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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

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Anno XVIII n. 3/2016 Trimestrale € 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIAlE

Prendere voti Cari elettori noi siamo il nuovo, veniamo dal popolo, dalla società civile; non siamo impantanati nei vecchi schemi, le vecchie tradizioni, i vecchi concetti. Sappiamo bene quali sono i problemi, non siamo come gli altri attaccati alle poltrone, succubi del potere e del denaro: anzi, i nostri costi saranno ridotti. Noi non conosciamo lobbi, tantomeno ne siamo schiavi. I nostri colleghi e collaboratori serviranno e faranno il vostro interesse, non il proprio, ma sopra tutto ci sarà un rapporto di trasparenza e chiarezza tra voi che ci eleggerete e noi che governeremo. Via i vecchi schemi, la rete sarà il nostro terreno di confronto, noi e voi sempre connessi.

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erto, belle parole! Mi sembra anche di averle già sentite; ma a parte questo, non occorre altro per dirigere un’azienda, una società, un paese, una città, una nazione? Ammesso e non concesso che tu sia serio, corretto e trasparente – le polemiche dei giorni passati lo mettono in dubbio –, non servono altre qualità? La preparazione manageriale, industriale e politica, la stoffa vera del mestiere non si acquista con una nomina: la si acquisisce sul campo, con anni di lotte e battaglie, intorno ai tavoli, nelle aziende, sulle piazze in mezzo alla gente dove ci sono i problemi veri. Di qualsiasi schieramento tu sia, se non hai questa capacità non vai avanti. Se tu, candidato, queste persone competenti non le hai, sarai costretto ad affidarti a chi è capace di gestire questo e quello, e magari non ha come te, un’etica politica. “ E qui casca l’asino”, direbbe Totò. Così, per cercar di coprire, tu fai lo scivolone. Questi nuovi politici hanno volontà, passione e amore, nessuno lo mette in dubbio, ed è giusto che siano anche loro seduti al tavolo a dire ciò che ritengono giusto, a controbattere, ma ricordiamoci che vi è molta differenza fra sapere quali sono i problemi e trovare le soluzioni, sopratutto quando si dirigere un paese. Comunque, quel che vorrei evidenziare non è questo. Altri organi di stampa lo hanno fatto in modo anche troppo ampio. A me preme segnalare la conseguenza diretta dell’incompetenza: l’ingessamento di una città che ha già grossi problemi. Cosa faranno tutti gli elettori del movimento se il loro progetto dovesse fallire o intravedere la possibilità che la politica omologhi tutto e tutti? Avremo di nuovo un allontanamento dei cittadini dalla politica? Dovremo continuare a vedere le solite scaramucce fra partiti mentre l’Italia perde competitività e si impoverisce sempre di più? Noi semplici cittadini dobbiamo lottare e non arrenderci, usare lo strumento di lotta più civile di questo mondo: il voto. Per cambiare le cose non dobbiamo astenerci e far decidere solo a pochi, ma dire la nostra, farci sentire sempre e ottenere che il sistema Italia funzioni. Se non per noi, ma almeno per i nostri figli e nipoti.

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photo Archivio CTE stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) IssN 1973-3658

In copertina: Fabrizio Breschi, Composizione in giallo e nero, 1998, acrilico su tela cm 80x60 (Foto di Alessandro Paladini)

Reality numero 81 - settembre 2016 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia In viaggio con Breschi 10 Michelangelo e l’Altissimo 20 Millenovecento19 24 Un collare d’oro 26 28 Bonaventura Berlinghieri sottopelle Passo passo sul lago d’Iseo 30 L’arte in Italia 32

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Alla scoperta Shakespeare 50 Proposte da Gir’Italia 52 Lady Chocolat & Chaplin 54 Borghi toscani 57 58 La via Francigena 60 Settembre è tempo di vendemmia

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Far West romano La misteriosa fanciulla del ‘300 San Baldassarre Palazzi fiorentini in ostaggio L’Orto Botanico di Pisa Il pianoforte Henry James

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SOMMARIO

SPETTACOlO EVENTI ECONOMIA SOCIETÀ COSTuME 62 In viaggio tra parola e immagine 64 Monna Lisa al Tropico del Cancro Una pioggia di eventi 66 Teatro del Sé Stesso che recita 68 Gillo Pontecorvo 71 Venezia 73 72

74 76 80 82 85 86

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Soggiorni e ancoraggi celebri Al Forte come ad Ascot Vademecum Collezioni innevate Shabby Chic Style

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Mafistofele, Faust e altri demoni Rio 2016 La salute a lavoro Un flash sul 2016 Giandujot nutella kinder Conciare ad arte

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artista

in

viaggio con

Breschi

Nicola Micieli

Da sempre è l’alba, per me, il momento più bello del giorno. Ricordo quando tredicenne prendevo ogni mattina il treno delle 6,32 che mi portava a Firenze, dove frequentavo il liceo artistico, e, dopo pochi minuti, appariva ai mie occhi, come per incanto, il grande complesso industriale dello Stanic (alla periferia di Livorno) fatto di ombre e magici riflessi dei più vari colori. È in quei momenti che probabilmente si è sviluppata nella mia mente quella che, di lì a qualche anno, sarebbe diventata la mia pittura. Ancora adesso provo una piacevole sensazione nell’alzarmi di buonora e, nel silenzio della città che ancora dorme, prendere il caffè e rivisitare ciò che ho prodotto sulla tela il giorno precedente. E poi rimettermi a lavorare nella mia casa-studio da cui godo della vista delle colline livornesi da un lato e dall’altro quella del mare dominata dalla vecchia torre del Marzocco. È un’emozione pura quella che ancora oggi provo nella stesura con il pennello dei colori sui vari supporti da me utilizzati. In quel gesto c’è una particolare forma di sensualità di cui non riesco a fare a meno. Ricordo che un caro amico, nonché mio collega ai tempi in cui ero docente di pittura a Brera, una volta mi disse: non faresti prima ad eseguire i tuoi motivi tubolari con l’uso del computer? Lui non capiva che il mio piacere consiste nella difficoltà di ottenere con il pennello quelle sfumature, con cui sfido il mezzo tecnologico così sviluppato nella nostra epoca, e che probabilmente è la dimostrazione, a me stesso, che nel mio DNA c’è qualche traccia di quello dei pittori toscani del “Cinquecento”. Fabrizio Breschi, 2016

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on mira al racconto la pittura di Fabrizio Breschi, condotta com’è con il rigore esecutivo e la purezza formale che, astraendola, la consegnano ai cieli tersi della geometria. In quei cieli, si sa, risiedono i noumeni, gli assoluti concettuali. Sarebbero le antitesi al mondo fenomenico che per definizione è luogo di accidenti. Proprietà, questa, del quale è campione la variegata, insinuante e concitata creatura homo, che sotto la specie fabulans, nel fenomenico troverà sempre abbondante materia per rinnovare millanta volte la mitica Biblioteca di Babele della Storia. In verità, nella sua opera non sono mancati gli acchiti a possibili induzioni narrative del riguardante. Erano diffusi e intenzionali nella sua prima stagione di sintesi figurativa, quando sulla tela Breschi apparecchiava la scena d’un mondo robotico. Sono andati diradandosi, riemergendo come inserti figurali d’occasione, dacché egli ha attinto solo al repertorio astratto le “figure” dei propri impianti visivi. Questi inserti negli ultimi anni egli li ha elaborati anche sotto specie contaminata di pittura segnaletica e fotografia, oppure giocati come correlazione scenica tra strutture tubolari o nastriformi e ambienti di rimando al

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Senza titolo, 2013 acrilico su tavola cm 50x30 Pagina precedente Every day, 1981 acrilico su tela cm 148x118

reale. Si tratta magari di una spiaggia sulla quale campeggia una gigantesca pistola che pare un totem; oppure di un’isola fatta di sassi, sulla quale si erge una monumentale lettera d’alfabeto, dedicata a chissà quale personaggio di culto privato, o fisico fenomeno e ambiente, o metafisica entità. Ma quei tappeti di ciottoli levigati emersi dalle acque, come i cumuli d’altri oggetti profilati sui tersi cieli, sono dipinti con tal lenticolare definizione della forma da renderceli segni o morfemi d’una partitura astratta, appunto. La purissima partitura di Breschi è governata dalla ratio geometrica. Le strutture, pur quando eccentriche e asimmetriche, si sviluppano con un loro ordine sotteso. La materia pittorica si stende piana e omogenea, senza bave o sconfinamenti. I colori si definiscono ognuno nella propria qualità e nel proprio campo d’espansione e d’evidenza visiva. Quando sono richiesti trapassi e fusioni e viraggi del colore che cambiano veste all’insieme, Breschi li esegue nel rispetto della gradazione prevista dallo spettro della luce. Il suo sguardo funziona come un filtro ottico al modo dei cristalli, e dell’atmosfera che ci dona la porta d’oro dell’arcobaleno. Quella che ne scaturisce tuttavia non è una forma oggettuale nel senso di raggelata e per così dire iperuranica. A questo proposito, lo stesso artista così si esprime in questa stessa sede: «È un’emozione pura quella che ancora oggi provo nella stesura con il pennello dei colori sui vari supporti da me utilizzati. In quel gesto c’è una particolare forma di sensualità di cui non riesco a fare a meno». L’emozione di cui parla l’artista è legata alla sua sfida di catturare e trasporre sulla tela, utilizzando la classica appendice della mano sensibile del pittore, la sottile vibrazione della luce che altri oggimai affidano al mezzo fotografico o elettronico. È ora importante rilevare che il rigore esecutivo e la ratio geometrica degli impianti sono l’elemento di continuità di una ricerca pittorica ormai pluridecennale, a cominciare proprio dalla stagione figurativa quando prendendo le mosse dalla lezio-

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The baby and the night, 1979, acrilico su tela cm 80x100 Pomeriggio piccolo borghese, 1977, acrilico su tela cm 100x150

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Cerchio positivo-negativo, 1994, acrilico su tela cm 200x150 Omaggio a Scanavino, 2000 acrilico su tela cm 120x150 Intrigo a Stoccolma, 1984 acrilico su tela cm 120x150

ne di Aldo Turchiaro, nei primi anni Settanta, ma presto acquisendo una sicura autonomia, Breschi operava una sistematica sostituzione: l’ambiente, gli oggetti, la figura stessa dell’uomo assumevano forme tubolari e robotizzate. La pittura pareva figurare un mondo futuribile di automi, reso credibile dallo sviluppo della tecnica e dei sistemi cibernetici in ogni settore dell’attività umana. Il che insinuava anche un vago senso di straniamento che un tempo mi pareva inquietudine, ma a ben guardare il fantasioso teatro robotico nel quale Breschi mimava, in chiave metaforica, situazioni e accadimenti della vita quotidiana, mi pare oggi del tutto estraneo al clima d’allarme e di alienazione proprio ad altri aspetti della pittura italiana di quegli anni tra Nuova Figurazione e Nuova Oggettività. Le sue stesure assai pulite delle campiture di colore; l’ordine costruttivo dei suoi teatri di figure impostati sempre secondo una logica apparentemente funzionale al racconto, in sostanza dettato da esigenze squisitamente pittoriche; la serialità degli elementi morfologici utilizzati, non meno che degli atti e situazioni rappresentate, determinava un clima di artificio o comunque di astrazione formale che finiva con l’imporsi sulle componenti narrative dell’immagine. Il lavoro di Breschi sempre nell’ambito dell’immaginario robotico la cui riduzione visiva a forme tubolari che evidentemente si riferivano, quanto a

precedenti storici, a quella particolare declinazione del cubismo che è stato il “tubismo” coniato e sviluppato da Léger, nel corso degli anni Settanta registrava una progressiva affermazione dei valori formali più fondanti, nell’ottica di un astratto-concreto di carattere neoplastico (Mondrian) e costruttivista (Malevich). Lo rilevava Giovanni M. Accame, opportuna-

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mente distinguendo le diverse componenti genetiche del linguaggio astratto per escludere in Breschi ogni ascendente lirico-espressionista, ma anche riconoscendo al suo genio geometrico la capacità di agire percettivamente e psicologicamente in modo attivo sull’osservatore. Il che significa che non siamo di fronte a una geometria formalista di mera


La dolce ala della giovinezza, 2012 acrilico su tela cm 50x50 A man in love, 2008 acrilico su tela cm 70x150

qualificazione mentale. In Breschi la forma è visibile entità concepita a rivelazione e misura dello spazio. Dico la diversa possibile sua articolazione, l’architettura data in versione stilistica decisamente avanzata, del tutto priva di intenzioni e rimandi simbolici, che non siano quelli primari delle strutture archetipe, per esempio una conformazione circolare, o quelli intrinseci, perché universalmente riconosciuti e riconoscibili alla prima, della cifra grafica e segnaletica, valga per tutti il profilo d’un cuore. Architettura mai chiusa, anzi di cosmica proiezione, se le linee portanti degli arditi edifici idealmente seguitano oltre lo schermo della

tela. Senza, per questo perdere in affidabilità. Intendo dire qualora volessimo fondarci una struttura funzionale, perfino abitabile. Spazio non già modulato e sfuggente, relativo e aleatorio, di tipo einsteniano, per intenderci. Almeno nella percezione e nelle esigenze del pittore, che comunque ne mostra, edificata, una porzione, guardando la quale si potrebbe dire: «Ecco!, pianto un paletto qua, uno là e tiro la linea d’orizzonte.» Oppure: «Incrocio due linee ad acutangolo, che mi servano da segno per l’ogiva dell’astronave del pensiero.» Geometria euclidea, insomma, quella per la quale due rette parallele si incontrano sì, ma solo in un punto

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situato all’infinito. Come dire mai, per i tempi e le potenzialità motorie dei mortali. Mai, salvo nella sperimentata e veridica prassi della politica, per la quale le “convergenze parallele” non sono certo un ossimoro, una contraddizione in termini. Però Breschi sovrappone e interseca, snoda e altrimenti combina le sue rette e parallele e fasciami di rette, dalle quali si generano geometrie spaziali, a simulare una planimetria configurabile idealmente come un prospetto della casa dell’uomo, per quanto la memoria neoplastica di Mondrian sarebbe sufficiente a giustificarle nei termini del puro linguaggio di linee, piani, colori, forma pittorica. Letta nella chiave della casa dell’uo-


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Prigioniero d’amore n 1, 2013 acrilico su tavola cm 35x14 Abbandono, 1977 acrilico su tela cm 100x120 Prigioniero d’amore, 2015 acrilico su tela cm 130x110

mo, certo, la partitura di Breschi potrebbe anche suggerire i ricordati avvii di racconti, poniamo un assedio accerchiante di strutture tubolari, di linee-forza intorno a un nucleo spaziale di resistenza, o almeno predisporre gli impianti essenziali d’un contesto, d’una scena tendenzialmente ipertecnologica nella quale ambientare serie di fiction digitali. Del resto, lo abbiamo visto, era robotica la quotidianità che in mille episodi, Breschi dipingeva un tempo con la medesima purezza formale di oggi, quando le strutture tubolari si incrociano e si snodano intorno a un cuore sovrastato dalla magica falce della luna. E quando nel seguito ha voluto introdurre un elemento evocatore di una storia, fosse pure una parola o una riconoscibile immagine, già ricordavo che lo ha fatto senza tracimazioni emotive, ma con sottile e poetica partecipazione, in dipinti cristallini e sospesi nell’incanto del loro nitore. Sospesi nel loro nitore sono anche i nastri, le lamelle, le strisce, le pellicole che dipinte con la medesima impeccabile perfezione delle superfici stese o flesse o modulate allo scivolare rivelatore della luce sulle loro superfici, variamente intrecciate intessute intelaiate, giocano nell’immagine alternandosi con gli elementi tubolari e intorno alle figure simboliche delle situazioni umane. Sospese erano le versioni nastriformi della bella serie pochi anni fa realizzata sotto specie di versicolori “bandiere” accampate in volute fluenti su cieli tersi, impiantate su un’asta che attraversa intero l’oblungo schermo visivo. Potrebbe essere l’asse del cosmo, ed era per Breschi il perno della rosa dei venti, dalle cui bocche alitano libeccio maestrale scirocco ostro grecale e altri e altri spiritelli capaci di scuotere, rianimando le bandiere, il torpore dello spirito immerso nell’inerzia, e indurlo nuovamente a sognare un ideale, a immaginare una storia che guarda al futuro. Perché ogni vento viene da lontano e porta con sé corpi suoni sentori temperature dei luoghi che ha attraversato. E ogni bandiera, quando ne sia investita e lo assecondi librandosi nell’aria, quelle tracce le trasforma in figura mutevole, in scrittura della forma pittorica nello spazio. Che è come dire in flusso di parole.

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Fabrizio Breschi nasce a Livorno nel 1950. Si rivela un talento precoce nella pittura tanto da partecipare a un concorso a sei anni, con un dipinto a olio respinto perché creduto opera di un adulto. La sua formazione primaria si svolge nella città natale, ma decisiva è la frequentazione di una zia risposatasi a Milano con Dino Bartolucci, noto collezionista d’arte anch’egli livornese, che lo avvicina alla conoscenza della nuova pittura toscana. È il più giovane partecipante al Premio Fattori con l’opera Cavalli al sole. Frequenta il Liceo Artistico di Firenze, quindi dal 1969 l’Accademia delle Belle Arti, ritrovando come insegnante Gastone Breddo, con il quale inizia un periodo molto stimolante di approfondimento culturale e artistico. Poco prima della fine del corso, nel 1973 conosce il pittore e insegnante Aldo Turchiaro, che gli propone di diventare assistente alla cattedra di Pittura. Nel suo stile si avverte ora un cambiamento dalla fase di sperimentazione a un percorso netto e articolato. La continua dialettica tra contenuto e forma si impianta su una rigorosa norma estetica che caratterizzerà tutta la sua opera successiva. Si susseguono i contatti e le conoscenze che lo introducono negli ambienti dell’arte e della cultura nazionale. Incontra galleristi, artisti e attori (ad esempio Marcello Mastroianni) che lo inciteranno a continuare e acquisteranno sue opere. Fino al 1985 rimane all’Accademia di Firenze e dopo la vittoria a un concorso nazionale, decide di trasferirsi all’Accademia di Brera a Milano, dove ottiene la cattedra di Pittura. Diventa a 36 anni il più giovane insegnante della storia di Brera. Comincia così un intenso periodo didattico e creativo che lo porta a maturare i canoni estetici che tutt’oggi lo caratterizzano con l’adozione di un contesto post industriale, popolato da simpatici ed emblematici robot dalle mille storie talora di carattere autobiografico. Si staglia sulla tela il nitore tecnico delle profilature luminescenti che progressivamente taglieranno fuori ogni citazione antropocentrica per dialogare direttamente con uno spazio assoluto e senza tempo. Si susseguono le partecipazioni a prestigiose rassegne d’arte come la Biennale a Milano nel 1994, a mostre collettive e personali tenute in Italia, come in Grecia, Inghilterra, Francia, Ungheria e Svizzera. Memorabile la mostra del 2001 presso il Museo di Arte Cicladica Goulandris ad Atene, di proprietà dell’omonimo magnate, che esporrà una sua opera tra un Rothcko e un Picasso. Ritornerà poi ad Atene l’anno successivo per posizionare sulla facciata del Museo una sua opera, consistente in un’installazione luminosa realizzata da Vito Inghilleri. Nel 2003 ritorna in Toscana, presso l’Accademia di Carrara prevedendo un anticipato ritiro dall’insegnamento che avverrà nel 2007, per dedicarsi alla creazione delle sue opere. Oggi vive tra Livorno e gli Stati Uniti. Nel 2013, mostra antologica all’Accademia delle Arti e del Disegno, Accademia delle Belle Arti, Firenze; nel 2015 mostra personale al Centro Culturale La Soffitta, Sesto Fiorentino; nel 2016 mostra antologica al Museo Giovanni Fattori, Granai di Villa Mimbelli, Livorno.

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ARTE

Michelangelo

e l’Altissimo esclusione dalla direzione dei lavori

Costantino Paolicchi Daniele da Volterra, volto di un apostolo con le sembianze di Michelangelo, 1550-1552. Sulle cave della Cappella, ca. 1930. “Dirimpetto e riscon­tro” si trovano le cave di Tram­bi­ser­ra, aperte e coltivate da Mi­che­langelo.

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ei primi giorni di maggio 1518 Michelangelo in Firenze scriveva a Donato Benti in Pietrasanta per avere notizie sull’andamento delle cave. Dice che è venuto da lui Cecone a chiedere soldi, ma «…io non gli ò voluto dare niente, perché io non so quello e’ s’abino facto chostà». Il Benti risponde in data 9 maggio. In effetti ci sono

dei problemi con gli scalpellini di Settignano, che hanno abbandonato il lavoro e sono tornati a Firenze per chiedere denari a Michelangelo: «Maestro Michelangnolo, questta per dirvi chome li scarpellini menastti di chosttà ne sono ttutti venutti chosttà. Dichano non avere più danari…». I cavatori di Pietrasanta, invece, contrariamente a quanto sosteneva Cecone, stanno lavorando di buona lena: «La cholona ène ispichatta e noll’àno mosa dà luogo, e queli da Priettasanta (sic) àno ispichatto uno pezo; credo ve ne sarà dretto un’alttra. E àno buono aviamentto»1. Sulle cave gli uomini erano in disaccordo. Sandro di Giovanni di Bertino aveva segnalato a Michelangelo che Michele di Piero cercava di mettere tutti in cattiva luce definendoli bugiardi e traditori. Il Benti cerca di comporre le liti e il 13 giugno torna a scrivere a Michelangelo in Firenze per ragguagliarlo sull’andamento dei lavori sulle cave di Seravezza. Nel mese di agosto 1519 Michelangelo si lamentava con il fratello Buonarroto degli scalpellini di Settignano: non hanno combinato niente, si sono presi i soldi e se ne sono andati. Anche Sandro lo ha lasciato, dopo essere stato diversi mesi a gironzolare a dorso di mulo, pavoneggiandosi, dedito soltanto a pescare e a fantasticare: «Sandro s’è partito anchora lui di qua. È stato qui parechi mesi chon un mulo e chon un mulecto in sulle pompe, acteso a pescare e a vagheggiare»2. Intorno alla metà di settembre del 1518 Michelangelo è impegnato in Trambiserra a calare fino alla strada lungo il ravaneto una colonna sbozzata, mentre in cava si sta lavorando a sbozzarne una seconda. Il 13 o il 14 di

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settembre Michelangelo in Seravezza scrive a Berto da Filicaia in Firenze per aggiornarlo sull’andamento dei lavori per la realizzazione della strada delle cave e sulle operazioni di lizzatura di una delle colonne destinate al San Lorenzo. È una lettera di grande importanza e di notevole suggestione, per come riesce a descrivere efficacemente – pur nello stile asciutto ed essenziale di Michelangelo – le difficoltà che lo scultore va affrontando per procurarsi i marmi nelle cave dell’Opera: «Berto, io mi rachomando a voi e.rringratiovi de’ servitii e benefitii ricevuti, e son sempre, chon tucto quello che io posso e ò e so, al vostro chomando. Le cose di qua vanno assai bene. La strada si può dire che sia finita, perché resta a fare pocho, cioè resta a.ctagliare certi sassi o vero grocte: l’una è dove sbocca la strada che escie del fiume nella strada vechia, a .rRimagnio; l’altra grocta è pocho passato Rimagnio, per andare a.sSeraveza, un sasso grande che atraversa la strada; e l’altra è all’ultime case di Seravezza, andando verso la Chorvara. Dipoi s’à a spianare chol piccone in qualche luogo. E tucte queste cose, perché son breve, sarebon facte en quindici dì, se ci fussino scharpellini che valessino qualche cosa. Del padule, è forse octo dì non vi sono stato. Allora andavono pure riempiendo el peggio che potevano. Stimo, se ànno seguitato, che a quest’ora sia finito. «De’ marmi, io ò la cholonna calata giù nel chanale a presso alla strada a cinquanta braccia, a.salvamento. È stata magior cosa che io non stimavo, a collarla, e uno ci s’è dinocholato e morto subito, e io ci sono stato per mectere la vita. L’altra colonna era


per nostra parte che non dubiti di niente et stia di buona voglia et sopra tucto ingegnisi di recuperare la sanità con ogni rimedio opportuno, che non sarà per mancarli denari né colonne quando sarà sano”4. In pari data Iacopo Salviati in Firenze scrive a Michelangelo in Seravezza: «Michelangniolo mio caro, io ho inteso, per una di Bartolomeo da Filicaia a Berto suo padre, come la colonna che era calata giù al basso s’è rocta, di che ò avuto dispiacere grande; ma molto maggiore m’à dato lo intendere che tu ti dia dispiacere di questa cosa, come se non havessi pensato che in una impresa di questa natura non ti avessi a intervenire molti maggiori disordini di questo. Fa’ buono animo e seguita gagliardamente la impresa tua – si raccomanda Iacopo – perché così è l’onore tuo, havendola principiata (…). Ricordati che nel dare principio a una cosa di cotesta natura n’arà la ciptà nostra grandissimo obligo con esso teco e con tucta la casa tua e resteranno in perpetuo obligo. Gli uomini grandi e di franco animo nelle adversità pigliono più quore (sic) e sono più gagliardi…»5. Forse in quello stesso giorno, 20 settembre, Buonarroto scrive a Michelangelo in Seravezza, dopo che anche lui ha appreso la notizia della rottura della colonna e dello stato di salute del fratello, che si è ammalato

quasi bozata; trovai un pelo che me la troncava; èmmi bisogniato rientrare nel poggio tanto quante l’è grossa per fugire quel pelo, e così ò facto, e stimo che adesso la vi sarà. E bozasi tuctavia. «Non m’achade altro, se non [che] pregovi, parlando alla magnificentia di Iachopo Salviati, facciate mia schusa del non scrivere, perché non [ò] anchora da scrivere cosa che mi piaccia; però nol fo. El luogo da chavare è qua molto aspro, e gl’uomini molto ignoranti in simile exercitio; però bisognia una gran patientia qualche mese, tanto che e’ si sieno domestichati e’ monti e ammaestrati gli uomi[ni]. Poi fareno più presto. Basta che, quello che io ò promesso, lo farò a ogni modo, e farò la più bella opera che si sia mai facta in Italia, se Dio me n’aiuta»3. In chiusura di questa lettera, Michelangelo si lamenta con Berto da Filicaia del comportamento di alcuni cavatori di Pietrasanta che non vogliono portare avanti il lavoro per il quale s’erano impegnati e neppure

vogliono restituire i cento ducati che avevano ricevuto dallo stesso Michelangelo; lo scultore è intenzionato a chiedere giustizia agli Otto di Pratica a Firenze. Nei giorni immediatamente seguenti (non si conosce la data esatta, ma certamente prima del venti settembre) la colonna calata lungo il canale “a salvamento” si rompe, forse durante le operazioni di carico sul carro che doveva trasportarla fino alla marina. Si ha notizia dell’incidente da varie lettere: la prima è dell’Opera di S. Maria del Fiore e reca la data del 20 settembre 1518; è indirizzata a Bartolomeo Berto da Filicaia: «Charissimo nostro etc. Per una tua directa a Berto tuo padre, intendiamo il caso sinistro seguito della colonna, di che ne habbiamo hauto dispiacere assai. Niente di manco per questo non ci pare da levare la speranza che non si segua avanti. Et sopratucto asi mali del dispiacere e male voglia et discontento che ha il nostro Michelagnolo di questo caso sinistro, della fortuna del temporale seguito. Ma conforteralo

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Monte Altissimo, veduta dalle pendici del monte Cavallo nelle vicinanze di Azzano (foto C. Paolicchi). Mazzacavallo con sgancio automatico, disegno di Oreste Biringucci, detto Vannocci, Biblioteca Comunale, Siena, S. IV.1, c. 130 r., in D. Lamberini, op. cit.


Un navicello risale l’Arno in loca­lità Uliveto, dove si trovava un piccolo porto fluviale per il caricamento delle pietre estratte nelle locali cave (inizi del Novecento).

per il dispiacere e il disappunto: “Michelagniolo, intesso come le chose pasano costà et chome se’ amalato. (…) Parmi, sechondo me, che tu deba stimare più la persona tua che una colona e che tuta la chava e che il Papa e.ttutto il mondo (…). E se il Papa o altri vuole fare cavare, lacia loro in el pensiero, perché, quando sarai morto, non farano conto niente”6. Donato Benti, in quel periodo, si era rivelato un collaboratore fidato e prezioso per Michelangelo. Non solo sulle cave di Seravezza a tener testa agli scalpellini di Settignano, ma anche all’Avenza, dove è impegnato nel far caricare i marmi da tempo giacenti sulla spiaggia, e a Pisa, dove ha organizzato con la collaborazione della Compagnia dei Salviati un caricatoio in foce d’Arno e ha fatto costruire un “capocavallo” (detto anche “mazzacavallo”), una rudimentale ma efficace macchina da sollevamento. Questa richiede conoscenze tecniche di un certo livello che Donato aveva acquisito a Firenze, nei cantieri dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Nell’ottobre del 1518 cominciavano ad arrivare a Pisa i primi marmi dell’Avenza. Donato segue tutte le fasi di carico e scarico, si occupa dei noli, e rischia la vita quando il capocavallo si rompe: «Quando sono venutto in Pisa – riferiva a Michelangelo in una lettera scritta tra il 7 e l’11 ottobre – ò fatto venire le barche al mazachavalo; òne ischarichatto una prietta di dua charatte, e’ mazachavalo s’è rotto e à avuto a’ mazare me chon li attri. Nonn.è fatto male a nessuno»7. Francesco Peri, responsabile della Compagnia dei Salviati di Pisa, ha parole di elogio

per il Benti. In una lettera indirizzata a Michelangelo del 15 ottobre, dove riferisce del caso della rottura del mazzacavallo (che anche il Peri, come Michelangelo, chiama capocavallo) e delle barche che sono state procurate, parlando di Donato afferma: «E se non fusse stato lui, non si chominciava mai a chondurre detti marmi».8 Nel mese di novembre Donato è a Carrara per caricare i marmi e qui tratta con diversi cavatori per nuove forniture forse destinate alla facciata di San Lorenzo. A Seravezza sta seguendo l’estrazione di un grande blocco dal quale verrà ricavata una colonna. A dicembre si trova a Pisa, dove il giorno 6 scrive a Michelangelo per comunicargli che ha cominciato a spedire i marmi da Pisa per Porto di Signa per mezzo della scafa di Tingo da Brucianese “inscafaiuolo”. Inizia da quel momento il trasporto via Arno dei marmi, quelli destinati alla tomba di Giulio II, e quelli per il cantiere di San Lorenzo. Dopo quella del 6 dicembre, seguono numerose lettere del Benti a Michelangelo in Firenze, affidate ai padroni di scafe che trasportano i marmi. Sia le lettere del Benti che i Ricordi di Michelangelo ci tramandano i nomi di questi scafaioli. A gennaio del 1519 Donato è sempre impegnato a Pisa nelle spedizioni via fiume. Il 2 febbraio scrive che ha finito di caricare tutti i marmi che erano a Pisa, ma «…òvi lasatto el giubone attachatto a le priette; sì che mandattemi a dire quello ò a fare a no rimanere in chamicia , cioè sanza giubone. Attro non achade. A voi mi rachomando».9 Il Benti è proprio sfortunato: oltre ai problemi economici che lo assillano, ora gli accade anche

