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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658
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771973 365809
20162
Anno XVIII n. 2/2016 Trimestrale € 10,00
Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario
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EDITORIALE
Tra il sogno e la realtà
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n un giorno come tanti la nonna, anche se un po’ affaticata e non più tanto dinamica, decide di portare la sua nipotina, la più piccola delle tre, a fare una visita allo zoo. La bambina non è una sprovveduta: nel suo visor pad ha visto tutte le specie animali, conosce i loro versi e virtualmente li ha anche accarezzati. Perfino il leone. Dal vivo, però, non ne ha conosciuto nemmeno uno. Arrivati allo zoo, dopo le raccomandazioni di rito, la nonna e la bambina cominciano la visita e si soffermano davanti ai recinti e alle inferriate ad ammirare la giraffa, il leone, il leopardo, il rinoceronte, l’elefante e via dicendo. Esauriti gli abitatori della savana, passano alle gabbie dei rapaci, i predatori dell’aria. Le aquile, i falchi, le poiane sono bellissimi, nei loro piumaggi multicolori. La bambina, che è un tipo sveglio, nota subito che gli esemplari maschi sono più belli delle femmine, e lo comunica con una battuta alla nonna, la quale annuisce ridendo. Il tempo passa, la mattinata sta per esaurirsi quando la nonna e la bambina arrivano nell’area riservata agli animali domestici, la più vicina all’uscita. Alla bambina non sfugge che quella zona dello zoo è più nuova delle altre, forse ristrutturata da poco. Incuriosita, chiede spiegazioni alla nonna. «Cara piccolina – risponde la nonna – questi animali una volta si trovavano anche nelle nostre case, nei nostri cortili, nei nostri campi. La tua trisnonna aveva una grande casa in campagna con una grande stalla e molti di questi esemplari venivano allevati. Si utilizzava il loro latte, la loro lana e infine venivano uccisi per mangiare la loro carne». La bambina è sbalordita, ma ascolta con attenzione il racconto della nonna: «Questa è la mucca, vedi com’è bella?! Degli animali di questa specie si consumava tutto: oltre a bere il loro latte, con il quale si faceva anche il formaggio, utilizzavamo il loro letame per concimare le piante, mangiavamo la loro carne e usavamo la loro pelle per farci scarpe, cinture abbigliamento». La bambina è sempre più incuriosita. «Oggi, cara nipotina, moltissime persone, la stragrande maggioranza, sono diventate vegetariane o vegane. Non si cibano più delle carne di questa specie, per cui gli amatori di questi animali li allevano in piccole e nascoste riserve. Si vocifera che esista una società segreta che fa rievocazioni storiche vestendosi con goffi e pesanti abiti e scarpe di pelle. L’abbigliamento oggi e molto più leggero. Come sai, è fatto quasi tutto in fibre sintetiche o, per i più ricchi, in fibre naturali o addirittura di carbonio ultra soft. L’allevamento di questa e altre specie un tempo domestiche... purtroppo è brutto dirlo, ma è la verità, il loro mantenimento è molto costoso, perché non interessa più alla popolazione, quindi la mucca e i suoi compagni della fattoria stanno arrivando all’estinzione». Una voce lontana a poco a poco si fa più nitida e forte: «Nonna, nonna, nonna!» Uno scossone e la nonna si sveglia. Apre gli occhi e vede Lavinia, la sua unica nipotina, con in mano il libro della fattoria. La nonna si leva e presa per mano la nipotina, le dice: «Vieni, tesoro, facciamo il latte e dopo la colazione si va allo zoo.»
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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658
In copertina: Cordelia von den Steinen, Per amore della storia, 2010, terracotta cm 28x34x34 (Foto di Alessandro Paladini)
Reality numero 80 - giugno 2016 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007
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SOMMARIO
ARTE MOSTRE LETTERATuRA TERRITORIO STORIA In viaggio con Cordelia 10 I marmi di Seravezza 21 Antonio Puccinelli 24 La copia del bello 26 Factum Arte missione copia 28 30 “Fece di scolttura di legnami e colori” Un ciuchino vanitoso 32 Premio Viareggio 34 Marilyn Monroe 35 Carnaval érotique di Milhau 36 L’arte in Italia 37
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Nel giardino degli dei Borghi toscani Il Cammino di Santiago Stoner Mario Naldini Messaggi incisi dalla preistoria Parole guardate Il ritratto di Dorian Gray
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Neoclassicismo Pirati nel Tirreno Americani in Toscana Simboli della Francigena Un Leone sull’Arno Cartoline luganesi Wine tour
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SOMMARIO
SpETTAcOLO EVENTI EcONOMIA SOcIETà cOSTuME 63 64 66 67 68 70 71 73 74 76
11 Lune a Peccioli William Shakespeare Giulia Lazzarini LXX festa del teatro 37° Festival La Versiliana MOGADOR 62° Festival Puccini Estate 2016 Cannes Eurovision Song Contest 2016
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Vecchia a chi? Sguardi dal mondo Suono-movimento-tempo La dieta di primavera Summer Party Galileo Galilei
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Polo per una nobile causa Lineapelle Milano l’ombelico del mondo OUTDOOR Le giovani stelle del tennis Secessione romana
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ARTISTA
in
viaggio con
Cordelia
Nicola Micieli
Sarebbe da domandarsi che cosa spinge una persona a passare la vita a tenere le mani nella creta, a produrre cose che a nessuno è venuto mai in mente di chiedere: una lampadina che non si accende, un panino non commestibile, una parete senza funzione architettonica, figure in viaggio munite di molti bagagli. Credo che la motivazione sia simile a quella dell’esploratore che, mosso dalla curiosità e dal desiderio della scoperta, incomincia sognando una meta. Si appassionerà quindi a studiare le ipotesi di un possibile percorso per raggiungerla. Stabilito quello migliore, preparerà il materiale necessario per attuare l’impresa e finalmente si metterà in moto. A tratti il cammino sarà affascinante, pieno di sorprendenti scoperte, a tratti risulterà solamente difficile e faticoso, persino ripetitivo. L’esploratore a volte cambia strada, cosa che lo porterà a scoprire un altro luogo, o magari si perde, e senza aver trovato nulla di particolare deve tornarsene a casa. Ma perché si espone a queste fatiche? Glielo ha ordinato qualcuno? No, lo fa per la curiosità, per il senso dell’avventura, della sorpresa che la meta offrirà, e perché ogni volta che si percorre una strada non ancora battuta è una scommessa. L’esploratore ha la terra sotto i piedi, lo scultore l’ha tra le mani, ogni volta qualche chilo che ha la potenzialità per diventare altro: una tegola per esempio, un mattone, oppure una immagine che evoca, a sorpresa, un senso ulteriore. . Cordelia von den Steinen, 2016
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o visto alcuni mesi fa, con un certo stupore e non poca ammirazione, un’opera coroplastica, Porta tra lo stare e l’andare, da Cordelia von den Steinen compiuta lo scorso anno, dopo una lunga gestazione impegnativa anche sul piano materiale del lavoro. Nella mia mente essa si è subito configurata come una sorta di laica iconostasi, la struttura che nel rito orientale separa – e collega – il presbiterio riservato al sacerdote e il popolo dei fedeli. Il considerevole impianto scultorio di sicuro è il più esteso e composito sin qui realizzato dall’artista. Delle sue dimensioni oggi non se ne vedono molti, nei cantieri dove si produce scultura. Mi riferisco alla tipologia “monumentale” sviluppata sul piano, e metto tra virgolette l’aggettivo per rappresentare l’ampio respiro dell’opera, che a suo modo induce percorsi narrativi, dunque propriamente memorie secondo l’etimo del monumento, senza con ciò presupporre nell’artista un qualche intento celebrativo e relativa magniloquenza. In questa sua Porta che si colloca tra lo stare e l’andare ed è concretamente e simbolicamente luogo del transito di ampia estensione semantica (confine tra il dentro e il fuori, tra lo spazio privato e quello pubblico, tra il qui e l’altrove, il fisico e il metafisico, infine l’esserci e l’estinguersi), non trovi neppure allusa la retorica inevitabile o, se vogliamo, la presunzione esemplare che anche fuor d’intenzione dell’artista, ogni monumento finisce con l’assumere. Tale estraneità la dice l’insieme della partitura parietale, disseminata di segni, parole e simulacri degli oggetti e presenze testimoni della quotidianità di Cordelia donna e scultrice,
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nella cui casa o studio che dir si voglia, è come se fossimo invitati ad accedere semplicemente varcando quella soglia. Ed è questa la connotazione prima, squisitamente domestica, della Porta quale accoglimento nell’intimità, nel tranquillo fervore della casa, che è poi il senso umanamente più vero e autentico del fare scultura di Cordelia von den Steinen. L’estraneità la rivela altresì la sensibilità con la quale Cordelia ha trattato le superfici di questa sua “edicola”, sempre e solo affidando alla sapienza amorevole delle proprie mani la lavorazione della creta. Anche per questa Porta parlerei insomma di un’affettuosa, materna manipolazione della materia, la stessa che l’artista riserva ad ogni sua opera, quasi impastasse e formasse il pane per il forno domestico, per usare l’immagine d’arcaica naturalezza che Arturo Martini riferiva agli Etruschi, e ricordo che a Cordelia, che ne fece tesoro, e agli altri suoi allievi a Brera, il pro-
fessor Marino Marini parco di parole, raccomandava di cercare proprio negli Etruschi le radici del linguaggio scultorio di lunga navigazione italiana e mediterranea, transitato tramite Arturo Martini e lo stesso Marini nella tradizione moderna del Novecento. Opere delle dimensioni di questa Porta, dicevo, se ne impostano poche nel marmo e nel bronzo. Ancor meno se ne realizzano in terracotta, la tecnica originaria per Cordelia esclusiva, con la quale ha modellato e consegnato alla fucina alchemica del fuoco, l’intero suo mondo popolato da sculture che raccontano il cammino di ognuno e di tutti nella vita, e la memoria del tempo che si rispecchia e rinnova non solo come metafora, nel viaggio dell’odierno Odisseo e nell’andare dei popoli, come sempre nomadi e profughi nella storia delle civiltà e delle culture. L’umile argilla lavorata e cotta, primordiale generatrice e archetipo della scultura, l’argilla con
Porta dello stare e dell’andare, 2014, terracotta
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L’ora tarda, 2001, terracotta cm 31x18x15 Occore tagliare, 2002, terracotta cm 29x70x50
la quale, secondo il mito non solo biblico, il Creatore modellò l’uomo e gli insufflò la vita, è materiale povero e d’uso diretto che si considera per lo più inadatto alle grandi imprese plastiche. Ma sono proprio questi suoi limiti che ne fanno il materiale principe di Cordelia von den Steinen. La preferenza della generalità degli scultori in grande va al marmo e al bronzo, certamente più adatti a sopportare l’usura del tempo e degli uomini, ma la loro traduzione in opera comporta una mediazione tecnica che inevitabilmente fa perdere il dato di fondo che rende la creta e la terracotta così care a Cordelia von den Steinen: il percepibile, intimo e corporale senso di partecipazione al graduale formarsi, al crescere naturale della scultura. Questo senso di naturalezza generativa appartiene all’organismo plastico e prescinde dalla attribuzione realistica della partitura visiva, del resto da Cordelia interpretata con non poche alterazioni del vero, operando
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sia in riduzione sintetica sia in dilatazione fino all’iperbole della forma. Per esempio, quando istituisce una sorta di gerarchia dei valori in campo, implicitamente simbolica, mantenendo nella situazione rappresentata un diverso rapporto di scala tra le figure, gli ambienti, gli oggetti o loro parti consegnati alla scena. Oppure quando assimila ai congegni, agli attrezzi, agli oggetti privilegiati delle sue ricche apparecchiature, che sono altrettanti archetipi della domesticità rappresentata nella sua scultura, non pochi prodotti della tecnologia avanzata entrata nella pratica della sua vita come in quella di tutti, in tal modo disinnescando il cortocircuito che altrimenti scatterebbe con l’ambiente alluso o simulato, il suo carattere antropologico, direi perfino la quieta temperatura espressiva da tempo acquisita stabilmente nello spirito e nell’immagine della propria bottega scultoria. Cordelia non smarrisce quel senso di naturalezza nel racconto plastico
Mensa, 1989, terracotta cm 100x310x63
parietale della Porta dello stare e dell’andare, composta aggregando pannelli incisi, rilevati, figurati con segni presenze oggetti della quotidianità, come si fa con le bozze murate d’un edificio, nel caso specifico una facciata di casa con ben tre ingressi, dei quali il centrale aperto, segnati da distinte cornici architettoniche. Per essere un alzato in terracotta a sviluppo parietale, la Porta mi fa inevitabilmente pensare agli Etruschi, i padri che nella terracotta formavano gli ornati architettonici e le figure dei loro templi, come nella testimonianza del “Frontone di Talamone” mirabilmente ricomposto pochi decenni fa. Montata nello studio dell’artista, a Pietrasanta, La porta dello stare e dell’andare – così mi sono permesso di chiamarla qui, con l’approvazione dell’artista – mi sembrò appunto che stesse là come in attesa di andare al luogo del suo destino, che immagino sarà civile, forse anche privato, per quanto non vedrei arbitraria una sua collocazione in area consacrata. In fondo, pur non comparendo in essa, neppure dissimulato o criptico, mi pare, un qualche simbolo religioso, si capisce che nelle stanze alle quali veniamo idealmente introdotti, e sui simulacri degli uomini e delle cose che le abitano, vegliano i Lari. Ho riferito di proposito l’impressione che ho avuto dello stare in attesa di andare perché si tratta di verbi forse i più rappresentativi, e non antitetici perché aspetti di un unico flusso, della poetica di Cordelia von den Steinen. Le sue figure soprattutto muliebri che diversamente atteggiate, stanno in piedi, a sedere o sdraiate sulla scena della scultura, sono puntualmente raffigurate “in situazione”. Le vedi impegnate in un fare che per lo più interessa le loro mani operose, nel “laboratorio” vorrei dire familiare, dove giorno dopo giorno, con la cadenza ciclica del tempo che ricorda Esiodo, si compone il suo “monumento” alla quotidianità. Quando poi del loro agire non parla l’evidenza dell’opus: cucire, tagliare, sferruzzare, diversamente provvedere alle necessità della casa, attività tutte che paiono connotare il confino casalingo della donna; oppure portare la legna per il camino, spingere faticosamente su un piano inclinato un gomitolo o tenerne il bandolo per dipanarlo, azioni e situazioni ed esperienze concrete nelle quali, sotto specie metaforica, Cordelia racconta la vita e con inimitabile garbo adatta al sedicesimo perfino
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leggende e miti istitutivi della nostra cultura; ma anche quando riprende Il diario, 1998, terracotta le sue donne assorte in un pensiero, particolare magari rapite nel sogno o più spesso immerse nella lettura, una consuetuTelefonano tutti, 1995, dine, questa, che così intimamente terracotta cm 33x34x27 le corrisponde, ci rendiamo conto che si tratta di alcuni dei modi con i quali fa extra-vagare, che vuol dire viaggiare, dunque agire le proprie donne e i più radi uomini sulle piste dell’immaginario. E addirittura quando Cordelia non consegna alla scultura i personaggi del suo teatro di figure, invero non capocomici, tanto meno mattatori o personificazioni eroiche, ma solo un fitto cast di comprimari rappresentativi della più comune umanità; quando invade la scena con cose, oggetti, marchingegni meccanici e congegni tecnologici componendo una sorta di suo inenarrabile catalogo di “nature morte”, che davvero partecipano d’una loro vita silente, ti accorgi che essi sono quasi Pagina a fronte sempre il prodotto di un’azione – Il potere della maschera una mansione un’operazione un’im2004, terracotta presa un rito – appena consumata cm 34x16x23 o lasciata in sospeso nel suo farsi. Oppure sono la predisposizione a Nella lana, 2016, terracotta una lista di compiti che dovranno cm 45x30x20 essere affrontati. Esplicita o implicita Pagine precedenti
che sia, insomma, la funzione d’uso dell’oggetto che Cordelia propone, si tratta in ogni caso di situazioni che invitano a valicare la Porta dello stare e dell’andare, a entrare nello spazio privato della casa e partecipare al brusio, all’animazione che promana dal respiro plastico delle figure e delle cose che lo abitano. A ben vedere, si tratta d’un invito alla compartecipazione che traduce le esperienze e gli spazi del privato nella più generale esperienza della condivisione delle diversità, dunque un portato collettivo negli spazi aperti dell’ambiente naturale e dell’agorà. Si inverte dunque l’attraversamento della Porta, il percorso delle figure che guadagnano lo spazio aperto dell’ambiente naturale e dell’agorà. E come le prime stavano nelle stanze animate dal brusio del loro fare e dal moto ideale del loro pensiero fluido, sulle quali si chiude come in un grembo lo spazio che le contiene, le seconde agiscono nell’evidenza del moto che lo spazio lo penetra, e vanno da viaggiatori terrestri e marini concentrati e anch’essi come sospesi nel pensiero della meta da raggiungere, generalmente carichi dei loro bagagli o del corredo di semplici cose che le identificano e le
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distinguono – magari i poveri e sontuosi abiti della Regina degli stracci. E andando, si incrociano e si aggregano, facendosi comunità di viaggiatori che procedono silenziosi, sulle strade del mondo o imbarcati su un naviglio. Li muove la speranza d’una riva un guado un passaggio di frontiera un’oasi di riposo un possibile approdo ogni volta vanifica, e nella loro presenza scorgiamo, in fondo, il procedere dell’umanità che trova nell’andare il proprio divenire e nella meta mobile il proprio destino. Nel proprio diario plastico figurato Cordelia von den Steinen racconta il proprio cammino di donna e di scultrice qui e ora, nella memoria del tempo e della cultura che rifluiscono dai secoli e nell’attualità del tempo e della cultura della quale è partecipe. Della propria appartenenza attuale è parte anche il dramma delle migrazioni di massa, che hanno segnato e segnano luttuosamente le acque e le terre del nostro vivere. Cordelia non ne fa la cronaca, ma le dichiara un portato del nostro tempo inscritto nel più ampio disegno del destino dell’umanità. Al quale non si può rispondere che come compartecipazione, assumendolo con lo spirito del viaggiatore che mira a una meta comune.
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La poltrona aspetta, 2002, terracotta, cm 26x38x43 Gli architetti, 1999, terracotta, cm 45x54x20 Per la scalata, 2007, terracotta, cm 140x70x79
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Arriva l’imperatore, 1998, terracotta, cm 30x57x50 E ancora vanno, 2007, terracotta, cm 111x78x30
Cordelia von den Steinen nasce nel 1941 a Basilea. Dopo il liceo consegue l’abilitazione all’insegnamento artistico, quindi si trasferisce a Milano dove a Brera è allieva di M. Marini. Dal 1965 al 1966 lavora a Roma grazie alla borsa di studio conferitale dal Museo d’Arte di Basilea e dal premio Federale Svizzero per la Scultura per poi trasferirsi in Versilia. Nel 1970 riceve per un anno un atelier alla Cité des Arts a Parigi. Negli anni successivi vive tra Milano e Fivizzano. A partire dal 1967, anno in cui espone a Parigi, al Salon de Mai e de la Jeune Sculpture, e alla Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, la sua attività espositiva si fa sempre più intensa. Molte le collettive in Italia, Svizzera, Francia, Germania e le personali, tra cui quelle alla Komunale Galerie Willmersdorf di Berlino, al Kunst Raum Riehen a Basilea, alla chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta, al Museo Marino Marini di Firenze, al Castello Sforzesco di Milano. La sua attività artistica spazia dal disegno di gioielli a quello di costumi teatrali (Maggio Fiorentino, Festival di San Miniato, teatro di Genova, Festival Pucciniano). Per brevi periodi si dedica alla didattica. Negli anni realizza numerose opere pubbliche che si trovano a Basilea, Vencac, Tuoro, all’aeroporto di Parma, a Seravezza, all’Università di Chieti, a Rapolano Terme, nella Biblioteca del Senato, a Cinisello Balsamo, nelle chiese di S. Franco a Francavilla al Mare, S. Pietro a Pescara e S. Francesco ad Assisi. Dal 1992 entra a far parte del gruppo di artisti Künstlersonderbund Deutschland. È membro dell’Accademia di San Luca dal 1992.
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ARTE
i marmi di
Seravezza Michelangelo sfida la volontà del papa
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entre Michelangelo attendeva in Carrara a procurarsi i marmi, il cardinale Giulio de’ Medici manifestò più volte la volontà del papa che per la realizzazione della facciata di San Lorenzo si utilizzassero marmi di Seravezza. Si cominciò allora da più parti a sollecitare lo scultore perché abbandonasse Carrara e si trasferisse nel Capitanato di Pietrasanta. Ma il Buonarroti faceva orecchie da mercante: proprio da mercante o meglio da imprenditore, che tale era in quel momento il suo ruolo intrattenendosi con “quella ladronaia” (così Cosimo I definì i commercianti di marmi carraresi un po’ di tempo dopo). Con i cavatori di Carrara lo scultore non solo aveva stipulato vari contratti, ma aveva addirittura fatto “compagnia” con alcuni di loro, con l’impegno di dividere le spese e i profitti. E quando il segretario del cardinale Giulio de’ Medici, Domenico Boninsegni, si rese conto che lo scultore era in società con i carraresi e addirittura tentava di fare la cresta sui prezzi, gonfiandoli ben oltre i valori del mercato, si indignò e si adirò a tal punto che Michelangelo dovette rapidamente uscire dalla compagnia e chiedere scusa. Inizialmente non vi erano ostacoli nel consentire all’artista di approvvigionarsi di marmo a Carrara per il lavoro della facciata. Ben presto però apparve evidente che la volontà del papa e del cardinale Giulio de’ Medici era che Michelangelo dovesse abbandonare Carrara e trasferirsi a Pietrasanta per dare avvio alle escavazioni nelle cave assegnate all’Opera di S. Maria del Fiore. Una prima avvisaglia del vero e proprio scontro che si verificherà di lì a poco tra lo scultore e i due potenti datori
di lavoro, la troviamo testimoniata in una lettera di Buonarroto Buonarroti al fratello Michelangelo, del 13 gennaio 1517: lo avverte che a Firenze circola voce che sia in qualche modo legato al marchese di Massa Alberico Malaspina, e non voglia fargli torto interrompendo i rapporti commerciali con i cavatori di Carrara, da cui trae vantaggi lo stesso marchese, e avviando addirittura nel Capitanato di Pietrasanta, territorio fiorentino, un’attività che porterebbe alla creazione di un polo produttivo, nel settore dell’escavazione e della
lavorazione del marmo, antagonista di Carrara e potenzialmente in grado di indebolirne la supremazia fin lì detenuta. La pressione dei committenti medicei sullo scultore si fa sempre più insistente. Perfino il Commissario generale a Pietrasanta, Vieri de’ Medici, per incarico del cardinale Giulio de’ Medici il 16 gennaio 1517 convoca perentoriamente Michelangelo. Ma ottiene evidentemente scarsi risultati tant’è che pochi giorni dopo, il 2 febbraio, il cardinale Giulio de’ Medici si decide a scrivere a Michelangelo in
Costantino Paolicchi
Veduta di Seravezza prima del 1885 Pietrasanta, duomo di San Martino, lunetta della porta maggiore sormontata dallo stemma di papa Leone X (Giovanni de’ Medici), con la tiara pontificia e le chiavi incrociate, opera di Donato Benti, ca. 1513
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Carrara una lettera molto dura, nella quale fa intendere che è volontà del papa e sua che si utilizzino i marmi delle cave di Pietrasanta, e che dunque lo scultore deve sottomettersi a quella volontà eseguendo quanto gli viene ordinato. Il documento è di
particolare importanza perché chiarisce l’intento di mettere in esercizio quelle cave “…per l’utile publico della città” In sostanza, in quella piccola enclave fiorentina, dove l’agricoltura da sola non bastava ad assicurare il sostentamento della popolazione, il marmo poteva costituire una risorsa importante, ancora tutta da sfruttare. Passarono tuttavia diversi mesi prima che i carraresi cominciassero a insospettirsi per quello che stava avvenendo a Pietrasanta, e pensando che Michelangelo fosse parte in causa gli divennero ostili e giunsero fino al punto di “assediarlo”, ossia gli impedirono di caricare sulla spiaggia dell’Avenza i marmi per la tomba di Giulio II che lì giacevano belli e pronti e già tutti pagati. Esasperato per il comportamento dei suoi ex compari, ma anche stanco delle ingiunzioni e dei rimbrotti dei suoi committenti, agli inizi del 1518 Michelangelo decise di trasferirsi a Pietrasanta per occuparsi delle nuove cave che la Signoria di Firenze aveva assegnato all’Opera di Santa Maria del Fiore. Il 15 marzo di quello stesso anno Michelangelo stipulava, ai rogiti del notaio Giovanni Badessi, il primo di una serie di contratti per l’allogazione di tutti i marmi destinati alla fac-
Veduta della valle del torrente Serra con il monte Altissimo sullo sfondo (foto Carlo Delli) Il monte Altissimo visto dalle cave di bardiglio della Cappella (foto C. Paolicchi)
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ciata di San Lorenzo. Avendo come testimoni lo scultore Donato del fu Battista Benti, cittadino fiorentino domiciliato in Pietrasanta e Giovanni del fu Domenico Carducci, il Buonarroti affidava la fornitura di “… tutte ed ogni quantità di marmi che vanno nella facciata della (…) chiesa de Santo Lorenzo de Florentia” a un gruppo di “maestri cavatori di marmi”. Alcuni erano di Settignano, tra i quali Michele di Piero di Pippo che gli procurò in seguito molti grattacapi, e uno solo di Azzano (villa della Cappella): un certo maestro Bastiano di Angelo di Benedetto, detto Angelotto. Una lapide murata sulla facciata di una casa posta in via Stagio Stagi a Pietrasanta ricorda, seppure con l’imprecisione della data, che: IN QUESTA CASA/MICHELANGELO BUONARROTI/IL 10 MARZO 1518/ IN PRESENZA DI DONATO BENTI/ ARCHITETTO E SCULTORE FIORENTINO/STIPULAVA IL PRIMO CONTRATTO/PER LA FACCIATA DI SAN LORENZO A FIRENZE Nel contratto venivano precisate le caratteristiche e le misure dei marmi da fornire, comprese dodici colonne il cui fusto, senza la base e il capitello, doveva essere di undici braccia alla misura di Firenze (circa sei metri), grosso al piede un braccio e mezzo e
alla testa un braccio e un terzo. E nel contratto si indicava anche il luogo dove i marmi dovevano essere cavati: “…in loco decto Finochiaia sive Transvaserra (…); et dirimpetto et riscontro in loco detto alla Cappella, iurisdictione et vicinanza di Pietra Sancta”. Dunque i marmi per il San Lorenzo dovevano essere estratti dal monte di Trambiserra, dove fino a quel momento nessuno mai aveva lavorato, e dal monte della Cappella che si trovava “dirimpetto et riscontro” a Trambiserra, come effettivamente appare a chi oggi si rechi in visita alla pieve romanica di San Martino. Costruita interamente in conci di marmo locale, fu ampliata in quel periodo, dotata di un bellissimo portico – opera di Donato Benti – e di un rosone che popolarmente è chiamato “Occhio di Michelangelo”. Un secondo contratto venne stipulato dallo scultore il 14 aprile dello stesso anno in Pietrasanta, ai rogiti del notaio Giovanni Bertoni, con alcuni cavatori di Carrara e di Pietrasanta, per la fornitura di blocchi di marmo per figure, colonne, stipiti di porte, da cavare all’Altissimo “…luogo ditto a la Piastra di verso Strettoia sive Antogna”. Una precisazione che darà adito alcuni anni fa ad errate interpretazioni circa il luogo indicato, tant’è che alcuni studiosi hanno ipotizzato che si trovasse non già sull’Altissimo, come invece va correttamente inteso, ma addirittura sul monte Carchio. Dopo aver stipulato i contratti con gli scalpellini di Settignano e con i cavatori di Pietrasanta, Michelangelo
ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a controllare le attività estrattive sui monti di Seravezza e che provveda a far trasportare fino alla spiaggia di Avenza i marmi che ancora si trovano nelle cave di Carrara e a predisporre la loro spedizione via mare. Con atto del 17 aprile 1518, rogato dal notaio Lionardo Lombardelli di Carrara, nomina suo procuratore Donato Benti con l’incarico di occuparsi di tutte le operazioni di carico e di imbarco dei marmi. Con successivo atto del 27 aprile, ai rogiti del notaio Giovanni Badessi di Pietrasanta lo stesso Benti è nominato procuratore di Michelangelo per far cavare, sbozzare e condurre alla marina i marmi di Seravezza. Michelangelo segue con attenzione e con preoccupazione, pur trovandosi a Firenze, l’andamento dei lavori sulle cave. Le notizie che gli arrivano non sono confortanti: gli scalpellini di Settignano producono poco o niente e creano molti problemi, essendo in disaccordo tra di loro. Michelangelo dovrà faticare molto per dare il giusto avviamento alle cave di Seravezza, affrontare gravi pericoli e mettere a rischio addirittura la propria vita, come vedremo in seguito.
Pietrasanta, la Rocchetta alla fine del Settecento, litografia di E. Ciceri, Palazzo Comunale, Pietrasanta Vecchie cave di bardiglio alla Cappella. In alto, la pieve romanica di San Martino alla Cappella (foto C. Paolicchi) Le cave di Cappella (in primo piano) e di Trambiserra attivate da Michelangelo per conto dell’Opera di Santa Maria del Fiore e di papa Leone X
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ARTE
Antonio Puccinelli
da Castelfranco di Sotto ai musei
Roberto Mascagni
Il pittore Antonio Puccinelli (Castelfranco di Sotto 1822 Firenze 1897) Castelfranco di Sotto, Torre medievale
A
ntonio Puccinelli nasce a Castelfranco di Sotto (Pisa) il 19 marzo 1822, secondo di sei figli. Il padre Giuseppe, un modesto sarto, vuole avviare il figlio al suo mestiere, ma il giovane dimostra una precoce versatilità per il disegno e nessuna attitudine per il cucito. Così, per iniziativa di una “Società di benestanti” di Castelfranco, viene sussidiato per trasferirsi a Firenze e iscriversi all’Accademia di Belle Arti, dove, nel dicembre 1839, viene ammesso alle lezioni di Pietro Benvenuti e del suo assistente Giuseppe Bezzuoli.
