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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

20171

Anno XIX n. 1/2017 Trimestrale € 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIALE

Di che cosa parliamo?

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ome sempre, la scelta dell’argomento dell’editoriale non è cosa semplice. I fatti da mettere a fuoco sarebbero tanti e della più diversa natura. Ma occorre sceglierne uno, decido dunque di parlare del giornalismo, una funzione comunicativa diventata sempre più complessa. Perché complessa è la situazione attuale non solo in Italia. Per restare al nostro Paese, sono una miriade le questioni critiche aperte, che investono direttamente i cittadini, a livello locale e nazionale. A volerle solo enumerare, sarebbe come recitare un rosario: scandali quotidiani, dilagante corruzione, malgoverno delle città e dello stato, dissesto del territorio, perenni emergenze legate ai capricci del clima, e relativi disastri (ma quando si dice clima, a bel guardare i retroscena delle tragedie, la responsabilità è puntualmente da attribuire all’incuria umana). E qui mi fermo, per osservare che in un contesto così fitto di eventi negativi, il lavoro del giornalista giustamente attento alla realtà, finisce col sembrare una deprimente agenda catastrofista. Nondimeno bisogna informare sugli eventi, approfondire le questioni aperte, denunciare le inadempienze e le responsabilità. Cosa che per il suo carattere giornalistico non può fare Reality, le cui pagine sono aperte alla cultura e alle vocazioni sociali e produttive segnatamente del territorio per il quale lavora. Quanto a me, l’ho molte volte ripetuto: mi piace fare un giornalismo diverso, nel senso di raccontare luoghi, realtà associative e produttive e persone che eccellono e che fanno cose meritevoli. Nei giorni scorsi si è molto parlato del comportamento dei giornalisti. L’ha fatto anche papa Francesco, nella lettera indirizzata all’ordine dei giornalisti in occasione della ricorrenza del patrono dei giornalisti, San Francesco di Sales. Anche monsignor Andrea Migliavacca, vescovo di San Miniato, come da tradizione, ha invitato i giornalisti del territorio per una preghiera e una benedizione e per trascorrere una serata conviviale, dialogando tra colleghi e con il vescovo sui temi che interessano da vicino il nostro territorio e il ruolo della diocesi. Il vescovo a fine serata ha letto il discorso nel quale papa Francesco ricorda a noi tutti quanto sia importante fare un giornalismo più attento e rispettoso della dignità umana, raccomandandosi di non additare e accusare sempre e solo tutto e tutti, ma di evidenziare anche gli aspetti positivi della realtà, magari osservando anche da un altro punto di vista le situazioni critiche. Bisogna riflettere di più sugli argomenti trattati, fare autocritica, ricordarsi sempre, prima di scrivere, della propria deontologia e professionalità e dell’importanza che ha il nostro ruolo nella società. Oggi più che mai, poiché i social consentono a tutti di scrivere e postare foto, come se ogni utente del web fosse un vero reporter, avendo purtroppo l’illusione, grazie alla rete, di fare buona e corretta comunicazione con un semplice copia e incolla e diffondendo parole e pensieri in libertà. Io penso che in virtù di questa situazione, chi scrive debba essere oggi più che mai scrupoloso e agire con la massima professionalità, cercando tutti i giorni di dare ai lettori un’informazione seria, verificata e riflessiva, che non comunichi una semplice notizia, ma racconti una vera e propria storia.

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Luca Macchi, Luce dell’Aurora, 2016, cm. 50x40, tempera acrilica e foglia d’oro su tavola foto di Alessandro Paladini

Reality numero 83 - marzo 2017 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 28 30

In viaggio con Macchi Giovanni dal Ponte Cristina di Lorena Siquerios, il pianto universale Plautilla Nelli Che lusso, una presa di tabacco! La ruota della fortuna

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49 50 52 55 56 57

Salve ‘800! Bargellini e la tomba di Campana L’aquilone Borghi toscani La foresta che vive e fa vivere Happy Birthday British Institute

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Convocazioni al Castello di Grotti Essere Forte L’arte in Italia Idrovolanti a Boccadarno Mary Shelley & Frankenstein Prepotenze d’una volta Il terremoto scuote le Apuane

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Terrazza Miravalle Ristorante Food Bar

La Terrazza Miravalle è il nuovo temporary restaurant e food bar di San Miniato: “temporary” per l’avvicendarsi degli chef, contemporaneo per stile e cucina. Un giardino d’inverno, con vista sul panorama del Valdarno. Temporary restaurant: Chef di livello avranno una guida “a tempo” della cucina, per proporre in menù sempre diversi la tradizione toscana, le stagioni e le materie prime del territorio, con un’apertura alla contemporaneità. Food bar: dal Coffee to go al Wine Bar, la Terrazza Miravalle a San Miniato offre uno spazio accogliente, che sia per prendere un caffè al volo o rilassarvi con uno dei nostri drink. Spazio Eventi: un locale giovane, con arredi di design e il respiro green del giardino verticale per cerimonie ed eventi in un borgo storico toscano.

TERRAZZA MIRAVALLE Piazza del Duomo, 4 - San Miniato (PI) 0571 400105 - info@terrazzamiravalle.it - www.terrazzamiravalle.it


SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 58 60 62 64 67 68 70

Pistoia Villa Peyron Napoli è… 55 anni di cinema Kabir Bedi Psyco & Titanic Peccioli a passo di danza

72 74 76 77 78 80 85

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Che forte il mercato del Forte! 1955 primavera estate Il bullismo nella prima infanzia Osso Sacro? Come difenderci da... Rosa… rosae Tea time

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In costume I social e le serie TV Red diaries Rispetto… a Colori Lo sport oltre gli ostacoli Mai dire mai! Centralità del Poteco

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artista

in

viaggio con

Macchi P

Nicola Micieli

Dipingere, entrare nella dimensione eterna dove vive la luce delle giornate felici. La luce arrivata ai nostri occhi dalle mani e dagli occhi dei Maestri: il segno duro sulle pareti delle caverne, la linea di Cimabue, il volume di Giotto. Dipingere è il bagliore del fulmine che illumina la notte, il raggio di sole che filtra da nuvole barocche, l’ultimo riflesso del tramonto sulla finestra lontana. Dipingere è il germoglio, è il mestiere che si apprende con il lavoro, è un affinamento interiore, spirituale. È la piccola fiammella che diventa fuoco, è l’opera che nasce, che porta con sé una scintilla del fuoco che l’ha generata, è l’opera che lascia che nell’osservatore si ripeta, ancora e sempre, il miracolo dell’intuizione anche a grande distanza di spazio e di tempo.

osso vantare una conoscenza non superficiale di Luca Macchi pittore, per essere stato suo testimone critico fin dalle prime uscite espositive. Da osservatore, gli sono stato fedele compagno di viaggio, diciamo “a latere” e poco invadente, lungo un trentennio di suo appartato fervore creativo. Mi sono interessato, dunque, del suo lavoro a cominciare almeno dal 1986, quando nel chiostro del Convento di San Marco, presentava un ciclo pittorico che vorrei dire esagitato per empito espressivo. Protagonista Girolamo Savonarola, il domenicano moralizzatore che accusato di eresia, chiudeva i suoi giorni impiccato e poi arso sul rogo. Negli spazi del convento da dove il visionario Fra’ Girolamo sbrigliava i cavalli della sua Apocalisse, Luca Macchi metteva in scena, per la prima volta nella compiutezza d’un ciclo operativo, anche la fiamma creativa ancora crepitante che gli bruciava dentro. E che chiedeva di tradursi in visione. Di ben diverso spirito dal Savonarola, nei medesimi spazi conventuali un altro

Luca Macchi 10


Melancolia II, 2002, tecnica mista, foglia d’oro su tela, cm. 250x200

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La musica luce della notte, 2016, grafite, acrilico, foglia s’oro su tavola, cm. 61x93,5 Paesaggio dove sono nato, 2016, grafite, acrilico, foglia d’oro su tavola sagomata, cm. 75x124,5

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domenicano, il mite Beato Angelico che dipingeva come rapito nella preghiera, aveva un tempo devotamente cantato la poetica dolcezza delle visitazioni e degli annunci celesti. Due modalità del visibile parlare e dipingere, il Savonarola e l’Angelico, che possono aiutarci a capire lo svolgimento del percorso creativo di Luca Macchi. L’accento profetico del ciclo del Savonarola, dilatato e formalmente agitato al fuoco della visione, persisterà come una combustione senza fiamma, dunque sommersa, nella temperatura espressiva della luce/ colore, specialmente avvertibile nelle

non poche opere di soggetto religioso, anche a sviluppo parietale, che Macchi ha dipinto con una certa continuità. Della vocazione dell’Angelico al sommesso ed evocativo parlare, si troveranno diffusamente le tracce nel seguito della sua ricerca. Mano a mano, difatti, si fa visione angelicata, appunto, più che mercuriale – dalle Tavole della Luce (1999) alle Mura di Orfeo (2009) e oltre sino alle attuali Edicole del sacro e del mito – l’immagine del suo mondo poetico, vieppiù incline al silenzioso manifestarsi e interloquire, tra svelamento e introflessione, delle cose e delle creature. La scena pittorica è luogo d’elezio-

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ne. Macchi la compone sotto specie di ribalta o edicola consacrata, in virtù della levitazione della materia comunque sensibile, della dolcezza evocativa della forma grafo-pittorica, dell’assunzione simbolica e poetica di fenomeni e aspetti consueti della natura e del suo stesso paesaggio nativo. E chiama ad abitarla i simulacri umani discendenti, per sensi e portati simbolici, dalla classicità greco/romana, ma assegnatari altresì di significati e valori propri della cristianità. Non a caso nella sua galleria poetica diventerà centrale la figura di Orfeo, il cui canto aveva la virtù di ammansi-

I cipressi bianchi, 2013, olio, foglia d’oro su tavola, cm. 40x37,5


La nuova partenza (La zattera dell’arte e della poesia), 2010, olio, foglia d’oro su tavola, cm. 68,6x34,2

re le fiere. Per Macchi Orfeo è lo spirito dell’arte e della poesia, il pontefice ovvero il tramite tra la terra e il cielo. Ricordo che l’originaria iconografia del Cristo si esemplificava proprio sulla classica raffigurazione di Orfeo. Come Gesù discese negli Inferi per risorgere nel terzo giorno alla vita eterna, Orfeo discese nell’Ade nella speranza, pur vana, di far rivedere la luce all’amata Euridice. Un sincretismo poeticamente risolto tra mondo pagano e universo cristiano, quello che Macchi racconta nelle sue edicole. Certo, per approdare alla levitazione e alla trasposizione simbolica della forma nelle figure poetiche del sacro e del mito, egli doveva sciogliere l’aspro dettato pittorico del Savonarola e delle figure titaniche della sua prima stagione, animate e agitate come da un interno sommovimento, che ne altera le fisionomie al limite del disfacimento, ed era percorsa, la forma, da un’incontenibile onda dinamica, partecipe del flusso di energia che pervade ogni fibra dell’universo. Alla potenza di quel flusso di luce ardente e contaminata, Macchi si affidava per rigenerare dal coacervo della materia la figura dei primordi che evolverà, con il tempo, sino ad assumere l’effigie di Orfeo o di altre presenze del mito e della poesia. Lo faceva nella serie di dipinti raccolti sotto il titolo Magma ed esposti nel 1989, presentati da Piero Santi, presso lo Studio “L’upupa”, sempre a Firenze. Potrebbero dirsi informali, quelle tele che leggo come una sorta di filtro materico attraverso il quale Macchi metabolizzava i depositi accademici e museali del sua prima stagione formativa, per infine approdare a una pittura di estrema riduzione visiva e di sottile calibro formale. Pittura adatta all’evocazione poetica di luoghi e situazioni liminari tra il reale e l’immaginario, per la quale, osservava il poeta Mario Luzi tra i primi e i più illuminati estimatori del giovane artista, era necessaria la «limpidezza congiunta dell’ideazione e dell’esecuzione». Per introdurre al nuovo mondo di visione che Luca Macchi apriva dunque e maturava nel corso degli anni Novanta, già presentando a Volterra la sua mostra Le tavole della luce, esordivo descrivendo un’opera del 2002 nella quale compare un giovane uomo che avanza. È una sorta di Kouros evanescente dal portamento statuario, la testa lievemente reclinata (come sovente nell’iconografia del poeta preso come nel sogno della visione interiore) sulla spalla a intercettare l’aura diafano-azzurrata d’un globulo di luce, che sembra attrarla mentre ne preannuncia l’avvento. Come una stella cometa. Foglie dorate vagolano nell’aria latti-

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Il sogno di Orfeo, 2004, cellulosa, pigmento, penna d’oca, foglie, foglia d’oro, cm. 41x29

Luca Macchi terrà a Palazzo Grifoni di San Miniato al Tedesco, una mostra personale di opere recenti intitolata Le mura di Orfeo, e altre edicole del sacro e del mito. Promossa dal Comune di San Miniato e patrocinata dalla Regione Toscana e dalla fiorentina Accademia delle Arti del Disegno, la mostra sarà inaugurata l’8 aprile prossimo e chiuderà il 28 maggio 2017

ginosa (e foglie campeggeranno appuntate ai cieli o deposte sulla terra, quando non disposte a corona sulla fronte del santo e del poeta). Una posa al suolo, se tale può dirsi, nel biancore luminescente che vanifica la percezione dello spazio, il piano su cui poggia i piedi, ma pare sospesa, la figura. Sono trucioli stellari, le foglie, più che prosciugati relitti vegetali che planano sostenuti da un refolo di vento. Simboleggia la Purità dell’essere quella manifestazione eterea d’una creatura che vorrei dire in transito, incerta, al nostro sguardo abbagliato

dalla sua bellezza – la bellezza terrifica dell’angelo, e quella incantatrice di Orfeo –, tra l’esserci aurorale nella pienezza vitale del corpo e l’estinguersi come un’apparizione, riassorbita dalla stessa luce dalla quale proviene. Siffatta ambivalenza si esplicitava nella mostra volterrana alla quale questo e gli altri dipinti erano destinati, poiché in sede espositiva una lunga ombra, disegnata sul pavimento, pareva dipartirsi dai piedi della figura. La non voluta analogia con la celebre cosiddetta “Ombra della sera” conservata al museo Guarnacci