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di perdere il giubbone, che ha lasciato appeso ai marmi spediti a Firenze con le scafe. È inverno, fa freddo e lui è rimasto in maniche di camicia. Si raccomanda a Michelangelo perché gli procuri un altro giubbone. Quando il 2 aprile di quell’anno andò in frantumi la seconda colonna, i rapporti tra Michelangelo e il Benti si fecero tesi, perché nella disperazione del momento lo scultore lo aveva accusato di essere responsabile della rottura dell’ulivella che provocò il disastro. In una lettera a Pietro Urbano in Firenze del 20 aprile, Michelangelo che si trova ancora a Seravezza racconta l’accaduto: «…si rupe uno anello dell’ulivella che era alla cholonna, e.lla cholonna se n’andò nel fiume in cento pezzi. El decto anello l’vea facto fare Donato a un suo chompare Lazaro ferraro, e quanto all’essere recipiente, quando fussi stato buono era per reggere quatro cholonne, e a vederlo di fuora non ci parea dubbio nessuno. Poi che s’è rocto, abbiàno visto la ribalderia grande: che è’ non era saldo drento niente, e non v’era tanto ferro per grossezza che tenessi quante una chostola di choltello; i’ modo che io mi maraviglio che reggiessi tanto. Siàno stati a un grandissimo pericholo della vita ctutti che ervamo actorno, e èssi guastato una mirabil pietra».10 Quell’episodio ebbe come conseguenza il licenziamento del Benti, tant’è che in seguito sulle cave troveremo Pietro Urbano, il garzone di Michelangelo, a occuparsi di tutto o quasi. A Seravezza lo scultore è costretto a lottare ogni giorno contro l’ambiente aspro e difficile, e contro l’inadegua-


tezza degli uomini e dei mezzi. L’obbiettivo di Michelangelo era di riuscire a condurre la strada fino ai piedi del Monte Altissimo, dove aveva scoperto dei vasti giacimenti di marmo statuario. Aveva perfino chiesto e ottenuto, non senza penare, dall’Opera di Santa Maria del Fiore e dai Consoli dell’Arte del Lana di potersi rifornire gratuitamente e per tutto il resto della sua vita di marmi dell’Altissimo, una volta che fosse riuscito a mettere in esercizio quelle cave. Purtroppo tutto quel suo affannarsi non dette i risultati sperati. Con il dispiacere di non potersi dedicare in quel periodo alla scultura, dovette affrontare problemi d’ogni tipo per caricare i marmi alla marina e trovare le barche che li portassero fino in foce d’Arno. Per costruire le macchine da sollevamento per scaricare e ricaricare i marmi sulle scafe per condurli lungo il corso dell’Arno fino al porto di Signa; e poi di nuovo per trasbordarli sui carri che li avrebbero finalmente condotti a Firenze. Vita tribolata, la sua, costretto ogni giorno a rintuzzare le accuse degli eredi di papa Giulio II che vedevano passare il tempo senza risultato alcuno, o a fornire improbabili rassicurazioni ai committenti romani della facciata del San Lorenzo. Poi, quando le cose cominciarono a volgere per il meglio, improvvisamente e inaspettatamente, con un “breve” di Leone X del 20 febbraio 1520 Michelangelo veniva sollevato dall’incarico. Nel saldo attivo dell’impresa della facciata va senz’altro considerato il lavoro da lui svolto per dare avviamento alle nuove cave dell’Opera di S. Maria del Fiore a Seravezza, in luoghi dove mai si era cavato marmi in precedenza. Anche la strada realizzata da Michelangelo da Corvaia fino ai poggi di carico delle cave di Cappella e di Trambiserra va annoverata tra le opere legate al progetto della facciata, che sopravvissero al fallimento dell’impresa. Quella strada fu di particolare utilità per il successivo sviluppo dell’industria del marmo a Seravezza: «…convenne fare una strada di parecchi miglia fra le montagne – ricordava il Vasari nella ‘Vita’ di Michelangelo – e per forza di mazze e picconi rompere massi per spianare, e con palafitte ne’ luoghi paludosi, ove spese molti anni Michelagnolo per eseguire la volontà del papa; e vi si cavò finalmente cinque colonne di giusta grandezza, che una n’è sopra la piazza di San Lorenzo in Fiorenza, l’altre sono in marina. (…) Cavò oltre

a queste colonne molti marmi, che sono ancora in sulle cave stati più di trenta anni»11. Michelangelo sosteneva di aver cavato sei colonne; cinque secondo la testimonianza di Vasari. Una sola di queste fu trasportata fino a Firenze e per lungo tempo giacque inutilizzata sulla piazza di San Lorenzo. Le altre furono abbandonate alla marina come attestava lo stesso Vasari nella biografia del Buonarroti, mentre nel saggio “Dell’architettura” dichiarava che parte si trovavano alla marina e parte sulle cave, insieme a molti altri marmi. A proposito di quell’unica colonna condotta fino a Firenze, Gaetano Milanesi annotava: «L’abbozzata, ch’era fuor della chiesa a’ giorni del Vasari, fu sotterrata ne’ primi anni del 1600, insieme con altri pezzi architettonici, in una fossa fatta sulla piazza lungo il fianco sinistro della detta chiesa»12. Le colonne rimaste alla marina di sicuro furono sepolte dagli accumuli di sabbia e successivamente dai detriti trasportati dalle esondazioni del Versilia e dai materiali che nel corso dei secoli si sono sedimentati nel luogo, oggi lontano dal mare, dove era ubicato il caricatoio dei marmi dell’Opera di S. Maria del Fiore. Diversi blocchi erano giunti a Firenze, sbozzati nelle misure giuste per le varie parti architettoniche della tomba e della facciata, o destinati alla realizzazione delle figure per la tomba di Giulio. Almeno uno riguardava invece le statue della facciata. In un ricordo non datato, ma riconducibile al periodo intorno al 10 marzo 1520, Michelangelo annotava infatti: «El marmo che i’ò in Firenze per fare una figura per la faccia»13. Parte furono depositati nella stanza di via Mozza, dove furono sbozzate le figure dei Prigioni che oggi si trovano al Museo dell’Accademia, e parte raggiunse certamente la piazza di San Lorenzo; dopo l’esclusione di Michelangelo dalla direzione dei lavori di cava (che comportò anche la perdita per lo scultore dei diritti sui marmi dell’Altissimo attribuitigli dall’Arte della Lana) e l’abbandono del progetto della facciata, furono utilizzati dall’Opera di Santa Maria del Fiore per il duomo e forse anche per altri cantieri fiorentini. Quelli rimasti inutilizzati furono infine sepolti insieme alla colonna, nel luogo indicato da Gaetano Milanesi. “La facciata di San Lorenzo – ha scritto Giovanni Papini – fu per Michelangelo, dopo la tragedia dell’altare Piccolomini e la tragedia della sepoltura di Giulio, una terza tragedia, forse più dolorosa delle altre due perché della

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prima rimangono almeno quattro statue e della seconda un sepolcro che, per quanto lontanissimo dalla originale ideazione, contiene pur tuttavia tre figure di sua mano. La facciata costrinse Michelangiolo a fatiche tediose e penose, per un’opera che non ebbe neanche un principio di esecuzione. Fu, questo, uno dei periodi più strapazzati e sterili della sua vita. (...) «Michelangiolo aveva perduto, oppresso da quelle fatiche, senza poter avviare quella facciata, più di tre anni; tre anni e mezzo della sua piena maturità, tra i quarantadue e i quarantacinque. Forse non ebbe altra consolazione, in tutto quel tempo, che la solitudine in mezzo alla natura selvatica, la vista dei monti e del mare, la meditazione delle cose eterne»14. NOTE: 1 Carteggio, CCLXXXII. 2 Ibidem, CCCXXXV 3 Carteggio, CCCXLIII, cit. 4 AODF, Copialettere della cancelleria e del provveditore, 1511-1524, Serie V-1-2, c. 117r. 5 Carteggio, CCCXLIV. 6 Ibidem, CCCXLV. 7 Carteggio, CCCXLIX. 8 Carteggio, CCCLIV. 9 Carteggio, CDIV. 10 Carteggio, CDXXXI. 11 Le opere di Giorgio Vasari con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, tomo VII, cit., p. 190. 12 Ivi. 13 I Ricordi di Michelangelo, a cura di Lucilla Lizzatura sulle cave di Bardeschi Ciulich e Paola Barocchi, Sansoni Carrara; anni Cinquanta del Ed. Firenze 1970 , XCVI. 14 Novecento (foto Archivio G. Papini, Dante e Michelangiolo, Mondadori Bessi). Ed., Verona 1961, pp. 574-576.


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ARTe

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millenovecento

il reduce dipinto da Ardengo Soffici Paolo Pianigiani

Ardengo Soffici, La Processione, 1933. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna. Ardengo Soffici, Millenovecentodiciannove (il Reduce), 1929-30. Prato, Museo Civico di Palazzo Pretorio. Particolare.

I

l sottotitolo del quadro, un olio su carta incollata alla tela, è Il reduce e Ardengo lo dipinse fra il 1929 e il 1930. Abitualmente è nella collezione permanente del Museo Civico di Prato, in una splendida sala insieme ai marmi scolpiti da Lorenzo Bartolini. Ma è sempre stato un quadro vagabondo, richiesto in tante mostre in tutto il mondo. Fin da subito, nel ‘32, in pratica appena dipinto, fu mandato a Pittsburgh, in Pennsylvania, al Thirtieth Annual International Exhibition of Paintings, Carnegie Institute, dove fu esposto dal 18 ottobre al 6 dicembre 1931; poi, mentre che era in America, passò al Museum of Art, Baltimora, gennaio-febbraio 1932. Non è dato sapere cosa dissero i visitatori, di fronte a questo povero italiano, reduce di guerra, curvo e cupo nella sua mantellina militare sbrindellata e con i poveri pantaloni smessi, con la risvolta a coprire i piedi senza scarpe. Erano appena passati per loro le disperazioni della crisi del ’29. L’America cominciava a risalire la china.

Soffici aveva guidato, fra i più convinti, il tanto declamato ritorno all’ordine. Da caposcuola italiano del brulicare artistico appreso a Parigi, ai primi del Novecento, all’impazzare del Futurismo, prima avversato a suon di pugni, poi totalmente inglobato e fatto proprio. E rimangono opere bellissime, di quel periodo, quelle che non riuscì a distruggere. Perché Ardengo era così, passionale e senza mezze misure. Gli dobbiamo Cézanne, gli dobbiamo Rimbaud; fu il primo a parlarce-

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ne. A noi che eravamo fermi a Carducci e a Fattori. Ci parlò di Medardo Rosso e scoprì Evaristo Boncinelli, lo scultore pazzo. E trovò anche il tempo di perdere al povero Campana il suo unico manoscritto in bella copia dei Canti Orfici. Ma, come si è visto ai tempi nostri, dopo il ritrovamento del manoscritto, fu un bene. Dino Campana riscrisse completamente il suo unico libro, e quello che pubblicherà sarà un’opera migliore: e immortale. Era un vulcano, Ardengo. Gemello dell’altro gigante di allora,


Giovanni Papini. Tutti e due nell’ombra, oggi, a scontare colpe non loro. Dannati nella memoria dei vincitori. Fu la guerra a cambiarlo, dove si buttò volontario con l’impeto del salvatore della patria e della cultura europea, contro l’oscurantismo tedesco. Lo ferirono due volte, sulla pietraia martoriata dalle fucilate della Bainsizza, vicino a Gorizia. A differenza dell’amico Papini, che era riformato, e che restò a Firenze a combattere solo con la sua penna e l’inchiostro. Tornato a casa fu fra i primi ad aderire al Fascismo di Mussolini. Ebbe incarichi e ruoli, come la direzione della terza pagina del Corriere della Sera. Scrisse libri, articoli, diari di guerra, come Kobilek, subito pubblicatogli da Vallecchi, che fu sempre il suo editore. Ma torniamo ai pennelli, come avrebbe detto lui. Emilio Cecchi, che lo ebbe per amico e compagno di strada, disse che Soffici innestò Cézanne e Degas sull’albero nostro di Fattori e Segantini. A me pare che se fosse rimasto a Parigi, con Modigliani e compagnia, la sua pittura avrebbe raggiunto risultati imprevedibili. Migliori, peggiori? Chi lo sa… ma teniamoci questo reduce di guerre vinte ma perse, questo povero italiano che dalla guerra riporta solo una mantella, chiusa per il freddo e la pioggia imminente, da una mano tremante. Teniamoci lo sguardo pèrso dentro nessun futuro, teniamoci i piedi sporchi che avanzano per la via. Nulla incarna più di questo quadro lo stato d’animo dell’italiano del tempo, deluso da tutto, da Dio e dagli uomini. Per questo messaggio che si porta addosso, forse, è stato richiesto sia lo scorso anno, all’Expo, nella mostra collaterale La Grande Guerra. Mito e realtà, e subito a ruota a Trento, al Castello del Buonconsiglio, per la mostra evento Tempi della Storia, tempi dell’arte, in occasione dei 100 anni dalla morte per fucilazione di Cesare Battisti, ancora in corso e che chiuderà a Novembre. In mezzo a queste due missioni un bel restauro, quanto mai necessario, eseguito da Silvia Fiaschi. Nelle foto di Alena i risultati, finali. Ardengo sarebbe contento; teneva a questo suo lavoro, così pieno di pensiero e di storia.

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GIOIELLI

un collare d‘oro per riconoscere

Camilla Martelli Costanza Contu

Ludovico Cardi detto il Cigoli (1559-1613) Cosimo I de’ Medici (1519-1574), 1602-1603, olio su tela 395x215 cm, Firenze, Palazzo Medici Riccardi, inv.1890, n.3784 Pastorini Pastorino detto Pastorino da Siena (15081592) Medaglia con il ritratto di Camilla Martelli (15451590),1584, Ø 4,8 cm. Iscrizione: Chamilla/Martelli de Medici, Firenze, Palazzo Martelli Museo di Casa Martelli

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amilla Martelli, una figura che affiora in penombra nella vita di Cosimo I de’ Medici, la giovane fiorentina che lo aveva sposato in seconde nozze nel 1570 dopo la lunga unione d’amore con Eleonora di Toledo (1519-1562). Nonostante l’avvenuto matrimonio incoraggiato o “consigliato” dal Papa Pio V che aveva incoronato Cosimo Granduca di Toscana nel 1570, la Martelli non acquisì mai il titolo di Duchessa. Con la morte di Cosimo scese sulla sua figura una cortina di silenzio, tanto che la sua stessa immagine emerge con forti dubbi – se non nella certezza di alcune medaglie – dai ritratti nel tempo a lei attribuiti. Esiste però, descritto con grande minuzia nelle carte d’archivio e rico-

noscibile in alcuni ritratti, una grande opera d’arte orafa: uno sfarzoso “collare o cinta” attraverso il quale potremmo tentare di riconoscere l’identità della donna. Il collare era il gioiello più utilizzato nel XVI secolo dalle dame fiorentine e poteva essere indossato anche come decoro attorno alla vita, un ornamento preziosissimo realizzato nelle fogge più disparate. Ma andiamo con ordine: chi era, innanzi tutto, Camilla Martelli? Camilla Martelli nasce da Antonio di Domenico Martelli e Fiammetta Soderini nel 1547; divenne l’amante di Cosimo I intorno al 1567 e con lui si sposò nel 1570, due anni dopo la nascita della loro figlia Virginia (1568-1615), che nel 1586 andrà in sposa a Cesare d’Este. Camilla viene descritta in varie lettere come capricciosa, vana e poco affettuosa, incapace di conquistare le simpatie dei cortigiani e dei familiari di Cosimo, tanto che immediatamente dopo la morte del Granduca (21 aprile 1574), Francesco succeduto al padre la costrinse a ritirarsi nel convento fiorentino di Santa Maria delle Murate, da dove chiese di essere trasferita (23 agosto) nel Monastero di Santa Monaca. Uscì raramente dalla clausura nel 1586 per assistere alle nozze della figlia, nel 1587 per soggiornare alla villa medicea di Lappeggi e nel 1589 per le nozze di Ferdinando I de Medici. Visse in convento, secondo le cronache dell’epoca, in disperazione e soggetta a attacchi isterici fino alla morte avvenuta il 30 maggio 1590. Al di là delle notizie biografiche, poco o niente sappiamo della sua persona, del suo volto. Pieraccini nella sua grande opera sui Medici

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(La stirpe dei Medici di Cafaggiolo. Saggio di ricerche sulla trasmissione ereditaria dei caratteri biologici, Firenze 1924-25) riporta alcune testimonianze dell’epoca che descrivono Camilla “fanciulla elevata di vita, bianca e bionda”, donna “che si adorna di vesti e di vanità” (cfr. Pieraccini 1924-1925, II, 1925, pp.7276).La generale damnatio memoriae ci ha fatto perdere conoscenza delle sue fattezze tanto che Karla Langedijk nel suo magistrale lavoro (The Portraits of the Medici, 15th-18th Centuries, Firenze, 1981-1987) pubblica tre sole immagini della Martelli e confonde le sue fattezze con quelle di Dianora di Toledo (1553-1576) moglie di Pietro di Cosimo I. L’inventario delle gioie di Camilla Martelli redatto nel 1574 in occasione della morte di Cosimo I fornisce un aiuto prezioso per il riconoscimento di alcuni suoi ritratti. Tra i gioielli descritti compare infatti una bellissima cinta o collare con il quale la giovane donna si fa regolarmente raffigurare: «Un collare o vero cinta grande di 24 compassi d’oro smaltati, che in dodici sono tre perle grosse per ciascuno, et nelli altri 12 sono


Bottega di Alessandro Allori (1535-1607), Camilla Martelli (1545-1590), 1570 ca., olio su tavola 46.5x 41 cm, Baltimora, Walters Art Gallery, inv. n. 37.1112 Bottega di Alessandro Allori (1535-1607), Camilla Martelli (1545-1590), 1570 ca, olio su tavola 66x51 cm, Sotheby’s, Londra, 5 luglio 2007 Jacopo Ligozzi (1547-1590) Virginia de’ Medici (1568-1615), 1584-86 ca., olio su tavola 64x48 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. Poggio a Caiano n. 64

4 smeraldi tavola quadri 3 diamanti o vero zaffiri bianchi, uno diamante tavola, quattro rubini tavola, et uno pendente in mezzo drentovi uno zaffiro bianco grande tavola quadro, ed una perla pera grossa a piede» e splendidi pendenti quali «un paio di orecchini a usi di due anitre d’oro col corpo di madreperla e tre perline per orecchino» (ASF, MM12, inserto 1, c. 20r, pubblicato in I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, 2003, Firenze, p.202). I preziosi sono indossati dalla Martelli, nell’opera del 1761 pubblicata dalla Langedijk (cfr. Langedijk, 1981-1987, I, 1981, p.328, n. 13,1) in un ritratto conservato nella Villa di Poggio Imperiale a Firenze (cfr. Langedijk, 1981-1987, I, 1981, p.716 ), e il solo collare è presente nel pannello della Walters Gallery di Baltimora (cfr. Langedijk, 1981-1987, I, 1981, p. 709, n. 36,1) e in quello attribuito alla bottega Alessandro Allori battuto all’asta londinese di Sothesby’s il 5 luglio 2007. In questi ritratti, grazie all’identifica-

zione dei gioielli indossati e descritti con minuzia nelle carte d’archivio, possiamo dunque tentare di riconoscere le fattezze di Camilla Martelli: il volto ovale incorniciato da capelli ricci e di colore castano pettinati secondo la moda del tempo che esigeva perle e piccole decorazioni sulla testa. L’ipotesi che in questi ritratti si possa riconoscere il volto di Camilla è accreditato dalla presenza del medesimo collare sulla veste di Virginia dè Medici, sua figlia, ritratta da Jacopo Ligozzi fra il 1584 e il 1586 in occasione delle nozze con Cesare d’Este. La consuetudine del tempo voleva che la madre consegnasse alla figlia i propri gioielli in occasione del matrimonio e cosi è stato per la giovane Virginia che acquisisce il collare nel 1585, come confermano le carte d’archivio (ASF, MM, filza 12, inserto 1, c. 16r pubblicato in I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, p. 202) e lo sfoggia con grande onore nel bellissimo ritratto di mano del Ligozzi.

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VISIBILE PARLARE

Bonaventura

Berlinghieri sottopelle

Roberto Giovannelli

Michele Buonori, 1851, incisione calcografica al tratto del dossale di Bonaventura Berlinghieri, rappresentante San Francesco e storie della sua vita, conservato nella chiesa di San Francesco a Pescia. L’opera fu restaurata da Alfio Del Serra nel 1982 Roberto Giovannelli, 2015, Parole agli uccelli, grafite, inchiostro nero e acquarello, cm 30x21, “Appunti per una composizione pittorica intorno alla Predica agli uccelli”, dipinta da Bonaventura Berlinghieri nella tavola con San Francesco e storie della sua vita, conservata nella chiesa di San Francesco a Pescia. Gli uccelli tratteggiati corrispondono a quelli che s’intravedono oltre la superficie dipinta nella tavola del Berlinghieri.

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otto la pelle di quanti dipinti si celano disegni, linee ideative e figure diverse da quelle che appaiono in superficie? Primi pensieri o pentimenti del pittore? Palinsesti da decifrare, tracce, come di onirici affioramenti o archeologiche stratificazioni? Sono passaggi intermedi, percorsi che interagiscono e conducono alla definizione di una forma finale: segni, sussulti di un processo creativo; talvolta singolari accensioni soffocate poi nel perimetro di più rassicuranti rappresentazioni. Indugio intorno a queste riflessioni ogni volta che mi trovo a osservare il San Francesco esposto nell’omonima chiesa di Pescia, dipinto su un orizzonte di misteriosi ascendenti orientali da Bonaventura Berlinghieri, che vi suggellò data e firma nel 1235, ad appena nove anni dalla morte del Santo. «Il Berlinghieri, stregato e maledetto pittore di Lucca, in quei tempi beati deve aver fissato il Santo, sparuto trasandato divorato, e nella maturità consapevole lo ritrasse in una pala d’altare con la febbre dell’invasato, intermittente d’ombre nere e luci dorate». Così, in vibrante, risentito chiaroscuro, Lorenzo Viani rappresenta l’autore dell’opera e il personaggio ritrattato, come se l’uno e l’altro fossero appesi ai rami salmastri e nodosi dell’albero genealogico dei suoi Vageri. Osservo luci e ombre di un volto che ritrovo nella Vita prima di Tommaso da Celano. Ebbe Francesco voce veemente dolce e severa, e benigno viso: «testa non grande e rotonda, faccia alquanto lunga e protesa, fronte piana e piccola, occhi mezzani, neri e semplici, capelli foschi, sopracciglia dritte, naso eguale, sottile,

retto, orecchie ritte e piccole, tempie piane», ebbe «labbra scarse e sottili, barba nera e rada, collo stretto». Affiancato da due angiolini, ecco il Santo segnato dalle stimmate, al centro della piccola pala cuspidata, come se apparisse sulla soglia di un’umile capanna, tempio di fulgida povertà. Ha il saio e il cordone consunti all’altezza del ventre, sfiorati nei secoli dalla mano di chi implorò una grazia, forse un dono di nuziale fertilità. La smaltata tempera su tavola «ricoperta da una finissima tela di bisso o bambacina», come notò Michele Ridolfi, che dell’opera fece realizzare una riproduzione al tratto, amorevolmente disegnata e incisa da Michele Buonori nel 1851, reca ai lati di Francesco scene della sua vita e di suoi miracoli: a sinistra di chi guarda, Bonaventura dipinse Le stimmate, La predica agli uccelli, La guarigione di una bimba, a destra, Il miracolo degli storpi, Il miracolo dello zoppo, Il miracolo degli ossessi. Un prodigioso

nucleo di storie che Carlo Carrà paragonò a «terzine dantesche viventi». La dominante figura del «fi’ di Pietro Bernardone» portatore del Vangelo, si ritrova quasi identica nella stessa pala, ma ruotata in senso orizzontale, e miniaturizzata in tratti di tenero naturalismo nel quadretto con La predica agli uccelli. Qui, nell’assemblea di pennuti in silenzioso ascolto sulla montagnola alberata, non si trovano le colombe e le «monachine» ricordate dal Celano, vi si contano però sedici taccole o cornacchie, e due gazze. Ma, guardando meglio oltre gli alberi gemmati, fra i crepacci rocciosi e sotto le figure degli uccelli dipinti, vedi – come in filigrana – trasparire il disegno di altri pennuti di dimensioni più grandi dei precedenti. Almeno sei son quelli tracciati con lo stilo sulla lamina d’oro, i cui animati profili affiorano in superficie.1 Se gli uccelli in primo piano, combinati con gusto da miniatore, in guisa di diagramma figurato, quasi immobili,

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Evidenziai la presenza degli affioranti segni, in “Questi furono gli occhi della nostra pittura...”, noterella introduttiva nella plaquette relativa alla mostra fotografica del dossale del Berlinghieri conservato in San Francesco di Pescia, Qui c’è Bonaventura Berlinghieri, Biblioteca Comunale di Monsummano Terme, Tipografia Romani, Monsummano Terme, febbraio 1983, p. 9.

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come impagliati, interpretano il momento iniziale della predica, quelli sottostanti – rappresentati in movimento con abile mano – si direbbero invece gli inquieti protagonisti della conclusione di quella: quando, dopo le parole pronunciate da Francesco, tutti quanti gli uccelli cominciarono a dar segni di gioia, ad aprire i becchi, e distendere i colli, e aprire l’ali... Ma troppo invadente e trasgressivo apparve a Bonaventura il disegno di quell’animalesca agitazione di canti e di penne in terra di Bevagna e fra le quinte intarsiate come pietre dure nel suo luminoso dossale. Per breve tempo il pittore lasciò in libertà l’indisciplinato stormo davanti al mite e piccolo Santo. Egli volle riserbare il batter d’ali concitato, artigli aguzzi e gemiti, solo ai diavoli fuggenti dalla bocca degli ossessi (il miracolato in scena dovrebbe esser Pietro da Foligno, e la miracolata a seno

nudo fra le donne quella giovane di Narni presa da irrefrenabili «insaniæ passionem, & dæmoniacam phantasiam»).1 In questa «storiella» – la più drammatizzata della tavola – il diavolo in primo piano (il più grande e terribile) sgambante dalla bocca del perseguitato folignate non è più visibile: «demonio in forma di pipistrello e scrostato in antico, forse per sfregio», forse graffiato e rigraffiato dai fedeli per annullarne l’influenza malefica. Uno dopo l’altro i demoni fuggono in alto, sono localizzati secondo un indice di profondità semplice ed efficace, una prospettiva dimensionale che utilizza la ripetizione della stessa immagine ridotta progressivamente: un primo, un secondo, un terzo piano… Figura esagitata del demonio, che si perde nell’aria come una nota cupa ribattuta, sempre più piccolo fra le torri colorate della città.

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Nella scena sono rappresentati sincronicamente miracoli avvenuti in tempi diversi dopo la morte del Santo.

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NOTE 1 Evidenziai la presenza degli affioranti disegni, in Questi furono gli occhi della nostra pittura..., noterella introduttiva nella plaquette relativa alla mostra fotografica del dossale del Berlinghieri conservato in San Francesco di Pescia, Qui c’è Bonaventura Berlinghieri, Biblioteca Comunale di Monsummano Terme, Tipografia Romani, Monsummano Terme, febbraio 1983, p. 9. 2 Nella scena sono rappresentati sincronicamente miracoli avvenuti in tempi diversi dopo la morte del Santo.

Bonaventura Berlinghieri, 1235, La predica agli uccelli, particolare della scenetta (seconda a sinistra) tratto dalla tavola rappresentante San Francesco e storie della sua vita, conservata nella chiesa di San Francesco a Pescia (foto di Massimiliano Tronci). Bonaventura Berlinghieri, 1235, La liberazione degli ossessi, particolare della scenetta (ultima a destra) tratto dalla tavola rappresentante San Francesco e storie della sua vita, conservata nella chiesa di San Francesco a Pescia (foto di Massimiliano Tronci). Roberto Giovannelli, 2015, Parole agli uccelli, olio su tela e lamina oro con prove di spolvero, cm 40x30, pensiero per una composizione pittorica intorno alla Predica agli uccelli dipinta nel 1235 da Bonaventura Berlinghieri nella tavola con San Francesco e storie della sua vita, conservata nella chiesa di San Francesco a Pescia. Gli uccelli tratteggiati corrispondono a quelli che s’intravedono oltre la superficie dipinta nella tavola originale.


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iNstallazioni

passo passo sul Lago d’Iseo Luciano Gianfranceschi

Il Ponte galleggiante sul Lago d’Iseo di Jacques Christo

A

vevo già camminato sui carboni ardenti anni fa, quando ero più giovane e incosciente, una notte a Chianciano Terme. Stavolta mi sono cimentato nella sensazione di passeggiare sulle acque del lago d’Iseo, giovedì 30 giugno, pochi giorni prima che l’artista Christo chiudesse la sua performance di cui ha parlato il mondo. Anche perché era a ingresso libero in località Sulzano, secondo la filosofia dell’artista che l’arte deve essere goduta dal maggior pubblico possibile, notte e giorno. Titolo The Floating Piers, Lake Iseo, Italy 2014 – 2016. Ovvero, semplicemente Il ponte galleggiante. Ne ho approfittato a tre giorni dalla chiusura dell’evento, in una giornata

in cui il sole alternava raggi di fuoco e momenti più gradevoli. L’ingresso era libero, a suo modo, in quanto l’accesso era per migliaia di persone alla volta. Una fiumana di gente che appena metteva i piedi sulla bordatura giallo intenso aveva la sensazione/impressione di camminare sull’acqua. Chilometri di passeggiata, una marea (è il caso di dirlo) di persone mai vista, che dal passeggiare riceveva la sensazione di essere proprio sul lago. Una performance che per 16 giorni, dall’8 giugno al 3 luglio 2016, con i suoi 100 mila metri quadrati di tessuto giallo cangiante, sostenuti da un sistema modulare di pontili galleggianti costituiti da 220.000 cubi in polietilene ad alta densità che assecondano il movimento delle onde,

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attraversa a fior d’acqua il lago d’Iseo. Mentre facevamo la fila sotto il sole, dal palazzo municipale i due sindaci di Monte Isola e Sulzano guardavano il bel risultato. Non è stato possibile intervistarli, ma un collega ci ha passato una loro dichiarazione: Dal momento del nostro insediamento nel 2014 abbiamo operato affinché l’indiscusso valore estetico del nostro territorio e l’eredità culturale del nostro lago, fatta di tradizioni legate all’acqua e alla cultura agricola, racconti artigianato ed esperienza industriale venissero valorizzate e rinnovate. Qui l’artista di fama mondiale Christo, affascinato dalle limpide acque del lago d’Iseo e dai pendii dei monti che lo circondano, colpito dall’unicità della sua isola maggiore,


ha scelto Sulzano e Monte Isola per un progetto di solida materialità e di inestimabile valore concettuale. In effetti, The Floating Piers accende i riflettori sul lago, facendo scoprire al mondo la sua incantevole bellezza. Narra di cittadini del Lago e dell’Isola, racconta l’intraprendenza che non si ferma davanti ai limiti del possibile, parla della operosità. È un progetto che stimola a osservare il territorio con occhi rinnovati, costruendo un ponte tra la millenaria storia e una rinnovata immagine del lago d’Iseo, al centro dell’esperienza artistica contemporanea. La passerella lunga tre chilometri attraversa l’acqua del lago di Iseo formando il ponte galleggiante. Anche i disabili potevano fruirne, in tutto circa 20 mila persone alla volta. I pontili dai bordi degradanti sono larghi 16 metri e alti circa 35 centimetri. Il percorso in tessuto di colore acceso proseguiva poi per un chilometro e mezzo lungo le strade pedonali di Sulzano e Peschiera. Christo ha scelto i giorni più lunghi dell’anno per la fruizione del suo capolavoro. L’installazione temporanea dell’artista, concepita come una passerella che attraversa le sponde del lago d’Iseo, era disponibile ininterrottamente notte e giorno. Chi faceva acquisti, pagato il conto alla cassa aveva un timbrino sulla mano che fungeva da lasciapassare accelerato all’ingresso. Non è mancato qualche colpo di sole, come hanno raccontato le cronache: un giovane si è denudato e gridando “io cammino davvero sulle acque” si è buttato nel lago. Anche se sapeva nuo-

tare, si è trovato in difficoltà, è stato ripescato dalla polizia e dopo essersi rivestito è stato denunciato. Un colpo di sole, o la voglia di mettersi in mostra, anzi nei guai. Ma anche qualche altro maleducato si è dato da fare. La guida cartacea, gratuita, suggeriva di fruire dell’opera percorrendo a piedi da Sulzano a Monte Isola, e poi fino all’isola di san Paolo, che completamente circondata da The Floating Piers, ne rivela mutevoli prospettive e angoli inattesi. Christo valorizza il paesaggio come materia stessa, fluttuante come un’opera che prende vita cangiante a suon di cromìe sempre nuove, e quindi ha reinterpretato il lago d’Iseo, attraverso un sistema modulare di pontili galleggianti che collegano Sulzano con Monte Isola e l’isola di San Paolo. Cosicché con l’opera ha consentito ai visitatori di vivere l’esperienza di camminare sull’acqua. Il progetto fu concepito nel 1970 dall’artista insieme alla moglie JeanneClaude, ed è il primo su larga scala da quando realizzarono insieme The Gates nel 2005, e dalla scomparsa di Jeanne-Claude nel 2009. Come tutti i progetti di Christo e Jeanne-Claude, anche The Floating Piers è interamente finanziato con la vendita degli originali delle opere di Christo. L’artista bulgaro Christo ha impacchettato e trasformato monumenti e paesaggi di tutto il mondo. È tornato in Italia dopo 40 anni e nel lago d’Iseo ha proposto il contrasto tra la fluidità dell’acqua e la rigidità della terra ferma. La firma stilistica è il tessuto che nelle sue opere predomina. Si

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tratta di un’opera non solo da ammirare, ma da vivere, toccare, calpestare: calpestando preferibilmente a piedi scalzi. Alla fine della giornata è stato raggiunto in anticipo (giovedì 30 giugno, intorno alle ore 20) l’obbiettivo atteso per il termine dell’apertura dell’installazione (domenica 3 luglio): The Floating Piers già aveva agguantato il milione di visitatori. Sono 96.000 le persone che hanno camminato sulle acque in quella giornata di giovedì. Non so se sono stato proprio io il milionesimo, ma sono orgoglioso di aver contribuito a raggiungere il traguardo numerico che era previsto soltanto a fine evento. Infine, al termine dei 16 giorni di apertura al pubblico, tutto è stato smontato e riciclato attraverso un processo industriale.

