una reclusione da due a sei anni”. Il Bene trattato è, a un tempo, sia la corretta amministrazione della Giustizia, sia la libertà personale del falsamente incolpato, sia il suo Onore. Il dato offre certamente l’opportunità per una sana meditazione. Ma c’è un’ultima considerazione: fatta salva la fiducia nel corso della Giustizia, che sono convinto proverà la mia completa innocenza, quale sarà per me il risarcimento per aver subito tutto questo? L’essere stato distolto da ciò che è il mio imperativo, cioè (oltre agli affetti personali) il Teatro, l’Arte, la Poesia, per rintuzzare un disegno così falso e calunnioso (dovendo perciò “abbassarmi” a esso, alla sua meschineria), potrà mai essere indennizzato in qualche modo? O davvero non c’è niente che possa rimarginare le miserie di questo mondo? foto di scena di Siro Tolomei
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A TU PER TU
Pamela
Villoresi P
amelina! Bella, brava e solare. E poi è di Prato come me. Questo è quel che ha detto Cesare Badoglio, noto astrologo e cartomante che conosce molto bene l’attrice Pamela Villoresi. Quanto a Prato, non è solamente la città dei cantuccini in quanto raccoglie opere d’arte di gran rilievo assieme ai mitici teatri capaci di ospitare regolarmente compagnie prestigiose. A questa splendida artista, che passa fulmineamente dal riso al pianto, chiediamo quant’è orgogliosa d’esser pratese, mentre ride prima ancora di rispondere: «Tanto, sopratutto di essere toscana in generale e, credimi, non è un fatto di quartiere. Non saprei immaginare un albero più accogliente dell’ulivo, non saprei immaginare un paesaggio che dia più pace all’anima che non le nostre colline e anche il nostro mare, l’allegria del nostro Tirreno...sai, ultimamente mi sono rivista in Palazzeschi, Pratolini per Lo Scialo, Cicognani e... bello, sì, forse anche perché m’impegnai tantissimo, perché ci credevo e fatto sta che vinsi tutti i premi di quell’anno». Alla Pamela che sorride prima con gli occhi che con la bocca, chiedo di quando, avendola vista sul palco un noto regista, le chiese di andare a recitare oltroceano. «Ti rendi conto? Io i monologhi americani! A parte che non sono mai stata in America, gli risposi: calma, debbo riflettere». E stai riflettendo tutt’ora, giusto? «Guarda, ho lavorato e lavoro non poco, però tenendomi ben stretto quello scrigno prezioso che ci viene donato quando vediamo la luce che altro non è poi che la nostra cultura. E te lo dice una che con Strehler,
insieme ad altri, girava il mondo col nostro “Teatro d’Europa”; nazioni in cui portavamo Goldoni, insomma “La commedia dell’arte” e, credimi, non mancavano ovazioni, targhe e altro per noi giovani che vivevamo col sacro fuoco dell’arte». Un premio che ti ha fatto commuovere. «Mah, a chi non piace riceverli, ricordo con gran piacere forse perché fu dato in casa, sì, lo scorso aprile recitavo al Fabbricone e in camerino arrivarono cinque o sei amici del “Lions Club Prato Curzio Malaparte” per consegnarmi la targa bronzea del “Melvin Jones” che altro non è che la massima onorificenza lionistica nel mondo. E Piero Bianchi nel ruolo di “officer distrettuale” – vecchia conoscenza, bellissimo uomo pratese sempre molto galante – mi dette anche il guidoncino che appesi subito allo specchio a mò di portafortuna»! Malaparte ti suona bene. «Benissimo! Grande Curzio e sopratutto unico, nessuno è come lui! Scriveva in maniera così particolare, viscerale frasi piene di grinta. Dove lo trovi uno scrittore che sa essere trucido eppoi ridicolo, spassoso? «se leggi quando parla di Napoli e della guerra, rapisce letteralmente. Adesso ti dico una cosa curiosa; proprio perché Malaparte è Malaparte, quando lo recitavo nei suoi aspetti più spumeggianti, i primi a ridere erano i musicisti, sì, hai capito bene mentre io, ridendo, ma ragazzi, ovvio, un pò di contegno!» Fai ridere anche me, dimmi del tuo impegno nel sociale e poi ti lascio. E mentre dico questo la vedo trasformarsi, dal ridere passa a sorridere. La voce è ancora più calda e piena. Alza la maschera e poco a poco, presenta
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quella seria e composta. Ma stavolta non recita. Pamela è vera. «Me ne sono sempre occupata, non a caso menziono volentieri il CIAI, Centro Internazionale Aiuti all’Infanzia, associazione alla quale mi rivolsi per adottare l’ultima mia figlia. Tramite il teatro invece, grazie anche a vari laboratori, ho lavorato lungamente in Italia e anche a Lugano, nelle carceri, facendo recitare i detenuti sulla poesia con risultati sempre assolutamente eccezionali. Questo poi mi fu chiesto anche per Volterra e anche per Prato nel “braccio di massima sicurezza”. Purtroppo, come ben sappiamo, non ci sono fondi: io personalmente qualcosa posso fare, ma portare gli altri per farli lavorare gratis, non so se... Questo può essere un appello anche per un sostegno economico visto che è una causa nobile. I carcerati scrivono in maniera divina, frasi che ti prendono tantissimo tanto sono toccanti. Uscirebbero dei “recital” eccezionali, credimi, li manderei in scena in una settimana. Cosa tra l’altro già fatta con i disabili». Sei molto presa da questo, giustifichi molto. «Sbagliare è umano e chi sbaglia molto è una persona sfortunata. Il compito della società è quello di comprendere, attuare il recupero, restituire loro dignità, riabilitarli. O per lo meno dovrebbe! La grande promessa cristiana è il Bambino a braccia aperte, è trovare la luce dopo il buio e risorgere dai propri errori. è un dato di fatto che dalle carceri punitive escono solo delinquenti: una persona riabilitata non è una piaga e non è giusto farla vivere nei ghetti punitivi». Se prima ridevo insieme a lei adesso rifletto. Le sue corde sensibili hanno toccato valori umani altissimi.
Carla Cavicchini
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A TU PER TU
Proietti essere o non essere? Essere, essere!
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uesta storia dei burini, in realtà sono quelli che a Roma portavano il burro. Quanti lo sanno? Ah burino! Vien detto a quelli non del posto, beh, io sono nato nella città eterna, i miei genitori erano burini e ne sono fiero! Madames e monsieurs, ecco a voi l’attore de Il maresciallo Rocca, A me gli occhi please, Ciranò De Bergerac naso lungo e finto compreso, e poi e poi. E pensare che da giovinetto mentre l’osservavano: «A scuola di teatro mi dissero che recitavo come Albertazzi e io che lo conoscevo a fatica! Però la capitale è sempre la capitale, con quella parlata che ti prende. Non a caso l’ho studiata a lungo». «Sì, con tanto di stupore di molti che me dicevano... “ma che fai?” mentre io col registratore mi sentivo e risentivo. Nove. Giusto, è quello che avevo in latino al Liceo. Feci giurisprudenza, finii fuori corso, ma in realtà era tutto studiato per allungare i tempi e non fare il militare. Cominciai strimpellando, canticchiando e... mi fu utile». Er Gigione è sempre uguale, non ingrassa, alto, i suoi maglioni, con tanto di brizzolato verso barba e capelli. Chi lo conosce sa che è un uomo molto
generoso e bravissimo nelle riviste, nel far parodie, buon sceneggiatore e altro ancora come far uscire dalle sue scuole talenti notevoli tipo Jannuzzo, Flavio Insinna, la Reggiani e tante altre figure. «Bene per loro che hanno le qualità...e bene anche per me che continuo a fare il mestiere più bello del mondo. A proposito, il buon Rocca fece da apripista in quanto dopo di lui vennero fuori tutte le serie di preti... carabinieri e altro ancora». Sempre fatto di tutto e di più. «Beh! Abbastanza. Il mimo è bello anche se è un genere su cui non bisogna calcare troppo, poi a Sanremo cantai per gioco, eravamo un bel terzetto e... arrivammo dodicesimi! Quanto al doppiaggio lo sai che il primo Rocky Balboa fui io?” – e mentre lo dice improvvisa: “da da da... da da daaaaa” –. Poi c’è stato La lampada di Aladino, Gatto Silvestro e se vuoi ti recito Narciso Vanesio». Eccolo nella poesiola in un gioco bello e surreale che si fa capire anche solo gesticolando. Non me lo dice però so che la sua calda voce l’ha prestata anche per Richard Burton, Marlon Brando, Dustin Hoffman e... boh! Mi sa che l’amore vero è per il teatro. «Sì, il cinema mi prendeva maggiormente prima; adesso, certo che se arriva qualcosa di buono! Non bene portò il film La mortadella, mannaggia, portò una sfiga pazzesca a tutti noi, nel cast c’era anche la Loren, ma in Italia uscì un giorno solo e quindi non fecero in tempo a vederlo: una distribuzione pessima. Tornando a sopra, rimpiango sempre di non aver lavorato con Gassman per un testo teatrale, a causa di impegni presi in precedenza. C’est la vie!» Non se la tira proprio questo matta-
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tore dei più importanti palcoscenici italiani che addirittura recita Shakespeare come bere un bicchier d’acqua. Concludo chiedendogli di Firenze. «A me lo chiedi? Chiedilo a qualcuno più autorevole di me!» Sei la persona giusta. «Ah... allora con tutta l’arte che circonda la città dell’Alighieri che dire! A Firenze ci sono stato varie volte e ci torno sempre con gran piacere, è come stare a casa mia. Un annetto e mezzo fa circa, fui invitato a Palazzo Vecchio per ritirare un premio alla mia lunga – aihmé! – carriera. Un omaggio fatto di vari spezzoni dove ebbi modo di rivedere Monicelli, Vittorio Gassman e Monica Vitti. Non ricordo altro; aspetta, mi rividi nella farsa di Essere o non essere, una cosa molto sardonica in dialetto pugliese e mi sembra pure Casotto con Franco Citti. Ma voi di Firenze siete ospitali. Beh, il fiorentino stretto non è poi così, non sono tipetti facili, il romano invece è più caciarone. «Così caciaroni che la cultura non la capiscono, tanto che tagliano tutto!» Roma città aperta, solo nel film?