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di Volterra, non risultava, per quanto accidentale, del tutto impertinente. Il filiforme bronzetto etrusco, difatti, è una statuetta votiva che ben rappresenta il senso della precarietà dell’essere, il germinante desiderio di appartenere alla dolce terra, la malinconia di doverla abbandonare, calate le tenebre sulla vibrazione di luce opaca della vita. Al tema della Melancolia dedicava due dipinti di intensa liricità, ancor prima che propedeutici alla riflessione. Raffigurano entrambi un arboscello profilato in controluce, esile e quasi rabescato, talché paiono


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La voce fiorita, 2016, grafite, acrilico, foglia d’oro su tavola, cm. 615x77 La voce fiorita, 2016, grafite acrilico, foglia d’oro su tavola, cm. 64x88 L’oro di Orfeo, 2004, tempera, carboncino, sanguigna, foglia, foglia d’oro su tavola, cm. 46x25

impronte di bruno vestite, le rame che già irrorava la terra con la sua linfa. Ora sono luoghi della memoria, figure araldiche d’un palinsesto del cui arcano codice le foglie e le fioriture sono segni sublimati dall’alchimia dell’oro. Un palinsesto! Affiora in sommesso controcanto, e la indovini stratificata, la tessitura delle antiche parole, talora solo echi di parole, delle quali si serba appena il sentore grafico, labile ma di amplificata irradiazione evocativa. Del resto, la stessa materia pittorica, o meglio la sindone che testimonia l’estensione e la gravità del mondo fenomenico, è qui di per sé un palinsesto, giacché appare consunta, dilavata, portata all’estenuazione delle sue fibre, non già a negarne la fisicità, bensì a liberarne la dimensione segreta, a svelarne la trama sommersa, che dice le tracce dei passaggi delle creature, le usure, i sedimenti del tempo. Non a caso ricorre in queste opere la tipologia dell’icona, dell’oggetto che reca nella propria conformazione, ancor prima che nel proprio contenuto figurale o simbolico, una valenza di sacralità non riducibile ai termini dottrinari, tanto meno devozionali, d’una confessione religiosa. Sono icone da appendere alle pareti del tempio consacrato alla memoria, appunto; o, se vogliamo, da custodire nelle edicole della poesia, che dovrebbero presiedere i luoghi ove si intersecano – quanto spesso senza incontrarsi ovvero operare il miracolo della comunicazione intima che significa comunione! – le strade del nostro nevrotico viaggiare quotidiano. Alla virtù cognitiva e comunicativa della poesia rimandano, ovviamente, le numerose opere dedicate a Orfeo, molte delle quali sagomate nel legno dipinto ad accentuare anche sul piano materico il loro carattere di icone votive, che recano sovente la figura delineata in grafite quasi fosse una sinopia o un cartone da affresco medievale. Un sincretismo, dunque, una confluenza di spiritualità e di culture si concreta, in termini sia visivi che semantici, in queste icone portatrici di molteplici accessi alla conoscenza dell’essere, quale si manifesta nell’universo creato e rifluisce nell’interiorità umana.

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I cipressi magici, 2010, foglia di rame, foglia d’oro, olio su tela, cm. 80x65 Orfeo e Euridice, 2015, tempera su tavola, cm. 59x38,5

Luca Macchi è nato a San Miniato, in Toscana, dove vive e lavora. Ha conseguito il Diploma di Laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. All’Accademia conosce le più attuali neoavanguardie di quegli anni che lo porteranno ad una propria concezione della figura fissata nei dipinti della serie Magma, frutto del lavoro di ricerca condotto dal 1985 al 1988. Inizia ad esporre nei primi anni Ottanta e tra le mostre sono da ricordare quelle al Chiostro del Convento di San Marco a Firenze (1986) e alla Galleria “L’Upupa”(1988), diretta da Piero Santi. Di questi anni sono anche le esposizioni allo Studio Gennai di Pisa (1992) e ancora a Firenze. Nel 1996 al Convento di San Francesco a San Miniato, tiene una personale corredata da un catalogo con la prefazione di Mario Luzi che in più occasioni scriverà sul suo lavoro. Varie le rassegne e le collettive alle quali è stato invitato, tra queste ricordiamo: Provoc’Arte”, (Repubblica di San Marino); Tocco d’Artista, (Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 1993); Occasioni di fine stagione, Ospedale Psichiatrico di Maggiano, Lucca, 1996; Luzi critico d’arte, a cura di Nicola Micieli, (Museo di Doccia, Sesto Fiorentino, 1997); Incisione Pisana del Novecento – eventi e protagonisti, La Limonaia, Pisa 1998. Nel 1999 presenta alcune opere del ciclo “Le Tavole della Luce” nella Torre di Filippo il Bello a Villeneuve lez Avignon (Francia). Ancora Ex Voto per il millennio, a cura di N. Micieli, Museo Nazionale della Certosa di Calci, 2000; “Ritratto di Mario Luzi. Autografi e inediti d’Arte” a cura di Giovanna M. Carli, Palazzo Panciatichi, Firenze, 2007; Questo è il mio fiume, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 2012; L’Avventura dello sguardo, a cura di A. Scappini, Accademia Degli Euteleti, San Miniato, 2012. Macchi si è incontrato più volte con l’Arte Sacra realizzando opere per le chiese di Collegalli (Montaione), San Miniato, Marzana, Montopoli, Albinatico (Pistoia). Ha realizzato la decorazione parietale e il Crocifisso d’altare della Cappella di San Matteo Evangelista a Moriolo, una piccola chiesetta circondata da cipressi posta su di una collina che domina la Valdegola. Nel 2009 dipinge la parete (cm. 833x422) con le scene della Storia del furto e della riconsegna della sacra immagine della Madre dei Bimbi, o Parete della restituzione nel Santuario di Cigoli. Recentemente ha realizzato “La Pietà del Soldato” (cm. 187x252) per il Sacrario dei Caduti di Santa Maria al Fortino a San Miniato. Tra le esposizioni personali recenti sono da ricordare la mostra nello storico locale Le Giubbe Rosse di Firenze, dove viene presentato il volume Nel flusso e nell’incandescenza del sensibile (Edizioni ETS, Pisa) che raccoglie i testi che Mario Luzi ha dedicato al suo lavoro di artista. Del 2012 è la personale alla Galleria La Pigna di Roma. Del 2014 è

la presentazione del dipinto “Il loro sacrificio faccia germinare la pace”, (cm. 200x300) riflessione sui fatti della nostra epoca. Nel 2015 espone alla galleria San Vidal di Venezia. Del 2016 è la vasta

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personale Luca Macchi, Immagine del mito organizzata dal Comune di Certaldo nelle sale del Palazzo Pretorio. Insegna presso la Libera Accademia di Belle Arti di firenze


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arte

Giovanni dal Ponte un ritorno d’Accademia Paolo Pianigiani

Ritratto di Giovanni dal Ponte, tratto dall’edizione Bottari delle Vite del Vasari (1759) Madonna col Bambino tra i santi Giovanni battista, Caterina e due angeli, Hartford (Connecticut), Foto Allen Phillips, Wadsworth Atheneum Museum of Art San Michele Arcangelo e San Bartolomeo, Museé des Beaux – Arts de Dijon, foto Francois Jay

È

già da novembre dello scorso anno che Giovanni dal Ponte è tornato alla ribalta: una bella mostra alla Galleria dell’Accademia, pensata da Angelo Tartuferi, allestita dallo studio Guicciardini e Magni, presentata dalla nuova direttrice della terza Galleria italiana più visitata al mondo, Cecilie Hollberg. Lorenzo Sbaraglio ha studiato a fondo le opere conosciute e ha cercato di riproporle assemblando le parti disperse nei secoli. Altre studiose, Annamaria Bernacchioni, Lia Brunori e Arianna Soldani, hanno approfondito ciascuna aspetti importanti della vita e delle opere di Giovanni dal Ponte, che in pratica è come se fosse tornato a passeggiare e operare per le vie di Firenze. Tutto

raccontato e documentato da un bel catalogo, edito dalla Giunti. La scenografia ha un ruolo essenziale in questa mostra. A partire dall’ingresso, che richiama la basilica di S. Croce e il suo rosone gotico, per continuare nel percorso, che si snoda fra colonne reinventate della cattedrale di S. Maria del Fiore. Le opere esposte, provenienti in prestito anche da musei lontanissimi, in uno scenario che gioca di luce e d’ombra, fra quinte teatrali e punti di vista impensabili, ricreano l’epoca, fra la fine del Trecento e gli splendidi inizi del 400, a Firenze. Ci sono i principali compagni di vita di Giovanni di Marco (questo il suo nome in nelle carte d’epoca), dai grandissimi: Paolo di Dono, Masaccio, Masolino, Ghiberti e il Beato Angelico, al misterioso Gherardo Starnina. Tutti presenti con un’opera, a testimoniare un periodo, irripetibile per Firenze, di creatività e di grazia. Certo, il faro fu Masaccio, e tutti furono abbagliati e ne risentirono nei loro modi di dipingere. Giovanni fu tipico maestro di bottega, situata appunto vicino al Ponte Vecchio, in piazza di Santo Stefano al Ponte. Produsse dipinti per chiese, spazi pubblici e privati. Dipinse, in collaborazione con altri, come Smeraldo di Giovanni, opere di uso comune, come i cassoni nuziali (sia per lo sposo che per la sposa), venendo a lavorare anche nel contado fiorentino. Per esempio a Empoli, come dice il Vasari, dove: …fece le sue prime opere nella Pieve, a fresco, nella capella di San Lorenzo, dipignendovi molte storie della vita d’esso Santo, con tanta diligenza, che sperandosi dopo tanto principio miglior mezzo, fu condotto l’anno 1344 in Arezzo, dove in San Francesco lavorò in una cappella l’assunta di Nostra Donna…

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E rimasero al loro posto, seppure oscurate dal fumo di candela e dalla incuria degli uomini finché ai componenti della Compagnia di San Lorenzo non venne voglia di rinnovare la loro cappella. Nel primo Settecento gli affreschi di Giovanni dal Ponte, che sarebbero stati un prezioso documento del suo lavoro, furono distrutti, per costruire uno dei pochissimi esempi di architettura barocca delle nostre parti. Sarebbero trascorsi altri anni, e nel 1792 sei frati agostiniani, contro uno contrario, deliberarono l’abbattimento di altri affreschi che il destino aveva regalato alle chiese empolesi, quelli di Masolino da Panicale, in Santagostino.


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gioielli

Cristina di Lorena i gioielli e l’ostentazione del potere dei Medici Costanza Contu

Scipione Pulzone (Gaeta 1545ca- Roma 1598) Cristina di Lorena (1565-1637), Granduchessa di Toscana, 1590, Firenze, Galleria degli Uffizi Scipione Pulzone (Gaeta 1545ca- Roma 1598), Ferdinando I de Medici (1549- 1609) 1590 Firenze, Galleria degli Uffizi

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ristine de Lorraine (1565-1637), conosciuta a Firenze come Cristina di Lorena o “Madama Serenissima”, giunse in Toscana nell’aprile del 1589 come sposa del Granduca Ferdinando I de’ Medci (15491609). Era nata il 6 agosto 1565 dal duca Charles III de Lorraine e Claude de Valois ed era la nipote della Regina di Francia, Caterina dè Medici (15191589) che ne aveva seguito l’educazione fino alle trattative matrimoniali. Cristina crebbe alla corte francese e in quel clima aspro segnato dalle guerre di religione formò il suo carattere giungendo all’età della ragione in cui si necessitava la combinazione di un matrimonio di prestigio. Fu proprio

Caterina dopo diversi tentativi falliti, a individuare in Ferdinando I il futuro sposo, colui che divenne cardinale a 14 anni e Granduca a 38 in seguito alla morte improvvisa del fratello Francesco I deceduto senza eredi. Amante della bellezza, collezionista e mecenate, Ferdinando fu il promotore di tutte le arti e la sua ricchissima collezione di Villa Medici a Roma, oggi Accademia di Francia, ne è sicuramente l’esempio più eclatante e importante nella Roma del XVI secolo. Si circondò di professionisti eccelsi anche nel campo delle arti orafe; la sua ricerca artistica, tra memoria umanista e ostentazione di prestigio, si rifletteva nella collezione di gemme e di gioielli da esibire in pubblico e da tramandare nei ritratti. Fu probabilmente Ferdinando I a commissionare lo straordinario ritratto della consorte firmato con la dicitura “SCIPIO CAIETANUS FACEBAT” e datato 1590. Il dipinto, realizzato da Scipione Pulzone (1545 ca.-1598), fa parte della “serie aulica” di ritratti composta e voluta dal fratello di Ferdinando, Francesco I de’ Medici fra il 1584 e il 1586 per il corridoio di levante della Galleria degli Uffizi.1 La perfetta e sofisticata pittura del Pulzone ci permette di avere una visione precisa e dettagliata dei gioielli e degli ornamenti presenti in questo dipinto, esempi dei simboli della casata medicea e del suo potere; Cristina di Lorena indossa e ostenta infatti le “gioie di stato” ovvero quei preziosi che si tramandavano per via maschile, di Granduca in Granduca, non facevano parte della dote matrimoniale che ogni donna portava con sè dalla famiglia di provenienza e non sarebbero mai divenuti proprietà privata della Granduchessa.