Luciano e Luciana Gianfranceschi


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L’arte in italia

Carmelo De Luca

GIOVANNI DAL PONTE 22 novembre 2016 12 MARZO 2017 FIRENZE Galleria dell’Accademia

L’incontenibile leggerezza

27 SETTEMBRE 2016 8 GENNAIO 2017

17 SETTEMBRE 2016 3 OTTOBRE 2016

FIRENZE

Palermo

Galleria degli Uffizi

Galleria d’Arte Studio 71

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assegna monografica dedicata all’artista fiorentino, che ha saputo trasmettere nel suo operato il delicato passaggio dal tardo gotico al Rinascimento. Dotato di spiccata espressività individuale, Dal Ponte brilla in estrosità creativa e scruta con rispetto botteghe di tradizione e nuovi ambienti artistici fiorentini, basti menzionare Lorenzo Monaco, Beato Angelico, Paolo Uccello, Masaccio, presenti in mostra per capirne il percorso formativo. La crescita artistica del maestro trova supporto in prestiti di prestigiose istituzioni, ne sono prova il Prado madrileno, National Gallery di Londra, Museo Jacquemart-André di Parigi, che ha dotato l’esposizione di un bel cassettone dipinto. La mostra trova supporto nel catalogo della Giunti, opera completissima per quanto riguarda repertorio pittorico, documentazione, provenienza delle opere create dall’artista.

SCOPERTE E MASSACRI

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a mostra curata da Vinny Scorsone, presenta 35 incisioni di Enzo Sciavolino. Quasi un diario della produzione dell’artista iniziata nel 1964 e portata a termine nel 2012. Una personalissima raccolta di poemi e testi letterari di vari autori accompagna la mostra. Un volume di 224 pagine (Centro Toscano Edizioni). Il tratto incisorio percorre e pervade cinquant’anni di attività, cinquant’anni di storia personale e pubblica. La fa parallelamente alla scultura, ne segna e sottolinea i temi e le forme divenendo ora greve ora lieve. Il bulino e l’acido hanno eroso il metallo mentre la cera lo ha preservato. Il foglio è divenuto un bassorilievo granuloso e il disegno scultura. Questa mostra è un viaggio all’interno del proprio percorso artistico segnando differenze e affinità tra ciò che è stato e ciò che è divenuto.

U

na esistenza polivalente costella l’operato di Ardengo Soffici, maestro illustre ed in controcorrente con i suoi tempi, capace di coniugare operato artistico ed attività di critico d’arte, scrittore, polemista, non a caso la mostra fiorentina si incentra sugli scritti che hanno segnato il rinnovamento italico nel panorama artistico agli inizi del XX secolo. Sono proprio questi testi a commentare le opere presenti nelle sale espositive, create da Renoir, Degas, Segantini, De Chirico, lo stesso Soffici ed altri luminari. In effetti, queste importanti considerazioni e le esposizioni fiorentine da lui sostenute, basti menzionare quella del 1910 sugli impressionisti, alimentano per l’appunto uno spirito nuovo negli ambienti culturali nostrani, assolutamente manifesto nel percorso espositivo, che evidenzia scoperte e massacri nell’arte nuova secondo Segantini.

TEMPO REALE E TEMPO DELLA REALTà 13 settembre 2016 - 8 gennaio 2017

FIRENZE

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Palazzo Pitti

a Galleria d’Arte Moderna si mette in ghingheri sfoderando pezzi forti tra gli orologi presenti nella dimora medicea. Una splendida carrellata, tra Settecento e Novecento, fornisce al visitatore possibilità di cogliere percezioni temporali negli augusti saloni di Palazzo Pitti, nell’arco di tre secoli, grazie a creazioni di fattura squisitissima. Meccanismi artificiosamente sofisticati, avvolti in casse modellate a mo’ di finissimo oggetto d’arte, rendono queste opere uniche nel loro genere, non a caso le meraviglie presenti in mostra esternano qualità tecniche e spessore artistico. Molti i capolavori in esposizione, ne sono rappresentanza il pendule à la nègre in bronzo, ottone, smalto, marmo, l’orologio da tavolo con automi e carillon forgiato a mo’ di voliera, il barocco orologio da caminetto con stemma mediceo e iscrizione “COSMUS III MAG.DUX.ETRUR.”.

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BITTER SWEET SYMPHONY 13 OTTOBRE 2016 22 DICEMBRE 2016 SESTO SAN GIOVANNI (MI) Galleria Campari

RAFFAELLO. LA POESIA DEL VOLTO OPERE DALLE GALLERIE DEGLI UFFIZI E DA ALTRE COLLEZIONI ITALIANE 12 SETTEMBRE 2016 11 DICEMBRE 2016 MOSCA Museo Puškin

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alleria Campari presenta Bitter Sweet Symphony, un’esposizione sensoriale interattiva che coniuga le arti figurative con altre discipline, dalla musica al cinema, passando per la moda e l’alta profumeria, in un percorso convolgente i cinque sensi, alla scoperta delle due anime che convivono armoniosamente nel Campari: Dolcezza e Amarezza. La mostra occupa gli spazi espositivi di Galleria Campari negli Headquarters del Gruppo ed è curata dal suo direttore artistico, Maria Mojana, insieme a Fabrizio Confalonieri di Studio Cree. Il percorso è concepito come un itinerario lungo un arcipelago di isole sensoriali, con sette differenti momenti che pongono il visitatore nelle condizioni di effettuare una scelta tra opposti, in un viaggio immersivo per scoprire il proprio io recondito, nel quale non sarà chiesto solo di osservare, ma anche di toccare, utilizzare l’olfatto, ascoltare e gustare. L’esposizione sarà aperta gratuitamente al pubblico.

A

ttraverso un percorso di straordinaria qualità artistica, l’esposizione presenta per la prima volta al pubblico russo alcune tra le più significative opere di Raffaello, le cui opere e personalità hanno un significato per la cultura ex sovietica, come testimoniano le frequenti citazioni dell’artista tra i maggiori autori della sua letteratura, da Puškin, Dostoevskij, Tolstoj fino a scrittori e poeti di tempi più recenti. Per la parte italiana, la mostra trova valido supporto in Marzia Faietti, direttrice presso il fiorentino Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Gallerie degli Uffizi, per l’ambito russo in Victoria Markova, curatrice di pittura italiana al Museo Puškin, sotto la direzione scientifica del Direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt. L’iter espositivo trova filo logico nella cosiddetta poesia del volto e, attraverso una selezione di capolavori della ritrattistica provenienti esclusivamente da collezioni italiane, vuole illustrare l’incarnarsi degli ideali di perfezione artistica maturati da Raffaello.

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AI WEIWEI. LIBERO 23 settembre 2016 22 gennaio 2017 FIRENZE Palazzo Strozzi

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alazzo Strozzi celebra il maestro Ai Weiwei coinvolgendo nel percorso espositivo l’intera dimora principesca. Piano Nobile, Strozzina, cortile e, persino, la facciata ospitano sculture, installazioni gigantesche, oggetti simboli, video, serie fotografiche, degna carrellata

LEGNI PREZIOSI 16 ottobre 2016 22 gennaio 2017 Roncate (Mendrisio) Pinacoteca Züst

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llestita dal grande Mario Botta, la mostra emana delicata raffinatezza emotiva intrisa nei Cristi, Madonne, Compianti, polittici, bu-

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di un artista dalla fama universalmente riconosciuta, coniugante contemporaneità e tradizione. La vena classica insita nelle sue creazioni plasma armonicamente materiali, tecniche, rappresentazioni legati alla cultura cinese che, tuttavia, viene superata attraverso la manipolazione anticonformista di quanto appartiene alla cultura del Sol Levante, sua patria d’origine. Insomma, la mostra rappresenta un riuscito libro aperto dedicato all’estro creativo, maturazione artistica, libertà espressiva di un grande maestro nel panorama artistico internazionale. Al periodo newyorkese, in essere tra anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, risalgono i primi sentori esplorativi dell’artista, che attingono in Marcel Duchamp ed Andy Warhol linfa vitale, muse fondamentali nel suo operato futuro costellato da voluminose creazioni iconiche mixanti sgabelli, biciclette, materiali assemblati, dai recenti progetti relativi alla grande migrazione nel Mare Nostrum e dai ritratti in lego dedicati ai politici dissidenti.

sti e nel Presepe sapientemente alloggiati nelle sale, sfoggianti una bellezza nuovissima grazie a revisioni e restauri di moltissime opere. Proveniente da istituzioni religiose e musei ticinesi, il corredo espositivo esterna fattura squisita, ricercata, creativa, il cui elemento scultoreo motivante è il legno, prezioso materiale plasmato di fervente tradizione religiosa, che qui raggiunge vertici artistici ragguardevoli, basti ammirare le numerose opere dagli esordi medievali al tardogotico. Naturalmente la concezione terrena della nostrana lezione rinascimentale rivive in molte creazioni di elevato spessore estetico, visibilmente intrise della nuova concezione umanistica, mentre polittici scolpiti ed alcuni dipinti su tavola trovano apogeo nelle varie scuole tedesche che, in questa prolifica terra, crearono magnifici capolavori. L’età barocca, sino agli ultimi echi settecenteschi, si materializza nelle ultime sale dove alloggiano dinamiche sculture, statue pomposamente vestite, ricchi tabernacoli, busti delicati ed il famoso Presepe di Giornico. La mostra è supportata da un ricchissimo catalogo, i cui elaborati testi portano la firma di emeriti studiosi svizzeri ed italiani.


I NABIS, GAUGUIN E LA PITTURA ITALIANA D’AVANGUARDIA 17 SETTEMBRE 2016 14 GENNAIO 2017 ROVIGO Palazzo Roverella

È

una fuga artistica quella trasmessa dai dipinti ospitati presso Palazzo Revorella, un allontanamento da luoghi, persone, cose appartenenti al quotidiano o alla sfera sentimentale, che trova

IN PRIMA LINEA DONNE FOTOREPORTER IN LUOGHI DI GUERRA 7 OTTOBRE 2016 13 NOVEMBRE 2016 TORINO Corte medievale di Palazzo Madama

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uattordici donne, “armate” solo della loro macchina fotografica, in prima linea nei punti caldi del mondo dove ci sono guerre,

purificatore rifugio nel possente mare della Manica e nella quiete lagunare veneziana. Della costa bretone, prolifica musa per paradisi primordiali, Gauguin ne fa prolifica musa, apprezzata dai numerosi artisti stabilitisi in quei luoghi. La semplicità creativa, a cui ridurre quei luoghi naturali, è il filo tematico della loro produzione, ricco di elementi che ricercano significati simbolici legati all’essenza delle cose. Intrisa di esotismo e primitivismo, la nuova scuola influenza anche i parigini Nabis che sfuggono al naturalismo e alla realtà imitativa e trovano sfogo in una pittura sintetica dominata da colori, profili marcati, pochi dettagli. Influenza inoltre lo stesso astrattismo e l’Italia rimane affascinata da questa rivoluzione. La corrente pro-bretone è presente in mostra con alcuni pittori vissuti a Parigi, affascinati dalle esperienze gauguiniane a Pont-Aven, caratteristica che Arturo Martini imprime nella Ca’ Pesaro e Gino Rossi nella sua amata Burano. La mostra trova conclusione nel Sintetismo, erede indiscusso di questa orbita artistica.

conflitti, miserie e drammi umani. Con coraggio, sensibilità e professionalità ci aiutano a capire, a non dimenticare, a riflettere. Una mostra costituita da 70 immagini scattare da giovani fotoreporter al femminile, che lavorano per le maggiori testate internazionali e provengono da diverse nazioni: Italia, Egitto, Usa, Croazia, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Spagna. Ognuna presenta 5 foto emblematiche del proprio lavoro e della capacità di catturare non solo un’azione, ma anche un’emozione, denunciando una violenza che il più delle volte ricade sui più deboli, sugli indifesi. Foto a colori oppure in bianco e nero, sopratutto scattate con macchine digitali, ma c’è anche chi ancora usa la pellicola, senza quasi mai sofisticare con programmi computerizzati l’immagine, usando il computer e internet solo per spedire il più velocemente possibile agli organi di stampa specializzati quegli artistici “articoli” scritti con la fotocamera, senza bisogno di aggiungere parole superflue, se non una sintetica didascalia che precisa il dove e il quando.

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fumetto

Addio, tornerò presto!

Passato il fiume comincieranno i pericoli!

Che zona deserta!

far west ROMANO

a Monteverde Nuovo

Vania Di Stefano

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bbandonata la consuetudine della tradizione greca, fra una guerra e l’altra in corso (sbadigliano sulle carte all’ONU), è iniziato ed è finito presto lo spettacolo delle Olimpiadi in un Brasile sdraiato sulle rovine della civiltà delle foreste, stuprata per secoli dai colti invasori europei sull’onda d’un avido Rinascimento poco umanistico, molto oligarchico e voracemente antropologico. Sognando quei boschi, mi chiedo con angoscia: nuove Olimpiadi a Roma? Così il sogno diviene incubo e vedo molti fregarsi le mani: gente del “magari!”, anonimi fantasmi senza né storia, né futuro, degni fratelli, ma concorrenti, di quelle ombre che brindarono col sangue del terremoto dell’Aquila e gozzovigliano davanti all’ultima rovina nel centro Italia.

Dei giochi del 1960 - a parte l’eco di qualche vittoria italiana immaginata attraverso la radio (per fortuna la TV m’è entrata in casa solo nel 1965) - resta il ricordo del sacco di Monteverde Nuovo, che cancellò il campo di Mariano presso piazza S. Giovanni di Dio (lo vedi in Reality 77, p. 38) promuovendo un’urbanizzazione selvaggia e cafona lungo il cadavere della via Olimpica. Di quella campagna romana parlano 28 sequenze e 28 fumetti autografi di un fotoromanzo breve, che progettai a tavolino e realizzai in esterno assieme a un’intelligente cagna, Pioggia (le riprese sono di mia madre). Questa la trama: l’anonimo protagonista (moltiplicate per tre i suoi nove anni) lascia la propria fattoria, armato sino ai denti, e va esploran-

do il territorio del far west collinare romano: un paesaggio senza vacche né sequoia, ma con pecore, fitti canneti, mandorli, prolifiche marane e... pali della corrente elettrica. C’è un nemico in agguato da trovare, affrontare e sconfiggere con fucile, arco e assalti all’arma bianca. Come nei film americani, proiettati nello scomparso cinema-teatro-arena Delle Terrazze, l’eroe torna infine, vittorioso sui pellerossa (ma poi sposerà la loro giusta causa), sull’onda di note musicali improvvisate con la bocca sui titoli di coda (The End). Benvenuti a Monteverde, l’unico posto al mondo in cui era possibile mangiare a merenda Pane e blu, come recita il titolo di miei racconti monteverdini, ancora inediti per pigrizia e disincanto.

Forse arrampicandomi noterò qualcosa

Macché, nulla!

Eccoli là quei dannati!

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Dovrò passare il canneto.

Cominciamo!

Ce ne sono altri! Giù, Pioggia!

Ci hanno visto!

Perdiana! Ho finito le munizioni!

Venderò cara la pelle!

Non li vedo più.

Accidenti!

Uf! Pure questa è fatta!

Scappa Pioggia!

Mi impadronirò delle sue armi! A noi due!

Meno male, si ritorna!

Addio, pianura selvaggia!

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Mi sento più sicuro.

Ecco laggiù la nostra fattoria!


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ARCHEOLOGIA

la misteriosa

fanciulla d e l ‘3 0 0

Isadora al Museo Archeologico di Peccioli Irene Barbensi

Cintura di Isadora Scavo del ritrovamento archeologico Performance teatrale di Ascoltando Isadora

G

iovedì 7 luglio alle ore 18,30 è stato inaugurato il nuovo allestimento di una sala del Museo Archeologico di Peccioli con l’esposizione permanente di importanti ritrovamenti provenienti dal sito archeologico di Santa Mustiola a Colle Mustarola a Ghizzano, un piccolo colle ubicato lungo una delle vie di comunicazione antiche più importanti del territorio, che collegava Volterra, Pisa e il mare a Roma. I soci del gruppo Tectiana sono arrivati a Ghizzano nel 2004, grazie ad una segnalazione degli abitanti della zona; soprattutto gli uomini, cresciuti nelle poche case circostanti, raccontavano che quando erano piccoli erano soliti giocare nel boschetto sul colle e, frequentemente, trovavano dei teschi. Quindi si decise di procedere con un primo sopralluogo, che inizialmente non dette alcun riscontro positivo, tant’è che i partecipanti alla ricognizione decisero di lasciare il colle. Proprio nel momento della discesa però, uno di loro si voltò e intravide due o tre pietre che spuntavano da terra. Decisero di avvicinarsi e scavare attorno rapidamente, per fermarsi

quasi subito per la presenza di pietre significative. Venne pertanto avviata la procedura per la richiesta dei permessi necessari per lo scavo e le ricerche d’archivio. Le indagini condotte sul pendio della collina hanno portato alla luce alcune strutture di età romana. A una quota superiore è stata rinvenuta una lastra pavimentale, costruita in cocciopesto. Tale pavimentazione era relativa ad una cisterna, di cui sono stati scoperti anche tre muri perimetrali, costruiti con una tecnica edilizia raffinata e rivestiti con un paramento interno di composizione simile al cocciopesto pavimentale, a grana però più fine ed omogenea. Questa cisterna è databile al I secolo d.C., un unicum nel territorio rurale della Valdera, di cui si hanno confronti con una cisterna rinvenuta a Volterra negli scavi dell’ex ospedale di S. Maria Maddalena nel 2002. La sua costruzione implica necessariamente la presenza di una villa o una serie di abitazioni situate ai piedi del colle, che venivano rifornite d’acqua per caduta. La quantità limitata di frammenti di età romana individuati in questi strati non impedisce però di cogliere l’elevato “tono” nei consumi ceramici del sito, come dimostra il guttus di Sigillata Africana con beccuccio versatoio, eccezionalmente attestato al di fuori dell’Africa. Lo scavo della cisterna romana ha poi permesso di individuare una seconda fase insediativa del sito, inaspettata ed estremamente intrigante. La cisterna, infatti, era completamente obliterata da materiali scivolati dall’apice della collina, composti da pietre, laterizi e tegole rotte, una grande quantità di ceramica, vetri e ossa animali. Le ceramiche rinvenute sono

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quasi totalmente attribuibili ad un insediamento che tra VI e VII secolo si era installato sulla cima della collina e aveva utilizzato la cisterna ormai in disuso come un immondezzaio. Lo studio dei materiali, come per esempio gli orcioli fiesolani, ha evidenziato la presenza di un insediamento longobardo, probabilmente una fortificazione in posizione strategica dominante sul confine tra il Ducato longobardo di Lucca e il territorio bizantino di Volterra. Nel corso del VII secolo le attività umane sul colle, così vive nel secolo precedente, sembrano improvvisamente interrompersi. Se in età tardoantica l’economia del sito è paragonabile a contesti di tipo urbano, quali Fiesole, Siena, Lucca e Pistoia, l’assenza di ritrovamenti per i cinque secoli successivi mostra una netta cesura. Anche le fonti scritte compaiono solo con i primi dell’XI secolo, mostrando una nuova frequentazione dell’area. Queste fonti, soprattutto lucchesi, riportano il toponimo Mustarola per


la prima volta in un atto dell’ottobre 1021, in cui si dice che l’abate di Sesto concede “a fitto” una cassina in un luogo detto Santa Mustiola. Nel giugno del 1127 le fonti menzionano per la prima volta una cappella dedicata a Santa Mustiola. Mustiola, mai attestata nella zona, è una martire del III secolo, santa protettrice della città di Chiusi (uno dei due ducati longobardi della Tuscia, insieme a Lucca), e la dedicazione della piccola chiesa di Ghizzano è da attribuire all’influsso culturale longobardo che si è conservato nei secoli. Inoltre la presenza di monete lucchesi, fiorentine, pisane e senesi rinvenute sul sito confermano la felice posizione della chiesa lungo una delle direttrici più importanti del territorio, uno dei tracciati secondari che si congiungevano alla via Francigena nei pressi di Gambassi Terme e San Gimignano. Le fonti scritte riportano che la chiesa di Santa Mustiola venne soppressa nel 1512 da papa Giulio II, divenendo oratorio e passando al Capitolo della Collegiata di San Lorenzo a Firenze. Nell’agosto 2014 all’interno della chiesa, lungo uno dei muri perimetrali, è stata rinvenuta una sepoltura femminile con un prezioso corredo in bronzo databile alla metà del XIV secolo. La testa era coperta da un copricapo di cui rimangono gli elementi decorativi: sei dischetti di vetro e varie perline. All’anulare della mano destra era ancora infilato un anello in bronzo, con incastonato un elemento in pasta vitrea che presenta tracce di colorazione rossastra. Infine, cingeva i fianchi una cintura composta da 84 elementi in bronzo, decorata con motivi floreali, fissati con dei rivetti su una striscia di stoffa in fibra vegetale. Le cinture, complemento essen-

ziale dell’abbigliamento nel basso e tardo Medioevo, erano utilizzate per sorreggere o stringere la veste e, nel caso degli uomini, per appendere arnesi o borse. Quelle femminili erano di solito più elaborate e ricche, probabilmente doni nuziali, indossate in giorni di festa e al momento della sepoltura. Fonti storiche attestano che più numerose erano le placchette decorative, più il ceto sociale del proprietario era elevato. Di solito le cinture erano abbinate ad una sorta di copricapo, un nastro o una retina, anch’esso decorato da applicazioni. Questo corredo funerario è estremamente importante. Ritrovamenti simili in Europa sono conosciuti soltanto in Inghilterra e in Germania. In Italia possiamo citare lo scavo di Apigliano, in Provincia di Lecce. L’eccezionalità della cintura di Peccioli è determinata dal fatto che è composta da oltre 80 borchiette, un numero davvero impressionante (basti pensare che la cintura di Apigliano ne conta 40). Un mistero circonda l’identità, la vita e la morte della giovane donna (da un esame delle ossa è stata ipotizzata un’età compresa tra i 16 e i 18 anni).

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La particolarità e l’unicità dei dati scientifici in possesso degli archeologici e della Fondazione Peccioliper sono state le basi per la nascita del progetto Isadora: dar vita alla giovane defunta per avvicinare il pubblico attraverso mezzi comunicativi odierni all’archeologia e al fascino che si cela dietro studi scientifici archeologici. Isadora è una sedicenne, protagonista di un racconto, di un video e di una performance teatrale. Il racconto è stato scritto dalla giornalista Chiara Cini, appassionata e scrittrice di gialli. Il video è stato realizzato dalla Blueberry Factory ed è stato girato nei luoghi più suggestivi del territorio di Peccioli, dallo scavo di Santa Mustiola, alla Piappina, alla prigioni di Palazzo Pretorio e sarà proiettato permanentemente all’interno della nuova sala del museo. Per l’inaugurazione del nuovo allestimento e accogliere Isadora, Peccioli è stata animata da giochi medievali a cura dell’Associazione Arcieri storici di Peccioli, dalla performance teatrale “Ascoltando Isadora”, e da un buffet di piatti ispirati alla tradizione medievale.

Performance teatrale di Ascoltando Isadora Scavo del ritrovamento archeologico Sala interna del Museo Archeologico di Peccioli dove sono esposti i ritrovamenti provenienti dal sito archeologico di Santa Mustiola a Colle Mustarola a Ghizzano le foto: @Archivio fotografico Peccioliper - foto Franco Silvi


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STORIA

San Baldassarre la soppressione del monastero in via D’Annunzio a Firenze Roberto Lasciarrea

Statua di San Baldassarre uno dei tre re Magi

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overciano. Cofercianus – recita il Dizionario Storico del Repetti – nel suburbio orientale di Firenze. Contrada che ha dato il nome alla cura di S. Maria a Coverciano filiale della Metropolitana fiorentina, nella Com. Giur. e 2 migl. a scir. di Fiesole, Dioc. e Comp. di Firenze. Trovasi alla base del poggio di Majano, fra i torr. Mensola e Affrico, presso la strada comunale

che guida da San Gervasio a Majano e a Settignano, in mezzo a una deliziosa campagna sparsa di ridenti giardini e di ville signorili. Poco lungi dalla parrocchia di Coverciano e sulla strada prenominata esiste il convento sopresso delle Agostiniane dedicato a San Baldassarre. Devo, senza ombra di polemica alcuna, contraddire il collega Matteo Cosimo Cresti che, nel suo ultimo e accattivante Firenze. Le chiese e gli oratori scomparsi, riporta a pag. 45 relativamente alla chiesa di San Baldassarre: Il Giamboni (1700, p. 15) la segnala fuori della Porta alla Croce senza maggiormente precisarne l’ubicazione. Non si conosce altra notizia riguardante l’edificio per cui si suppone sia stato distrutto nel corso del Settecento o all’inizio dell’Ottocento. In effetti abbiamo alcune notizie, anche se poche. Partiamo dalla mattina del 13 settembre 1765. Quel giorno giunge a Firenze Pietro Leopoldo, atteso e acclamato: la reggenza è finita e Firenze diviene nuovamente la sede del granduca. Passa poco più di un anno e si apre un contenzioso con Roma. È la conseguenza di un invito rivolto ai conventi di portare alla Zecca il vasellame d’argento “superfluo” per acquistare, col ricavato, cereali da destinare ad ospizi ed opere pie. Questo il quadro che possiamo definire giustificativo per quelle che saranno le riforme successive. I vescovi della Toscana iniziano a diramare circolari mirate ad individuare il numero degli ordini conventuali per poi eliminare quelli con il minor numero di individui e sopprimendo anche, spesso per la stessa causa, alcuni conventi appartenenti agli ordini conservati e sulla “moralizzazione” dei conventi

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femminili. Vengono soppresse totalmente, lasciandone una sola per ogni Cura, tutte le Compagnie, Congregazioni, Congreghe, Centurie e Confraternite di qualunque nome e natura essere si possano dentro tutto il Granducato, o siano di Ecclesiastici, o siano di secolari Uomini o Donne, comprensivi anco così detti Terzi Ordini… La soppressione dei conventi religiosi, non avviene in un unico momento, ma si articola in varie fasi e viene giustificata, in genere, per ragioni diverse. Dopo i conventi maschili è la volta dei monasteri delle monache. Il monastero dedicato a San Baldassarre, era stato fondato da Turino Baldesi nell’anno 1341. Per adempiere alle ultime volontà del fratello Giannetto, in quell’epoca ancora in vita, che aveva espresso il desiderio che alla sua morte, fosse ceduto alle monache agostiniane. Oltre alla chiesa, parte integrante del monastero insieme al convento, erano passati alle suore anche quattro poderi, oltre a una notevole somma di denaro. Ultimo desiderio del benefattore fu quello di far sì che venisse costruita, appunto, la piccola chiesa, dedicata a quel santo e destinata a ricevere le spoglie delle monache. Prima del 4 febbraio 1764 era stata ripubblicata la legge generale sui monasteri di monache emanate il 17 aprile 1545. Sotto Cosimo I il numero delle monache toccò la punta massima di 1.550 su 59.179 abitanti, fino a raggiungere, successivamente, su 59.023 abitanti 4.347 monache, vale a dire una suora ogni 13 persone. Il monastero, stante la legge Napoleonica, venne soppresso il 13 settembre 1810. Tutti i beni presenti all’interno del monastero, furono venduti. L’archi-


vio ecclesiastico confluì nell’Archivio di Stato di Firenze, mentre gli edifici pertinenti il complesso ecclesiastico, furono acquistati dalla famiglia Rosselli Del Turco, che trasformarono, successivamente, il complesso in quartieri privati. Penso sia doveroso, giunti a questo punto di questa nostra storia, parlare del santo “titolare” del monastero che, secondo una tradizione popolare, peraltro non confermata dai Vangeli si trattava dei Magi, considerati nel numero perfetto: tre. Si chiamavano Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Fra questi Baldassarre ha assunto le sembianze di un re negro, il cui nome, Bel-shar-azur, significava, nell’antica lingua assiro-babilonese “Bel protegge il re”. In quella religione, Bel era il nome semplificato del dio supremo Bel-Marduk, il signore del cielo e dei pianeti che corrispondeva al fenicio Baàl. Bel era venerato

anche a Palmira, recentemente salita alla cronaca per le sciagurate distruzioni del maggio 2015 da parte dell’Isis. A distanza di un anno, le agenzie fotografiche hanno diffuso le prime foto del sito archeologico di quella città, dopo che nei mesi scorsi è stata riconquistata dall’esercito siriano. Palmira, sin dall’antichità famosa per i suoi templi religiosi e altre strutture grandiose, è rimasta sotto il controllo dello Stato Islamico dal maggio del 2015, fino a pochi giorni fa, quando è stata riconquistata dall’esercito di Bashar al Assad anche grazie alle decine di bombardamenti compiuti dall’esercito russo. In questi mesi lo Stato Islamico ha diffuso diversi video che mostrano i suoi miliziani distruggere alcuni dei monumenti più importanti della città vecchia, oltre al timore generale che diversi altri monumenti potessero essere stati distrutti. Secondo Maamoun Abdulka-

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rim, direttore generale per i siti archeologici del governo siriano, la situazione non è così grave: parlando con Agence France-Presse, ha spiegato che «ci aspettavamo di peggio, ma il panorama generale è in buone condizioni», anche se ha ammesso di non essere ancora arrivato sul posto di persona. Palmira, nei tempi antichi, era famosa per essere un’oasi siriana posta a metà strada fra il medio Oriente e la vera e propria Asia. Gli scambi commerciali tra le popolazioni babilonesi e quelle mediterranee trasformarono l’oasi da un semplice luogo di sosta in una florida città da dove, secondo la leggenda partì il nostro re Mago. Inizialmente, infatti, nell’immaginario collettivo, Baldassarre simboleggiò la razza asiatica arrivata a Betlemme per rendere omaggio al Salvatore, mentre, più tardi, divenne il simbolo di quella africana prendendo per ciò le sembianze di un re negro. Concludendo, gli ebrei adattarono il nome assiro-babilonese in Belsha’zar, mentre i greci e i latini in Baltassar. Qui in Italia, nel Medioevo, divenne Baldassarre, diffondendosi soprattutto in Sicilia nella forma con una sola “erre”. L’onomastico si celebra il 6 gennaio quando la chiesa festeggia l’Epifania, giorno in cui, secondo la tradizione cristiana, i tre Magi giunsero nella grotta di Betlemme. Chi volesse un altro onomastico, potrebbe festeggiarlo il 17 ottobre, quando si celebra il beato Baldassarre da Chiavari, un francescano amico di San Bernardino da Feltre, vissuto nel XV secolo. Concludiamo, con l’ormai scontata frase di chiusura, diventata formula e che noi giornalisti usiamo sempre perché ci piace. Recita: “Questa è un’altra storia”.

Gabriele D’Annunzio Lapide relativa alla presenza del Monastero in Via D’Annunzio, 124


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STORIA

palazzi

f i o re n t i n i in ostaggio

dalla relazione di Marco Foscari ambasciatore veneto nel 1527 Paola Ircani Menichini

Parte della città di Firenze, particolare da: Anonimo della fine del Quattrocento, Il supplizio di Girolamo Savonarola, Firenze, Museo di San Marco. Palazzo Medici Riccardi di Firenze, particolare, 14441460.