Carla Cavicchini
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DANZA
50
anni di
danza
un anniversario ricco di appuntamenti a Pisa Ada Neri
Carla Fracci Le allieve del Gruppo Icaro con il coreografo Massimiliano Terranova e le direttrici della scuola Patrizia Calò e Stefania Zucchelli
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’arte e la cultura diventano spettacolo e fanno impresa. Ne è una dimostrazione la Scuola di danza Elsa Ghezzi di Pisa che proprio quest’anno compie 50 anni. Per festeggiare questo importante anniversario tutto il 2014 sarà scandito da una serie di eventi che, con caratteristiche diverse, avranno il compito di ricordare il ruolo che la scuola di danza e la figura di Elsa Ghezzi hanno avuto e continuano ad avere nella Città e nella provincia di Pisa. La scuola, riconosciuta con presa d’atto n.° 4053 del 16 marzo 1968 dal Ministero della Pubblica Istruzione, fu fondata nel 1964 dalla professoressa Elsa Ghezzi, prima ballerina alla Scala di Milano negli anni Venti. Nel tempo, oltre ad aver saputo rappresentare un punto di riferimento importante in occasione di vari eventi culturali e artistici organizzati sia dal
Teatro Verdi di Pisa sia dal comune di Pisa, ha saputo trasmettere il suo patrimonio artistico alle centinaia di allieve e allievi che negli anni hanno frequentato la scuola stessa, consentendo loro di acquisire gli stimoli utili a rafforzare la propria personale creatività e capacità espressiva. Grazie all’impegno delle attuali direttrici Stefania Zucchelli e Patrizia Calò, la scuola oggi è in grado di offrire un percorso didattico molto articolato con corsi di Danza Classica, Moderna, Contemporanea e Hip Hop e inserisce nel programma annuale seminari, stage, convegni e meeting con l’obiettivo di garantire una completa formazione professionale. Inoltre, molte sono le allieve che hanno potuto svolgere corsi, audizioni ed esami presso l’Accademia Nazionale della Danza di Roma, presso la Scuola di Ballo del Teatro
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alla Scala di Milano fino alla Royal Opera House di Londra e molte sono le allieve che dal 1997, anno in cui si è costituita la Compagnia Gruppo Icaro in seno alla Scuola Ghezzi stessa, hanno potuto esibirsi in occasione di importanti eventi. Nei 50 anni trascorsi, si sono alternate collaborazioni artistiche con maestri di fama internazionale a italiani e stranieri come Elena Viti, Clarissa Mucci, Franza Zagatti, Marina Van Hoecke, Anthony Basile, Ricky Bonavita, Kristian Cellini, Francesca Malacarne, Liliana Cosi, Michele Abbondanza, Kris, Gus Bembery, Umberto De Luca, Massimiliano Terranova, Dayal Pasculli, Elian Ghione, Mariella Ermini, Marco Cavalloro, Endro Bartoli, Mauro Mosconi, Eugenio Buratti, Elisabeth York Bolognini, Luana Poggini. In ragione anche di queste importanti collaborazioni, la Scuola ha saputo rinnovare il proprio Piano Formativo
che se da un lato ha contribuito a far emergere professionalità, dall’altro è riuscita a trasmettere a tutte le allieve e allievi, il valore e l’importanza della Cultura e dell’Arte, a vantaggio del patrimonio personale degli stessi. Fare Impresa grazie all’Arte e alla Cultura rappresenta una sfida e una grande ambizione che si concretizza attraverso il miglioramento continuo e la ricerca dell’eccellenza oltre a indiscussi valori personali come passione, disciplina e determinazione indispensabili per il necessario e conseguente riconoscimento del merito. Il primo evento che ha dato il via ai festeggiamenti del 50° anniversario ha avuto luogo venerdi 14 febbraio presso la sala Fratelli Antoni dell’aeroporto Galilei di Pisa, con una performance del Gruppo Icaro, Compagnia di danza della Scuola dal 1997, e con un brindisi speciale. Il Gruppo Icaro fin dalla nascita riunisce giovani danzatori dalle solide basi di classico, moderno e contemporaneo. Il percorso formativo è rivolto da sempre alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecniche, nuovi linguaggi interpretativi ed espressivi che confluiscono in un unico percorso finalizzato alla produzione di spettacoli. Il raggiungimento dell’obiettivo è garantito grazie alla collaborazione di una personalità tra le più importanti ed emergenti nel panorama della danza ovvero Massimiliano Terranova a cui le due ideatrici del Gruppo, Stefania Zucchelli e Patrizia Calò, hanno affidato da tempo il compito, fermo restando che anche in questo caso le collaborazioni con importanti coreografi non
sono mancate; tra questi citiamo Marina Van Hoecke, Ricky Bonavita (Compagnia Excursus), Emma Scialfa (Ensemble), Giulia Menicucci (Balletto di Stoccarda). Molti gli eventi in programma per tutto il 2014; tra questi ne citiamo in particolare due. Il primo avrà luogo il 26 marzo p.v. all’interno della rassegna “Un Libro al Volo” edizione 2014. Il quell’occasione sarà presentato il libro Lei, noi e la Scuola... Ghezzi e Pisa 50 anni insieme, raccolta di pensieri delle allieve ed ex allieve nei quali, ricordando anche la figura della professoressa Elsa Ghezzi, si descrive come “in punta di piedi”, il mondo della danza entra a far parte della propria personalità e del proprio modo di pensare e agire.
Il secondo e ancor più prestigioso, il 6 luglio p.v. presso il Teatro Verdi di Pisa dove ospite d’onore del “Gran Galà della Danza” messo in scena dalla Scuola Ghezzi, sarà l’Etoile e Icona della danza nel mondo, la Sig. ra Carla Fracci che ha scelto di essere presente all’evento proprio in ragione della storia e dell’importanza che la scuola rappresenta a livello nazionale. La giornata si svolgerà in due momenti distinti: alle ore 18,00 nella sala Titta Ruffo del Teatro Verdi la città di Pisa, le sue autorità e i genitori delle allieve della scuola di danza daranno il benvenuto a Carla Fracci; alle ore 20,30 avrà inizio lo spettacolo al termine del quale l’Etoile sarà omaggiata del Primo Premio Elsa Ghezzi per la Danza.
da sinistra a destra: Gina Giani AD aeroporto G. Galilei , Marco Filippeschi sindaco di Pisa, Gianfranco Bernabei questore di Pisa, Stefania Zucchelli direttrice dcuola di danza Ghezzi, Massimiliano Terranova coreografo Compagnia Gruppo Icaro, Patrizia Pancani Tenuta San Beda, Patrizia Calò direttrice scuola Ghezzi di Pisa, Francesca Frullini pubbliche relazioni scuola danza Ghezzi, Alessandro Trolese presidente giovani imprenditori Pisa momenti dell’esibizione
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con se stessi e l’altro positive e dove il presupposto è la conoscenza, la consapevolezza di sé, delle proprie risorse e delle aree migliorabili. - allenamento e sviluppo delle potenzialità delle persone e convinzione che ciascuno ha di trovare in sé le risposte giuste di fronte alle proprie crisi di autogoverno. - focalizzazione di mete specifiche per trovare le strategie più adeguate, supporto nella gestione delle convinzioni e atteggiamenti limitanti, supporto al cambiamento per la realizzazione della persona. Gli ambiti di maggiore applicazione del coaching in Italia
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a tu per tu
Mario Mulas la fotografia è “cosa mentale”
Nicola Micieli
Mulas con gli allievi accademi Mario Mulas
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a fotografia è “cosa mentale”, potremmo dire riprendendo la definizione che Leonardo dava della pittura. Così è per Mario Mulas, fotografo di lunga navigazione, aperto a un ampio ventaglio di esperienze sempre condotte con una misura e una penetrazione dello sguardo dietro alle quali c’è un lungo processo di conoscenza e di rivelazione del reale. Si va dal ritratto che costituisce la soluzione di continuità del suo lungo percorso, alla foto di scena – e di retroscena – praticata presso molti teatri, e va da sé che sia stato soprattutto importante il lavoro dell’esordio, per un quinquennio dal 1964, al Piccolo
di Milano diretto da Strehler. Mulas è stato altresì fotografo di moda, e in questo settore ha prediletto la foto di ambientazione urbana – e le relative implicazioni culturali – a quella da set di studio mirata alla pura forma seducente del mix di modello/a e abbigliamento. Si è dedicato al paesaggio, segnatamente toscano, dacché nel 1978 approdò sulle colline pisane per un servizio sugli arredi d’interno della Ferretti. Come fotografo aziendale insostituibile è stato il suo quindicennio circa di lavoro con Adriano Olivetti, nel singolare suo laboratorio di impresa e cultura di Ivrea. Attratto dalla modulazione vorrei dire corporale delle colline pisane, nella quali il “lavoro” della natura si fonde mirabilmente con i segni antichi delle opere umane, e il paesaggio antropico e in sé espressione della cultura, Mulas ha finito con l’insediarsi a Lajatico, il paese natale di Andrea Bocelli e “buen retiro” feriale di Gillo Dorfless. A Lajatico ti riceve con la cordialità e la pacatezza dei modi e della parola che sono della sua natura, e con lui la moglie Eva Mulas, già sua allieva ma da quindici anni fotografa ormai autonoma, e di suo Eva dimostra una spiccata propensione alla ripresa dal basso, che consente inquadrature inconsuete e insinuanti, e una visualità incline all’accentuazione per così dire pittorica del soggetto. La fotografia, dunque, per Mario Mulas è operazione mentale. La ripresa è un clic, e può essere inconsapevole, un mero meccanismo ottico, per quanto felice potrà risultare. Fotografare in realtà è “riprendere” quel che la mente allenata ovvero educata ha selezionato nel visibile. La moderna ripresa digitale consente poi di ag-
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giungere o togliere il quid di atmosfera, di suggestione poetica, di intensità espressiva nel dosaggio della luce, dei contrasti, del colore. Ma bisogna partire da una buona foto, non illudersi di recuperare al computer con un programma grafico una mediocre immagine. E per fare una buona fotografia occorre conoscere il mezzo e le sue specificità tecniche, oltre che gli interventi o le manipolazioni possibili che un tempo erano quelle dello sviluppo e della stampa in camera oscura, anche se oggi l’analogico e i suoi processi sembrano vanificati dal digitale. Parla qui anche il maestro che ha avviato alla fotografia una quantità di allievi, per otto anni presso accademie private di fotografia e che a Lajatico promuove, in stretta collaborazione con Eva, corsi assiduamente frequentati di formazione fotografica, storia e tecnica e, quel che conta, di educazione dello sguardo e di quel terzo occhio mentale che consente appunto di selezionare tra le mille possibili, l’immagine unica e singolare, rivelatrice di un aspetto cogente della realtà. La creatività non si può insegnare, questo è certo secondo Mario Mulas. Essa è un’inclinazione o un talento individuale, e come tale si sottrae a ogni schema o parametro. Ma a essa
si può predisporre lavorando a liberare la mente dai condizionamenti e dai luoghi comuni sulla fotografia. In primis quello che affida alla rapidità di ripresa e alla presunta neutralità e fedeltà ottica del mezzo, oltre che all’esserci nel momento giusto in quella certa situazione significativa, il compito e il merito dell’immagine rappresentativa, magari epocale, tra le mille scattate a raffica. Anche il fotoreporter da campo di battaglia o da folgorante situazione di strada scatterebbe banalità senza quella perspicacia e disciplina mentale dello sguardo. Mario Mulas è il più giovane di una vera e propria famiglia di fotografi che diremmo di alta scuola. Tranne Giovanni che si è dedicato all’insegnamento agrario e alla progettazione di stalle, dei cinque fratelli Mulas
due maschi e due femmine hanno imbracciato non da dilettanti la macchina fotografica. A cominciare dal grande Ugo che a ventidue anni rinuncia alla laurea in giurisprudenza per diventare fotografo da autodidatta totale, come reporter per i suoi
servizi giornalistici. E Ugo, come tutti sanno, dall’Europa all’America finché non è scomparso davvero prematuramente a 44 anni, è stato l’obiettivo fotografico rivelatore dei maggiori artisti e dei contesti d’avanguardia del suo tempo.