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La lettura di alcuni documenti rintracciati in archivio ha permesso il loro riconoscimento e dunque la loro eterna sopravvivenza nella nostra storia e nella nostra cultura artistica. L’inventario delle gioie di Cosimo I (1519-1574), iniziato il 2 luglio 1566, dà la prima descrizione del collare indossato da Cristine; nel documento si dice che lo strepitoso gioiello era stato comprato da tale “Alvero Mendes” nel 1572 ed era stato realizzato con diamanti, rubini, completamente smaltato e munito di un pendente assai prezioso. Il collare è ancora presente nell’inventario delle gioie di Ferdinando I, iniziato il 14 agosto 1591, e nell’inventario di Ferdinando II (1621) dove il ‘prodigioso’ è descritto ancora intatto fra i preziosi della famiglia. Successivamente il collare scompare dagli inventari a causa di un suo probabile riutilizzo; era consuetudine, soprattutto in occasione di matrimoni, smontare i vecchi preziosi per crearne di nuovi e piu moderni seguendo la moda del momento. Nell’arco di tempo in cui si sono perse le tracce del collare si erano celebrati ben sei matrimoni e non è da escludere che le preziose gemme fossero state riutilizzate in queste occasioni. Il collare è composto di diamanti tutti tagliati “a tavola”,di grandi dimensioni e di “buon acqua” ovvero di buon colore in quanto simili al colore dell’ acqua e di rubini alcuni perfetti e bellissimi, altri caratterizzati da una serie di imperfezioni, le “botte e i diaccetti”. Tutto il gioiello appare impreziosito da elementi vegetali in oro smaltato e da piccole maschere e cartigli che rimandano ad alcuni importanti lavori d’oreficeria realizzati in questo periodo da artisti amati dal Grandu-


ca Ferdinando I come Jaques Bylivelt (1550-1603). Il prezioso forma una splendida “parure” con la cintura e la sua bellezza è esaltata dai tre fili di meravigliose perle “di perfetta forma e colore”, simboli di castità e purezza d’animo; le perle sono conservate nelle casse delle gioie fino al 1741 quando appaiono ancora descritte nell’nventario delle gioie di Anna Maria Luisa, Elettrice Palatina e ultima esponente femminile della famiglia. Queste magnifiche perle sono probabilmente le stesse donate a Cristina di Lorena da Ferdinando, insieme all’anello di fidanzamento, durante le complesse trattative matrimoniali. Sono sicuramente le stesse che suscitarono “allegrezza” alla corte francese perché confermavano la futura unione coniugale con Ferdinando: «Sua altezza se le messe al collo con tanto straordinario contento che non si basterebbe mai l’animo di esprimerlo et la Regina madre, che ne gongolava quasi più, volse che l’andasse subito a mostrare il presente alla Regina Regnante con tutto che fussero parecchie hore di notte. La mattina seguente n’hebbe la vista il Re principalmente. Da quel punto in qua questa signora perse il nome di principessa et si chiama hora per ogn’uno et sino da se medesima Gran Duchessa; et insomma è cosa

incredibile l’allegrezza che causò in tutta questa corte il detto presente»2. La cristallina perfezione della pittura del Pulzone attrae il nostro sguardo sui drappi luminosi sulla destra del dipinto che scoprono, come in un teatro, il gioiello più straordinario realizzato per i Medici: la Corona Granducale. Simbolo per eccelenza del potere e della ricchezza della famiglia, questo monile scintilla di gemme preziose, oro e smalti. Dopo il riconoscimento del titolo di Granduca, nel 1575, Francesco I volle una corona nuova che ben si confacesse al nuovo titolo acquisito, al nuovo rango e alla mutata condizione politica. Il lavoro fu affidato al Bylivelt e realizzato in sei anni, concludendosi nel 1583, anno in cui la Corona è registrata nell’inventario della Guardaroba. La Corona ben visibile in questo dipinto, compare descritta nei documenti d’archivio fino al 1741, quando l’Elettrice Palatina fece stendere l’inventario delle Gioie della Casata Medicea. Il prezioso monile venne poi utilizzato per l’Incoronazione di Pietro Leopoldo (1766) e probabilmente trafugato dai francesi nel 1799 visto che non compare piu negli inventari successivi a quella data.3 NOTE 1 I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, a cura di M. Sframeli, Livorno, 2003, pp.30 e pp.106-108 2 Il documento è pubblicato in R. Menicucci, Politica

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estera e strategia matrimoniale di Ferdinando I nei primi anni del suo principato, p.43, Ferdinando I de Medici 1549-1609 MAIESTATE TANTUM, Livorno 2009. 3 I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, a cura di M. Sframeli, Livorno, 2003, pp.106-108; I Gioielli dell’Elettrice Palatina al Museo degli Argenti, a cura di Y. Hackenbroch-M Sframel, Firenze, 1988, p.18


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ARTe

S i q u e i ro s il pianto universale

nella lettura di Maurizio Governatori Maurizio Governatori

Arnaldo Cipolla, Pagine africane, Edizioni Alpes, Milano, 1927 Il bimbo strilla, la madre prepara la sua pipa... (Alto Ubanghi), in Pagine africane Siqueiros, L’eco del pianto, 1937

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’opera di Siqueiros, L’eco del pianto, è sempre stata interpretata dai critici e storici dell’arte come derivante da un documento fotografico di guerra. Ho scoperto nel 1997 il legame di questa opera con la fotografia contenuta nel libro Pagine africane di un esploratore di Arnaldo Cipolla, datato 1927 (Alpes Casa Editrice Milano). Quella che all’inizio appare come un’intuizione, si rivela una scoperta di grande valore storico per la rilettura del quadro: David Alfaro Siqueiros trae ispirazione dalla foto per produrre l’opera, ed è stato Mario de Micheli, insigne critico d’arte e amico a confermare la mia ipotesi, certificandola in uno scritto sul mio muralismo. Il legame tra l’opera e la foto, rilevando il rapporto tra arte e fotografia, modifica l’interpretazione ufficiale del dipinto da parte dei critici, ne scopre un senso nuovo e assolutamente diverso. La foto non è affatto un documento storico di guerra, bensì una scena di vita familiare appartenente

alla quotidianità di una popolazione tribale africana. L’eco del pianto è pensato partendo da una situazione reale lontanissima dalla guerra. La fotografia si presenta dunque come pretesto per plasmare un’idea già elaborata dall’artista, ossia un elemento che contribuisce allo sviluppo del quadro, ma non ne costituisce elemento determinante. Nel quadro l’innocente pianto infantile familiare si tramuta in pianto universale, in pianto di angoscia immerso in un contesto di distruzione. Siqueiros produce un’immagine violentemente esasperata e straordinariamente decontestualizzata rispetto al documento che origina l’ideazione del dipinto. Questo non ne costituisce una copia, ma una vera amplificazione: la trasformazione del pianto comune in pianto assoluto, desolato in un paesaggio in rovina che sembra presagire una discarica urbano-industriale post-moderna già nel 1937, e rafforzato dalla dolorosa eco, che grava sul bimbo come se fosse destinata a perpetuarsi infinitamente. Questa scoperta riguardo uno dei quadri più importanti del Novecento, risulta essere unica a livello mon-

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diale. Il suo valore, oltre a chiarire alcuni aspetti relativi alla creazione e all’interpretazione del messaggio dell’opera, risiede anche nel felice rapporto dell’artista con la fotografia, che egli stesso ha sottolineato: «Senza gli insegnamenti della fotografia, non c’è soluzione verso un nuovo realismo in pittura». Questa dichiarazione, che esprime le teorie di Siqueiros sul “nuovo realismo” risale al periodo compreso tra il 1936, anno di fondazione del suo noto workshop, al quale partecipa Jakcson Pollok, e il 1937 anno di creazione de L’eco del pianto, accreditando ulteriormente la scoperta. Per questa opera, Siqueiros non utilizza solo la pirossilina, ossia un materiale comunemente usato in quel tempo per verniciare gli aerei, ma anche la fotografia. Ciò illustra parte della vastissima sperimentazione di Siqueiros a livello tecnico, importante per tutta la produzione artista successiva, compresa quella del Rinascimento Americano.


Maurizio Governatori, nato a Fermo nel 1950 e diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze ha lungamente lavorato, in Italia e vari paesi dell’America Latina, in opere d’arte murale, sviluppando la lezione di Siqueiros e del muralismo messicano. Dal 29 aprile al 21 maggio prossimi, Maurizio Governatori esporrà nella Sala degli Archi della Fortezza Nuova a Livorno, in tandem con il pittore pontederese Gianfranco Tognarelli, suo compagno d’Accademia. La mostra che si intitola Transiti, è stata promossa e patrocinata dal Comune di Livorno.

IL NUOVO MURALISMO DI MAURIZIO GOVERNATORI Mario De Micheli Ricordo sempre che Governatori mi ha suggerito l’immagine di quell’Eco del pianto dipinta da Siqueiros nel 37, che in realtà era soltanto la rappresentazione di un bambino dell’Alto Ubanghi che strilla disperatamente mentre la madre prepara la pipa per fumare: il bambino le è nelle spalle: ecco, Siqueiros ha dipinto questa scena in modo duplice, prima in grande e poi in piccolo. Nella seconda immagine, il bambino ha un succinto drappo rosso sul petto ed è in mezzo ai disastri della guerra, forse la guerra di Spagna, a cui Siqueiros ha partecipato contro Franco. Governatori ha fatto, a suo tempo, un ritratto fedelissimo di Siqueiros, rinnovando in Italia il fenomeno del “muralismo messicano”. Tuttavia è proprio in Italia che Siqueiros, incontrando a Parigi Rivera, dove tra l’altro Modigliani gli aveva fatto un ritratto, i due giovani artisti pensavano che i grandi affreschi italiani dal Tre al Seicento, li avrebbero favoriti ad intraprendere la loro nuova avventura. Senza dubbio la straordinaria pittura italiana li emozionò profondamente e quando ritornarono in Messico, insieme ad Orozco, cominciarono a fare , sia pure con tecniche diverse, i loro grandi dipinti. È quindi ricollegandosi con la nostra tradizione, insieme con la nuova tradizione messicana, che Governatori ha cominciato ad articolare i suoi murali con libertà e sicurezza. Per lui è stato un lungo processo, inizialmente abbastanza timido, ma strada facendo più sicuro, sino alle ultime opere, dove le immagini sono di una garanzia totale. C’è, voglio dire in tali immagini una autonomia ed una emancipazione che ne salvaguardano lo spirito. È così che egli intende la pittura murale moderna, che privilegia innanzitutto l’ambiente nel suo rapporto

con la città e nelle sue relazioni con l’architettura antica e senza dubbio anche con l’architettura moderna. A tale obiettivo, senza subire vecchie influenze, recupera un modo di intervenire nella situazione attuale. I linguaggi della pittura murale, nelle sue strutture compositive, devono rispettare il rapporto non solo con la parete esterna o interna, ma anche la possibilità di creare simboli nuovi, allegorie ed emblemi inusitati. Si tratta di ristudiare l’arte parietale in maniera nuova, integrando i valori scomparsi con quelli più recenti. Approfondendo il discorso sul linguaggio figurativo dell’arte murale italiana, egli trova immediatamente il rapporto con l’origine di quella messicana. La tecnologia è diversa, ricorrendo ai colori acrilici, ai silicati, alla nitro, agli aerografi e a quanto altro è necessario. Gli artisti dovrebbero quindi tenere presente questo fatto, ricorrendo agli architetti per stabilire dove collocare i loro murali, all’aperto o al chiuso. Si tratta quindi di un dato visivo necessario, tenendo conto che i murales dovrebbero risultare in funzione di nuovi particolari spazi. Soprattutto è decisivo che le immagini siano con l’intento di umanizzare la visione, perché solo in questo modo si possono realizzare. Governatori ne è cosciente, in quanto è cosciente del peso che hanno in Italia le tradizioni; anche se oramai da molto tempo si pratica sia la tendenza astratta o quella figurativa, ristretta tuttavia in genere ad un intimismo prezioso. Governatori realizza in maniera sicura una controtendenza. Egli cioè crea uno spazio che realizza in funzione simbolica, recuperando una antica attività espressiva. Oggi il suo intento è quello di realizzare, nelle varie città, una possibilità di intervenire nel contesto storico e

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moderno, con una pittura pubblica che nasca in nuovi spazi, al fine di dare respiro ad un’arte popolare. Questo è il suo proposito. L’ambiente urbano ha bisogno di questa pittura, ch’egli crede possibile per inaugurare la formazione professionale degli studenti. L’arte murale non è, come dice Governatori, un quadro da cavalletto ingrandito. È qualcosa di diverso. Non è perciò possibile intervenire con metodo tradizionale: la pittura murale è davvero qualcosa di diverso. Si tratta, nelle sedi dove è collocata, d’intervenire energicamente per darle una struttura ampia e sicura. Solo così la pittura murale avrà il senso che i grandi muralisti pensavano davvero di darle. Insieme con un gruppo di collaboratori, Maurizio Governatori ha realizzato un’opera di rilievo in Nicaragua. È un murale realizzato in acrilico nella sede del Palazzo Nazionale della Cultura. Si tratta di un’opera imponente, rara e preziosa, che rende giustizia come invenzione e come struttura sia al muralismo italiano che a quello internazionale. Governatori ha intitolato la sua opera “Ruben Darìo: dalle origini al futuro”. È una grande opera, preziosa di suggestioni e di impulsi, figurativa simbolista, con immagini a tutto campo e al tempo stesso quasi astratte. Io questa opera non l’ho vista, ho visto una serie di immagini che la rappresentano, tuttavia immagini esaurienti a rappresentarla: ci sono le astrazioni e le rappresentazioni, ci sono i suoi nudi straordinari ricchi di suggestione e di fascino. La figura di Rubèn Darìo, nel clima latinoamericano è molto popolare e Governatori la rappresenta coi suoi più distinti attributi. È difficile per me giudicare ma, se tanto mi dà tanto, credo senz’altro che sia una rappresentazione sincera e suggestiva.