Non ancora ventenne, dal 1841 al 1847 ottiene dal Governo Granducale un sussidio mensile a sostegno dei suoi rapidi progressi, ben presto distinguendosi fra i più promettenti allievi dell’Accademia. Tanto basta per dargli una meritata notorietà e procurargli le prime committenze. Comincia a frequentare il fiorentino Caffè Michelangelo, dove fermentano nuovi ideali politici e inaspettate correnti artistiche, ed è in questo luogo “alchemico” che il giovane pittore incontra gli artisti con i quali può condividere i suoi ideali polemici e contrari all’Accademismo. Il “Castelfranco”, così lo chiamano gli amici, fino al 1849 frequenta la Scuola di Pittura dell’Accademia fiorentina e nello stesso anno vince il Concorso per il Posto di Studio a Roma, dove si trasferisce, per il Pensionato, dal novembre 1849 all’agosto 1852. Durante questi tre anni esegue pitture d’invenzione: Gli ebrei portati in cattività in Babilonia (1851) e Un episodio della strage degli innocenti (1852). Sempre a Roma dipinge, con freschezza cromatica, la celebre Passeggiata al Muro Torto, con la quale conclude il suo periodo di perfezionamento. Trascorre tre mesi a Venezia che lascia nel 1853. Rientra a Firenze, dove frequenta un importante committente: l’inglese Francis Joseph Sloane, dal quale viene incaricato di dipingere una serie di pitture che hanno per soggetto personaggi e vicende di casa Medici, destinate a decorare la villa medìcea di Careggi, da lui comprata nel 1848. Nel contempo Puccinelli comincia a produrre quadri di minore formato e piccoli ritratti: fra questi, quello di Francesca Guasconi che sposerà a Bologna, nel 1862,
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dopo dieci anni di convivenza. Il primo importante quadro della “serie medìcea” dipinto per lo Sloane è l’Accademia Platonica di Careggi, cui segue il Leone X a Careggi. Queste opere gli danno quell’immediata notorietà che gli vale, nel 1855, la nomina ad Accademico Professore nella Classe delle Arti del Disegno dell’Accademia Fiorentina. Ancora per lo Sloane dipinge il Dino Compagni anima i fiorentini alla concordia. Risale a questo periodo dedicato a opere di soggetto storico, il Ritratto della nobildonna Morrocchi (Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti), probabilmente la sua opera più celebre. Nel 1860, grazie ai riconoscimenti conseguiti nel Concorso Ricasoli ottiene la nomina a insegnante nella Scuola di Pittura dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e nel settembre dell’anno successivo presenta alla Prima Esposizione Nazionale di Firenze l’Accademia Platonica, la Lucrezia Borgia, il Leone X a Careggi e due ritratti. Nel 1861 riceve dall’Accademia di Belle Arti di Bologna la nomina a Professore di Pittura, e in questa città, la Toscana e Firenze, Puccinelli trascorre il suo tempo, soprattutto a Pistoia, dove ha numerosi amici, prestigiosi committenti e firma diverse opere e affreschi. Già vedovo dal dicembre 1865, il 6 ottobre 1866 sposa la pistoiese Adelaide Badioli. (Nerina Badioli, sorella di Adelaide, ispira ad Antonio il ritratto della giovane cognata – 1866 circa – oggi conservato a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte contemporanea e moderna). Puccinelli continua a soddisfare le committenze dello Sloane, dipingendo opere ispirate ai personaggi
medìcei (Cosimo Pater Patriae riceve i letterati e gli artisti del suo tempo) e a episodi della storia di Firenze (il Niccolò Machiavelli che medita nel suo studio, datato 1873), che presenta a Napoli nel 1877 all’Esposizione Nazionale di Belle Arti, poi all’Esposizione di Vienna. Della diminuita attività del Puccinelli negli anni Ottanta ricordiamo
il bellissimo ritratto La Marchesa Albergati (Pinacoteca Nazionale di Bologna) e l’Architetto Pietro Tincolini (1891). Inoltre una partecipazione del pittore all’esposizione annuale della Società di Belle Arti di Firenze. Raggiunto il 1897 chiede il pensionamento dall’Accademia di Belle Arti di Bologna e si ritira a Firenze.
A. Puccinelli, La nobildonna Morrocchi. (Studio di testa per il ritratto grande. 1855-1860). Collezione privata A. Puccinelli, Un episodio della strage degli Innocenti (1852). (Bozzetto). Collezione privata A. Puccinelli, Passeggiata al Muro Torto (1852). Collezione privata
* Puccinelli muore a Firenze il 22 luglio 1897. Abitava in via Guelfa, allora al numero 108. «La Nazione» del 23 dà notizia della sua scomparsa ricordandolo «versatile nel disegno su tela, a fresco, nei suoi saggi di perizia architettonica, di cui adornò i quartieri della Meridiana» in Palazzo Pitti. «Nel Puccinelli - si legge nel giornale fiorentino -, si è spento un altro di quei vecchi, popolari artisti fiorentini, continuatori di belle tradizioni, benaccetti non si sa se per l’ingegno, la probità, la modestia, la bontà dell’animo». La vedova del pittore riceve dal sindaco di Castelfranco di Sotto questo telegramma: «Castelfranco di Sotto che dette i natali illustre comm. prof. Antonio Puccinelli, commosso irreparabile sua perdita esprime sentimenti vivissime condoglianze». Il corteo funebre raggiunge la vicina basilica di San Lorenzo seguìto dal sindaco di Castelfranco di Sotto, dalle Autorità, dai pittori Carlo Ademollo, Edoardo Gelli e Francesco Vinea. Il pittore è sepolto nel cimitero fiorentino di Trespiano.
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ARTE
copia bello bello copia
la del e il della Giosuè Fernando Cino
L
e false opere d’arte e le copie di quadri famosi coesistono da sempre con la produzione degli oggetti originali. Sono mondi interdipendenti, di cui spesso si possono riconoscere nettamente i confini, mentre altre volte questi confini appaiono molto labili se non addirittura inesistenti. Ma che differenza c’è quando si parla di copia o di falso? Il falso si distingue dalla copia non per le qualità intrinseche dell’opera, ma per l’intento di dolo. In passato le repliche di un capolavoro erano eseguite dallo stesso autore, si pensi alla Gioconda, di cui ne esistono tre copie e le copie realizzate da altri artisti erano commissionate pur sapendo della loro non-originalità. L’oggetto doveva essenzialmente essere aderente alle caratteristiche del modello, e veniva venduto e acquistato come copia, con un valore ben diverso dall’originale. L’inglese
Eric Hebborn celebre falsario distingueva tra «falso decorativo», cioè eseguito con diligenza ma con lo spirito di emulare soltanto un’opera antica, senza alcuna pretesa ulteriore, e «falso perfetto», quello che l’autore vuole sia confuso con un originale. I metodi per riconoscere i falsi si sono col tempo evoluti : si va da tecniche fotografiche particolari, analisi radiografiche, studio dei materiali dei supporti per datare l’opere d’arte. Queste tecniche pur nella loro validità non possono certo validare l’originalità di un’opera. La celebre beffa di Modigliani, consumatasi nell’estate del 1984 ne è una prova. Nel centenario della nascita di Modì, il Comune di Livorno inizia a dragare il Fosso Reale, dove durante uno dei suoi ultimi soggiorni in città un Amedeo Modigliani insoddisfatto avrebbe gettato nel canale alcune statue. Dopo alcuni
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giorni viene annunciato con squilli di tromba e rullo di tamburi il ritrovamento di tre pietre scolpite. Tutta la critica si mobilita accreditando la scoperta, di cui Vera Durbé, direttrice del museo progressivo di Arte Moderna di Livorno, si attribuisce il merito. La storia poi è nota. A settembre, appena stampata una nuova monografia di Modigliani che include le tre opere appena rinvenute, i falsari si autodenunciano. La maschera chiamata “Modì 2” è stata realizzata da tre studenti universitari che, nella pausa estiva dalle lezioni, hanno scolpito con il trapano una maschera grezza e rozza, secondo loro “in stile Modì”. Le altre due teste, chiamate “Modì 1” e “Modì 3”, sono invece opera di Angelo Froglia, un pittore e scultore apprezzato a livello locale, che per dar prova della sua autografia aveva girato anche un
videotape, volendo denunciare con questo gesto l’arroganza della critica, la società consumistica e i suoi falsi idoli. Quella di Livorno, quindi, è una doppia beffa, poiché in modo indipendente, gli universitari e Froglia, falsari improvvisati, decisero di compiere un’operazione che ha messo in luce tutte le falle del sistema dell’arte. L’arte contemporanea, spesso viene riconosciuta autentica dai critici solo ed esclusivamente in funzione di una ben calcolata mercificazione e speculazione in un mercato inflazionato da aste dove non importa il talento ed il virtuosismo, necessario a chi faceva copia delle opere del passato. Stilando una classifica dei falsi famosi i più richiesti oltre ai classici Leonardo, Michelangelo sono gli impressionisti e postimpressionisti, da Monet, a Degas, a Van Gogh, a
ressa fare un falso, ma una copia più vicina possibile all’originale. Come artista è per me importante il risultato finale, il godimento degli occhi, l’atmosfera ricreata, il particolare ben eseguito, la soddisfazione di stare di fronte ad una copia che è opera d’arte.
Renoir, a Gauguin e Cézanne, seguiti da Modigliani, da paesaggisti italiani, nature morte fiamminghe e spagnole «perfette per le case in campagna, per le sale da pranzo». Personalmente alterno “falsi decorativi” originali cercando atmosfere d’epoca o riconducibili ad alcuni maestri con “falsi perfetti” dove mi immergo nell’opera da riprodurre. Prima di prendere pennello e colori ed eseguire una copia studio l’originale, mi affascina conoscere l’artista e la storia dell’opera: il periodo in cui è stato realizzato il dipinto, il luogo che ha ispirato l’artista ed il perché ha voluto realizzare l’opera. Faccio sempre riproduzioni di grandezza eguale all’originale, perché per me non ha senso una Gioconda 30x40. Uso supporti per lo più lignei più congeniali alla mia pennellata, non preoccupandomi su che cosa è stato eseguito l’originale, ed uso colori da banco, senza ricercare colori di particolare pregio. Non mi inte-
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Amedeo Modigliani, Ritratto di Jeanne Modigliani Monet, Donna con il parasole girata verso sinistra Paul Gauguin, Due donne tahitiane Jan Vermeer, Ragazza con l’orecchino di perla Vincent van Gogh, Notte stellata Carel Fabritius, Il cardellino
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ARTE
Factum Arte
missione copia Caravaggio a Palermo: La Natività perduta Piergiorgio Pesci
Natività con i santi Francesco e Lorenzo, Caravaggio1600 – 1609?, olio su tela, 268×197 cm Caravaggio
S
icilia, 1969, nella notte tra il 17 e il 18 ottobre nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo viene rubato un capolavoro della storia dell’arte mondiale: La Natività di Caravaggio. Tra il 1967 e il 1972 sono stati rubati 4248 oggetti d’arte in Sicilia, ma quello della Natività è un oltraggio al quale è impossibile abituarsi perché Sono solo settanta le opere attribuite a Caravaggio. Per la storia dell’arte è una perdita enorme. Nato a Milano ma cittadino del mondo, Michelangelo Merisi detto Caravaggio attraversò l’Italia in lungo e in
largo. È uno degli artisti più noti della penisola non solo per la sua arte ma anche per le risse, l’alcool e le prostitute che usa come modelle per i suoi quadri e, infine, per l’alone di mistero che avvolge la sua vita professionale e privata. Durante la sua vita rompe molte regole, è un grande innovatore famoso per le sue luci ed ombre, tecnica che tutti conoscevano ma che nessuno aveva mai inteso nel suo senso profondo. A differenza di altre opere firmate da Caravaggio, la Natività destinata all’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo a Palermo non è legata ad alcun documento scritto che ne attesti la committenza e l’anno di esecuzione, trasformando in ipotesi qualunque teoria sulle sue origini. Una delle ipotesi più veritiere è che l’opera sia stata realizzata dopo l’arrivo di Caravaggio in Sicilia, nel 1608, in fuga dal carcere di Malta, dove era stato richiuso con l’accusa di omicidio colposo per la morte di Ranuccio Tomassoni, ucciso in una rissa a Roma due anni prima. Nonostante il soggetto dichiaratamente sacro, anche l’enigmatica Natività potrebbe racchiudere una serie di rimandi alla storia personale di Caravaggio, ma, ancora una volta, tutto resta in balia della mera supposizione. Il mistero di questo furto incredibile è ancora avvolto dall’ombra e dai dubbi degli inquirenti, l’opera non è mai stata ritrovata ed è ancora tra le più ricercate dall’FBI. È autunno, piove, e in uno scenario quasi hollywoodiano, la porta dell’Oratorio viene violentemente forzata e i ladri, senza nessun sistema di sicurezza, entrano indisturbati e rimuovono con un trincetto la tela del Maestro dalla pesante cornice e arrotolandola
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scappano su una moto ape per le strade buie di Palermo. Il destino dell’opera è forse in mani mafiose, ma quel che si dice al proposito è più intricato di un romanzo: scendiletto di Totò Riina, mangiata dai topi, bruciata, o addirittura seppellita sotto chili di eroina. Questo è quel poco che sappiamo sul furto e, nell’attesa che la tela perduta venga ritrovata, un team di esperti è riuscito, con un lavoro di oltre due anni, a riportare alla luce la bellezza della Natività caravaggesca. Si tratta di Factum Arte diretta da Adam Lowe, con sede a Madrid, un’organizzazione specializzata in riproduzioni dettagliate di opere celebri. I facsimili che Factum Arte crea sono prevalentemente a scopo conservativo. Possiede tre atelier, il principale a Madrid, due a Londra e San Francisco. Per molti anni questa organizzazione ha promosso progetti su larga scala sviluppando applicazioni hardware e software specifici per la riproduzione e la documentazione del patrimonio artistico a rischio. Le informazioni digitali raccolte da Factum Arte vengono utilizzate per documentare, monitorare e produrre opere in facsimile che mantengano la complessità della superficie e le caratteristiche dell’originale. Lo scopo dello studio è quello di dimostrare l’importanza delle nuove tecnologie in ambito conservativo, infatti,
potrebbero cambiare l’atteggiamento generale nei confronti dell’uso di facsimili, virtuali o fisici, nella gestione e nella protezione del patrimonio culturale. La creazione di facsimili o la semplice digitalizzazione delle opere spazia dall’arte egiziana ed assira all’arte contemporanea ed è legata a numerose e differenti esigenze: la richiesta da parte di un museo o di un altro ente di una copia da inserire nella propria collezione, il bisogno di proteggere o sostituire un’opera in condizioni precarie, la raccolta di documentazione a scopo di studio o nell’ambito della pianificazione di un futuro restauro. Tra tutte le varianti, l’esigenza conservativa, come detto sopra, risulta essere la più valida ed interessante. Il nostro patrimonio artistico-culturale non è immortale e, prima o poi, tutte le opere subiranno dei cambiamenti irreparabili, nonostante i restauri e la pianificazione delle migliori condizioni conservative possibili. Contrariamente alle aspettative, la creazione di questi facsimili e la loro esposizione è stata accolta favorevolmente dal grande pubblico e dalla stampa, oltre a suscitare un ampio dibattito sulla concezione odierna di copia. “Riproduzione” è una parola molto originale, e ogni atto di ricreazione è frutto di una ricerca molto profonda. Factum Arte ha riprodotto La Natività senza l’originale, e in questi casi la vera sfida è stata ricostruire e ritrovare tutti i dettagli e i dati esi-
stenti, servendosi anche di fotografie fatte nel tempo alla tela. In assenza dell’opera il team di Adam Lowe ha cercato di riunire indizi e più particolari possibili sul tratto della pennellata e sulle sfumature del colore che sono state ricreate grazie anche alla documentazione molto dettagliata dell’ultimo restauro fatto alla Natività e dalla scansione di altre opere caravaggesche come il ciclo di San Matteo. Tutto questo lavoro è servito per avvicinarsi il più possibile all’idea di Caravaggio e alle emozioni che l’opera suscitava all’osservatore. Factum arte è nota per aver riprodotto molte opere celebri tra cui c’è anche L’ultima cena di Leonardo, Lo sposalizio della Vergine di Raffaello, la tomba di Tutankhamon e molti altri. Ma fino a che punto è giusto usare delle copie per proteggere gli originali ancora conservati o per riprodurre capolavori perduti? Il tema della riproduzione delle opere d’arte è molto discusso, anche se esiste da sempre. Nel corso dei secoli il concetto di copia ha subito molti cambiamenti, passando da avere una valenza positiva ad una, generalmente, negativa. Tuttora si tende a vedere nella copia un carattere falsificante, che limita il significato dell’opera, il potere espressivo e soprattutto l’autenticità dell’originale. Se pensiamo che è possibile ascoltare virtualmente e per sempre la musica si deve al fatto che la musica non esiste, è fatta da numeri che ognuno può riprodur-
re. Quando ascoltiamo una sinfonia di Beethoven nessuno crede di sentire una “falsa” sinfonia di Beethoven, ascoltiamo la musica scritta e pensata da Beethoven. Quindi ricreare opere d’arte non è sempre un male, ed è una consuetudine molto antica. Basti pensare alle grandiose statue classiche dell’antichità come IL Laocoonte, L’Apollo del Belvedere o La Venere dei Medici, sono tutte copie in marmo degli originali bronzi greci, non sono nemmeno dello stesso materiale. Factum Arte ha il merito di aver riempito il vuoto lasciato dal dipinto sparito, e di aver ridato vita all’Oratorio di San Lorenzo, con la presenza per l’occasione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un mistero, quello della Natività, che continuerà ad appassionare gli studiosi e il mondo per sempre.
Il direttore Adam Lowe di Factum Arte Oratorio di San Lorenzo a Palermo
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MOSTRA
“fece di scoltura di legname e colorì” scultura del Quattrocento in legno dipinto a Firenze Paolo Pianigiani
Don Romualdo da Candeli scultore e Neri di Bicci pittore: Maddalena. Dal Museo della Collegiata di Empoli Angeli porta candelabro, scuola di Antonio Rossellino. Dal Museo Bardini di Firenze
È
in corso agli Uffizi, la grande mostra sui legni dipinti, che si concluderà il 28 agosto prossimo. È a tema, ma attraversa tutto il Quattrocento fiorentino, con implicazioni storiche, architettoniche e, naturalmente, artistiche. È un evento curato da Alfredo Bellandi, preparato insieme ad Antonio Natali già alcuni mesi fa. Il percorso della mostra si snoda fra le sale e i corridoi dei nuovi Uffizi, nei locali dove una volta erano conservati i documenti dell’Archivio
di Stato e che finalmente han trovato l’utilizzo di spazi espositivi con il resto dell’edificio realizzato dal Vasari per l’amministrazione del Granducato di Toscana. Particolarmente curato l’allestimento, il merito è di Antonio Godoli, architetto specializzato in spazi espositivi, che richiama per ciascuna opera la collocazione ideale, immaginando la fonte di luce tipica delle chiese e degli spazi sacri. I grandi Crocifissi dei maestri fiorentini riacquistano lo spazio intorno, la meraviglia e l’attenzione delle folle e dei singoli fedeli. I nomi degli artisti, grandissimi, sono rimasti nella storia dell’arte. Donatello in primis, e par di sentirlo discutere ancora con l’amico Brunelleschi, a proposito di un crocifisso che aveva appena scolpito. Un contadino! gli disse ser Filippo. O fallo meglio te! E caddero le uova dal sacchetto di Donatello, buone per l frittata della sera, quando Brunelleschi mostrò al
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giovane scultore il suo Cristo in croce, quello che ora sta a Santa Maria Novella. È tratta dalla “Vita di Brunelleschi” scritta dall’umanista Antonio Manetti, la bella frase, in fiorentino antico, che dà il titolo alla mostra. “Fece di scoltura di legname e colorì”. Legno dipinto, insomma. E già da subito siamo introdotti in queste botteghe così tipiche di Firenze, dove strillavano i garzoni, i martelli picchiavano incessanti sugli scalpelli, i legni prendevano forma e i maestri contrattavano con i clienti. E scorrevano i fiorini a fiumi, la vera linfa vitale che da sempre fa smuovere il mondo. Ma a Firenze, allora, c’erano i migliori artisti dell’epoca, e l’oggetto delle contrattazioni era il bello, quando non il sublime. Legno dipinto, dicevo, in particolare tiglio, ma anche pioppo. Prima intagliato e poi finito a stucco per poterlo levigare e renderlo adatto al colore.
Come si tramandava nelle botteghe d’artigiano a Firenze. Quella dei Da Maiano, per esempio, o dei Del Tasso. E spesso il pittore che terminava il lavoro era abituato a dipingere sulle tavole, come un Neri di Bicci, ultimo capo bottega di famiglia, che collaborava, fra i tanti, anche con l’Abate di Candeli, frate Romualdo, formando una coppia formidabile a sfornare sculture sacre, vendute in tutto il contado. Il ‘500, mutati i tempi e i gusti, vedrà la scomparsa quasi totale delle sculture dipinte, con l’affermarsi del marmo statuario di Carrara e l’esplosione di Michelangelo; tutto raccontato nei dettagli e nelle biografie dal Vasari. Il catalogo della Giunti che accompagna l’evento è dedicato alla studiosa tedesca Margrit Lisner, scomparsa recentemente. Fu lei a scoprire in Santo Spirito il Crocifisso del giovane Michelangelo. Correva l’anno 1964, e da allora ne è scorsa d’acqua sotto il Ponte Vecchio. E, dopo tanti anni, a Firenze si riparla di scultura dipinta, con una mostra che vuol essere un punto fermo anche per gli studi di settore, dal quale ripartire per nuove scoperte. Servizio fotografico Alena Fialová
Una sala della mostra, con al centro il San Michele Arcangelo che sconfigge Satana, di Giovanni di Biasuccio da Fontavignone. Da Beffi (L’Aquila), chiesa di San Michele Arcangelo in Acciano Scultore tedesco prossimo a Giovanni Teutonico: Crocifisso. Dalla chiesa di San Jacopo Soprarno, Firenze Francesco da Sangallo: San Giovanni Battista. Dalla pieve di San Romolo a Bivigliano (Fi)
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VISIBILE pARLARE
Un ciuchino
vanitoso
Pietro Cheloni alle soglie del design Roberto Giovannelli
Roberto Giovannelli, 2016, Ciuchino vanitoso, autoritratto a matita nera su carta azzurrina, in Pietro Cheloni, s.d., “Specchiera ovale”, disegno a penna in china acquarellata, cm 53x37 Roberto Giovannelli, 2016, Disegno in sogno, autoritratto in grafite su carta giallina lumeggiata, in Pietro Cheloni, s.d., “Specchiera ovale”, disegno a penna in china acquarellata, cm 36x24
H
o sfilato dalla mia raccolta di grafica una cartella di studi del mobiliere ottocentesco operante a Firenze Pietro Cheloni (Pisa 1817 circa - Firenze 1867), con l’intenzione di metter mano a un divertissement compositivo che da tempo mi frulla per la testa. In un articolo de “La provincia di Pisa” del 16 novembre 1876 si legge che il Cheloni «fu salutato siccome uno dei più celebri scultori in legno dell’epoca nostra: lo ammirava Giovanni Dupré, lo ammirarono tutti quelli che visitarono l’esposizione italiana del 1861, lo ammirarono gli esteri che ricercarono avidamente l’opera sua». Lavorò per Anatolio Demidoff, per la corte borbonica a Napoli, fu noto a Torino, in Germania, Inghilterra ecc. Insegnò all’Istituto di Belle Arti di Firenze: fra i suoi allievi si contano Emilio Franceschi e Mariano Coppedé. Ebbe laboratorio in Piazza Santa Croce n. 7, come deduco da un timbro apposto sul retro di un disegno della ricordata cartella, scrigno di fogli da cui occhieggiano schizzi di mobili di ogni uso, piccolo campionario di una bottega artigiana, buttato giù da una mano veramente fluida e fantasiosa. La piccola collezione cheloniana costituisce nella mia esperienza operativa una fascinosa sponda all’usura e alla precarietà, rapidamente prodotta dalle mode e dal tempo, di certi prodotti di design
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contemporaneo, o meglio, dischiude le porte a una riflessione sulle radici del disegno e della progettazione di manufatti, nati più dal cuore degli ateliers e nelle botteghe degli intagliatori di figura e di ornato, che non dallo strettoio della cultura accademica. Una strada alla Morris, per intendersi, sulla quale, come ripercorrendo i lunghi tortuosi percorsi della rivoluzione industriale, mi piace tornare di tanto in tanto a riflettere. Alcuni fogli, assemblati su cartoni atlantici (forse per le expo, o quali esempi di campionario per clienti) suggeriscono uno spirito geometrico di tipo neoplastico che potrebbe far pensare a Mondrian o, rovesciando lo sguardo, a certi disegni disposti a scacchiera realizzati da Felice Giani, o alle composizioni di lapidari o di frammenti di classiche figure, incastonati nelle pareti di antichi palazzi, come nell’atrio di Palazzo Medici Riccardi a Firenze o nelle facciate dello studio di Canova in Campo Marzio a Roma. Fra i vari disegni, talvolta realizzati su fogli recanti la filigrana della nota cartiera inglese Whatman Turkya Mill, ho posto particolare attenzione ad alcuni progetti di cornici figurate e di specchiere. Scelgo fra questi, per dare inizio all’impresa, uno studio di cornice con specchio ovale, decorata in modo emblematico, in guisa di allegorico bestiario della replicanza resa
nelle sue più diffuse metafore letterarie: fenici, pappagalli e scimmie, alle quali si aggiunge, nel cartiglio alla base, la testa di un asino che si rispecchia in una catinella d’acqua. In tale cornice fingo di ritrovarmi inserendo nel muto ovale il disegno di un mio autoritratto, avviando così un metaforico dialogo fra l’immagine virtuale e i singolari ospiti che la contornano. Oltre a questo “capriccio”, e al prodotto di altre ludiche contaminazioni messe in atto, il campionario del maestro intagliatore è venuto nel tempo a costituire, come dicevo, uno speciale repertorio ideativo nella mia officina pittorica. Vi è lievitato per tenui, successive trasposizioni, generando piuttosto sottrazioni e sconnessioni che non armoniche relazioni stilistiche con i modelli originari. Sui fogli dell’immaginazione hanno preso man mano corpo lavori generati come da una sorta di “AntiDesign”, prodotti dall’incontro fortuito con pezzi e ritagli di legno recupe-
Alle suggestioni prodotte dal nucleo di disegni cui ho accennato, si aggiunge l’attrazione affettuosa per un aspetto del carattere del Cheloni, quale si trova brevemente tratteggiato nel necrologio apparso nel primo numero del “Gazzettino delle Arti del Disegno” di Firenze, il 26 gennaio 1867: «Egli era una delle poche notabilità in arte non divenuta celebre per l’intrigo, perché era semplice e buono e fu vittima dell’invidia altrui». Terribile mistero della vita umana che aveva fatto notare all’estensore del necrologio (parrebbe trattarsi di Diego Martelli): «Cambiati i tempi, si cambiarono gli uomini; e Pietro Cheloni non ebbe più lavoro. Doventò tristo, e mi rammento che mi disse un giorno queste parole: Mi sento finito, non posso far più nulla!». Ancora di quel fugace ricordo m’incuriosì la notizia di certi suoi studi di paesaggio «improntati di malinconica simpatia», forse distanti dalle ricerche coltivate in quegli anni dagli amici del Caffé
rati nei cesti di scarto della bottega di qualche falegname (come quella ormai scomparsa assieme al suo bizzarrissimo artefice Faustino Morandi in via Santa Reparata a Firenze), o dal recupero imprevedibile di legni e materiali di più raffinata pezzatura e conformazione, racimolati tra gli avanzi di qualche manifattore di modelli di legno. Frammenti con i quali ho composto, come seguìto dall’occhio incredulo del vecchio maestro, architettoniche cornici, plastici perimetri e chiaroscurali circoscrizioni alla tela dipinta, con l’inserimento di figure ed elementi tridimensionali in gesso misturato, ripresi sovente in colori o in foglia d’oro.
Michelangelo, tra i quali quell’Augusto Betti, che ce ne ha lasciata la caricatura al tempo in cui il nostro intagliatore era inquadrato nella schiera dei «soldati cittadini». Rammento poi Angiolo Tricca che lo raffigurò in divisa di Guardia Accademica (1848); ma soprattutto Beppe Moricci, del quale il libraio Siro Conforti mi disse di aver visto, tra i tanti fogli che gli erano passati sotto mano, un bel disegno a penna acquarellato, rappresentante un botteghino del Lotto (quasi simbolica allusione all’ingannevole Dea bendata), dedicato «all’amico Cheloni», del quale aveva dipinto anche il ritratto, oggi nelle pubbliche Collezioni pisane.
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Roberto Giovannelli, 2016, Pensieri al vento, spolvero, acquarello e carte colorate con frammento cheloniano, studio per papier collé, cm 47x47 Roberto Giovannelli, 2016, Profilo femminile, grafite e inchiostro su carta giallina, in Pietro Cheloni, s.d., “Specchiera ovale”, disegno a penna in china acquarellata, cm 36x24 Roberto Giovannelli, 2016, Discesa dal cielo, acquarello su carta avorio, in Pietro Cheloni, s.d., “Specchiera”, disegno in penna e inchiostro bruno acquarellato, cm 50x32
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MOSTRA
Premio Viareggio uno stretto legame tra letteratura e arte figurativa Alessandra Belluomini Pucci
La Collezione del Premio Viareggio 23 luglio 2016 / 8 gennaio 2017 Inaugurazione sabato 23 luglio 2016 ore 18.30 Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani Piazza Mazzini, Viareggio (LU) Orario: luglio – agosto: dal martedì alla domenica dalle 18.00 alle 23.00 settembre – giugno: dal martedì alla domenica dalle 15.30 alle 19.30 lunedì chiuso biglietto 8 € ridotto 4 € Informazioni: e-mail: gamc@ comune.viareggio.lu.it Tel.0584 581118 sito web: www.gamc.it
Alberto Sughi, Senza titolo, tempera su carta Ugo Attardi, Senza titolo, 1970, olio su tela Enrico Baj, Senza titolo, 1981, prodedimento misto a colori
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ella storia della cultura e del costume dell’Italia moderna, Viareggio occupa un ruolo di primaria importanza grazie al mito della “Perla del Tirreno”, con lo splendido proliferare di vicende artistiche, letterarie, teatrali che lo contrassegnarono. Nel suo periodo d’oro che va dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale, in virtù delle sue risorse ambientali e della capacità imprenditoriale di un’agguerrita generazione di operatori economici, Viareggio si affermò infatti come una delle grandi capitali europee del turismo balneare, in una dimensione raffinata e cosmopolita. In quegli anni a Viareggio hanno lungamente soggiornato e operato moltissimi dei più grandi esponenti del mondo dello spettacolo, della letteratura, dell’arte, della scienza – da Giacomo Puccini a Eleonora Duse, a Francesca Bertini, a Leopoldo Fregoli, a Rainer Maria Rilke, a Guglielmo Marconi, a Thomas Mann, a Paul Klee – elevandola al rango di città culturale
di respiro internazionale, sempre all’avanguardia nella proposizione di moderne forme di vita e di espressione. In questa fervida atmosfera insieme intellettuale e mondana sorse nel 1929 il Premio Letterario Viareggio. Arte e letteratura costituiscono un binomio imprescindibile che caratterizza la storia del Premio Viareggio; le opere d’arte hanno infatti rappresentato una delle fonti principali di finanziamento della manifestazione. Già nel 1932 un articolo pubblicato sul quotidiano “La Nazione” descrive la disponibilità di grandi artisti dell’epoca a donare le loro opere, che venivano successivamente consegnate come premi ai vincitori. Il collegamento con le arti figurative è il cardine fondamentale del Premio Viareggio; Leonida Rèpaci nel 1972 scriveva, a tal proposito: “… Questo fraterno aiuto di pittori e scultori, tra i più famosi del nostro paese, conferma che l’azione svolta in quarantatre anni dal Viareggio è penetrata nel vivo della cultura nazionale e internazionale…”. Dal 1971 la collaborazione fra Premio Viareggio e il C.I.D.A.C. (Centro italiano di Arte Contemporanea) ha permesso, oltre alla sopravvivenza del Premio attraverso l’assegnazione di opere d’arte ai vincitori della manifestazione, l’avvio di una serie di iniziative espositive che porteranno poi alla formazione della collezione comunale di opere d’arte del Premio Viareggio; si tratta di circa duecento opere tra grafiche, dipinti, sculture donate dagli artisti del C.I.D.A.C. nel corso di circa vent’anni (dai primi anni Settanta fino ai primi anni Novanta), da quando il Premio viene trasferito alla città dal suo fondatore, Leonida Rèpaci. Dal 1974 fino al 1993, ogni anno, du-
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rante le edizioni del Premio Viareggio, viene organizzata, nell’ambito della manifestazione, una mostra personale intitolata “Omaggio al Maestro”, dedicata alla esposizione di opere di un grande artista italiano. In vent’anni gran parte dei pittori e scultori partecipanti alle mostre annuali hanno donato al Premio opere singole e, in alcuni casi, una serie completa di opere. Il nuovo progetto espositivo della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Lorenzo Viani presenta un’accurata selezione di opere (circa ottanta) della collezione Premio Viareggio, realizzate dagli autori più significativi del Novecento: Primo Conti, Enrico Baj, Renato Guttuso, Ugo Attardi, Corrado Cagli, Robert Carrol, Sandro Cherchi, Emilio Greco, Alberto Sughi, Renzo Vespignani, Venturino Venturi, Alberto Ziveri, Augusto Murer. La mostra è curata da Alessandra Belluomini Pucci, in collaborazione con Sharon Albanese, Claudia Fulgheri, Lucrezia Leonardo, Sara Manfredi, Gaia Querci, Veronica Rinieri, Maria Teresa Ronconi.