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tanti eleganti palazzi di Firenze, nel passato fonte copiosa per la letteratura e la storia delle antiche casate che ne abitarono le belle stanze, conservano ancora oggi tali originalità e fascino che, pensando solo all’arte, non si trova pubblicazione che non presenti architetture, ricostruzioni, foto, trascrizioni di documenti o genealogie nobiliari collegate. Nel secolo scorso, Piero Bargellini (1897-1980), ne ricordò il gran numero in Le Strade di Firenze, descrivendoli per ciascuna via1. In più, la sua passione per la città, la conoscenza dei documenti e dei libri del passato, ma anche il bello stile di scrittura, conferirono un significato speciale alla

nascita e alla presenza di tanti edifici. Così le pagine dell’opera scorrono velocemente dietro la storia di Palazzo Medici Riccardi in via Cavour già Via Larga (1444), di Palazzo Pitti (ca. 1440) e di Palazzo Strozzi (1489) entrambi nelle piazze omonime, di Palazzo Bartolini Salimbeni in piazza Santa Trinita (1520) o di Villa dell’Ombrellino a Bellosguardo (1372) … per citarne alcuni dei più o meno noti, costruiti dentro la cerchia muraria o fuori. Siamo infatti dell’opinione che leggere in modo compiuto la storia dei palazzi di Firenze voglia dire tentare di comprenderne il principio e il viaggio nei secoli e quindi sia necessario ampliare la visione e la ricerca il più

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possibile. Si tratta insomma di risalire l’ostile corrente del tempo fino a incontrare i luoghi originari e quella moltitudine di personaggi che per lo più nel Quattro e nel Cinquecento coltivò per gli edifici una vera e propria passione. Non solo a Firenze, a quei tempi. Ludovico Ariosto (1474-1533) nell’Orlando Furioso ne riportò un’immagine poetica, adombrando le dimore signorili della sua Ferrara: «Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, / ch’acceso esser parea di fiamma viva: / tanto splendore intorno e tanto lume / raggiava, fuor d’ogni mortal costume» [In mezzo alla pianura sorgeva un palazzo che sembrava essere acceso da una viva fiamma: tanto splendore e tanta luce tutt’intorno irradiava, ben oltre ogni consuetudine umana]. E Santa Teresa di Avila (1515-1582) indicò il cammino verso la perfezione spirituale come se l’anima vivesse in un castello interiore: «Portate il vostro sguardo al centro, dove è situato l’appartamento o il palazzo del re … Come un re nel suo palazzo non lascia di stare sul suo trono perché il regno è funestato da grandi guerre e calamità, così qui: benché nelle altre mansioni vi sian bestie velenose, grande confusione e se ne oda il tumulto, l’anima rimane al suo posto e non vi è nulla che la smuova …». Ma più che gli scritti dei poeti, i santi o degli artisti in genere, riguardo ai palazzi fiorentini, è interessante parlare della Relazione redatta per il doge Andrea Gritti dal veneziano Marco Foscari (1447-1551), ambasciatore in Toscana della Serenissima dal gennaio 1527 al gennaio 1528. La Relazione infatti è ricordata sia come un «documento di grande bellezza e importanza, ricco di richiami e citazioni,


segno di vasta erudizione e raffinata cultura» (così annota Giorgio Gullino in un suo saggio2), e sia per l’analisi realistica e intelligente dei tempi, della mentalità e dei sentimenti della Toscana di allora. Il Foscari soprattutto fu capace di unire i cittadini e i loro palazzi in una sorprendente visione d’insieme. Firenze comunque gli piacque, come scrive: «perché per una città di terra ferma non credo che sia in Italia, anzi in tutta l’Europa, una regione più amena né più deliziosa di quella dove è posta …: in un piano tutto circondato da colli e da monti che volgono circa miglia quarantacinque; e detti colli sono tutti fertili, coltivati, amenissimi e carichi di palazzi bellissimi e sontuosissimi, fabbricati con eccessiva spesa con tutte le delizie che sia possibile immaginare, con giardini, boschetti, fontane, peschiere, bagni, e con prospettive che paiono pitture, perché dalli detti colli e palazzi si scoprono gli altri colli d’intorno e poggetti e vallette tutte cariche di palazzi e di fabbriche, che par proprio un’altra città più bella di Firenze stessa». La sua però non fu solo una celebrazione delle attrattive del luogo: notò anzi, al contrario, che a tanta grazia corrispondeva la “debilità” (fragilità interiore) degli uomini. E su di loro dette un tagliente giudizio, portato a ciò anche dal suo orgoglioso animo

di patrizio veneto. Per lui infatti i motivi principali di questo difetto erano il buon clima («perché quell’aere e quel cielo producono naturalmente uomini timidi») e il lavoro. I fiorentini – scriveva – «tutti si esercitano nella mercanzia e nelle arti manuali e meccaniche, lavorando e operando con le proprie mani nei più vili esercizi; e li primi che governano Io stato vanno alle loro botteghe di seta, e gittati li lembi del mantello sopra le spalle, pongonsi alla caviglia e lavorano pubblicamente che ognuno li vede; ed i figliuoli loro stanno in bottega con li grembiuli dinanzi, e portano il sacco e le sporte alle maestre con la seta, e fanno gli altri esercizi di bottega: e medesimamente dell’arte della lana, i vecchi che governano lo stato spartono e fanno gli altri esercizi da vilissimi uomini e sporchi …». La “debilità” inoltre era rafforzata dalle discordie interne, in quanto in prossimità di un attacco nemico, i fiorentini non pensavano al «beneficio universale della città», ma ognuno, «più presto cerca di provvedere alli casi suoi». La ragione erano loro stessi e … proprio i palazzi: «da è che lor medesimi si son fatti deboli, avendo fatti tanti e tanto suntuosi e magnifici palazzi fuor della città, che fariano un’altra Firenze; in modo che movendosi, o appropinquandosi alcuno esercito in Toscana, temono tanto la

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rovina ed incendio dei palazzi loro, che vogliono più presto comporsi con donare alli nemici mille o due mila ducati, che aver danno, rovina, e incendi per un milione … ed hanno questa egritudine [malattia], che vanno per il mondo, ed avendo guadagnato venti mila ducati ne spendono dieci mila in un palazzo fuori della città: e l’uno in questo va seguitando l’orme dell’ altro, e loro medesimi dicono che detti loro palazzi sono gli ostaggi di Firenze, che hanno li nemici loro nelle mani …»3. Nel libro Maledetti Toscani anche lo scrittore pratese Curzio Malaparte (1898-1957) raccontò dei fiorentini e dei loro monumenti, richiamando gli scritti e lo stupore del Foscari, forse senza neppure conoscerlo: «E se i palazzi e le torri ti suggeriscono a prima vista l’idea che i toscani siano un popolo di giganti, quando poi guardi le case dove quel popolo vive, mangia, dorme, che son case piccolissime, ti meravigli …». Ugualmente rammentò nel libro una gita nella città e il gesto del suo amico Bino Binazzi che, aprendo le braccia “adagio adagio”, gli fece vedere «tutta Firenze con le sue statue, i suoi quadri, i suoi poemi, i suoi palazzi, le sue chiese, tutta Firenze con tutti i suoi matti e tutte le sue pazzie». E orgogliosamente: «Vedi – l’amico disse all’autore – Soltanto a Firenze si fa così!».

Note 1 P. Bargellini, E. Guarnieri, Le Strade di Firenze, a cura di P. Bargellini, Firenze 1986. 2 G. Gullino, Marco Foscari (1477-1551). L’attività politica e diplomatica tra Venezia, Roma e Firenze, Milano 2000. 3 Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, vol. II, a cura di A. Alberi, Firenze 839, pp. 21-23.

Particolare da: Giovanni Stradano († 1605), Ponte Santa Trinita con la loggia dei Frescobaldi, Firenze, Palazzo Vecchio, Sala di Gualdrada. Baccio del Bianco († 1656), Veduta del retro della villa di Poggio Imperiale, disegno, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. Venezia, xilografia di Erhard Reuwich († 1505), da: Bernardo di Breidenbach, Viaje a la Tierra Santa, Madrid, Biblioteca Nacional.


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STORIA

l’Orto Botanico di Pisa Saverio Lastrucci

Frontespizio della Flora Pisana / del dottore / Gaetano Savi / Ajuto del Professore di Storia Naturale / Nell’Università di Pisa. / Tomo Primo / Pisa 1798. A. Haelweg, Cosimo I granduca di Toscana. A lui si deve la riapertura dello Studio Pisano, cioè l’Università, e la ripresa dei corsi di laurea, compresi quelli dei “Semplici”, cioè le parti di pianta, di animale o di minerali usati in medicina, senza manipolazioni. B. Polloni, Veduta dell’Orto Botanico

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l Giardino dei Semplici a Pisa fu fondato sulle rive dell’Arno nel 1543-1544, con l’appoggio finanziario del Granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici concesso a Luca Ghini (1490-1556), naturalista, medico e botanico imolese. Questo Orto Botanico è da considerarsi il primo del mondo sorto alle dipendenze di un’istituzione universitaria. Il suo successivo trasferimento in diversa localizzazione rispetto all’attuale lo pone in antagonismo con quello di Padova, realizzato nel 1545 e mai spostato dalla sua sede originaria. In breve tempo, gli Orti botanici si dimostrano uno strumento didattico e di ricerca insostituibile, per cui, istituzioni analoghe vengono costituite in pochi anni presso le più famose sedi universitarie italiane ed europee. Il primitivo Orto Botanico pisano sorgeva nel giardino annesso al Convento di San Vito, nei pressi della Cittadella, nella parte di tramontana (a nord dell’Arno) all’estremo del-

le mura cittadine verso il mare, e dell’Arsenale Mediceo, ed era per l’appunto denominato Giardino dell’Arzinale. Qualche anno più tardi, con la demolizione del suddetto convento, l’orto si estese anche nella zona da esso occupata. Nel 1563, per potenziare le difese militari della città il Granduca fece ingrandire l’arsenale, estendendolo anche su parte del terreno di pertinenza dell’Orto Botanico, perciò venne trasferito, sotto la guida del botanico Andrea Cesalpino, subentrato a Luca Ghini nella direzione dell’Orto, in una seconda sede, nella zona nord-orientale della città, nei pressi dell’Orto del Convento di Santa Marta. Neanche questa ubicazione risultò soddisfacente, sia per la scarsa insolazione che le piante vi ricevevano, sia per la distanza dalla Sapienza, il centro della vita universitaria di quel periodo. Perciò, sotto la direzione di Lorenzo Mazzanga, nel 1591 l’Orto fu trasferito nell’attuale sede, presso la

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celebre Piazza del Duomo, in un terreno acquistato appositamente dal Granduca Ferdinando I. I lavori di trasferimento furono completati nel 1595 ad opera dell’incaricato Praefectus dell’Orto stesso, il fiammingo Joseph Goedenhuitze, noto in Italia come Giuseppe Casabona, e inclusero anche la ristrutturazione dell’edificio che ospitava l’Istituto di Botanica con l’annesso Museo di Scienze Naturali. L’ingresso principale dell’Orto lungo via Roma – oggi si entra da Via Luca Ghini 13 – fu aperto nella seconda metà del XVIII secolo, contemporaneamente la facciata dell’Istituto fu rivestita con decorazioni in stile “Grottesco” dandole il nome di “Palazzina delle conchiglie”. All’interno del giardino le piante erano disposte secondo canoni stilistici comuni a molti giardini dell’epoca con allusione ai quattro elementi: terra, cielo, acqua e fuoco. Un disegno di Michelangelo Tilli del 1723 riproduce fedelmente l’architettura


dell’Orto e la disposizione delle piante. Il richiamo ai quattro elementi avviene attraverso forme geometriche e architettoniche: il quadrato per quelli terrestri, il cerchio per quelli celesti, il triangolo per il fuoco e le vasche per il riferimento diretto all’acqua. Le specie erano collocate in otto grandi aiuole quadrate, a loro volta suddivise in porzioni più piccole di forma geometrica definita, simmetricamente disposte intorno a otto fontane con vasca. Dopo la morte del Casabona nel 1595, venne chiamato a dirigere l’Orto il francescano minorita Francesco Malocchi che allestì la “Fonderia”, un laboratorio di chimica dove venivano preparati i medicamenti a partire dai “semplici” coltivati nell’Orto stesso, che divenne un punto di riferimento per gli ospedali cittadini e le persone più bisognose in un’epoca difficile, segnata da devastanti epidemie. La “Fonderia” proseguì il lavoro fino alla metà del XVIII secolo quando la distribuzione delle sostanze medicinali fu affidata alla Farmacia dell’Ospedale segnando il

distacco netto fra l’Orto Botanico e le scienze medico-farmaceutiche. Nel XIX secolo l’Orto subì sostanziali cambiamenti: l’impianto cinquecentesco delle grandi aiuole venne smantellato per dare spazio ad aiuole più piccole, di forma rettangolare, intercalate da viali e muretti, al cui centro si trovavano sei residue fontane con vasca originaria in arenaria (attualmente quattro perché due sono state tolte per costruire un piccolo edificio). Dalla prima metà dell’Ottocento tali trasformazioni, attuate in varie fasi dai prefetti Gaetano Savi, Pietro Savi e Teodoro Caruel, rifletterono le mutate esigenze della botanica, divenuta scienza autonoma, in base alle quali le piante vengono classificate e presentate secondo criteri scientifici, seguendo le teorie proposte da Darwin, Linneo, Tournefort, ecc., che evidenziano le affinità biologiche. A lavoro ultimato si contavano 148 aiuole con più di 2.000 specie disposte in ordine sistematico. Dopo varie acquisizioni di terreno (a partire dal 1783, con finanziamenti

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concessi dal granduca Francesco II di Lorena), fu acquisito un appezzamento detto Orto del Cedro, già parte del vicino convento di S. Teresa, mentre nella prima meta del XIX secolo si registrò la perdita di un piccolo settore nella parte meridionale per permettere la costruzione del Museo di Storia Naturale, compensata dall’acquisizione dell’Orto Nuovo, avvenuta nel 1841; infine quella dell’Orto Del Gratta sul lato nord. La superficie dell’Orto Botanico è oggi di circa tre ettari, compresa l’area occupata dalle serre e da altri edifici di servizio. Nel 1891, con la costruzione del nuovo Istituto di Botanica su progetto dell’ingegnere pisano Perfetto Frediani, il vecchio Istituto di Botanica perse gran parte del suo significato funzionale che verrà in parte recuperato nel 1988 in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Ambientali Artistici Architettonici e Storici e il Dipartimento di Storia delle Arti per allestire una esposizione pubblica di vari oggetti d’interesse storico, artistico e scientifico.

La facciata dell’Antica Fonderia dell’Orto Botanico decorata a “grottesche” usando conchiglie e concrezioni spugnose Statua di Andrea Cesalpino. Aretino nato nel 1525, si laurea in medicina a Pisa verso il 1551, dopo aver seguìto le lezioni di Botanica di Luca Ghini. Nel 1554 gli viene affidata la Prefettura dell’Orto e l’insegnamento di Storia naturale. La scultura è di Pio Fedi (Viterbo, 1816 - Firenze, 1852) ed è collocata nella nicchia di un pilastro del loggiato della Galleria degli Uffizi. Fu inaugurata il 24 giugno 1854. (Fotografia di Moreno Vassallo).


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La Provincia di Pisa con Determinazione Dirigenziale n.737 del 11/02/2012, n.353 del 27/01/2014, n.433 del 06/02/2015 e 604 del 19/02/2015 ha riconosciuto i seguenti percorsi di formazione

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FORMAZIONE OBBLIGATORIA PER ADDETTO ALLA CONDIZIONE DI IMPIANTI TERMICI DI POTENZA SUPERIORE A 232 KW. Riferimenti Normativi: L. 615 del 1966; D.p.r. 1391 del 1970; D.p.r. 412 del 1993 (come modificato dal d.p.r. 551 del 1999); Decreto Legislativo n. 152 del 2006 (come modificato dal D. lgs n. 128/2010); Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome del 25.5.2011 DESTINATARI Cittadini italiani e stranieri maggiori di 18 anni REQUISITI DI INGRESSO Diploma di scuola secondaria di primo grado; Buona conoscenza lingua italiana orale e scritta (utenza straniera) DURATA DEL PERCORSO 90 ore POTATURA (UC 876) TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVEDESTINATARI DE DI RILASCIARE IN ESITO AL PERCORSO Cittadini italiani e stranieri maggiori di 18 anni, FORMATIVO: disoccupati o in cerca di prima occupazione Attestato di Frequenza REQUISITI DI INGRESSO L’attestato rilasciato consente di acquisire il Ai sensi della DGR 48/12 per i cittadini stranie- patentino di abilitazione di 2° grado alla conri, conoscenza minimo livello A2 DEL Quadro duzione degli impianti termici. Comune Europeo di riferimento per le lingue. DURATA DEL PERCORSO 110 ore di cui 40 ore di stage in azienda FORMAZIONE OBBLIGATORIA PER TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVE- OPERARE NELL’AMBITO DELL’ASSISTENZA DE DI RILASCIARE IN ESITO AL PERCORSO FAMILIARE FORMATIVO: Riferimenti Normativi: Certificato delle competenze (UC 876) Si tratta di un percorso di formazione disciplinato dal presente atto regionale (Decreto del 19/12/2006, n. 6219) al fine di fornire specifica preparazione per svolgere attività di sostegno SVILUPPO DI SISTEMI INFORMATIZZATI DI ed assistenza nella vita quotidiana ad anziani INFORMAZIONE AMBIENTALE (UC 962) e disabili, presso il loro domicilio. Consente l’iDESTINATARI scrizione (laddove istituiti) negli appositi elenCittadini italiani e stranieri maggiori di 18 anni, chi per assistente familiare disoccupati o in cerca di prima occupazione DESTINATARI REQUISITI DI INGRESSO Cittadini italiani e stranieri maggiori di 18 anni - Titolo di istruzione secondaria superiore o REQUISITI DI INGRESSO almeno 3 anni di esperienza lavorativa nell’at- In base alla normativa regionale di riferimento tività professionale di riferimento e al progetto, sono requisiti di accesso al corso: - Ai sensi della DGR 48/12 per i cittadini stra- assolvimento del Diritto/Dovere di Istruzione nieri, conoscenza minimo livello A2 DEL Qua- in Italia o nel paese di origine (Circolare Redro Comune Europeo di riferimento per le gione Toscana del 16/06/11); per i cittadini lingue. stranieri, permesso di soggiorno e conoscen- Buone conoscenze informatiche za di base della lingua italiana, livello A2 DURATA DEL PERCORSO DURATA DEL PERCORSO 75 ore di cui 25 di stage in azienda 220 ore di cui 80 ore di stage TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVE- TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVEDE DI RILASCIARE IN ESITO AL PERCORSO DE DI RILASCIARE IN ESITO AL PERCORSO FORMATIVO: FORMATIVO: Certificato delle competenze (UC 962) Attestato di Frequenza

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CORSI DI FORMAZIONE PER TITOLARI ED ADDETTI DEL SETTORE ALIMENTARE (DGRT 559/2008) Corso per addetti con mansione alimentare semplice (8 ore) Corso per addetti con mansione alimentare complessa (12 ore) Corso per Titolari di imprese alimentari e Responsabili dei piani di autocontrollo di attività alimentari semplici (12 ore) Corso per Titolari di imprese alimentari e Responsabili dei piani di autocontrollo di attività alimentari complesse (16 ore) PISCINE - CORSI DI FORMAZIONE PER RESPONSABILI E ADDETTI Formazione Obbligatoria Per Responsabile Della Piscina (30 ore) Formazione Obbligatoria Per Responsabile Della Piscina (percorso abbreviato ex art 52 regolamento 23/R/2010) Formazione Obbligatoria Per Addetto Agli Impianti Tecnologici (20 ore) Formazione Obbligatoria Per Responsabile Della Piscina – Addetto Agli Impianti Tecnologici (38 ore) Formazione Obbligatoria Per Responsabile Della Piscina – Addetto Agli Impianti Tecnologici (Percorso Abbreviato) Ex Art 52 Regolamento 23/R/2010 ( 20 ore) TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVEDE DI RILASCIARE IN ESITO AI PERCORSI FORMATIVI: Attestato di Frequenza SALDATURA CON GAS SALDOBRASATURA, SALDATURA MIG MAG (UC 1831) DESTINATARI Cittadini italiani e stranieri maggiori di 18 anni, disoccupati o in cerca di prima occupazione REQUISITI DI INGRESSO Ai sensi della DGR 48/12 per i cittadini stranieri, conoscenza minimo livello A2 DEL Quadro Comune Europeo di riferimento per le lingue. DURATA DEL PERCORSO 110 ore di cui 40 ore di stage in azienda TIPOLOGIA DI ATTESTATO CHE SI PREVEDE DI RILASCIARE IN ESITO AL PERCORSO FORMATIVO: Certificato delle competenze (UC 1831) Fo.Ri.Um. Sc Via Del Bosco, 264/F - 56029 S. Croce s/Arno (Pi) Tel. 0571/360069 - Fax 0571/367396 e-mail: info@forium.it


STORIA

il pianoforte I

l pianoforte fu inventato nel 1702 da Bartolomeo Cristofori, originario di Padova, ma lungamente operante e spentosi a Firenze, dove lavorò per la corte medicea di Cosimo III e soprattutto del figlio Ferdinando, non succedutogli al trono, su cui andò l’ultimo Granduca de’ Medici Gian Gastone. La sua scoperta precedette di gran lunga quella del tedesco Schròter, che presentò i suoi modelli alla Corte di Sassonia soltanto nel 1721. Inoltre, l’ideazione e la realizzazione del primo pianoforte verticale spetta a Domenico Del Mela, sacerdote e maestro elementare di Fogliano, frazione di San Godenzo, nel Mugello, il quale ne costruì uno nel 1739. È indubbio che successivamente le migliori

fabbriche di pianoforte siano sorte durante la seconda metà del XIX secolo negli stati germanici. Tra queste spicca la fabbrica di Ernst Kaps (1826-1887), che fu fondata a Dresda nel 1858. La ditta conseguì numerosi riconoscimenti internazionali e fu chiusa nel 1930 dopo una produzione complessiva di 37.500 esemplari. Kaps realizzò delle modifiche alle corde del pianoforte e mise a punto il “sistema Panzer”, che ne garantì il successo commerciale. Si tratta di un sistema che ingloba il somiere nel telaio di ghisa, in maniera particolarmente solida ed efficace. Nel pianoforte il somiere è una tavola in legno di faggio, su cui si trovano incastrati i piroli che tengono legate le corde sopra la tavola armonica. Per una

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sottile coincidenza occorre ricordare Fernando Prattichizzo anche che in quel periodo le casate dei regnanti di Toscana e di Sassonia erano imparentate. Il Granduca Leopoldo II aveva sposato in prime nozze il 16 novembre 1817 la principessa Maria Anna Carolina di Sassonia, nata a Dresda il 15 novembre 1799 e deceduta a Pisa per tubercolosi il 24 marzo 1832, poi sepolta in San Lorenzo a Firenze. Anche Anna Maria di Sassonia, prima moglie del figlio Ferdinando, era nata a Dresda il 4 gennaio 1836 e morì per eclampsia a Napoli il 10 febbraio 1859. Trasportata via mare a Livorno, fu infine sepolta in San Lorenzo a Firenze, come la prima moglie di Leopoldo II, al suono – mi piace pensare – di un pianoforte.

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personaggi

Henry James

il “grand tour“ d’un americano in Toscana

Massimo De Francesco

Henry James: due suoi famosi romanzi hanno ispirato due celebri film: da Washington Square, L’ereditiera (1949), con Olivia de Havilland, Montgomery Clift e Ralph Richardson, regìa di William Wyler, Oscar per la de Havilland, migliore attrice protagonista; dal romanzo The Turn of the Screw (Il giro di vite), è stato sceneggiato il film Suspense (1961) con la mirabile interpretazione di Deborah Kerr, regia di Jack Clayton. Lucca, Cattedrale di San Martino

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enry James nasce il 15 aprile 1843 al numero 2 di Washington Place, nel Greenwich Village di New York, quartiere che ha per punto di riferimento centrale Washington Square, oggi vasto polo di convergenza degli studenti della New York University e dei newyorkesi in generale, nonché titolo di un suo romanzo fra i più noti: Washington Square (1880): ambientato nella vecchia New York. Henry ha poco meno di due anni quando i genitori lo portano, con gli altri quattro figli, in Europa, prevalentemente in Francia e in Inghilterra dal 1855 al 1860. Trascorso questo periodo, la famiglia rientra negli Stati Uniti. Per il futuro scrittore la cultura del Vecchio Continente è quella che meglio esprime le potenziali capacità dello spirito umano. Il suo nome appare per la prima volta nel 1864 quando firma una recensione, seguìta da una novella; altre recensioni, saggi e novelle lo impegnano fino al 1869. Ma solo dopo un altro soggiorno europeo di due anni inizia la sua prima fase creativa con la scrittura del romanzo Roderick Hudson, cominciato a Firenze nel 1874 (abitava in piazza Santa Maria Novella), continuato a Parigi e terminato a New York nel 1875. La consapevolezza dei contrasti fra la cultura americana e quella europea alimenta le sue ispirazioni. Ormai trentaduenne, decide irrevocabilmente di raggiungere di nuovo l’Europa. Vive per due anni a Parigi dove conosce Flaubert, Maupassant, Zola, Goncourt e Turgenev, ma la città non gli è congeniale e si trasferisce in Inghilterra. Giudica Londra «il punto di vista migliore del mondo» e questo “luogo di osservazione” gli

suggerisce i romanzi The American (L’Americano, 1877), The Europeans (Gli Europei, 1878), Daisy Miller (1879). Come si è detto, appartengono al 1880 Washington Square (Piazza Washington) e The portrait of a Lady (Ritratto di signora). Negli anni seguenti vedono la luce altri romanzi giudicati «impeccabili»: nel 1886 The Bostonians (Le Bostoniane) e The Princess Casamassima (La Principessa Casamassima). La sua parabola creativa è continua e copiosa di titoli. Produce saggi, novelle e romanzi raggiungendo la perfezione formale. Scrive una serie di suggestivi romanzi brevi. Fra questi il ben noto The Turn of the Screw (Il giro di vite, 1898). Il “capitolo italiano” di Henry James ha inizio nel 1869, quando raggiunge per la prima volta Firenze e vi soggiorna più volte, frequentando la

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folta comunità anglo-americana residente in città con la quale, già dal suo arrivo, avvia numerose amicizie. Sono letterati e artisti. Lo scrittore alloggia in eleganti dimore, fra queste l’Hotel du Sud, nell’odierna piazza Goldoni (allora piazza del Ponte alla Carraia) e nella villa Brichieri-Colombi, sul colle di Bellosguardo, a sud di Firenze. In questa dimora è ospite della scrittrice, sua conterranea, Constance Fenimore Woolson. Durante uno di questi soggiorni James scrive The Aspern Papers (Il Carteggio Aspern, 1887), basato sulla storia vera di Claire Clairmont, sorellastra di Mary Shelley e compagna di Lord Byron. Numerose sono le opere nelle quali lo scrittore americano narra la sua fervida ammirazione per Firenze e la Toscana. (« […] per me l’Europa significa semplicemente Italia», gli capitò di scrivere).


Nondimeno, ama e conosce l’Italia per i ripetuti viaggi e soggiorni compiuti nel nostro Paese fino al 1909 dove cerca le proprie radici culturali. A Firenze ammira il campanile di Giotto, l’imponenza della Cattedrale e le numerose opere d’arte: «Firenze è ricca di quadri più di quanto in realtà sappiamo»; e ancora: «Gli Uffizi sono come una splendida vetrina». A Firenze, durante il Carnevale, si imbatte nella fila dei carri in piazza Santa Croce, diretti in via Ghibellina, via del Proconsolo, oltre la chiesa di Badia e il Museo del Bargello. Oltrepassano la «massa intarsiata» della Cattedrale per dirigersi in via Tornabuoni; poi lungo l’Arno per godersi 10 minuti di sole. È instancabile. Visita Fiesole e il Castello di Vincigliata; ammira un paio di volte la raccolta dei quadri esposti a Palazzo Pitti. Rimane estatico davanti alla visione dell’architettura civile di Firenze, la più artistica, e che ammira percor-

rendo via dei Bardi, via Maggio, Borgo Albizi. Visita Palazzo Corsini. Considera una «gemma» la Basilica di Santa Maria Novella e la giudica più interessante della francescana Santa Croce. Subisce il fascino del Giardino di Boboli. Seguiamolo ancora nei suoi itinerari, leggendo le pagine delle Ore Italiane (Italian Hours, 1909): «Le città di cui voglio parlare sono Livorno, Pisa, Lucca e Pistoia». «A Livorno - scrive - il fatto che più mi ha colpito, è che pur essendo in Toscana, essa ne è apparentemente estranea». Ammira il colore intenso del mare, e nota che il monumento con i Quattro Mori «è sepolto tra le immondizie del porto». Raggiunge Pisa e contempla i monumenti che adornano la Piazza dei Miracoli: «Tra le cattedrali minori d’Italia non ce n’è nessuna che preferisca a quella di Pisa». La visione della «piccola chiesa di Santa Maria della Spina, una cappella minuscola, delicata, dalle fat-

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tezze gotiche» gli ispira «una felicità semplice, ampia, pacificata». Rimane «pieno di meraviglia dinanzi al bel Palazzo Lanfranchi, abitato nel 1822 dall’esule Byron». Spostandosi a Lucca, James parla di questa città come il tipico modello di “Pays de Cocagne”, «traboccante di tutto ciò che è fatto di facilità, abbondanza, bellezza e buon esempio...». Di Lucca lo affascinano i toni ruggine della sua arte muraria, arrivando a dire che nessuna città toscana dai colori marrone-oro poteva essere felice tanto quanto Lucca, salvo Lucca stessa. Si concede anche una visita a Volterra, «dall’altèra aria preistorica». Percorrendo la valle del Serchio per raggiungere Bagni di Lucca, non gli sfugge l’opulenza della campagna «quasi sommersa dalle viti, dagli olivi, dal grano e dai frutti della terra». Dopo più di vent’anni, James torna in America, ma la sua patria gli sembra l’incarnazione «di un clamore senza precedenti». L’esperienza vissuta durante questo soggiorno negli Stati Uniti lo convince a chiedere la cittadinanza inglese: il 26 luglio 1915. Pochi mesi dopo, il 26 febbraio 1916, muore a Londra per apoplessia, un anno dopo aver ricevuto la Medaglia dell’Ordine al Merito del Regno Unito. È sepolto nel cimitero di Cambridge (Massachusetts), nel famèdio di famiglia.

Pisa, Piazza del Duomo Pisa, Santa Maria della Spina Firenze, Villa Brichieri Colombi, posta sul colle di Bellosguardo a sud di Firenze


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itinerari

alla scoperta

Shakespeare AdaNeri

Castello nelle Highlands scozzesi Statua di Shakespeare Casa Natale in Stratford upon Avon

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oeta e drammaturgo inglese, Shakespeare nasce a Stratford-upon-Avon nel 1564, e vi muore nel 1616. È considerato dalla critica una delle più grandi personalità della letteratura di ogni tempo e di ogni paese. A uno sguardo storico più ravvicinato, invece, viene catalogato come uno degli esponenti principali del rinascimento inglese. Il 400° anniversario della sua morte abbiamo voluto raccontarlo tracciando un itinerario fra i luoghi dove è vissuto e che sono stati fonte di ispirazione. Gli amanti della letteratura non devono farsi sfuggire questo importante anniversario per visitare la casa e la mostra dedicata al Bardo nella città natale di Stratford-upon-Avon,

a breve distanza da Londra dove ha vissuto e ha ambientato molte delle sue opere, tra cui Enrico IV e Re Lear. Per rivivere l’atmosfera raccontata nelle sue storie, i viaggiatori possono visitare la bellissima Abbazia di Westminster, situata nel cuore di Londra, spesso menzionata dal poeta, e la Tower of London, dove sono conservati i gioielli della Regina, ancora oggi utilizzati dalla sovrana in diverse occasioni. Altra tappa obbligatoria è il Globe Theater, dove vengono messe in scena le repliche delle opere teatrali di Shakespeare a cielo aperto. Nella città di Windsor situata lungo il Tamigi e facilmente raggiungibile da Londra in 40 minuti di macchina

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o treno, è stata ambientata la commedia Le allegre comari di Windsor. A Windsor si trova il più grande e antico castello abitato al mondo, residenza della Regina di Inghilterra. In occasione di questo speciale anniversario, il castello ospita una mostra speciale nella Biblioteca Reale, aperta al pubblico fino al 17 febbraio 2017. L’esposizione include materiali shakespeariani raccolti dalla famiglia reale e i registri contabili degli spettacoli che hanno avuto luogo nel castello. Inseguendo ancora le tracce del celebre poeta, potremmo visitare le regioni scozzesi di Inverness e Fife, per scoprire i luoghi dove è stato ambientato Macbeth, la tragedia chiamata da molti L’Opera Scozzese.