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Poi Maria che è stata assistente di Mario, e Luciana anch’essa autodidatta e fotografa di artisti. Infine Mario, appunto, il minore, che avendo iniziato nello studio di Ugo come in una bottega, stampandogli le foto, alla fine prese la Leika del fratello
Ritratto Scatto per i venti anni di James Rivière, Gioielliere
con suo dispetto e cominciò a fotografare. Ugo un giorno interrompe il suo rapporto con Il Piccolo e dice a Strehler che al suo posto gli avrebbe mandato il fratello fotografo. Così nel 1964 Mario veniva catapultato in una realtà di sperimentazione teatrale tra le più vivaci e originali del mondo, ed egli ricorda con particolare vivezza, tra le altre pièces messe in scena sulle quali ha lavorato, il Galileo di Brecht con un grande Tino Buazzelli. Dopo i cinque anni del Piccolo, altri teatri e la foto di moda, quindi dal 1968 al 1983 la Olivetti e la fotografia aziendale in tutti i suoi aspetti, nella declinazione di Adriano Olivetti secondo la quale la grafica il design l’architettura il laboratorio di ricerca l’apparato produttivo l’editoria e la varia umanità e cultura convergevano e interloquivano, e tutto ciò Mario Mulas lo ha variamente incrociato e ripreso con foto che documentano un’epoca.
Con le diverse esperienze, nella continuità Mario Mulas ha seguitato a fotografare uomini e donne, segnatamente ritratti. Non solo rappresentanti del bel mondo, celebrità e personaggi di grande visibilità, ma persone portatrici di una facies e di un carattere che si esprimono nell’habitus e nella postura, ma soprattutto si concentrano su particolari espressivi, che possono essere, nei ritratti qui riprodotti, le belle e vigorose mani della signora in posa rinascimentale o lo sguardo obliquo e penetrante del gioielliere la cui plastica testa fa da base il morbido collo di pelliccia sul quale si frange
e sparsi folteti, e talora sembrano vanire nell’indefinito della luce e dell’atmosfera, secondo l’ora e il clima, quando zigrinate dalle arature, pezzate di ocra e terre bruciate, quando altrimenti “dipinte” dai maggesi e dai coltivi. A quelle colline Mario Mulas nel 1984 aveva dedicato una suite, Segni grafici di un territorio, per conto della Banca di Lajatico della quale ricorreva il centenario. Quel paesaggio che gode dalla sua casa e dai dintorni di Lajatico ha continuato a fotografarlo nel tempo, e mi piace ricordare che proprio sulle colline ormai sue Mario Mulas ha recuperato anche il suo an-
la luce che scivola sul volto. Infine il paesaggio e il dispiegarsi dello sguardo sui modulati prospetti delle colline che digradano, qua e là segnate da casali e cipressi, da siepi
tico rapporto con la scena, e il fuoriscena, come fotografo del Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli che ogni anno, nel luglio, celebra i propri riti musicali.
Mario Mulas nel paesaggio toscano. Foto di Eva Mulas Moda anni ‘60 “El nost Milan” di Bertolazzi, regia di Giorgio Strehler pagina affianco: Figuranti teatrali Paesaggio volterrano
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Regina
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’attività di Regina Schrecker si inserisce nel clima fecondo della seconda generazione dello stilismo italiano: quella di Giorgio Armani, Gianni Versace, Gian Marco Venturi, Enrico Coveri, Gian Franco Ferré e altri creativi di grande personalità che iniziano col disegnare collezioni per altri marchi. Se la griffe Regina Schrecker ha compiuto trenta anni, la sua attività come designer li supera. Occorre perciò recuperarne le origini per capire il suo contributo alla moda italiana e al Made in Italy: lei tedesca nata ad Hannover e mitteleuropea per formazione. È voce comune che il suo ingresso nello stilismo sia dovuto all’attività di modella e aver vinto il titolo di Lady Universo, ma questa opinione racconta parzialmente una realtà più complessa. Se l’attività di indossatrice le facilitò l’avvio nel “mondo della moda”, Regina Schrecker mostrò precocemente uno spiccato interesse verso la creazione artistica e di moda, avviandosi nel settore come “free lance”. «Grazie a queste premesse – spiega Cristina Giorgetti, storica del costume e della moda – agli inizi degli anni Settanta Regina può collaborare con aziende italiane specializzate in capi di jersey e di maglia. L’idea delle linee morbide, sinuose, mai disturbate dall’introduzione dei geometrismi imperanti negli anni Ottanta, va rintracciata in questa prima fase degli anni Settanta che chiamerei di sperimentazione». Tende per oltre un quinquennio al mixage, ed è caratteristica del decennio tra gli anni Settanta e Ottanta, che prevede nello stesso capo la coesistenza di filati naturali, pelle, pelliccia, fettucce ed
Roberto Mascagni
elementi decorativi di varie materie. Cristina Giorgetti aggiunge: «Siamo negli anni del grande ritorno al lusso e del glamour, dopo l’austerity, dopo il femminismo e il fenomeno punk». È un’epoca di speranze e di energia per la moda italiana, che aveva
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superato la crisi della metà degli anni Settanta con quel 1974: limite autentico della creatività italiana di vecchia scuola e minimo storico delle vendite dagli anni Cinquanta. L’anno nero fu in realtà il trampolino di lancio di una nuova generazione di stilisti, capaci
Regina Schrecker
Copertine riviste dedicate alla sua moda pagina a fianco: Flacone disegnato da Arnaldo Pomodoro per il profumo “Regina Schrecker” Abito per la sera, o da sposa, georgette e strass Swarovski Andy Warhol, Regina Schrecker, silkscreen Costumi di scena per “Rigoletto”, teatro Carlo Felice, Genova, 2013 Borsettina stampa cocco
di divenire “griffe”: Armani nel 1976; Coveri, Ferré e Versace nel 1978; Venturi nel 1981. Tra le collaborazioni che la Schrecker attivò negli anni Settanta si contano quelle con le aziende Gibi Jersey di Roma, Antonella Tricot, Maria Sant’Elena Jersey per maglieria e prêt-aporter, Mario Valentino per collezioni di abiti da donna, Luciano Ferrari per l’abbigliamento in pelle, Modella Tricot, e la celebre Milena Mosele di Bologna, che aveva assorbito lo storico atelier Antonelli di Roma. Dal 1979 collabora esclusivamente con la Filpucci di cui lo stile Schrecker diventa il principale vettore di promozione dei filati fantasia. L’azienda ha un settore completamente dedicato all’aguglieria, per cui le creazioni manufatte della stilista rinnovano l’interesse delle signore verso gli home tricot, il cui tono voluminoso, leggero e innovativo, riformano l’idea della maglieria casalinga, persuadendo testate come «Rakam» e «Mani di Fata» a dedicare interi numeri ai maglioni da donna e da uomo; e nei primi anni Ottanta il successo delle maglie Schrecker praticamente costringe i settimanali come «Gioia», «Anna» e «Grazia», a inserire istruzioni e modelli per la maglieria “fai da te” come capi di moda. La griffe Regina Schrecker nasce così tra il dicembre 1979 e il gennaio 1980 e da questo anno le sue creazioni recheranno sempre lo stesso marchio. Con le sue collezioni donna sfila per la prima volta con questa griffe nell’ottobre del 1980 all’Hôtel Diana di Milano; quelle per uomo saranno dal gennaio 1983 presenti a Pitti Uomo. Le collezioni dei primi anni ’80 si basano sulla maglieria. Introducendo strisce di pelliccia ottiene una sorta di animal-style apparentemente allineato al filone country, che trionfa tra il 1982 e il 1984, la Schrecker concepisce un raffinato mixage di lane soffici e pregiate che sposano l’aspetto serico della volpe proponendo da subito un total-look. Cristina Giorgetti spiega: «Queste collezioni maglia, completamente manufatte da maestranze per lo più toscane, si avvalgono nella versione glamour di splendidi filati lurex, di lane voluminose ma leggerissime, che anticipano lo stoppino; contrasti cromatici sapienti disegnano decorazioni che accompagnano il corpo e il suo movimento, particolarità derivata dagli studi artistici della stilista. La produzione di maglieria meccanica, opera di artigiane ferraresi, è per volontà della Schrecker basata su macchine che realizzano sagomature
e intarsi manualmente, secondo la preziosa tradizione della cosiddetta maglia a calati». L’attenzione di Regina si incentra su due versanti tipici del lusso dei primi anni Ottanta: la pelle e la seta. Se per la sera e i momenti eleganti propone abiti e mini abiti pantalone in tessuti damascati, per il giorno presenta abiti, canottiere, gonne pantalone e pantaloni scamosciati variamente decorati con metallo. «Lo stile è inconfondibile – precisa Cristina Giorgetti –. Si basa sulla semplicità, sulla perfezione modellistica e su
intrusioni di decori metallici leggeri, mai sfacciati o di facile effetto. La qualità è garantita persino dalle fodere e dalle rifiniture. Introduce per le estati 1982-84 suggestioni etniche, gonne creole, ruches e ricami sfilati, tessuti Madras e balze». Nel 1983, all’apice della sua notorietà, Andy Warhol la ritrae, inoltre presenziando, nel mese di ottobre, alla sua sfilata milanese. Cristina Giorgetti riconosce nella tuta un “must” delle collezioni Schrecker: «È elegante, in leggera flanella per