MOSTRA
Marilyn Monroe
Torino celebra il mito di una bellezza senza rivali
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arilyn Monroe avrebbe compiuto 90 anni il primo giugno di questo anno. Nata a Los Angeles con il nome di Norma Jeane Mortenson, la futura diva conobbe un’infanzia triste e tormentata, senza il padre e fortemente condizionata dalla malattia mentale della madre. Per questo la piccola Norma Jeane trascorse molti anni tra orfanotrofi e case-famiglia. La fine della seconda guerra mondiale e il divorzio dal primo marito coincisero con l’inizio della sua folgorante carriera di modella, posando per alcuni servizi fotografici prima di firmare il suo primo contratto cinematografico all’età di venti anni. La sua carriera cinematografica la vede iniziare con parti minori in film di successo come Giungla d’asfaltodi John Huston e Eva contro Eva di Joseph L. Mankiewicz. Dopo seguiranno nel 1953 i film che renderanno eterno il suo mito: Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, Niagara di Henry Hathaway e Come sposare un milionario di Jean Negulesco. Marilyn ottenne i ruoli più intensi con Billy Wilder, regista che la scelse per Quando la moglie è in vacanza e per A qualcuno piace caldo, film cult con cui vinse un Golden Globe passato alla storia. In questa pellicola, inoltre, intona la ormai celebre I wanna be loved By You, che le apre la porta del successo anche come cantante. Chi non ricorda la voce languida di Marilyn che intona Happy birthday mr. president Correva l’anno 1962 e John Kennedy era il presidente nonché il suo ultimo e segretissimo amore. E di storie d’amore Marilyn ne aveva avute molte: da Yves Montand a Marlon Brando, da Joe di Maggio
ad Arthur Miller. Il mito di Marilyn è un mosaico che si compone di tanti fattori: la bellezza, la fragilità di una donna con un’anima tormentata e complessa, i lussi da diva fino alla morte misteriosa avvenuta il 5 agosto del 1962. Le circostanze della sua prematura scomparsa, dovuta apparentemente ad un’overdose di barbiturici, sono ancora oggi oggetto di ipotesi e congetture. L’unica certezza è che da quel momento il suo volto è entrato a far parte dell’immaginario collettivo mondiale, diventando un’icona pop del ventesimo secolo. I capelli biondo platino, il neo sulla guancia e le labbra rosse e carnose si ritroveranno anche nelle opere di Andy Warhol che ritraggono la diva americana. Per celebrare i novanta anni dalla nascita, Torino dedica alla grande attrice la mostra Marilyn Monroe, la donna oltre il mito, che si terrà a Palazzo Madama dal 1° giugno al 19 settembre 2016.
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Saranno esposti 150 oggetti personali appartenuti a Marilyn. Non solo abiti, come quello bianco che ricordiamo svolazzare al vento della metropolitana di New York nel film Quando la moglie è in vacanza, ma anche bigodini, lettere, oggetti di scena e il testamento redatto esattamente un anno prima della morte. Un vero e proprio percorso per fan di ogni età e per appassionati cinefili. Il curatore è il tedesco Ted Stampfer, il maggiore collezionista di cimeli appartenuti all’attrice. Saranno visibili, inoltre, immagini inedite accanto a scatti leggendari e sullo sfondo scorreranno frame dei film più famosi. Su tutto questo continua ad aleggiare lo sguardo malinconico e trasognato della più grande diva di tutti i tempi: Marilyn Monroe.
Giorgio Banchi
Andy Warhol
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ARTE
Carnaval érotique di Milhaud Nicola Micieli
Daniel Milhaud Il cazzo giocogliere, 1995 gesso e pittura acrilica cm 59x15x20 Senza titolo tecnica mista su carta cm 50x65 Senza titolo tecnica mista su carta cm 46x27
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na scarica di energia primordiale colpisce e attraversa, frantumandola, la scena animata sino al parossismo, che Daniel Milhaud ha immaginato quale ribalta di un suo inenarrabile Carnaval érotique ora pubblicato in volume, con testi di Bruno Corà e Yan Ciret, dalla Galleria Peccolo di Livorno, per la gioia di chi ama il genere del grottesco espressionista in Italia poco frequentato. La penna e le matite colorate di Milhaud agiscono come una ventata rapinosa d’uragano, che sfibra e sconquassa la tessitura grafica, scioglie dai vincoli della forma il segno e lo lascia libero di provocare, con le proprie scorrerie, le più ardite deformazioni e metamorfosi dei personaggi di questo teatro dell’iperbole erotica. Personaggi invasi e abitati da Dioniso e da Pan che li inebriano e li scatenano, morsi dalla tarantola che li elettrizza e li fa fremere, posseduti dal demone della trasgressione che rimuove ogni freno al rifluire infine dissociato delle più oscure pulsioni. Sono uomini e donne e animali, e scambievoli maschere e ruoli e surreali ibridazioni di uomini e donne e
animali presi in una sola danza sfrenata o ridda o baccanale o sabba stregonesco che li rende partecipi di un’unica, vitalissima e liberatoria circolazione di sensi nell’oscena, e acrobatica, sarabanda di corteggi scambi congiungimenti posizioni sberleffi cazzeggi e altre fantasiose applicazioni del lessico erotico disinibito cui il carnevale presta la maschera della licenza rituale. Milhaud aveva realizzato anche una piccola serie, godibilissima, di “quadri” in versione scultoria del suo carnevale erotico. Sono gessi accidentati e dipinti nella cui necessaria riduzione plastica, trovo che il divergente e dissociato racconto erotico/ onirico si concentri e si fissi in situazioni di “osceno-grafia” teatrale giocate sul filo di un’invenzione ironica capace di trasformare in ircocervi erotici i personaggi del dramma. Si intravede o si indovina un ricco retroterra di cultura visiva e letteraria soprattutto francese e nordica, tra le quinte e dietro la scena del carnevale erotico di Daniel Milhaud, l’artista che nato in Francia e con alle spalle una vita di lunghi soggiorni e relazioni internazionali, è mancato nella nostra Pietrasanta nel 2014. Si citano il Gargantua e Pantagruel di Rabelais e l’Ubu Re di Jarry, il Giardino delle Delizie di Bosch l’Ingresso di Cristo a Bruxelles il martedì grasso di Ensor, non mancano le consonanze anche italiane, patafisiche e satiriche nel teatro di Milhaud, da Enrico Baj a Mino Maccari, per dire che questa graffiante arte del riso osceno è il prodotto di un filone culturale di ampio respiro e lunga navigazione. Nel quale Milhaud si inserisce con una sua originale verve inventiva e una animazione vitalistica della scena che ha davvero pochi riscontri nelle esperienze di altri autori.
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L’ARTE IN ITALIA
BUFFONI VILLANI E GIOCATORI ALLA CORTE DEI MEDICI
LINO SELVATICO
SPLENDIDA MINIMA
9 MAGGIO 2016 4 SETTEMBRE 2016
14 MAGGIO 2016 31 LUGLIO 2016
21 GIUGNO 2016 2 NOVEMBRE 2016
FIRENZE
VENEZIA
FIRENZE
Galleria Palatina
Ca’ Pesaro
Museo degli Argenti
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a Galleria Palatina ospita una insolita mostra dedicata alla pittura estroversa, grazie a circa trenta opere provenienti dai depositi della augusta dimora, animata da giocatori, buffoni, villani, servitù alla corte della famiglia Medici. Ed è la bizzarria il filo conduttore animante opere divertenti ma di alto valore espressivo, accumulate nei secoli presso le collezioni granducali, che pertanto assurgono a strumento artistico attinto dalla realtà. Così la vita a Palazzo Pitti e quella sociale svelano sfumature dal carattere realistico, morale, didascalico, sfociante nel grottesco grazie alla presenza di nani e giocatori, spesso notoriamente bari. L’esposizione illustra egregiamente l’intento di riscattare artisticamente soggetti della cosiddetta pittura di genere, altrimenti destinati all’oblio perché appartenenti a tematiche basse e prive di decoro.
n selezionato gruppo di opere, tra le quali si annoverano alcuni inediti, ripercorrono la crescita artistica di un maestro legatissimo alla città lagunare, seguendone l’evoluzione in campo artistico - sociale. Forgiato sulla pittura veneziana di Giacomo Favetto ed Ettore Tito, di quest’ultimo ne interiorizza la tecnica ritrattistica legata ad ambienti mondani, eleganti, gaudenti, che gli permetteranno una lusinghiera nomea. Trenta tele raccontano un maestro da conoscere meglio attraverso tematiche ed interessi impressi nelle sue opere, che trovano spessore artistico nei ritratti femminili, fonte di evasione idealistica plasmata da vena romantica. In effetti le effigi di grande formato, commissionate dalle classi abbienti veneziane e milanesi, raccontano in toto una esteriorizzazione culturale della Belle Epoque, connotazione che plasma le stesse opere a tematica meno conosciuta del pittore.
a glittica, arte incisoria per eccellenza, coinvolge anche la mini scultura in pietra dura, che tanto successo riscuote presso il mondo ellenistico-romano. Ammiratissima in epoca rinascimentale, i Medici ne invogliano una nuova interpretazione presso le botteghe dei maestri locali, entusiasmati dai recenti rinvenimenti archeologici, ordinano importanti committenze, acquistano preziosi manufatti di epoca classica, esternano gradimento quando le auguste consorti portano in dote oggetti cotanto bramati. In effetti, gli Uffizi custodiscono una collezione straordinaria di piccole sculture ataviche, spesso ingentilite da aggiunte postume decisamente decorative. L’esposizione fiorentina sfoggia per l’appunto i “gioielli di famiglia”, affiancati da minuscole sculture in plastica ma ricoperte da metalli preziosi, al fine di permetterne raffronti stilistici e tecnici.
CHE IL VERO POSSA CONFUTARE IL FALSO 25 GIUGNO - 15 SETTEMBRE
SIENA
Santa Maria della Scala, Palazzo Pubblico e Accademia dei Fisiocratici
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iena apre al pubblico una bellissima mostra sulla collezione d’arte contemporanea appartenente ad AGIVERONA Collection di Giorgio e Anna Fasol. “Il dialogo fra presente e passato, linguaggi contemporanei, linguaggi artistici classici costituiscono il filo rosso che accompagna l’attività del Santa Maria della Scala per tutto il 2016” dichiara Daniele Pitteri, Direttore del complesso museale, e prosegue: “Questa mostra non rappresenta una semplice tappa di questo percorso, ma costituisce il primo mattone legato a una progettualità che sempre più dovrà servire a far convergere presso Siena esperienze di ampio respiro nazionale ed internazionale, capaci di dialogare in maniera dinamica ma anche aperte al futuro attraverso le energie artistiche e creative della città”.
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Carmelo De Luca
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EADWEARD MUYBRIDGE 19 MAGGIO 2016 31 LUGLIO 2016 MILANO Galleria Gruppo Credito Valtellinese
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maggio a Eadweard Muybridge (1830 – 1904), precursore della fotografia dedicata al movimento, la mostra milanese ne ripercorre un cammino professionale ragguardevole, che tanto influenzò molti maestri del tempo e lo stesso Degas. Dopo la riuscita documentazione
MULTIPLICATA 1 GIUGNO 30 SETTEMBRE LIVORNO Galleria Guastalla Silvia Pierini
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a Galleria Guastalla ha inaugurato una nuova mostra dal titolo MULTIPLICATA - multipli d’arte, opere grafiche originali, libri d’artista. Il multiplo e l’opera grafica consentono all’autore di cimentarsi in un’esperienza artistica completamente diversa, richiedente abilità professionale, maestria tecnica, estro, insomma una nuova musa trovante consenso tra molti artisti, che si confrontano con queste espressioni dando vita ad un linguaggio autonomo. In effetti, il desiderio di raggiungere un
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dedicata al Parco Nazionale di Yosemite, grazie all’obiettivo, l’artista sperimenta il movimento dei cavalli galoppanti attraverso 24 fotocamere collegate a fili disposti lungo il percorso, avendo così conferma del sollevamento corporale rispetto al suolo, proprio come nel dipinto di Gericault e relativa cerchia, ma evidenziandone la diversa estensione relativa alle zampe. Per migliorare la cattura fotografica del movimento progetta lo Zoopraxiscopio, che permette a più persone in contemporanea di visionare immagini proiettate. Una così arguta osservazione non rimane indifferente nel mondo pittorico contemporaneo, poiché imprime nelle tele moti invisibili all’occhio e permette l’ideazione pittorica sulla stessa fotografia. Eadweard continua a coltivare la sua arte sperimentale spostandosi sull’uomo, egregiamente immortalato nei celebri nudi dinamici. Oltre alla produzione storica, le sale custodiscono una ricostruzione del set adoperato per gli scatti in piano sequenziale. La mostra trova totale supporto nella Fondazione Gruppo Credito Valtellinese
sempre più vasto numero di sensibili intenditori ha spinto molti maestri a confrontarsi con la serialità concettuale, da ideare attraverso nuove tecnologie necessarie per la produzione dei multipli artistici. Il progetto espositivo ospitato nella Galleria Guastalla Centro Arte è incentrato sulla presentazione di circa 50 opere realizzate da artisti contemporanei conosciuti in ambito internazionale, che hanno sviluppato nel tempo la progettazione di siffatta creatività. Le opere esposte interessano un arco temporale che va dai primi anni ‘60 fino ai giorni nostri, periodo che ha visto una prolifica diffusione del multiplo d’autore, abbracciante vari movimenti e correnti artistiche, basti menzionare l’arte astratta oppure quella informale. Qualche nome? Accardi, Capogrossi, Dorazio, Scanavino, Jenkins, Tapies, l’arte programmata e cinetica, rappresentata da alcune serigrafie con effetti ottici di Biasi e Munari, lo spazialismo con una rara litografia di Lucio Fontana e due estroflessioni di Bonalumi, sperimentazioni dell’arte concettuale oppure povera, in mostra con rare opere di Gino De Dominicis, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, la Pop Art italiana con alcuni multipli polimaterici di Enrico Baj ne sono degnissima testimonianza.
DOPPIO RITRATTO: ANTONIO E XAVIER BUENO 21 MAGGIO 2016 25 SETTEMBRE 2016 FIRENZE Villa Bardini
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rovenienti da prestigiose istituzioni, 120 opere raccontano aspetti creativi ed umani nella crescita artistica dei due maestri spagnoli, che nel fermento culturale fiorentino degli anni Quaranta
MERAVIGLIE DELLO STATO DI CHU 13 MARZO 2016 25 SETTEMBRE 2016 VENEZIA Museo Nazionale Atestino di Este, Museo Archeologico Nazionale di Adria, Museo d’Arte Orientale di Venezia
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’antico Stato di Chu per la prima volta mette piede nel Vecchio Continente, più esattamente in terra veneta, che ripaga cotanto onore
trovano linfa vitale tra avanguardie post guerra e figurazioni. L’esposizione coglie aspetti esistenziali, influenze, condizionamenti dei fratelli, ma anche percorsi individuali responsabili dell’affermazione generata grazie ad uno stile personale forgiatosi in età matura. Arrivati a Firenze, nei difficili anni legati alla guerra, i fratelli Bueno si nutrono delle meraviglie rinascimentali plasmanti la città, al punto tale da prendere dimora per tutta la vita nella vicina Fiesole. Qui, forte di una propria indipendenza stilistica, Antonio recupera il pittoricismo spettacolare dell’opera, trasformando l’immagine in poesia ironica e dissacratoria grazie a creazioni plastico-formali. Anche Xavier annovera una sua musa, imprimendo alle sue tele immagini trasudanti sofferenza e malinconia, simbolo di una società contemporanea oppressa, particolarmente evidente nel ciclo pittorico dei “Bambini”. La mostra è corredata da un bellissimo catalogo, edito da Polistampa, con i contributi di Giorgio Bedoni, Susanna Ragionieri e prefazione del presidente onorario Philippe Daverio.
grazie a una mostra sulle popolazioni pre-veneziane presso il Museo Provinciale di Hubei. L’esposizione racconta una popolazione dinamica, prolifica, consciamente protesa nel divenire, il cui massimo splendore lo raggiunge a cavallo tra V e III secolo a.C. attraverso una produzione artistica dalla fattura sorprendente, testimone di una cultura emancipata nella sua rigida struttura prevalentemente militare, vanto terreno raggiunto in quelle lontane terre, propiziato da preziose offerte per il consenso divino. Così le sale espositive delle diverse location racchiudono nelle teche armi e giade, simboli per antonomasia del potere umano celeste, bronzi rituali ding e dui finemente cesellati per le classi nobiliari, eleganti lacche impresse su legno dai colori delicatissimi. La musica ricopre un ruolo fondamentale nella cultura Chu, la cui conoscenza approfondita è evidente nelle campane niuzhong e yongzhong, squisiti esempi di fattezza artistica, creatività, sperimentazione musicale. Corredi funerari ricchissimi, belli, elaborati completano l’arredo espositivo, che si avvale di supporti multimediali per il pubblico.
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STORIA
Neoclassicismo? una “lezione” in mirabile sintesi di Bellonzi Vania Di Stefano
Riccardo Tommasi Ferroni, Ritratto di Fortunato Bellonzi (1978 circa), acrilico su tela cm 100x70
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pesso in gioventù la vita è percepita come una prigionia. Accade così che lo smisurato desiderio di fuga dello spirito, costretto in un corpo misurabile, cerchi teatrali strumenti espressivi capaci di mettere in scena la mitologia dell’anima che si fa vela e ti trascina via. Suggestionato dalla lettura di Esiodo, ci provai nell’ottobre 1965, ventenne, scrivendo un atto unico: La nave di Perse. È la storia della partenza sopra una nave-amante
verso rotte sconfinate, dispensatrici di ricchezze accumulate in una stiva inviolata, dunque invidiate dal mondo per opera d’immaginazione. Le righe grondano neoclassicismi scolastici ed io sorrido, pensando alla smania che avevo d’imitare gli antichi (non per produrre falsi, ma per lasciarmi possedere dal loro genio creatore). Nel marzo 1966 lo mandai a Fortunato Bellonzi; rispose con una lettera che rivela l’eccezionale misura culturale e umana del grande pisano. «Caro Ivan, non ti nascondo (appunto perché ho molta stima di te) che è una strada pericolosa quella da te intrapresa: perché ogni neoclassicismo porta questo peccato d’origine, di non essere il classicismo e di restare qualcosa di irresoluto tra la rievocazione di gusto archeologico e il “falso” antiquario. C’è caduto, non di rado, lo stesso Canova, per tacere del Mengs o dell’Appiani e c’è caduto il Monti e ha rischiato di inciamparci il Parini (e il Foscolo delle “Grazie”) e chi più di tutti si è compromesso è stato il D’Annunzio, che nondimeno resta un grande poeta. Il loro “salvataggio” si deve ai seguenti motivi: Canova, nonostante il canone winkelmanniano della bellezza greca (o piuttosto della bellezza romano-ellenistica, ahimè allisciata dai restauri che erano allora di gusto), s’è ricordato in tempo di certe preziosità e languidezze del Settecento (la sua stupenda “Paolina” è un ritratto vivo del tempo, malgrado l’agrippina e la vaga aura di Venus Victrix), non è naufragato (o quasi) nell’Ercole e Lica, di cui il Brandi parla – non a torto – come di un mammouth pietrificato,
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congelato; il Parini ha avuto dalla sua parte un sentimento agreste di grande sincerità e sotto le mentite spoglie delle Fillidi sentiva “i baldanzosi fianchi delle ardite villane” (verso stupendo!) e condiva di grazia e di brio il corteo, un po’ bolso, delle divinità olimpiche (il Porta scrisse un bellissimo sonetto sul “Testamento d’Apollo”, che finisce in un fragorosissimo peto, appunto il testamento di quel dio). E Foscolo ha rimescolato il patrimonio iconografico e mitografico nel suo smisurato furore romantico (ricordi il sonetto Alla Sera, e quell’altro al fratello morto, e la pagina meravigliosa, per tinte funeree, seicentesche, sulla battaglia nei Sepolcri?). Quanto al D’Annunzio, eleganza e gusto Liberty trasfigurano e rendono vive le poesie, difficili, del Cervo e di Undulna. Nondimeno si finisce sempre col rimpiangere la bella vena della Sera fiesolana. Eppure tu hai, nel tuo scritto, tanti momenti felici, e molte belle immagini (accanto ad altre più consuete e scolastiche) epperò credo che faresti bene a respingere le tentazioni della Grecia e a calare tutto quel che vuoi dire (e che negl’anni giovani è grande e tremendo) nel tempo nostro, in quest’oggi apparentemente ingrato molte volte, ma che infine è la stagione di noi tutti, la quale ci tocca in sorte di vivere e anche di trasfigurare in poesia. Tu già capisci, da questo letterone disordinatissimo, che non perderei il tempo (quantunque esso poco valga in assoluto) a parlar con te di queste cose, se non avessi la sensazione precisa che puoi fare, molto e bene. Con affetto tuo Fortunato.»
forse ma con cautela
... non ti nascondo ... che è una strada pericolosa quella
Grazie Fortunato, colto, paziente, generoso: sapevi tutto perché, oltre a una vasta memoria, possedevi il metodo, cioè la via del ragionamento più breve, capace di condurre ogni ricerca verso la migliore soluzione possibile.
da te intrapresa: perché ogni neoclassicismo porta questo peccato d’origine, di non essere il classicismo e di restare qualcosa di irresoluto tra la rievocazione di gusto archeologico e il “falso” antiquario. 41
La prima pagina dattiloscritta de La nave di Perse di Vania Ivan Di Stefano, 1965 La prima pagina della lettera di Fortunato Bellonzi a Ivan, su carta intestata della Quadriennale di Roma, della quale era segretario, 1966
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STORIA
Pirati nel Tirreno Pisa e l’argento di Corsica e Sardegna nel XIV secolo Paola Ircani Menichini
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n una famiglia del Medioevo era usanza frequente che gli uomini di casa prendessero su di sé il peso del mantenimento dei congiunti e, accertata la (poca) consistenza del patrimonio, decidessero di lasciare la patria per spingersi oltremare a fare affari. Con il commercio marittimo, non esente da rischi, coglievano infatti una buona opportunità di fare fortuna. Quindi, coraggiosi e determinati arrivavano preparati nelle città rivierasche di imbarco, dalle quali sarebbero partiti speranzosi verso la meta prestabilita. E a quel porto sarebbero ritornati, dopo aver ultimato gli affari, con tanta di quella ricchezza da essere sufficiente per più generazioni della famiglia. Chi invece non ritornava non avrebbe avuto più alcun problema. Nulla da perdere, dunque, nel salpare le ancore verso le terre ignote e pericolose. Nel viaggio, uno dei rischi che i mercanti dovevano affrontare erano i
pirati, operanti nel Mediterraneo fin dall’Antichità. Omero ricordò i Tirreni e il loro “cattivo destino”, Pompeo li combatté nelle acque d’Oriente; gli arabi martoriarono le coste cristiane del settentrione razziando gli schiavi per i loro califfati, e i cittadini delle repubbliche marinare, nei tempi gloriosi, non si tirarono indietro nel vendicarsi con le scorrerie nel Nord Africa. Fu in questi fiorenti luoghi musulmani e in Spagna, nelle circostanze della pirateria, che Pisa conseguì gli importanti successi per cui è ricordata. Ma la favorì ulteriormente la vicinanza e il facile accesso ai porti della costa delle isole di Corsica e di Sardegna. Qui, esercitando una notevole influenza, fondò delle colonie, fece ampliare villaggi e cittadine, eresse fortezze di difesa, coinvolgendo una popolazione forte e perseverante. Promosse anche lo sfruttamento delle risorse come la pesca, l’allevamento e le miniere d’argento, metallo ricercato
Due navi a vela quadra e la torre di Porto Pisano, Pisa, esterno della Cattedrale Il portolano detto Carta pisana, circa 1258-1291, Parigi, Biblioteca Nazionale
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e prezioso perché usato nella monetazione e nell’oggettistica di valore. Riuscì infine, nel punto più alto della sua ascesa, ad annettere una parte di quei territori che nell’isola si chiamarono regni-giudicati. Per contro, nel periodo della sua lenta decadenza, che comunemente è considerato quello successivo alla sconfitta della Meloria (1284), sostenne il peso del ridimensionamento del commercio e dell’indebolirsi dell’influenza nelle zone controllate. Non stupisce quindi, come nel 1318, in Corsica non riuscisse a impedire l’”appropriazione” altrui di una grande quantità di argento dei suoi cittadini. Se ne erano impossessati i nobili della famiglia da Bagnaria grazie al naufragio della nave che la trasportava. L’imbarcazione, una “trita de banda” da carico, apparteneva a un livornese, chiamato Cinetto, campanaio di mestiere. Il fatto era avvenuto dalle parti del forte di Cerlino nel territorio dell’antica
diocesi di Mariana, a nord dell’isola, oggi Haute-Corse. I da Bagnaria ne erano diventati signori e amministratori dal 1130. La famiglia al tempo del naufragio era rappresentata da Raineri, Alberto, Leoniccio, che era sacerdote pievano di Orto, Ildibranduccio di Bagnalingo, cavaliere, e da un certo Vincenzo. Per riprendersi l’argento, i proprietari si rivolsero al podestà del Comune di Pisa che inviò in Corsica un ambasciatore, Saragone di Bondimandi da Piombino, senza successo. Da qui una sentenza di condanna, grazie alla quale i pisani potevano rifarsi sui beni dei nobili. Era inoltre proibito ai cittadini di andare, stare, mercanteggiare o pescare nelle terre, nei forti e nel distretto dei da Bagnaria, e vietato a questi ultimi di fare lo stesso in Pisa e nel suo contado. I pisani proprietari si chiamavano Vanni di Bonconte, Cello di Agnello, Bene di Bindaccio, Betto della Seta, Guido Martelli e Guido di ser Iacopo da Fauglia. Non è il noto il seguito della vicenda, ma dubitiamo fortemente che l’argento sia stato restituito.
Passano pochi anni, e nel settembre 1321 una nave pisana subisce l’attacco di alcuni pirati spagnoli. Nel mare tra il monte Circeo e Ponza, un gruppo di catalani di Valenza, armatori di una nave di 44 remi, assaltano il “legno di banda” Sant’Antonio di cui era responsabile il pisano Vanni di Bocca della parrocchia di San Pietro a Ischia (oggi Sant’Apollonia). Quindi, saliti a bordo, con la forza e le minacce, prendono 137 fiorini e ducati d’oro, altro denaro, dei gioielli, una balestra e vari corredi navali. Per ottenere giustizia, Vanni si rivolge alla corte competente, quella di Castel di Castro, la roccaforte fondata dalla repubblica nel secolo XIII a Cagliari. Sono chiamati poi a deporre per la conferma alcuni testimoni oculari che davanti alla corte ricordano i fatti senza contraddirsi. I pirati erano noti e si chiamavano Guglielmo Righieria di Culghera (Cullera), Pietro Ulivieri Ferrado di Lucciaria, Pelliccione Tagliaroveri nipote di Tagliaroveri Nugheria di Valenza. I castellani signori di Castel di Castro avevano il nome di Bona-
giunta da Vicopisano e Bonaiuto da Chianni medico. Non erano sardi, ma pisani; giudice della causa e assessore era Matteo Tempanello. I testimoni davanti alla corte furono Finuccio di Cola, patrono della nave, e gli altri imbarcati: Luparello di Bencivenni, Piero di Coscio di Caprona ed Enrico abate di Ischia, forse di un monastero dell’isola omonima presso Napoli1. Anche in questo caso, la legge pisana non poté fare nulla, oltre alla sentenza di condanna. Ciò che fu rubato non venne restituito e i pirati non subirono alcuna pena per le loro azioni. La repubblica di Pisa, come dicevamo, non incuteva più il timore di un tempo e inoltre la Sardegna era entrata nelle mire del re di Aragona che voleva il controllo delle miniere d’argento. La fine quindi era vicina. Di lì a poco, nel febbraio 1324, gli spagnoli avrebbero assediato Castel di Castro e conseguito un’importante vittoria a Lucocisterna, costringendo i pisani alla resa (19 giugno) e alla cessione del regno pochi anni dopo. Sotto il dominio della Corona d’Aragona però l’attività estrattiva dell’argento entrò in decadenza e la disoccupazione delle maestranze provocò una forte contrazione dell’economia dell’isola. Note 1 Archivio Agostini Venerosi Della Seta, Pisa, Diplomatico, 39a, 1318, maggio 31, Pisa; 39b, 1318, agosto 21, Pisa; 46, 1321, settembre 28, Castel di Castro; autorizzazione della Soprintendenza Archivistica della Toscana n. 3632 del 5 agosto 2015. Si ringrazia la famiglia Agostini Venerosi della Seta per avere consentito la consultazione dell’archivio privato familiare.