Westminster Abbey, Londra Castello di Windsor Panorama scozzese Il Globe Theater fu inaugurato da William Shakespeare nel 1599 La Torre di Londra, il castello medievale e la prigione Castello nelle Highlands scozzesi

foto di zzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz

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ITINERARI

PROPOSTE DA GIR’ITALIA Carmelo De Luca

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occolata da mamma natura, signora altera e suadente, Franciacorta intenerisce per essere così bella. Il paesaggio forgiato a mo’ di figure geometriche, incorniciate da rigogliosi vigneti dediti all’arcinote bollicine, nasconde rilevanze storico-architettoniche sorprendenti. Qui, sulle pendici del Monte Orfano, dimora l’altero maniero Bonomi, esempio ottocentesco del liberty neogotico dalla delicatezza prorompente, le cui nobili cantine custodiscono blasonati DOCG chiamati Franciacorta CruPerdu, Satèn, Rosé, Millesimato, Cuvée Lucrezia e Lucrezia Etichet-

ta Nera, Cuvée del Laureato. Intorno, un lussureggiante parco permette la visione paradisiaca tra Alpi Retiche, Lago d’Iseo, fiume Oglio, rilevanze artistiche come la Chiesa dedicata a S. Pietro, esempio di architettura medievale lombarda sorta su una cappella paleocristiana risalente al V secolo. Nel confinante Veneto, Susegana porta riconoscenza ai Collalto, nobilissimi signori di Castello S. Salvatore dal lontano A.D. 1245. Vasto complesso fortificato dalla eccezionale fattura architettonica, il blasonato borgo vanta cinta muraria merlata estesissima, entro cui domina Palazzo Odoardo con tanto di monumen-

Arcola Castello Bonomi

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tale scalone, l’austera Turris Magna, gli edifici sacri dedicati a S. Croce e S. Giovanni, ahimè, semidistrutti durante la Grande Guerra, ed ancora giardini all’italiana, statue, fontane. Insomma un suggestivo feudo con tanto di tenuta agricola dove si producono vini Prosecco Doc Treviso e Prosecco Superiore Docg, olio extra vergine d’oliva, che proiettano il visitatore in una dimensione fantastica fatta di cavalieri, dame, duelli, prodotti della terra. Giù nell’abitato, la secolare Chiesa della Visitazione custodisce una pala magnifica, dipinta da Giovanni Antonio de’ Sacchis, dedicata alla Madonna fra Santi ed in-


teressanti affreschi quattrocenteschi. Dirigendoci a nord ovest dello stivale italico, nel territorio spezino, sarà certamente amore a prima vista con la cittadina di Arcola. Dominato dalla pentagonale torre obertenga, l’abitato ostenta edilizia civile rilevante, nel cui ricco carnet si scova Forte

D.O.C. Colli di Luni e I.G.T. Val di Magra. L’augusto casato vanta altresì panoramico possedimento sulle alture lericine con vista mozzafiato sul serafico Golfo dei Poeti. Spudoratamente bella, la splendida Tenuta di Barcola pavoneggia per essere un paradisiaco melange di uliveti, vege-

di Canarbino provvisto di fossato e mura di cinta, Palazzo Comunale, il medievale Castello di Trebiano costruito dai vescovi lunensi quale residenza feudale. Nei dintorni, non perdete la pieve dedicata a S. Michele Arcangelo in stile romanico, custodente un’ara romana, crocefisso a tempera risalente al 1456, cinquecentesca pala d’altare in marmo. Tra le rilevanze private assolutamente da non perdere Villa Il Chioso, immersa nel lussureggiante parco con pieve benedettina dell’XI secolo. La dimora dei conti Picedi Benettini ha origini tardo barocche, evidenti nello scalone esterno con balaustra e nella balconata al piano nobile, adorna di finestroni sormontati da frontoni triangolari. Qui, eccellenti uve bianche e rosse generano degnissimi nettari vinificati in purezza, appartenenti alle nobili casate dei

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tazione mediterranea, variopinti giardini all’italiana impreziositi da vetusti busti marmorei costeggianti vialetti e terrazze con vista sull’azzurrissimo Mar Ligure. Ah, l’olio di questo prolifico possedimento è meravigliosamente gustoso al palato. E ora? Inevitabile fare una puntatina nella Toscana Felix per visitare il chiantigiano complesso monumentale di Cigliano, presso S. Casciano, scenografica dimora quattrocentesca con tanto di bucolica fattoria. Impreziosita da due tondi robbiani, l’elegante loggia delimita un bel cortile, mentre gli interni conservano ambienti squisitamente rinascimentali. La facciata barocca, in simmetria col faraonico ninfeo del dio Nettuno, si specchia vanitosamente nella grande vasca e, intorno, troneggia il magnifico giardino all’italiana. Come da tradizione nobil-agreste, la villa possiede storiche cantine assolutamente da visitare, culla amorevole per DOCG Chianti Classico, IGT Toscano Rosso e Rosato, DOC Vinsanto Chianti Classico.

Castello San Salvatore Villa il Chioso Tenuta di Barcola Villa Antinori di Cigliano


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ITINERARI

LADY CHOCOLAT & CHAPLIN Carlo Ciappina

Museo Nest, Vevey Alimentarium, Vevey Museo Chaplin, Corsier-sur-Vevey

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a storia da raccontare è dedicata a due celebri amanti, ma i sentimenti provati dai nostri personaggi sono tutti protesi all’elvetico Vaud, patria natia e adottiva rispettivamente per Lady Nestlè e Charlie Chaplin! Ed è Madame a dominare il gossip nostrano presso Vevey per i suoi stellari 150 anni, non a caso ha deciso di festeggiare con l’apertura dell’avveniristico Museo Nest, lì dove è nato il primo latte in polvere. Gli oltre 3000 mq di spazio espositivo ormai seducono grandi e piccini attraverso un percorso didattico in grado di rendere facilmente leggibile questo gioiello architettonico. La visita parte tuffandosi un secolo addietro, più esattamente nella Vevey ottocentesca che, grazie ad Henry Nestlè, ha visto nascere la prima realtà del famoso colosso. Il percorso trova seguito negli archivi custodenti segreti relativi ai numerosi brand creati in azienda: chi non conosce gli arcinoti caffè solubile Nescafé, Nesquik, Nespresso,

buonissimo ed amato dalle pulzelle per aver trovato suo testimonial in George Cluny, l’apprezzato dado Maggi? Insomma un mondo fatto di scoperte culinarie per deliziare gola e palato. L’esposizione comprende inoltre due interessanti sezioni dedicate alla simbiosi tra acqua, produzione industriale, gestione risorse e, naturalmente, ad attutire languori di stomaco ci pensa un’area ristorativa, ma non è finita! I festeggiamenti proseguono nella riapertura dell’Alimentarium, l’altro cocco di mamma Nestlé amorevolmente sollazzato ai bordi del Lago Lemano, un omaggio sentito alla scienza dell’alimentazione. Dotato di ingenti collezioni, l’insolita istituzione propone ai suoi estimatori il nuovo allestimento dedicato alle cucine internazionali influenzate dai recenti movimenti migratori. Laboratori, conferenze ed ambienti variegati a tematica ristorativa completano l’offerta museale. Congedati da madame Nestlè, cosa si fa? For-

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se non rammentate l’altro amante di Vevey, l’arcinoto Charlie Chaplin, che presso Corsier-sur-Vevey ha dimorato sino alla morte nella splendida villa, ora trasformata in museo comprendente biglietteria/boutique, Casa Chaplin, promenade nel parco, studios. Ristrutturata dal blasonato duo Bodino Engineering e François Confino, l’area espositiva trova apogeo nella dimora ottocentesca allestita con arredi ed oggetti di famiglia: un realistico quadro di quotidianità intrecciato alla fulgida carriera cinematografica dell’attore. Nel piano superiore della Manoir sono ospitati personaggi in cera che hanno incrociato la vita dell’artista, basti menzionare il grande Einstein. Nuovi di zecca, gli studios vantano sala-cinema, dove si proietta una breve biografia dedicata a Chaplin, e ricostruzioni interattive di celebri pellicole, magnifico tuffo nella fulgida carriera del grande comico a partire dal primo lungometraggio Il Monello.



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ANDAR PER

borghi toscani di Lucard

fIzzANO

CASTElVECCHI

Fizzano

Orgoglioso delle bellezze naturali e paesaggistiche, Castelvecchi affonda le radici nel lontano XI secolo. L’abitato, squisitamente fedele alla tradizione toscana medievale, vanta scenografici edifici dal sapore onirico, tra i quali si impone maestosa una bella dimora padronale. La villa vanta decorazioni delicatissime e mobilio d’epoca, sale con pavimento in cotto, travi a vista ed una deliziosa corte interna.

Il borgo medievale in pietra vanta caratteristiche costruzioni d’epoca delimitanti una graziosa piazzetta irregolare, la cui porzione rettangolare, stretta e lunga, ospita lo scenografico edificio con tanto di porticato, sormontato piccola altana chiusa sui fianchi laterali. Nelle vicinanze sorge il delizioso agglomerato del Torrione risalente al XIV secolo, uno storico gioiello da degno set cinematografico. WINE&FOOD: L’annesso ristorante crea invitanti piatti conditi con ottimo extravergine locale (da non perdere baccalà con ceci, moscardini al pomodoro, ravioli all’astice). Prodotti nelle tenute di Rocca alle Macie, qui regnano vini superlativi appartenenti al Consorzio Gallo Nero.

WINE&FOOD: La cantina del borgo custodisce gelosamente eccelsi vini Chianti Classico prodotti in loco ed il ristorante Castelvecchi Aurum Regis sforna ottima cucina locale: chianina e baccalà mantecato con salvia fritta ne sono degna rappresentanza.

Castelvecchi

PERNOTTAMENTO: Il complesso è munito di camere ed appartamenti con vista su uliveti, vigneti, boschi. A pochi passi, il medievale borgo di Vescine ospita un confortevole ed elegante relais.

PERNOTTAMENTO: Entrambe le realtà sono attrezzate per l’agriturismo e, ai più esigenti, l’esclusivo relais soddisferà ogni loro esigenza. INDIRIZZO: Relais Riserva di Fizzano/ Agriturismo Il Torrione loc. Fizzano 53011 Castellina in Chianti (Si)

TRAVAllE

Esempio riuscito di villa signorile tardo barocca voluta dagli Strozzi, l’agglomerato vanta raffinatissimo giardino all’italiana arricchito da statue, fontane, vasi in cotto per piante di limone, ninfei ed uno scenografico edificio semicircolare impreziosito da grottesche. Completano il complesso costruzioni coloniche, alcune delle quali adibite alla produzione agroalimentare. WINE&FOOD: Il complesso è in genere utilizzato per grandi eventi. I visitatori potranno degnamente consolarsi con i tasting di vino ed olio extravergine prodotti in fattoria oppure presso il rinomato ristorante Tucano Osteria.

INDIRIZZO: Loc. Castelvecchi 53017 Radda in Chianti (Si)

PATERNO

Travalle

Su una amena collina monterspertolese troneggia vanitosamente la slanciata torre seicentesca appartenente alla Fattoria di Paterno, amorevolmente protetta dalla bella villa padronale, esempio riuscito di architettura granducale tanto in voga tra la nobiltà fiorentina. Intorno, molti edifici agricoli coevi e successivi formano un unicum urbano immerso tra vigneti ed uliveti atavici. Curatissimi giardini della cultura medicea ed europea completano questo gioiello assolutamente da visitare. WINE&FOOD: La villa ospita un elegante ristorante dalla nomea rinomata, specializzato in prelibati piatti della ricca tradizione toscana e nazionale. L’annessa Fattoria produce vino e vinsanto di buona qualità.

Paterno

PERNOTTAMENTO: L’ubicazione nei pressi di Calenzano, permette una scelta variegata tra alberghi, affittacamere, agriturismi per tutte le tasche.

PERNOTTAMENTO: La dimora padronale possiede 5 stanze, comprendenti una lussuosa suite. Nelle vicinanze, ci si può appoggiare all’esclusivo residence “I Massini”, circondato da una profumatissima vegetazione di mirto, querce, ginepro, tamerici.

INDIRIZZO: Tenuta di Travalle Località: Calenzano (Fi)

INDIRIZZO: Antica Fattoria Paterno Via Paterno 44 Montespertoli (Fi)

Studio Fotografico Righi di A. Moggi

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uN PASSO DOPO l’AlTRO

la via Francigena

Elena Battaglia

Bassorilievo con i pellegrini sulla facciata del Duomo di Fidenza Cattedrale di Canterbury Roma, Basilica di San Pietro

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uale periodo più propizio per scendere in strada e mettersi in cammino, se non l’estate appena trascorsa? Con la bella stagione, si sa, cresce sempre più la voglia di uscire per godere dei raggi di sole e della carezza del vento sulla pelle. È proprio in questa stagione che in tanti scelgono di intraprendere una vacanza “alternativa” per staccare la spina dalla routine quotidiana, intraprendere un nuovo percorso e fare nuove esperienza. I tempi delle crociere e del relax facile dei centri termali sembrano essere ormai un lontano ricordo. La tendenza degli ultimi anni è un’altra: i cammini – di fede e non – sono la meta prescelta da un numero sempre crescente di viaggiatori che decidono di prendersi un periodo di pausa all’insegna del cosiddetto “turismo outdoor”. Un modo per abbandonare anche la sedentarietà, grande croce della vita contemporanea, e entrare in contatto con parti ancora inesplorate del proprio sé.

La via Francigena Uno dei percorsi più popolari e frequentati, che negli ultimi tempi sta registrando un vero e proprio boom di camminanti, è proprio quello che parte dalla città di Canterbury per arrivare a Roma, toccando anche la regione Toscana: la via Francigena. I numeri – come spiegato dal responsabile dei progetti dell’Associazione europea delle Vie Francigene, Luca Bruschi – parlano chiaro: i visitatori stimati ogni anno oscillano tra le 20 e le 25mila unità, soltanto in base agli accessi al sito web www.visit. viafrancigena.org. Un trend positivo, che registra la reale attrattività di questo itinerario, dichiarato a partire dal 1994 “Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa”. Un riconoscimento cruciale che ha portato la via Francigena ad assumere, allo stesso modo del più che popolare Cammino di Santiago di Compostela, una dignità sovranazionale. Da dicembre 2015, inoltre, è stato avviato il progetto per inserirla nel patrimonio mondiale dell’Unesco con l’obiettivo di promuovere i cammini storici all’interno del nostro Paese.

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La storia Non esattamente un’unica strada, ma un fascio di vie (dette Romee) che sin dall’antichità conducevano dall’Europa centrale (soprattutto dalla Francia) fino a Roma. Il primo a rendere noto il percorso attraverso un vero e proprio “diario di viaggio” è stato il vescovo Sigerico, nel 990, recatosi a Roma per ricevere il “pallio” dalle mani del Pontefice. Nel suo racconto, Sigerico descrive il proprio pellegrinaggio di ritorno, composto da 79 tappe, dalla capitale italiana fino a Canterbury ed attesta l’esistenza, già in epoca medievale, di una fitta rete di vie di comunicazione di respiro europeo. Un


cammino di circa 1600 chilometri, percorsi perlopiù a piedi, per il quale il vescovo Sigerico impiegò 79 giorni, con una media di viaggio di 20 chilometri circa al dì. Abbandonata con il passare del tempo e letteralmente “ricoperta” da strade e autostrade moderne, la via Francigena è stata riscoperta a partire dagli anni Settanta quando l’interesse verso il Cammino di Santiago ha ridestato l’attenzione – in primo luogo da parte degli studiosi – nei confronti degli antichi sentieri italiani. È da questo momento in avanti, infatti, che gli “amanti della Francigena” hanno ricominciato a segnare l’antico tracciato, nel tentativo di recuperare e riqualificare quello che si presenta come un vero e proprio “tesoro” dal punto di vista turistico. Le tappe Sono 44 le tappe italiane, che conducono dal Gran San Bernardo fino alla capitale. Un intreccio di sentieri e cammini che porta fino in Toscana, regione in cui sono 360 i chilometri di percorso ufficiale. Da Pontremoli, passando per Pietrasanta, Lucca, Altopa-

scio, fino ai colli di San Miniato, ma anche Gambassi Terme, San Gimignano, Colle Val D’Elsa, Monteriggioni e Siena. Lungo questo tragitto abbondano le strutture ricettive e i punti di ristoro, in cui i pellegrini possono essere accolti e rifocillarsi prima di rimettersi in cammino alla volta della tappa successiva, molte delle quali gestite da parrocchie e istituzioni religiose. Una di queste, infatti, è stata per lungo tempo ed è ancora il convento di San Francesco, a San Miniato, malgrado sia incerta la permanenza dei frati dell’Ordine dei frati minori conventuali che fino ad oggi si sono occupati della gestione. Tra fede e voglia di avventura A tutti gli effetti, il cammino lungo la via Francigena è nato come un percorso di fede. Chi decideva di recarsi a Roma a piedi, nel Medioevo, lo faceva per visitare la tomba dell’apostolo Pietro (una delle tre “peregrinationes maiores” insieme alla Terra santa e, appunto, Santiago de Compostela). Tanti, infatti, sono i santuari che costellano il percorso, tra cui spicca il Santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, sul Gargano in Puglia. Un corteo di visitatori non solo italiani, ma provenienti da ogni angolo d’Europa e, soprattutto, dalla vicina Francia: il nome stesso – via Francigena – indica come questa strada, in epoca post carolingia, venisse usata dai Franchi per raggiungere Roma passando attraverso la Val di Susa. Il tempo è passato e anche le motivazioni di chi intraprende questo tipo di viaggio sono diverse. Una costante, però, c’è. Dietro ogni racconto dei pellegrini, credenti o meno, sembra celarsi la voglia di scoprire qualcosa di “ulteriore”, una regione ancora inesplorata del proprio sé, quella risposta che si va cercando da tanto tempo e che pare impossibile raggiungere se si rimane “fermi” all’interno delle barriere della vita quotidiana. Viaggio, dunque, come metafora dell’esistenza: non è importante l’approdo finale, né se i propri dubbi irrisolti troveranno una giusta collocazione. In fondo, quello che conta davvero è “superarsi”, dimostrare a se stessi di essere in grado di affrontare un tragitto difficile, di essere “qualcosa di più” della persona che si è sempre pensato di essere. E “donarsi” all’altro, nel cammino che spinge a diventare compagni, fratelli e renderci più umili, sulle orme dei tanti pellegrini che ci hanno preceduto.

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Mappa della via Francigena completa Via Francigena, percorso sud Italia Santuario San Michele a Monte Sant’Angelo in Puglia Grotta del Santuario


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DESIGN

settembre è tempo di vendemmia

in giro per cantine tra calici, architetture e arte

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Annunziata Forte Cristina Di Marzio

Tenuta L’Ammiraglia Cantina Petra

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ettembre, tempo di vendemmia! “Ha fatto bene all’uva lo stridore dell’estate”, scriveva Pascoli e il nostro Studio, che ha ricevuto recentemente l’incarico di curare la ristrutturazione e l’ampliamento di una cantina, preso atto che l’estate sta finendo, è pronto ad affrontare questo nuovo lavoro. Abbiamo deciso di documentarci contemporaneamente sul vino e sulle Architetture del vino e vi invitiamo a fare un giro insieme a noi, unendoci al milione di viaggiatori che ogni anno arriva in Toscana per scoprire borghi, cantine, vini e sapori di questa terra. Venticinque bellissime cantine sono state infatti inserite in un progetto regionale e, percorrendo anche le Strade del vino, altra bellissima iniziativa della regione, potremo degustare, sostare, ammirare curatissimi vigneti e studiare i processi di vinificazione. Queste cantine d’autore sono strut-

ture all’avanguardia, estremamente tecnologiche, dove nulla è lasciato al caso, eppure estremamente poetiche. Potremo avvicinarci alla cultura del vino, ma anche all’arte, al design e alla musica, grazie alle numerose iniziative culturali che animano questi luoghi. E se è pur vero che l’Italia è tutta terra di vini, è la Toscana, con nove cantine su dieci, che guida l’elenco delle dieci cantine più belle d’Italia, progettate da grandi nomi dell’architettura, come Renzo Piano e Mario Botta. Intraprendiamo quindi il nostro viaggio tra i filari d’uva e gli immancabili cipressi, e poiché il ricordo del mare è ancora vivo, prima di percorrere le strade bianche del Chianti Classico, tra Firenze e Siena, andiamo sulla Costa degli Etruschi a Donoratico con i vini Doc Bolgheri e scopriamo la Tenuta Argentiera. Qui il territorio è costellato di forti con torri di avvistamento e l’architettura

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dell’intervento si lega volutamente a questi elementi del paesaggio circostante riprendendo gli elementi tipici delle strutture militari. Decidiamo poi di visitare la Cantina Petra, direi una tappa obbligata per noi architetti, scavata nel fronte della collina di Suvereto, nella Val di Cornia. Questa cantina si inserisce nel paesaggio, ma al contempo lo caratterizza fortemente con la presenza del grande cilindro e della magnifica scalinata, rivestiti in pietra di Prum. Dal cilindro la luce penetra in tutti gli ambienti e salendo la scalinata si ammira il mar Tirreno. Rimanendo in Maremma, non possiamo non recarci alla Rocca di Frassinello; questa nuova cantina è nata da un progetto di joint venture italo-francese che ha portato alla nascita di vini pluripremiati, grazie alla sommatoria di eccellenze. Progettata da un grande architetto, qual è Renzo Piano, questa cantina presenta una vera rivoluzione nella concezione degli spazi, avendo al centro la barricaia, un quadrato di settanta metri di lato, senza appoggi intermedi, che ospita anche concerti. Intensa l’attività culturale in questo luogo che nel 2015 ha ospitato la mostra Gli Etruschi e il vino a Rocca di Frassinello. Ci spostiamo ora nella terra del Chianti classico, caratterizzata da un territorio collinare ricco di boschi e punteggiato da piccoli borghi, da castelli, antiche pievi e case coloniche. Qui troviamo la Cantina Antinori dell’omonima famiglia. Completamente nascosta nel paesaggio, mentre la ammiriamo da fuori, questa cantina si apre poi magnificamente su di esso, quando siamo al suo interno. Vetro, legno, corten e cotto i materiali impiegati. Dopo aver visitato la biblioteca, ci


affacciamo sulla suggestiva terrazza per ammirare i vigneti circostanti e siamo completamente immersi nei filari circostanti, coltivati con prevalenza di San Giovese. Non possiamo non visitare ora la cantina di un’altra importantissima famiglia toscana di produttori di vino, i Frescobaldi; torniamo quindi in Maremma e sostiamo sotto il porticato della Tenuta L’Ammiraglia e ammiriamo lo splendido Golfo dell’Argentario. Tornando alle dieci cantine d’autore in italia, se è vero che nove sono Toscane, l’unica che fuori regione è inserita in questo elenco, è un vero e proprio esemplare unico e raro. La Tenuta di Castelbuono della famiglia Lunelli ci sorprende infatti per l’estrema diversità rispetto a quanto visto fino ad ora: un carapace di bronzo appoggiato sul terreno

dello scultore Arnaldo Pomodoro. All’interno di questo oggetto, arte, natura e vino dialogano tra di loro, mentre noi all’esterno proviamo una intensa emozione nel contemplare l’opera dell’artista che al contempo è luogo di lavoro e di produzione. Dopo aver degustato vini, mangiato chianina, assaggiato salumi di cinta e di cinghiale, vogliamo completare il nostro aggiornamento sul campo trasferendoci in Francia, a Bordeaux, andando a visitare la cantina progettata da Philippe Starck per la Tenuta Chateaux Les Carmes Haut Brion e appena inaugurata. A forma di nave rovesciata e rivestito di alucobond, questo edificio è poi caratterizzato dalla terrazza di teak che, all’ombra del bosco, ammira il castello della tenuta. Ma ora è per noi tempo di “tornare sobrie“, rimboccarci le maniche

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e metterci a lavorare per affrontare una piccola sfida; speriamo di aver fatto tesoro di tutto quanto sentito, visto e “assorbito” in questo tour insieme a voi!

Tenuta Chataux Les Carmes Haut Brion Rocca di Frassinello Tenuta di Castelbuono


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LIBRI

In viaggio

tra parola

e immagine

a Finale Ligure con scioglimento a sorpresa Nicola Micieli

Gloria Bardi Stefano Stacchini

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i può dire che non ha un inizio e non ha una fine, nel senso conseguente del narrare, questo divagato, intrigante libro di parole e immagini in parallelo che pure comincia e finisce con una storia e un quadro scenico. Il libro, certo, lo scorri sfogliandolo, dunque in sequenza verbo-visiva. Potresti però partire da un punto qualsiasi, procedere in avanti o a ritroso, per salti e riprese, seguendo il filo delle curiosità e degli acchiti ludici ed enigmistici disseminati lungo il percorso. In ultimo, troveresti una tua uscita dal labirinto latente nel centinaio di pagine – volutamente, credo, non numerate – ognuna delle quali, a suo modo, è componente mobilitabile di un’opera aperta. Nella quale si sollecita l’intervento del lettore che movimenti le parti e sviluppi in proiezione immaginativa le piste del racconto.

Deciderai tu, insomma, quando e come concludere una storia che non ha incipit né svolgimento né scioglimento, e il tuo itinerario sarà di sicuro un viaggiare di deriva: ogni pagina una stazione per l’attraversamento, nella quale si riavvia la ricognizione e si compie di nuovo la discesa, sulla scia sonora e visiva di non poche sirene e i tanti enigmi da sciogliere lungo il percorso. Guadagnerai così il tuo approdo, quel compimento del viaggio che il titolo di questa sorta di atlante delle meraviglie celate nel paesaggio, promette “a sorpresa”, giocando sulla coincidenza del toponimo Finale – Finale Ligure oggetto dei compositi flash visivi di Stefano Stacchini – e il finale imprevisto delle divagazioni narrative di Gloria Bardi. Divagazioni che sembrano parlare d’altro dalle immagini, ma a queste riconducono per corrispondenze intrinseche al loro statuto linguistico e formale. Si intenderà dunque come nel libro si visiti e si restituisca, scomposto in fantastiche partiture nelle fotografie poeticamente elaborate da Stacchini, il singolare “rendering” d’un luogo elettivo. Sul cui sfondo Gloria Bardi mette in scena, al modo di Queneau nei suoi Esercizi di stile, un ventaglio di variazioni testuali che riguardano non lo stile, ma i meccanismi della rivelazione in figura teatrale e i contenuti tematici. Lo fa intorno alle relazioni coinvolgenti, comunque amorose, tra la persona – sensazioni, pensieri, esperienze, aspettative, illuminazioni e luoghi comuni, psicologia e affettività – e gli oggetti, le creature, le presenze incrociate nella vita, anziché sul metrò. Magari silenziosi e sino a quel punto insospettati compagni di strada. Ne scaturiscono azioni in definitiva dialogiche tra il sé e gli altri

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da sé nei quali si può tradurre la complessità della persona. Non a caso, in buona parte dei racconti ricorre il doppio ambiguo e straniante dello specchio, spesso frantumato, quale soluzione di continuità o filo rosso allo sviluppo non conseguente di una storia fatta di “situazioni”, dalla scrittrice proposte sotto specie di siparietti di stravagante, persino surreale drammaturgia. La ribalta di questo teatro di parola e di figura, meglio direi di situazioni correlate in parola e figura, è un mirabolante belvedere sul paesaggio urbano e naturale di Finale Ligure. Stacchini lo rende in prospetti, scorci, alzati arditamente inquadrati e variamente intersecati tra terra, mare e cielo, moltiplicando i percorsi interni alle partiture e le relative induzioni di lettura dell’immagine. Introduce poi ad arte ulteriori inserti visivi che rimandano al retroterra storico e culturale del luogo urbano, opera seducenti nouances e decori squisitamente pittorici, inserisce ad arte un repertorio di lettere cifre segnali da poesia visiva, quali ulteriori indizi di percorso alla deriva del viaggiatore che dovrà trovare il proprio filo di attraversamento e di uscita dal labirinto.


Amicizia. Cos’è? Basta che tu mi guardi. Poteva crollarti il mondo attorno, avevi la certezza di potermi trovare. Mi hai sempre trovato. Ti ho sempre guardata negli occhi, senza ipocrisia. Complice quando me lo chiedevi, spietato quando cercavi la realtà a qualunque costo. Io non ti ho mai nascosto nulla, riconoscilo. Ho riso con te e pianto con te. E non ti ho mai voltato le spalle. Tu sì. In quei casi, sono rimasto al mio posto, senza negarti la mia disponibilità. In fondo, non mi sentivo in discussione, in fondo ti allontanavi da te stessa e lo sapevi. E non ero certo io a impedirtelo, anzi. Ho raccolto la tua alienazione dopo una serata sbagliata. Alla fine ne uscivo io stesso confuso, macchiato. Ho raccolto la tua euforia dopo una serata esaltante. Avevo il compito di farla proseguire, mettendomi il naso da clown assieme a te. Mi sono ritrovato addosso aloni della tua anima, fiati alcolici, fumi più o meno selvatici, spruzzi di saliva quando mi urlavi in faccia la tua rabbia senza ritegno. Ricordi la volta che mi hai tirato un bicchiere? Poi però mi hai riempito di coccole e mi hai pulito la faccia con dolcezza, canticchiando. E li ricordi i baci che mi hai stampato addosso, prima della tua prima volta? Così, come si fanno le prove. A cos’altro dovrebbe prestarsi un amico? Del resto, anch’io ti ho sempre guardata con un certo interesse ma per te il mio interesse non ha mai contato, come per un sasso non conta l’acqua che gli scivola addosso. Ora tu mi accusi di essere uno che rinfaccia ma sai benissimo che non c’è un tuo difetto che io non riconosca a me stesso. Mi accusi di essere superficiale, eppure sai quanto sia, per mia natura, incline a riflettere. Mi accusi di essere traditore ma sai benissimo che non riferisco nulla delle tue confidenze. Sono muto, discreto, so tenermi i segreti. Mi accusi di essere infedele ma, a parte il fatto che lo sei anche tu, l’amicizia non chiede un rapporto esclusivo e non ha nulla a che fare col possesso. Io avrò tutti i difetti che tu mi attribuisci ma di certo non aspiro a possedere né a plagiare, lascio chi mi si accosta libero di esistere indipendentemente da me. A differenza dell’amore, poi, che mette radici anche nello squilibrio, l’amicizia è una relazione simmetrica e io ne sono capace come nessuno al mondo. In verità, tra noi sei sempre stata tu a decidere e io mi sono sempre adeguato, senza fartelo pesare. Quindi, comandami, ignorami o tradiscimi se vuoi ma evita di mandarmi in frantumi. Siccome ti sono amico, voglio evitarti sette anni di guai. Gloria Bardi

A M I C o

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RACCONTO

Monna Lisa al Tropico del Cancro Matthew Licht

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i trovavo in un paesino della Baja California ad aspettare l’autobus per Ensenada. Da quelle parti non esistono orari. Il bus arriva quando arriva, parte quando parte e se a bordo ci sei tu, bene. Se no, va bene uguale. Non c’era molto da vedere in quel posto. Non che avessi voglia di vedere nulla. Ero stato parecchio a sud, in Chiapas, perché avevo sentito che lì c’era la guerra. Non volevo vedere o documentare la guerra, né tantomeno prendervi parte, ma da quelle parti abitano i Lacandon, una tribù che si veste solo di bianco. Girano per la giungla in piroga. Hanno bellissimi capelli lunghi da hippie e evitano ogni contatto con la civiltà moderna. Volevo incontrarli, sentirli, cercare di capirli, prima che la guerra li spazzasse via dal loro territorio. Non vidi alcuna traccia di conflitto armato. Forse è solo che capitai dal-

le parti sbagliate, e non al momento giusto. Non sentii spari né esplosioni. Non riuscii a orientarmi verso la guerra. Nemmeno incontrai Lacandon. Avevo preso a nolo una piroga. Col machete mi fabbricai un palo lungo e robusto per pilotarla tra i canali della foresta pluviale. Navigai per diverse settimane, ma vidi solo spettacolari uccelli, scimmie, tapiri, formichieri giganti. Gli insetti mi divorarono. Ebbi problemi anche con le sanguisughe, ma gli indigeni mi schivarono. Non sentivo presenze umane tra le mangrovie. Temevo di essere arrivato troppo tardi, che il governo messicano, oppure i guerriglieri, avessero già liquidato i Lacandon e il loro modo di esistere in mezzo alla natura. Volevo solo dirgli qualcosa del tipo, mi dispiace. Mi mancavano, anche se non avevo nemmeno sentito il loro odore. Ero appoggiato a un muro di adobe.