Maurizio Governatori, Fuggiaschi, acrilico su tela cm 210x400


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restauro

Plautilla Nelli la prima pittrice fiorentina della storia Lucia Bucciarelli

Il direttore di AWA Linda Falcone esamina il codice manoscritto conservato al Museo di San Marco photo by Kirsten Hills Compianto con Santi Il codice manoscritto prima del restauro photo by Kirsten Hills

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irenze rende omaggio al Rinascimento femminile riconquistando l’altra metà dimenticata della storia dell’arte. Dall’8 marzo le sale della Galleria degli Uffizi ospiteranno per due mesi una mostra dedicata alla prima pittrice donna di cui si abbia notizia nella città di Firenze: Suor Plautilla Nelli. Firenze è ricca di opere d’arte realizzate dalle mani di donne artiste “invisibili” ed è per questo che Jane Fortune, insieme alla fondazione no profit statunitense Advancing Women Artists Founda-

tion, si è posta da ormai dieci anni l’obiettivo di riportare alla luce, restaurare e rendere fruibili al pubblico questi tesori sepolti nei musei e nelle chiese fiorentine. La Nelli è stata la prima ad aver avuto l’onore di essere salvata dall’oblio, e molte sue opere inedite restaurate grazie ad AWA saranno presenti all’esposizione, la prima di una serie di mostre annuali dedicate alle grandi pittrici della storia dell’arte di tutti i secoli trascurate dalla storiografia, su iniziativa di Eike Schmidt, direttore degli Uffizi. Le donne sono sempre state le muse privilegiate dagli artisti, raffigurate e ritratte dai pittori di tutte le epoche, ma è giunto il momento di raccontare le donne virtuose del pennello, partendo proprio da Suor Plautilla. La Nelli nacque nel 1524 e prese i voti da giovanissima, facendo l’ingresso a 14 anni nel convento domenicano di Santa Caterina da Siena, oggi non più esistente. Il convento era un importante centro di produzione artistica femminile, dove Plautilla da autodidatta ebbe la possibilità di studiare e di copiare i disegni del pittore domenicano Fra Bartolomeo. La religiosa usava i corpi femminili delle altre monache come modello per ritrarre anche le figure maschili. È per questo che i suoi dipinti sono caratterizzati da una dolcezza ed una grazia particolari e che le fattezze degli uomini hanno qualcosa di “femmineo”, come afferma Vasari. La Nelli ha infatti avuto l’onore di essere citata nelle celebri “Vite” del biografo toscano, vedendosi così inserita tra le protagoniste della storia dell’arte, alla pari dei suoi colleghi maschili. I suoi dipinti sono principalmente a soggetto sacro, come il Compianto con Santi, restaurato da AWA nel

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2006 e collocato nel refettorio di quello che è oggi il Museo di San Marco. Il restauro dell’opera ha dato il via nei successivi dieci anni ad una serie di interventi di restauro sui suoi lavori conservati nei principali musei di Firenze e della Toscana. Plautilla alla pari di tanti suoi colleghi uomini aveva una vena imprenditoriale e organizzò nel convento una bottega a cui presero parte altre monache, che divenne una vera fucina di creatività al femminile. La mostra agli Uffizi, curata da Fausta Navarro, studiosa della pittrice, è una finestra che permette di conoscere la vita monastica del Cinquecento fiorentino e il retroterra inesplorato di una Firenze spirituale. La curatrice intende mettere in luce l’attività della bottega, dove si producevano opere seriali per rispondere ad una grande richiesta da parte della nobiltà toscana. I suoi quadri votivi avevano infatti largo apprezzamento, tanto che trovavano regolar-


mente posto nelle stanze di numerosi palazzi e gallerie cittadine, come ci tramanda il Vasari stesso. Il convento di Santa Caterina di Siena, situato nelle vicinanze del Convento di San Marco, che conta tra i suoi membri più eminenti il pittore

Beato Angelico e il riformatore moralista Girolamo Savonarola, era un florido centro culturale dove l’artista ebbe la possibilità di cimentarsi anche nella miniatura. Nella rassegna saranno presenti anche due codici manoscritti freschi di restauro prove-

nienti dal Museo di San Marco, che contengono due miniature realizzate dalla Nelli con figure di monache che accompagnano le grandi lettere d’apertura delle pagine. Con questa mostra Plautilla, pittrice finora trascurata dal mondo dell’arte, riconquista il suo posto nel Rinascimento fiorentino. Ma il cammino per il recupero e la salvaguardia dei suoi lavori perduti è ancora lungo, e AWA continuerà il suo viaggio alla riscoperta delle donne invisibili di Firenze. Per rimanere aggiornati sui progetti della fondazione visitate il sito: www.advancingwomenartists.org

La Santa Caterina con il giglio dopo il restauro, photo by Dominigue e Rabatti Jane Fortune ammira una lunetta di Plautilla Nelli nel cenacolo di San Salvi, photo by Leo Cardini Prova di pulitura della Santa Caterina con il giglio, photo by Francesco Cacchiani Manoscritto antico (1568) a San Marco con Natale Cerbera photo by Kirsten Hills

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porcellana

che lusso una presa di tabacco

tabacchiere primo periodo Manifattura Ginori Gino Turchi

Tabacchiera a forma di testa di cane mastino con montatura in argento dorato. Circa 1750. Raccolta privata. Fornello da pipa modellato nella parte frontale con mascherone a grottesca lumeggiato in oro. Circa 1755. Raccolta privata. Tabacchiera ovale a bassorilievo istoriato. All’interno del coperchio un dipinto in monocromo viola che rappresenta “Il ratto d’Europa”. Montatura in argento dorato. 1750-1755. Raccolta privata. Grande tabacchiera da tavolo in bassorilievo istoriato dove sono rappresentate le teste dei cesari, mentre all’interno sono rappresentate due figure ottenute mediante tecnica “a riporto”. 1750-1760. Montatura in argento dorato. Raccolta privata. Tabacchiera rettangolare al cui interno è dipinta una figura femminile in paesaggio violetto. Montatura in argento dorato. 1750-1755. Raccolta privata. Tabacchiera ovale definita anche degli “Eresiarchi”. Sul coperchio in policromia sono dipinti gli Eresiarchi, coloro che professavano la fede protestante, mentre all’interno sono ritratti sei difensori della fede. Tabacchiera di grande qualità pittorica legata in argento dorato. Circa 1760. Raccolta privata. Tabacchiera ovale decorata a mazzetti di fiorellini policromi su fondo bianco. All’interno del coperchio sono dipinte due figure nel paesaggio in monocromia porpora . Montatura in argento dorato. Circa 1775. Raccolta privata.

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er i Maya il fumo del tabacco non costituiva tanto un piacere ed un divertimento, quanto un mezzo di comunicazione con gli dei, al pari della preghiera, con significato simile dunque a quello del fumo d’incenso nella tradizione cristiana. Cristoforo Colombo fu il primo europeo a possedere foglie di tabacco. Bartolomé de Las Casas narra con precisione, nella sua versione ridotta del giornale di bordo, del primo viaggio di Colombo, cosa avvenne la mattina di venerdì 12 ottobre 1492, quando Colombo ed i suoi uomini, dopo un viaggio di 71 giorni, sbarcarono su un’isola chiamata Guanahaní e da allora ribattezzata San Salvador. Sulla spiaggia numerosi nativi gli si fecero incontro e gli offrirono doni tra cui “foglie essiccate che emanano un forte odore”. Colombo accettò le foglie di tabacco e le fece portare a bordo, poi però, non sapendo cosa farsene, le fece gettare in mare. Successivamente però la pianta del tabacco ebbe un crescente successo in Europa tanto che appena 40 anni dopo la sua scoperta, nel 1530, il tabacco arrotolato era già di moda in Spagna e pertanto nel 1531 gli spagnoli furono spinti ad iniziare le pri-

me coltivazioni di Nicotina rustica a Santo Domingo e nel 1534 di Nicotina tabacum a Cuba. Da parte loro i portoghesi cominciarono a coltivare il tabacco a scopo commerciale in Brasile già nel 1548, e poi in Portogallo. Pertanto il tabacco risulta ufficialmente coltivato per la prima volta in Europa, nel giardino reale di Lisbona nel 1558. Nel 1560 l’ambasciatore francese a Lisbona Jean Nicot de Villemain spedì dal Portogallo in Francia semi di Nicotiana rustica, per farne dono alla regina, a scopo ornamentale e medicamentoso. La Regina di Francia Caterina dei Medici impiegò il tabacco per curare gli attacchi di cefalea suoi e del figlio Francesco II e fu così soddisfatta dei risultati, da decretare che da quel momento in poi la pianta fosse chiamata in Francia Erba Regina. La moda del fiutare tabacco iniziò, sin dal 1638, a diffondersi anche in Cina e successivamente in Inghilterra dal momento che proprio il nuovo re Carlo II, tornando nel 1660 con la sua corte dall’esilio di Parigi, aveva adottato l’abitudine di fiutare, ritenendolo il metodo più aristocratico per utilizzare il tabacco. Nel 1700, un borghese che aspirasse a divenire un vero gentleman, doveva fiutare tabacco. Il tabacco da fiuto, a volte profumato, era molto costoso e pertanto riservato alle classi sociali più elevate. Preziose tabacchiere d’oro e gioielli, veri capolavori d’oreficeria, divennero il vero status symbol dell’epoca. Come veri gioielli questi piccoli cofanetti, creati per difendere il tabacco dall’aria che tende a farlo asciugare e a rovinarne la qualità, avevano decorazioni in oro, smalti, inserti in madreperla e pietre preziose, ma soprattutto erano in raffinata

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porcellana. Ogni pezzo era una vera opera d’arte e nell’insieme offrono anche una panoramica della produzione di porcellane europee più pregiate, da Meissen, a Vienna da Ginori a Sèvres. Carlo Ginori (1702-1757), nella Villa di Doccia alle porte di Firenze, nel 1739 costruì il primo forno per porcellane. Consapevole delle difficoltà del proprio disegno, Carlo Ginori si affidò all’esperto pittore e doratore di porcellane Karl Wendelin Anreiter, attivo presso la Manifattura viennese di Du Paquier, al pittore Giuseppe Romei ed allo scultore ed accademico del disegno Gaspero Bruschi, assunto nel 1737 come capo dei modellatori. La produzione di Doccia si caratterizzava per decori del vasellame, assolutamente originali, a “doppia parete”, nei modi di prototipi cinesi, a ”stampa”, a “riporto”, a “bassorilievo istoriato”, a “cineserie”, e stemmati. Mentre le sculture, perlopiù bianche e di grandi dimensioni, trasferivano in porcellana modelli in cera e bozzetti dei grandi scultori manieristi e tardo-barocchi fiorentini.


Carlo Ginori ovviamente non trascurò la produzione delle cosi dette “galanterie”, che per il loro costo costituivano il settore di produzione tra i più proficui per la Manifattura. La prima ricerca sistematica di questa produzione si deve a Leonardo Ginori Lisci che in virtù dell’Archivio di famiglia (AGL, 1963) riuscì a documentare ed identificare per la prima volta numerose tabacchiere ed altre galanterie. Per questa particolare produzione, per la maggior parte figurata e policroma, era costituita, oltre che dalle numerose tabacchiere […nel 1741 ne furono prodotte ogni mese a centinaia: il modellatore Pietro Orlandini, nel solo mese di agosto, modello ben 485 tabacchiere e nel settembre altre 488.], e anche da porta profumo, porta aghi, e pomi per spade e bastoni , impugnature di posate, fornelli da pipa. In questa attività la fabbrica di Doccia si pone su un piano di assoluta eccellenza europea utilizzando, fin dai primi anni di attività, i suoi migliori pittori e scultori per eseguire le decorazioni e le forme. Ovviamente il lavoro dei pittori e scultori era affiancato da un “Laboratorio degli argentieri”, per rifinire o “legare” in metallo prezioso le “galanterie”, sotto la direzione del francese JeanFrançois Racein (già presente a Doc-

cia già prima del 1745) e del tedesco Johann Georg Komette fino al 1747 poi sostituito da Michele Taddei. Questa particolare produzione proseguì con successo, anche se con una minore qualità artistica, oltre la seconda metà del XVIII secolo, quando l’uso di sigari e della pipa prese il sopravvento sull’uso del tabacco da fiuto. Comunque ancora sul finire del Settecento venivano scritti libri per l’uso del tabacco da fiuto in particolare in presenza di signore. …”Chi prende tabacco, dev’essere sempre fornito di eleganti e moderne tabacchiere, e tali da eccitare la curiosità delle belle, con cui potesse trovarsi. Dotato di siffatti prestigi un elegante non si farà mai conoscere da una bella né qual fumatore, né qual facente uso di tabacco da naso, se prima non avrà saputo cattivarsi il di lei affetto; allora, ne siamo malevadori, che lungi dal tornare ad esse spiacevole, per le succennate mancanze, comechè siano avverse al fumo o al tabacco, si vedrà sollecitato anzi a passar in lor compagnia fumando o prendendo tabacco; laddove altrimenti avrebbe dovuto allontanarsi onde non recar loro dispiacere; e s’accorgerà del detto del celebre Thomas Corneille: “Vivere non merita chi ha il tabacco in sdegno”.

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VISIBILE PARLARE

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ruota della fortuna Roberto Giovannelli

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asseggiando, a Napoli, intorno a Piazza Miraglia, nel curiosare per librerie antiquarie, botteghe di artigiani e banchetti di ambulanti, fra un rimescolio di odori, un brulichio di gente e un risuonare immaginoso di voci e richiami dialettali mulinanti in aria fino a suggellare bizzarri arabeschi alfabetici nella volta di un cielo turchino, mi trovai davanti una spiritosa figura simile ad un Pulcinella, che, senza avermi mai visto né conosciuto, mi salutava, Professò, professò, i numeri fortunati del Lotto... professò il Libro dei sogni..., aggiungendo poi: Tutti i giorni non verranno mai di notte, e le domeniche son tutte di festa... Eccome ccà... eccome ccà...

un foglio o specchietto di numeri della Fortuna, un foglio in quarto, quasi un libretto da risma, che un pappagallino, in bilico su una spalla del venditore, pescava per me con il becco adunco e aranciato, casualmente da un gran bussolo. Quell’animaletto, dal piumaggio acceso di verde, di blu marino e di giallo, mi convinse all’acquisto per la garbata diligenza con cui eseguiva il compito che gli era stato assegnato. Inoltre, per un bizzarro automatismo mentale, la sua capricciosa silhouette mi ricordava la descrizione di uno spillo prezioso con l’effigie di un multicolore pappagallo che Giuseppe Giusti amava appuntare, come segno d’eleganza, e forse quale ironico emblema della pedestre inclinazione imitativa degli uomini, al bavero della giacca in particolari convegni mondani. segnava anche una deliziosa figurina xilografica raffigurante, come in certe carte del gioco dei Tarocchi, la Fortuna in guisa di nuda figura femminile. Una Bona Fortuna in piedi su un delfino nuotante fra le acque agitate del mare, e recante nella destra una vela gonfiata dai capricci del vento. Immagine ripresa non so da quale antico volume, alla quale avrei potuto accostare, come estremo vertice espressivo, quella sublime versione della Fortuna dipinta da Guido Reni: nuda e fuggente, regge nella mano sinistra scettro e palma, e – come osserva Winckelmann – girando un’aurea corona colla punta delle dita della mano destra, si libra al di sopra del globo terrestre, mentre un intrepido fanciullino alato la trattiene per i capelli tirandola indietro.

Codesto pittoresco “eroe”, assimilabile alla famiglia dei personaggi delle Arti per via riprodotte da Giuseppe Maria Mitelli, m’invitava all’acquisto di

Un altro elemento mi convinse volentieri al piccolo acquisto, fu costatare che, assieme ai numeri della raggiungibile felicità, il pappagallino mi con-

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Sul retro del foglio che la sorte mi assegnava, oh meraviglia, vi era un’altra metaforica figura rappresentante questa volta La ruota della Fortuna, ove diversi personaggi, uomini e donne, s’ingegnavano a salire, mentre


De fortunæ mutabilitate, illustrazione xilografica, in «Stultifera navis» di Sebastian Brant, edizione di Basilea, 1498.

altri, al culmine di quella, vi sostavano tranquilli, e altri ancora, giunti al volgere del giro, vi si aggrappavano con forza per non cadere, e in fine altri che, avendo perso ogni appiglio, precipitavano a terra. La mia passione per le immagini popolari, devozionali e profane, coltivata sin da ragazzo scartabellando fra libri e fogli del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, per bancarelle e librerie fiorentine, nei pozzi sterminati della milanese Raccolta Bertarelli o nel Catalogo remondiniano, rimase

felicemente colpita da quel filosofico incontro che aveva tanti antichi e nobili precedenti nei rigonfi stipetti dell’iconografia (lavori tra i quali mi balzava alla mente un’incisione riprodotta nella Stultifera navis di Sebastian Brant). Sotto quella ruota si leggeva un versetto invitante, malgrado la certezza del pericolo, a tentare comunque la sorte, e a non sottrarsi al rischio e all’avventura: Se lo scendere è fatale Mai non scende chi non sale.