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Bacino ceramico con nave, 1175-1225 ca, Pisa, museo di San Matteo, già in San Michele degli Scalzi, da commons.wikimedia.org La cattedrale di Santa Maria Assunta a La Canonica di Mariana di Corsica consacrata nel 1119 dall’arcivescovo di Pisa, da: mapio.net/o/3112587/ Pianta di Castel di Castro, al tempo della dominazione pisana, da: https://it.wikipedia.org/ wiki/Castello_(quartiere_ di_Cagliari)#/media/ File:Pianta_Castel_di_ Castro.JPG
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STORIA
americani
in
To s c a n a
scrittori poeti scultori pittori e una “certa” idea di Firenze Massimo De Francesco
James Russell Lowell Ritratto di S.W. Rowse matita, 1855 Sul lato destro del palazzo Bartolini Salimbeni un’epigrafe ricorda il soggiorno di J. R. Lowell: «Qui nell’antico Hôtel du Nord / James Russell Lowell / poeta e critico americano / studioso di Dante / soggiornò nell’inverno del 1874 / traendo ispirazione dalla bellezza / della città di Firenze» Il palazzo Bartolini Salimbeni (1520-1523) è uno dei più importanti palazzi tardorinascimentali di Firenze. Edificato da Baccio d’Agnolo, sòrge antistante alla piazza Santa Trinita e via Tornabuoni Fotografie di Moreno Vassallo
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ircondati da Americani durante l’intero anno, ci scordiamo alle volte del ruolo che giocano nella nostra quotidianità, dando per scontata la loro presenza ma, soprattutto, quanto tempo prima del nostro secolo abbiano visitato Firenze o la Toscana e qui abitato. Il loro interesse verso la nostra regione, l’ispirazione che traggono da essa sono le stesse motivazioni che portarono i loro connazionali ad attraversare l’Atlantico (con molte più tribolazioni) sin dal Settecento per scoprire dove e come la cultura occidentale ebbe origine. Adorano Firenze, la sentono propria con un afflato inequivocabilmente atavico, tramandato da coloro che li hanno preceduti. Ai nostri giorni sono numerose le sedi estere delle università americane presenti a Firenze, presso le quali si sono formati i più autorevoli storici del Rinascimento. Essi hanno contribuito e contribuiscono al mantenimento in vita di ricchezze culturali uniche, inso-
stituibili, rendendo possibile la loro diffusione nel mondo come fecero i loro predecessori. Sono nomi immortali quelli di Henry Wadsworth Longfellow, James Russell Lowell, Herman Melville, Henry James, James Fenimore Cooper, Edith Wharton, Ralph Waldo Emerson, Constance Fenimore Woolson (nipote di Fenimore Cooper), Nathaniel Hawthorne, Mark Twain, Hiram Powers e altri. I nomi di questi letterati, dei poeti o degli artisti americani li vediamo scolpiti sulle facciate degli edifici in cui abitarono. Uno di questi è il Palazzo Bartolini-Salimbeni in piazza Santa Trinita, sede dell’Hotel du Nord, inaugurato nel 1839, dove abitò il poeta bostoniano Ralph Waldo Emerson nel 1873, padre dell’indipendenza letteraria degli Stati Uniti. La dichiarò nel suo The American Scholar, un discorso da lui pronunciato alla Harvard University per invitare i poeti americani a creare una corrente indipendente dalle influenze europee, suggerendo così la nascita del movimento dei “Fireside Poets” (I Poeti del Caminetto), fondato da Henry Wadsworth Longfellow, William Cullen Bryant, John Greenleaf Whittier, Oliver Wendell Holmes senior, e James Russell Lowell, anche quest’ultimo inquilino dell’Hotel du Nord nell’inverno del 1874, durante il quale compose Masaccio – In The Brancacci Chapel. Sua la poesia scritta per celebrare la scoperta di un ritratto di Dante attribuito a Giotto (On a Portrait of Dante by Giotto, 1847) nella Cappella dedicata a Maria Maddalena all’interno del Museo del Bargello, dove in un affresco è rappresentato il poeta. È il ritratto più antico e probabilmente più vicino alla sua epoca. Perfino Herman Melville, autore del celebre romanzo
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Moby-Dick (nel quale cita il Perseo di Benvenuto Cellini: « … La sua intera, ampia sagoma, sembrava fatta di bronzo massiccio di forma inalterabile, come il Perseo del Cellini») soggiornò al Du Nord nel 1857 e fu assiduo frequentatore del Caffè Doney in Via Tornabuoni. Ancora oggi molti di noi considerano gli Americani una costante di rigore nel nostro capoluogo, senza considerare che la loro dimora in pianta stabile a Firenze rappresenta una comunità di migliaia di persone che hanno scelto la Toscana per condurre una vita diversa da quella della blasonata Upper East Side di New York o la studiosissima Boston, rinunciando sicuramente ai molti agi che questi luoghi offrono, ma che non possono contenere l’irrefrenabile desiderio di continuare il “viaggio intellettuale” intrapreso pionieristicamente dai loro connazionali.
STORIA
simboli della
Francigena a San Miniato
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resi dalle mille occupazioni giornaliere, spesso percorriamo strade ed attraversiamo centri cittadini, senza cogliere i messaggi che lanciano antichissimi particolari architettonici. Così mi è capitato dopo trenta anni di comprendere e finalmente apprezzare compiutamente alcuni simboli posti all’interno della città di San Miniato. Partiamo dalla facciata degli Spedali Riuniti in Piazza XX Settembre. La decorazione superiore delle finestre comprende due conchiglie laterali e tre listelli centrali. La conchiglia era il distintivo dei pellegrini diretti nel Medioevo a Santiago di Compostela. Non si tratta di una conchiglia qualunque, ma delle valve della capasanta, nota anche come pettine di mare o pettine di San Giacomo (Pecten Jacobaeus), cioè di quel mollusco bivalve posto sui fondali marini, che la tradizione collega a San Giacomo, perché quando il sarcofago del Santo approdò sulle coste della Galizia, proveniente da Gerusalemme, fu trovato completamente ricoperto dalle valve della capasanta. I tre listelli centrali ancora una volta rappresentano verosimilmente una
simbologia cristiana, perché fanno pensare innanzitutto alle tre Persone che compongono la Trinità. Passando a Piazza Bonaparte troviamo la chiesa di San Rocco, pellegrino e taumaturgo francese del XIV secolo, invocato come protettore dal flagello della peste e dalle epidemie in generale. Imboccando la salita dei Mangiadori, troviamo il tabernacolo di Sant’Antonio Abate, il cui ordine degli Antoniani rappresentò il cardine dell’assistenza sanitaria durante il Medioevo. Secondo la ricostruzione elaborata dal loro storico ufficiale Aymar Falco, le reliquie del Santo dal deserto egiziano furono portate a Costantinopoli intorno al 670 e da qui nel Delfinato francese durante l’XI secolo dal nobile Jaucelin, signore di Chàteauneuf, della diocesi di Vienne. Nel 1088 i benedettini dell’Abbazia di Montmajeur presso Arles furono incaricati dell’assistenza religiosa. Per quanto riguarda, invece, l’assistenza sanitaria fu un certo Gaston de Valloire che, dopo la guarigione del figlio dal “fuoco di Sant’Antonio”, decise di costruire un hospitium e di fondare una confraternita, che si trasformò nell’Ordine
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Ospedaliero dei canonici regolari Ferdinando Prattichizzo di Sant’Agostino di Sant’Antonio Abate, comunemente detto degli Antoniani. L’Ordine, approvato da Urbano II al Concilio di Clermont e confermato da Onorio III nel 1218, era distinto da una cappa nera con una “tau” azzurra sulla sinistra e consacrò l’iconografia di Sant’Antonio Abate, ritraendolo con un campanello (come facevano appunto gli Antoniani), in compagnia di un maiale (animale dal quale essi ricavavano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe). Sulla sinistra della salita dei Mangiadori si scorge, infine, una grande “tau” scolpita in pietra, facente parte della chiesa di Santo Stefano e Michele. Nel Medio-evo la chiesa era più piccola e vi si accedeva lateralmente attraverso un sovrappasso, detto Ponticello. Nel XIV secolo alla chiesa era annesso un ospedale, retto dagli Antoniani, per curare il fuoco di Sant’Antonio, che accomunava per le conoscenze dell’epoca sia l’herpes zoster che la più frequente erisipela. Ne resta te-stimonianza nel Tau, simbolo della stampella e dei frati Antoniani. Quanti simboli della Francigena!
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DIMORE
un Leone sull’Arno nella “dimora d’epoca” abitò per prima la Storia Domenico Savini
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alle finestre di palazzo Ricasoli, davanti alla piazza Goldoni, si ammirano i ponti di Firenze che scavalcano l’Arno e le sue acque che corrono verso il mare. Storia, arte e architettura qui s’incontrano, e di fronte, come fosse uno scenario teatrale, si distendono le facciate dei palazzi dell’Oltrarno: quelli degli storici quartieri di Santo Spirito e di San Frediano e dietro di loro, non lontano, si ammirano i crinali alberati
delle colline di Bellosguardo, del Pian dei Giullari e della Torre del Gallo, luoghi consegnati alla storia dai nomi dei loro antichi abitanti: Galileo e Ugo Foscolo. All’interno del palazzo dei Ricasoli detti del Ponte alla Carraia, si ammirano intagli, stucchi e pitture; qui le ampie specchiere moltiplicano gli spazi delle sale che vi si riflettono. Gli specchi, come sappiamo, conservano una quantità di ricordi… Il piano nobile dell’edificio, riorganizzato dalla baronessa Maria Teresa Ricasoli in funzione di “Dimora d’epoca”, recupera una medesima destinazione d’uso che nell’ultimo ventennio del XIX secolo fu denominata Grand Hôtel de New York, uno dei più importanti alberghi fiorentini frequentato dai protagonisti della cultura internazionale del tempo: i musicisti Ciaikowskij, Wagner e due insigni eruditi statunitensi: il poeta William C. Bryant e lo scrittore Nathaniel Hawthorne. Inoltre la scrittrice e diarista inglese Hester Lynch Thrale, la quale, con il marito italiano Gabriele Piozzi, compositore di musica da camera e cantante lirico, insieme con degli amici fondò un’Accademia letteraria che conseguì una certa rinomanza. Secondo i ricordi familiari, al piano terreno del palazzo esisteva un teatrino del Settecento, nel quale si sarebbero recitate spesso le commedie di Carlo Goldoni, talvolta anche con la partecipazione dell’autore, al quale, nel 1913, fu definitivamente intitolata la piazza di fronte al palazzo. La costruzione del Palazzo Ricasoli al Ponte alla Carraia risale al 1470. Da allora è rimasto sempre nelle proprietà della famiglia. Feudatari di vasti domìni nel Mugello, nel Chianti e nel Valdarno Superiore,
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dalla prima metà del secolo XI si chiamarono “de Filiis Rodulphi”, da cui Firidolfi. Più tardi i rami di questa casata presero nome dai loro feudi, e Ricasoli si dissero i discendenti di Rinieri, che nel 1187 ebbe in dono dall’imperatore Arrigo VI il Castello di Riocasole o Ricasoli presso Montevarchi. Infine la famiglia si identificò col possesso dei non lontani castelli chiantigiani di Meleto e di Brolio. I componenti di questa storica casata si distinsero per energia, coraggio, fermezza. Furono castellani e podestà, magistrati e ambasciatori, politici e capitani, prelati e filosofi, giuristi e letterati: fra questi Simone, educato con Lorenzo il Magnifico e Orazio-Cesare, filosofo e discepolo di Galileo. Appartiene a questa famiglia il beato Benedetto (1040-1107), monaco vallombrosano della Badia a Coltibuono. Nel XIV secolo alcuni familiari dei Ricasoli di Brolio si trasferirono a Firenze e fu da questo nucleo che emerse la figura di Rinieri, abile mercante e collaboratore della prestigiosa famiglia dei Medici. Nel 1457 sposò Simonetta Vespucci, uscita dalla famiglia del grande navigatore fiorentino Amerigo. Proprio a Rinieri si deve l’edificazione del palazzo davanti al Ponte alla Carraia, oggi sede della “Dimora d’epoca” Leone Blu. Questa denominazione non è frutto di fantasia, perché nello stemma dei Ricasoli campeggia un Leone Blu. Nel 1852 quando il barone Bettino Ricasoli sposò l’unica figlia Elisabetta ad Alberto Ricasoli Firidolfi, si ricongiunsero i tre rami della stirpe: i Ricasoli baroni, i Ricasoli da Meleto e i Firidolfi da Panzano. Abbiamo ricordato Bettino Ricasoli, e subito, come evocato, riaffiora alla
mente il volto ossuto e inciso del “Barone di ferro”. Ha lo sguardo fermo e penetrante: quello di uno dei grandi fautori dell’Unità d’Italia, della quale, dopo Cavour, divenne Primo ministro del nuovo Regno. La passione di Maria Teresa Ricaso-
li per l’arte tutta, antica, moderna e contemporanea si riflette nella collaborazione con lo Studio Pirotecnico di Piero Brarda e Francesca Lopetuso per la progettazione e l’arredo della residenza d’epoca Leone Blu. In questa importante porzione del
palazzo la proprietaria ha voluto mantenere l’integrità del grande appartamento abitato un tempo dalla famiglia, con i saloni per i ricevimenti e le ampie camere, preservando i pregiati decori settecenteschi e mescolandoli con arredi moderni - è la stratificazione che avviene in una casa vissuta -. Il risultato è elegante e allegro, con una incredibile cura dei dettagli, eseguita da abili artigiani fiorentini: fabbri, bronzisti, falegnami, decoratori, tappezzieri e vetrai. Qui il viaggiatore, per svago o per lavoro, abiterà nella storia con gli agi irrinunciabili di un raffinato albergo. Fotografie di Moreno Vassallo La baronessa Maria Teresa Ricasoli Firidolfi. Dietro di lei il ritratto del celebre antenato Bettino Ricasoli (1809-1880). Fu uomo d’azione ma riservato, fermo nel carattere. La sua rigidità e risolutezza nel condursi senza compromessi, gli procurarono il soprannome di “Barone di ferro”. Gonfaloniere di Firenze (sindaco) nel 1848. Organizzò il plebiscito dell’11 e 12 marzo 1860 che sanciva l’unione della Toscana al Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II. Nel 1861 fu eletto deputato, poté così partecipare all’inaugurazione del primo Parlamento italiano che si riunì il 18 febbraio. Successe a Cavour nella carica di Primo ministro del nuovo Regno d’Italia. Partecipò attivamente alla fondazione del giornale “La Nazione” (1859). Gli dette vasta notorietà la formula del Chianti: 70% di Sangiovese, 15% di Malvasia, 15% di Canaiolo, frutto di sue personali ricerche e sperimentazioni lungamente condotte nel chiantigiano Castello di Brolio Il nostro collaboratore Domenico Savini a colloquio con la baronessa Maria Teresa Ricasoli Firidolfi. Sul tavolo si nota la fotografia dei sovrani del Belgio Alberto II e Paola. La regina, nata principessa Ruffo di Calabria, è zia materna della baronessa Maria Teresa. L’attuale re del Belgio, Filippo, è dunque cugino della nobildonna fiorentina Estetica e funzionalità è la soluzione che caratterizza gli interni della ”Dimora d’epoca” Leone Blu realizzata nel piano nobile del palazzo Ricasoli al Ponte alla Carraia Il Palazzo Ricasoli si affaccia, con le sue finestre, davanti all’Arno
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ITINERARI
CARTOLINE LUGANESI Carmelo De Luca
Lugano di notte Parco Ciani Lungolago di Lugano Palazzo Riva Il LAC Piazza Riforma Gandria Chiesa di San Abbondio a Gentilino
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nita allo Stivale dall’idioma italico, Lugano ostenta degno lignaggio ticinese specchiandosi vanitosamente nell’omonimo Lago dalla bellezza incomparabile. Il patrimonio urbano possiede edifici degnissimi, lo testimonia la plurisecolare Chiesa dedicata a Santa Maria degli Angioli. Nel suo interno trova dimora un magnifico affresco rinascimentale dedicato alla passione e crocifissione di Cristo, dipinto dal leonardesco Bernardo Luini. Coprente per
divino approda quindi in Piazza San Rocco, corolla dell’omonima Chiesa cinque-seicentesca, ma l’architettura religiosa trova apogeo nella scenografica Cattedrale dedicata a San Lorenzo. Di origini medievali, le cui vestigia antiche si identificano in tracce di affreschi, la struttura presenta facciata rinascimentale. L’interno a tre navate ospita cappelle barocche (da non perdere quella dedicata alla Madonna delle Grazie, ricchissima in colonne, statue, affreschi nella cupola), coro dipinto dai
mo nell’atto di liberarsi. In Piazza Manzoni dimora Palazzo Riva, riuscito esempio di edilizia privata tardo barocca ingentilito da elegante portone adorno di mascheroni, finestre con timpano, portici. Il suo interno conserva dipinti murali dedicati alle divinità olimpiche. L’arte contemporanea trova nel Palazzo dell’ex Banca San Gottardo valido supporto. Progettato da Mario Botta, l’edificio si sviluppa lungo quattro torri allineate, ognuna racchiudente una hall con tanto di lucernario.
intero il tramezzo, quest’opera vanta articolata composizione scenica, che trova convergenza nella Croce e, ai lati, in simmetrica armonia, l’articolato palcoscenico con i ladroni, soldati a cavallo o intenti a contendersi al gioco le vesti di Gesù, Maria insieme alla Maddalena e San Giovanni, insomma una strabiliante scenografia da film. Rimanendo in età cinquecentesca, il complesso intitolato alla Madonna di Loreto è ingentilito da un leggiadro portico, che sorregge il bel salone della Confraternita di San Carlo. L’edificio custodisce una copia fedele della Santa Casa tanto venerata nella ridente cittadina marchigiana. Il tour
fratelli Torricelli ed un sontuoso altare centrale. A San Antonio Abate è dedicato l’edificio scatolare movimentato da lesene con capitelli e finestre a tutto tondo, richiamanti la tradizione delle terme romane, i cui spazi custodiscono un’architettura in barocco locale ed affreschi di G. Antonio Petrini. Il patrimonio laico cittadino non è da meno, basta recarsi in Piazza Riforma per godersi l’ottocentesco Palazzo Civico. Sulla movimentata facciata si impone la scenografia centrale a mo’ di tempio greco con colonne corinzie, statue, scudo araldico dedicato alla città. La corte custodisce doppio loggiato in stile dorico e lo Spartaco in mar-
Rimanendo in tema culturale, l’offerta museale di Lugano è decisamente variegata, ma una menzione particolare riguarda il LAC Lugano Arte e Cultura, avveniristico polo attrattivo per arti sceniche, visive, musicali. Scenograficamente affacciato sul Lago, i suoi spazi ospitano mostre temporanee, installazioni, collezioni permanenti dedicate all’intero Cantone, la grande sala per concerti e rappresentazioni teatrali. Gli amanti dell’aria aperta, non trascurino la passeggiata sul Lungolago protetti da doppio filare di vegetazione arborea, il cui percorso vanta degna partenza nella romantica terrazza delimitante il famoso
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Parco Ciani e, quasi a metĂ tragitto, si arriva al Belvedere costellato da fiori, colori, piante, statue di artisti contemporanei. La cultura enogastronomica annovera meritati allori, supportata dagli eccellenti vini Merlot tipici della zona. Minestrone, polenta, coniglio in salmĂŹ, pesce in carpione, torta di pane rappresentano alcune invitanti prelibatezze tutte da gustare. A tal riguardo non perdete la Bacchica (8-11 settembre 2016), interessante manifestazione dedicata al vino, fol-
clore, artigianato, enogastronomia. In fundo, assolutamente consigliati i romantici borghi vicini alla città , sono davvero tanti e carinissimi, basti menzionare Montagnola a strapiombo sul Lago: Torre Camuzzi conserva produzione artistica e poetica del grande Hermann Hesse! Ma Gandria non è da meno grazie alla sua posizione limitante la sponda del Ceresio ed un abitato dominato da pittoresche viuzze, scalette, la Chiesa di San Vigilio sontuosamente barocca.
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ITINERARI
wine t o u r tra le colline sanminiatesi
Elena Battaglia
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acco… tabacco… e bellezza. Una giornata di “full immersion” nel piacere dell’enogastronomia toscana, tra vigneti, aziende agricole e squisiti manicaretti. Anche per chi abita nei paraggi, a volte, molte delle ricchezze del territorio di San Miniato e dintorni sono ancora sconosciute. Eppure, non mancano le occasioni per scoprirle e gustare appieno il sapore del buon vino e del cibo genuino, a chilometro zero. I cosiddetti “wine tour” sono degli appuntamenti imperdibili per chiunque voglia sapere qualcosa in più sulla “propria terra” e, allo stesso tempo, prendersi una pausa dalla routine cittadina e ritrovare un po’ del lento modo di vivere di una volta. Uno di questi è stato il viaggio tra le aziende vinicole, che sorgono in mezzo al verde delle colline sanminiatesi, tenutosi mercoledì 2 marzo. Una giornata organizzata dalla Camera di Commercio di Pisa in collabora-
zione con il Comune e l’associazione vignaioli di San Miniato, per concludere il corso “Vino e turismo”, rivolto alle guide turistiche abilitate. Quelle che sono state offerte dalle aziende del territorio, infatti, sono delle vere e proprie prelibatezze: il tartufo, vini pregiati, carni prodotte lontano dagli allevamenti intensivi. Lo scopo? Conoscere al meglio il territorio di San Miniato: una fucina di risorse naturalistiche che accoglie circa 600 ettari di vigne e, proprio per questo, si conferma uno dei maggiori produttori di vino della Toscana. Un lungo tour del vino che è iniziato già dal primo mattino, con degustazioni ed assaggi. La prima tappa, d’obbligo, è stata l’azienda vinicola “Pietro Beconcini”, gestita da Leonardo Beconcini insieme alla moglie Eva Bellagamba. Un “locus amoenus” immerso nel verde, dove possono trovare ristoro anche i pellegrini che si avventurano lungo l’antico tracciato della via Francige-
vigneti delle colline sanminiatesi Il tartufaio Massimo Cucchiara con la sua cagnolina alla scoperta del prezioso fungo Il sindaco Vittorio Gabbanini, l’assessore Giacomo Gozzini e i partecipanti al tour
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na, che approda vicino all’azienda. L’azienda Beconcini si contraddistingue per l’offerta di vini rossi (con una media di 100mila bottiglie all’anno). Fiore all’occhiello della produzione è il Tempranillo – una pianta generosa e resistente agli agenti atmosferici – grazie al quale nasce un vino dal sapore forte, molto amato dai turisti. Sono 13 gli ettari di terreno che “Beconcini” ha dedicato alla coltura di questo particolare tipo di vitigno, piuttosto raro. Il reperimento del Tempranillo, all’interno del terreno aziendale, è avvenuto negli anni ’90 ma l’identità è stata riconosciuta ufficialmente soltanto nel 2004, in seguito al test del dna. Una delle ipotesi del suo arrivo nella zona è proprio legata ai pellegrini della via Francigena, che potrebbero averlo portato dalla Spagna. Il secondo “step” dell’inebriante percorso arriva alla cantina di “Cosimo Maria Masini”: un’azienda, che dal 2014 porta avan-
ti la filosofia delle coltivazioni ecofriendly con la tecnica dell’agricoltura biodinamica. In questo modo, infatti, si cerca di incrementare la fertilità del suolo ricorrendo a fertilizzanti naturali, lontano dagli agenti chimici. Così si può aumentare, in maniera semplice e genuina, la presenza di microrganismi nel terreno. Spazio, dunque, ai lieviti naturali (quelli presenti in natura sulla buccia dell’uva), per ridurre al minimo indispensabile additivi e liquidi solforosi durante le fasi di lavorazione. L’azienda sorge all’interno di un’antica villa, realizzata nel XVIII secolo e acquistata da Cosimo Ridolfi nel 1850. È stato proprio quest’ultimo ad impreziosirne la parte esterna con un bellissimo giardino all’italiana – realizzato in stile romantico – che è possibile ammirare ancora oggi. Gli ettari di vigneti che circondano la struttura sono 14 e, nel corso dell’ultimo anno, hanno portato alla produzione di oltre 40mila bottiglie. Tra le coltivazioni spiccano il Sanforte, una tipologia di vitigno piuttosto rara e usata per i vini rossi, e il Trebbiano, per i bianchi. Pausa di piacere enogastronomico all’agriturismo Montalto, gestito da Alessandro e Cinzia Nacci. Il tempo resta sospeso per un attimo, mentre si assaporano le gustose specialità locali, arricchite dall’aroma del tartufo bianco pregiato ricerca-
to. L’abilità dei tartufai delle colline sanminiatesi, che riescono a portare in tavola questa prelibatezza, è nota a tutti. È con lo scopo di trovare il giusto abbinamento al sapore intenso di “Re tartufo” che la famiglia Nacci ha deciso di lanciare un nuovo vino bianco – fatto con uva Sangiovese, solitamente utilizzata per i rossi – a partire dalla primavera 2016. Il tartufaio Massimo Cucchiara e la sua cagnolina, poi, guidano il gruppo alla scoperta del prezioso fungo ipogeo: una ricerca lenta e meticolosa, tramandata di generazione in generazione. Ultimo appuntamento è quello con l’azienda “Agrisole”, dei fratelli Fabio e Federico Caputo. Una piccola ma preziosa realtà: 5 ettari di terreno in totale, per valorizzare il più possibile i vitigni autoctoni e incrementare la promozione del territorio. Il tutto, anche attraverso visite guidate in lingua inglese con le quali si cerca di attrarre il pubblico internazionale. Per quanto riguarda i vini, l’azienda punta tutto sulle varietà Sangiovese, Malvasia nera e Colorino per i rossi e sul Trebbiano per i bianchi, con una media di circa 30mila bottiglie prodotte in un anno. Immancabile la presenza delle eccellenze gastronomiche, offerte dai produttori locali come la macelleria Falaschi e l’opificio birraio di Crespina.
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pAESAggIO
nel giardino degli dei GIovE NETTuNo PèGASo CAvAllo AlATo Saverio Lastrucci
Il Viottolone, fiancheggiato da cipressi e ornato con statue classiche, conduce alla Vasca dell’Isola La colossale statua dell’Abbondanza (o della Dovizia), collocata nel 1635 sul vertice della collina di Boboli, è opera seicentesca del Giambologna ultimata da Pietro Tacca e Sebastiano Salvini da Settignano
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’origine del nome “Boboli” è incerta, forse deriva dalla collina di “Bogoli” su cui si estese il Giardino, mentre altre fonti citano una torre longobarda denominata la “Bobola”, presente all’interno della cava di pietra forte, che divenne l’Anfiteatro, dalla quale fu estratto il materiale per costruire il Palazzo Pitti. Cosimo I ereditò dal padre, Giovanni dalle Bande Nere, il carattere combattivo; l’amore per l’arte dalla madre Maria Salviati e, dalla nonna paterna Caterina Sforza, la passione per le scienze ermetiche e l’alchimia studiando il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, dal quale trasse molti spunti per realizzare il Giardino di Boboli.
Il Tribolo inserì composizioni scultoree in armonia con il luogo e gradite al gusto del Principe giacché “Cosimo I, genio del luogo, richiedeva che esistesse un filo conduttore capace di collegare la trama architettonica del giardino stesso con l’immissione d’episodi decorativi scultorei tali da completarne e arricchire il significato concettuale e contemporaneamente di essere in grado di trasmettere un messaggio ben riconoscibile” evidenziando l’idea che un principe, un re, per diventare tale, deve saper coltivare bene il proprio giardino. Vanga, zappa, zolle di terra, semi, ecc. divengono quindi metafore ben note alla scienza ermetica e le statue disposte in Boboli consentono di capire la simbologia legata al mondo agrario. Sarà Cosimo II che dal 1612 farà ampliare all’architetto Giulio Parigi il Giardino di Boboli collegando all’unico asse centrale (Nord-Sud, che da Palazzo Pitti sale verso il bastione del Cavaliere) un nuovo asse (Est-Ovest) discendente verso Porta Romana, con l’ampio viale di cipressi detto “Viottolone”, che conduce alla “Vasca dell’Isola”, affiancato, in parallelo e in perpendicolare, da Labirinti, Ragnaie e Cerchiate. Per comprendere cosa s’intenda per “giardino” è interessante la raccomandazione scritta all’Ammannati da Cosimo I nel 1563, riferita a Boboli: “Non si fassi entrare canaglia, ma solamente gentiluomo, altrimenti ci dorremo di voi ”. Infatti fin dall’antichità il giardino era un luogo segreto dove poter colloquiare con la Divinità: in uno spazio “sacro” ed esclusivo per accedere anche nei recèssi della propria coscienza. Analizzando la struttura del Giardino di Boboli a metà del 1600, vediamo che i due assi principali, che s’incrocia-
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no all’odierna Fontana del Nettuno, formano una “croce” allungata che copia l’architettura sacra per la costruzione dei Templi: romani ed etruschi e quelli delle Cattedrali gotiche. Quindi il Tempio, derivante dal termine greco tèm-nos, “sacro recinto”, luogo senza spazio e senza tempo, è il fondamento della Scienza Ermetica che calcola la suddivisione dello spazio per costruire un Tempio o per individuare un “recinto sacro” all’interno di un bosco o di un giardino. Da ciò deriva anche il desiderio di cercare un luogo segreto immerso nella natura per realizzare un Bosco Sacro, ben noto alle civiltà celtiche dove boschi e foreste assumevano una loro intima sacralità con alberi, rocce e acqua. Il Giardino di Boboli riassume i vari aspetti architettonici ed ermetici poiché è segreto in quanto racchiuso da mura (Hortus conclusus), contiene alberi di tutte le specie (Bosco Sacro) e la sua forma è quella di una croce latina allungata (Tempio). Cosimo I conoscendo bene la difficoltà d’intraprendere un percorso interiore, è probabile che adottasse il motto noto agli alchimisti “Festina lente” (affrettati lentamente) con l’emblema della tartaruga sormontata dalla vela, il cui significato è sempre attuale per insegnarci a misurare i propri passi, farsi una bella corazza ma, una volta presa una decisione, agire con determinazione condotti dal vento della conoscenza. Il tema dell’acqua risulta fondamentale nel giardino rinascimentale, in particolare nel periodo granducale, quale celebrazione del potere dinastico medìceo, il cui motivo dominante, più originale e fastoso delle scenografie naturali è il sistema delle fontane e il gioco delle acque che ne è connesso.
Accanto al muro di cinta, presso il viale dei cipressi con le Ragnaie di lecci che portano al Vivaio dell’Isola, è posta la Grotticina di Madama, contigua all’omonimo giardino e una fra le più antiche grotte di Boboli in senso cronologico fra tutte quelle opere (grotte, fontane, sculture, edifici) che lo hanno arricchito nell’arco di tre secoli. L’Anfiteatro era il cuore di tutto il parco; faceva da platea agli spettacoli all’aperto, messi in scena sopra il palco che veniva eretto sulla terrazza che chiude il cortile dell’Ammannati ove si trova oggi la Fontana del carciofo di Francesco del Tadda (1641). Al di sopra dell’Anfiteatro, a metà collina, dòmina la grande vasca con la Statua del Nettuno, opera di Stoldo Lorenzi (1565). Alla sinistra dell’ingresso principale di Palazzo Pitti il Buontalenti inserisce la preziosa Grotta, ricca di spugne, conchiglie e madreperle, recentemente restaurata e restituita all’originario splendore. L’impronta data dal Granduca Cosimo I al Palazzo Pitti per trasformarlo nella residenza del sovrano si rivolge principalmente alla sistemazione del terreno circostante il parco e il giardino. Il gusto manierista degli architetti dèdi-
ti agli allestimenti di corte e delle scenografie per feste e attività ricreative, dovrà applicarsi al disegno del paesaggio, passando dalle figurazioni in legna, tela, gesso e cartapesta, al disegno con verzure, concrezioni in pomice, spugne, conchiglie e madreperle. Tali richieste trovano nel Tribolo, nel Giambologna, nel Vasari e nell’Ammannati i creatori di molti giardini medìcei fra i quali anche quello di Boboli. Da questo, al parco della Villa di Pratolino, i giardini subiscono un mutamento tale da impedire al visitatore la visione unitaria del disegno architettonico. Esso dovrà dischiudersi al viandante con inattese scoperte dove la natura si fonde con l’artificio e viceversa, assumendo il fondamento di una sacralità alchemica. Il “giardino architettonico” del primo Cinquecento si trasformerà in “giardino dei sensi”quale preludio al gusto barocco seicentesco.. È comunque con questi illustri creatori di giardini che si individua la premessa dello sviluppo successivo dell’arte dei giardini a Firenze e in Europa; essi e le loro opere rappresentano ancora il punto di riferimento per il giardino storico e l’indirizzo per quello moderno.