Calendario Maya Foresta pluviale

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Pensavo che fosse una casa disabitata, invece era un negozio. Arrivò un signore vestito di nero, il quale, chiedendomi scusa, aprì la porta e poi la vetrina. Vendeva roba per turisti: sombreros colorati, calendari con toreros e donne azteche mezze nude, riproduzioni in plastica del calendario Maya. Frammisti a queste cianfrusaglie c’erano delle maschere Olmec e Toltec dall’aria autentica, e un’allarmante testa rimpicciolita, appesa a un gancio dai capelli lunghi e corvini. Fissai quell’orrenda reliquia. “Cosa ne pensa?”, chiese il proprietario del negozio. “Non sarà mica la testa di un indio Lacandon,” dissi. “Per favore, mi dica di no.” Forse trovò curioso che un turista gringo nella Baja California, che non era ancora la brutta copia messicana di Miami Beach e Las Vegas ma lo stava diventando in tutta fretta, sapesse chi fossero i Lacandon. “Entri,” disse, “ho delle altre cose da mostrarle.” “Grazie, ma non voglio perdere la corriera. Devo tornare a San Diego.” “Oggi non parte nessuna corriera. Venga.” Mi mostrò coltelli di ossidiana, scalpi, bradipi imbalsamati, mazzolini di fiori peyote, yagé, ololiuqui e teonanácatl. Mi offrì una tisana di quest’ultima, visto che nel paese non c’era un caffè. Mentre lo preparava, notai un quadro appeso in alto a una parete quasi al buio. Una roba kitsch dipinta su velluto nero che mi suscitò nostalgia finché non la guardai meglio. Rabbrividii. Monna Lisa ghignava maligna. Aveva l’occhio sinistro sporgente, gonfio di un liquido giallo. L’altro occhio era chiuso, strizzato, o forse le era stato cavato. Le mancavano dei


denti, alcuni altri erano lunghe zanne. Teneva nella mano sinistra un paio di forbici, nell’altra grinfia stringeva un feto calcificato, il suo bimbo nato morto che avrebbe usato in qualche macabro rito. “Cosa ne pensa?” chiese di nuovo il bottegaio, facendomi quasi saltare dalla pelle. “Forse è la cosa più brutta che abbia mai visto.” “Cose brutte possono essere più interessanti di cose belle. Anche la bruttura ha una sua estetica.” Parlava come un professore. “L’ha dipinto un artista di qui?” “Non glielo posso dire.” Uscimmo alla luce del giorno per bere il té. Dei corvi sciamavano attorno a un falco che si era posato su un tetto. Volevano scacciarlo via. Il rapace aveva la lingua fuori, era troppo stanco per volare. Doveva riposarsi, trovare da mangiare. I corvi naturalmente non volevano che mangiasse i loro piccoli. “Dovrebbe andare al porto di Guerrero Negro, se vuole tornare a casa,” disse il negoziante. “Da lì inizia l’autostrada per il nord, vi passano molti mezzi. Partono anche le imbarcazioni, se preferisce.” “E a Guerrero Negro come ci arrivo?” Guardò verso ovest. Dove finivano le

basse case iniziavano i cactus. La strada era solo tanta polvere compressa. “Non dovrebbe restare qui. Qualcuno prima o poi le darà un passaggio.” Cominciavo a sentire, a vedere, a odorare gli effetti della tisana. Sicuramente mi stava dando un ottimo consiglio. “Bene,” dissi, “ma prima vorrei comprarle qualcosa per ripagare la sua gentilezza. Quanto vuole per quel quadro?” Arrotolato, senza telaio, ci sarebbe stato nel mio saccone. “Fa parte della mia collezione privata.” “La testa rimpicciolita?” “Nemmeno la tsantsa è in vendita, spiacente. Aspetti.” Tornò nel negozio. Lo sentii che frugava, rovistava, apriva e chiudeva cassetti. Intanto i corvi erano riusciti a scacciare il falco, che volò via quasi zoppicando. Si rifugiò a terra, all’ombra di un cactus, e i corvi a quel punto lo lasciarono stare. “Questo forse le sarà utile durante il viaggio,” disse il mercante. Mi porse un’arma primitiva, una pietra di fiume ovale legata con fibre di liana a una sorta di sfollagente. Pesava. Stava bene equilibrata nella mano, c’era un laccio per farla stare attaccata al polso. Era uno strumento micidiale. “Quando giunge a casa, sarà un souvenir più interessante di un sombrero o un calendario. Qualcosa da appen-

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dere alla parete, accanto al televisore, se ce l’ha. Potrà raccontare delle sue avventure qui in Messico.” Non avevo tanti soldi. Accettò venti dollari. Non mi sembrava sufficiente. Gli regalai pure delle cose dal mio saccone, per alleggerirlo. Sembrava contento, particolarmente del libro, L’origine delle specie di Charles Darwin. Non avevo ancora finito di leggerlo. A San Diego cenai al ristorante dell’albergo dove mi ero fermato. Mi era appena arrivata la bistecca cotta al sangue quando entrò nella sala il tipo della reception. Mi mise in mano un telegramma. L’aprii. C’era scritto, “Margie è morta. Torna subito a casa.” Ne fui scosso. Mia madre si chiamava Margie, ma non era possibile. Nessuno al mondo sapeva dov’ero. “Non può essere per me,” dissi. L’alberghiere si diede quasi una pacca sulla fronte. “Mi scusi,” disse. “Mi s c u s i tanto.” Portò il telegramma a un signore, pelato pure lui, a un altro tavolo. Lo lesse e scoppiò a piangere, quasi a urlare. A New York, portai il tomahawk al Museo Antropologico. Il curatore a cui lo mostrai sembrò sorpreso che non me l’avessero sequestrato al confine. “Mi hanno chiesto se avevo droghe o farmaci,” dissi. “Dell’ascia non gliene fregava niente. Che roba è?” “Azteca, direi. Dove l’hai presa?” “Baja California, in un negozio per turisti.” “Allora non saprei. Quanto vuoi?” “Hai capito male. Vorrei donarla al museo.” “Ottimo. Grazie. Così fuori contesto non so se lo potremo mettere in mostra, ma potrebbe risultare importante per il nostro archivio.” L’ingresso al Museo Antropologico è gratis, visto che non ci va quasi mai nessuno. Avevo il pomeriggio libero. Feci un giro delle sale. Le sculture azteche mi piacciono un casino. Sembrano pulsare di una letale energia. In una delle bacheche era esposta una testa rimpicciolita. Sorrideva in modo enigmatico.

Ciapas Lacandones Canoa sul fiume Ascia azteca


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festival

una pioggia di eventi nell’estate pecciolese Irene Barbensi

Teatro dell’Aringa Bohemians Pontedera il Barbiere di Siviglia le foto: @Archivio fotografico Peccioliper foto Franco Silvi

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’estate a Peccioli è iniziata a giugno quando la Fondazione Peccioliper ha dato i natali alla prima edizione di un festival letterario dedicato alla letteratura noir e ai romanzi di Maurizio de Giovanni, come evento finale di un percorso di laboratori teatrali per adulti e bambini e di scrittura creativa durato un anno. Giovedì 9 giugno lo scrittore napoletano ha incontrato i suoi appassionati lettori, i frequentanti dei vari laboratori e tutti i curiosi in un incontro pubblico in Piazza del Popolo. Venerdì 10 giugno il centro storico di Peccioli si è trasformato in un palcoscenico, dove sono andati in scena gli allievi di corsi di teatro per ragazzi e per adulti e sono stati letti gli elaborati del laboratorio di scrittura creativa. Prima edizione anche per Tuscania che sabato 24 e domenica 25 giugno ha animato il centro storico di Peccioli con concerti, performance teatrali e cibo di strada. Ma come ogni anno è l’attesissimo cartellone di 11 Lune che ha fatto da padrone con eventi di portata nazionale, confermando la capacità di stupire, evolversi e crescere negli anni. Da Antonello Venditti con gli oltre 3.000 spettatori, la prima della tournée

teatrale estiva della commedia musicale Vacanze romane con Serena Autieri e Paolo Conticini. 11Lune è senza dubbio il festival delle scommesse. Vinta la scommessa con la seconda produzione lirica, che ha messo in scena il Barbiere di Siviglia. Un esperimento unico nel suo genere, nato dalla collaborazione con il progetto Scart di Waste Recycling che ha realizzato le scene e i costumi con materiali di recupero, e la Modigliani

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Produzioni con l’Orchestra Amedeo Modigliani di Livorno. Scommessa vinta anche per l’inserimento di uno spettacolo di Danza classica Trittico Barocco (12 luglio), con grandi protagonisti della danza internazionale: il coreografo Kristan Cellini, il principe della danza italiana Giuseppe Picone, da pochissimi giorni nominato direttore del corpo di ballo del Teatro San Carlo di Napoli e Letizia Giuliani, prima ballerina del corpo di ballo del


Maggio Musicale Fiorentino. Sotto la guida di Cellini hanno fatto parte dello spettacolo quattro scuole di danza del territorio: Scuola di Danza Elsa Ghezzi di Pisa, la Scuola Pontedera Danza di Pontedera, la Scuola ArteDanza di Santa Croce sull’Arno e la Scuola Rondine Danza a.s.d. di Peccioli. Confermata la presenza in cartellone di uno spettacolo per bambini A little sweet concert (25 luglio): un dolce e raffinato concerto dedicato a bambini fino ai 3 anni e a donne in attesa interpretato dal Teatro dell’aringa. Peccioli è anche protagonista con i suoi musei che vivono rinnovandosi con nuovi allestimenti e nuove scoperte. Giovedì 7 luglio alle ore 18,30 è stato inaugurato il nuovo allestimento di una sala del Museo Archeologico di Peccioli con l’esposizione permanente di importanti ritrovamenti provenienti dal sito archeologico di Santa Mustiola

a Colle Mustarola a Ghizzano, un piccolo colle ubicato lungo una delle vie di comunicazione antiche più importanti del territorio, che collegava Volterra, Pisa e il mare a Roma. Confermata anche la seconda edizione di Cibo e Musica in piazza tra una luna e l’altra. Nove eventi che hanno animato Piazza del Popolo e la terrazza del Centro Polivalente preceduti da aperitivi e degustazioni organizzati dai commercianti di Peccioli, dalla Volley Peccioli e dagli Amatori di Peccioli. Quello che 11Lune crea è tanto: tanto entusiasmo, tanta qualità culturale, tanto indotto economico nel territorio. La manifestazione è stata organizzata e promossa dalla Fondazione Peccioliper il cui grande impegno organizzativo e la cui passione hanno consentito di ospitare e far divertire il pubblico di 11Lune e dell’estate pecciolese.

Vacanze romane con Serena Autieri e Paolo Conticini. Michele Placido Maurizio Battista Compagnia PeccioliTeatro Andrea Buscemi in L’ultimo degli amanti focosi di Neil Simon Coro dell’Università di Pisa Compagnia PeccioliTeatro Andrea Buscemi in Il bugiardo di Carlo Goldoni Antonello Venditti Giuseppe Picone e Letizia Giuliani

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TEATRO

TeaTro del sÉ sTesso CHe reCITa Alberto Severi

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uardatelo. Sì, guardatelo mentre, in Bagno Finale di Roberto Lerici, provoca nel pubblico un brivido di ilare ribrezzo, e forsanche di inconfessabile ghiottoneria coprofaga, mentre rimesta e assaggia, in una sudicia pentolaccia, il più ributtante degli alimenti (ma che pure, dagli alimenti deriva…). Osservatelo mentre, nel Valzer diretto da Sergio Staino (e dal sottoscritto partorito) mentre dispiega la propria cialtronesca seduttività nell’irretire (finendone irretito) la finta-ingenua ragazzina Linda, e funge quasi suo malgrado da contraltare e da catalizzatore per la recitazione febbrile e la perversa ambiguità interpretativa di un’attrice borderline, apparentemente lontanissima dal suo standard teatrale, come Silvia Guidi. Ammiratelo, mentre declama Dante in una cava di marmo abbandonata (è la geniale intuizione scenografica di Inferno Bianco alla Cava Borella), e lo declama esattamente come ci si aspetta che Dante debba essere declamato, e come si pensa che non andrebbe più declamato, e come si scopre che possa ancora essere declamato, con un di più di (invo-

lontaria?) auto parodia citazionista. La voce un po’ chioccia, ora tonante, ora nasale e lamentosa, sospesa fra l’enfasi e l’ironia, la fronte corrusca, il profilo rapace, l’occhio balenante o improvvisamente languido, spesso ammiccante sotto le sopracciglia mobilissime, i capelli sempre più scomposti, oltre il crinale della stempiatura sempre più alta, la barba faunesca, da dignitario assiro, da piccolo mefistofele, da imbonitore levantino… E la gestualità altalenante fra la retorica declamatoria old style, con echi gassmaniani, e improvvisi nevrotici ingobbimenti, tic, farfugliamenti, indecisioni da Woody Allen mediterraneo… Eccola qua. Andrea Buscemi, non è tanto un attore che interpreta dei personaggi. È un personaggio specifico, questo: l’Attore, anzi il Grande Attore (che interpreta dei personaggi). Lui stesso. E tuttavia, nel cerchio – magico fascinatorio – di Sé Stesso, gli capita, quasi miracolosamente (ma attenzione: non senza tecnica, anzi: non senza virtuosismi tecnici) di imbattersi nei, di interagire coi, di in /contrare – i Personaggi. E dietro i Personaggi, gli Autori. Perché i Personaggi, spesso, e volentieri, dopo aver a lungo cercato, e trovato, gli Autori, si mettono alla ricerca, non meno problematica, degli Attori. Andrea Buscemi, questo fatto tutto sommato apprezzabile, sembra intuirlo, annusarlo. E dunque i Personaggi non se li va a cercare, con inutile dispendio di energie. Li aspetta (e spesso li attira: è un seduttore): dentro Sé Stesso. Certo, qui stanno il suo paradosso, il suo limite, forse, la sua fosca e un po’ demoniaca grandezza. La sua problematicità esistenziale, la sua polverosa guitteria, e, insieme, la sua angoscio-

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sa modernità (o post modernità). Qui risiedono la sua dannazione e la sua gloria, l’irritazione repulsiva e/o l’irresistibile fascino che è in grado di suscitare in chi lo conosce e in chi lo ammira sul palcoscenico. Andrea Buscemi – lo sa lui, per primo, ha molti detrattori, nel piccolo mondo velenosetto (e provinciale, soprattutto quando gioca al Grande Teatro e massime al grande Teatro d’Avanguardia e Ricerca) del teatro italiano. Ci sono anche gli estimatori, beninteso (e fra di loro, chi scrive: da molto prima che quagliassero le condizioni per una collaborazione che, per intensità, ha talora assunto le vesti di un vero e proprio sodalizio). Ma qui, per una sorta di “buscemologia negativa”, ci interessa parlare anzitutto degli altri: di quelli che ce l’hanno francamente sulle scatole, il Buscemi attore, regista, capocomico, finanche pittore niente male, e scenografo. E lo reputano un istrione magari non privo di talento, ma ingovernabile registica mente, schiavo dei suoi tic e dei suoi birignao, irretito nel mito del Grande Attore ottocentesco, fino a rappresentarne, fuori tempo massimo, la parodia più o meno cosciente. Lontano, dunque, anni luce dai rigori sacrali della ricerca (e tuttavia, per altre vie, più vicino di quanto si possa pensare all’identificazione fra arte e vita, uomo e attore, che certe esperienze di ricerca vorrebbero promuovere), a volte preciso fino alla minuzia maniacale, ma altre volte un po’ approssimativo e arruffone, e – fuori dal palcoscenico-ingenuamente cinico nel perseguimento delle proprie occasioni, di fama a buon mercato, e di portafogli: fino ad accettare, in televisione, nelle vesti del Fine Dicitore, gli sberleffi di Panariello col marsupio fallico a Torno Sabato su Raiuno.


Una resa sconsolata al Peggio (resa del Teatro colto all’ignorante arroganza televisiva) che ha certo accresciuto la sua popolarità e il suo conto in banca, ma che in molti non gli hanno perdonato, alla stregua di un tradimento: quasi che l’autoironia, sconfinando nell’autolesionismo, finisse non tanto per significare un’implicita critica del modello culturale (?) imperante, quanto piuttosto per avvallarne, sotto l’aspetto bonario e falsamente popolaresco, la trionfante demagogica protèrvia. Tutto vero, e tutto falso. Può darsi che, col siparietto insieme gustoso e irritante di quella fortunata trasmissione televisiva (dalla quale peraltro è poi figliata un’esperienza teatrale, il Borghese Gentiluomo di Molière, con la regìa di Solari, che ha rivelato in Panariello doti non disprezzabili da “comico dell’arte”, e ha confermato in Buscemi un attore di rango, capace di brillare, anche in ruoli secondari, per finezza e vitalità), può darsi, dicevo che il Nostro ( il quale un po’ machiavellico lo è) abbia fatto sua l’ambiguità del Grande Fiorentino, che, secondo Foscolo, “temprando lo scettro ai regnator gli allor ne sfronda ed alle genti mostra di che lacrime grondi e di che sangue“, secondo molti altri, fornì invece ai principi senza scrupoli la codificazione scientifica della loro mancanza di scrupoli… Ma lasciamo stare l’episodio specifico. Il nòcciolo della questione è un altro. Buscemi, col suo recitare la recitazione, segue, in maniera a suo modo coerente, una sua rispettabilissima Musa, solo apparentemente inattuale, e sta molto più dentro l’esperienza fondante del Teatro di quanto possano ammettere o sospettare i soloni e i guru delle Sacre Accademie e anti-Accademie. Forse non avrà studiato (e, certo, non ha fatto di essi la propria Carne e Vita), i Misteri Dolorosi del Teatro Novecentesco, i Vangeli secondo Artaud, o gli Atti di Grotowsky, o l’Apocalisse del Living Theatre, non si sognerebbe mai di intraprendere, mediante il Teatro, una propria rifondazione antropologica (lui si piace così com’è, e si vede), né di portare il Verbo fra i marginali, i barboni, gli ex drogati, i carcerati, i transessuali, le anoressiche, i non vedenti o gli handicappati. Buscemi – è palese – intende l’attore come un mestiere, si definisce un “teatrante”, e come capocomico deve sbattersi alla forsennata ricerca, vitale ricerca di “prebende” (come dice lui stesso con buffo arcaismo che è pure un lapsus): ma lo fa con tanta ingenua spudoratezza, la sua “furbizia” è così esibita da risultare comunque molto

più innocua di quella, assai più losca e ipocrita (ed efficace) di tanti tartufi da ricerca (teatrale), in apparenza assolutamente compresi del proprio sacerdozio artistico, e sotto sotto molto più abili e disinvolti di Buscemi nella ricerca, sì, ma di fondi, finanziamenti, contributi, entrature politiche, teatrini o teatroni da dirigere. Credo anzi che motivo non ultimo dell’avversione di certa parte dell’ambiente teatrale toscano per Buscemi stia proprio in questo: coi suoi modi a volte spicci, senza vergogna, Andrea smaschera inopportunamente il “troppo umano” dell’intera categoria, demistifica e demitizza le pretese vocazionali e missionarie che ne contraddistinguono le esperienze più “nobili”, quasi che chi fa teatro lo facesse per pura filantropia, e campasse d’aria. Dicevo però che il suo essere attore per mestiere in fondo realizza per altre vie, e forse meglio, l’utopia vocazionale del Teatro-Vita. Chi lo conosce sa benissimo che Andrea, fuori del palcoscenico, come sopra di esso, rappresenta sempre e soprattutto Sé Stesso Come Attore: un Uomo che Recita, certo, ma che non cessando mai di recitare, rivolta con vertiginoso salto mortale e filosofico, l’Assoluta Finzione in Assoluta Verità. Io non sottovaluterei la crucialità di questa posizione, né la post modernità, insieme ironica e terribilmente seria, di certi suoi apparentemente osboloscenti arcaismi. Andrea ama davvero il teatro, il palcoscenico, perché vi si identifica: sono il suo specchio di Narciso, il che è forse un limite, ma costituisce anche la garanzia della sincerità di quell’amore (che altri, più “nobili”, non hanno). Teatro del Sé Stesso che Recita: narcisismo, certo. Ma non autismo o onanismo interpretativo. Buscemi non è mai arido, né sterile. Egli assume in Sé, ovvero metabolizza nella propria esperienza esistenziale, prima che artistica, i Personaggi in cerca d’Attore. E perché il soufflé non si sgonfi, perché il gioco di specchi riesca al meglio, occorre che il Personaggio si sovrapponga col minimo residuo possibile alla sempiterna Recita del Sé Stesso che Recita. L’abilità, il talento mimetico e quasi medianico di Buscemi, stanno nel restituire la fedeltà geometrica degli anfratti attoriali, con com-passione, facendoli sempre propri. E mantenendo al contempo (qui sta l’aspetto demoniaco del Nostro, giustamente sottolineato dai tratti somatici luciferini) la propria inconfondibile individualità. È questo il frutto maturo di un’intelli-

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genza intuitiva, sintetica, in grado di andare dritta allo scopo e di cogliere l’obiettivo saltando molti passaggi intermedi, con una sicurezza di gusto e di intuito che, ancora una volta, può risultare irritante, “antipatica”, e rischia di essere scambiata per sicumera e magari per presunzione. Ma che rivela, semmai, solo l’impazienza di chi, prima degli altri, ha individuato subito dove esporre la vela, per condurre la barca a servire meglio, con umile dedizione, lo spettatore, il testo, l’autore, il Teatro in definitiva (se la maiuscola non disturba in quest’epoca vilmente minimalista). Impossibile, per questa impazienza, il non avere in uggia, cordialmente, chi non è in grado di vedere e cogliere il bandolo con altrettanta nettezza, e magari contrabbanda la propria miopia per eccessivo acume, ipersensibilità alla indirimibile complessità della vita e dell’arte, e si atteggia per questo, mistificando, a grande e tormentato interprete, a grande e dubitabondo regista. In Buscemi c’è una grande dignità nel servire il Teatro, in grado di elevare molto in alto. Realizzando lui così il suo paradosso di mimesi, di creazione, di riproduzione e conservazione di Sé.

ANDREA BUSCEMI è il nuovo presidente della Fondazione Sipario Toscana onlus che gestisce La Città del Teatro di Cascina. Una struttura di cinquemila metri quadri che consta di tre sale teatrali, gli uffici, la foresteria, bar, ristorante, laboratori vari, decine di dipendenti e centinaia di collaboratori annui. Finanziata da Comune, Regione e Ministero, è uno dei pochi Centri di Produzione riconosciuti dallo Stato italiano.


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INTERVISTA

GILLO PONTECORVO un ricordo del regista pisano a dieci anni dalla scomparsa

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ono trascorsi dieci anni dalla scomparsa del grande cineasta Gillo Pontecorvo, uomo estremamente gentile e signorile che si contraddistingueva per la profonda umanità – combatté nella Resistenza – e per la scrupolosità dei suoi lavori, qualità che lo portarono ad essere anche un buon critico e giornalista. Eppoi, diciamocelo francamente, come non ricordarlo dietro la macchina da presa per Kapò, tragica pellicola che raccontava della violenza disumana dei nazisti verso gli ebrei? Nato a Pisa da famiglia ebrea, dal 1992 al 1996 diresse la Mostra del Cinema di Venezia, ma già nel 1966, nella città lagunare vinse il Leone d’Oro per La battaglia di Algeri, pellicola straordinaria per lo stile asciutto e documentaristico, vantando pure due nomination per il prestigiosissimo Oscar. Un film che suscitò una bagarre non indifferente, trovando poi una giusta collocazione, ed è giusto ricordare quel singolare periodo storico requiem della grandeur transalpina. Dopo cinquant’anni, alla Mostra del Cinema di Venezia è piacevole rivedere la pellicola restaurata dalla Cineteca di Bologna e dal laboratorio Immagine Ritrovata. Gillo commentò così: «Per tre mesi non ebbe il visto di censura, poi lo ebbe, ma i proprietari delle sale cinematografiche, le quattro più grosse di Parigi, ricevettero una minaccia dall’organizzazione fascista francese: se fosse uscito il film avrebbero messo delle bombe! Dopo un po’ di tempo il regista Louis Malle, che amava molto La Battaglia, con dei colleghi lo fece uscire con l’appoggio delle Organizzazioni Giovanili democratiche: non successe nulla e andò ovunque, Francia compresa». Che ne pensa degli at-

tori improvvisati... «francamente non erano molti a farlo, era una scelta, ho sempre puntato maggiormente alla somiglianza fisica del personaggio, che alla sicurezza dell’attore vero». Ecco che me lo ricordo bene, mi colpì sopratutto per quel bellissimo bleu d’occhi vivaci, brillanti, a tratti anche mesti. «Il mio primo film... già, “La lunga strada azzurra con Yves Montand che non sapeva nuotare, pertanto... era un pescatore di frodo in acque dove poi gettava le bombe, doveva venir su con un sacco di pesci ed invece manco le lische! Al mercato c’erano solamente delle povere sardine e quindi mi spogliai, andai sotto col fucile e, ritornato a galla, portai dentici, spigole, ed altro ancora!» Dopo sonore risate, eccolo nel suo ruolo di aiuto regista con Yves Allegret: «Allegret era una persona estremamente gentile, pur non avendo io (!) una minima conoscenza del cinema, sopportò generosamente la mia ignoranza... se questo è poco! Mi chiedete di capolavori di film... al momento mi viene in mente Paisà di Rossellini, il sesto episodio è la ragione per cui cominciai a fare cinema, un entusiasmante approccio di grande affetto nei confronti della realtà quotidiana». Se dico Monicelli... poi ancora Marlon Brando per Queimada... «Ah, si, Mario, grande, grandissimo, quello sì che è un altro matto!» Disse ciò illuminandosi tutto, con tanto di sguardo inequivocabile lasciando trasparire un grande affetto. Quanto a quell’americano con la celebre cannottiera... che fece innamorare tutte le donne del mondo... «Mamma mia, che scontri e che litigate pazzesche proprio con il caro Marlon! Con tutte “le mandate a quel paese“ nei confronti dei nostri

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genitori, parenti compresi! Fu più l’impresa di lavorare con lui che girare il film. Pensa ad occhi bassi. Più tardi dovevamo girare un film sui diritti dei pellerossa in America del Nord ma... per varie ragioni non fu fatto niente. Capita!» La mia convinzione è che litigi e stima reciproca possono convivere. Decisamente. Quanto a questo toscano dotato di gentilezza unica, proseguii dicendo che i giovani, i ragazzi, sono molto attratti dal Neorealismo, si presume in virtù di quell’alone di forte coscienza sociale che lo pervade. Non trova? «Beh... mi sembra giusto collocare ciò come un approccio affettuoso dell’occhio del regista verso il mondo che lo circondava. Questo tuttavia nei confronti d’uno stile decisivo e non esclusivo. Esiste anche il cinema alla Fellini che è completamente lontano da tutto questo.» Tuttavia ha sempre presentato lavori di forte impatto, anche tragici. Questo per scuotere le coscienze? «No, era istintivo, uno tocca e mette gli avvenimenti che gli scaldano la vita. A me è sempre interessata la lotta sociale, quella politica, quindi...» Quindi è tutto ben documentato.

Carla Cavicchini

Gillo Pontecorvo con Cesare Badoglio

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cinema

Venezia 73

The Woman Who Left del filippino Lav Diaz si aggiudica il Leone d’Oro Andrea Cianferoni e Giampaolo Russo

Sala Grande Monica Bellucci, Emir Kusturica, Sloboda Micalovic Leone d’Oro Lav Diaz Coppa Volpi al miglior attore a Oscar Martinez pagina successiva: James Franco Sonia Bergamasco Eiichi Kamagata, Yasushi Kawamura, Alberto Barbera Leone d’Oro alla carriera a Jerzy Skolimowski Sophie Marceau e Jean-Paul Belmondo Paolo Sorrentino Jeremy Irons Renato Scarpa Camilla Diana Kim Rossi Stuart Cristiana Capotondi

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l premio va al popolo filippino per la sua lotta e alla lotta dell’umanità: questa la dedica di Lav Diaz sul palco della Sala Grande del Palazzo del cinema dopo aver vinto la coppa d’oro della 73a edizione della Mostra veneziana. Ispirato al racconto Dio vede quasi tutto, ma aspetta di Lev Tolstoj, The Woman Who Left, girato in bianco e nero, racconta la storia di Horacia (Charo Santos-Concio), una donna incarcerata ingiustamente per 30 anni, alla sua uscita da galera. La voglia di vendicarsi la percorre. Mentre medita vendetta, lentamente, di giorno e di notte, la disperazione dei reietti che incontra sulla sua strada calamita la sua compassione. Diaz esplora con profonda sensibilità e senso del vero l’umanità, nella sua lotta quotidiana, nel mistero di ogni giorno. Nei titoli coda di The Woman Who Left compare un unico nome, quello di Lav Diaz. Il cineasta filippino tuttofare (regista, sceneggiatore, montatore, direttore della fotografia) è già noto nei festival di tutto il mondo per i suoi lunghissimi piani sequenza che lo hanno contraddistinto come un innovatore. In un mondo in cui ritmo e fretta sono

parole d’ordine, Diaz porta avanti un cinema contemplativo, nonché opere lunghissime. È solo di pochi mesi fa il suo lungometraggio di 8 ore A Lullaby To the Sorrowful Mystery che ha vinto il Premio Alfred Bauer al Festival di Berlino. Nel 2014 aveva conquistato il Pardo d’Oro a Locarno con From What Is Before (5 ore e mezzo). A Venezia si era fatto già notare nella sezione Orizzonti, vincendo la menzione speciale nel 2007 con Death in the land of encantos (9 ore). Questa volta il suo The Woman Who Left è durato “solo” quasi 4 ore. Sempre parlando di lotta, ma questa volta di una lotta di classe che non esiste più – per lasciare spazio solo alla lotta tra generazioni – il flm italiano in concorso che più ha fatto parlare di sé è stato quello diretto dal pisano Roan Johnson (nato a Londra da padre inglese e madre pisana) che racconta la storia tutta in salita di due adolescenti, Ferro (Luigi Fedele) e Cate (Blu Yoshimi) alle prese con la maturità e con una improbabile ricerca di un lavoro precario, una casa dove stare ma soprattutto una inaspettata gravidanza che complicherà una già difficile esistenza. I genitori di Ferro (Michela Cesco e Sergio Pierattini) e il padre di Cate (Francesco Colella) si ritrovano nel panico quando

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viene loro comunicato che i rispettivi figli aspettano un figlio. Paradossalmente lo stereotipo di una generazione di ragazzi immaturi è saltato, anzi, dal film esce fuori più lo spavento e l’impreparazione dei genitori che dei figli. In definitiva il film affronta quell’età in bilico tra incoscienza e maturità: un po’ cialtrona e turbolenta. Un’età caratterizzata dalla leggerezza di una piuma, come il nome della figlia dei protagonisti, che forse molte lezioni hanno da insegnare alla generazione che li ha preceduti. Altro film che ha fatto molto parlare di sé è il Papa invisibile di Paolo Sorrentino in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia: i primi due episodi di The Young Pope, la serie televisiva


del premio Oscar sono stati condensati in un montaggio cinematografico per il pubblico del Lido. In totale sono 10 episodi, prodotti da Sky, Hbo e Canal+, e che andrà in onda in prima tv su Sky Atlantic dal 21 ottobre. Cast stellare che comprende Diane Keaton (Suor Mary), Silvio Orlando (Cardinal Voiello), Scott Shepherd (Cardinal Dussolier), Cécile de France (Sofia), Javier Cámara (Cardinal Gutierrez), Ludivine Sagnier (Esther), Toni Bertorelli (Cardinal Caltanissetta) e James Cromwell (Cardinal Michael Spencer). Jude Law interpreta il primo papa americano della storia, giovane, bello e ben vestito. Tra una Coca-Cola Cherry Zero, una sigaretta, un caffè e uno snack, il giovane papa dimostrerà di avere le idee ben chiare, perché un cambiamento è necessario e le vecchie abitudini – a cominciare da quelle all’interno del Vaticano – sono desuete e vanno in qualche maniera sostituite. È evidente il conflitto tra lui e l’anziano cardinale Voiello – interpretato da Silvio Orlando – da sempre abituato ad avere ampio margine di manovra all’interno della “corte pontificia”. Suor Mary – il premio Oscar Diane Keaton – segretaria personale del papa che lo prese sotto braccio dall’età di sette anni quando fu abbandonato dai genitori – lo farà sorveglia-

re mettendo a nudo tutte le sue fragilità. La sceneggiatura evidenzia una marcata ironia (“Perché ha scelto la Chiesa?” domanda rivolta al Cardinale Voiello; la risposta: “La vita è breve, ho optato per l’eternità”), e tra inquadrature che esaltano la grandiosità della Santa Sede e delle bellezze artistiche in essa custodite, emerge una chiara riflessione sulla fede. Ma soprattutto sulla fatica a credere in una chiesa cosi contraddittoria. In chiusura di Mostra l’icona del cinema italiano Monica Bellucci, sposa di guerra per Emir Kusturica, reduce dalle polemiche per la sua apparizione senza veli sulle copertine di Paris Match, arriva al Lido per presentare in concorso On the Milky Road, storia dell’incontro tra una donna italiana rifugiata che sfugge da un generale geloso e possessivo e un lattaio – interpretato dallo stesso Kusturica. Il film è un atto d’amore nei confronti della natura e degli animali: il lattaio intrattiene un dialogo muto con il suo asino, con un falco pellegrino che si posa sulla sua spalla ma anche con un serpente che incrocia la sua strada. Sullo sfondo la violenza della guerra nei Balcani di un piccolo villaggio dell’Erzegovina dove il lattaio sopravvive schivando pallottole ogni giorno.

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CuRIOSITÀ

Mefistofele Faust

e altri demoni le maschere del maligno tra storia e leggenda

Piergiorgio Pesci

Fëdor Šaljapin interpreta Mefistofele in una replica del 1910 Faust and Mephistopheles 1826 27 di Eugène Delacroix Lucifero di Guillaume Geefs - Cattedrale di San Paolo Liegi

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a figura del diavolo e in particolare l’identificazione del male in un animale o in una figura demoniaca, ha origini millenarie. I diavoli sono sempre esistiti nell’immaginario umano: la credenza in entità sovrannaturali malvagie è radicata quanto quella in entità benevole. Entità malvagie, sotto varie forme, sono presenti in tutte le religioni e culture della storia, seppur non nella figura universalmente diffusa poi dal cristianesimo. Alcune caratteristiche del diavolo sono riscontrabili in diverse divinità pagane, con relazioni che rispecchiano sia la raffigurazione iconografica sia la funzione oppositrice alle divinità buone. Infatti, in quasi tutti i grandi politeismi del mondo antico vi era la figura di un dio del Male, complementare a un dio del Bene. Questo perché le civiltà antiche consideravano il Bene e il Male come due facce della stessa medaglia: così a una divinità buona si contrapponeva una malvagia. Tornando indietro nei secoli, le prime tracce di quello che oggi chiamiamo Diavolo o Satana sono nel popolo Assiro, che credeva in un uccello malefico di nome Anzu; i babilonesi, invece, personificavano il Male in Tiamat, regina dei mostri marini. Anche i Maya avevano le loro identità malefiche, tra cui Ah Puch, signore della morte. Un nome molto ricorrente per indicare la figura del demonio da cui anche la letteratura e la lirica hanno preso spunto, è Mefistofele. Se oggi il diavolo continua a essere popolare, è anche merito dei testi teatrali delle poesie e delle opere d’arte che nei secoli hanno fatto del diavolo un signore delle tenebre dal

fascino irresistibile. Il demonio mosse i prima passi della sua carriera letteraria nei “misteri”, spettacoli edificanti che nel X-XIV secolo si rappresentavano sui sagrati delle chiese e in piazza, dei quali spesso egli ne era anche il protagonista. Accadeva in Francia, ma soprattutto in Germania e in Inghilterra. Fu proprio nel mondo anglosassone che esordì il più noto dei diavoli letterari: Mefistofele (colui che non ama la luce). Il debutto di Mefistofele avvenne nel Cinquecento con il successo della figura di Faust, un mago e sapiente che si diceva avesse venduto l’anima al diavolo in cambio della tanto ambita conoscenza. Johan Georg Faust è l’uomo in carne ed ossa che sta dietro a questa leggenda, vissuto tra il 1480 e il 1540. Le lettere, i resoconti e le cronache su di lui lo dipingono come un esorcista e come uno straordinario guaritore, astrologo e mago. Tutti questi dati e storie frammentate confluirono per mano dei suoi disce-

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poli nel libro La storia del dottor Johan Faust stampato nel 1587. Pochi anni dopo Christopher Marlowe mise in scena The tragical history of Doctor Faustus, e in breve questa stravagante coppia, Faust e Mefistofele, fece il giro delle piazza d’Europa in spettacoli itineranti. In queste rappresentazioni il diavolo, più che spaventare, divertiva il pubblico. A inventare un finale a dir poco rivoluzionario per la storia del mago cinquecentesco fu il poeta tedesco Goethe con il suo Faust ispirandosi agli spettacoli sul tema. Mefistofele diventa, grazie al poeta tedesco, il compagno ideale del superuomo Faust, che tormentato affronta i divieti della Chiesa e di Dio in nome del sapere. Al momento di onorare il patto di sangue stretto con Mefistofele, Faust, invece di finire all’inferno come i precedenti servi di Satana , si salva dalla dannazione eterna grazie alla sincerità e alla passione che mette nel perseguire i suoi scopi.