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il giorno, in seta per la sera, sempre presente fino ad arrivare, nel 1986, a quella in jersey con elastam, frammisto a lurex». La tuta è accompagnata da corte giacche a kimono, da intendersi con il taglio europeizzato di questo tradizionale indumento, senza interruzioni, in un tutt’uno degradante tra spalla e polso. Il suo taglio informale si allinea a quello di Armani, mentre lo stile della Schrecker per i capi in tessuto nasce dalla concezione fluida della maglieria, e non dalla destrutturazione di quelli in tessuto. Nelle collezioni 1986, aggiunge alla pelliccia le piume, il glamour è accompagnato da lustrini, tessuti laminati, improntato a un total look che richiama gli anni Trenta. In piena epoca di donne oberate da spalle schiaccianti alla Mugler o alla Krizia, la Schrecker ricerca linee scivolate, anticipando di qualche anno la “rivoluzione Gigli”, rifiuta la donna androgina e all’Armani, si distingue da Coveri per l’uso soft e non ludico degli accostamenti cromatici, e da Versace e Ferré adottando linee mai geometriche. Sarà una delle prime stiliste ad abbracciare la causa ecologica rifiutando la pelliccia autentica come capo, a favore delle varianti fantasia proposte con ampiezza di scelta e, ben presto, sia da aziende pratesi che tedesche. Senza rinunciare ai dettagli in pelliccia vera per accessori d’alta moda. L’attenzione verso i tessuti di seta classici, preferibilmente damascati, e i decori stampati di tradizione, l’avvicina al mondo del foulard. «È in questo filone – chiarisce Cristina Giorgetti – che essa adotta toni e motivi classici: decori neo-impero, catene, cinghie e fibbie da finimenti da cavallo. I colori sono simbolici della regalità: bianco, oro, rosso, blu royal». La moda si veste di cultura. Vari stilisti assumono simboli ripresi da retaggi storici. La Schrecker userà per spille, orecchini e finiture per borsette una corona d’oro con incastonati cristalli. In seguito, diventerà l’emblema della sua griffe. Tra il 1986 e il 1987 lancia la sua prima linea di occhiali, prediligendo forme in sintonia con le tendenzegioiello degli occhiali di quegli anni. Dal 1982-1983 progetta calzature disegnandole per Pollini, poi producendole col marchio Schrecker: con decorazioni d’oro, in tessuto, in pelli fantasia. Ideando e realizzando borsette e cappelli, definisce il suo total look. È una delle prime griffe a introdurre la moda italiana in Russia,
Cina, Argentina, Giappone, Ucraina e Mongolia, dove sfila regolarmente con capi prêt-à-porter e di alta moda. Nel 1986 la sua carriera, come quella di altri creativi di successo, ha una svolta. La moda è divenuta un affare colossale, ma proprio all’86 viene ascritta la prima stagnazione in questo genere di consumi, le inchieste parlano di obsolescenza del prodotto moda. Intanto nel 1986 le manifestazioni milanesi escludono dalle proprie passerelle ben 11 firme esclusivamente non milanesi: anche creativi di successo come Regina Schrecker. Alla fine dello stesso anno conclude il sodalizio con la Filpucci e inizia a collaborare con aziende su licenza, affiancando all’uniformità di altre linee una sua produzione di abiti d’alta moda. Alla fine del 1986 lancia il suo profumo, il flacone è disegnato da Arnaldo Pomodoro. Concepisce linee di diverso profilo; nel 1987 sulla scia fortunata del jeans griffato, lancia un modello fasciato, quasi fuseaux, a
vita piuttosto alta, decorato da strass e paillettes, alternativo ad altri jeans firmati, coi primi effetti vissuti, di stingitura e consunzione. Dall’inizio degli anni Novanta fonda l’associazione Firenze-Giappone promuovendo eventi culturali di rilievo in sinergia con i produttori di seterie di Kyoto. Nel 1992 la Brioni per celebrare il cinquantenario della sua fondazione chiama la Schrecker come unico testimonial della linea Brioni Donna a fianco di Leo Nucci, Pierce Brosnan e Gay Talese per la linea uomo. Nel 1995 la collaborazione con i produttori di seterie di Kyoto le ispira una collezione di abiti occidentali in broccati utilizzati per i kimono, che matura in una sfilata svoltasi a Firenze nel Museo Marino Marini. A metà degli anni Novanta, come altre grandi firme, per il gruppo Postalmarket crea una collezione di biancheria intima fondata in particolare sul colore blu e amplia la sua attività con altre licenze: ancora occhiali, cinture, borsette, linee di marocchineria per uomo e donna. Crea camicie per uomo di alta qualità. Dopo aver preso parte come costumista a due film negli anni Ottanta, è la volta del teatro, prima col Festival Pucciniano dove esordisce con Butterfly nel 2000, poi collaborando, nel 2006, con il Piccolo Teatro del Maggio. Per Snow white crea costumi fiabeschi realizzati sotto la sua supervisione dagli studenti della Syracuse University. Risalgono al 2013, i costumi di Regina Schrecker ideati per il Rigoletto del bicentenario verdiano, in scena nel Teatro Carlo Felice di Genova. Oggi, nella Casa di mode Schrecker, a due passi dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, continua il suo coerente percorso professionale dando origine a linee di accessori di pregio, curando le sue collezioni di abiti d’alta moda e da sposa, concepiti come pezzi unici lavorati a mano. Utilizza tessuti di grande qualità, presentati regolarmente a una committenza nazionale di rilievo in Russia, Cina e Giappone. «Come storica della moda – Cristina Giorgetti conclude – desidero esprimere un mio parere: ho conosciuto personalmente vari stilisti e creatori, ma in Regina Schrecker ho rilevato una rara dote, quella di sapersi immedesimare istintivamente nell’atto creativo in molti tipi di donne: non a una donna particolare. Non ha stelle fisse, perché vuole donare bellezza a chiunque, non come una stilista di moda ma come la “stilista delle donne”».
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ECONOMIA
nuovo concetto
banca
di fare
B
Filiale di Santa Croce sull’Arno Interno della filiale Taglio del nastro con il presidente della banca Carlo Paoli e il sindaco di Santa Croce sull’Arno Osvaldo Ciaponi
anca di Pisa e Fornacette è una realtà solida e strutturata, protagonista dello sviluppo economico e sociale di tutto il territorio pisano. Da oltre mezzo secolo Banca di Pisa e Fornacette offre prodotti e servizi innovativi per famiglie, imprese ed enti presenti sul territorio della provincia di Pisa e li affianca nella scelta delle soluzioni finanziarie maggiormente adatte alle loro esigenze attingendo da un patrimonio di storia, di conoscenza del territorio e di competenze specifiche. Responsabilmente impegnata in progetti di carattere sociale, Banca di Pisa e Fornacette sostiene iniziative culturali e ambientali, rispondendo ai bisogni della comunità locale attraverso un “nuovo concetto di fare banca” coerente con i propri obiettivi di coesione sociale e di crescita del valore per i soci e per la collettività.
Banca di Pisa e Fornacette, che sino a novembre 2013 era Banca di Credito Cooperativo di Fornacette, è stata fondata nel 1962, con il nome di Cassa Rurale e Artigiana di Fornacette, grazie a un gruppo di imprenditori locali che si ponevano come obiettivo di fornire credito ai soci. Fino alla fine degli anni ‘80 la Banca ha mantenuto una struttura monocellulare, mentre durante gli anni ‘90 ha dato il via al processo di sviluppo e di espansione territoriale. Oggi, con oltre 20 filiali, 4 tesorerie e 200 occupati, Banca di Pisa e Fornacette propone soluzioni di investimento e di risparmio su misura utilizzando strumenti e strategie all’avanguardia grazie a un’evoluzione operativa continua e a una costante espansione del proprio presidio territoriale. Banca di Pisa e Fornacette fa parte del Gruppo CABEL, una affermata
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realtà di rilevanza nazionale che unisce in qualità di soci i principali Crediti Cooperativi della Toscana. Banca di Pisa e Fornacette ha inaugurato lo scorso 13 febbraio la nuova filiale di Santa Croce sull’Arno. Operativa dal 17 febbraio si trova nel Palazzo dell’ex Esattoria Comunale in Piazza Matteotti 2, zona centrale e punto nevralgico della città delle pelli rappresentando un momento importante nella strategia di espansione della Banca nel territorio pisano. All’inaugurazione della nuova filiale sono intervenuti il sindaco di Santa Croce sull’Arno, Osvaldo Ciaponi, il direttore generale e il presidente di Banca di Pisa e Fornacette Mauro Benigni e Carlo Paoli. Dopo il cambio del nome si è, così, aggiunto un altro prestigioso elemento nell’espansione della Banca su tutto il territorio pisano.
EVENTO
stile e storia U
na retrospettiva senza precedenti organizzata dalla Réunion des Musées Nationaux – Grand Palais e Cartier. La mostra Le style et l’histoire è una celebrazione dello stile Cartier e un’espressione di riconoscimento culturale che riconferma un posto d’onore nel mondo delle arti decorative per la manifattura del gioielliere francese. Dal 1983, la Collezione Cartier è stata presentata in 25 mostre da numerose istituzioni culturali di tutto il mondo, tra cui il Metropolitan Museum di New York, il British Museum di Londra, la Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona e il Museo del Palazzo della Città Proibita di Pechino. Questo patrimonio creativo, in mostra al Grand Palais di Parigi, offre una testimonianza di stile e artigianalità della Maison fondata proprio in questa città nel 1847, e oggi brand del lusso del gruppo svizzero Richemont che comprende orologi, gioielli, accessori e profumi. Più di 600 le creazioni selezionate: pezzi di alta gioielleria, orologi, oggetti preziosi provenienti da privati in mostra per
Giampaolo Russo
Monica Bellucci Kristin Scott Thomas e Juliette Binoche Eleonore Von Habsburg, Sceicco Hamad Bin Abdullah Al Thani Stanislas de Quercize e Albert de Monaco Dom Pedro de Bragance e Marie Claude Agatha Ruiz de la Prada e figlia Cosima Ramirez
la prima volta. Il materiale d’archivio e la documentazione storica accompagnano quasi tutti i gioielli della mostra. Una curiosità: tra i capolavori e pezzi unici è esposto anche il diadema portato da Kate Middleton il giorno del suo matrimonio. Pensata per collocare le creazioni nella prospettiva più ampia della storia
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dell’evoluzione nel gusto, delle arti decorative e dell’arte in generale, questa mostra offre anche una lettura delle mutazioni dello stile Cartier di pari passo con gli sviluppi sociali che si sono verificati negli oltre 150 anni della esistenza. Per l’inaugurazione si è svolta una cena di gala in cui i blasonati e prestigiosi ospiti sono stati prima ricevuti nel Salone d’onore del Grand Palais, dove hanno potuto godere di un’anteprima esclusiva della mostra, poi si sono spostati alla Galerie Courbe per una cena preparata dallo chef Jean-Pierre Vigato. Una serata di gala dedicata alla cultura in cui Stanislas de Chauveau Quercize presidente e CEO di Cartier International, e Jean Paul Cluzel, Président des Etablissements alla Réunion des Musées Nationaux-Grand Palais, hanno accolto oltre 200 illustri ospiti del mondo degli affari e dell’arte.