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Il cavallo alato Pègaso è collocato nel prato davanti alla palazzina della Meridiana. È un animale selvaggio che viene utilizzato da Zeus, il re di tutti gli Dèi, per trasportare le folgori. Terminate le sue imprese vola verso il cielo. Con il nome Pègaso è intitolata una costellazione Stoldo Lorenzi, Fontana del Nettuno con Naiadi e Tritoni (1565-1568). La fontana segna l’incrocio fra i due principali assi (Est-Ovest) del Giardino di Boboli Davanti alla facciata posteriore di Palazzo Pitti si èrge la collina di Boboli che culmina con la cinquecentesca Fontana del Nettuno. Per i romani Nettuno era il dio delle acque correnti, del mare e dei terremoti. Corrispondeva al dio greco Poseidone. Secondo la mitologìa abitava in fondo al mare e comandava le tempeste. Al disopra della fontana dòmina la statua dell’Abbondanza (o della Dovizia): è Cerere, dea romana delle mèssi e della fertilità dei campi In basso l’Anfiteatro con in primo piano la Vasca di granito (arte romana antica) e l’Obelisco egizio proveniente dalla romana Villa Medici Nella Vasca dell’Isola, decorata con piante di limoni, si innalza la statua dell’Oceano, scolpita dal Giambologna nel 1574-75, dominante al centro dell’Isola. Omero chiama Oceano “l’origine degli Dèi” e “l’origine di tutti”. Secondo la mitologia greca era una divinità fluviale con una continua potenza rigeneratrice, con la facoltà inesauribile di alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare. Fotografie di Moreno Vassallo
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Castello di Oliveto
È una perla blasonata dal tipico tetto sporgente oltre le mura perimetrali, finestroni contornati da rilievi in pietra serena, arredo classico. Edificato sui resti di un convento vallombrosiano, l’edificio ha accolto importanti famiglie fiorentine, il barone Bettino Ricasoli l’ha trasforma in efficiente tenuta vinicola, immersa tra giardini all’italiana, uliveti, vigneti.
Fatto erigere dalla famiglia Pucci nel XV secolo, il Castello si erge maestoso sui Colli Fiorentini. A pianta rettangolare con tanto di torri, la nobile dimora vanta alcuni saloni magnificamente affrescati, cappella gentilizia, corte rinascimentale arricchita da un porticato, elegante giardino all’italiana racchiuso tra le mura merlate. Questo luogo trasuda secoli di storia, vi hanno soggiornato Lorenzo il Magnifico, i pontefici Paolo III, Leone X, Clemente VII, il Granduca Ferdinando III, Re Vittorio Emanuele III. WINE&FOOD: Formaggi, affettati, crostoni, pappa al pomodoro, piatti della tradizione toscana regnano sovrani, accompagnati da ottimo olio locale e da calici di buon vino (Chianti DOCG Riserva) prodotto nella tenuta.
WINE&FOOD: L’annesso agriturismo possiede un ristorante, luogo di delizie culinarie toscane, e la cantina per i nobili vini Rosato di Toscana 2014 IGT, Chianti 2013 DOCG, Chianti 2012 Riserva DOCG.
La Palagina
PERNOTTAMENTO: La Villa è diventata un resort. Intorno si erge un borghetto fatto di tre casolari della tradizione contadina, attrezzati per il pernottamento e tra loro isolati grazie al verde del Chianti figlinese.
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INDIRIZZO: Via Grevigiana, 4 Figline Valdarno (FI)
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cASTIgLIONcHIO
BORgO cASTAgNOLI
Borgo Castagnoli
Girovagare tra le viuzze dell’abitato ricorda al turista la storia secolare del borgo, che trova apogeo nella Rocca dalla pianta poligonale e cortile interno, possedimento delle nobili famiglie Orlando, Piccolonimi, Tempi, Ricasoli. Intorno, caseggiati in pietra locale, l’uno addossato all’altro, creano un unicum architettonico da set cinematografico. Poco più a valle, la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo completa una cartolina medievale decisamente romantica.
Borgo fortificato risalente al XII secolo, l’abitato si sviluppa intorno alla casa turrita dei nobili Ricasoli Zanchini, tra cui spicca lo scenografico palazzotto raggiungibile attraversando uno scenografico ingresso merlato. Le sue mura racchiudono la plurisecolare chiesetta dedicata a Santa Maria. Qui ebbe dimora l’arcinoto giureconsulto Lapo da Castiglionchio. WINE&FOOD: Il ristorante del borgo offre specialità toscane e ricette tipiche del posto, rigorosamente condite con l’extravergine d’oliva prodotto in loco e supportate da etichette Chianti denominate Castiglionchio Rosso Toscano di Lapo, Chianti Colli Fiorentini DOCG, Chianti Riserva Colli Fiorentini DOCG.
Castiglionchio
WINE&FOOD: Trasformato in azienda vitivinicola, l’intero abitato è divenuto regno di importanti etichette, tra le quali Rocca Castagnoli Chianti Classico e Poggio a’ Frari Chianti Classico Riserva, da accompagnare a prelibati piatti di cinghiale in dolce e forte, galletto ruspante, panzanella, funghi porcini, tartufo, preparati dal ristorante “Il Celliere”.
PERNOTTAMENTO: Nell’abitato sono presenti appartamenti in stile rustico con travi a cassettoni, camino, letto a baldacchino.
PERNOTTAMENTO: La rocca e parte dell’abitato permetteno il pernottamento in stanza o appartamenti.
INDIRIZZO: Via Castiglionchio, 2 Rignano sull’Arno (FI)
INDIRIZZO: Gaiole in Chianti (SI)
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uN pASSO DOpO L’ALTRO
di Santiago
il Cammino
Elena Battaglia
Cattedrale di Santiago di Compostela Interno della cattedrale incensiere Botafumeiro
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aino in spalla, borraccia alla mano, bastone e conchiglia come simbolo del pellegrino. Sono sempre di più coloro che scelgono di scendere in strada per intraprendere un’esperienza particolare come quella dei cammini di “fede”. Non sempre la motivazione religiosa è il primo ed unico motore propulsore, che spinge a mettersi alla prova e – un passo dopo l’altro – raggiungere la meta finale dopo aver attraversato centinaia di chilometri. Il leitmotiv, in fondo, sembra essere uno solo: pellegrinaggio come scoperta di sé e del mondo, una pausa dalla vita quotidiana come la conosciamo per incamminarsi lungo strade inesplorate, mai affrontate in precedenza, mettere in pausa la routine e tentare di instaurare un contatto con la parte più intima del proprio essere. Il Cammino di Santiago. Per il nostro secondo appuntamento con i pellegrinaggi, parleremo di uno fra i percorsi più popolari di ogni tempo: quello che porta a Santiago de Compostela in Galizia, in Spagna. Non si
tratta, al contrario di quanto si possa pensare, di un itinerario unico grazie al quale raggiungere l’Oceano, ma un reticolo di sentieri usati per recarsi presso la tomba di San Giacomo Maggiore da ogni parte d’Europa. Percorsi di importanza religiosa ma anche culturale, che sono stati dichiarati ufficialmente dal Consiglio d’Europa, nel 1987, “itinerario culturale europeo”. La storia, tra mito e realtà. Si narra che l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo, avesse deciso di lasciare la Palestina per dedicarsi all’evangelizzazione della Penisola iberica. Una missione che non riscosse il successo sperato e lo costrinse a tornare a Gerusalemme, dove venne ucciso da Erode Agrippa I (tra il 41 e il 44 d. C.) dopo essere divenuto capo della comunità cristiana. Il corpo del santo, però, venne trasportato a bordo di una barca fino alla foce del fiume Ulla, presso il capo di Finisterre in Galizia, da alcuni discepoli che lo avevano seguito dalla Spagna. È qui che venne sepolto. Fu grazie alla visione di un campo stellato avuta da un eremita di nome Pelagio, nel IX secolo, che il vescovo Teodomiro poté reperire all’interno di una selva una tomba sulla quale era scritto: “Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomè”. È proprio in questo posto che venne costruita, dunque, la cattedrale, nella quale iniziarono a vivere i primi monaci benedettini. Intorno alla chiesa, invece, prese forma la vera e propria città di Santiago de Compostela, che assunse il nome dall’Apostolo Giacomo e del “campo di stelle” della visione dell’eremita. Da allora i pellegrini non hanno mai smesso di scegliere questa destinazione – simbolo di
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evoluzione, progresso e spiritualità – come meta finale dei loro percorsi, scandendo il motto “Ultreia et suseia” ossia “più in alto e più in là”. Dove c’è Santiago. I percorsi. Sono tante le strade che attraversano il territorio europeo per condurre i pellegrini fino alla meta agognata. Si va da quelli più “veloci” (circa 150 chilometri) a quelli più impegnativi, che superano gli 800 chilometri di lunghezza. Il più scelto resta il cosiddetto “Cammino francese”: 775 chilometri di viaggio, che partono da Saint-Jean-Pied-de-Port, per proseguire verso Roncisvalle e terminare, infine, a Santiago de Compostela, dopo aver incontrato le città di Pamplona, Logroño, Burgos e Leon. Parte da Oviedo per poi percorrere le Asturie e la Galizia, per un totale di circa 315 chilometri, il Cammino primitivo, che si congiunge a quello francese nella città di Melide. Questo è il primo itinerario di cui si ha notizia e si dice che fosse il percorso seguito da re Alfonso II nel IX secolo per recarsi in visita alla tomba di San Giacomo. Totalmente immerso nelle bellezze paesaggistiche che si trovano sopra gli 800 metri d’altezza, è anche uno dei percorsi più impegnativi per gli intraprendenti pellegrini. Per arrivare a Santiago dall’Italia, invece, si usa la famosa via Francigena che porta alla via Tolosana fino ai Pirenei attraverso i passi del Moncenisio e del Monginevro. Testimonianze. Un’avventura da pellegrino, che si è conclusa da poco, è quella di Marco Vanni (32 anni, di Santa Maria a Monte, in provincia di Pisa) che dal 25 marzo al 23 aprile 2016 si è incamminato lungo i 780 chilometri che separano Saint-JeanPied-de-Port – punto di partenza del
Camino Francés – dalla Cattedrale di Santiago. «Quando mi sono abbandonato a queste esperienze, ho sempre percepito un avvicinamento concreto con il vero me stesso – racconta – È cominciato tutto nelle notti d’estate passate in campeggio con i nonni. Ero piccolo, allora, ma gli odori, i rumori che sentivo dalla tenda, le amicizie, la sensazione di libertà, catturavano la mia attenzione». Da quel momento, per Marco, è stato un susseguirsi di viaggi, anche solitari, durante i quali ha attraversato l’Europa intera. Per lui, viaggiare diventa l’occasione per un arricchimento continuo: «Quando ero ormai assuefatto a certe sensazioni e stati d’animo, il Cammino si è presentato come un’esperienza più intensa. Tra l’avventura e la spiritualità». L’introspezione è parte fondamentale del viaggio: «In certe situazioni non possiamo fare a meno di analizzare la nostra interiorità. Un aspetto troppo spesso soffocato dal vivere quotidiano. Non riusciamo mai a trovare il tempo per parlare con noi stessi, ad instaurare un buon rapporto col proprio “Io”. Ho imparato a farlo viaggiando». Un cammino lungo e difficile, quello che porta a Santiago, che culmina in un’esplosione di emozioni: «Procedendo a piedi, si eliminano tutte le preoccupazioni che derivano dallo spostarsi con un mezzo. Le attenzioni, di conseguenza, si concentrano sulla propria mente e sul proprio corpo. Le molte ore passate sotto il sole, la pioggia, la neve, la grandine, non sono state riempite solamente dai passi ma da un susseguirsi di pensieri e riflessioni, di sorrisi improvvisi bagnati dalle lacrime. In questo modo è stato più facile percepire le bellezze del creato e così ho instaurato un “personale dialogo” con il Signore». Un cammino durante il quale nascono rapporti interpersonali e crescono i sentimenti di fratellanza e di solidarietà: «Durante il percorso ogni differenza di ceto sociale, etnia, età, colore, religione viene meno. Il
concetto di comunione, messaggio fondamentale di Gesù, è palpabile. Anche per chi non crede. È una realtà fatta di condivisione spontanea, di cui siamo capaci ma che ci rimane difficile applicare nella quotidianità». L’importante è trovare la forza nei momenti più duri, andare avanti nonostante uno zaino di 12 chili sopra le spalle e le insidie degli agenti atmosferici: «Arrivato quasi alla fine del percorso, ho iniziato a darmi una risposta su cos’è che rende questa esperienza tanto travolgente. È il vivere con semplicità, la condivisione, il poter attingere solamente da uno zaino e la consapevolezza che lì dentro c’è tutto quello di cui si può avere bisogno». “Un’altra storia è quella di Francesco Terreni (38 anni, di Santa Maria a Monte), che ha intrapreso questo cammino nel 2006, dopo un periodo difficile. “Mettersi in marcia”, in questo caso, è stato il tentativo di comprendere quale fosse il giusto percorso da seguire nella vita. «Sono partito da Saint-Jean-Piedde-Port, per raggiungere Santiago – racconta – Non era la mia prima esperienza a piedi. Avevo già fatto la marcia francescana, fino ad Assisi, in seguito alla mia conversione, avvenuta nel 2004. Da lì è nata la mia curiosità per i pellegrinaggi. Mi sono detto: “Se non ora, quando?” e ho deciso di prendermi un mese di tempo per fare il cammino. Ho impiegato 26 giorni, di cui uno di malattia, per completare gli 800 chilometri che mi separavano dalla meta». La motivazione, anche per Francesco, è soprattutto spirituale: «Avevo bisogno di capire cosa volesse Dio da me, quale fosse il mio “posto nel mondo”, sia a livello lavorativo, che affettivo, che di vocazione». Un percorso “solitario” lungo il quale, allo stesso tempo, la sensazione di solitudine rimane lontana: «Non mi sono mai sentito solo. Durante il viaggio ho incontrato altri pellegrini, con cui ho formato un vero e proprio GRUPPO DI AMICI. I momenti di divertimento
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non sono mancati, malgrado la fatica e le difficoltà». Dopo i primi 5 giorni di viaggio, infatti, cominciano a farsi sentire tutti i disagi legati a quella che è anche una dura prova fisica: «Ero pieno di vesciche. Eppure, tra i pellegrini scatta subito la solidarietà. Ci donavamo all’occorrenza medicinali, ma soprattutto conforto e incoraggiamento. Anche negli ostelli dove ci fermavamo a dormire, grazie ai cosiddetti volontari “ospitalieri”, si sperimentano le stesse sensazioni». I dubbi e i ripensamenti per aver intrapreso un’esperienza “oltre” le proprie possibilità di praticante avvocato, talvolta, si sono fatti sentire: «Ho passato anche la fase del “chi me l’ha fatto fare?”, soprattutto quando avevo forti dolori fisici. Mi sono fatto forza e sono andato avanti, per mantenere fede all’impegno preso con me stesso. Un impegno che è stato ripagato dalla gioia dell’arrivo». E anche se Francesco non ha trovato subito le risposte che cercava quando si è messo in viaggio, qualcosa in lui è cambiato: «Col cammino ho lasciato per strada le parti dell’uomo “vecchio”, che non volevano cedere. Al ritorno ho trovato sistemate da sole alcune situazioni che mi impedivano di essere “me stesso”. Dopo quattro mesi ho deciso di invitare ad uscire quella che, adesso, è mia moglie. Ci siamo sposati e abbiamo messo su famiglia. Era questo, in fondo, il posto che dovevo avere nel mondo». “Todo se cumple”, come recita il motto del cammino: tutto trova compimento.”
Pellegrini lungo il sentiero Francesco Terreni
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LIBRO
Stoner
di John Edward Williams
Patrizia Bonistalli
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iò che di noi rimane è il modo in cui abbiamo vissuto e con cui ci siamo dedicati a ciò che abbiamo amato. Ripubblicato per la seconda volta dopo essere stato messo in disparte per quasi mezzo secolo, il romanzo Stoner accende un coinvolgimento a tal punto fervido su critica e lettori, da conquistarsi la definizione di romanzo perfetto. William Stoner è figlio di contadini ed è formalmente destinato a lavorare la terra. In realtà, egli s’iscrive all’università del Missouri; durante una lezione universitaria sperimenta una sorta di essenza rivelatrice: ascoltando un sonetto di Shakespeare il protagonista comprende che il mistero della sua vita è irreparabilmente incatenato a quello della letteratura. È in quel momento che si definisce la sua sincera vocazione: studiare letteratura e intraprendere così un viaggio verso il ritrovamento di “tutto il tempo del mondo”. William diviene docente universitario. Da qui la sbalorditiva rivelazione del romanzo: mentre il tempo scorre dentro i meccanismi della consuetudine, la fatica d’affermare se stessi dentro l’ordinario recupera straordinariamente ogni possibile e immaginabile forma di amore ed incondizionata devozione. Il senso dell’esistenza si svincola euforico dai luoghi ripetuti per sprigionarsi in una molteplicità linguistica senza precedenti. Pur nella sua essenzialità, la vicenda è resa memorabile da una scrittura sorprendentemente abile nell’incunearsi con passione fluida dentro gli abissi dell’essere. William resta sventuratamente sposato ad un’arida donna, che gli rende in ogni
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modo disagevole mantenere i contatti con la loro unica figlia, fino agli ultimi suoi giorni. “Imparò il silenzio e mise da parte il suo amore”. Nel tempo frettoloso ed ingrato che gli è dato, egli persevera nello svolgimento del suo lavoro di docente, con sobria tenacia e schiettezza integerrima, nonché nell’affanno di un amore irrealizzabile che ricongiunga la “vita della mente e la vita dei sensi”. In primis, professore devoto e onesto circondato da invidiosa prepotenza e corruzione, Stoner è il personaggio che si svela a poco a poco terribilmente struggente. “Era sé stesso che lentamente ridisegnava, era sé stesso che rimetteva in ordine, era a sé stesso che dava una possibilità”. La sorte di Stoner strappa al lettore tensione e premura, con un impeto tale da farci giungere in breve a una sorta d’identificazione irrevocabile. La ricerca di se stesso si dibatte quasi sacralmente dentro una realtà sfidata con fermezza. Ogni movimento intimo ed esteriore di Stoner è determinato a ribellarsi rispettosamente ma risolutamente ad un destino che dissemina intorno a lui invidia e corruzione. «Non si dovrebbe chiedere a un uomo di lettere di distruggere ciò che ha passato la vita a costruire». La compostezza del personaggio risiede in una vicenda che smarrisce voce ma non cede, ancorché disapprovata dal mondo a cui egli poco appartiene e da cui mirabilmente si distanzia. “Il più forte di noi non è che un esserino gracile, il tintinnio d’un cembalo, il fiato d’un ottone, davanti all’eterno mistero.”
RIcORDO
Mario
Naldini Ricordo di un compagno di classe
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omenica, 28 agosto 1988. L’Airshow Flug Tag 88, è ospite della base statunitense di Ramstein-Miesenbach, in Germania, una cittadina situata quasi al confine con la Francia. Qui si svolge l’esibizione di pattuglie acrobatiche provenienti da tutto il mondo, incluse le nostre Frecce Tricolori, la Pattuglia Acrobatica Nazionale (PAN) dell’Aeronautica Militare Italiana nata nel 1961. Sono circa le 12. In una frazione di secondo il cielo di quella base si tinge di rosso, di giallo, di grigio, di nero. Un accecante bagliore. In un attimo inizia una delle più tragiche pagine della storia della nostra aviazione militare. In un attimo la vita di tre nostri ufficiali della Pattuglia Acrobatica Nazionale finisce. In un attimo si spengeranno anche le vite di sessantasette spettatori che con gli sguardi rivolti al cielo nulla possono.
Rimarranno coinvolti in quel destino, già scritto, ma che non potranno mai leggere. Il tenente colonnello Ivo Nutarelli, il “solista”, il tenente colonnello Mario Naldini, il capitano Giorgio Alessio si toccano. Palle di fuoco, incontrollate schegge impazzite, in un’agghiacciante spettacolarità. La loro morte è immediata. Sono trascorsi 28 anni da quella tragica giornata di fine estate. Mario ed io, insieme agli altri compagni di classe, avevamo trascorso i cinque anni dell’Istituto Tecnico per Geometri, la scuola posta in via Giuseppe Giusti (a quell’epoca si chiamava Galilei). Alla fine del quinquennio ci eravamo diplomati. Era il 1966. Sui “quadri” disposti nel lungo corridoio, qualche giorno dopo gli esami di stato, accanto ai nostri cognomi compariva il tanto sospirato sostantivo: “licenziato”.
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Fu un giorno che non saprei come definire se triste o felice. Di solito si è felici. Otto di noi, “gli originali”, erano riusciti a raggiungere il traguardo, quel diploma di geometra, a me particolarmente caro. Mio padre era geometra, così come mio figlio.
Roberto Lasciarrea
III A Geometri, anno scolastico 1963-1964
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cuRIOSITà
messaggi incisi dalla preistoria Luciano Gianfranceschi
Raffigurazioni di antichissimi strumenti Graffiti dei Camuni della Val Camonica
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a Val Camonica, il cui nome deriva dalla popolazione dei Camuni, ha il più gran parco preistorico d’Italia e d’Europa, con i graffiti – migliaia e migliaia di leggère incisioni su grandi massi isolati, considerati come veri e propri monumenti – risalenti fino a 10 mila anni fa, per di più sbiaditi dal tempo e dalle intemperie. Cosicché anche da vicino si distingue poco o niente. Ma per vederli c’è il “trucco”, e a chi non lo conosce viene insegnato sul posto. La guida porge un foglio bianco, tipo quelli da stampante, poi invita
a strappare da terra un abbondante ciuffo d’erba. Quindi fa appoggiare il foglio alla rupe sopra le incisioni, e sfregare forte con l’erba sulla pagina bianca. Ed ecco apparire in color verde un calco, il “calco” di quel che fino a poco prima era invisibile. Un reperto individuale, gratis, a scelta tra migliaia di raffigurazione dei Camuni, il popolo primitivo che ha dato il nome alla valle. Chi ci va in gita, non si sottrae al ricordino. Poi magari tornato a casa lo butta, ma c’è anche chi invece l’ha incorniciato. A una donna della lunigiana, Lorenza Giannetti, è capitata una “romanzesca” vicenda. Il figlio Ermete, 13 anni, è andato in gita con la scuola alla “Riserva Incisioni Rupestri”. E nei pressi di Luine ha riprodotto alla meglio “una composizione di armi per formare un’immagine idoliforme” (i Camuni, tranne in casi rarissimi, non raffiguravano il volto umano; probabilmente tabù). Come altri ragazzi, Ermete è tornato a casa orgoglioso dell’illustrazione ottenuta con le sue mani. L’ha appesa al muro, poco sopra il computer, come fa con le foto ad ogni ritorno da una gita, finché ciò non viene sostituito da qualcosa di più recente. Quando a fine settimana la mamma ha fatto pulizia nella stanza del figlio, ha notato che il muro era macchiato di verde. Possibile che l’erba avesse “sfondato”, per sporcare anche il muro? Ha pulito la parete. Qualche giorno dopo, la macchia c’era di nuovo. Uno scherzo di Ermete? Il ragazzo ha negato. Allora la mamma ha pulito un’altra volta, e spostato la carta verdastra su i quaderni e i libri del figlio, aspettando di vedere che cosa sarebbe accaduto. Sul muro la macchia verde è rifiorita, mentre la carta non ha sporcato niente. Come una sfida che l’affascinava, Lo-
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renza ha preso della tinta bianca da parete e ha coperto il verde. Niente da fare, di lì a poco l’ombra verdastra è riapparsa. L’imbianchino ha detto che è impossibile, essendo la tinta da parete molto coprente. Ciò ha scagionato definitivamente il figlio. L’uomo ha consigliato di rimuovere l’intonaco, però la spesa era accessiva. Il ragazzo, abituato – parole sue –- agli effetti speciali del film Il Signore degli Anelli, s’è limitato a suggerire di parlarne con Dinella, una conoscente un po’ stralunata e sensitiva, che incuriosita s’è precipitata sul posto. Sapeva che le incisioni rupestri della Valcamonica sono state inserite fin dagli anni ‘70 del secolo scorso, primo titolo dell’Italia, nell’elenco mondiale dell’Unesco (l’ente culturale delle Nazioni Unite) quale patrimonio dell’umanità. Ha anche aggiunto che osservandole si compie un viaggio come nel tempo, però certe strane raffigurazioni sembrano proprio indecifrabili. Appena Dinella è entrata nella stanza di Ermete si è messa silenziosamente in concentrazione. Poi ha aggiunto che le pareti di casa sono un po’ come quelle delle caverne, e che in questi verdastri graffiti dei Camuni poteva celarsi un messaggio. Ma quale? La risposta, stando alla sensitiva arrivò proprio in quel momento dalla televisione, con un servizio d’attualità dal palazzo dei congressi di Darfo Boario Terme: “Salviamo i graffiti della civiltà dei Camuni, un patrimonio che il mondo ci invidia”. Dopodiché, a incredibile ma suggestiva riprova che il messaggio è stato intuito, la macchia verde in casa di Ermete è appassita da sola fino a sparire. Sappiamo di non sapere: l’antico detto filosofico è ancora valido per darci un’emozione.
LABORATORI
Parole guardate Percorsi letterari e teatrali, gialli e noir ispirati ai romanzi di Maurizio de Giovanni
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teatrale che ha avuto come protagonista la letteratura noir. Giovedì 9 giugno Maurizio de Giovanni in Piazza del Popolo è stato protagonista di un dibattito, in cui ha parlato del suo ultimo libro, dei suoi esordi e ha risposto alle domande del pubblico. Venerdì 10 giugno a partire dalle ore 18 il centro storico di Peccioli si è trasformato in un palcoscenico. Sono andati in scena gli allievi dei corsi di teatro per ragazzi e per adulti e sono stati letti gli elaborati del laboratorio di scrittura creativa. Palazzo Pretorio poi si è trasformato in una sala cinematografica. Sono stati proiettati video di giovani produzioni pisane in tema con l’iniziativa: la puntata pilota della web serie Pisa Violenta e il trailer del film Il giocatore invisibile (alcune scene sono state girate a Ghizzano), che sta concorrendo a importanti festival internazionali, ed erano inoltre presenti stand delle più importanti case editrici e librerie della provincia.
a Fondazione Peccioliper ha organizzato a partire dal mese di gennaio “Parole Guardate”, un progetto in cui grandi e piccini hanno potuto mettersi alla prova in un laboratorio di teatro per adulti, un laboratorio di teatro e canto per ragazzi e un laboratorio di scrittura creativa, un progetto che ha lo scopo di educare al teatro, alla scrittura e alla lettura. Un filo rosso, anzi giallo, ha unito i tre laboratori: punto centrale sono stati i personaggi, il mondo e le storie dei romanzi dello scrittore napoletano “noir” Maurizio de Giovanni. L’intenzione era quella di partire da storie già esistenti per costruirne altre, attraverso un percorso di produzione culturale, che coinvolgesse attivamente i cittadini di Peccioli e della Valdera. Il 9 e il 10 giugno 2016 Peccioli ha quindi ospitato una due giorni dedicata ai romanzi di Maurizio de Giovanni. Un minifestival letterario-
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Irene Barbensi
Maurizio de Giovanni rappresentazioni laboratori teatrali
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TEATRO
il ritratto di Dorian Gray il mito dell’eterna giovinezza tra photoshop e lifting Piergiorgio Pesci
DoRIAN GRAY, “la bellezza non ha pietà” Teatro la Fenice 6 e 7 agosto 2016 Produzione & Costumi Pierre Cardin Autore, testi e musiche Daniele Martini Direttore artistico e scene Rodrigo Basilicati Regia Wayne Fowkes Arrangiamenti e suono Daniele Falangone Designer video Sara Caliumi Designer luci Paolo Bonapace Protagonista Matteo Setti con Thibault Servièrev
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l ritratto di Dorian Gray, romanzo di Oscar Wilde entrato nell’immaginario di ognuno di noi, venne stampato nel 1891 e mai come oggi rivela la sua modernissima identità. Dorian, per rimanere eternamente bello e giovane, come rappresentato in un ritratto, stipulerà una sorta di patto con il diavolo, grazie al quale il quadro che lo ritrae mostrerà i segni inesorabili della decadenza fisica e della sua corruzione morale, ma lui resterà sempre nella pienezza della gioventù e della prestanza. Il quadro patirà le miserie della sorte al posto di Dorian, invecchiando di giorno in giorno e portando i segni pesanti dell’inevitabile quotidiano. “Il ritratto di Dorian Gray” è un grande capolavoro della letteratura inglese ed è una vera e propria celebrazione del culto della bellezza e della giovinezza. Oscar Wilde celebrerà tale culto durante tutto l’arco della sua esistenza, sia attraverso la sua produzione artistica sia con il suo modo di comportarsi decisamente anticonformista e anti vittoriano, disprezzando il buon senso e le consuete regole della morale borghese. Questa opera, come molte altre in seguito, si ispira alla leggenda di Faust ed al mito di Narciso. Il giovane Dorian si muove in un mondo svuotato di ogni valore, dominato dalla falsità, dal culto della bellezza esteriore e dall’artificio. Tutto viene alterato e corrotto nella coscienza del protagonista e l’abito da sera con cui viene trovato morto è l’ultima maschera indossata da un uomo che, volendo sfuggire alle leggi della vita, ha perduto, con la vita, anche se stesso. Da qui la grande e perdurante fortuna dell’icona creata da Oscar Wilde. La società contemporanea fondata sull’apparenza e sull’apparire ha restituito sempre più vigore
al mito di Narciso. La prima versione cinematografica del romanzo è del 1910. Del 1945 è la famosissima versione statunitense con Lowell Gilmore e Angela Lansbury con la regia di Albert Lewin. Del 2009 il film con Ben Barnes e Colin Firth diretti da Oliver Parker. Il teatro non è stato da meno. Nel 2008 il coreografo Matthew Bourne creò un balletto con le musiche di Tarry Davies e nel 2002 il regista Tato Russo ideò una versione musical. È di questi giorni la notizia che debutterà in prima mondiale il 6 agosto prossimo alla Fenice di Venezia uno spettacolo musicale, tra pop e classico, dal titolo “Dorian Gray, la bellezza non ha pietà” con musiche e testi di Daniele Martini. Lo spettacolo è prodotto da Pierre Cardin, novantaquatrenne stilista italo-francese, che ha strizzato l’occhio al tema della moda a lui tanto caro, così come all’autore del famoso romanzo. Oscar Wilde, icona dandy
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di tutti i tempi, infatti, affermava: “La moda è ciò che uno indossa. Ciò che è fuori moda e ciò che indossano gli altri”. Ma, forse, neppure il caro Oscar avrebbe mai immaginato le numerose versioni moderne del suo Dorian muoversi con tanta naturalezza in questa nostra società “politically correct”, mentre il loro avatar si deforma come il ritratto del romanzo. Ai giorni nostri la sindrome di Dorian è dilagante. Grazie all’utilizzo di photoschop l’immagine è sempre curatissima e i ritocchi estetici, come liposuzione e lifting, sono alla portata di tutti. Nessuno di noi forse sarebbe disponibile a vendere l’anima al diavolo, ma chi non ha pensato almeno una volta di rimodellare l’ovale del volto o di cancellare le zampe di gallina? Con buona pace di Narciso, di Faust e di Dorian mai come ai giorni nostri la bellezza pare essere un valore irrinunciabile.