Soddisfatto del mio foglietto e delle simboliche scene che lo ornavano, pensai che, prima o poi, avrei messo mano a quegli stessi soggetti in disegno o in pittura. A ciò m’invitava anche il numero 13 impresso tra quelli propizi, capogioco a me carissimo, benché seguito da un’ermetica quartina, una cabaletta non proprio rassicurante:1 Chi entra in questo loco S’alloggia alla Fortuna L’amor di donna bruna È zero e non fa gioco. NOTA 1 In merito alle superstizioni e pratiche rituali legate all’estrazione dei numeri, vedi l’ironico libretto di Michele Zezza, La smorfia ossia il nuovo metodo per perdere danaro, e cervello con maggior sicurezza al gioco del lotto, Napoli, dai torchi della Società Filomatica, 1835.

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Roberto Giovannelli, 2016, “Primo figurante”, studio per La ruota della Fortuna, fusaggine e olio su carta da scena, cm 30x40 Roberto Giovannelli, 2016, “Secondo figurante”, studio per La ruota della Fortuna, fusaggine e olio su carta da scena, cm 40x30 Roberto Giovannelli, 2016, La ruota della Fortuna, disegno in fusaggine su tela grezza di cotone, cm 155x205, dello stesso seguono a fianco un particolare e uno studio Roberto Giovannelli, 1997, studio per La Fortuna nel punto della ruota, olio su tela, cm 130x100 Roberto Giovannelli, 1997, studio per La Fortuna nel punto della ruota, disegno in fusaggine lumeggiata in biacca su carta da scena, cm 140x110


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arte

convocazioni

al Castello di Grotti in memoria di Sergio Vacchi arte musica parola

Nicola Micieli

Nella ricorrenza del primo anniversario della morte del maestro Sergio Vacchi, il 15 gennaio, la Fondazione Vacchi, con il patrocinio dell’Accademia delle Arti del Disegno, del Comune di Monteroni d’Arbia e della Regione Toscana, lo ha ricordato, con una giornata di studio alla quale hanno partecipato Antonio Natali, Andrea Granchi, il Sindaco del Comune di Monteroni d’Arbia, Gabriele Berni e Nicola Micieli. Nel giardino del Castello di Grotti, sede della Fondazione, è stata inaugurata, sulla tomba dell’artista che là riposa, la scultura di Adriano Bimbi Limen, ovvero la soglia tra il qui e l’altrove. È stata quindi inaugurata una mostra di artisti toscani dal titolo Convegno, curata da Nicola Micieli. Nelle sale espositive e nel giardino all’italiana del Castello di Grotti, sono state esposte le opere di Marcello Aitiani, Adriano Bimbi, Cesare Borsacchi, Giuseppe Calonaci, Stefano Cecchi, Renzo Galardini, Andrea Granchi, Fulvio Leoncini, Romano Masoni, Carlo Pizzichini, Augusto Perez, Stefano Tonelli e Luigi Zucconi. La serata si è conclusa con l’ascolto piacevole del concerto dei maestri Giacomo Granchi e Simone Butini.

to, i candidi capelli filano sulle guance e sulla spalla. La mano tenuta al mento e sull’angolo della bocca serrata, par rattenere la parola, e induce la riflessione. Gli occhi chiari si mostrano distorti: lo strabismo d’una pupilla segnala la trasversalità dello sguardo dell’artista. Riflettevo dunque alla stagione ultima – gli anni dal 1997 dell’insediamento al Castello di Grotti, al 2010 della “deposizione” dei pennelli per un proseguimento del dipingere ormai tutto mentale – d’una ricerca pittorica calata anche in termini problematici nella storia, ma radicata nel profondo e rivelata sulla soglia tra il qui e l’altrove del reale. Osservavo insomma che con il buen retiro di Grotti, mutava di morfologia e registro espressivo l’ambientazione abituale del teatro di oggetti e figure emblematiche del vissuto e della mitografia di Vacchi. La scena che era data un tempo

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Il Castello di Grotti sede della Fondazione Vacchi

iflettevo su “gli anni di Grotti” di Sergio Vacchi, a conclusione d’un mio servizio, In viaggio con Vacchi, su Reality (2014). In copertina compariva un rivelatore Autoritratto del 1986 di spirito rembrandtiano. Il volto di Sergio appare coronato da un basco rosso, a connotazione rituale e passionale, e penso alla muleta rosso sangue che Sergio faceva agitare a Picasso toreador giocoliere, nelle sue due versioni de La corrida di Pablo (1999-2000). A contorno del vol-

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sotto specie di purgatoriale habitat palustre, di piscina lustrale, di landa desertica o di brulla spiaggia, di stanza iniziatica o di antro e radura sciamanica, prese a coincidere per lo più con gli interni medievali e gli esterni del Castello dove Vacchi aveva scelto di risiedere. Il severo castello era assunto quale luogo ideale d’una pratica che doveva farsi sempre più coinvolgente: quella delle “convocazioni”, ovvero le chiamate al proscenio e le evocazioni di personaggi in vario modo ascendenti e nodali nella genealogia artistica e intellettuale di Vacchi. Dal castello munito di contrafforti si generava altresì un profilo urbano altrimenti turrito, da paesaggio newyorchese stranamente commisto o alternato a piramidi, in una improbabile “comunicazione” architettonica. Alla quale faceva eco la comunicazione travestita, via telefonino, tra una scimmia


e i convocati – ma non sempre convenuti – agli incontri interculturali, la loro parte esoterici, apparecchiati da Vacchi in maschera di Arlecchino. Parlo della serie tra 2000 e 2002 che va da Comunicationis religio a Greta Garbo a New York a Una rosa rossa per Francisco Goya a La chiamata deserta a Passaggio a Nord Ovest, e sono Goya e la Garbo, appunto, Strehler, De Chirico, Bacon, Picasso, Morandi, Dix e altri spettrali spettatori a cui sembra destinata la comunicazione del nostro tempo, e Vacchi opponeva il disperato esorcismo delle convocazioni e dei conviti che sembrano le inenarrabili prove generali d’un inedito giudizio universale prossimo venturo, almeno da rimandare con l’esercizio salvifico della memoria. Tra i più assidui chiamati alle adunanze di Grotti, incontriamo difatti Marcel Proust. Con Proust si manifestano sulla scena oppure posano per un ritratto ideale Samuel Beckett, Kafka, Savinio, Dix, Longhi, Arcangeli, Montale, Viani, Fellini e altri amici e personaggi contemporanei e storici da Vacchi amati e ammirati per un qualche aspetto della loro personalità, anche in distonia delle rispettive scelte di fondo esistenziali e culturali. È andata così costituendosi un’affollata galleria di ritratti ideali, presenze poetiche sottratte al cono d’ombra dell’oblio, richiamate all’interlocuzione muta da un artista che ha dato udienza a ogni voce dell’immenso pianeta dell’arte di tutti i tempi, capace di far risuonare, per simpatia, le corde della sua sensibilità, suscitando emozioni slanci irrequietudini magnetismi malie suggestioni allarmi, comunque illuminazioni capaci di innescare nel suo immaginario nuove concatenazioni creative. Nell’ultima sua stagione creativa vissuta a Grotti in operosa riservatezza, quando la comunicazione personale e quella mediatica diventavano pro-

dotto di consumo distribuito on line in tempo reale su rete planetaria, e si riduceva ai minimi termini la possibilità d’un deposito persistente di esperienza e di crescita umana e spirituale legata alla comunicazione, Vacchi ha da pittore riflettuto sull’idea che gli incontri e i colloqui delle personalità e delle culture nel tempo e attraverso il tempo, sono alla base della creatività che voglia dirsi ancora informata a un residuale umanesimo, e che l’arte nasce dall’arte nel senso che traduce – e tradisce – in nuove declinazioni, il fiume carsico d’un linguaggio nel quale confluiscono i rivoli di numerose fonti, ognuna delle quali ha in qualche modo investito la sensibilità e l’immaginazione dell’artista. Nella ricorrenza del primo anno dalla morte di Sergio Vacchi, richiesto da Marilena Vacchi di ricordare l’artista

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con una mostra informata allo spirito dell’incontro e del colloquio, appunto, ho pensato di ordinarla convocando a Grotti dodici artisti toscani sotto l’insegna del “Convegno”, ognuno in qualche modo legato allo spirito della Fondazione. Li ho chiamati certo per il loro valore, ma numerosi altri avrebbero potuto allo stesso titolo partecipare, e devo dire che li ho scelti nel novero degli artisti a me particolarmente vicini, per una sorta di mio investimento personale nell’omaggio memore all’amico Maestro. Non si può parlare di un loro possibile riferimento stilistico al mondo di Vacchi. La complessità del linguaggio, dell’evoluzione stilistica e del mondo visionario maturato da Sergio Vacchi in un sessantennio di pittura, evidentemente non esclude che il lavoro di ognuno dei nostri artisti, nonché svelare una qualche discendenza, consenta di riandare a un aspetto di quella complessità, che è poi la logica delle corrispondenze sempre verificabili nei linguaggi aperti delle arti.

L’inaugurazione della scultura Limen sulla tomba di Sergio Vacchi La deriva delle cose, installazione di Carlo Pizzichini I violinisti Giacomo Granchi e Simone Butini in concerto


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ARTE

Essere Forte MADE IN FORTE 1.0. Percorsi d’arte e di luce

Margherita Casazza

Gustavo Aceves LAPIDARIUM, resina e sabbia Helidon Xhixha Opera Monumentale, marmo Versilys Caterina Tosoni Metamorfosi, legno e materiali plastici

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na rassegna d’arte contemporanea nata dalla volontà di riportare l’arte al centro della vita cittadina, riconoscendo non solo l’importanza di vivere immersi nel bello estetico, nella pienezza e nell’appagamento dei sensi, ma anche la funzione di stimolo svolta dall’abitare quotidianamente una dimensione progettuale, in continuo divenire, un catalizzatore di energie e risorse creative, che si rivolge a un pubblico di collezionisti e amanti dell’arte e del bello, costituendo un’occasione unica per visitare Forte dei Marmi trasformata in un museo a cielo aperto. Una tradizione quella del Forte che, oltre ad essere il luogo d’incontro per eccellenza fra grandi artisti ed intellettuali, è anche luogo storicamente votato alla produzione artistica. I curatori Beatrice Audrito e Davide Sarchioni hanno selezionato un gruppo eterogeneo composto da nove artisti, differenti per generazione, provenienza e linguaggi espressivi. Dopo un sopralluogo e un attento studio urbanistico, sono state individuate nove location dove gli arti-

sti daranno forma alla loro visione: Gustavo Aceves, Thomas Lange e Matteo Nasini hanno ideato, per l’area del pontile, opere estremamente poetiche lavorando con le suggestioni offerte dal mare. Antonio Barbieri, Valentina Palazzari e

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Caterina Tosoni hanno raccolto gli stimoli provenienti dal tessuto urbano della città per riflettere sulla realtà quotidiana. Oliviero Rainaldi e Helidon Xhixha, lavorando rispettivamente la terracotta e il marmo, offrono momenti di intima contem-


mente ideato dall’architetto Alberto Bartalini e realizzato dall’azienda Reica Luminarie. L’itinerario, potrà essere percorso piacevolmente a piedi o in bicicletta, di giorno e di notte grazie a un’illuminazione appositamente studiata.

plazione sull’umano e sulla natura. Infine, Gregorio Botta, la cui opera è collocata all’interno del Fortino, luogo simbolo della città, stimola una riflessione filosofica tra concetto e materia. Gli interventi artistici realizzati, riportati su apposite

mappe, andranno a scandire un eccezionale percorso d’arte urbano che si snoderà tra le vie del centro con opere e installazioni collocate nei punti nevralgici della città, culminando in Piazza Marconi con un allestimento luminoso apposita-

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MADE IN FORTE 1.0. Percorsi d’arte e di luce, a cura di Beatrice Audrito e Davide Sarchioni Un progetto promosso dal Comune di Forte dei Marmi, CCN “Essere Forte e patrocinato dal MiBACT Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo 18 Febbraio - 31 Maggio 2017 inaugurazione: sabato 18 febbraio, ore 16.00 presso la terrazza del Fortino


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L’arte in italia

ITALIAN HOURS

BELLINI E I BELLINIANI

FRANZ ANTON VON KOFLER

17 febbraio 2017 19 MAGGIO 2017

25 febbraio 2017 18 giugno 2017

16 novembre 2016 31 ottobre 2017 Bolzano

Firenze

Conegliano Veneto

Istituto Olandese

Palazzo Sarcinelli

Museo Mercantile

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na Firenze variopinta traspare nei 28 dipinti dell’olandese Ramón van der Ven, rappresentazione temporale di luoghi mitici, caratteristici, onirici, idealizzati attraverso sapienti melange del colore e tecniche virtuose applicate al bel dipingere, cogliendo sfaccettate caratteristiche legate allo scorrere giornaliero del tempo. Momenti aggregativi, Uffizi, Boboli, Istituto Olandese, colli, strade panoramiche splendono di fulgida bellezza interiore impressa nelle tele trasudanti sensazioni, emozioni, pathos, che il maestro ha interiorizzato nella sua permanenza fiorentina, circondato da monumenti ed un paesaggio naturale ineguagliabile. Ed è l’attenta osservazione della realtà intrisa da fulgida luce a distinguere l’operato artistico di Ramón, cogliendo così la lezione seicentesca di grandi maestri italici e non solo, caratteristica impressa anche ai ritratti veristi “sight-size”.

l nuovo progetto espositivo perfeziona la macchina comunicativa guardando alla grandeur artistica di Giovanni Bellini, maestro squisitissimo, riferimento musivo in territorio veneto per giovani leve e pittori affermati. Così, Palazzo Sarcinelli glorifica la scuola belliniana senza trascurare opere splendide legate al grande maestro, basti menzionare Cristo Portacroce, esaltazione della fragilità divina supportante il suo sacrificio umano. Grazie alla rodigina Accademia dei Concordi, Marco Bello, Andrea Previtali, i Santacroce, Luca Antonio Busati, Pasqualino Veneto, Jacopo da Valenza, Nicolò Rondinelli, allievi, collaboratori, ammiratori dell’artista, trovano degna trasparenza nella iniziativa coneglianese, che ne coglie aspetti fisiognomici, strutturali, comunicativi attraverso il recupero paesaggistico pedemontano oppure periferie di ambientazione bucolica.

a trasformazione socio-economica bolzanina di fine ottocento rivive attraverso Franz Anton von Kofler, personaggio condizionante cambiamenti e innovazione in una città caduta in secondo piano nella rotta dei flussi commerciali. Imprenditore sagace, Kofler rompe col passato obsoleto portando nuovo ossigeno in campo industriale grazie ad un innovativo cotonificio, prima fabbrica in zona realizzata secondo i nuovi canoni manifatturieri del tutto inesistenti in città. La mostra celebra questo grande personaggio per i suoi meriti in campo economico, evidenziandone anche la squisita sensibilità verso l’arte, che si manifesta nel recupero e valorizzazione di ben tre castelli, anticipando le moderne istituzioni preposte allo scopo. In tal senso, le sale espositive custodiscono orgogliosamente documenti, dipinti, materiali inediti provenienti da prestatori pubblici e privati.