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SPORT

RIO 2016 XXXI EDIZIONE DEI GIOCHI OLIMPICI

Leonardo Taddei

La sfilata degli atleti azzurri, con la nuotatrice Federica Pellegrini come portabandiera Usain Bolt, la leggenda dell’atletica leggera

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a XXI edizione dei Giochi Olimpici, svoltasi a Rio de Janeiro, in Brasile, dal 5 al 21 agosto 2016, è stata sicuramente tra le più controverse della storia dello sport, principalmente per il difficile clima politico-economico del paese ospitante. Dilma Rousseff, membro del Partito dei Lavoratori e presidente del Brasile dal 2011, è stata sospesa dalle funzioni di governo il 12 maggio 2016, con l’accusa di impeachment per alterazione dei dati sul deficit di bilancio. Il suo ruolo è stato quindi assunto dal vice Michel Temer, già a capo del Partito del Movimento Democratico Brasiliano e per tre volte terza carica più alta dello Stato, portavoce però di istanze opposte e che rischia, a sua volta, lo stesso tipo di accusa per una possibile corresponsabilità nell’approvazione delle leggi finanziarie per cui è sotto accusa Rousseff. Oltre a Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile dal 2003 al 2011, anche Roussef aveva deciso di boi-

cottare la cerimonia d’apertura del 5 agosto, poiché le era stato riservato un posto secondario rispetto a quello destinato a Temer, il quale, dopo i fischi ricevuti durante la sua dichiarazione ufficiale di inizio della competizione, ha preferito evitare di presentarsi nuovamente il 21 agosto all’evento di chiusura dei Giochi. Thomas Bach, presidente del comitato olimpico internazionale, per tentare di stemperare gli animi, aveva dichiarato di essere «ansioso di lavorare con il nuovo governo per realizzare un’olimpiade di successo», in cui il Brasile avrebbe avuto l’occasione di dimostrare al mondo la sua determinazione nel superare la crisi politica, ma ciò non è bastato ad evitare le dimissioni del Ministro dello Sport e del Ministro del Turismo, rinunciatari a causa della complessità della situazione e della vicinanza temporale dell’imminente evento sportivo. A rincarare la dose si è aggiunto anche il caso epidemiologico del virus Zika, trasmissibile tramite puntura di zanzara o per via sessuale, dichiarato

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sì dall’Organizzazione Mondiale della Sanità un’urgenza pubblica di portata internazionale, ma non al punto tale da implicare restrizioni ai viaggi ed al commercio, consentendo pertanto al CIO di non apportare modifiche né al calendario né alla sede olimpica ed evitando la cancellazioni o il rinvio dei Giochi. Tuttavia l’alta preoccupazione di altri medici e scienziati, tra cui il professor Amir Attaran, ha fortemente ridotto il flusso turistico di appassionati sportivi diretti in Brasile durante la manifestazione, ed ha condizionato anche gli stessi atleti, alcuni dei quali hanno fatto congelare il proprio liquido seminale prima della partenza, mentre altri hanno addirittura rinunciato a partecipare. In questo clima infuocato, purtroppo, anche la cerimonia di apertura, che avrebbe dovuto rappresentare il grande exploit del Brasile, è apparsa ridimensionata, soprattutto a causa del dimezzamento del budget inizialmente previsto: un investimento dodici volte più basso di quello dei Giochi di Londra 2012 e circa venti volte inferiore rispetto a Pechino 2008, come confermato dal responsabile artistico Fernando Meirelles. Ciò ha impedito a quella che era stata immaginata come la più grandiosa cerimonia della storia dello sport di essere altro che una bella festa, con fuochi d’artificio e coreografie che non sono riusciti a distogliere l’attenzione dalle poverissime favelas alle periferie delle principali città né hanno placato scontri e proteste fuori dallo stadio Maracanà. Per far fronte ai tagli, gli organizzatori si sono affidati all’entusiasmo dei volontari, e, grazie alla musica di Caetano Veloso e Gilberto Gil, ai ballerini di samba, ai colori del carnevale


di Rio ed alla bellezza della modella Gisele Bundchen, sono comunque riusciti a trasmettere al mondo intero, con la loro innata gioia di vivere, il chiaro riferimento al tema del surriscaldamento globale e dell’attenzione nei confronti dell’ambiente e delle energie sostenibili. Toccanti i momenti dell’inno nazionale brasiliano, cantato in coro da tutti i cariocas presenti nello stadio, e dell’accensione del bellissimo braciere olimpico, disegnato dall’artista Anthony Howe nella forma di un sole rotante. L’assenza del mito calcistico Pelé, impossibilitato, per problemi di salute, a prendere parte alla manifestazione come ultimo tedoforo, è stata colmata con la sostituzione in extremis di Vanderlei De Lima, bronzo olimpico nella maratona di Atene 2004 nonostante l’aggressione subita in gara. Durante la cerimonia hanno sfilato anche la delegazione dei rifugiati politici, ospitati sotto la protezione della bandiera olimpica del CIO, e la Russia, che, nonostante l’accusa di doping di stato, è riuscita a schierare un contingente più nutrito del previsto. Il medagliere generale ha visto trionfare gli Stati Uniti con ben 46 medaglie d’oro e 121 totali, davanti al Regno Unito con 27 ori, uno in più della Cina. L’Italia si è classificata al nono posto con 8 ori, 12 argenti ed 8 bronzi, superando le aspettative ed anche il già ottimo risultato di Londra 2012. Il primo successo, il duecentesimo di sempre per il nostro paese alle Olimpiadi, è arrivato da Fabio Basile nel Judo 66 kg. Ottima prestazione anche per il fiorentino Niccolò Campriani, con due vittorie nella gara della carabina da 10 metri ed in quella da 50 metri tre posizioni: il tiro a segno ed a volo è stato in generale lo sport che ha portato i maggiori successi all’Italia, grazie alle affermazioni nello skeet di Gabriele Rossetti e Diana Bacosi, quest’ultima davanti a Chiara Cainero, ed agli argenti dell’eterno Giovanni Pellielo e di Marco Inno-

centi nel trap e double trap. Quattro medaglie sono arrivate dalla scherma, tra cui l’oro di Daniele Garozzo nel fioretto individuale, che non è però da solo riuscito a compensare la delusione di un settore da sempre foriero di risultati molto più lusinghieri per l’Italia. Il trionfo di Gregorio Paltrinieri nei 1500 metri stile libero, l’argento dei Rachele Bruni nella 10 km in mare e il doppio bronzo del livornese Gabriele Detti negli 800 e 1500 metri stile libero, hanno risollevato l’intero settore natatorio azzurro. Buona prestazione pure negli sport di squadra, con gli argenti della pallanuoto femminile e pallavolo maschile e il bronzo della pallanuoto maschile, che si sono affiancate allo storico secondo posto di Lupo e Nicolai nel beach volley maschile. Da segnalare, ancora, l’oro di Elia Viviani nel ciclismo su pista Omnium ed il bronzo di Elisa Longo Borghini nella prova in linea femminile, mentre il favorito della prova su strada Vincenzo Nibali è sfortunatamente caduto in discesa, mentre correva per un podio quasi assicurato essendo in fuga con solo altri due atleti, per giunta meno titolati di lui. Delusione per Frank Chamizo nella lotta libera: in gara per la vittoria finale dopo quella al campionato del mondo, l’italo cubano si è dovuto

accontentare della pur buona terza piazza a causa di una distrazione durante la semifinale. Tra gli sportivi prossimi al ritiro, anche tra le fila italiane, alcuni hanno potuto festeggiare con delle medaglie olimpiche, come Francesca Dallapé nei tuffi, argento dal trampolino 3 metri sincro con Tania Cagnotto, a sua volta pure bronzo nel singolo dalla

L’accensione del braciere olimpico La cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Gregorio Paltrinieri, vincitore della medaglia d’oro nei 1500 metri stile libero Francesca Dallapé e Tania Cagnotto medaglia d’argento nel trampolino sincro da 3 metri Federica Pellegrini, portabandiera per l’Italia ai Giochi di Rio 2016

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stessa altezza e decisa anch’essa ad interrompere la propria carriera dopo i Giochi. Altri, purtroppo, si sono dovuti arrendere, invece, alla rassegnazione della medaglia di legno, come la portabandiera Federica Pellegrini, quarta nei 200 metri stile libero, che avrebbe voluto concludere la sua avventura sportiva con un’ulteriore medaglia dopo l’oro di Pechino 2008 e l’argento di Atene 2004 sulla stessa distanza, o Vanessa Ferrari, di nuovo quarta al corpo libero dopo l’identico risultato ottenuto a Londra 2012. Quarte anche le farfalle azzurre della ritmica, complice un’imprecisione nell’esercizio ai cinque nastri ed una giuria ancora una volta molto severa, forse troppo, con le atlete italiane rispetto alle altre nazioni concorrenti. Smetterà di correre a fine anno il trentenne giamaicano Usain Bolt, re indiscusso dell’atletica leggera, che a Rio ha conquistato tre ori olimpici nei 100 e 200 metri e nella staffetta 4x100 metri, facendo salire il suo bottino personale a nove vittorie complessive in tre edizioni consecutive dei Giochi. Una superlativa prestazione prima dell’imminente ritiro anche per la leggenda del nuoto Michael Phelps, l’atleta più titolato di questa manifestazione – 6 vittorie ed 1 secondo po-

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sto conquistati all’età di 31 anni – ed in assoluto di tutta la storia olimpica dell’era moderna con i suoi 23 ori, 3 argenti e 2 bronzi. Lo squalo di Baltimora, come è stato soprannominato dalla stampa, grazie ai 13 successi olimpici individuali ha anche superato il record di Leonida di Rodi, stabilito ben 2168 anni fa nel 152 avanti Cristo. Inorridirebbe invece il barone Pierre de Coubertin per il comportamento di Ryan Lochte, compagno di Phelps nell’iridata staffetta 4x200 metri stile libero a questi Giochi, e dei loro colleghi Gunnar Bentz, Jimmy Feigen e Jack Conger. Dopo aver compiuto atti di vandalismo da ubriachi in una toilette di una stazione di servizio ed essere stati sorpresi dalla sicurezza, i quattro atleti statunitensi si sono inventati di essere stati aggrediti e derubati dalla polizia. Adesso, oltre a rischiare un’accusa per falsa dichiarazione, Lochte è stato anche abbandonato dagli sponsors che lo finanziavano e costretto a scusarsi pubblicamente per l’onta causata. Foto: Pianeta Donna, il Post, Superscommesse, Faro di Roma, Nanopress, UCnet, Steve Johnson, Urbanpost, Gioia, Campus Wave, Cno, Sport Face Foto della cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici


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“C’è qualcosa che va oltre a un lavoro eseguito a regola d’arte... ci sono la dedizione al risultato e il piacere del compimento...”


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psicologia

la salute a lavoro Costanza Cino

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el 1948 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia. Uno dei modelli teorici di riferimento della Psicologia della Salute è il Modello bio-psico-sociale proposto da Engel. Esso si contrappone fortemente al modello biomedico, che ha dominato per secoli la concezione di salute e malattia, e che ancora oggi influenza modi di agire e di pensare in ambito sanitario. Il modello biomedico è un modello riduzionista, che vede la malattia come un’alterazione di processi biologici da cui origina un disturbo. La malattia è ricondotta esclusivamente ad un malfunzionamento fisico e mente e corpo sono viste come entità separate. Il modello bio-psico-sociale invece, in linea con la definizione di salute dell’OMS, considera salute e malattia come risultato di una complessa e reciproca interazione tra fattori sociali, psicologici e biologici. Questo modello implica che malattia e salute siano determinate da molteplici fattori e producano molteplici effetti, e che

mente e corpo non possono essere considerate in modo separati. Con questa nuova ottica entrano a far parte dell’ambito della salute anche gli studi sui contesti lavorativi, in quanto concorrono al senso di autorealizzazione dell’individuo, del suo benessere, della sua espressione personale e dell’impiego delle sue risorse. La salute organizzativa può essere definita come l’insieme dei processi, delle pratiche, delle politiche organizzative che promuove il benessere dei dipendenti nei contesti di lavoro. Gli indicatori della “salute organizzativa” Avallone e Paplomatas hanno individuato 14 dimensioni che configurano uno stato di salute all’interno di strutture organizzative: - la chiarezza con cui vengono descritti obiettivi e compiti - l’equità di trattamento dei dipendenti a livello retributivo, di responsabilità, di promozione professionale - la disponibilità delle informazioni pertinenti al lavoro - il rispetto delle norme igieniche e di sicurezza sul lavoro - la modulazione del carico di lavoro - monitoraggio costante dei fattori di stress - la promozione di atteggiamenti di problem-solving e negoziazione al fine di evitare il conflitto - la valorizzazione delle competenze individuali - l’ascolto attivo - la percezione dell’utilità sociale del proprio lavoro - la presenza di relazioni interpersonali basate sulla cooperazione - la scorrevolezza delle procedure operative - il livello di comfort dell’ambiente fisico - la propensione al cambiamento e

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all’innovazione Più salute, più risultati, più benessere La presenza di tali indicatori all’interno del proprio ambiente lavorativo, non solo incide sul livello di soddisfazione e appagamento personale, ma stimola anche la motivazione al lavoro contribuendo al raggiungimento di risultati migliori. Inoltre, un contesto accogliente sia dal punto di vista relazionale e comunicativo, sia da quello fisico e organizzativo, favorisce il contenimento dello stress. A tal proposito è da sottolineare che la salute organizzativa, non riguarda solamente il benessere dell’individuo all’interno del contesto lavorativo, ma ha anzi un notevole peso sulla valutazione soggettiva che egli ha della propria vita in generale. Infatti, il benessere lavorativo incide anche sulla qualità di vita, che l’OMS definisce “l’insieme di reazioni emotive e cognitive che l’individuo esperisce rispetto al proprio ruolo nel contesto culturale e valoriale, rispetto ai propri obiettivi, alle proprie aspettative e ai propri standard. per info: dott.sa Costanza Cino www.psicostanza.it


Lajatico è Un piccolo centro storico della campagna pisana ha costruito con sagacia il proprio brand e si è espanso nel mondo. Un indovinato slogan unifica il tutto: Lajatico è. Lajatico è il Teatro del Silenzio, Lajatico è Andrea Bocelli, Lajatico è la Banca Popolare. E molto, molto altro. L’arte è un processo dinamico che ci mette in collegamento con il mondo attraverso i nostri sensi, attraverso la nostra intelligenza e la nostra storia. E in questo scenario ecco emergere il credo della Banca Popolare di Lajatico: rafforzare la sua più tradizionale missione e, insieme, offrire nuovi orizzonti, scoprire quegli spazi di fantasia, di realizzazione di sé, di donazione di sé che stanno oltre la linea del semplice benessere materiale. Un credo che di recente si è concretizzato nella nuova veste dell’edificio: elegante sobrietà, stile raffinato. Serenità e ottimismo si diffondono all’intorno, in stringente coerenza con la squisita ricercatezza degli interni. Contro il grigiore dell’anonimato, i colori della speranza.

81 www.bplajatico.it


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economia

un flash sul 2016 A.C.

Concia: settembre tempo di grandi eventi Settembre, per i conciatori tempo di grandi appuntamenti: da Première Vision Paris a Lineapelle Milano, la concia made in Toscana ribadisce la sua leadership in termini di presenza e qualità dell’offerta. Il comparto ha registrato sin qui una complessiva tenuta, soprattutto in considerazione delle incognite che gravano sul mercato, come quelle legate alla geopolitica, all’assestamento delle economie emergenti o agli effetti della Brexit. «Contro criticità passate o emergenti – dice il presidente Assoconciatori Franco Donati – il nostro distretto conciario ha mostrato sino ad oggi la capacità di sapersi adeguare: è mutato lo stesso atteggiamento dei clienti, oggi più serrati nei tempi e selettivi nella quantità degli ordini, ed anche questo ha modificato le abitudini dei conciatori. Riuscire a seguire l’evoluzione del mercato, anche attraverso il dialogo forte tra tutti i suoi attori, sarà fondamentale per confermarsi». Proseguono, intanto, i lavori per la definizione dei parametri della nuova certificazione di qualità della pelle, cui l’Assoconciatori sta lavorando con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e i cui primi risultati saranno presentati entro i prossimi mesi. «L’impegno eco-sostenibile – continua Donati – può diventare la base su cui costruire una piattaforma di pratiche condivise tra tutti gli attori della filiera: in questo ambito procedono i lavori per la nuova certificazione, che oltre a premiare le migliori pratiche industriali che i nostri conciatori portano avanti potrà agevolare i rapporti tra tutti gli operatori, dal consumatore al cliente finale. Contiamo di poter completare entro l’anno i parametri scientifici della nuova certificazione».

Visita al POTECO per il presidente UNIC Gianni Russo

«Complimenti per l’ottima sinergia tra imprenditori e istituzioni che il vostro distretto riesce ad esprimere e di cui il POTECO è un esempio importante»: queste le parole del presidente UNIC Gianni Russo, in visita lo scorso luglio al POTECO, insieme al direttore UNIC Fulvia Bacchi. «Un plauso – ha aggiunto Russo – a quanti hanno creduto nel Polo Tecnologico Conciario, che può rappresentare un supporto prezioso per il distretto conciario toscano e non solo». Presenti al POTECO, con il presidente Russo: Leonardo Volpi, a.d. Polo Tecnologico Conciario, Franco Donati, presidente Assoconciatori e Alessandro Francioni, vicepresidente Assoconciatori. «L’auspicio – ha concluso Russo – è di poter creare sinergie sempre più vaste tra imprenditori contribuendo alla crescita complessiva dell’intero comparto conciario».

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Associazione Conciatori per il progetto “A come Arno” Anche le concerie del distretto toscano sono tra i soggetti raccontati da “A come Arno”, il progetto artistico che, in occasione del cinquantesimo anno dall’alluvione del 1966 che determinò lo straripamento dell’Arno, ne ripercorre l’evoluzione. Il racconto di singole storie contenute in “A come Arno” si arricchisce di contributi video e fotografici che attraverso una piattaforma digitale, ripercorrono in modo emozionante l’evoluzione, lungo l’Arno, di una intera Regione e del suo tessuto socio-economico, anche del distretto conciario, cresciuto parallelamente all’evolversi del

suo sistema di depurazione industriale. Oltre alla partecipazione ai festival fotografici di Arles e Cortona, l’opera sarà completata da un libro con tutte le storie raccolte e raccontate dagli autori. Per visionare il progetto www.acomearno.it

Santa Croce sull’Arno-Alcanena: gemellaggio della pelle L’Associazione Conciatori ospite del gemellaggio tra Santa Croce sull’Arno e Alcanena siglato lo scorso 15 luglio. Circa 2000 km di distanza, dal cuore della Toscana alla costa del Portogallo, dal distretto conciario toscano a quello portoghese, le due cittadine sono accomunate dall’importanza che riveste per entrambe l’industria della pelle. Dopo la visita, lo scorso gennaio, all’Associazione Conciatori e al depuratore Aquarno da parte dei responsabili del distretto conciario portoghese, il gemellaggio è stato occasione per valutare anche future possibilità di collaborazione sotto il profilo ambientale e della ricerca, in particolare tra il Polo Tecnologico Conciario di Santa Croce e il CTICCentro Tecnologico Industria della Pelle di Alcanena.

I creativi del domani studiano al POTECO I sogni dei creativi del domani passano anche per il POTECO, sempre più lo spazio dove gli studenti apprendono le dinamiche della filierapelle e del mercato del fashion. Dalle aule universitarie delle facoltà di architettura e chimica, come dalle scuole di design, moda e marketing, proseguono al Polo Tecnologico Conciario sessioni ad hoc e visite di studenti interessati a diversi aspetti dell’area-pelle, che si dicono entusiasti di potersi confrontare “sul campo” con la dimensione pratica della filiera. Ce lo raccontano gli allievi del corso “Calza.mi” del MITA di Firenze, incontrati durante una lezione sul processo di lavorazione delle calzature. Con loro, in qualità di docente, Blasco Lastrucci, stilista calzaturiero di esperienza internazionale, che conferma quanto sia importante, per i futuri professionisti del comparto della moda, fare da subito esperienza sul campo, tra materiali e modelli, confrontandosi con professionisti del settore. Al POTECO abbiamo incontrato anche gli studenti dell’Università di Firenze, Corso di Laurea Fashion System Design, Facoltà di Architettura, che con il Professor Marco Pierini, hanno visitato la conceria sperimentale per un focus sui materiali nell’industria del fashion. foto di zzzzzzzzzzzzzzz «Il POTECO? Un laboratorio prezioso – aggiungono gli studenti – dove sperimentare tutto quel che apprendiamo in teoria».zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz

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CuRIOSITÀ

Giandujot nutella kinder

Ferrero la dolce, alla conquista del mondo

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n vizio, un dolce, uno sfizio, uno sfogo, un calmante, un momento solo per noi, un’occasione da condividere con una persona cara. La Nutella può essere tutto questo. E quanti ricordi legati a questa miracolosa invenzione. Il mio più caro risale agli anni dell’infanzia ed è il momento della merenda. Ero al mare con i nonni e dopo il riposino pomeridiano, prima di tornare in spiaggia un piccolo spuntino era d’obbligo, e cosa se non una fetta di pane con la Nutella? Anche loro facevano merenda con me perché la Nutella non ha età, piace a tutti, grandi e piccoli. La Ferrero è un orgoglio italiano, un’azienda infallibile: ci fa leccare i baffi con qualsiasi prodotto inventi. Direi proprio che vale la pena parlare di come tutto iniziò e di come l’idea della Nutella prese forma nella mente del suo geniale inventore: Michele Ferrero. La Ferrero è arrivata al cuore di ogni bambino, facendoli sognare di diventare i padroni di tutta la Nutella del mondo. Nutella è il barattolo più desiderato e comprato dagli italiani. Talmente famosa da diventare sinonimo di crema spalmabile, detiene il 90% del mercato italiano. È tra i marchi più famosi al mondo e conosciuto da tutti, e con tutti intendo nessuno escluso, compresi gli uomini più influenti della terra. Basti pensare che nell’ultimo G8 tenutosi a L’Aquila, i grandi della terra hanno mangiato pane e Nutella. I fratelli Pietro e Giavanni Ferrero sono gli amministratori delegati della Ferrero s.p.a, figli di Michele e nipoti di quel Pietro che nel 1946, partendo da un laboratorio dolciario ad Alba, gettò le basi di quello che oggi è diventato un grande impero. La storia della Nutella inizia proprio qui, ad Alba, dove Pietro, pasticcere con il fiuto per gli affari, all’età di quasi cinquant’anni ha un sogno: realizzare un

dolce che possa piacere sia ai bambini che agli adulti. Così si chiude nel suo laboratorio e prova e riprova una pasta fatta con le nocciole delle Langhe al sapore di cioccolato, zucchero, olio di cocco e polvere di cacao. La nocciola era l’ingrediente principale delle sue ricette e cercò di sfruttarla il più possibile visto che nella sua zona il costo era molto contenuto. Questa crema viene battezzata Giandujot, e venduta a seicento lire al chilo, essendo così accessibile anche ai redditi più bassi. Ed ebbe ragione! La fabbrica di cioccolato si ingrandisce e si trasferisce diventando la più grande d’Europa. A far conoscere il Giandujot fuori dal Piemonte ci pensa Giovanni, fratello minore di Pietro, che inizia ad organizzare la vendita con mezzi propri, partendo con una piccola flotta composta da una dozzina di furgoncini marchiati Ferrero, che ben presto diventano cento, poi duecento, poi mille, fino ad essere secondi solo all’Esercito. Quando le cose sembravano andare tutte per il meglio nel 1948 un’alluvione allagò lo stabilimento che rimase isolato e subì gravi danni, ma i dipendenti scelsero di collaborare per riportare tutto alla normalità. Dopo solo sei mesi dall’alluvione, il 2 marzo del 1949, Pietro Ferrero morì di infarto causato anche dalle frenetica vita lavorativa che conduceva. Pietro è stato il primo industriale italiano che nel dopoguerra ebbe il coraggio di aprire uno stabilimento dolciario che poi conquistò il mondo. Negli anni 50 l’azienda iniziò a espandersi all’estero e negli anni 60 arrivò un altro prodotto: si trattava di Mon cherì, cioccolatino con all’interno una ciliegia affogata nel liquore e uno strato di glassa allo zucchero. Dopo Pietro, nell’ottobre del 1957 morì anche Giovanni Ferrero. La responsabilità del gruppo passò a Michele, figlio di

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Pietro, che fin da piccolo aveva seguito il padre nello sviluppo dell’azienda. Sotto la sua guida, nel 1964, la crema di nocciole cambiò formula e nome; si pensa ad un nome che ricordi le nocciole nut in inglese e in tedesco nuss. Così partendo da Nutsy, Nutina per passare a Nusscream e Nusina, si arriva a coniare il nome che oggi tutti conosciamo: la Nutella. Con la formula segreta, la Nutella ha scalato il successo nell’industria dolciaria che cominciò ad essere distribuita in Europa e poi in tutto il mondo, e nello stesso anno vennero costruiti stabilimenti e sedi commerciali in Belgio, Olanda, Regno Unito, Svizzera e Danimarca. Le idee originali dei Ferrero non finiscono certo qui. Michele inaugura una nuova linea di prodotti: la Kinder. La Ferrero passò dall’essere un’azienda a conduzione familiare a un’industria con produzioni a livello mondiale. Nel quinquennio 1971-1976 era l’azienda che investiva di più in pubblicità. Il prodotto è ancora oggi apprezzato da grandi e piccoli. La crema usata per accompagnare il pane, dolci, frutta e numerosi biscotti ha reso i Ferrero la famiglia più ricca d’Italia. Secondo l’Ocse sono oltre 350.000 le tonnellate prodotte ogni anno. Del resto, che mondo sarebbe senza Nutella?

Giorgio Banchi

kinderino marinaio Michele Ferrero

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storia

Conciare ad arte Cuoiai e Galigai nella Firenze di fine 200 Roberto Mascagni

Copertina del libro Firenze Araldica Polistampa, Firenze 2006 Stemma dell’Arte dei Cuoiai Luciano Artusi

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uciano Artusi possiede il phisique du rôl dello storico personaggio che per 55 anni ha rappresentato, indossando il cinquecentesco costume di Capitano di Guardia del Distretto e del Contado, la Direzione del Calcio Storico Fiorentino. Lo incontriamo nel suo studio. I settanta libri che ha firmato sono bene allineati sugli scaffali, tutti ci parlano di Firenze. Il primo, stampato nel 1969 (Orsanmichele in Firenze), è la storia di una insolita chiesa fiorentina, iniziata a costruire nel 1337 per servire da deposito per le granaglie. L’ultimo libro firmato da Luciano Artusi è il Calcio fiorentino. Storia, arte e memoria dell’antico gioco dalle origini a oggi (Scribo, 2016). Se immaginiamo questa sua Firenze come fosse la cornice di un quadro, cosa vediamo nel suo interno? La città in ogni sua espressione: storica, artistica, sportiva, urbanistica e le antiche cronache, in gran parte inedi-

te, perché frutto di ricerche compiute negli archivi. Ovviamente l’elenco è consimile a quello che offre ogni città antica. Inoltre ho scritto sui “chiassi” e sugli antichi vicoli, sui campanili, le campane e le antiche porte di Firenze. Mi sono concesso anche una “incursione” sulla gastronomia con il libro A tavola con gli Artusi. 120 anni dopo “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” (Sarnus, 2011), scritto con mio figlio Ricciardo, per continuare la tradizione familiare iniziata dal nostro illustre antenato Pellegrino Artusi, autore della celebre Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene (1891), più volte ristampata. I miei argomenti fiorentineschi sono continuati con la storia delle piazze e, particolarmente, delle tradizioni fiorentine e degli anèddoti. Altri titoli? Nel 2000 ha visto la luce Gli antichi ospedali di Firenze. Un viaggio nel tempo alla riscoperta dei luoghi d’accoglienza e di cura. Origine Storia Personaggi Aneddoti, scritto insieme con Antonio Patruno. Sempre con Patruno ho scritto Deo Gratias - Storia e tradizioni, culti e personaggi delle antiche confraternite fiorentine (1994). Un libro fra i più laboriosi da realizzare? A Vita Nova, scritto con Vincenzo Giannetti (1995), per documentare le vicende della grande operazione urbanistica che distrusse irrimediabilmente, nella seconda metà dell’Ottocento, il centro medioevale di Firenze: il “tuorlo” più importante d’Europa. Titoli dedicati al Novecento? Firenze anni Trenta (1989), Quando Firenze era il salotto di Mussolini (1999) scritto ancora con Vincenzo Giannetti.