LUGLIO 2016
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Ensemble di fiati, pianoforte e percussioni “Musica dal nuovo mondo: dagli spiritual al blues e al musical”
“Una serata unica” Spettacolo a pagamento
Compagnia PeccioliTeatro Andrea BUSCEMI in di Neil Simon
con Giuseppe PICONE e Letizia GIULIANI
Coreografie di Kristian CELLINI “Tortuga in Paradiso Tour” Spettacolo a pagamento
Serena AUTIERI e Paolo CONTICINI in “Vacanze Romane”
Opera in due atti di Gioachino Rossini
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dalle ore 18,30
BOHEMIANS PONTEDERA in
“Fantasma dell’Opera” Musical
Compagnia PeccioliTeatro Andrea BUSCEMI in “Il bugiardo” di Carlo Goldoni a seguire FestaAlChiarDiLuna
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per Piccini
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dalle ore 17,00
Peccioli, Museo Archeologico Presentazione di un corredo funerario medievale. Giochi medievali, spettacolo teatrale, riproduzione 3D
“A little sweet concert” Teatro dell’aringa Spettacolo-concerto per bambini da 0 a 3 anni e donne in attesa Peccioli, Palazzo Pretorio Posti limitati prenotazione obbligatoria
INFO e BIGLIETTI
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ven
Fondazione Peccioli per Piazza del Popolo 5, Peccioli (PI) tel. 0587 672158 - 0587 936423 info@fondarte.peccioli.net Undici Lune a Peccioli @peccioliper
ore 21,00
SERATA SPECIALE LIONS GOT TALENT Spettacolo a pagamento
www.fondarte.peccioli.net
©Archivio Fotografico Fondazione Peccioliper, foto di Gianni Mattonai
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Il mistero della dama di Santa Mustiola
Foto:
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“Serata d’Onore A lezione da Placido... di cinema, teatro e poesia”
La cintura di Isadora Le Notti dell’Archeologia gio
Su libretto di Cesare Sterbini Spettacolo a pagamento
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“Il Barbiere di Siviglia”
Michele PLACIDO in
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Antonello VENDITTI in
Spettacolo a pagamento
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“Trittico Barocco”
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Progetto grafico Fondazione Peccioliper
“L’ultimo degli amanti focosi”
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Maurizio BATTISTA in
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Coro dell’Università di Pisa
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TEATRO
William
Shakespeare Ricordando il Bardo a quattrocento anni dalla scomparsa Martina Benedetti
Andrea Buscemi, Gigi Proietti, Giorgio Albertazzi in attesa del debutto dello spettacolo al teatro Romano di Verona del Falstaff diretto da Gigi Proietti Andrea Buscemi
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ella primavera del milleseicentosedici moriva William Shakespeare. Il sipario sulla sua misteriosa vita cala proprio a Stratford sull’Avon, la cittadina che lo aveva visto nascere appena cinquantadue anni prima, nel 1564. Poeta, drammaturgo, teatrante e imprenditore; conosciuto anche come “il Bardo” (ovvero Cantore di epiche imprese), proviene da una famiglia di borghesi agiati poi decaduti. Di madre cattolica, fa conoscenza fin da ragazzo con quel culto e con quella mentalità. E a soli diciotto anni sposa la venticinquenne Anna Hathaway dalla quale avrà i figli Susan, Hamnet e Judith. Nel 1586 se ne va a Londra a cercar fortuna, forse già con il desiderio di fare Teatro dopo aver assistito nel paese natale a qualche spettacolo, e trova impiego da James Burbage (impresario che nel 1576 aveva costruito a Shoreditch il primo regolare teatro pubblico chiamato The Theatre) come attore e raffazzonatore di copioni da mettere in scena. Con i compagni di mestiere frequenta le taverne di Londra, dove avvengono riunioni di carattere letterario (da qui il detto, famoso
fra i teatranti:“i grandi drammaturghi di Francia cercateli a Corte, ma quelli d’Inghilterra li troverete nelle taverne”) e grazie all’amico Richard Field, editore e autore di opere erudite, decide di riprendere gli studi interrotti e i contatti con la poesia pubblicando, intorno al 1594, due poemetti: Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia. I letterati lo salutano come il “Terenzio inglese” e lo introducono tra i Signori amanti delle lettere, dove William conoscerà l’umanista Giovanni Florio, da cui apprenderà tutto il possibile d’italiano: dalle novelle del Da Porto al Bandello, da Ariosto a Machiavelli. Proprio dal repertorio della nostra penisola, infatti, Shakespeare attinge e, senza inventare ma adattando le storie con enormi capacità, vive per anni col mestiere del teatro. Si dice che la vita del grande Poeta inglese sia poco documentata e, se lo è, sempre a macchia di leopardo (perciò le numerose versioni che lo vedono anche di nascita italiana) ma, notizia certa invece è che, alla morte di Burbage nel
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1597, William diventa socio con il figlio di questi: Richard Burbage, considerato il più grande attore dell’epoca, dalla voce calda e dal gioco mimico potente. Il Theatre è demolito ma si costruisce il Globe, inaugurato (assieme alla fresca società) con la messinscena dell’Enrico V. Così Shakespeare è adesso attore, autore, impresario e regista. Fedele alla folla, che vuole il clown anche nella tragedia, e alle capacità della compagnia (insieme a Burbage junior c’è Kempe, buffone prediletto dal pubblico) Shakespeare non solo alterna commedie e drammi ma introduce nel tragico elementi e personaggi comici. Al Globe Shakespeare metterà in scena i suoi capolavori: Romeo e Giulietta, Otello, Amleto, Re Lear. La sua fama diviene grande, come la sua agiatezza economica, tra la paga da attore, i proventi d’autore, il dieci per cento dei guadagni col Globe. La regina Elisabetta lo predilige e dal 1599 lo chiama a Corte con la sua compagnia. Nel 1603 il nuovo re, Giacomo
I, concede alla compagnia del Globe il titolo di King’s Men e l’autorizzazione a recitare in qualsiasi città del Regno. Shakespeare diviene inoltre socio di Burbage anche nella gestione di un secondo teatro fino a che, nel 1612, decide di abbandonare Londra per tornare a vivere nella campagna natale, dove resta fino alla morte. La fine della vita terrena di Shakespeare non arresterà però le rappresentazioni delle sue opere, che tramandate di generazione in generazione, e di compagnia in compagnia arrivano fino a noi con una sorprendente forza e modernità. La produzione è vastissima (dai sonetti ai drammi storici e dell’antichità, dai grandi drammi “umani” fino alle commedie); lo stile, pur risentendo di quello dei predecessori, diventa personalissimo e il motivo centrale dell’opera, attraverso più intrecci paralleli, si moltiplica e si allarga per assumere una portata universale. Come attore, Shakespeare fu probabilmente mediocre e non interpretò ruoli da protagonista ma, certamente almeno una volta, nelle Allegre comari di Windosor, vestì i panni di Sir John Falstaff, cavaliere grasso e vanaglorioso. Certamente questo presuntuoso e bellissimo personaggio era stato scritto per un grande attore comico, forse John Heminges o John Lowin (che poi in effetti subentrò) e, a seguire, nel corso dei secoli è stato interpretato
da una carrellata di grandi attori (da Edmund Kean a Orson Welles), mi piace però soprattutto ricordare che in tempi recenti nel nostro Paese due sono gli attori che mirabilmente hanno reso giustizia al celebre Falstaff, in modi diversi ma entrambi straordinari: Giorgio Albertazzi (nell’edizione del 2001 per la regia di Gigi Proietti) che, ultimo di una generazione di grandi attori, ci ha lasciato proprio quattrocento anni dopo il Bardo, provocando smarrimento in chi, come me, si era romanticamente attaccato all’idea di un’immortalità (data la longevità dell’uomo) dell’Artista e, per riflesso, del Teatro; e Andrea Buscemi (nell’edizione del 2013 con la regia dello stesso) che precedentemente, col ruolo del ceffo Pistola, aveva già preso parte al cast del Falstaff di Proietti con Albertazzi. Andrea Buscemi ha uno spirito molieriano (e di Molière infatti ha interpretato i più grandi protagonisti) ma, nel ripercorrere la vita di Shakespeare, mi viene da dire, anche shakespeariano. Insomma: il suo approccio è quello di chi negli anni ha “sventrato la bambola” del Teatro, ne conosce tutte le bellezze e le fatiche, le avventure e le disavventure, gli aspetti tecnici e artistici. Di chi, in definitiva, come Shakespeare è poeta e impresario e come Molière capocomico e tappezziere. Personalmente, ho avuto la fortuna di lavorare a fianco di Buscemi con la
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compagnia PeccioliTeatro, sia nelle Allegre comari di Windsor (del cast ricordo Roberto Ciufoli nei panni del cornuto Ford e Livia Castellana – attrice storica della compagnia – in quelli della vivace comare Page, mentre a me fu affidato il bel ruolo di Annetta Page) che ne Il Mercante di Venezia (con la bella Eva Robin’s nel ruolo di Porzia e ancora la bravissima Livia Castellana nel doppio ruolo di Nerissa e Lancillotto; io feci Gessica, figlia dell’ebreo Shylock interpretato da Buscemi ) e di vederlo all’opera replica dopo replica, in giro per l’Italia, sempre accolto da un pubblico entusiasta e plaudente. Del resto, Andrea Buscemi (che nella sua carriera ha frequentato Shakespeare anche con Nando Gazzolo, Oreste Lionello, Antonio Salines, Flavio Bucci, Corinne Clery e il Teatro del Carretto in tournè internazionali, e nel suo palmares annovera anche il ritratto di Edmund Kean il più grande interprete di tutti i tempi delle opere del Bardo), inserendosi meritatamente nella tradizione dei grandi attori, portando se stesso e la sua forte personalità in ogni personaggio che mette in scena (dal corposo ed epicureo John Falstaff che aveva sedotto Albertazzi – come affermò egli stesso in un’intervista – al diabolico Shylock che si fa amare dal pubblico giustificando appieno le sue perfidie poiché sono il risultato di una sofferta “diversità”) compie ciò che lo stesso Shakespeare aveva fatto con la scrittura: si impadronisce di scenari altrui per trasformarli a modo suo, pur rispettandoli, e restituirli al vasto pubblico elevati all’ennesima potenza. Così anche oggi il dramma shakespeariano continua a rappresentare non solo un caso, ma rappresenta il mondo. Questa è la potenza di Shakespeare e la spinta a mettere ancora in scena le sue opere in un’epoca radicalmente cambiata, distratta, alienante, ma frequentata comunque e sempre dall’Uomo che, tra gioie, dolori, atrocità e felicità, si dimena durante la sua ora sulla scena, e poi non se ne sa più nulla.
La messiscena di Falstaff Le allegre comari di Windsor e il Mercante di Venezia per Peccioli teatro Buscemi, Pistola e Albertazzi in Falsatt. Regia di Gigi Proietti
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INTERVISTA
Giulia Lazzarini Carla Cavicchini
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ttanta primavere e passa con l’entusiasmo e la freschezza d’una liceale. Una liceale timida, riservata, sognatrice, che... quasi sta in disparte quando è fuori dal mestiere eppure, quando ne è partecipe, emana una luce ed una sensibilità così profonda che quasi incanta per la professionalità con la sua vocetta di bimba! Giulia Lazzarini è stata magistrale nel film Mia madre, il lavoro di Nanni Moretti vincitore all’ultimo Festival di Cannes. Un film che parla delle cose mai dette con tutti i rimpianti che seguono nei confronti della cara mamma che se ne sta andando. Una storia capace d’analizzare la cronica mancanza di tempo che attanaglia tutti noi facendoci poi però domandare nonché inquietare con: “perché? Abbiamo visto – forse rispecchiandoci in esso – uno struggente film che interroga sulle cose rimaste in gola... sui sui mille impegni di lavoro che ci portano via dagli affetti a noi più cari. È quindi una pellicola che presenta il conto con tutti i nostri rimpianti, attraverso anche la delicata Margherita Buy, nel ruolo di regista. Lei è così! con quegli occhioni color del cielo che ci
trasmettono, ci parlano del suo essere demotivato e troppo teso, mentre sua madre col suo bel volto cosciente e serafico, si appresta al cambio di vita. Plauso più che dovuto alla Lazzarini “luminosissima” nel letto di morte, senza un minimo alone di stanchezza. Sul red carpet durante la premiazione, stupiva per il suo essere così minuta, delicata, d’una semplicità estrema, con tanti sorrisi e totale assenza del divismo. Insegnanti? Beh... Moretti è come se togliesse, ti “asciuga”, la recitazione apparentemente può sembrare persino ripetitiva, monotona, eppure, messa nel contesto giusto, regala un gran senso alla scena ed alla parola. Nanni è un uomo molto profondo. Altri? Quella chioma argentea di Giorgio Strehler... Strehler mi ha dato tanto, tantissimo... a tutti noi diceva sempre che nelle cose bisogna confrontarsi, porsi con disciplina ed umiltà andando ben bene in profondità verso di esse. Con lui si lavorava benissimo, stupendamente! Giorgio mi manca, tanto! Assieme agli altri attori combattemmo tutti assieme le sue tante battaglie e
Margherita Buy e Giulia Lazzerini in un a scena del film di Nanni Moretti Mia madre Giulia Lazzerini
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di questo ne sono orgogliosa, sì! Felice ed orgogliosa di essergli stata così accanto. Lui però non fece mai cinema... Beh... cinema e teatro viaggiano su tempistiche molto diverse e forse le sue elaborazioni erano troppo lunghe per portarle sul set, però adorava stare in mezzo ai suoi attori! La vita è un teatro oppure è il teatro che è vita? Mah... la vita talvolta è puro teatro, anche ridicolo e penoso... il teatro è vita, rivitalizza ed io continuo ad amarlo profondamente. Le capita d’interrogarsi sull’ aldila? Sorride, abbassa lo sguardo, medita e poi tutta cristallina... La vita, la morte... non siamo eterni. Questo è un pensiero ricorrente che ci segue tutta la vita. C’è chi lo patisce, chi lo esorcizza... Leopardi insegna. L’importante è vivere serenamente lasciando qualcosa anche agli altri in questo breve spazio di tempo che ci è concesso.
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ART uP ART - le mille anime dell’India
Il Grande Viaggio, le sorgenti e il sacro di e con Giuseppe Cederna Musiche dal vivo di Alberto Capelli 20 giugno 2016, ore 21.30
San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato PEM HABITAT TEATRAlI
Caino Royale
con Andrea Bochicchio e Giovanni Longhin regia Rita Pelusio
24 giugno 2016, ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato
ASSoCIAZIoNE ARACNE MoNTEMuRlo TEATRo
Un viaggio lungo un mondo
Racconto sulla vita e sulle opere di don Lorenzo Milani di Claudia Cappellini Regia e con Gionni Voltan
27 giugno 2016, ore 21.30 San Miniato, Misericordia di San Miniato Basso A.C. FIoRE&GERMANo
Eppur mi son scordato di me di Gianni Clementi Regia e con Paolo Triestino scene Francesco Montanaro. luci Giuseppe Magagnini
5 luglio 2016, ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato uRA TEATRo
Per obbedienza. Dell’incanto di frate Giuseppe Con Fabrizio Pugliese
8 luglio 2016, ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato CoMPAGNIA DEll’EREMo – FoNDAZIoNE MAZZolARI
Don Primo Mazzolari, un prete scomodo di e con Antonio Zanoletti
11 luglio 2016, ore 21.30 Cigoli, Santuario della Madre dei Bimbi FoNDAZIoNE ISTITuTo DRAMMA PoPolARE – CoMPAGNIA TEATRo BEllI di ANToNIo SAlINES Srl e ASSoCIAZIoNE CulTuRAlE ARCA AZZuRRA
Il Martirio del Pastore
di Samuel Rovinski con Antonio Salines e Edoardo Siravo e con Gianni De Feo, Riccardo De Francesca, Michele De Girolamo, Fabrizio Bordignon, Gabriella Casali, Eleonora Zacchi, Alessandro Scaretti, Marco De Francesca Regia di Maurizio Scaparro Aiuto regia Alice Guidi. Assistente alla regia Eleonora Zacchi Traduzione ed elaborazione del testo Eleonora Zacchi Organizzazione Riccardo De Francesca Canti popolari eseguiti fa Gianni De Feo Musiche originali Eduardo Contizanetti Impianto scenico Maurizio Scaparro Costumi Giuliana Colzi Luci Marco Messeri
dal 14 al 20 luglio 2016, ore 21.30 San Miniato, Piazza Duomo
LXX FESTA DEL TEATRO
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37° Festival La Versiliana LUGLIO 11 Luglio - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Il Canto dell’usignolo - Glauco Mauri e Roberto Sturno 13-14 Luglio - Prosa Il berretto a sonagli, di Luigi Pirandello - Sebastiano Lo Monaco 15 Luglio I tramonti Shakespeariani – Il Tempo di un Sogno (Omaggio a Shakespeare) Christian De Sica 16 Luglio - Pop Bobo Rondelli con progetto Ciampi e 4 archi 17 Luglio - Pontile di Tonfano: Omaggio a Giancarlo Bigazzi - Io canto e tu - Raffaele Giglio, Giorgio Gulì, Motin 18 Luglio - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Otello - Alessandro Haber 19 Luglio - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani – Le allegre comari di Windsor - Giampiero Ingrassia 20 Luglio - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Dichiaro guerra al tempo - Manuela Kusterman - M. Giglio 21 Luglio - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Libro II - Troia espugnata - Massimiliano Wertmuller 21 e 22 Luglio - Danza Gala Roberto Bolle & Friends - Roberto Bolle 23 Luglio - Danza - Trittico - Ater Balletto 24 Luglio - Pop - Cristina D’Avena e la sua orchestra 25 Luglio I tramonti Shakespeariani - Riflessioni sul Bardo - Tra pittura e parola Lectio magistralis di Vittorio Sgarbi 26 e 27 Luglio - Prosa Re Lear, di William Shakespeare - Giuseppe Pambieri 28 Luglio - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Libro IV - Didone Maddalena Crippa 29 Luglio - Pop Un grande abbraccio - Paolo Ruffini con compagnia Mayor Von Frinzius 31 Luglio - Danza Sheherazade - Carla Fracci
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AGOSTO 1 Agosto - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Romeo e Giulietta Edoardo Siravo e Vanessa Gravina 1 Agosto - Pop - Gran Galà dell’operetta 2 Agosto - Pop - Giovanni Allevi piano solo 3 Agosto - Prosa - Il Malato Immaginario, di Moliere - Andrea Buscemi e Nathalie Caldonazzo 4 Agosto - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Libro VI - Enea agli inferi Amanda Sandrelli 4 Agosto - Danza -Decalogus (balletto) - Cristin Jazz 5 Agosto - Pop - Ritratti in musica: tributo a Mina, Mia Martini, Ornella Vanoni, Loredana Bertè 6 Agosto - Danza - Serata Bigonzetti - Mauro Bigonzetti 7 Agosto - Pop - Maurizio Battista 8 Agosto - Pop - Rocco Hunt 8 Agosto - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Da me a Riccardo III Ennio Fantastichini 9 Agosto - Pop - Roberto Vecchioni con Ensamble di 22 elementi 10 Agosto - Pop - Michael Jackson Tribute Show - Con Sergio Cortes - By Rock Opera 11 Agosto - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Libro VII - Enea risale il Tevere - Giuseppe Cederna 11 Agosto - Prosa - Caravaggio - Vittorio Sgarbi 12 Agosto - Pop - Tiromancino 13 Agosto - Pop - Giandomenico Anellino: Lucio Battisti, un’Emozione senza fine 14 Agosto - Pop - Incontro con Francesco Guccini e la partecipazione dei musici 16 Agosto - Danza - Carmina Burana - Fredy Franzutti/Balletto del Sud 17 Agosto - Pop - Anna Oxa 17 Agosto - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Libro IX – Eurialo e Niso Laura Lattuada 18 Agosto - Danza - Electricity - Antony Heinl/Evolution Dance Theatre 19 Agosto - Pop - Tony Hadley da Sinatra agli Spandau Ballet 20 Agosto - Pop - Renzo Arbore con l’Orchestra Italiana 21 Agosto - Operetta -La vedova allegra (operetta) 22 Agosto - Pop - The Cinema Orchestra - Paolo Ruffini con Rock Opera 23 Agosto - Pontile di Tonfano: I tramonti Shakespeariani - Nella mente e nel cuore (Omaggio a Shakespeare) - Lando Buzzanca 24 Agosto - Danza - Carmen , di Bizet - Fredy Franzutti 25 Agosto - Pontile di Tonfano: Eneide, un racconto mediterraneo - Canto X - Canto apocalittico - Tullio Solenghi 26 agosto - Luna - Teatro Civile - Barbara Boboli
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MOSTRA
MOGA
DOR
Torre del Lago. foyer del Teatro Puccini Adolfo Lippi
Vito Tongiani Pescatori nel porto di Mogador, 2015 olio su tela cm 89x116 Vito Tongiani Le bandierine dei palamiti, 2015, olio su tela cm 70x100 Veronica Gaido Il tintinnio degli alberi all’alba, 2014, baritata cm 100x150
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ito Tongiani, pittore e scultore, Veronica Gaido, fotografa, si sono uniti in un’impresa superba: raccontare una località del Marocco, Essaouira, nei suoi colori, nei suoi abitanti, nella sua quotidiana vita, nella sua natura ancora benissimo difesa dalle contaminazione del facile consumo turistico. L’unione dei due artisti produce una mostra che viene ospitata nel tempio musicale dedicato a Giacomo Puccini in Torre del Lago (14 luglio - 30 agosto). Perché Puccini? Perché il Maestro nelle sue opere (specie la “Butterfly”) denuncia quali sciagure provochi l’invasione superficiale dell’occidentalismo sulle antiche civiltà. Vito Tongiani è autore importante e noto. Suoi sono il monumento a Puccini di fronte alla casa natale in Lucca e il monumento a Indro Montanelli a Milano. Suoi sono i bellissimi quadri acquisiti dal Senato e il recente ratto di Europa. Per il Marocco Tongiani ha sempre avuto un amore forte, vive come una liberazione esistenziale l’incontro tra innocenza vitale di luoghi e un’umanità esotica.
Quest’innocenza è fatta di atmosfere, suggestioni, colori introvabili. L’artista che per anni ha vissuto e lavorato in Francia, ha ricalcato le orme di artisti e letterati che si sono ispirati all’Oriente. Le sue donne non sono più oggetto del trastullo coloniale, ma ragazze indomite che appartengono all’oggi difendendo, strenuamente, tradizione, sensualità innata e leggenda. Veronica Gaido fotografa, con tocco impressionista, frammenti di paesaggio, gabbiani, barche e pescatori, sottraendoli alla sostanza figurativa, facendone delle apparizioni leggere, forme fragili, desunzioni, fughe musicali che hanno la profonda illuminazione di un miraggio. La Gaido fece nel 2014 una rammentata mostra a Forte dei Marmi per il centenario e i suoi progetti sono stati esposti nelle più importanti gallerie europee. La vita cittadina e il porto di Essauira hanno suscitato un fascino e un senso di meraviglia, spingendoli a raccon-
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tare una realtà così suggestiva, con i mezzi della pittura e della fotografia. Il porto soprattutto: che non è solo il luogo da cui si parte e dove si arriva, ma anche uno spazio domestico, il rifugio di un luogo chiuso, al riparo dai pericoli del mare aperto. Nel porto e sulle imbarcazioni lavorano persone schive, di poche parole, che per la dignitosa miseria della loro condizione non hanno nulla da dimostrare se non quel che sono. Quella condizione e quella dignità si riflettono sul carattere della città, che è lo stesso dei suoi abitanti e viene a definire una struttura urbanistica elementare, fatta di architetture semplici e rigorose, e di spazi angusti e silenziosi come quelli della Medina. Tutto convive in assoluta tolleranza e nel rispetto delle diverse funzioni, e persino i gatti che vivono fra le barche e nei vicoli, dormono dove vogliono e quando ne hanno voglia, tranquillamente, nella assoluta certezza che non saranno disturbati.
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62° FESTIVAL PUCCINI la musica di Puccini a casa di Puccini TOSCA
15 luglio / 6 e 11 agosto
La Fondazione Festival Pucciniano propone nel cartellone 2016 un tradizionale allestimento (scene Fondazione Festival Pucciniano) che segna il debutto all’opera di Enrico Vanzina, produttore, sceneggiatore e regista, protagonista assoluto della storia della commedia italiana. Tosca avrà come protagonisti il soprano Hui He (15 luglio), riconosciuta tra le interpreti più carismatiche e coinvolgenti del ruolo della cantante Floria Tosca, a cui si alternerà nelle recite successive un’altra acclamata interprete del ruolo, il soprano greco Dimitra Theodossiu. Al suo fianco nei panni del pittore Cavaradossi Marco Berti (15 luglio), tenore italiano tra i più contesi dai maggiori teatri lirici del mondo. Nelle recite successive in Cavaradossi il bravo tenore cileno Giancarlo Monsalve che nel corso della sua prestigiosa carriera ha interpretato i ruoli più importanti dell’universo operistico. Nel ruolo di Scarpia si alterneranno Lucio Gallo e Carlo Guelfi. Sul podio Philippe Auguin.
LA BOHEME
16 e 22 luglio / 5 agosto
Al Festival Puccini di Torre del Lago la rappresentazione de la Bohème di Puccini di cui il compianto Scola ha firmato la regia nel suo ultimo lavoro per il teatro lirico. Eccellenti protagonisti di questa affascinante produzione in Mimì, Angela Gheorghiu (16 e 22 luglio), vera e grande diva dell’opera, soprano rumeno tra i più talentuosi e brillanti del nostro tempo; nello stesso ruolo Silvana Froli, soprano lucchese riconosciuta interprete pucciniana. Nel ruolo di Rodolfo il tenore messicano Ramon Vargas (16 e 22 luglio), specialista del repertorio belcantista e acclamato interprete del ruolo pucciniano nei maggiori teatri del mondo e il tenore tunisino Lagha Amadi. Nel ruolo di Musetta si alterneranno Daniella Cappiello e Elisabetta Zizzo. Sul podio Alberto Veronesi.
TURANDOT
23-30 luglio/12 agosto a 90 anni dalla prima esecuzione
Andò in scena due anni dopo la scomparsa del Maestro il 25 aprile del 1926, e in quella prima assoluta il direttore Arturo Toscanini, dopo la morte di Liù, pose la bacchetta sulla partitura ed esclamò “Qui finisce l’opera perché a questo punto il Maestro è morto”. Il Festival Puccini di Torre del Lago celebra questo anniversario dei 90 anni dalla prima rappresentazione con una produzione entrata a far parte della storia degli allestimenti del Festival Puccini. L’impianto scenico, tradizionale, è firmato da Ezio Frigerio esaltato dai meravigliosi costumi del premio Oscar Franca Squarciapino, nella ripresa registica di Enrico Stinchelli. Nel ruolo della Principessa Turandot il pubblico di Torre del Lago potrà apprezzare Martina Serafin (23-30 luglio), soprano viennese che calca le scene dei più importanti teatri d’opera del mondo ed è considerata dalla critica una delle interpreti pucciniane a cui si alternerà per l’ultima recita il soprano sloveno Rebeka Lokar. Il Principe Calaf sarà il tenore coreano Rudy Park, già beniamino del pubblico del Festival Puccini stregato dalla sua travolgente interpretazione del “Nessun dorma” che generosamente bissa in tutte le sue recite sotto il cielo stellato del Teatro di Puccini. La schiava Liù, al debutto nel ruolo, sarà il giovane soprano umbro Francesca Cappelletti, perfezionatasi a Torre del Lago nell’interpretazione pucciniana con l’Accademia di Alto Perfezionamento. Sul podio il giovane Jacopo Sipari di Pescasseroli.
MADAMA BUTTERFLY
29 luglio / 10 agosto
nel celebre allestimento che ha inaugurato il percorso “scolpire l’opera” e che ha visto nel ruolo di scenografi grandi artisti contemporanei, sarà proposto con le scenografie del grande scultore giapponese Kan Yasuda. Lo spettacolo per la regia di Vivien Hewitt, si inserisce nel ciclo di eventi per le Celebrazioni dei 150 anni di Relazioni tra Italia e Giappone. Nel ruolo di Cio Cio San Donata D’Annunzio Lombardi, artista di riferimento per il ruolo della geisha di Nagasaki per la capacità di calarsi nel personaggio trasmettendo al pubblico emozioni palpitanti; al suo fianco, sul palcoscenico oltre che nella vita il tenore Leonardo Caimi amato dal pubblico per la grande padronanza scenica e il caldo timbro italiano. I costumi nell’originale concezione di Regina Schereker. Sul podio il maestro friulano Eddi De Nadai.