José Yaque, Alluvione d’Arno per Know-how / Show-how 4 febbraio - 2 aprile 2017

Santa Croce sull’Arno

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Villa Pacchiani

Villa Pacchiani, l’artista presenta due grandi installazioni pensate appositamente per gli interni e gli esterni del centro espositivo, una serie di dipinti e disegni realizzati negli ultimi anni, supportati da scenografici disegni inediti legati a questo progetto. La mostra esterna tematiche riflessive relative alla sostenibilità operativa nel mondo contemporaneo: vita di oggetti e materiali, idea del recupero, idea dei rifiuti pensati come rappresentazione ’identificativa per i territori nostrani in evoluzione. L’idea del fluire, del detrito, del perenne cambiamento, dell’evento catastrofico che genera una nuova forma di bellezza - tutti concetti che tornano nella ricerca dell’artista - si concretizzano nelle due installazioni inglobanti la vita del fiume, la vita e le cose degli uomini. Dipinti e disegni molto interessanti, relativi a esperienze eterogenee, interiori, partecipate, si dispongono all’interno dello spazio espositivo occupandone un’ala.

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Carmelo De Luca

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e realtà, anima e trascendenza, silenzio e movimento. In questo contesto nascono innovative reinterpretazioni di importanti capolavori legati all’arte universale, fonte meditativa sulla condizione umana vincolata dalla condizione vitamorte. Così Palazzo Strozzi dedica al maestro una copiosa retrospettiva incentrata sulla sinergia tra nuove tecnologie e riflessione estetica, che trova supporto nel dialogo tra importanti dipinti del passato, sospirate muse per l’artista, e una personale interpretazione delle medesime. La mostra coglie perfettamente l’essenza insita nella produzione di perfetta sintonia tra immagine, spazio, suono, esteriorizzata da il pensiero artistico del maestro, teso a rappresentare l’umanità dialogante con la natura. L’esposizione trova degno proseguo nel Museo del Duomo Fiorentino grazie a due importanti video, Observance e Acceptance, in armonica intesa con le arcifamose Maddalena penitente e Pietà Bandini, opere sublimi che comunicano dolore, sofferenza, religiosità.

estro attraverso la S. Agnese di Montepulciano, accolta nella Pinacoteca Crociani insieme ad opere di emeriti maestri cinquecenteschi chiamati Fra’ Bartolomeo, Girolamo Genga, Andrea del Bresciano, che ne connotano interazioni scolastiche e personalità artistica. S. Quirico D’Orcia omaggia Bartolomeo Neroni con la tenera Madonna col Bambino e Santi, alla tarda produttività del Sodoma, eminenti figure che hanno lasciato pregevole operato artistico in questa ridente cittadina, basti segnalare Marco Pino, Giorgio di Giovanni, Giomo del Sodoma. Pienza rinascimentale ossequia Francesco Rustici attraverso la magnifica pala Madonna, Gesù Bambino e Santi della Chiesa dedicata a S. Carlo Borromeo, supportata da opere approcciabili alla sua formazione pittorica ed evoluzione stilistica, protese verso quel naturalismo raccontato in mostra dai contemporanei Niccolò Tornioli, Bernardino Mei, Astolfo Petrazzi, Rutilio e Domenico Manetti. Conventi, palazzi, pievi, borghi, disseminati in questi luoghi, completano la scoperta di tesori nascosti nel bel senese.


PHILLIP MARTIN 4 FEBBRAIO 2017 7 MARZO 2017 LIVORNO Galleria Peccolo di Silvia Pierini

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a storica Galleria Peccolo, a Livorno, prosegue il percorso espositivo con la serie di personali dedicate ad artisti contemporanei dal titolo “Grandi isolati”. Sono artisti che pur operando in sintonia con l’arte del loro tempo, ad un certo punto hanno deciso di ritirarsi dalla scena artistica, per continuare il proprio lavoro lontano dai clamori e non subire pressioni dal mercato. I riflettori, sono puntati su PHILLIP MARTIN (Cork, Irlanda 1927 – Sydney 2014), definito dal noto critico francese Alain Jouffroy: «il Gandhi della pittura moderna». Un artista giramondo che ha dipinto quadri “spirituali” colmi di simbologie ed effigi con decorazioni a evocare paramenti sacri o addobbi di templi orientali. MARTIN ha cominciato a dipingere a Londra nel 1948 incoraggiato anche dall’amico pittore Alan Davie. In seguito, con la moglie ha iniziato irlandese Helen Marshall a viaggiare e dipingere in tutta Europa; in Austria e a Vienna, avviando così la serie di opere “Affiche-Collage”, un tema che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica.

Ha soggiornato e esposto i dipinti a Parigi, in Irlanda, Italia, Belgio, Spagna; ha soggiornato a lungo in India del sud e, a partire dagli anni ‘80, si è stabilito in Australia nei pressi di Sidney. La prima personale italiana è stata a Firenze nel 1951 alla Galleria di Fiamma Vigo. Le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche, istituzionali e private di tutto il mondo. PHILLIP MARTIN è deceduto nel suo ritiro di Sidney nel 2014 all’età di 87 anni, dipingendo l’ininterrotta serie di “Affiche/Collage” fino agli ultimi giorni di vita. Oggi, a tre anni dalla scomparsa e in occasione della ricorrenza dei 90 anni dalla nascita, la Galleria Peccolo gli dedica questo “omaggio postumo” in cui sono esposti suoi lavori su tela e su carta degli anni tra il 1951 e il 1981. La mostra è accompagnata dal catalogo sulle opere esposte con prefazione del critico Valerio Dehò e un’acuta testimonianza, sul personaggio e sull’artista Phillip Martin, del noto artista/collezionista Guglielmo Achille Cavellini, che e’ stato suo mecenate ed estimatore sin dagli anni Sessanta.

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TIEPOLO E IL 700 VENETO 25 FEBBRAIO 2017 14 MAGGIO 2017 San Secondo di Pinerolo Fondazione Cosso

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l vicentino Palazzo Chiericati protagonista della nuova mostra grazie ai meravigliosi prestiti che raccontano, attraverso sculture, dipinti, incisioni, disegni, acqueforti,

Una storia d’arte La Fondazione Ragghianti e Lucca 1981-2017 4 Marzo 2017 17 APRILE 2017 LUCCA Fondazione Complesso monumentale di San Micheletto

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el 2017 cade l’anniversario dei trent’anni dalla scomparsa di Carlo Ludovico Ragghianti, uno dei massimi storici, critici e teorici

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un Veneto tardo barocco plasmato dalla lezione artistica dei Tiepolo. Mitologia, natura morta, pale d’altare, paesaggio illustrano il secolo illuminato in terra dogale attraverso opere eccelse coinvolgenti, altresì, celebri seguaci di Giambattista e Giandomenico. Vedute luminose e sfondanti rivivono nella Prospettiva di rovine con figure, egregiamente ideata da Sebastiano e Marco Ricci, mentre l’illusionismo spaziale dell’architettura regna nel Paesaggio con arco trionfale e monumento equestre di Luca Carlevarijs, riferimento musivo per molti artisti veneti: questi importanti capolavori evidenziano manifestamente l’inequivocabile influenza tra scuola veneta e l’innovativa lezione artistica insita nello “stile tiepolano”. La tradizione classica trova spazio in mostra nei paesaggi bucolici plasmanti le acqueforti Scherzi e capricci, opere giulive di Giambattista, che duettano armonicamente con la paterna Decollazione di San Giovanni Battista, opera dal tenerissimo pietismo insito nei colori contrastanti, geniale trovata per sottolineare la sofferenza corporale sulle vesti smaglianti dei figuranti. dell’arte italiana del XX secolo. Il percorso espositivo entrerà nel vivo della storia della Fondazione attraverso una carrellata d’immagini degli spazi del Complesso monumentale di San Micheletto prima delle ristrutturazioni e dei restauri, a partire dagli anni Sessanta. Una sala sarà dedicata a Carlo Ludovico Ragghianti e Licia Collobi, ai loro rapporti con artisti e personaggi della cultura internazionale dell’epoca. Saranno inoltre esposti manifesti, fotografie e tavole originali, schizzi, disegni preparatori e progetti dei vari interventi e allestimenti. Sarà anche possibile vedere alcune videointerviste ad artisti – come i fotografi Gabriele Basilico e Ferdinando Scianna – girate in occasione delle loro personali alla Fondazione Ragghianti. Saranno infine raccolte ed esposte tutte le pubblicazioni realizzate nel corso degli anni: i libri, i cataloghi, la rivista “LUK”. La mostra sarà propedeutica alla preparazione di un libro sulla storia della Fondazione Ragghianti, che vedrà il concorso di importanti studiosi.


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n peperoncino di 16 metri – immagine iconica e tradizionale, pop per la sua naturale cromia, sempre attuale e carica di simbolismi – emerge dal sottosuolo e si innalza verso il cielo. Con la sua superficie mossa da sporgenze e rientranze, cattura la luce e la diffonde nell’ambiente circostante inondandolo di suggestioni. È così, all’insegna della meraviglia, che la mostra Giuseppe Carta. Orti della germinazione accoglie il pubblico nella Piazza del Duomo di Pietrasanta. Il filo conduttore nei lavori dell’artista sardo Giuseppe Carta è sempre la Natura, che porta bellezza e nuova vita anche dove apparentemente la vita non c’è più. Frutti e ortaggi sono ritratti sia nei momenti di massimo splendore sia in quelli di evoluzione e caducità. Un’ampia antologica che comprende circa cento opere, tra sculture monumentali realizzate in materiali diversi, bronzo, marmo, alluminio, resina, e oli su tela La personale, a cura di Luca Beatrice con la regia di Alberto Bartalini, è concepita come un allestimento

abbonamento di sostegno € 100 abbonamento standard € 40 Nome Cognome ____________________________________ Indirizzo, cap, città ____________________________________ ____________________________________ e-mail _____________________________ scenico articolato e si sviluppa in piazza Duomo, dove si trovano le sculture dei peperoncini, simboli piccanti di vitalità e creatività, una pera in marmo, materiale amato dall’artista per la sua eleganza e, sulla scalinata della chiesa, un asino in alluminio. La parte dedicata alla pittura è esposta invece all’interno della Sala dei Putti e del Capitolo della Chiesa di Sant’Agostino, dove sono collocate nature morte, antichi cristalli, tessuti preziosi e suppellettili, riprodotti attraverso l’antica tecnica della velatura.

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STORIA

idrovolanti a boccadarno

Gherardo Lazzeri

I capannoni della CMASA, Costruzioni Meccaniche Aeronautiche S.A. di Marina di Pisa alla fine degli anni Venti. Quello stesso sedime è oggi diventato il Porto di Pisa - Boccadarno. Poster della linea BrindisiAtene-Stambul (l’odierna Instanbul) della Società Aero Espresso Italiana, circa 1926/1929

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occadarno, come viene denominata da sempre la foce dell’Arno, può essere definito il luogo dove cielo e mare si incontrano. Non solo come metafora geografica dell’orizzonte toscano occidentale, ma perché luogo dalla storia singolare, storia che appunto unisce cielo e mare. Accadde circa un secolo fa che, dopo la Prima Guerra Mondiale, la Germania non potesse riarmarsi per le rigide clausole del trattato di Pace di Versailles, ma vi fu un velivolo molto particolare, il primo interamente in metallo (duralluminio) che si poté

costruire invece a Marina di Pisa, dal 1922 al 1932. Si trattava di un idrovolante progettato dall’ingegnere Claude Dornier, che aveva fatto tesoro dell’esperienza maturata nella costruzione di strutture metalliche per dirigibili presso i cantieri Zeppelin. L’idrovolante, che a tutti gli effetti era prima un’imbarcazione e poi un aeromobile, tanto che allora era conosciuto come “barca volante”, fu denominato Wal (‘Balena’), e divenne presto il più diffuso di una grande famiglia di idrovolanti Dornier che grazie alla solida costruzione dette un forte impulso alla nascita dell’aviazione commerciale, e alla diffusione di un mezzo idoneo al pattugliamento di immensi arcipelaghi come quello olandese in estremo oriente. Ciò che rese possibile la costruzione di questi velivoli fuori dalla Germania, fu un accordo stipulato fra industria e finanza, con l’appoggio della Banca Commerciale Italiana, del senatore Attilio Odero e di Rinaldo Piaggio (per citare i soci più noti), che costituì la prima joint-venture italo-tedesca nel campo industriale aeronautico. Era stata scelta Marina di Pisa, preferendola, ad esempio, alla Spagna, per la migliore professionalità e il migliore indotto tecnico industriale offerto. Qui infatti, il 17 dicembre 1921 era stata fondata la Costruzioni Meccaniche (S.A.I.C.M.), società che aveva ottenuto l’usufrutto dei capannoni e del terreno di Marina di Pisa (sulla riva sinistra della foce dell’Arno) che apparteneva alle Industrie Aeromarittime Gallinari, azienda che durante la guerra aveva già prodotto idrovolanti in legno (l’F.B.A.). Claude Dornier, aveva scelto personalmente la ditta pisana e cedette alla neocostituita società i brevetti