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EVENTO
Firenze color candida innocenza Pitti Bimbo 2014 e la Florence White Night
I
n questo periodo storico la Russia è spesso al centro dell’attenzione mediatica, non solo per questioni di attualità, ma anche per i notevoli successi in campo sportivo, culminati nell’organizzazione dei recenti Giochi Olimpici di Sochi 2014, e per l’eccellenza che la contraddistingue nel campo della musica classica e del balletto. Che se ne condividano le scelte politiche o meno, riguardo, ad esempio, la legge contro la libertà di espressione delle persone omosessuali oppure l’ingerenza nelle decisioni anti-europeiste del governo ucraino, non è possibile prescindere, attualmente, dal considerare il paese come una superpotenza mondiale dal punto di vista economico. Ed è effettivamente per questo motivo che molte aziende stanno valutando, già da alcuni anni, il proprio inserimento nei mercati ex-sovietici, come la pionieristica Società Italia, che dal 1993 è costantemente impegnata nel promuovere il dialogo culturale fra Russia e Italia con un intenso programma di iniziative in entrambe le nazioni: punta di diamante di tali attività è sicuramente il Festival della Moda Russa che ha luogo annualmente a Milano. Con lo scopo di sviluppare attività commerciali in questo settore, oggi Società Italia è partner ufficiale della fiera internazionale Pitti Immagine di Firenze, sia per quanto concerne Pitti Uomo, sia per quel che riguarda Pitti Bimbo e la manifestazione Taste, e contribuisce, in tal modo, a promuovere sul territorio estero numerosi marchi italiani del lusso, tra i quali Blumarine, Francesco Scognamiglio, Giuliana Teso, La Perla, Paola Frani, Cristiano Burani, Catherine Malandrino e Marni. In occasione di Pitti Immagine Bimbo
2014, è stato magistralmente organizzato, venerdì 17 gennaio a Firenze, il più importante e festoso Party per la moda bambino: l’8a edizione dell’ormai consueta Florence White Night. Presso il Grand Hotel Villa Medici, infatti, compratori nazionali e internazionali, clienti e giornalisti provenienti dalla Russia e dalle Repubbliche dell’ex U.R.S.S. sono stati accolti con un ricco cocktail di benvenuto per festeggiare l’anniversario dei dieci anni di partnership con la manifestazione di moda fiorentina. Per suggellare la ricorrenza, Società Italia ha voluto offrire, come riconoscimento, un prezioso piatto di Signoretto Lampadari in vetro di Murano ad Andrea Mugnaini, responsabile di Pitti Immagine, e Manudieci, brand italiano specializzato nella realizzazione di piumini e cappotti, ha mostrato in anteprima, attraverso un live shooting, alcune proposte della nuova collezione Autunno-Inverno 2014/2015. Fra gli ospiti della serata anche Giuliana Parabiago, direttore di Vogue Bambini Italia, che ha presentato il
nuovo progetto congiunto tra la propria rivista e Società Italia, ovvero il concorso fotografico Indossa il made in Italy e posa per Vogue Bambini: per potervi partecipare, le boutiques straniere sono invitate a ritrarre i piccoli clienti mentre indossano le collezioni dei marchi più prestigiosi e a spedire le relative immagini alla giuria, che sceglierà le più eleganti da pubblicare sul numero di luglio della testata. L’interesse per il settore della moda bambino da parte dei compratori stranieri è sempre più in aumento, e il successo di manifestazioni come questa, che si incrementa di anno in anno, non è altro che un’ulteriore testimonianza dell’apprezzamento di cui gode il made in Italy all’estero. Ed in testa alla classifica dei visitatori più presenti a Pitti Bimbo ha confermato il suo primato, pure in questa edizione, proprio la Russia, che si candida quindi di diritto a costituire, per il futuro, un importante bacino di utenza da sfruttatare da parte delle aziende italiane anche negli anni a venire.
Leonardo Taddei
la presentazione che Manudieci ha organizzato presso la Florence White Night 2014
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Santa Croce
mister V
iorel Mitu è nato in Moldavia, ha 20 anni ed è residente a Santa Croce sull’Arno, dove vive con la madre Lubov e il secondo marito di lei, Giuseppe. Viorel si è diplomato all’istituto alberghiero Matteotti di Pisa, parla cinque lingue (moldavo, inglese, russo, rumeno, bene lo spagnolo e il tedesco, e, superfluo dirlo, benissimo l’italiano). Studia recitazione a Firenze «perché il cinema mi appassiona e vorrei fare l’attore», racconta. Precoci i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo: «Sono stato protagonista di una pubblicità trasmessa dall’emittente Odeon Tv, ma per continuare gli studi e mantenermi indipendente, l’estate scorsa, a Firenze, ho lavorato alcuni mesi come cameriere». Alla determinazione dei propositi, congiunge un sorriso bonario: l’una e l’altro espressioni di spontaneità: «Sono single per scelta – dice – ma...». Dopo aver vinto le eliminatorie in Toscana, il giovane ha conquistato la fascia da “Mister Europa in Tour Italia”, il 29 novembre scorso, a Parma, nella discoteca Marisol, dove si svolgeva la finale nazionale, contesa da oltre trenta concorrenti provenienti da ogni regione italiana. «Non mi aspettavo di vincere – Viorel confessa – perché in gara c’erano ragazzi più belli e palestrati di me, tuttavia non ho smesso di crederci, anche davanti a una giuria che sapevo essere giustamente severa». Non lo hanno dunque scoraggiato la notorietà e la competenza dei componenti: l’imprenditore Cesare Ragazzi, l’attore Saverio Vallone, il regista Vittorio Poletti, che è stato aiuto regista di Federico Fellini, conduttrice Rai Martina Gray e Daniela Voina, vincitrice di Miss europa 2012.
Europa Come ti senti nel ruolo di Mister Europa? È un’esperienza indimenticabile. Forse non sarò il più bello d’Europa, però alla giuria sono piaciuto, probabilmente perché mi sono presentato con naturalezza. Né timido né in posa. Quando hai iniziato a fare il modello e perché? Ho iniziato a fare il modello un anno fa, dopo la mia prima partecipazione al noto concorso di bellezza maschile Mister Italia. Successivamente ho ricevuto varie richieste da parte di importanti agenzie di moda. Svolgo questo lavoro perché le mie caratteristiche fisiche corrispondono a un’ampia gamma di vestibilità. Giunto in Italia cosa ti ha colpito di più? Avevo 13 anni. Sono venuto per raggiungere mia madre, perché si era risposata con un italiano. Qui in Italia le opportunità di lavoro, o comunque di essere conosciuto, sono maggiori. Quando hai cominciato a esprimerti in italiano? Dopo tre o quattro mesi. Mi sono impegnato molto, ho studiato. Come è cominciata la tua “avventura” nel mondo dello spettacolo? Tutto è incominciato l’8 marzo 2013, quando ho vinto la prima selezione a Firenze, organizzata dallo Studio Movimenti di Claudio Vigliani. È stato il mio trampolino di lancio, perché ho subito ricevuto un’offerta di lavoro: come attore per un lancio pubblicitario di profumi trasmesso dal programma Pianeta Welness di Sky Tv. Poi ho realizzato uno spot come ragazzo immagine per un noto marchio di accessori e di borse, presente all’ultima edizione di Pitti Uomo. I concorrenti che superano la selezione di un concorso e conquistano la
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loro prima fascia, è chiaro che hanno raggiunto solo la prima tappa: il traguardo è lontano. Anche per Viorel, pronto a misurarsi, concorso dopo concorso, con nuovi concorrenti. Una scalata, insomma, perché dopo essere saliti in quota, lassù bisogna mantenersi. Le giornate di Viorel sono scandite dagli allenamenti in palestra: «mi alleno quattro volte la settimana, per circa due ore», racconta. «Molta attenzione dedico agli alimenti, privilegiando le proteine e i carboidrati, con un adeguato apporto di frutta e verdura. Non fumo e complessivamente non bevo più di un bicchiere di vino, che deve essere rosso. Il mio allenamento comprende anche il nuoto». Il rispetto di questa giornaliera regolarità, ha bisogno di un contrappeso? Certamente. Mi riposo leggendo giornali e riviste; amo la musica e preferisco il genere rap; tra i cantanti italiani quello che più mi piace è Vasco Rossi. Quale è il tuo rapporto con Santa Croce sull’Arno? Anche se sono nato in Moldavia, della quale ho un lieto ricordo, oramai a santa Croce mi sembra di esserci nato: mi ambientai subito bene e realizzai le prime amicizie con i coetanei. Attento e fedele a se stesso, ammette di essere geloso: «Ma prima di tutto della mia immagine, che deve riflettere il mio equilibrio interiore, il rapporto che ho con me stesso. Non confondetemi con un narcisista». Per continuare il suo cammino Viorel si è rivolto ad alcune case di produzioni cinematografiche con sede a Roma, ricevendone, da una, prospettive di lavoro per la stagione estiva. Ha capito che occorre confrontarsi tra il possibile e il probabile, tra i mezzi e il fine, e al momento opportuno colmare il divario con la volontà.
Domenico Savini
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motori che passione!
MOTORI
Essen Fiera mondiale d’auto d’epoca Angelo Errera
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ssen dal 26 al 30 marzo ospiterà Techno Classica Essen, una fiera leader dedicata al mondo delle auto d’epoca. Techno Classica Essen è l’evento più importante del mondo per tutti i collezionisti e appassionati di automobili d’epoca, motocicli, pezzi di ricambio e auto sportive. Ogni anno, circa 1200 espositori e oltre 180 000 visitatori provenienti da tutto il mondo si incontrano a Essen per acquistare e vendere i propri veicoli. Non manca un’area espositiva in cui Club privati e associazioni espongono veicoli storici di grande valore. Questa edizione ospiterà per la prima volta le aziende AC, Maserati e Zagato. “La Tradizione Italiana Sportiva 19142014”, presenta in occasione del 100° anniversario del marchio, con la stori-
ca e nuova vettura sportiva Maserati nel padiglione 6 dal titolo 100 anni di Maserati; la Zagato festeggerà i 95 anni Zagato, con le sue personalizzazioni su auto Alfa Romeo Aston Martin, Ferrari, Fiat, Lancia e Maserati.