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ESTATE 2016 inizio spettacoli ore 21.30
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cINEMA
CANNES trionfa la speranza nel “duro“ film di Ken Loach Andrea Cianferoni
Ken Loach Palma d’Oro Cast del film di Isabelle Hupper Pedro Almodovar Steven Spielberg Isabella Rosselini e Claudie Ossard Uma Thurman Cast del Film Café Society Susan Sarandon Geena Davis Adele Exarchopoulos e Sean Penn Amal Clooney, George Clooney, Julia Roberts Jane Fonda, Francois-Henri Pinault, Salma Hayek, Jake Gyllenhaa
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miei personaggi vivono nella quinta nazione del mondo (il Regno Unito, ndr) ma sono poveri. Penso che vedendo questo film esca fuori un senso di indignazione. In fondo era questo il sentimento che volevo trasmettere. Queste le parole della Palma d’Oro Ken Loach, regista di I, Daniel Blake. In Italia sarà distribuito in autunno da Cinema di Valerio De Paolis, storico distributore di Loach fin dal ’91 con Riff Raff, che ha fatto conoscere e amare il regista inglese al pubblico italiano. Quello di Loach è un film duro sui nuovi poveri, quelli che ci sono vicini e non vediamo. Un film che fa ridere, almeno all’inizio, e poi piangere. Scritto da Paul Laverty, fedele collaboratore di Loach, ha come protagonista Daniel Blake (interpretato da Dave Johns), falegname sessantenne di New Castle. Per la prima volta nella sua vita è costretto a chiedere un sussidio statale in seguito a una grave crisi cardiaca. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma a causa di incredibili incongruenze burocratiche si trova nell’assurda condizione di dover comunque cercare lavoro – pena una severa sanzione – mentre aspetta che
venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Durante una delle sue visite regolari al centro per l’impiego, Daniel incontra Katie (Hayley Squires), giovane madre single di due figli piccoli che non riesce a trovare lavoro. Entrambi stretti nella morsa delle aberrazioni amministrative, Daniel e Katie stringono un legame di amicizia speciale, cercando come possono di aiutarsi e darsi coraggio mentre tutto sembra beffardamente complicato. «Il mondo in cui viviamo si trova in una grave situazione, le idee che chiamiamo neo-liberiste rischiano di portarci alla catastrofe, ovunque. Ma la disperazione è pericolosa, voglio dare un messaggio di speranza: un mondo migliore è possibile e necessario. Da questo palco voglio ricordare le tante persone che abbiamo incontrato durante le riprese nelle banche alimentari che sfamano la gente del mio Paese, il quinto più ricco del mondo». Alla soglia degli Ottant’anni, il regista britannico festeggia la sua seconda Palma d’oro, dieci anni dopo Il vento che accarezza l’erba. Al suo fianco, durante la premiazione, l’amica di sempre, la produttrice Rebecca O’Brien, la pri-
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ma a festeggiare il suo ritorno sul set con il fido sceneggiatore Paul Laverty. All’insegna della sorpresa il resto delle decisioni della giuria. «Le deliberazioni sono state molto sofferte e contrastate, magnifiche, appassionanti». E spiazzanti. Come l’ex aequo per la miglior regia a Olivier Assayas per Personal Shopper e Cristian Mungiu per Bacalaureat. O il premio per gli attori: Jaclyn Jose per Ma’ Rosa di Brillante Mendoza e Shahab Hosseini, star del film con cui Asghar Farhadi vince per la miglior sceneggiatura. Due donne nel palmares: Andrea Arnold, Premio della Giuria per American Honey, e l’esordiente franco-marocchina Houda Benyamina che vince la Camera d’oro per Divine e chiude il suo discorso al grido «Cannes à nous». Nessun film tricolore nel concorso principale, ma la forte presenza italiana nelle altre sezioni, non meno importanti: La Quinzaine des Réalisateurs, la Semaine de la Critique, Un Certain Regard. Tutti film diversi tra di loro ma accomunati da un unico filo rosso: la fuga. Fuga dalla realtà, dalla morte, dalla prigionia. Nel film di Stefano Mordini Pericle Nero, presente ad Un
Certain Regard, Riccardo Scamarcio è in fuga dai camorristi che lo vogliono morto. La sua fuga non solo gli darà la possibilità di incontrare una donna allo stesso modo sola e disperata, ma gli offre la possibilità di sottrarsi allo squallore della sua esistenza e di riscattarsi dall’umiliazione quotidiana. Nel film la pazza gioia di Paolo Virzi, alla Quinzaine, si racconta la storia amara e commuovente di due donne – interpretate da Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti – molto diverse tra di loro ma legate da un profondo senso di amicizia. La prima è una giovane e istrionica, di nobili origini e in quanto tale si è sempre concessa a uomini che rientrano nella categoria che lei definisce “i grandi della Terra”. Dall’altra parte, invece, troviamo una donna molto anticonvenzionale, che porta vistosi tatuaggi; entrambe sono etichettate come persone socialmente pericolose, in cura per problemi mentali. Ma sono alla ricerca di un angolo di felicità che le porterà ad una fuga strampalata nel “mondo dei sani”. Il regista affronta il tema del disagio mentale con una commedia avventurosa a tratti esilarante e a tratti commovente e che si pone l’obiettivo di ribaltare il concetto di malattia e sanità.
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MuSIcA
EUROVISION SONG CONTEST 2016 non sono più solo canzonette
Leonardo Taddei
Il palco dell’Eurovision Song Contest 2016 Jamala solleva il trofeo di fronte al pubblico della Ericsson Globe Arena Francesca Michielin durante la sua performance Sergey Lazarev, terzo classificato per la Russia L’esibizione della cantante Gabriela Gunčíková, che ha portato in finale la Repubblica Ceca per la prima volta nella storia del concorso Donny Montell, rappresentante della Lituania La performance della cantante bulgara Poli Genova, quarta classificata La cantante croata Nina Kraljić, vincitrice del Barbara Dex Award
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al 10 al 14 Maggio 2016 ha avuto luogo, a Stoccolma, la 61esima edizione dell’Eurovision Song Contest, il concorso canoro più seguito del mondo ed ideato sul modello del Festival di Sanremo, in cui ciascuna nazione partecipa eleggendo come proprio rappresentante un cantante o un gruppo, composto al massimo da sei elementi, che si esibisce dal vivo su base musicale. Nei giorni di martedì 10 e giovedì 12, presso la Ericsson Globe Arena, si sono svolte le due semifinali, in occasione delle quali ben quarantadue paesi in gara si sono dovuti conquistare i soli venti posti disponibili per l’accesso alla finale di sabato 14. Ad essi si sono aggiunti i Big Five, ovvero Francia, Germania, Spagna, Inghilterra ed Italia, nazioni già qualificate di diritto all’ultima serata in quanto teste di serie, e la Svezia, stato ospitante. Nonostante i ritiri di Portogallo e Romania, quest’ultima squalificata per non aver onorato il debito contratto con l’EBU, l’ente European Broadcasting Union che organizza l’evento, si sono registrati molti ritorni in gara da parte di artisti già presenti sul palco dell’Eurovision in passato: la bulgara
Poli Genova, giunta quarta quest’anno dopo l’eliminazione del 2011, Gréta Salome, che non è però riuscita a ripetere per l’Islanda la qualificazione del 2012, la maltese Ira Losco, già in gara nel 2002, Donny Montell, che aveva rappresentato la Lituania anche nel 2012, e Kaliopi, alla sua terza partecipazione per la Macedonia dopo quelle del 1996 e del 2012. Da sottolineare la storica qualificazione della Repubblica Ceca, rappresentata da Gabriela Gunčíková, che con il brano “I stand” ha portato il suo paese per la prima volta in finale, e la partecipazione del turco Serhat, in gara per San Marino, che non è tuttavia riuscito a superare lo scoglio della prima semifinale. Per quanto concerne i tre premi della critica, i Marcel Bezençon Awards, quello della sala stampa è stato assegnato al russo Sergey Lazarev, il premio artistico all’ucraina Jamala, ed il premio per il miglior compositore agli autori del brano australiano “Sound of silence” cantato dalla coreana Dami Im. Il Barbara Dex Award, l’irriverente riconoscimento per il peggior outfit della manifestazione, intitolato all’omonima cantante belga che nel 1993
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cucì da sola il proprio abito di gara, è stato vinto con largo margine dalla cantante croata Nina Kraljić, che ha dovuto inghiottire l’ennesima beffa dopo essere stata dichiarata come favorita della vigilia ed aver terminato il concorso soltanto in ventitreesima posizione. La classifica finale ha segnato uno spaccamento tra le decisioni della giuria e quelle del televoto. Al rush finale, la cantante ucraina Jamala, con la sua canzone “1944”, è risultata essere la vincitrice assoluta, pur terminando seconda in entrambe le classifiche, mentre Australia, prima per le giurie tecniche ma quarta al televoto, e Russia, solo sesta per i giurati ma prima per il pubblico da casa, hanno terminato rispettivamente in seconda e terza posizione. L’Italia è stata rappresentata dalla vincitrice di X Factor 2011 Francesca Michielin con la canzone “No degree of separation”, parziale traduzione in inglese del brano “Nessun grado di separazione”, con cui si era aggiudicata il secondo posto al Festival di Sanremo 2016. Nonostante la sua buona performance, l’artista italiana si è dovuta accontentare della sedi-
cesima piazza, certamente non aiutata dall’ambientazione agreste ricreata sul palcoscenico e che le è valsa, in sala stampa, il poco lusinghiero appellativo de “la verdulera”, equivalente spagnolo dell’espressione romana “la fruttarola”. Un’edizione al vetriolo, questa del 2016, con un’autentica pioggia di polemiche e ricorsi sull’EBU. Durante le semifinali, l’aria si era surriscaldata non poco quando la cantante armena Iveta Mukuchyan, per festeggiare la qualificazione, aveva esposto dopo la prima semifinale la bandiera del Nagorno-Karabakh, territorio conteso tra Azerbaigian ed Armenia. Nonostante poi in conferenza stampa l’artista avesse comunque precisato che il gesto era da considerarsi una mera richiesta di pace per la popolazione di quel territorio, il ministro degli esteri azero Hikmet Hajiyev ha voluto sottolineare come quell’azione sconsiderata avesse violato le norme del diritto internazionale e del concorso stesso, accusando la delegazione armena di sfruttare la visibilità dell’evento per fini politici. L’EBU, reputando il gesto estremamente grave, si è trovata perciò costretta ad intervenire con una sanzione per l’emittente armena AMPTV, intimando inoltre che ogni ulteriore atto della medesima natura si sarebbe automaticamente trasformato in una squalifica dal concorso. La delegazione armena, infatti, aveva già dichiarato in aprile l’intenzione di voler esporre sul palco la bandiera incriminata, in segno di protesta contro la pubblicazione, da parte dell’EBU, di una lista di bandiere bandite dallo spettacolo e che includeva anche quella del Nagorno-Karabakh in quanto stato non riconosciuto dall’ONU. Tale lista era stata aggiunta come compendio del regolamento dell’Eurovision Song Contest, il quale prevede che nessun messaggio che promuova organizzazioni, istituzioni, cause politiche, aziende, marchi, prodotti o servizi possa essere esposto durante la trasmissione dell’evento. Ad aggravare la situazione è sopraggiunta, oltretutto, la notizia che la canzone vincitrice violasse anch’essa la medesima norma, essendo fatto divieto di politicizzare i testi dei brani in gara. Come peraltro esplicitamente confermato dalla cantante stessa, il brano ucraino, dedicato alle deportazioni dei tatari della Crimea da parte delle truppe russe durante la seconda guerra mondiale, è una canzone politica a tutti gli effetti. Il risultato finale è stato, dunque, una beffa per la Russia, che l’ha interpretato, in chiave più attuale, come un vero e proprio attacco diretto al premier Putin ed alla sua leadership autoritaria nel condurre la crisi in Crimea del 2014. Oltretutto Jamala, la cui famiglia è originaria della
regione, ha voluto allargare il significato del brano, asserendo come il suo messaggio possa essere dedicato a tutte le popolazioni che hanno sofferto ed ancora soffrono le angustie della guerra. Secondo alcune indiscrezioni del quotidiano britannico Mirror, pare sia stato fatto di tutto, in effetti, per evitare la vittoria russa, che sarebbe risultata poco gradita a molti dei delegati delle altre nazioni per ragioni politiche, ed anche a molti fans dell’evento, che considerano il paese del Cremlino non abbastanza sicuro per le persone omosessuali e le associazioni GLBT, storicamente affezionate al concorso. Che i risultati della manifestazione appaiano ogni anno poco chiari agli occhi del pubblico è un rumore che circola da tempo nell’ambiente, seppure mai effettivamente confermato da nessuna prova, ma certamente le recenti dichiarazioni di Nicky Byrne, rappresentante dell’Irlanda proprio in questa edizione, hanno gettato ulteriore benzina su un fuoco già incandescente. L’ex cantante del gruppo Westlife ha addirittura parlato, in toni molti pesanti, della presenza di una “Grande Mafia Eurovisiva” che manipolerebbe la classifica finale, asserendo ai microfoni di RTÉ Radio 1 che, per tale motivo, neppure se fosse stata rappresentata dagli U2 l’Irlanda avrebbe avuto alcuna possibilità di superare la semifinale e vincere il concorso. Come se non bastasse, la canzone prima classificata, essendo stata eseguita pubblicamente prima del settembre 2015, avrebbe violato anche un’ulteriore norma prevista dal regolamento, quella riguardante le tempistiche di pubblicazione dei brani in gara. Tra i paesi promotori della protesta capeggia l’Australia, che, nel caso di una squalifica ucraina, diverrebbe di fatto la nuova vincitrice. Purtroppo l’EBU, che vorrebbe invece confermare il risultato già acquisito per evitare uno scandalo internazionale, ha addotto giustificazioni alquanto labili, dichiarando, con sconcertante semplicità, come la performance incriminata si riferisca ad un piccolo concerto visto solo da poche centinaia di persone, e che, pertanto, non possa costituire un evento significativo. Insomma, per riassumere tutte le contrastanti voci di questo animato dialogo si potrebbe citare il testo di una canzone di Edoardo Bennato: “La chitarra era una spada e chi non ci credeva era un pirata... mai nessuno mi darà il suo voto per parlare o per decidere del suo futuro, nella mia categoria tutta gente poco seria di cui non ci si può fidare... però a quelli in malafede sempre a caccia delle streghe dico no”. Oramai, però, non sono più “solo canzonette”. Foto: Thomas Hanses, Snapper
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EVENTO
Polo per una nobile causa Giampaolo Russo
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a pioggia non ha smorzato gli spiriti, nonostante tuoni e fulmini, e oltre 300 ospiti hanno partecipato al torneo di polo organizzato in Florida a Palm Beach per la raccolta di fondi da destinare alla lotta l’HIV / AIDS in Lesotho, Africa. Un programma prezioso, che offre una guida per i bambini che vivono con l’HIV – spesso senza genitori e nonni – che fornisce un’educazione essenziale per contrastare il diffondersi della malattia. Il concorso, molto combattuto, ha visto la Sentebale – la squadra del principe Harry – prevalere con sei punti, seguita dal team di Royal Salute con tre. Molti gli illustri ospiti del mondo dello sport e dello spettacolo. Il denaro raccolto aiuterà 1.500 bambini e adolescenti di età compresa tra 10 e 19 anni del campo residenziale del Centro Mamohato nel quale gli adolescenti sono in grado di educare i loro coetanei sui pericoli di trasmissione del virus. Sophie Gallois, Global Marke-
ting Director Chivas Brothers, sponsor dell’iniziativa, è molto orgoglioso che la coppa annuale di polo sia di vitale importanza per coloro che hanno contrato l’HIV / AIDS“. La Sentebale Royal Salute Polo Cup non sarebbe possibile senza la generosità degli sponsor. Sentebale è un ente di beneficenza co-fondata dal principe Harry e il principe Seeiso del Lesotho – un piccolo paese che confina con il Sudafrica. Il principe Harry ha visitato il Lesotho nel 2004 ed è stato colpito dall’effetto devastante che l’epidemia di HIV / AIDS stava avendo sulla popolazione ed in particolare sui bambini. Per questo è stato creato un ente benefico finalizzato a riscrivere il futuro per la popolazione impoverita del Lesotho, fornendo alloggio, cura, educazione e sostegno psicosociale. Se i bambini con HIV sono istruiti sul virus, essi non solo sono consapevoli della loro condizione, ma possono educare i loro coetanei sui rischi della malattia. www.royalsalute.com
Il match Nacho Figueras posa con il suo team Nacho Figueras, Cathy Delfina Blaquier
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INDuSTRIA
LINEAPELLE E LA LEADERSHIP DELLA CONCIA TOSCANA
Carlo junior Desgro
Stand conceria Testai Franco Donati presidente Associazione Conciatori nel suo stand Stand conceria San Lorenzo
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ositivo il bilancio di Lineapelle per i conciatori toscani che si confermano tra i più apprezzati del mercato grazie a investimenti mirati e a soluzioni innovative per la sostenibilità «La fiera ha confermato l’impegno e lo stato di salute delle concerie del nostro distretto, ancora una volta protagoniste dell’evento in termini quantitativi e qualitativi, grazie ad una capacità di innovare e intercettare al meglio le richieste del mercato»: questo il giudizio di Franco Donati, presidente Assoconciatori, sulla tre-giorni dell’evento fieristico milanese. Buyer, stilisti, creativi e produttori hanno tracciato, tra gli stand di Lineapelle, le probabili rotte, presenti e future, del mercato conciario, che pur nell’incertezza dello scenario economico globale in continua evoluzione non può rinunciare alla qualità della pelle made in Toscana, chiesta ora non solo dagli operato-
ri del lusso, ma anche dalla fascia media del mercato: «Questo dato ci conforta – aggiunge Donati – poiché alla base della qualità della pelle del nostro distretto ci sono investimenti onerosi e un impegno costante per migliorare i nostri standard. La pelle toscana di qualità è solo l’espressione finale e più preziosa di tutto un lavoro a monte che facciamo per coniugare impresa, rispetto dell’ambiente ed eticità». In quest’ambito procedono i lavori per la messa a punto della nuova certificazione di qualità, promossa dall’Associazione Conciatori con il supporto della Scuola Superiore Sant’Anna che mira a individuare una piattaforma chiara e universale di parametri di qualità. «Certificare senza poter essere smentiti che un determinato processo conciario rispetta i massimi standard qualitativi – continua il presidente Assoconciatori Franco Donati – potrà finalmente incidere anche sulle dinamiche del mercato
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dove spesso la posizione dei produttori rischia di venire ingiustamente penalizzata». il CLASSICO INTRAMONTABILE «La più significativa innovazione? Il ritorno alla semplicità»: Graziano Bellini, della conceria Dingo, fotografa così, nel suo stand dove risaltano pelli al vegetale dagli effetti vintage, la sintesi tra i desideri dei clienti e le esigenze dei produttori riscontrate a Lineapelle. «Buono il numero dei visitatori in fiera – aggiunge – e interessante nel complesso la qualità degli stessi, giunti all’evento dall’Europa o dal resto del mondo ma con un solo obiettivo: puntare sulla qualità». «Abbiamo proposto linee classiche ed altre più decise – dice Luca Giananti della conceria Dolmen, specializzata in pelli esotiche – con inserti molto preziosi che definiscono un effetto di gran pregio. L’innovazione costante è tra i nostri punti di forza». Brillanti e luminose, moderne o vintage, purché sempre pregiate: le pelli conciate in Toscana, declinate in mille sfumature di colore sono state protagoniste indiscusse di Lineapelle Milano. «Se solo il mercato può tradurre in numeri concreti il fermento che si respira tra gli stand della fiera, è intanto importante esserci – dice Filippo Francioni della San Lorenzo – proprio per un confronto diretto tra tutti i suoi attori». «Giusto presentare sia soluzioni più innovative che linee più classiche, per un ampio ventaglio di prodotti in grado di soddisfare le diverse richieste dei clienti» conferma Niccolò Banti, conceria Alba. «Il classico pregiato si conferma un intramontabile» concorda Francesco Testai, conceria Vecchia Toscana, sottolineando come nei momenti di maggiore crisi molti compratori possono rinunciare
a qualche richiesta eccentrica ma non fare a meno della qualità. Classico come scelta vincente, magari riletto con qualche spruzzata di originalità, anche tra i padiglioni delle concerie Miura e Bcn, per un’offerta di pelli morbide e duttili al tatto cui i clienti sembrano non poter resistere.
Stand conceria Dingo Stand della conceria Dolmen Stand della conceria Miura Stand conceria BCN Stand della conceria Alba
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Milano
l’ombelico del mondo quando abitare diventa uno stile di vita Federica Farini
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72.151 le visite agli stand di Rho Fiera della 55esima edizione del Salone del Mobile di Milano, di cui il 67% stranieri e presenze da 160 Paesi, appuntamento, quello del 2016, ancora più speciale grazie alla riapertura dopo vent’anni dell’Esposizione Internazionale della Triennale di Milano “Design after Design”: 20 mostre in 20 sedi cittadine per la manifestazione nata a Monza nel 1923 e trasferita a Milano nel 1933. Tra le sue esposizioni Stanze. Altre filosofie dell’abitare e Women in Italian Design, che ha sviluppato il tema della progettualità femminile, da un difficile Novecento al XXI secolo, ricco invece di un femminile capace di progettare, rischiare e sfidare. Stesso motto per Rho Fiera, suddivisa in tipologie stilistiche (Classico, Design) e XLux, col-
locazione dedicata ai prodotti fascia lusso, che hanno trionfato in legno scuro, colori accesi (turchesi, verdi petroli, blu carta da zucchero) e materiali classici come velluto, ottone e marmo. Borbonese, Fendi, Ferrè, Roberto Cavalli, Versace, Aston Martin, Ritz, Visionnaire tra i brand che hanno aderito. Suggestioni e novità per l’arredamento da esterni nello spazio Green, l’XLux di Samuele Mazza Outdoor Collection ha presentato la prima cucina da esterni e tessuti come il nuovo raso da outdoor. Originali le lanterne a led di Fabio Novembre per Kartell, la preziosa chaise longue “trasportabile” di Marcel Wanders per Louis Vuitton e le finiture dorate di Knoll International – made in Italy anni ‘60 di Warren Platner – con un’esclusiva finitura in oro 18 carati per poltrona,
no Marioni si è distinto per la seduta Joan: pelle colorata e soffice, struttura in metallo effetto ottone spazzolato con variante a rivestimento in tessuto e struttura acciaio spazzolato o cromato. D’effetto anche Veronica – la seduta per gli ambienti ampi e spaziosi, sospesa con cavi d’acciaio, in ottone spazzolato – e la lampada Cecile, sospesa e adatta anche ad ambienti come club o ristoranti. Il brand senese Stosa Cucine, prodotti certificati 100% made in Italy, ha svelato la qualità e la classe di Infinity, la cucina iper-funzionale caratterizzata dall’innovativo sistema di apertura Diagonal: la maniglia di apertura montata direttamente sull’anta, la cui inclinazione a quaranta gradi agevola la presa rispetto alle comuni aperture a trenta gradi. Sottotitolo per l’anno
poltroncina, sgabello, tavoli e Easy Chair con poggiapiedi. L’azienda pisana Softhouse ha sfoggiato tra le sue svariate creazioni il divano Madame, modello imbottito dalle linee morbide e avvolgenti, realizzato in velluto di cotone e lana. Il marchio fiorenti-
2016 del Salone del Mobile novità, prima tra tutte il premio ufficiale, vinto per la sua prima edizione da “Shit Evolution” (Museo della Merda Luca Cipelletti); best concept a Boring Collection di Lensvelt Contract; best technology a Data Orchestra – Jelle
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Mastenbroek; best storytelling a The Nature of Motion di Nike; best engagement a Imagine new days – Aisin e, non ultimo, la scelta del pubblico: KUKAN per Panasonic (installazione riproducente lo spazio). Presenti all’appuntamento milanese anche il Sindaco di Ponsacco Francesca Brogi, l’Assessore alle attività produttive Massimiliano Bagnoli e il Presidente del Consiglio comunale Michele Lombardi, per sottolineare le iniziative e l’impegno di Valdera verso i mercati emergenti (Cina, India e Iran), nei percorsi formativi scolastici che prevedono l’inserimento degli studenti all’interno delle aziende del settore del mobile e nelle detrazioni fiscali concesse sulla casa. Ricchissimo il Fuorisalone 2016, dal design di Porta Venezia, nel Liberty dell’elegante Villa Necchi Campiglio, a Fabbrica del Vapore che, oltre alla mostra della Triennale “New Craft”
sul konow-how artigiano nel mondo 2.0, ha dato respiro al Movimento Donne di Confartigianato Milano Monza Brianza con “DI donne & friends”, l’esposizione collettiva di prototipi che interpretano il tema dell’essere donna attraverso oggetti realizzati da aziende artigianali femminili. Torre Velasca ha interpretato il logo Audi con il concept Velasca, Glow: il grattacielo dipinto dalla luce. La zona di Tortona ha sdoganato Superstudio Più, Su-
perstudio 13 e gli storici spazi dell’ex Ansaldo, con installazioni e mostre internazionali come la rete di Humancities con l’avanguardista Politecnico di Milano e la cinese Tongji University (Shangai). Tra DUC Brera (Distretti Urbani del Commercio) e Brera Design District ha fatto capolino una notte bianca, con l’apertura prolungata di tutte le locations. I vicoli della vecchia Milano si sono colorati di Interni: Brera P5, nello spazio di condivisione che ha ospitato un mix di progetti comuni, tra cui la mostra di Valentina Giovando: come modificare strutture preesistenti recuperando oggetti in legno, metallo e vetro, rivestendo ogni pezzo – che diventa opera unica: grandi lampadari, lampade da tavolo, divani, poltrone e tavoli – grazie e tessuti, accessori vintage e materiali industriali (viti, reti metalliche, chiodi, lamine). Miscela di effetto used e rivestimento di lusso nel progetto Daa: l’incontro tra un processo dedicato alla produzione di meccanica pesante e il design del mobile: 12 designers e infiniti modi di abitare, terrazzo compreso. Il dinamico quartiere di Lambrate con oltre 160 espositori internazionali ha presentato tra i molti lo showroom di Marcello Garofalo: design ecososte-
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nibile di materiali industriali di riuso e made in Italy nell’illuminazione led da interno. Anche l’Università di via Festa del Perdono non ha mancato di vivere di luce propria nella carrellata di colori e forme, dal Cortile del ‘700 a quello d’Onore, dalla hall dell’Aula Magna al Loggiato Ovest e nella torretta cilindrica “Towers” by Velko Group (immagini in movimento generate dalla conversione in pixel dei grandi flussi d’informazione reperibili su internet e pannelli, dove l’immagine fotografica diventa design). Un hotel a basso impatto ambientale? Ecco le 4 casette/hotel in legno ed energeticamente autonome ideate da Marco Ferreri per la XXVI Triennale Internazionale di Milano. Santambrogio Design District ha riconfermato DOUTDESign nell’ex convento di Via San Vittore 49: l’esposizione Next Design Innovaton, promossa da Regione Lombardia e il Dipartmento di Design del Politecnico di Milano, ha proposto 21 prototipi interattivi di designer under 35, che hanno sviluppato tecnologie inedite per prodotti come lampade e arredi, una tuta da indossare, smart device per la città e altri supporti utili per migliorare la qualità della vita quotidiana.
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dalle masserie salentine alle ville versiliesi via terrazze di città Annunziata Forte Cristina Di Marzio
Divani e poltrone di grandi proporzioni arredano insieme a ricercati tappeti da esterno questa magnifica terrazza con vista sul lago. Sullo sfondo sono state collate piante in vaso: Agapanthus africanus con foglie perenni e Cycas, meglio nota come palma nana. In primo piano una collezione di piante grasse in piccoli vasi smaltati crea un grande effetto decorativo L’arredamento di questo bordo piscina richiama il turchese dell’acqua e il bianco della pietra usata come rivestimento, creando una atmosfera ironica e sofisticata: particolare la panchetta e il grande vaso, giocoso l’uccellino appoggiato sul prato, ricercate le lanterne dal sapore etnico
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l pensiero di rendere accogliente la nostra abitazione ci accompagna tutto l’anno, ma solo con l’arrivo delle temperature più miti, diventiamo consapevoli che la nostra casa non si esaurisce all’interno delle quattro mura, ma possiede anche degli spazi all’aperto, piccoli o grandi che siano: balconi, terrazze, o ancora meglio giardini. Soprattutto quando gli spazi a disposizione sono limitati, diventa fondamentale una buona progettazione che calibri opportunamente gli angoli verdi, gli spazi relax e/o la zona pranzo e che sia capace di regalarci, con scorci studiati e curati, la suggestione della vacanza e veri momenti di relax. È infatti compito del progettista creare emozioni, sia che si occupi di un terrazzo, sia che progetti la sistemazione di un grande giardino. Progettare significa vedere chiara un’idea quando ancora non si può materializzare e l’architetto vede un salotto all’aperto dove al momento c’è solo un pavimento e una balaustra, immagina un’oasi di pace con un susseguirsi di zone relax, angolo pranzo, solarium, dove trova un terreno incolto e assolato. Proviamo ad analizzare insieme gli ingredienti di una terrazza accogliente. Innanzitutto bisogna valutare l’esposizione, in modo da decidere come schermare e regolare la luce. Possiamo affidarci a morbidi e leggeri tendaggi, qualora si vogliano creare delle suggestioni, oppure ricorrere a tende più tecniche quando difenderci dai raggi solari sia prioritario. Il secondo passo è naturalmente la scelta del verde: per la vostra oasi di pace vi proponiamo innanzitutto delle rose che resistono bene anche al vento e alle basse temperature. Rose quin-
di sarmentose (rampicanti) oppure a cespuglio, che dalla primavera all’autunno regalano magnifiche e prolungate fioriture per il vostro balcone. Con l’arrivo dell’inverno se metteremo in vaso anche una Camelia sasanqua, potremo godere
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dello schiudersi di boccioli profumati, bianchi, rossi o rosa a cui faremo seguire in primavera le fioriture della Camelia Japonica. Non potranno poi mancare piante sempreverdi, una per tutte il bosso, che nelle terrazze e nei giardini più eleganti vie-
ne potato nelle sagome più svariate. Le piante che abbiamo selezionato per il vostro terrazzo potranno naturalmente movimentare anche i vostri giardini; ad esse affiancheremo le magnifiche peonie, dal sapore ottocentesco, che fioriscono da marzo a maggio, e le ortensie. Insieme infatti coloreranno sontuosamente il vostro giardino dalla primavera all’estate. Tornando alla vostra terrazza o al vostro giardino, dobbiamo ora scegliere l’illuminazione: luci dotate di dimmer, e quindi regolabili nell’in-
tensità, candele o lanterne sono tutte soluzioni valide, a seconda dell’atmosfera che si vuole ricreare. Schermata la luce del sole durante il giorno, create suggestioni di luce per la sera, realizzato uno scenario di verde, fiori e profumi, non rimane che decidere le sedute: sia che si tratti di un piccolo tavolino con due poltroncine, sia che sia possibile realizzare un vero e proprio salotto all’aperto, non fate scelte banali, ma fatevi ben consigliare dal vostro architetto e abbondate poi con ricercati cuscini a completare le sedute. Nei giardini più grandi è necessario realizzare zone d’ombra, in modo da collocare opportunamente spazi pranzo, zone conversazione e oasi di relax. A questa funzione contribuiscono naturalmente alberi frondosi, pergole, gazebo e grandi ombrelloni e sotto di essi collocheremo gli arredi più adatti. Infine concludiamo con l’acqua, elemento fondamentale degli spazi all’aperto, sia che si tratti di fontane o vasche, che di grandi piscine a sfioro. Speriamo di avervi trasmesso il desiderio di migliorare o creare il vostro spazio esterno, piccolo o grande che sia! Siete ancora in tempo quindi organizzatevi e godetevi l’estate!