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della “Dornier Metalbauten” e così trasferì a Marina di Pisa, dalla Germania, macchinari e attrezzature. E mentre agli inizi il personale era in prevalenza tedesco, con una quindicina di operai e solo qualche dirigen-

te italiano, nel giro di poco tempo la gestione passò quasi interamente agli italiani. Anche i piloti collaudatori inizialmente erano tedeschi (Nimeier e Wagner), ma furono presto sostituiti dal famoso pilota Crosio. Il 5 novembre 1925, la S.A.I.C.M. diventa C.M.A.S.A. (Costruzioni Meccaniche Aeronautiche s.a.) e la sua


dirigenza e il suo personale sono già completamente italiani: il direttore dello stabilimento è I’ingegner Guido Guidi, affiancato dal dottor Luigi Grossi, e dagli ingegneri Manlio e Giuseppe Stiavelli. I piloti collaudatori sono Tullio Crosio e Giovanni De Briganti. L’unico rappresentante Dornier è rimasto l’ingegner Heinrich Sculte Frolinde. Il prototipo del Dornier Wal (con matricola M-MWAA-WI), costruito per l’aeronautica militare spagnola, effettua il primo volo il 6 novembre 1922 dopo essere stato “varato” proprio fra le reti dei pescatori di Boccadarno che tuttora esistono. Dopo circa tre anni dall’inizio della produzione, la fortuna degli idrovolanti Dornier era ormai pienamente decollata e stava per raggiungere in breve ogni angolo del mondo, servendo come velivolo militare e civile negli eserciti e nelle linee aeree di circa quaranta paesi, dall’Argentina al Giappone, dalla Spagna alla Russia, ecc. Questa lunga e affascinante storia ci viene ricordata da Michiel der Mey nel suo libro ampiamente illustrato ed edito in inglese, ormai giunto alla quarta edizione in undici anni: Dornier Wal. “A light coming over the sea” (LoGisma, 2016. www.logisma.it). Il Wal era un idrovolante molto affidabile e robusto. Lo aveva ben sperimentato Antonio Locatelli (medaglia d’oro dell’aeronautica italiana), quando, nell’agosto 1924, tentando di attraversare l’Atlantico, era stato costretto dalla nebbia ad ammarare in mezzo all’oceano e aveva resistito per tre giorni e quattro notti al moto ondoso prima di essere tratto in salvo. Altro episodio che l’anno

dopo determinò la sempre maggior credibilità del mezzo costruito dalla C.M.A.S.A. di Pisa fu quello del Wal impiegato da Roald Amundsen nella sua spedizione polare dell’aprilemaggio 1925. E sempre in quell’anno il Dornier conquistò, grazie a Wagner e a Guidi della C.M.A.S.A., ben 20 record mondiali di velocità e di carico. Il 2 marzo 1926 fu effettuata una ricognizione della costa tirrenica per quella che doveva essere la prima linea aerea gestita dalla S.A.N.A. di Genova, la seconda a essere inaugurata in Italia. Si trattava della GenovaRoma-Napoli-Palermo, inaugurata il 7 aprile 1926, proprio pochi giorni dopo la Torino-Venezia operata dalla S.I.S.A. Gli idrovolanti partivano dal

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porto di Genova alle 8 e ammaravano all’idroscalo di Ostia alle 11. Alle 11,50 ripartivano per raggiungere alle 13 il porto di Napoli e attraccare al molo Beverello. Si ripartiva alle 13,30 per arrivare nel porto di Palermo alle 16. Un ottimo servizio dovuto in gran parte alle perfette prestazioni dell’idrovolante motorizzato da due motori Rolls Royce Eagle IX da 360 cv ciascuno, e che poteva trasportare da 8 a 10 passeggeri alla distanza di 750 km e alla velocità di crociera di 150 km/h. Se già lo sviluppo del servizio passeggeri meriterebbe una storia a sé, non possono essere dimenticate alcune imprese che furono rese possibili proprio grazie all’affidibabilità del Dornier Wal. Infatti, che fossero motorizzati con i Rolls Royce o con i Bristol Jupiter (alcuni costruiti su licenza dalla Piaggio), le prestazioni e la robustezza del Wal decretarono il successo dei primi servizi di posta aerea, e furono protagonisti di tante imprese allora molto ardite. Nel 1925 si ebbe la prima trasvolata dell’Atlantico del Sud da parte dello spagnolo Ramon Franco; nel giugno 1928 due Wal partirono da Boccadarno per soccorrere Umberto Nobile e Roald Amundsen rimasti bloccati al Polo Nord; e nel 1930, il tedesco Wolfang von Gronau attraversò l’Atlantico del Nord e due anni dopo riuscirà a compiere il giro del mondo sempre con un Dornier Wal. Tutto questo prese letteralmente il volo dalla foce dell’Arno, esattamente da dove oggi sorge il porto.

Dipinto dell’ing. Guido Guidi, il direttore delle officine CMASA di Marina di Pisa, raffigurante un Dornier Wal della prima serie Tirrenia, foto “promozionale” di passeggeri sul Wal della compagnia aerea S.A.N.A., Società Anonima di Navigazione Aerea, circa 1926/1928 Foto tratte da Michiel van der Mey, Dornier Wal. A light coming over the sea (4a edizione, LoGisma, 2016, www.logisma.it)


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PERSONAGGI

&Frankenstein Mary Shelley

Pisa, Lucca e Firenze: i luoghi dell’anima

Massimo De Francesco

Il romanzo fantascientifico di Mary Shelley ha ispirato numerose trasposizioni cinematografiche e televisive. Nel romanzo, il dottor Frankenstein è uno scienziato che crea, con parti di cadaveri trafugati, un essere dalle sembianze umane, al quale riesce a dare nuovamente la vita, dotandolo di una forza distruttrice che sfugge al controllo del suo creatore. La prima versione cinematografica del personaggio risale al 1910. L’attore più ricordato è Boris Karloff (nella foto), che interpretò Frankenstein in un film del 1931.

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ary Godwin (futura signora Shelley) nasce il 30 agosto 1797 a Somers Town, un distretto nel nord-ovest di Londra. Suo padre è il noto filosofo e politico libertario William Godwin; la madre Mary Wollstonecraft, una pioniera femminista, è autrice del libro A vindication of the Rights of Women (Rivendicazione dei diritti delle donne, 1792), tutt’oggi apprezzato. Nata a Londra nel 1759 Mary Wollstonecraft appartiene a una famiglia raffinata ma di modeste condizioni economiche. Suo padre è uno sperperatore dedito all’alcol, che passa da una impresa sbagliata a un’altra; la madre, invece, individua nelle sue risorse personali l’opportunità di darsi un’istruzione, secondo le occasioni sociali che via via le si presentano. In questo contesto dinamico la giovane recepisce gli ideali della Rivoluzione francese. Ne consegue che dell’importante problema dell’istruzione delle donne diventa una sostenitrice. Quando Mary incontra William Godwin lui ha più di quarant’anni ed è cresciuto in un ambiente anticonformistico, dove alita il dissenso di cui si farà portavoce nel saggio An Enquiry Concerning Political Justice (Inchiesta sulla giustizia politica,

pubblicato nel 1793), per mezzo del quale sostiene che «ognuno ha diritto, finché il patrimonio generale sarà sufficiente, non solo ai mezzi per vivere, ma per vivere bene». Esprime le sue opinioni inneggiando alla giustizia, alla libertà e alla generosità quando è possibile. Dalla breve e felice unione del maturo Godwin con la giovane moglie nasce una bambina. La chiamano Mary, come sua madre, la quale sopravvive al parto solo dieci giorni, a causa di una incurabile setticemia. Già dall’infanzia, la bambina rivela una vivace intelligenza, ma non riceve un’istruzione regolare; tuttavia viene allevata affettuosamente dal padre. Ormai quattordicenne, Mary trascorre un lungo soggiorno In Scozia, dove rimane affascinata da quelle terre desolate e severe. Raggiunta l’adolescenza, manifesta una spiccata personalità. Scrive il padre: «Mary (…) è straordinariamente audace, piuttosto imperiosa e attiva di mente. Il suo desiderio di conoscenza è grande e la sua perseveranza in tutto ciò che intraprende quasi invincibile». Il poeta Percy Bysshe Shelley comincia a frequentare l’abitazione di Godwin nel 1812, perché stima molto lo scrittore, ed è verso la fine di quest’anno che sua figlia incontra il giovane poeta, considerato uno dei massimi protagonisti della seconda generazione romantica inglese. Un nuovo periodo trascorso in Scozia (1813) allontana Mary da Londra e quando vi rientra, nel 1814, incontra nuovamente Shelley. Ormai prossima ai 17 anni, si innamora del poeta. Lui è appena ventunenne e già sposato. I due amanti fuggono da Londra (28 luglio 1814) diretti a Dover, dove

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si imbarcano per Calais, lasciandosi alle spalle lo scandalo suscitato dalla loro relazione. Li accompagna Claire, sorellastra di Mary. Viaggiano per tre settimane: attraversano la Francia e la Svizzera, fino a Lucerna, dove sostano prima di raggiungere l’Olanda. Da qui rientrano a Londra perché pressati dai debiti. Nel 1816 si recano nuovamente in Svizzera, dove trascorrono l’estate vicino al lago di Ginevra, insieme con i loro amici, il poeta Lord George Byron e John William Polidori, quest’ultimo suo medico personale e autore del diario di viaggio di Byron. Costretti a rimanere fra le mura della loro villa a causa delle basse temperature di quell’estate, causate, nel 1815, dalla catastrofica eruzione del vulcano indonesiano Tambore, decidono una sera di entrare in competizione l’un con l’altro scrivendo un racconto dell’orrore. Nasce così Frankenstein, o il moderno Prometeo (pubblicato per la prima volta anonimamente in tre volumi nel 1818) concepito da Mary Shelley, probabilmente a lei ispirato


da un incubo avuto in una di quelle notti. È un romanzo, del genere gotico, il primo di fantascienza, concepito essenzialmente a séguito delle varie e drammatiche perdite affettive da subìte da Mary, a cominciare da quella, precocissima, di sua madre. Nell’introduzione al romanzo l’autrice ne spiega l’origine: la lettura di storie di fantasmi e le angosce personali; il suo interesse per gli argomenti scientifici. Quando comincia a scrivere la storia del dottor Frankenstein ha ben chiara la sfida che anima lo scienziato: creare un essere vivente per mezzo della chimica e dell’energia elettrica usurpando le regole della Natura. Il dottor Frankenstein vuole spingersi al di là dei propri limiti umani. Egli rappresenta il prototipo dello scienziato folle in gara con forze più potenti di lui. (Il “mostro” viene generalmente indicato o confuso con il nome dello scienziato che lo ha creato). Il 12 marzo 1818 gli Shelley, con Claire, sorellastra di Mary, compiono la loro terza traversata verso il porto di Calais diretti in Italia. Il gruppo arriva a Livorno; raggiunge Bagni di Lucca dove Shelley affitta una casa per due mesi. Mary intanto ha acquisito una buona conoscenza dell’italiano e si rallegra sapendo che il suo Frankenstein è stato biasimato, ma non ignorato. Dei vari spostamenti della scrittrice in Italia con Percy (che sposò nel 1816), ricordiamo il loro soggiorno avvenuto nel maggio 1818 a Pisa, nell’albergo detto delle “Tre Donzelle”, nell’odierna piazza Garibaldi e nell’agosto dello stesso anno vi tornano alloggiando in Casa Bertini. Nel 1819 raggiungono Firenze, dimorando in via Valfonda dove nasce il loro secondo figlio, Percy Florence. Un’epigrafe murata sull’ingresso dell’odierno edificio che fronteggia il lato di levante della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella, ricorda il soggiorno della famiglia Shel-

ley: «Tra il 1819 e il 1820 / in questi luoghi / già di via Valfonda / Percy Bysshe Shelley / lavorò al “Prometeo liberato” / compose l’ “Ode al vento Occidentale”» (Ode to the West Wind, 1819). Nel maggio dello stesso anno si trasferiscono a Livorno, a séguito della morte del loro secondo figlio William; soggiornano nella villa Valsovano, in via Venuti. Tornano a Livorno nel 1820, per un brevissimo periodo. Nel 1821 Mary e Percy si trasferiscono a Pisa nel Palazzo della Chiesa, in lungarno Galilei, di fronte al quale ammirano Palazzo Lanfranchi, Lord Byron. A Pisa Shelley fonda il “Pisan Circle”, un circolo culturale dove far confluire studiosi e intellettuali. Nello stesso anno si stabilisce con la famiglia nella villa Magni, a San Terenzo, una frazione di Lerici. L’8 luglio 1822, a seguito dell’arrivo a Livorno dell’amico Leigh Hunt, editore della rivista letteraria «The Examiner», Percy Shelley salpa da Lerici con la sua barca a vela per raggiungerlo, ma naufraga e muore annegato nel mare della Versilia, a causa di una forte tempesta. Il suo corpo, in avanzato stato di decomposizione, viene trovato più o meno davanti all’abitato di Viareggio, allora distante dal mare oltre 200 metri. Le norme igieniche impongono la cremazione del corpo sopra una catasta di legna, posata sulla spiaggia dove è stato trascinato dalle correnti marine. Una leggenda narra che il cuore di Shelley non bruciò e fu consegnato alla moglie chiuso in una scatola di legno. I pochi resti di Shelley furono inviati al cimitero protestante di Roma. In tanta disperazione, ogni risoluzione è difficile, tutto è incerto, ma la prima preoccupazione di Mary è sempre per il benessere dell’unico figlio rimastole. Mary si trasferisce ad Albaro, nei pressi di Genova, a Villa Negrotto, dove trascorre un anno e spesso incontra Byron, che abita vicino. Nel Journal of Sorrow (Diario

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della sofferenza), iniziato in ottobre, Mary riporta il suo dolore vedovile e le sue angosce. Lascia L’Italia per l’Inghilterra l’anno successivo per dedicarsi al figlio e alle sue ultime opere. Fra queste Valperga (1823), storia delle avventure del lucchese Castruccio Castracani, condottiero ghibellino durante la guerra contro i guelfi e duca di Lucca. E a Firenze, dove torna con il figlio nel 1842, Mary dimora nella centralissima via Por Santa Maria, proprio di fronte al Ponte Vecchio, sull’angolo con il lungarno Acciaiuoli, in un edificio che non esiste più. Si iscrive al Gabinetto storico-letterario Vieusseux. La madre e il figlio continuano a viaggiare insieme per il continente. Il loro itinerario sarà descritto nell’opera A zonzo per la Germania e per l’Italia (1844). Ma gli ultimi anni di Mary sono segnati dalle malattie. Nel 1844 pubblica Rambles in Germany and Italy (A zonzo per la Germania e l’Italia), sua ultima opera e racconto degli ultimi due viaggi nel continente con il figlio Percy Florence. La scrittrice muore a Londra il 1° febbraio 1851 e viene sepolta nel chiostro della St. Peter’s Church, a Bournemouth, nel Dorset, a 150 chilometri da Londra. Le sono vicino i resti dei genitori di lei, quelli di suo figlio Percy Florence e di sua moglie Jane. Insieme con loro quel poetico cuore scampato al rogo sulla spiaggia di Viareggio

William Turner (1775-1851), Veduta di Firenze con il Ponte a Santa Trinita (1818). Nella fiorentina piazza della Stazione di Santa Maria Novella, il palazzo dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni - INA Assitalia, costruito nella seconda metà degli anni ’30 del Novecento dall’architetto Giovannozzi, sorge al posto delle antiche case di via Valfonda. A fianco dell’ingresso (numero civico 2) si vede un’epigrafe che ricorda come in quei luoghi il poeta Percy Bysshe Shelley compose la celebre Ode al Vento Occidentale e lavorato al dramma lirico in versi Prometeo liberato. (Fotografia di Moreno Vassallo).