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rom march 26th to 30th Essen will host Techno Classica Essen, a leading trade fair dedicated to the world of classic cars. Techno Classica Essen is the most important event in the world for all
collectors and enthusiasts of vintage cars, motorcycles, spare parts, and sports cars. Each year, about 1,200 exhibitors and more than 180,000 visitors from all over the world meet in Essen to buy and sell their vehicles. Do not miss an exhibition area where private clubs and associations exhibit historic vehicles of great value. This edition will host for the first time, businesses AC, Maserati and Zagato. “The Italian Tradition Sports 19142014” presents on the occasion of the 100th anniversary of the brand, the historic and the new Maserati sports car in Hall 6, entitled 100 years of Maserati; and Zagato will celebrate 95 years Zagato, with the their customizations of cars like Alfa Romeo, Aston Martin, Ferrari, Fiat, Lancia and Maserati.
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SPORT
futuro crocevia del
dal 10 al 17 maggio torna a Santa Croce sull’Arno il Torneo Internazionale Juniores di tennis
Marco Massetani
Il francese Maxime Hamou campione a Santa Croce nel 2013 La svizzera Belinda Bencic vincitrice dell’edizione 2013
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rriva la primavera, è l’ora del tennis. Anche a Santa Croce sull’Arno, poco più di 15.000 anime indaffarate tra le concerie, passano gli anni ma il torneo internazionale del Cerri – la passerella delle giovani “racchette” più importante della Toscana, secondo torneo juniores italiano, il terzo in Europa, uno tra i primi 10 al mondo, insomma roba per palati fini – non cambia pelle. Dal 10 al 17 maggio, sui campi del Cerri, andrà in scena la 36° edizione di quella avvincente kermesse (sponsorizzata da Cassa di Risparmio di San Miniato, Tecnopel, Tuscania, Industria Conciaria, Nick Winters, Klf e Tecnokimica) che un gruppo di dirigenti locali, capitanato dall’indimenticato Mauro Sabatini, mise in piedi nel 1979 e che oggi è diventato un fiore all’occhiello della Provincia di Pisa, della Regione Toscana, ed anche un bel vanto per la federazione italiana tennis (FIT) e per quella internazionale (ITF). Otto giorni di gare (si parte sabato 10 e domenica 11 con i match di qualificazione), più di 200 tennisti attesi da circa 40 Paesi, 4 tabelloni (singolare e doppio, maschile e femminile), oltre 35 media che seguiranno l’evento, 10 ore di passaggi in tv, un miscuglio di passioni, di colori, di identità che farà del TC Santa Croce sull’Arno l’ombelico del tennis mondiale, il crocevia del futuro. Perché basta guardarsi indietro per non avere dubbi. Da questo torneo – diventato grazie al direttore Francesco Maffei una efficace macchina organizzativa e di marketing – sono passati in 35 edizioni i migliori giovani del pianeta. Pensiamo agli 11 atleti giocatori sul gradino più alto del mondo – Muster, Rios, Kafelnikov, Hingis, Kuerten,
Mauresmo, Cljister, Safina, Ivanovic, Wozniacki, Azarenka – ma a Santa Croce, ricordiamocelo, hanno giocato anche Gabriela Sabatini e Andy Murray, l’emergente Eugene Bouchard, i nostri Fabio Fognini e Sara Errani, solo per fare qualche nome. Tennis e non solo. Anche quest’anno
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si rinnova la collaborazione tra il club biancorosso e il Liceo Linguistico Eugenio Montale di Pontedera. Dal 10 al 17 maggio il Cerri diventerà anche un momento di crescita professionale per tanti studenti e studentesse. Dentro questa bella cornice di sport, un’altra pennellata di gioventù.
grafologia
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Matteo il conquistatore… M
atteo Renzi, il politico del momento, nasce a Firenze l’11 gennaio 1975 e cresce a Rignano sull’Arno. Esperienze formative sono per lui lo scoutismo, che lo accompagnerà per molti anni, e la frequentazione del Liceo Dante di Firenze, dove diventa rappresentante di Istituto. Dopo le scuole superiori si iscrive a Giurisprudenza e, in quegli anni, comincia l’impegno politico. Lavora anche nell’azienda di famiglia, occupandosi di servizi di marketing. A 24 anni la laurea e il matrimonio con una studentessa di lettere, Agnese, che
diventerà insegnante e madre dei suoi tre figli. Intanto prosegue l’impegno politico nel Partito Popolare e nella Margherita. Nel 2004 viene eletto Presidente della Provincia di Firenze e nel 2009 Sindaco della città. Nel 2012 si candida alle primarie del centrosinistra ma Luigi Bersani lo batte. Ci riprova a dicembre del 2013 e centra l’obiettivo diventando Segretario del Partito Democratico con il 68,1% dei voti. Trascorrono poche settimane e Matteo, il 22 febbraio 2014, giura da Presidente del Consiglio.
Ma vediamo la scrittura di questo giovane politico toscano sulla cresta dell’onda: grande, solida (soprattutto in zona media), dal tratto appoggiato e nitido, si muove rapida in uno spazio pienamente occupato (compatto). Il modello grafico è decisamente quello contemporaneo, semiscript, della sua generazione. Una generazione che, ormai tramontati gli ideali (non troviamo svettamenti in zona superiore), si concentra sulle problematiche del quotidiano, con approccio pragmatico, non alieno da un certo egocentrismo ed edonismo, nella ricerca di un piacere concreto e anche sensoriale (zona inferiore gonfia). La tenuta del rigo è fortemente ascendente e l’inclinazione è leggermente verso destra: domina un’energia volontaristica, potente e determinata che ama agire con ritmi serrati e non si lascia influenzare dall’esterno. Questo non vuol dire che il suo impegno non si basi sul lavoro di squadra e che non sappia ascoltare (ovali aperti a sinistra) – trova anzi forza nel gruppo – ma predilige seguire le proprie idee, sino a mancare, a volte, di obiettività perché troppo immerso nelle questioni, per riuscire ad avere uno sguardo distaccato. I collegamenti tra parole sono assidui (scrittura legata), indice di un pensiero che privilegia la logica. Le forme sono curve e annodate, troviamo però forme ad arco nelle “m” e nelle “n” e il tratto, come già accennato, è netto: questo è indice di un’ambivalenza tra una natura amabile, forse più nelle maniere cortesi che nella sostanza che, da una parte cerca attenzione, dall’altra mantiene sempre un margine di riservatezza e impenetrabilità. Sem-
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pre rivelatrice la firma: omogenea rispetto alla scrittura, testimonianza questa, come abbiamo altre volte sottolineato, di una coerenza nel manifestare il proprio io e caratterizzata da un ampio collegamento a triangolo tra maiuscola del nome e cognome, chiaro indice di un legame molto stretto della persona con la famiglia di origine, non scevro però da ambiguità. Ma qui dalla politica, dalla sfera pubblica, si entra in una sfera molto privata e solo Matteo ci potrebbe confermare l’esattezza della nostra analisi…
Maria Laura Ferrari. Grafologo giudiziario del Tribunale di Lucca. Socio AGP (Associazione Grafologi Professionisti). info@marialauraferrari.com www.marialauraferrari.com
Maria Laura Ferrari
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ti pungo donna! efficacia dell’agopuntura nelle patologie femminili
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’Agopuntura – la più efficace e diffusa tecnica della medicina cinese (anche in Occidente) – si basa su una stimolazione di determinate zone cutanee con l’infissione di sottili aghi metallici, tale da ristabilire il flusso dell’energia e del sangue e da permettere, in tal modo, la riduzione dei sintomi dolorosi o la guarigione. Essendo una tecnica medica, per il suo esercizio è obbligatoria la laurea in medicina. Essa è una tecnica indolore e assolutamente innocua; gli aghi utilizzati sono sterili, monouso, di acciaio flessibile (non si possono rompere) e con il manico in rame. Le indicazioni cliniche dell’agopuntura sono molteplici e si estendono a quasi tutte le patologie funzionali; quelle femminili sono particolarmente sensibili a questo trattamento in tutti i momenti della vita sessuale della donna, in particolare: 1) nel “periodo fertile” è in grado di ridurre tutti i disturbi del ciclo mestruale (mestruazioni dolorose,
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ritardi o assenze del ciclo) e quelli da esso provocate (mal di testa, lombalgie, ansia e depressione): in questi casi possono essere sufficienti poche sedute per ottenere spesso un buon miglioramento del disturbo; inoltre, è usata per ridurre la frigidità e il dolore durante i rapporti sessuali; 2) la sua azione sedativa e ansiolitica è molto diffusa nella preparazione al “parto fisiologico” e in tutte le varie fasi della “fecondazione assistita”: la preparazione al parto deve essere iniziata alcune settimane prima con sedute settimanali o bisettimanali, che consentono alla futura madre di affrontare lo stress del travaglio con maggior serenità e minore ansia, senza ricorrere a farmaci: per questo motivo può essere usata anche per smettere di fumare durante la gravidanza. Per la Fecondazione Medicalmente Assistita le sedute sono effettuate in coincidenza delle varie fasi della tecnica e in accordo con i ginecologi (anche in tal caso ha molta importanza l’effetto ansiolitico per la stimolazione dell’ovulazione e l’impianto dell’ovulo); essa è altresì efficace nella modificazione della presentazione podalica del feto nelle ultime settimane di gravidanza; inoltre, una o due sedute di agopuntura possono stimolare efficacemente la “carenza del latte” dopo il parto; 3) l’agopuntura è molto utile per la riduzione dei fastidiosi disturbi collegati alla “menopausa”: vampate di calore, insonnia, ritenzione di liquidi, stati di ansia, crisi depressive improvvise, dolori dovuti ad osteoporosi, ecc. Come si svolge in pratica una seduta di agopuntura? Dopo una visita medica accurata (anche di un’ora) e il controllo di
eventuali esami diagnostici, il medico agopuntore decide il trattamento da eseguire, fornendo risposte esaustive alle domande. Le successive sedute durano circa 30 minuti. L’agopuntura è dolorosa? Non è, e non deve essere, dolorosa. Vi sono effetti collaterali? Non vi sono, se non rarissimi, effetti collaterali (piccoli ematomi o infezioni locali, in una percentuale dello 0,002%, ossia di due pazienti su centomila e, comunque, quasi sempre dovuti all’inesperienza o alla scarsa cultura medica dell’operatore). L’elemento più importante da considerare è che “l’agopuntura riduce e, in molti casi, azzera l’uso dei farmaci”.