Una splendida bouganville in fiore è protagonista di questo spazio all’aperto, arredato da lettini in ferro battuto ricoperti da grandi cuscini bianchi e piccoli cuscini dai colori delicati e dalle fantasie minute, realizzando così una atmosfera country chic Una grande”conchiglia” di midollino, resa confortevole da cuscini di svariati colori arreda il magnifico pergolato di glicini, realizzando un’oasi di pace e tranquillità adatta alla lettura e al relax Un tripudio di colori anima questo salottino vintage in midollino. Tante candele che, sia collocate su importanti candelieri , sia semplicemente appoggiate su un vassoio, creeranno con il sopraggiungere della sera una atmosfera indimenticabile per i fortunati ospiti
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SpORT
le giovani
stelle
Popyrin e Guerrero Alvarez
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’australiano Alexei Popyrin e la spagnola Eva Guerrero Alvarez sono i vincitori del 38° torneo internazionale giovanile “Città di Santa Croce” Mauro Sabatini, classica passerella delle “racchette” emergenti del tennis juniores che si è conclusa sabato 14 maggio sui campi in rosso del Cerri. Un’edizione riuscitissima, con oltre 200 giovani tennisti giunti da ben 5 Paesi del Mondo, un livello qualitativo degno di questa kermesse che ancora mantiene – unica in Italia – la prestigiosa qualifica di grade 1 e impreziosita, nel giorno delle finali, da un pubblico che per la prima volta nella storia della manifestazione ha sfiorato le 1000 presenze. L’Italia del tennis avrebbe avuto in mano la possibilità di bissare il successo 2015 del pugliese Andrea Pellegrini ma il sogno dell’azzurrino Jacopo Berrettini, 17enne della Canottieri Aniene, si è infranto contro il muro rappresentato dall’australiano Alexei Popyrin, n.4 del tabellone e giocatore maturo, già impostato per il tennis professionistico, impostosi in due set (64,63). Per Popyrin, oltre al titolo, anche una wild card per il $10.000 ITF di Pontedera che si
terrà a fine luglio. Solida da fondocampo, dotata di un importante rovescio a due mani, la 16enne spagnola Eva Guerrero Alvarez ha regolato con più facilità del previsto (61,61) , in poco più di un’ora di gioco, l’ottima britannica Emily Appleton, giunta in finale senza aver perso un set ma nel match decisivo apparsa lontana anni luce dal saper esprimere il suo tennis tutto accelerazioni e profondità. Tante le promesse tennistiche che sono sfilate sull’argilla del Cerri durante la settimana di gare. Merita una menzione particolare la 14enne polacca Iga Swiatek, più giovane partecipante approdata fino ai quarti di finale, e quindi vincitrice della
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del tennis 37° edizione della Coppa Beppe Giannoni. Perfetta come sempre la macchina organizzativa del Tennis Club Santa Croce, diretta da Francesco Maffei e dai suoi assistenti. Altrettanto perfetta la sinergia creatasi con gli studenti del Liceo Linguistico “Eugenio Montale” di Pontedera che per il quinto anno consecutivo hanno collaborato con lo staff del torneo nell’assistenza ai giocatori. Fondamentale e prezioso il contributo degli sponsor del torneo: Carismi, Tecnopel, Tuscania, Nick Winters, Centralkimica, Morellino.
Angelo Errera Il tennista romano Jacopo Berrettini Vincitori e finalisti del doppio maschile con gli studenti del Liceo Linguistico Eugenio Montale La vincitrice spagnola Guerrero Alvarez con il sindaco di Santa Croce Giulia Deidda L’australiano Alexei Popyrn
Risultati Semifinali uomini: Berrettini (wc, Ita) b. Wolf (Usa,3) 64,64; Popyrin (Aus,4) b. Wu (Tpe,13) 36,5-2 ret. Semifinali donne: Appleton (Gbr,6) b. Swiatek (Pol, 15) 62,61; Guerrero Alvarez (Esp,16) b. Pieri (Ita,7) 61,64 Finale singolare maschile: Popyrin b. Berrettini 64,63 Finale singolare femminile: Guerrero Alvarez b. Appleton 61,61 Finale doppio maschile: Holt/Kirkov (5, Usa) b. Crawford/Kipson (Usa) 62,61 Finale doppio femminile: Anshba/Shytkouskaya (Rus/Blr, 8) b. Pieri/Stefanini (7, Ita), 61, 0-6, 10-4
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MODA
secessione
romana otto sarti-stilisti sfileranno nei loro ateliers Roberto Mascagni
Il cappellino è ancora un elemento indispensabile per completare l’eleganza, ma l’uso di questo accessorio, benché ancora ampiamente diffuso, comincia a non essere ritenuto essenziale Emilio Federico Schuberth è uno dei nove invitati da Giovanni Battista Giorgini a sfilare il 12 febbraio 1951 a Firenze. Il suo stile è fastoso: ama il tessuto lussuoso e i ricami. Le sue clienti sono l’imperatrice di Persia Soraya, Maria Pia di Savoia che gli commissionò una parte del suo corredo di nozze con Alessandro di Jugoslavia. Schuberth vestì anche Brigitte Bardot, Silvana Pampanini e Lucia Bosè. Sue fedeli clienti furono Gina Lollobrigida e Sophia Loren
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i alza il sipario sulla Sesta edizione di Alta Moda Italiana, annunciata nella Sala Bianca di Palazzo Pitti dal 22 al 26 luglio 1953, e va in scena la “secessione” di otto sarti-stilisti romani organizzatisi nel S.I.A.M. (Società Italiana Alta Moda), il cui Statuto vieta le partecipazione alle sfilate nella Sala Bianca e impone la presentazione delle loro collezioni, ciascuno nei propri ateliers, due giorni prima delle sfilate a Firenze. Dall’altra parte è schierato il gruppo dei sarti fiorentini, milanesi e romani rimasti fedeli alla presentazione dei propri modelli nella Sala Bianca: per «obblighi morali», hanno dichiarato Antonelli, Carosa e Capucci, nei confronti di Giovanni Battista Giorgini, l’ingegnoso ideatore e organizzatore delle sfilate fiorentine. Confidando sull’acquisito successo e nella fedele clientela, Fabiani, Si-
monetta, Sorelle Fontana, Giovanelli-Sciarra, Mingolini-Gughenheim, Garnet, Schuberth e l’italo-americano Ferdinandi sfileranno nei loro atéliers romani, dove, fra l’altro, non dovranno confrontarsi con le sartorie concorrenti. «Dunque “guerra fredda” – scrive l’autorevole penna di Elsa Robiola –, dunque antagonismo e disaccordo, quegli antagonismi e quei disaccordi che abbiamo tante volte deplorato». (Ma la stampa internazionale conferma la propria solidarietà alle sfilate nella Sala Bianca). Del sarto-stilista Ferdinandi ricordiamo una sua sorprendente iniziativa, quando, nella precedente sfilata fiorentina di gennaio, vestì con i suoi tailleurs bianchi l’indossatrice di colore Dolores Francine Rheney, facendo ammutolire tutti. Il S.I.A.M. (rischiando?) ha trattenuto nella Capitale i buyers per due giornate intere, presentando quattro collezioni al giorno, estenuando compratori, giornalisti e fotografi, obbligandoli poi a precipitarsi a Firenze per seguire le sfilate nella Sala Bianca, dove li accoglie il caldo afoso dell’estate fiorentina, mentre le indossatrici, abbigliate con i modelli preparati per l’autunno-inverno, si concedono ai fotografi con apparente indifferenza verso la temperatura canicolare. Tuttavia è corale la richiesta di costituire nuovamente un «fronte unico» perché, così procedendo, per i buyers e per i corrispondenti della stampa internazionale c’è «troppo da vedere e troppo da scegliere» in pochi, stancanti giorni, proprio alla vigilia delle sfilate di Parigi. I sarti che hanno confermato la loro adesione alla pedana di Palazzo Pitti sono Germana Marucelli, Vanna,
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Jole Veneziani, Antonelli, Carosa (principessa Giovanna Caracciolo), il giovane Capucci ed Emilio (che presenta una pittoresca moda balneare impostata sui tessuti di cotone Valle di Susa). Per loro, Firenze ha rappresentato, e rappresenta, un punto d’incontro stimolante. Hanno capito che la concentrazione di quanto più interessa i compratori rappresenta un panorama unico ben coordinato e potenziato per mostrare, in un’unica sede, tutto quanto può attrarre i compratori stranieri, mentre una settimana divisa fra Roma e Firenze li distrae e soprattutto li affatica. Per assistere alle presentazioni dei modelli nella Sala Bianca, dalla mattina di martedì 22, sono arrivati a Firenze una sessantina di compratori: 13 fra Stati Uniti e Canada, 15 svizzeri, 7 inglesi, 8 tedeschi, gli altri dalla Svezia, Egitto, Olanda e Belgio. Cinquanta i giornalisti. La sfilata inaugurale, fissata alle 16,30 di mercoledì 23, è stata aperta dal fiorentino Cesare Guidi che ha presentato una collezione di abiti e mantelli invernali. Dopo Guidi è venuto il momento di alcune sartorie di Roma e di Milano. Le collezioni “boutique” propongono abiti da spiaggia, montagna, campagna, giardino, casa; mentre in un salone del Grand Hotel gli artigiani espongono gli accessori. Alle 21,30 del giorno inaugurale, sempre a Pitti, protagonista è l’Alta Moda con otto sartorie e il pellicciaio Viscardi di Torino. Secondo l’autorevole penna di Elsa Robiola, sono «spigliate, allegre, spontanee le piccole collezioni di Marucelli e di Antonelli per l’Italviscosa; la collezione di Veneziani sorprende per le stupende sete pure di
Costa e le lane Rivetti di Sordevolo in autentiche nuove edizioni: drap, zibeliné, cachemire, wool-satin». Vanna propone raffinati abiti da garden-party realizzati con tessuti Bemberg. (Fra i molti meriti di Elsa Robiola bisogna ascriverle quello di aver fondato nel 1941, insieme con il famoso architetto Gio Ponti, la rivista ufficiale dell’alta moda «Bellezza», dirigendola per oltre due decenni senza temere il confronto con i periodici consimili di fama internazionale). I protagonisti delle sfilate sono i nostri magnifici tessuti dai quali dipendono gran parte delle fortune della Moda italiana. È un successo che si rinnova anche durante la presentazione di piccoli defilé promossi dalla nostra industria tessile a Palazzo Pitti. Si distinguono i tessuti di Como, Biella, Milano, Torino, Bergamo, Firenze. Le diverse applicazioni mostrano una leggerezza senza impaccio, o una consistenza pesante adatta per certi tipi di tailleur o di robe-manteaux; stoffe incredibilmente lanose, fresche e trasparenti, calde e caldissime e nel contempo lievi a portarsi. I tessili usati dai sarti-stilisti sono i migliori prodotti delle tessiture Costa di Como, Rivetti di Sordevolo, Bemberg, G. L. Tondani, Cotonificio Valle di Susa, Italviscosa. A Firenze sono presenti dodici tra le maggiori industrie italiane; «oltre a quelle citate - riferisce Anna Vanner - ricordiamo Rhodiatoce che lancia il nailon italiano anche per gli abiti da sera; Scacchi di Como e Chatillon, quest’ultima con modelli realizzati da Carosa e Antonelli di Roma. Una nota curiosa ed interessante - continua Anna Vanner - è stata infine rappresentata dai
tessuti di Lini e Lane nella nuovissima soluzione dei soffici mantelli zebrati dipinti a mano». «Il primo fattore della maturità in tema di creazione di moda - aveva già scritto la lungimirante Elsa Robiola - ci viene anzitutto dalla superiorità assolutamente conclamata del nostro tessile. E lo si è visto a Firenze dall’interesse quasi morboso dei compratori per le stoffe che essi non lasciavano mai passare inosservate, saggiandone la morbidezza, la pastosità, la nervosità, la cadenza» (in «Bellezza», settembre 1951, n. 9). La risposta al caldo canicolare del luglio fiorentino è stata la sfilata di alcune indossatrici abbigliate con costumi da bagno presentati lungo i bordi della piscina del Golf dell’Ugolino, dove i buyers, i giornalisti e i fotografi sono stati invitati per il pranzo. Fra le indossatrici appare nuovamente Dolores Francine Rheney. La Sesta edizione di Alta Moda Italiana si è conclusa alle 22 di sabato 26, con una festa da ballo nel Giardino di Boboli, durante la quale è stato eseguito un balletto del corpo di ballo dello “Zodiaco” con la coreografia di Grant Mourodoff del Metropolitan di New York con musiche di Luigi Dallapiccola. Dopo il balletto sono sfilate nuovamente le indossatrici che hanno concluso in bellezza la manifestazione. Nel 1952 «Life» ha dedicato ben nove pagine alla manifestazione fiorentina (quando una pagina di pubblicità costava 25 mila dollari…) e il risultato di tanta propaganda a nostro favore è che da allora nei negozi della Fifth Avenue si vedono molti prodotti con la sigla “Made in Italy” mentre pochi anni prima si leggeva solo “Made in France”.
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Robe manteaux in cotone stampato, scollo a cuore a ¾, svasato in fondo. Collezione “Can Can” di Barbara Farina - Firenze Per gli appuntamenti del primo pomeriggio, cappello e guanti sono due accessori indispensabili per completare l’eleganza di una signora, anche se appartenente al ceto medio. (Disegno di Moreno Vassallo) Abito bustier estivo in cotone stampato, gonna a ruota, cintura alta a segnare il punto vita. Collezione “Can Can” di Barbara Farina - Firenze Il New Look lanciato da Christian Dior nel 1947, e le linee da esso derivanti, è caratterizzato da vita molto sottile, con gonna che può essere anche a tubino, oppure ampia e sostenuta da sottoveste. Le spalle sono morbide e spioventi. A poco a poco, le donne si trasformano in spigliate teen-agers Fotografie di Moreno Vassallo
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vecchia a chi
90 candeline, 64 anni di regno e non sentirli! Giorgio Banchi
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l’ultimo personaggio storico del Novecento, è la sovrana che ha regnato più a lungo nella millenaria storia del Regno Unito. Elisabetta II d’Inghilterra, figlia di re Giorgio VI, ha segnato un’epoca, ha attraversato guerre, crisi politiche e familiari, gossip e critiche feroci, con un’imperturbabilità che solo una vera regina può avere. E ora che ha compiuto 90 anni, una delle donne più famose della storia si gode i frutti di una continua battaglia quotidiana che ha vinto nonostante momenti tanto critici da mettere in dubbio la sopravvivenza stessa della monarchia inglese. Questi suoi novanta anni ci danno un’occasione per riflettere su una figura centrale dell’epoca contemporanea, una donna che da giovanissima fu chiamata a regnare su quello che era stato l’Impero britannico. Durante il difficile periodo del do-
poguerra e del post-colonialismo, si è imposta con un pugno di ferro che più volte ha rischiato di farla diventare antipatica ai più. È sempre stata una donna pacata e dalla vita abitudinaria e poco esaltante. Non era nata per regnare, visto che persino il padre, il timido e balbuziente Giorgio VI, fu “costretto” a salire al trono per il clamoroso rifiuto di Edoardo VIII, che preferì l’amore della divorziata Wallis Simpson alla corona più ambita del mondo. Ma la storia si fa beffe delle inclinazioni personali: infatti a una donna così controllata e seriosa si contrappone una famiglia reale fitta di personalità deboli, capricciose e fragili. Cominciando dall’eterno principe ereditario Carlo, protagonista di quel sogno d’amore con Lady Diana Spencer che si sarebbe trasformato in incubo nel giro di pochi anni. Tradimenti, odio, tabloid scatenati, il divorzio,
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l’intervista clamorosa che Lady D aveva rilasciato alla BBC il 20 novembre del 1995, che tenne 15 milioni di inglesi incollati allo schermo, svelando delle scottanti verità per Buckingham Palace sul suo matrimonio con Carlo; intervista rimasta celebre per la frase “il nostro era un matrimonio affollato”. Un incubo finito nel peggiore dei modi con la morte della giovane Diana e con il suo ingresso nel mito. Altra beffa clamorosa della storia: la regina Elisabetta, che mai aveva sopportato le esuberanze mondane della nuora, si era trovata costretta a parlare alla nazione, in tv, per ricordare una figura così amata dal popolo e molto meno dal Palazzo. Pare che siano state molte le insistenze dell’allora giovane premier Tony Blair (come si può notare anche con la visione del film “The Queen”), visto che Elisabetta ne avrebbe volentieri fatto a meno, ma quella dimostrazione di umanità inattesa ha trasformato il risentimento degli inglesi nei confronti della Corona in rinvigorito spirito monarchico. Era la nonna di William e Harry a parlare, non l’integerrima sovrana, che metteva da parte l’orgoglio per avvicinarsi al popolo inglese che affollava piangendo le strade di Londra, inneggiando alla principessa triste e impegnata nel sociale. Dopo quella tragica annata, Elisabetta II ha regnato con maggior tranquillità, pur dovendo continuare a dirimere le piccole o grandi beghe di Palazzo: ha accolto Camilla Parker-Bowles come nuova nuora e consorte del futuro re; ha consigliato e coccolato il principe William, forse nella speranza di non ripetere gli errori compiuti con i figli, che così tanti grattacapi le hanno riservato nel corso di oltre mezzo secolo.
Oggi la musona e rigorosa Elisabetta è persino diventata simpatica. Merito della veneranda età, che tutto perdona e tutto cancella, o della presa di coscienza di una donna che dopo decenni di lotte può adesso permettersi il lusso di essere più serena. Per i suoi 90 anni tutto il mondo ha festeggiato e all’interno di questa ricorrenza ci sono state tre grandi mostre (al palazzo di Holyrood e a Edimburgo) sull’inconfondibile look della regina. Elisabetta II spesso ha riciclato i propri abiti facendo fare correzioni che li hanno restituiti a nuova vita. La regina, alta appena 1,63 e con un piedino da Cenerentola, ha delle regole molto ferree per il suo guardaroba: preferisce gli abiti con cappotto in tinta e vuole orli sotto il ginocchio, le maniche devono essere a tre quarti e strette e le chiusure devono essere tutte a lampo da potersi cambiare con facilità senza mai passare gli abiti dalla testa rischiando di rovinare il trucco o la pettinatura. Elisabetta non ha mai rinunciato alle sue battute di caccia nella famosa tenuta di Balmoral o alle passeggiate con i cani. Si dice che con loro sia stata molto più tenera e amorosa che con il figlio Carlo. A 18 anni Elisabetta ricevette Susan, la prima cucciola
tutta sua, e da allora ne ha allevati a decine. D’altra parte l’amore dei reali inglesi per i cani è noto: Vittoria fece seppellire il suo Noble, un collie, nelle segrete di Balmoral, con tanto di lapide. Elisabetta è sempre stata prima una regina e solo dopo una madre, una moglie, infine una nonna. Le nozze con Filippo si celebrarono il 20 novembre 1947 nel tripudio di un regno ancora povero e sottoposto a razionamenti. La cerimonia venne trasmessa in diretta televisiva. Filippo, nominato duca di Edimburgo, rinunciò ai titoli di principe greco e canadese, che aveva assunto per nascita, ed a ogni pretesa sul trono ellenico. Si convertì alla religione anglicana, accettò il ruolo di coniuge e accompagnatore ufficiale. Filippo avrebbe voluto dare il proprio cognome ai suoi figli e alla moglie ma si scontrò con il veto di Churchill: un nome dagli echi tedeschi dopo la rovina della Seconda Guerra mondiale sarebbe stato mal visto dal popolo britannico. Alla fine si trovò una soluzione di compromesso: i discendenti ereditarono il doppio cognome, Mountbatten-Windsor. Ora la regina, superato brillantemente il traguardo dei 90 anni, potrà fi-
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nalmente vivere con più serenità visto che Carlo comunque regnerà poco, ammesso che regni. Sua Maestà non ha mai espresso grande fiducia nelle capacità del problematico figlio. E dopo Carlo toccherà a William: moderno, schietto e attento alle tradizioni ultrasecolari della famiglia. William ha scelto una moglie borghese ma educata e cresciuta per diventare qualcuno di importante, quindi senza sbavature nel protocollo e nell’etichetta. William è l’assicurazione sulla vita della Corona inglese e la regina novantenne lo sa.
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fOTOgRAfIA
Sguardi
dal mondo Ada Neri
Paola Ciampolini L’assessore alla cultura del comune di Certaldo Francesca Pinochi e Claudia Centi, vicesindaco con delega alla cultura del comune di Castelfiorentino al taglio del nastro Sala della mostra I partecipanti all’evento
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ertaldo e Castelfiorentino, nel mese di aprile, sono stati protagonisti di un evento dedicato ai libri, Il bello del Libro, Il Festival del libro illustrato. Caffè letterari, videoconferenze, laboratori di scrittura incontri con autori e presentazioni di libri, mostre di fotografie e una mostra dedicata a Sigfrido Bartolini, artista e scrittore scomparso alcuni anni fa e autore di una monumentale edizione illustrata del Pinocchio di Collodi, hanno animato il Museo Be.Go. di Castelfiorentino e Palazzo Pretorio di Certaldo. Cosa rappresentano per Paola Ciampolini queste foto? Le foto esposte sono state scattate in cinque posti che ho visitato durante
i mie viaggi da viaggiatrice curiosa: Nepal, India, Kenya, Peru e Vietnam. Alcuni scatti sono rubati, altri richiesti, per non urtare troppo la sensibilità delle popolazioni locali. Ho cercato di mettere in risalto i volti, perché sono questi che mi hanno sempre attirato particolarmente: le espressioni delle persone in situazioni per loro normali, giornaliere e routinarie, ovviamente molto diverse dalle nostre occidentali. Questa esposizione cosa ha rappresentato per lei? Ringrazio innanzitutto coloro che mi hanno dato la possibilità di realizzare un sogno, ovvero quello di mostrare a un pubblico più ampio delle foto che
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in qualche modo ritengo intime, perché parti integranti dei miei viaggi, che hanno catturato momenti particolari, sensazioni, odori e sentimenti. Sarà l’ inizio di una nuova avventura? Tengo a precisare che non sono una fotografa, sono solo una viaggiatrice che ama portare a casa scatti di emozioni che aiutano a farmi rimanere quei momenti nel cuore e nella mente. Colgo l’occasione per ringraziare Massimo Tordini che mi ha aiutato ad allestire questa mostra, e soprattutto ringrazio le persone che sono venute a vederla e spero che tutti possiate trovare nelle mie foto la voglia di conoscere, di andare e di scoprire il mondo.
EVENTO
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suono movimento tempo
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n serata da Bang & Olufsen di Bruno Cei a Empoli dedicata alle auto personalizzate di Luxury (Autostile), ai ragazzi OmnialuxWatches e a Marco Parrini (Banca Fideuram). Tra i cari amici e clienti intervenuti ricordiamo: Alberto Pelagotti, portiere Empoli FC, Massimo Maccarone, attaccante Empoli FC, Michele Haimovicii, Empoli FC, Francesco Ghelfi, AD Empoli FC con la moglie Letizia Diana, gli amici del Montecatini GOLF, da Nello Giubilei ad Anacleto Martini, gli amici della Fattoria Dianella, Andrea Lolli, il titolare del laboratorio artigianale di oreficeria Alessandro Piovanelli, Caterina Sani, David Ancillotti e la compagna Camilla Busoni, l’architetto Enrico Imperi e tanti altri ancora.
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ALIMENTAZIONE
la dieta di primavera Paola Baggiani
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l nostro corpo in primavera ha bisogno di rimettersi a nuovo dopo gli stress dovuti alla stagione invernale, come la lotta contro virus e batteri, il freddo, il consumo di cibi più ricchi di calorie e di grassi e dopo mesi di vita più sedentaria e al chiuso. Le nostre energie si mobilitano potenziando i processi di rinnovamento e di sintesi delle proteine e quindi quella dei tessuti come ossa, muscoli e derma. Il cambiamento climatico e di luce agisce su molti ormoni, compresi quelli legati allo stress come il cortisolo. Tutti questi processi portano ad un accumulo di tossine, impegnando in modo particolare il fegato, e quindi una corretta alimentazione deve essere in grado di aiutare la funzionalità dei principali organi emuntori, cioè fegato e reni. L’alimentazione primaverile deve avere quindi un effetto disintossicante: in qual modo? È necessario innanzitutto alleggerire la dieta eliminando gli alimenti ricchi di lipidi e di zuccheri come carni grasse, salumi, formaggi, dolci elaborati e snack industriali; è noto che in inverno si tende a consumare cibi
più ricchi di calorie e di grassi utili per immagazzinare scorte di energia, ma con il progressivo aumento della temperatura diminuiscono le esigenze energetiche. Servono particolarmente micronutrienti che attivino tutte le funzioni metaboliche, ossia prima di tutto minerali e vitamine: frutta e verdure fresche, cereali integrali, legumi preferibilmente freschi come piselli e germogli di soia, noci e semi. La dieta di primavera dovrebbe utilizzare cibi il più possibile freschi, consumando i prodotti di stagione man mano che compaiono sul mercato ed evitando le primizie. Fra le verdure si distinguono per le capacità depurative sul fegato e per la loro azione diuretica, il carciofo, molto ricco di fibra e di sostanze come i polifenoli con proprietà antiossidanti; e il tarassaco o dente di leone che è un’erba selvatica comune nei nostri prati, da consumare in insalata e con le cui radici si possono preparare tisane che stimolano il flusso biliare. Fagiolini, agretti, asparagi, i ravanelli, zucchine sono tutti ricchi di potassio, calcio, ferro e magnesio che svolgono
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un’azione rigenerante . Per la frutta la fragola è la più indicata in primavera perché è molto diuretica, favorisce l’eliminazione degli acidi urici; meglio evitare quelle coltivate in serra perché trattate con sostanze chimiche e scegliere quelle coltivate con metodi naturali. Amarene e ciliege hanno effetto diuretico e depurativo, ma è importante anche la banana piena di potassio e magnesio per combattere la stanchezza. È necessario moderare il consumo di carni specialmente rosse e dei salumi, privilegiando pesce, uova, e formaggi come ricotta magra. Infine per incrementare l’azione depurativa e contrastare la ritenzione idrica è necessario bere almeno due litri di liquidi al giorno preferendo acqua oligominerale a basso residuo e basso contenuto di sodio, e anche sotto forma di tisane e infusi come thè verde o tiglio e succhi centrifugati di frutta o di verdure. La primavera è spesso sinonimo di sonnolenza e di grandi dormite: questo perché dormire a lungo aiuta l’organismo a ripristinare le energie necessarie per i processi di rinnovamento. È quindi consigliabile non contrastare la tipica stanchezza primaverile e concedersi un adeguato numero di ore di sonno.
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SummerParty M
ai come quest’anno abbiamo avuto bisogno dell’estate! Dopo un lungo, lunghissimo, inverno piovoso, ci vuole una sana dose energetica di sole e sale. Dopo aver parlato di costumi, abbronzanti e fantasie floreali, è l’ora di due dritte per organizzare un meraviglioso Summer Party. I più fortunati potranno sfruttare la loro terrazza, il loro ombreggiato giardino, o magari fare qualcosa di alternativo sulla spiaggia! Punto fondamentale perché la vostra festa rimanga nella memoria di questa stagione è il Tema: sceglietelo in base alla location, alle vostre passioni e al tipo di energia che volete sprigionare. Qualche esempio? Party ANNI ‘80 Per un Revival a dovere, potete usare dei vecchi 45 giri come sottopiatti, delle cassette come segnaposto e preparare tante tartine con il caviale e il salmone come si usava all’epoca! Obbligo dress code a tema, con tanto di parrucca e occhiali. Il tocco di energia è cercare una band di musica dal vivo specializzata in questo tuffo musicale nel passato. In Toscana ce ne sono tantissime. Mai sentito parlare dei Rubber Soul? HAWAII Per questo party l’ideale sarebbe una bella spiaggia. Preparate le classiche ghirlande per gli ospiti o se non avete tempo fate un salto da Tiger, il negozio danese più curioso in circolazione, dove troverete tutto per una festa a tema il menù dovrà prevedere frutta e cibo esotico. Pinacolada e mojito come se piovesse, bagno di mezzanotte e grande falò serale con chitarre in live e aloha!
CENA dei CUSCINI Se avete la fortuna di un giardino ampio magari con piscina e chiringuito esterno, la festa dei cuscini è la migliore. Ogni invitato deve venire con coperta da pic nic e cuscino personale. Lanterne e luci tra gli alberi per un’atmosfera intima, musica soft in sottofondo, e magari un bel buffet finger food, perché si sa, seduti in terra le posate non sono di pratico utilizzo. OLIMPIADI Quest’estate sarà all’insegna dello sport e quindi un’idea di festa a tema Olimpico ci sta tutta. Potreste inventare delle portate da dedicare ai nostri atleti in gara e fare delle meravigliose decorazioni azzurre. Potreste organizzare dei giochi in stile olimpico e distribuire medaglie create da voi. Divertente no? Qualsiasi sia il vostro tema a scelta, per un Summer Party perfetto ci sono delle regole da dover seguire. Regola n. 1: il numero di invitati. Non invitiamo più persone di quelle che può contenere lo spazio a disposizione; un ambiente sovraffollato non è l’ideale, il rischio di soffocamento o cadute rovinose meglio evitarlo. Regola n. 2: Menù=Tema Se possiamo spendere potremmo chiamare un catering, ma saremo in grado di preparare un buffet per una decina di persone no? Altrimenti per la festa possiamo usare la formula del “portaparty”! Ogni invitato sulla base del tema scelto dovrà portare qualcosa da lui cucinato o comprata da condividere. Regola n. 3: Musica La scelta musicale è fondamentale. Deve necessariamente essere legata al tema base e deve poter coinvolgere i tre momenti della serata, aperitivo, cena e dopo
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cena in un climax di energia e coinvolgimento. Affidati a un amico dj, o alle più pratiche play list fai da te. In rete trovi un sacco di track sound a tema giuste per queste occasioni. Regola n. 4: Social. Ormai la nostra vita è legata ai Social: Facebook, Instangram e chi più ne ha più ne metta. Crea l’hashtag (#) della tua serata e diventa virale on line. Potresti diventare un organizzatore di eventi ufficiale! Regola n. 5: cura l’ambiente. Per fare la differenza tra le tante feste estive, l’obbligo è creare un’atmosfera ad hoc, ricca di dettagli ma soprattutto accogliente. Studia bene il tuo tema, prenditi qualche giorno per raccogliere un po’ di materiale, fatti aiutare dagli amici e crea un party pefetto. A questo punto.... che la festa abbia inizio!
Eleonora Garufi
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Maria Laura Ferrari
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o scienziato pisano (15 febbraio 1564 - 8 gennaio 1642), matematico, astronomo e fisico, è considerato il fondatore della scienza moderna per aver posto come fondamento della Nuova scienza il metodo sperimentale. Scrutando il cielo attraverso il telescopio, fece grandi scoperte astronomiche: la Luna gli apparve come coperta di montagne (riuscì persino a stimarne l’altezza), la Via Lattea si dissolveva in un ammasso di piccole stelle, nuove stelle comparvero come emerse dal nulla, e, cosa ancora più straordinaria, furono scoperti quattro satelliti che orbitavano intorno a Giove. Nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo, pubblicato nel 1632, sostiene la teoria copernicana eliocentrica, ma, accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, fu condannato come eretico dalla Chiesa Cattolica e costretto ad abiurare, a negare cioè sotto giuramento, le sue concezioni astronomiche. Solo 359 anni dopo nel 1992, papa Giovanni Paolo II, alla sessione plenaria della Pontificia accademia delle scienze, ha dichiarato riconosciuti “gli errori commessi” nei confronti dello scienziato.
Variabile nella pressione, nelle dimensioni, nella tenuta del rigo ma in un insieme ordinato e compatto. La vivacità intellettuale ed emotiva dello scienziato è governata e disciplinata dalla razionalità: il ragionamento domina l’intuito, l’obiettività passa al setaccio la sperimentazione. Le forme sono accurate, inclinate, staccate: gli obiettivi sono perseguiti con impegno quasi ossessivo. La tenuta del rigo a tratti discendente e alcu-
la scrittura Movimento spontaneo e fluido che procede con vivacità verso destra.
Manoscritto di Galileo Galilei in cui sono riportate le posizioni dei Pianeti Medicei rispetto a Giove nel periodo dal 7 al 14 gennaio 1610
maria.laura.ferrari@tiscali.it www.marialauraferrari.com.
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ne torsioni ci indicano il prevalere, a tratti, di una stanchezza che emerge da uno sforzo protratto nel cercare di sviscerare la realtà esterna e contenere i moti dell’anima. Riflessivo e prudente, incline ad evitare contestazioni e contrasti è portato naturalmente a temporeggiare, nella speranza che, rimandando azioni e decisioni, le situazioni volgano a suo favore. Il tratto vellutato, le forme morbide ci parlano anche di sensibilità ed amabilità.
Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario
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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658
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