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Poi la storia dei ponti sull’Arno: quelli fiorentini e delle zone adiacenti. Come sappiamo, nell’estate 1944 furono distrutti tutti dalle armate naziste in ritirata dall’Italia, compresi quelli di Pisa, per rallentare l’avanzata degli eserciti Alleati. Mi sono dedicato anche alle ricerche sportive pubblicando Firenze Viola (1991), Firenze Sport (1992) e Crescere in viola (2009), premiato dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Qual è stata la sua più importante o più frequentata fonte di ricerche? L’Archivio storico del Comune di Firenze, l’Archivio di Stato, la Biblioteca Nazionale e la Biblioteca Comunale detta delle Oblate, con ingresso, oggi, da via dell’Oriuolo. Inoltre l’Archivio del Capitolo Metropolitano Fiorentino. E la ricerca più impegnativa? Ogni mia ricerca archivistica è differente a seconda dell’argomento


che poi diventerà un libro. Fra le più impegnative quella servita per pubblicare il libro Firenze Araldica (Polistampa, 2006). Si tratta di un compendio del linguaggio dei simboli che blasonarono gli stemmi civici del Comune, delle Magistrature, dei Quartieri, degli antichi Spedali, delle Confraternite e dei mestieri riuniti nelle cosiddette Arti, che si distinguevano in 7 Maggiori e 14 Minori. In pratica erano la continuazione delle antiche scholae. Un esempio fra le Minori? Posso ricordare l’Arte dei Cuoiai e dei Galigai che risulta già costituita dal 1282, ma la sua storia è poco documentata, perciò non conosciamo i suoi Statuti. Certamente erano severi ed esclusivi come quelli delle altre Arti: maggiori o minori che fossero. A questa Arte si immatricolavano i conciatori detti comunemente “pelacani”, i “pezzai” (venditori di cuoiami), gli “orpellai” (doratori di cuoio e pelli) e i lavoranti di tutti i cuoiami in genere. Più tardi questa corporazione fu chiamata “Arte del Choiame”. Era un mestiere né facile né pulito, a causa delle varie operazioni necessarie per non fare imputridire le pelli appena scuoiate, e successivamente renderle impermeabili. Queste fasi del lavoro, che iniziavano la mattina presto e terminavano a tarda sera, si svolgevano in ambienti luridi, maleodoranti, scarsamente illuminati, appena areati e sgocciolanti di ogni liquido. Ce li fa ben immaginare Antonio Pucci, un poeta trecentesco fiorentino di facile vena, autore del Centiloquio: «Che sentir fan da lungi i lor rigagnoli». Come avveniva la conciatura delle pelli? Queste si immergevano per mesi nell’acqua “cotta”, cioè dentro una dose di concio; poi trattate con orina di animale e sterco di cane, la cosiddetta “canizza”. Venivano usati altri tipi di concia? Sì, il trattamento era per lo più vegetale, a seconda delle pelli che si dovevano lavorare. Era comunque un’operazione laboriosa e faticosa. Per la concia detta “rammorto” si usava la polvere ricavata dalla scorza di leccio, dal cerro o dalla “sughera”. La concia delle pelli di capra e di pecora era chiamata “sommacco”. Si realizzava con le foglie macinate di questa piccola pianta mediterranea, presente anche in Sicilia, dalla quale si estraeva il tannino. Un’altra scamosciatura detta “mortella” si otteneva polverizzando foglie e ramoscelli seccati di questo arbusto. In alternativa si usavano l’allume, il sale, la farina e l’olio di pesce. Le pelli pronte per la concia dove-

vano essere fresche o secche? Quelle fresche dette “crude” o di “macello”, arrivavano al conciatore subito dopo la morte dell’animale, mentre quelle secche venivano trattate con l’allume o il sale. Così prontamente lavorate non si sciupavano e potevano arrivare anche da paesi molto lontani. A chi spettava questa prima lavorazione di ripulitura delle pelli? Ai giovani garzoni o “discepoli” dei cuoiai; a seguire agli apprendisti, con mansioni precise e limitate. A loro era affidato il primo intervento sulle pelli crude. Queste venivano divise longitudinalmente nelle due parti della groppa, ciascuna detta “pezzo”: più volte risciacquati i pezzi venivano immersi a lungo nel “calcinaio”: una buca piena d’acqua e calcina da imbianchino. Terminata l’attesa, i pezzi venivano lavati e posti sopra un cavalletto a piano convesso, per essere “pelati” con un apposito ferro modellato a mezzaluna e di forma concava; infine, sopra la pelle ancora umida veniva passata ripetutamente una pietra detta “da fiore”, cioè una

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lastra di pietra di lavagna particolarmente adatta per la lisciatura. Quale era la fase successiva? Ripetendo queste operazioni più volte per togliere ogni pelo dalle pelli, queste venivano rimesse nella concia più adatta e lasciate dentro per dei mesi. I “coi”, finalmente privi di ogni impurità venivano affidati ai “cuciai”, e qui iniziava un’altra lavorazione con uno strumento di vetro simile al fondo di una bottiglia per spianare ogni eventuale piega, e poi, con una piastra d’acciaio, si stendevano definitivamente le pelli. Infine, spazzolate e lavate con acqua e olio di pesce per far ben “spiccare il lustro”, venivano messe ad asciugare. Queste fasi della lavorazione variavano a seconda dei pellami che si volevano ottenere. Diventati morbidi e “arrendevoli”, i cuoiami, secondo il giudizio del maestro di bottega, potevano finalmente essere venduti ai calzolai e ai correggiai. Inutile dire quanto ogni fondaco fosse geloso della sua propria arte. Sappiamo, proverbialmente, che “ogni bottega ha la sua malizia”.

Foto d’epoca di una cuoieria. Per gentile concessione dell’editore Pagliai Polistampa


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intervista

soggiorni e ancoraggi celebri Marconi e famiglia, al Forte con l’Elettra Domenico Savini

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opra il soffice e tiepido letto della spiaggia di Forte dei Marmi, al disotto della chiostra delle Alpi Apuane, ci si dimentica del tempo che passa e del gran tempo che è passato. L’aria è morbida come un cuscino. Gli odori sembrano sapori. Davanti al Forte è fermo alla fonda lo “yacht” Elettra. A bordo, i suoni dell’abitato giungono attutiti come pigri echi. Mentre il sole tramonta, l’orizzonte si chiude su se stesso. Questa tranquillità è necessaria all’uomo e allo scienziato, perché Guglielmo Marconi, circondato dall’affetto della moglie Maria Cristina e della figlia Elettra, nell’interno dello “yacht” ha allestito la sua stazione radio. «Attigua alla sala da pranzo - scrive Maria Cristina Marconi nella biografia del consorte Guglielmo - in una cabina quadrata c’era la stazione: un laboratorio perfetto per emissione e ricezione radiotelegrafica e radiotelefonica (…) con i grandi, pesanti apparecchi per gli esperimenti sulle onde corte installati

su due pareti a formare un angolo». L’Elettra fu costruito nei cantieri Ramage and Ferguson e varato in Scozia nel 1911. Marconi lo acquistò nel 1919. Era lungo circa ottanta metri e stazzava ottocento tonnellate. Aveva un equipaggio composto di venticinque uomini, un comandante, quattro ufficiali e un telegrafista. A bordo portava due motoscafi per raggiungere la riva. Oltre all’equipaggio lo “yacht” Elettra poteva ospitare confortevolmente nove persone. Nella biografia dedicata al marito, Maria Cristina riferisce le parole di di lui: «Se non avessi avuto l’Elettra, se non avessi potuto fare gli esperimenti necessari nel Mediterraneo e nell’Atlantico, non avrei mai potuto proseguire e sviluppare le mie ricerche sulle onde ultracorte». Nel centro radio a bordo dell’Elettra, lo scienziato sembra un mago fra i suoi misteri. «Non dava mai segni di stanchezza - racconta Maria Cristina Marconi - e lavorava senza sosta, anche mentre infuriavano le

Ovunque riconosciuto, lo “yacht” Elettra viene immediatamente raggiunto e circondato dall’affettuosa curiosità dei villeggianti in Versilia

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forti tempeste del mare del Nord e dell’Atlantico, quando i colpi del mare sembravano schiantare la prua della nave». Terminati gli esperimenti, Marconi raggiunge il pianoforte per suonare i suoi compositori preferiti: Beethoven, Schubert, Chopin. Inoltre conosce bene Giacomo Puccini e sono amici. Marconi predilige il Forte dei Marmi. «Ricordo - continua Maria Cristina Marconi - una navigazione molto serena al largo, lungo la costa della Versilia. Il mare era calmissimo e al tramonto gli ultimi raggi del sole tingevano di rosa, d’oro e lillà le Alpi Apuane. Guglielmo mi mostrava il profilo della montagna chiamata “La Bella Addormentata” e gli faceva piacere ripetermi: «Là, dietro il verde della pineta, c’è il lago di Massaciuccoli dove il mio caro Giacomo Puccini, nella sua villa a Torre del Lago, aveva composto alcune delle sue meravigliose opere». Quando lo “yacht” è ancorato davanti alla spiaggia di Forte dei Marmi i coniugi


Lo “yacht” Elettra, varato in Scozia nel 1911, era lungo circa 80 metri e stazzava 800 tonnellate. Marconi lo acquistò nel 1919. La principessa Elettra Marconi è fotografata accanto all’immagine di suo padre: un giovane scienziato già famoso in tutto il mondo. Foto di Moreno Vassallo

Marconi invitano a bordo dell’Elettra gli amici duchi Ravaschieri, la principessa Myriam Potenziani, il principe Rodolfo del Drago e altri insigni ospiti. Dopo il pranzo, si balla con la musica ricevuta in diretta dall’Hotel Savoy di Londra, per mezzo di un collegamento realizzato da Marconi e per quei tempi davvero eccezionale. Nella biografia di Maria Cristina Marconi Mio marito Guglielmo (Rizzoli, 2000), oltre all’uomo di scienza, possiamo conoscere il marito devoto, innamorato e padre amorevolissimo di sua figlia Elettra, con la quale ama trascorrere il suo tempo libero, appena compiuti gli esperimenti a bordo dello “yacht”, spesso in navigazione nelle acque del luminoso Tirreno fra Santa Margherita Ligure e Forte dei Marmi. Per potersi riposare, Marconi raggiunge il Forte. Ammira l’ombra silenziosa delle sue pinete, mentre su, in alto, il vento suona come un organo, tra fusto e fusto, tra ramo e ramo, dove penetrano obliquamente i raggi del sole. Nonostante la nota riservatezza di Marconi, la sua presenza non passa inosservata. La principessa Elettra, sua figlia, ricorda ancora di come si radunasse una piccola folla di perso-

ne che volevano vederlo da vicino. Lo guardavano, prima intimidite e silenziose, poi lo applaudivano. «La nave - continua la principessa Elettra Marconi - era spesso ormeggiata davanti alla spiaggia di Forte dei Marmi, perché mia madre e mio padre andavano frequentemente alla Capannina coi loro amici. Amavano il Forte dei Marmi, mia madre Maria Cristina Marconi Bezzi Scali l’ha frequentato fino ai suoi ultimi giorni e avevamo tanti amici che al Forte possedevano la casa o stavano al Grand Hotel o venivano dalla vicina Viareggio, con belle automobili o in eleganti carrozze». Possiamo immaginarle quelle giornate fortemarmine trascorsi ormai diversi decenni? Compiuti i rituali bagni di sole e le calde nuotate, alle 18 passeggiata, alle 19 aperitivo alla Capannina, alle 21 cena, alle 23 ballo (anche fino all’una, alle due, alle tre…). E se non si balla alla Capannina o nel proprio albergo, si va a Viareggio, in automobile. Passatempi dei nostri giorni, ma non frenetici, certamente sommessi; e se procediamo per paragoni ci accorgiamo che il passato si rivive solo nel cuore.

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EVENTO

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Forte come ad Ascot

ma quante belle teste, in corsa, con cappello! Andrea Cianferoni

Versilia Golf Resort di Forte dei Marmi Monica Picedi Benettini con modelle Stefano Recati, Carlo Meli, Fabio Barbieri, Letizia Meli, Laura Barbieri e Ilaria Recati

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falde larghe o con la frutta? Di paglia o con le piume? Sono questi i quesiti posti a Lady Kitty Spencer, figlia di lord Charles Spencer, fratello di Lady Diana, che ha trascorso le sue vacanze estive nella villa dell’esclusivo quartiere Roma Imperiale del suo attuale fidanzato italiano, l’immobiliarista romano Niccolò Barattieri di San Pietro. Per la precisione la villa è della madre del giovane imprenditore, a capo della Northacre, società di costruzioni specializzata nella realizzazione di appartamenti di lusso a Londra, la principessa Amalita Pacelli, pronipote di Papa Pio XII. E se dovessero esserci nozze tra i due giovani, il Regno Unito (Kitty Spencer è cugina di primo grado del futuro re d’Inghilterra) dopo il recente distacco dall’Unione Europea, si avvicinerebbe non di poco all’Italia, che del Regno Unito ha sempre apprezzato l’eleganza e lo stile. Uno stile ben rappresentato ad Ascot, quando nel Royal Enclosure i partecipanti alla presenza della royal family sfoggiano spettacolari cappelli che possono richiedere un anno di preparazione. Anche Forte dei Marmi

ha la sua gara di eleganza tra signore – ma non solo, visto che anche i signori partecipano – durante la quale una giuria di esperti di costume e moda giudica quei cappelli che per stravaganza ed originalità meritano una menzione, quindi un premio. A

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gareggiare tra di loro marchese fiorentine, contesse genovesi, principesse romane e industriali milanesi che anche quest’anno per l’occasione si sono ritrovati nell’esclusivo Versilia Golf Resort di Forte dei Marmi per una serata all’insegna del diverti-


Rosanna Angelini Cecilia Menchini Fabris Menchini Fabris Emiliana Martinelli Valeria Vannucchi Guglielmo e Vittoria Giovanelli Marconi Maria Luisa Staino

mento e della solidarietà. I fondi raccolti durante la manifestazione sono infatti devoluti a Dynamo Camp, onlus di Limestre Pistoiese che ospita gratuitamente, da tutto il mondo, bambini affetti da patologie gravi o

croniche nel periodo di post-ospedalizzazione. Un appuntamento – come sottolinea la presentatrice della serata Anna Maria Tossani – che vuole, da una parte, rispolverare la tradizione del cappello come accessorio di eleganza e stile, fino a non molti anni fa essenziale nell’abbigliamento femminile e maschile, oggi divenuto più elitario in quanto indossato solo in occasioni particolari, dall’altra valorizzare aziende che ancora oggi producono copricapi ricercati dai grandi brand internazionali, come nel caso di Mazzanti Piume di Firenze, storico brand che rifornisce di piume anche le guardi svizzere del Papa. Tra un risotto ai quattro formaggi dell’azienda Principato di Lucedio, accompagnato dal vino Conte Picedi Benettini, e i famosi bomboloncini alla crema preparati dal pasticcere Riccardo Patalani, si sono sfidati a colpi di cappelli ondulati e a falda larga, confezionati con fiori, frutta, foglie d’edera, ingentiliti da pizzi e ricami, le famiglie Giovanelli Marconi, il marchese capitolino Giuseppe Ferrajoli, i bolognesi Paolucci delle Roncole, Andrea di Montezemolo, Eugenio e Monica Picedi Benettini, la milanese Antonietta Pasqualino di Marineo che con il suo Boxingcatering, società di catering specializzata in pic-nic, ha soddisfatto i palati più esigenti grazie ai prodotti top brand Sapori & Dintorni Conad. Tra i premi assegnati durante la serata, i profumi Dr Vranjes, che da questa estate ha una nuova boutique in via Padre Eugenio Barsanti a Forte dei Marmi e degli elegantissimi portafogli donati dalla stilista Teresa Chen, che insieme al marito Marco Arrighi ha fondato Ireri, uno dei brand di eccellenza nel settore delle borse in pelle e degli accessori. foto Leonardo Bertuccelli

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MODA

VADEMECUM

per uN auTuNNo-INVerNo TuTTo da VesTIre Federica Farini

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rossima fermata: collezioni moda Autunno-Inverno 2016/2017. Quale sarà il look dai primi freddi in poi? Ce lo racconta un concetto di stile in continuo divenire sotto le luci della ribalta di passerelle sempre più futuristiche, ma allo stesso tempo classiche, capaci di riflettere la straordinaria complessità del fluire contemporaneo attraverso abiti e accessori. Non più modelli unici e definiti, sia per l’abbigliamento maschile che per quello femminile: alternative, stili e icone di vita, quasi a rappresentare vere e proprie forme artistiche postmoderne: velluto, broccato e schizzi di vernice, come su una tela di artista. Coraggio sfrontato o solo una buona dose di leggera ironia per superare i problemi che la vita quotidiana ci presenta? Dalla moda anni ’70 con cami-

cie leggere ricamate e jeans a zampa in denim, ai pigiami-completo, alle bluse e ai pantaloni fluidi, all’uso di bordeaux e nero di abiti sofisticati. Per lei, ma anche per lui. I passe-partout per l’autunno-Inverno 2016/2017 ColorI Tono su tono - L’eleganza di abiti e borse nello stesso colore o fantasia: sovrapporre non è mai stato così cool per Chanel (una pioggia di intrecci di fiori e logo del brand per maxiborse e capispalla) e stesso filone per Tod’s, Gucci e Calvin Klein. panna - Tra il bianco e il sabbia come i total look di Givenchy, Dior e Bottega Veneta. romantic-dark - Poco importa che sia dandy, Ladyhawke, cigno nero o motociclista: il dark si declina in dolcezza e morbidezza in abiti, dolcevita, giacche e gonne ornate di ruches, arricciature, pizzi e fiocchi per Alexander McQueen, Gucci, Valentino, quest’ultimo a suon di cappe di pelle nera. sempre più blu - Dall’oltremare al prussia, passando per i toni azzurro, zaffiro, indaco - Etro e Versace. Canarino, limone: giallo! Anche senape, ocra e curcuma - Max Mara e Sportmax. sTIlI & TessuTI sottosopra - Abiti sottoveste da portare sopra a maglioncini a collo alto e camicie, in colori e stampe coordinati o a contrasto - Louis Vuitton. Maniche extra long - Qualsiasi over, sia per pull che per giacche - Emilio Pucci. Mini - Cortissima, stretta, fiorata, jeans, pailettata - Emporio Armani, Mo-

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schino, Just Cavalli, Kenzo e Iceberg. Far West - Concerto di frange, stivaletti, capispalla in pelle per Anthony Vaccarello, Coach, Fay. Navy - Leitmotiv marinaretto e a righe bianco e blu/nero, con o senza bottoni dorati, per Tommy Hilfiger. sportivo - Tecnico da abbinare a orecchini preziosi e scarpe elegantissime. Pantaloni sartoriali a vita alta e felpa per Balenciaga e Marni. Fiori - Bouquet che ricordano scorci di natura autunnale - Christian Dior. animalier - Dal serpente, al leopardato, al muccato - Rochas, Alexander McQueen, Marni. Check - A quadretti (soprabito): ab-


Pelo - Tripudio di fantasia: pellicce decorate di lune, stelle e cuori - Gucci. Bomber - Si porta sportivo o abbinato ad abiti eleganti, spesso coordinato ai pantaloni: da aviatore come quello di Gucci, imbottito con stampe per Etro, ma anche matelassé e laminato. Cappa - Mantella da giorno o da sera, di puro cashmere, tinta unita o decori folk, su abiti militari con accenni retrò per Prada. Cappotto coperta: Come un plaid sulle spalle, avvolgente e maxi - Michael Kors. Angel Schlesser e Max Mara. Smoking - (Con cravattino) per Saint Laurent: un must dal 1966. Spencer - Corto, anni ‘80: o maschile e oversize, o minimal e attillato Dolce&Gabbana.

binato a scarpe flat per Tod’s, Dior, Chanel e Calvin Klein. Biker - Ribelli nell’anima, come Chloé. Nude - Ricami di cristalli e perline sullo sfondo trasparente in tulle - Alexander McQueen. Broccato - Opulento e mediorientale, la fa da padrone per cappotti e completi - Miuccia Prada. Vernice fresca - Luccicante come smalto appena steso per trench riflettenti (Isabel Marant per Christian Dior) e cappotti “plasticati” per Valentino, Lacoste, Acne Studios. CAPI Camicia bianca - Evergreen, nelle versioni dal taglio classico allo stretch - Anthony Vaccarello Celine, Jil Sander. Pullover - Pesanti come quelli di montagna, sopra gonne e abiti, ritorno del dolcevita - Laura Biagiotti, Etro.

Gonna a ruota - Lunga o corta, anni ’50 e ’60, rigida o fluida, in velluto, taffetà, tartan tulle, organza - Dior. Hot pants - In jeans, lana e maglia, per osare anche a basse temperature! Hogan. Pigiama - Come un completo, da abbinare a pantofole o tacchi stiletto Dolce & Gabbana. Tuta - In lana o cashmere, super stretch o sportiva - Lacoste, Louis Vuitton, Courreges. Piumino - Protagonista o di supporto a soprabiti più leggeri - Diesel Black Gold, Stella McCartney. Chiodo - ritorno agli ’80 e ’90 nel giubbotto da motociclista in pelle, decorato e in colore nero - Balenciaga, Valentino, Diesel Black Gold. Sherling - Per Chloè e Stella McCartney è oversize e da abbinare a bomber e cappotti. Completi maschili - Elegante in una sola mossa: semplicità sofisticata Sonia Rykiel e Alexander McQueen.

ACCESSORI Orecchini scoordinati - Protagonisti, ribelli, dal maxi al mini. Alexander Wang e Loewe. Doppia borsa - Si portano in coppia, coordinate tra loro, abbinandone una maxi a una piccola, stile borsellino Loewe Dior, Prada. Stivali sopra il ginocchio - Altissimi, colorati, romantici con rouches e ricami, ma anche minimal - H&M Studios, Fendi. Calze in lana - Collant in nylon, lana o cashmere. Cool e immancabili per Burberry Porsum, Prada. Occhiali futuristi - Impreziositi da maxi catene, sottilissimi e con lenti a specchio o a mascherina - Dior, Balenciaga, Celine. Spalline anni ’80 - Da effetti sofisticati a revival ruggenti! Balenciaga, Vetements.

L’ armadio per lui Da Milano a Parigi, da New York al Pitti: l’uomo è classico e lineare per Corneliani, ma sempre più eccentrico nelle stampe animalier di Dolce&Gabbana, il cui modello di uomo ha forse deciso di rubare dei pezzi al guardaroba a quello di lei. Icone maschili del nuovo millennio più attente al concetto di bellezza senza frontiere: make-up e gioielli possono esaltare anche i look maschili, rendendoli unici. Quindi… via libera a collane, spille, anelli e orecchini (Alexander McQueen)! Valentino, Vuitton e Gucci suggeriscono più anelli sulla stessa mano. Saint Laurent preferisce gli anelli a fascia larga in argento o dorati. Tribale o femminile?

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MODA

1954

Collezioni innevate

una pagina di storia della moda. Firenze non teme Parigi Roberto Mascagni

La montatura allungata degli occhiali, distintiva dell’epoca e diffusissima, fu denominata “a occhi di gatto”. Abito in tulle verde increspato a mano, copri spalle in raso nero. Collezione “Can Can” di Barbara Farina, Firenze. Abito in raso di seta imprimé. La gonna scende svasandosi; vita al suo punto naturale. Collezione “Can Can” di Barbara Farina, Firenze. Abito in raso rosa, bordi di velluto nero, vita segnata, gonna a ruota. Collezione “Can Can” di Barbara Farina, Firenze. Fotografie di Moreno Vassallo

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el gennaio 1954 le sfilate di Alta Moda Italiana nella Sala Bianca di Palazzo Pitti hanno raggiunto il traguardo della VII edizione e il quarto anno di vita. L’«Italian High Fashion Show» si usa annunciarlo in inglese perché è rivolto soprattutto ai buyers per la maggioranza statunitensi: Magnin, Altman, Morgan. Non solo: anche il parigino Galeries Lafayette, il londinese Harrods, lo svizzero Jelmoli, hanno inviato i loro compratori per la scelta dei modelli, prima che Parigi lanci i suoi per la primaveraestate. La stampa estera è rappresentata dal «New York Times», «Harper’s Bazaar», «Glamour», «Philadelphia Bulletin». Presenti al completo i fotografi e i giornalisti della stampa italiana, che commentano: «Moda italiana vuol dire finezza di gusto e di stile, arte leggiadra e signorile, a cui si devono incoraggiamenti e aiuti: moda che può dire la sua autorevole parola nel mondo». Tanto da convincere i nostri pur ottini sarti/ stilisti a emanciparsi dall’influenza di Parigi, che da secoli ha rappresentato, nel mondo, la ricercatezza dell’abbigliamento. Ma sono stati pochi coloro che si sono accorti di questa nostra “rivoluzione”, che Parigi ha percepito come minacciosa. Nella Sala Bianca e nelle sue adiacenze, affollate da un pubblico elegante, si sentono parlare tutte le lingue. Gli ospiti sono stati accolti dai valletti del Comune vestiti con i tradizionali costumi cinquecenteschi. Mentre sulla pedana sfilano disinvolte e sorridenti le indossatrici abbigliate con vestiti primaverili e prendisole proposti per la prossima stagione estiva, dalle finestre di Palazzo

Pitti si scòrge un candido turbinìo di fiocchi di neve mossi dal vento, che imbiancano Firenze. Questo fiabesco spettacolo ricorda a tutti che siamo nel mese di gennaio. Mèteo a parte, l’attenzione del selezionato e folto pubblico torna a fissarsi sui modelli dei nostri sarti e, soprattutto, sulla straordinaria qualità e varietà dei tessuti presentati da Agosti, Bemberg, Legler, Rivetti Lini e Lane, Rivetti Sordevolo, Rhodiatoce, Schacchi, Textiloses & Textiles, Tondani, Valle di Susa, che riunisce, in sindacato, le industrie seriche di Como: Ambrosini, Bernasconi, Camozzi & Bertolotti, Costa, Cugnasca, Rosasco, Edoardo Stucchi, Talea, Terragni, Tessilstampa.

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Anche quest’anno la nostra industria tessile ha stupìto: mai come prima si sono visti tessuti così tecnicamente perfetti. I raffinati disegni degli stampati, gli inediti risultati delle sete dipinte a mano, i sorprendenti cotoni che imitano i rasi e i broccati. Dunque, come si presenterà la nuova Moda italiana nella prossima primavera-estate? Sarà vivacemente colorata; dòminano il bianco e l’azzurro, il giallo e in genere i colori luminosi della frutta. E tutta la gamma dei pastelli. (Fra le indossatrici c’è Miss Toscana, cioè Eletta Polvani, che indossa un “insieme” creato da un atelier milanese). È presente anche la Moda maschile, quasi un fuoriprogramma, presentata da Brioni: giacche azzurre sopra pantaloni grigi, frack e smoking coi “revers” colorati, e una sorprendente giacca di shantung rosso. I due indossatori, commenta la stampa, «se la sono cavata bene», e meglio quando si sono prodigati in sorrisi e baciamano dedicati alle signore presenti. Poi, dai grandi ai piccini, con la sfilata dei modelli (in tessuti Bemberg presentati da Antonelli) per i bambini: una Moda per tutte le ore e tutte le occasioni della giornata. Infine, come si legge nei resoconti della stampa italiana, non manca un appello al Governo, perché sostenga il primato conseguito da Firenze. Solo così potremo fronteggiare l’alta coutûre francese, dalle vecchie tradizioni e dagli enormi mezzi, perché la Moda francese è sostenuta dallo Stato ed è strettamente unita, mentre Firenze si è impegnata in prima linea da sola o quasi, per valorizzare la Moda e i pregiati tessuti italiani. Se il nostro Governo ha orecchie, intenda.


dagli anni ’50 verso i ’60 Cristina Giorgetti*

Come tutti i decenni nella storia della Moda contemporanea la dècade degli anni Cinquanta del Novecento può dividersi almeno in tre fasi: la prima, fino al 1953 molto ancorata alle linee della fine degli anni Quaranta e soprattutto, per la maggior parte, all’ haute coutûre francese di stampo classicista e revivalista; una seconda, dal 1954 in particolare, con uno stile che a livello nazionale comincia a profilarsi come decisamente italiano e con input di modernità che iniziano a manifestarsi ad esempio in Fabiani, Capucci, sorelle Fontana e soprattutto in Emilio Pucci. Le linee cominciano a semplificarsi, ad abbandonare orpelli e pomposità persino per la sera senza rinunciare al lusso. Questo cambiamento è per l’Italia ancora più evidente perché sono solo tre anni che sta attuando l’affrancamento dalla Moda francese attraverso le nuove manifestazioni lanciate, a Firenze, da Giovanni Battista Giorgini, ed è molto complesso, per le sartorie italiane, “combattere” con una clientela che è idealmente ancora affascinata dal glamour che la Francia nonostante tutto continua a emanare. La terza fase comincia nel 1957/58 quando Yves Saint Laurent lancia per l’atelier di Dior, dopo la scomparsa del maestro, la linea “Trapezio” che per giacche e cappotti i nostri Fabiani e Simonetta avevano già intuito nel 1953. Negli ultimi tre anni della dècade le linee si fanno svelte, pratiche, i tagli essenziali, soprattutto fra quei creatori che perseguendo una vera ricerca formale studiano linee rivoluzionarie dal punto di vista strutturale, ad esempio la linea “Pannocchia” della Marucelli del 1957 o la linea “H” di Capucci nel 1958. La moda ufficiale comincia a trovare il contraltare “dell’antimoda”, una corrente di abbigliamento ancora più di élite rispetto alla Moda delle passerelle, si tratta di stili che nascono dal connubio fra artisti e sartoria, ovvero l’abito concepito come opera d’arte itinerante grazie al corpo che consente all’opera di muoversi e veicolarsi fra il pubblico più svariato. Una tendenza in crescita per varie esclusive boutique degli anni Sessanta. *L’autrice è storica dell’Abbigliamento. A lei si deve l’autorevole Manuale di Storia del Costume e della Moda.

Il prograMMa delle sFIlaTe MARTEDÌ 26: Millenery Show, sponsorizzato dal cappellificio “La Familiare” di Montevarchi (AR); Marucelli (Milano); Guidi (Firenze); Veneziani (Milano) - MERCOLEDI 27: Antonelli (Roma); Carosa (Roma); Vanna (Milano). Ore 21 Appuntamento in Palazzo Strozzi negli stands delle sartorie - GIOVEDI 28: Sportswear e Boutique: Bertoli (Milano); Avolio (Milano); Vito (Milano); Myricae (Roma); Arditi (Roma); Glans (Milano); Valstar (Milano); Valditevere (Firenze); Capucci (Roma); Emilio (Firenze) - VENERDI 29: Appuntamento in Palazzo Strozzi dove si svolgeranno le contrattazioni. (Lo storico Palazzo è stato arredato dal celebre antiquario fiorentino Luigi Bellini). Dal 26 al 29, mostra degli accessori dell’Alta Moda nel Grand Hotel (l’odierno The St. Regis Florence Hotel) in piazza Ognissanti: gioielli, borse, maglierie, paglie; i feltri per i cappelli sono forniti da “La Familiare” di Montevarchi. L’ondata di freddo e di maltempo che si è riversata sull’Italia non ha risparmiato, ovviamente, nemmeno Firenze, dove i termometri dell’Osservatorio Ximeniano hanno registrato una temperatura di meno 6,7 gradi. Temperatura eccezionale per Firenze, se si pensa che nei precedenti cinquant’anni, la “minima” è scesa sotto lo zero soltanto quattro volte: il 19 gennaio 1929 con meno 7,6; il 7 gennaio 1939 con meno 8,2; il 24 gennaio 1942 con meno 8,3; il 6 gennaio 1949 con meno 6,8. E la superfice dell’Arno, inutile dirlo, si è coperta di ghiaccio. Con il freddo è venuta anche la neve, a cominciare da lunedì 25 gennaio, giorno precedente l’inaugurazione delle sfilate nella Sala Bianca di Palazzo Pitti. Intanto, a roma… Fra i pochi sarti “secessionisti” che hanno presentano le loro collezioni a Roma, figura anche Schubert (applaudito da Gina Lollobrigida), cui si deve un coupe de theatre (ma una sorpresa era nell’aria…). Per la sua passerella finale il celebre sarto ha fatto indossare un abito rosa turchese decorato con cristalli (taglio diamante) a un straordinaria bellezza di Hollywood: l’attrice Ava Gardner. Intanto, a parigi… L’evento più atteso si presenterà il 5 febbraio. Coco Chanel riaprirà i suoi saloni di Alta Moda, chiusi nel 1939 a causa dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. La notizia suscita l’ansiosa curiosità del “tout Paris”. Trascorso il durissimo dopoguerra, dal mondo della haute couture non si aspettano novità clamorose, ma il solo annuncio che ha scosso tutti è la rentrée di mademoiselle Chanel.

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COSTUME

Shabby Chic Style Eleonora Garufi

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a nostra casa ha raggiunto un ruolo di fondamentale importanza nella nostra vita. Mai come oggi le case raccontano lo stile di vita, la personalità, e il gusto delle persone. Nel nostro rifugio dalla frenesia della quotidianità siamo sempre più attenti alla scelta dell’arredo e l’interior designer è divenuto una figura professionale di spicco, che calca le tendenze della moda nel comporre e personalizzare lo spazio. Lo stile Shabby Chic oggi calca la passerella dell’arredamento. Ma cosa significa? Letteralmente la traduzione è “trasandato chic”, uno stile di interior design in cui mobili, accessori e arredi si presentano invecchiati, e maggiori sono i dettagli di usura, migliore è la rappresentazione dell’anima di questo stile. Nello shabby chic significato e definizione si intrecciano. I mobili più adatti al fai-da-te di questo stile sono ricchi di intarsi, perché rappresentano un’età passata e, quindi, l’effetto “polveroso” delle

vernici pastello ben attecchisce sulla loro superficie. La scelta dei colori non è affatto secondaria se si vuole una casa shabby: colori chiari, e tendenti al pastello. Beige, avorio, grigio chiaro e bianco sono la base. Lo shabby dà al “vecchio” una seconda possibilità, riportando a nuova vita mobili che altrimenti non guarderemmo neppure. Il legno e il lino sono i due materiali indiscussi per rendere l’effetto ricercato e chic. La pittura bianca sulle venature e i nodi di quei mobili da soffitta, regalano un effetto luminoso elegante e ricercato. Una nota fondamentale sono gli elementi di arredo: i cuscini dalle tinte country e naturali, i servizi di porcellana scompagnati dal sapore vintage, sulle mensole di legno massello. Pizzi e merletti regalano movimento. La

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latta dei mercatini dell’usato rifinisce e i fiori, tra i quali spicca la lavanda, profumano lo stile shabby. Lo stile shabby è una stanza , una tavola da pranzo ed è per questo che su questo stile oggi si organizzano cerimonie ed eventi su misura. I dettagli Shabby, un centrotavola di limoni, le candele in un vasetto di vetro, la versatilità di un’alzata per dolci sono le piccole chicche di questa tendenza. Il motivo per cui lo stile shabby ha raggiunto la fama dello stile di arredamento alla moda, è l’upcycling, ossia la possibilità di trasformare qualcosa di vecchio in qualcosa di nuovo. Uno stile in parte molto economico che valorizza il fai da te. Colore, decorazione, fantasia, profumo e integrazione nella diversità dello stile moderno che ci circonda. Lo shabby Chic conquisterà il mondo.


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

Via Brunelli 13/17 56029 Santa Croce sull’Arno (Pisa) Tel. uff. 0571 366072 - 360787 Fax 0571 384291

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eality

Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

20163

Anno XVIII n. 3/2016 Trimestrale € 10,00


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