Carlo Borsari
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alimentazione
integratori alimentari
Paola Baggiani
I
l fenomeno degli integratori alimentari, anche grazie al massiccio impatto sui media da parte dell’industria, sta raggiungendo dimensioni rilevanti. Sono uno dei pochissimi prodotti che hanno sconfitto la crisi economica più grande degli ultimi anni; sono un mercato in continua crescita nonostante il generalizzato rallentamento dei consumi e della domanda in alcuni casi anche di quella farmaceutica e sanitaria, con un business che fattura circa due miliardi di euro. L’offerta a cui attingere è ampia attraverso canali di distribuzione “riconosciuti” come farmacie (con circa il 90% del valore venduto), parafarmacie e grandi distribuzioni, ma anche attraverso la rete, con l’e-commerce si può acquistare di tutto… con potenziali danni per la salute. Le categorie di integratori maggiormente acquistate dai consumatori sono i fermenti lattici, gli integratori per il controllo del peso, multivitaminici, gli integratori di sali minerali e i prodotti per i ca-
pelli. In un contesto come quello attuale di grande tensione esogena creata dalla crisi economica, il prendersi cura di sé e mantenere o promuovere la propria salute appare un bisogno, e si fa sempre più radicata la convinzione che la salute e il benessere siano beni preziosi da tutelare il più possibile. La legislazione in materia di integratori essendo prodotti che hanno a che fare con la salute, è complessa: l’obiettivo è la tutela del consumatore vietando di attribuire ai prodotti caratteristiche nutrizionali e sulla salute scientificamente non provate; non devono essere falsi, ambigui o fuorvianti. Il riferimento base è il decreto 169/2004, attuazione della normativa CE2002/46 che definisce gli “integratori alimentari”, stabilendo che la vendita è subordinata alla verifica dell’etichetta da parte del ministero della Salute. Secondo questo decreto si definiscono «integratori alimentari (o supplementi o complementi alimentari), prodotti alimentari destinati a integrare la comune dieta e che costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive quali vitamine e minerali, o di altre sostanze… come aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre». Il loro uso nella nostra alimentazione dipende anche dalla modificazione delle abitudini alimentari: il passaggio dallo slow food al fast food infatti può creare carenze alimentari che con queste sostanze si cerca di compensare. Una dieta varia ed equilibrata apporta da sola tutti
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i nutrienti necessari per garantire a un organismo sano uno stato di piena efficienza fisica e psichica. Innanzitutto è necessario capire quando vi sia effettiva necessità nell’assunzione degli integratori, tenendo presenti contemporaneamente i danni causati all’organismo da eventuali abusi. Esistono alcuni campi di applicazione in cui gli integratori sono sicuramente utili ad esempio nello sport agonistico: in atleti che svolgono allenamenti intensi e competizioni, con fisico sottoposto a enormi stress diventa necessaria una supplementazione in funzione delle condizioni fisiche e della disciplina praticata, ma soltanto nelle dosi e nei tempi stabiliti da un medico nutrizionista. Con lo sviluppo dello sport amatoriale e il grande boom di palestre e di persone che praticano attività fisica, il consumo degli integratori è diventato di massa. Purtroppo la mancanza di cultura in merito, l’ignoranza su concetti fondamentali come il dosaggio e gli effetti collaterali, porta a commettere molti errori che potrebbero essere facilmente evitati. Tra gli integratori più usati dagli sportivi oltre agli integratori salini e quelli finalizzati all’integrazione energetica, ci sono quelli proteici come gli aminoacidi ramificati che dovrebbero essere sempre assunti sotto controllo medico perché il loro abuso è dannoso per i reni. In genere la quota proteica necessaria può essere facilmente reperita negli alimenti come carne, pesce, uova, legumi, cereali, latte e suoi derivati. Anche gli integratori contenenti ferro e i prodotti finalizzati all’integrazione energetica possono essere efficacemente sostituiti con alimenti ricchi di queste sostanze. Un altro integratore usato nello sport, che merita una ri-
flessione, è la creatinina che favorisce la sintesi proteica e il trofismo muscolare, aiutando i muscoli a lavorare di più e favorendo i processi di recupero. Il suo utilizzo è giustificato solo in circostanze particolari (ad esempio per ridotta capacità di sintesi o aumentato fabbisogno) e dopo valutazione medica. Altro campo in cui sono impiegati gli integratori e che rappresenta un enorme business, è quello delle diete dimagranti. I dimagranti da banco sono in realtà spesso del tutto inutili e inefficaci, e possono determinare effetti negativi a livello psicologico (è più facile cercare scorciatoie che offrono risultati senza fatica anziché cambiare l’alimentazione e lo stile di vita; oppure pensare che non ci sono speranze di dimagrire se
In realtà molti alimenti come frutta e verdura hanno, grazie al loro contenuto in sostanze antiossidanti, un elevato potere nutraceutico; in questi prodotti i polifenoli agiscono in sinergia fra loro e con altre sostanze creando un mix che ne potenzia gli effetti positivi; in altre parole supplementare o integrare con singoli composti purificati non regge il confronto con il consumo di alimenti ricchi di vari tipi di antiossidanti, come numerosi studi hanno confermato. Tuttavia gli integratori alimentari sono un supporto valido in molte patologie come i fitosteroli nella ipercolesterolemia, gli antiossidanti nella maculopatia senile, il palmetto seghettato nell’ipertrofia prostatica, la glucosamina nell’artrosi, il sempli-
in natura. Gli integratori dovrebbero essere assunti solo in caso di specifiche carenze da valutare caso per caso o di aumentato fabbisogno come in gravidanza (ferro e acido folico) o se si pratica un’intensa attività agonistica. È necessario capire quando vi sia una effettiva necessità di assunzione degli integratori tenendo presente contemporaneamente i danni causati all’organismo da eventuali abusi. In conclusione, è da bandire un uso ingiustificato di tali sostanze; esse possono rappresentare un contributo in alcune situazioni soprattutto quando il medico ne ravvisi una reale necessità. Una dieta varia ed equilibrata, rivalutando il concetto di dieta mediterranea di cui siamo esportatori nel mondo, apporta da sola tutti i nutrienti necessari per garantire a un organismo sano uno stato di piena efficienza fisica e psichica. www.baggianinutrizione.it
non ha funzionato l’integratore dimagrante…), fino a causare disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia in giovani donne. Anche gli alimenti sostitutivi del pasto, gli snack, le barrette non hanno potere dimagrante in sé, come spesso una scorretta pubblicità fa intendere, sono utili nell’ambito di una dieta ipocalorica che comprenda necessariamente altri alimenti. La legislazione attuale degli integratori coadiuvanti di regimi ipocalorici non consente alcun riferimento ai tempi e alla quantità della perdita di peso e i messaggi pubblicitari di questi prodotti devono sempre richiamare la necessità di seguire una dieta ipocalorica adeguata. La strada corretta per la perdita di peso passa attraverso la dieta prescritta dal medico nutrizionista e da un incremento dell’attività fisica; può essere utile l’integrazione con un multivitaminico in caso di diete più drastiche. Controverso è anche l’impiego di integratori che siano in grado di rallentare l’invecchiamento e che si basano principalmente su sostanze con proprietà antiossidanti, come i polifenoli, le catechine, i flavonoidi , la vitamina E.
ce calcio nella prevenzione e terapia dell’osteoporosi. Grazie a un’informazione molto orientata ai temi della salute e a ridurre gli inconvenienti dell’invecchiamento, presso alcuni gruppi di popolazione si fa sempre più radicata la convinzione che salute e benessere sono due beni preziosi da tutelare attraverso una alimentazione controllata e la pratica di discipline sportive e di esercizio fisico. In questa ottica di prevenzione possiamo spiegare anche l’aumento del consumo degli integratori che si presentano come prodotti in grado di contribuire a migliorare e mantenere lo stato di benessere, nonostante i ritmi e lo stress della vita quotidiana che porta a uno stato di affaticamento con calo di componenti essenziali del nostro metabolismo . è un concetto diverso dalla terapia e dalla prevenzione delle malattie: al farmaco si ricorre per malattie conclamate, all’integratore per stabilizzare il benessere e l’equilibrio psicofisico. In realtà molti integratori sono superflui e sarebbe sufficiente seguire una dieta varia e assumere le vitamine e i minerali dagli alimenti che si trovano
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MEDICINA
A ztechi medicine men
Brunella Brotini
Salsapariglia, frutti e pianta
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uando nel 1519 i soldati spagnoli sbarcarono nel golfo del Messico trovarono la capitale degli Aztechi talmente splendida da competere con le città europee: esistevano le fognature per lo smaltimento dei rifiuti liquidi mentre quelli solidi venivano inceneriti fuori dalla città e le strade erano tenute pulite obbligatoriamente dagli abitanti. Gli autoctoni conoscevano come malattie il glaucoma, la parassitosi intestinali, la scrofola, la gotta, scorbuto, epilessia, schistosomiasi.
A queste si aggiunsero quelle portate dai conquistatori: peste, il vaiolo, morbillo che determinarono lo sterminio di intere tribù, alterando l’equilibrio tra malattie sino allora conosciute e medicina. Essa veniva esercitata dal medicostregone-sacerdote in grado di diagnosticare le malattie servendosi di granelli di mais gettati in un vaso pieno di acqua: dal modo in cui si disponevano, si traeva la diagnosi. Il medico compiva gli atti rituali, si stendeva accanto al malato e succhiava il “male” rappresentato da punte di frecce, pietruzze, piccoli rospi (che il guaritore teneva opportunamente nascoste nelle sue vesti). In seguito però i medici veri e propri (che erano tali perché figli di medici nati in un giorno di pioggia e dotati di particolari poteri) decisero di distinguersi dai guaritori, pur rinunciando a danze sacre ed esorcismi. Riconoscevano che la malattia era di natura divina, ma anche la scarsa igiene, il troppo caldo e il troppo freddo, gli abusi alimentari erano forti concause. Il medico disponeva di oltre 3000 piante medicinali come la salsapariglia, che veniva usata nelle malattie del rene e della vescica, un’altra pianta era il peyote, un piccolo cactus che seda il dolore, ma ha anche effetti allucinogeni. Poi conoscevano la gialappa, impiegata come purgante, e il tabacco che funzionava contro emicranie, vertigini e malattie del naso, oltre che
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indurre uno stato di tranquillità. Una curiosità: il nome tabacco viene dal porto messicano di Tabasco, da cui le preziose foglie venivano spedite in Europa. Nel 1560 Paul Nicot, ambasciatore di Francia in Portogallo, inviò a Caterina de’ Medici dei semi di tabacco come dono. Allorché nel 1828 fu isolato l’alcaloide del tabacco, gli fu dato il nome di nicotina in ricordo dell’ambasciatore. Un’altra polvere molto in voga era il cacahuate, che si otteneva essiccando le bacche del cacao. Inoltre gli Aztechi possedevano la resina di varie specie di alberi, la gomma, usandola sulle articolazioni contro i reumatismi.
(In Europa solo molto più tardi fu utilizzata per fabbricare clisteri, lacci emostatici ecc.) Ma dove gli Aztechi eccellevano era nella trapanazione del cranio. Allorché i primi archeologi si trovarono davanti a questi crani non seppero dare alcuna spiegazione plausibile. Solo per magia? Forse i medici ricorrevano a tale pratica come ultima risorsa contro la pazzia, il tumore celebrale, la cefalea ribelle: attraverso il piccolo foro praticato nel cranio il demone sarebbe uscito fuori lasciando in pace il malato! Oppure, forse più realistico, l’intervento di trapanazione cranica serviva a decomprimere il cervello da qualche frammento di osso fratturato: poiché il paziente stava meglio, probabilmente i medici pensarono che questa tecnica servissero anche per altre malattie. La trapanazione avveniva con lame di
rame e di bronzo, praticando preventivamente tanti forellini nel segmento da prelevare e frantumando poi l’osso tra foro e foro. Una volta asportato poi il tavolato osseo più interno (che era la fase più pericolosa) si tamponava la ferita con garze e polvere di mercurio e sopra si poneva una placca di oro o argento. La mortalità era alta, certo, ma data la rudimentalità dello strumentario era anche bassa. Non so che validità possa avere, ma pare che su 400 soggetti sottoposti a trapanazione del cranio 250 siano sopravvissuti. C’è anche la medicina dei Maya, quella degli Incas e quella dei Pellirossa: ciascuna con caratteristiche proprie ma tutte con molti punti in comune; infarcite di divinità e demoni, ma anche con nozioni terapeutiche assai avanzate e razionali: considerando che siamo nell’era precolombiana!
Alla conquista degli Aztechi di Cortes peyote fiorito piante di peyote gialappa, fiore e pianta piante di tabacco
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TENDENZE
mode di moda
pillole sulle tendenze 2014
Eleonora Garufi
IKEA a PISA apre
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olf The W Street of Wall
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revista per il 5 marzo l’apertura del nuovo punto vendita dello store svedese IKEA. Dopo anni di indecisione la sede è stata scelta a Pisa,t in prossimità del Cantiere Navale dei Navicelli. Molte le novità del nuovissimo negozio che con quello di Firenze, si appresta a soddisfare le voglie casalinghe degli amanti di arredamento e design a prezzi low cost garantiti da un’ottima qualità. Andrete a farci un giro?
scito nelle sale nel 2014, diretto e prodotto da Martin Scorsese con protagonista Leonardo Di Caprio nei panni di Jordan Belfort, uno dei broker di maggior successo nella storia della borsa americana! Un grande film di cui sentiremo parlare nella prossima Notte degli Oscar! Da vedere!
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on ci vorrai mica dire che anche tu sei un fanatico della tisana? Se come noi assapori il gusto di un meritato momento di relax, devi conoscere il nuovo bollitore super pratico di Kenwood. Si chiama kMix (70 euro) il mago della bollitura d’acqua che con stile e colori sgargianti, in un solo minuto riscalda acqua pronta all’infusione. Manico a presa e filtro per le impurità. Lo voglio!
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Vintage
MODA
ed è subito storia la tendenza degli ultimi tempi è un ritorno al passato chiamata vintage
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a che cos’è il vintage? Il vocabolo deriva dal francese antico vendenge (a sua volta derivante dalla parola latina vindēmia) indicante in senso generico i vini d’annata di pregio. Non abbiamo una definizione precisa ma possiamo sicuramente dire che si tratta della “tendenza a riportare in vita oggetti del passato che abbiano una caratteristica riconoscibile del loro periodo d’appartenenza”. Dagli abiti, agli accessori passando dal design d’arredo, lo stile vintage si inserisce con eleganza, riportando romanticismo, forza e colori, riportando in auge lo stile del ‘900, decennio per decennio, dagli anni ‘20 agli ‘80. Il contesto storico contemporaneo, fatto di crisi, di risparmio e di recupero, ha sicuramente accentuato questa pratica miracolosa della rianimazione di oggetti dimenticati. Infatti non potendo comprare, quale migliore soluzione se non vestirsi con gli abiti della nonna, arredare casa dando nuova vita e tinteggiatura al legno, cambiare
una parete con colori e fantasie pop? Il “DIY do it yourself è la nuova pratica del fai da te che inevitabilmente lancia tutti, anche i più negati manualmente parlando, sulla scia vintage”. Ecco allora che corde, calzini e pancali diventano tesori speciali e il mercatino del baratto e dell’usato si trasforma nel nuovo centro commerciale della creatività! Piccole idee, diventano capaci di infondere nuova profondità concettuale a qualunque ambiente domestico, a segnalare la personalità, lo stile e la moda. Sulle passerelle poi, il vintage è sovrano ma ci sono delle regole nella moda: “dieci anni dopo la sua creazione, un capo è fuori moda; venti anni dopo è all’avanguardia; trenta anni dopo è un classico”. La data d’inizio della produzione oggi considerata vintage, sono gli anni ’30, ma resta un’indicazione vaga, si possono trovare capi utilizzabili oggi anche nella moda anni ’20 (ma qui ci vuole una bravura d’abbinamento davvero d’alta moda!). Siamo tutti, da sempre, naturalmente propensi a essere curiosi verso il passato: e come un buon vino d’annata, sembra proprio che i gusti del passato trovino nuovo vigore con l’ossigeno del presente. “I pezzi vintage sono unici. Avere qualcosa vintage in abbigliamento e nella vita ti regala quella speciale sensazione di esclusività che farà invidia a chiunque!” Un vestito o un paio di occhiali vintage non passano mai di moda e oggi sono un vero tormentone guidato dal motto must have! Ma ricordate, per essere definito vintage, un capo o un oggetto dovrebbe avere più di vent’anni ed essere appartenuto ad altre persone. I puristi del genere affermano che sono
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vintage solo i capi pre 1960, mentre quelli post 1960 sono da considerarsi retrò. Insomma il vintage è ovunque e la moda e il design d’arredamento sono le branchie più colpite di questo ritorno al passato che passa da una gonna a un vinile, passando per un frigo della CocaCola. Di fatto però non è possibile tracciare una vera e propria storia del vintage: “il vintage è una storia in divenire”. è il racconto di un tempo passato che diviene attuale, che detta le regole di una moda alla portata di tutti. “Una vera filosofia che mira al recupero di una cultura passata fusa nel presente”. Precursori di questa moda sono stati artisti come Andy Warhol, o geni italiani come Magistretti e Castiglioni. Un dialogo aperto tra passato e contemporaneo che guida l’espressività artistica a 360 gradi, dalle passerelle al design globale.
Eleonora Garufi
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gusto
pappa al
pomodoro quando il gusto sposa tradizione storia semplicità salute Federica Farini
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a cucina toscana racchiude da sempre una profonda quanto attuale saggezza: il successo di un piatto è spesso decretato dall’equilibrio dei suoi abbinamenti, semplicità e genuinità. È la sapiente pacatezza della tradizione contadina a tramandare alla contemporaneità un antico oro di colore rosso. Accompagnato da un altro ingrediente, che in passato nei piatti poveri faceva quasi sempre capolino pur di non essere gettato via (il pane raffermo - senza sale, poiché un tempo troppo costoso), la pappa al pomodoro conquista i cuori di ogni generazione. Passpartout per le quattro stagioni, è amabile in inverno come zuppa calda, stuzzicante in estate a temperatura ambiente o fresca, insaporita da un tocco di basilico e da un filo di un altro oro, di colore giallo: l’olio extravergine d’oliva. Le varianti personalizzate della pappa al pomodoro propongono l’aggiunta di soffritto di cipolle, porri, carote e sedano. A scomodarsi per tessere le lodi del piatto perfino uno scrittore novecentesco, in arte Vamba (pseudonimo del fiorentino Luigi Bertelli), nel libro del 1907 Il giornalino di Gianburrasca, interpretato successivamente in televisione nello sceneggiato diretto da Lina Wertmüller (1964), dove il terribile bambino protagonista canta della pappa al pomodoro attra-
verso la voce di una scatenata Rita Pavone su note di Nino Rota. È proprio il monello Giannino “Burrasca”, simbolo dell’Italietta degli anni del primo anteguerra, a ribellarsi all’ipocrisia degli adulti con le sue marachelle, intonando un famoso coro nel suo viva la pappa col pomodoro. Gian Burrasca finisce in punizione in collegio, opponendosi alla triste
minestra di magro del venerdì (rimescolamento di scarti della settimana), riuscendo, pena l’espulsione dalla scuola, nella rivincita dell’amata pappa al pomodoro. Sinonimo di ribellione, a ridosso di quel ’68 come cambio radicale della società e inno
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della fiera toscanità incarnata in uno dei piatti simbolo della regione, la pappa diviene una rivendicazione generica e generale su quei torinesi che detengono il potere politico e amministrativo della vecchia Italia. La gustosa pietanza si può abbinare con fantasia ad altri gusti: ed ecco deliziare il palato con capesante mischiate a pappa al pomodoro, con calamari ripieni di essa, oppure fredda abbinata a frutti di mare. Un punto alla salute (e alla bellezza) le va regalato anche grazie alla ricchezza del suo ingrediente base, povero di calorie ma ricco di antiossidanti, vitamine, minerali e oligoelementi. Pappa al pomodoro e sentieri enogastronomici senza età: dove gustare? O g g i c o m e un tempo ci si può addentrare nella magia e natura delle colline senesi, o visitare il comune di Rimbocchi durante la Sagra del Pane – festa simbolo per la vallata del Casentino. Nel periodo estivo in rotta per la Sagra delle Sagre, a Bibbiena, territorio brulicante di gusto e tradizione, per approdare a Quarrata, in provincia di Pistoia, dove imbattersi in qualche tipico angolo per assaporare la pappa al pomodoro e godere delle bellezze di borghi antichi senza tempo, tra storia e fantasia.
Come preparare la vostra Pappa al pomodoro Tagliare il pane toscano in fette sottili, tostarle in forno per qualche minuto (a 200 gradi) e strofinarle con uno spicchio di aglio. Scottare i pomodori in acqua bollente per 1 minuto, scolarli, spellarli e passarli al setaccio (a scelta se mantenere i semi del pomodoro o eliminarli), versando la passata prodotta in un contenitore. Adagiare le fette di pane in un tegame antiaderente o di coccio, versavi sopra la passata di pomodoro e brodo vegetale: condire con sale e pepe e un cucchiaino di zucchero. Cuocere il composto per
40-50 minuti, a fiamma bassa, facendo evaporare il liquido, mescolando per rendere la minestra prodotta pi첫 omogenea possibile. A cottura avvenuta insaporire con foglie di basilico e versare nei piatti aggiungendo un goccio di olio extravergine di oliva e, a gusto, anche qualche ago di rosmarino, un velo di peperoncino in polvere o pepe macinato fresco. Accompagnare con un morbido e piacevole vino, rosso come un Morellino di Scansano o bianco come una Vernaccia di San Gimignano. 95
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Anno XVI n. 1/2014 Trimestrale â‚Ź 10,00