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storia

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re potenze d’una volta

Quando Carlo VIII passò in Toscana

Paola Ircani Menichini

Medaglia di bronzo con il ritratto di Carlo VIII [1496?], Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles, coll. A. Valton, n. 315 (diametro 93 mm.) Cavaliere, part. dal «Libro de los Caballeros de la Orden de Santiago», Burgos, Archivio Municipal.

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el settembre 1494 re Carlo VIII di Valois discese in Italia con il cugino Luigi d’Orleans per annettere il regno di Napoli alla corona di Francia. Compì, valicando le Alpi, una memorabile spedizione che meravigliò e intimorì fin da subito le popolazioni della Penisola, abituate da molto tempo a vivere pacificamente entro i confini dei propri stati regionali. Taluni autori dettero a tale campagna l’appellativo di “cavalcata” in quanto la ritennero simile a una ben organizzata parata di truppe in movimento; e lo fu certamente negli stati non belligeranti. Qui marciò con il passo scandito da tamburi e trombette e mostrò bandiere e vessilli non schierati in battaglia, ma alzati solo a distinguere un gran numero di comandanti, di soldati,

di schiere e di coorti, come talvolta si diceva per il vezzo di usare le parole degli antichi romani. Annoverò tra i suoi ranghi un’altrettanta abbondanza di baroni del regno – che forse Carlo non aveva voluto lasciare a Parigi a tramare congiure – distinti dai ricchi abiti e dagli ornamenti e decisi, come lui, a stare in sella con abnegazione durante i lunghi trasferimenti. D’altronde lo scopo della cavalcata, almeno per l’Italia, fu di mostrare cose straordinarie alle sue popolazioni. Seguendo un ordine preciso riguardo alle tappe, e per stupire, fu quindi praticato l’uso di mandare avanti alcuni giorni prima la cosiddetta “antiguardia”, formata da numerosi signori con tre o quattromila cavalli, e il giorno stabilito la persona del sovrano, accompagnata da ottocento arcieri a cavallo, dai nobili del regno con duemila cavalli e da otto-diecimila fanti svizzeri. Dopo di lui marciò la retroguardia con gli uomini d’arme e con circa tremila cavalli agli ordini di capitani francesi. Dovunque passasse, un simile esercito pretese il rispetto, l’omaggio e anche il necessario rifornimento per uomini e animali. Poté contare sull’aiuto delle città che lungo l’itinerario, su richiesta, offrirono vitto e alloggio a proprie spese e per gli animali sui prati che abbondavano nei loro territori. A Pisa ebbe il sostegno dei commissari fiorentini che il 2 novembre 1494 dettero disposizioni in merito, fornendo alle autorità cittadine il numero di sedicimila uomini a cavallo e undicimila fanti – come riporta il cronista Giovanni Portoveneri 1. Lo stesso giorno fecero entrare dentro le mura la prima parte dell’esercito agli ordini di un “giovanetto” cugino del re che cavalcava un “mulettino molto piccolo”; poi vennero Gilbert de Bourbon de Montpen-

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sier, uno dei primi capitani, con 1200 cavalli, e quindi 7000 fanti svizzeri che furono fatti alloggiare dentro San Michele degli Scalzi.

Carlo VIII arrivò l’8 novembre. Si trattenne tre giorni e andò ad abitare prima nella casa pisana di Piero de’ Medici e poi nella Cittadella Nuova. Gli svizzeri e i fanti invece vollero stare “a discrezione loro e senza pagare”. Quindi aprirono le porte delle abitazioni e si sistemarono “nei nostri letti e nelle nostre camere”, come ricorda il Portoveneri che ospitò sei uomini e sei cavalli nella sua casa in Carraia di S. Gilio. E “bisognava aver pazienzia”, aggiunge, consapevole che la cosa migliore da fare fosse lasciar passare i (pochi) giorni senza colpi di testa. Era noto infatti che Carlo, a Pisa come altrove, dopo aver detto qualche bella parola sulla libertà e sui tiranni, avrebbe contrattato con le autorità il soggiorno e l’uscita della “cavalcata” senza malestri, previo pagamento di una somma di denaro o opportune e vantaggiose concessioni. Questo perché i francesi in marcia furono sempre preceduti da una fama di efferatezza e barbarie verso chi si dimostrava ostile nei loro confronti.


E fu sperimentato poi come avessero … una memoria di ferro: il 27 giugno 1495, mentre erano diretti verso il nord per non essere accerchiati dalla lega italiana, contraccambiarono la cattiva accoglienza ricevuta l’anno prima a Pontremoli (che allora apparteneva al ducato di Milano), razziando e uccidendo uomini, donne e bambini dentro il castello. Ma in fin dei conti, in queste e altre azioni intimidatorie e scellerate, mostrarono sempre di aver come movente l’avidità. Vincendo i nemici, non fecero altro che applicare nei loro confronti una consuetudine di guerra del tempo detta “preda”, ovvero il saccheggio. Quindi spogliarono le chiese dall’argento e dalle gemme, le case dalle suppellettili e dagli oggetti preziosi, in campagna rubarono gli armenti e devastarono le coltivazioni e, negli scontri o nelle cittadine espugnate, uccisero senza pietà i soldati e i civili o chiesero il riscatto per le persone facoltose catturate. Insomma, ebbero sempre davanti agli occhi il bottino, come volevano le leggi di guerra, e affrontarono i rischi della spedizione certi che il re o i comandanti dell’esercito non avrebbero osato negarle, a meno che non volessero la ribellione o la diserzione dei reparti. Oltre che per l’avidità, re Carlo intraprese la campagna italiana a motivo della politica dei regnanti degli stati regionali, bramosi di ingrandirsi e nello stesso tempo terrorizzati dalla prospettiva di essere sbalzati dal trono da qualche congiura estemporanea ma ben fornita di denaro. Il re di Francia ebbe tra i suoi alleati il duca di Milano, Ludovico Sforza detto il Moro, e papa Alessandro VI Borgia che tramite lui vollero deprimere le forze dei nemici d’Aragona di Napoli. Ebbe anche il sostegno, non si sa quanto consapevolmente, dei fiorentini che contribuirono alle disgrazie dell’Italia con una politica dissennata e le indecisioni, seppellendo in tal modo la pace che Lorenzo il Magnifico († 1492) aveva co-

struito nei decenni precedenti. Proprio riguardo a Firenze e alla sua incoerenza politica, Carlo ne fu sorpreso e indugiò a entrare nella città dopo aver lasciato Pisa il 12 novembre. Infatti a fine ottobre aveva incontrato a Sarzana uno dei suoi primari, Piero de’ Medici, che, impaurito e sleale verso gli alleati d’Aragona, gli aveva pagato 200.000 fiorini e gli aveva messo a disposizione le fortezze più importanti dello stato con il patto della restituzione alla fine dell’impresa. Poco tempo dopo Carlo era venuto a conoscenza dello sdegno dei fiorentini per l’umiliante iniziativa personale di Piero, avendo quest’ultimo consegnato non un patrimonio privato (liberissimo di farlo!) ma dei beni pubblici conquistati dal popolo con gran sacrificio. Quindi, tra l’8 e il 9 novembre il Medici era stato cacciato dalla città con la sua famiglia e pure con i parenti Orsini. Fu per questo che Carlo si trattenne

dall’entrare a Firenze. Lo fece il 17 novembre sospettoso e con l’esercito armato. Lui stesso portava una lancia sulla coscia. Trovò però i fiorentini ben disposti nei suoi riguardi. Alla porta delle mura ricevette le chiavi della città e all’interno vide le loro case ornate di stendardi e di seta in segno di benvenuto. Così travisò i fatti, volle credere i suoi ospiti molto pavidi e lasciò che qualche francese facesse delle prepotenze, tanto che a Pisa giunse la falsa notizia che Firenze era stata messa a sacco. Gli venne di più l’acquolina in bocca con il passare dei giorni, osservando tante feste, tanti begli edifici e tanta bella gente, e si sentì in dovere di minacciare le autorità di far suonare le trombe e ordinare il saccheggio se non fossero state soddisfatte certe sue eccessive pretese. Gli fu prontamente ribattuto da Pier Capponi che in tal caso la signoria avrebbe fatto suonare le campane per armare i fiorentini. Il popolo di quella città aveva fama di essere numeroso e potente e a queste parole Carlo ebbe il presagio di una poco gloriosa fine del suo esercito, stretto e inferiore tra le mura e a porte chiuse. Quindi abbassò i toni e si dispose a stare a Firenze il tempo necessario per estorcere il più denaro possibile. Il 28 novembre riprese la cavalcata verso il sud Italia. Forse, alla porta della città, fu seguito dagli sguardi beffardi dei fiorentini … e forse dal rimpianto poiché il popolo sul momento aveva avuto l’opportunità di prendere le armi contro di lui e non lo aveva fatto. Note 1 Memoriale di Giovanni Portoveneri dall’anno 1494 sino 1502, in «Delle istorie pisane di Raffaello Roncioni», libri XVI, Viesseux, Firenze 1845, pp. 286, 287, 314, 315.

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Incisione colorata a mano su Pier Capponi che risponde a Carlo VIII: «Voi sonerete le vostre trombe, noi soneremo le nostre campane», Litografia D’allemagne, tratta da «Istorie fiorentine di Niccolò Machiavelli», Firenze 1856. L’attacco di una città, part. da Mars, miniatura dal trattato «De Sphaera Mundi», 1470 ca., Modena, Biblioteca Estense.


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storia

il terremoto scuote le apuane 7 settembre 1920. Rasi al suolo Fivizzano e Nicciano Pier Tommaso Messeri

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he il territorio italiano sia a rischio sismico è notizia sempre più attuale. Il binomio dorsale appenninica ed eventi tellurici è tristemente noto. Basta scorrere la lista, aggiornata, dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) per rendersi conto di come la nostra penisola sia scossa, frequentemente, da tali fenomeni, alcuni dei quali portatori di lutti, rovine e desolazione. Da un’analisi storica, non dovendo

trattare in questa sede le cause geologiche, dalla proclamazione della nostra Unità Nazionale a oggi, si contano più di 170 terremoti forti, con conseguenti vittime umane. Fra i molti, entrati negli annali, risulta disastroso, quello che, il 7 settembre 1920, colpì la Lunigiana e la Garfagnana. Quasi duecento morti e moltissimi feriti, oltre alla distruzione semi-totale di alcuni centri abitati, sparsi fra le province di Massa-Carrara, Lucca e alcune zone dello Spezino. Alle 07:56, i sismografi registrarono un’intensità che si avvicinò al IX grado della scala Mercalli. Con epicentro compreso fra Nicciano (un borgo del territorio comunale di Piazza al Serchio) e Fivizzano, il terremoto, in pochi attimi, modificò la vita e i paesaggi “urbani” di quei luoghi. La terra, che già da due giorni tremava, aveva lasciato il tempo alla popolazione impaurita di non farsi cogliere in luoghi chiusi al sopraggiungere del forte sisma. Benché i tanti agricoltori e pastori della zona, fossero già intenti nelle loro attività

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lavorative all’aria aperta, quel potente sisma provocò molte vittime. Le scosse giunsero ben oltre i Comuni vicini all’epicentro, infatti provocarono danni e alcune vittime nel Pisano e nel Modenese, arrivarono più lievi nel Bolognese, Genovese e Savonese; furono avvertite distintamente nel Livornese e nel Senese. Nelle zone maggiormente colpite dal “moto”, i soccorsi, tutt’altro che pronti nella fase iniziale, vennero resi ancor più difficoltosi dai numerosi danni provocati alle linee telegrafiche e dall’isolamento morfologico di alcune aree montane. Sul web, oltre che nei maggiori quotidiani d’epoca, numerosissimi resoconti spiegano con dovizia di particolari, le difficoltà vissute dagli abitanti di quelle località – soprattutto i residenti della provincia di Massa-Carrara – e i numerosi atti d’eroismo compiuti in quei frangenti e nei giorni successivi. Rimane la memoria, elemento non trascurabile per una prevenzione futura.


storia

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salve ‘8 0 0 P

rovate a immaginare da quali denti esce e su quale fiato vola questo gioioso saluto, avanguardia del seguente pensiero: tutti i lettori/elettori, minoranza alfabetizzata in estinzione, devono persuadersi che il Novecento è stato un lungo sonno, disturbato da qualche incubo di origine alimentare. Tra un genocidio e l’altro (armeni, ebrei ecc.) e un paio di guerre mondiali s’era inventato il gioco del progresso sociale, poi venuto a noia, in Europa e fuori. Ora si fa sul serio, alla faccia del XXI secolo appena abortito. Torniamo all’Ottocento col seguente programma, già operativo in forma sperimentale: 1) niente guerre vecchia maniera: troppo costose; provocare solo conflitti locali per una giusta causa (produzione di armi), adducendo meditati pretesti: acqua, petrolio, gas, monopolio nucleare, ma soprattutto copyright di farmaci in vista di epidemie da organizzare nelle riserve degli ultimi uomini liberi (migliorare i sorpassati protocolli infettivi applicati nel Nuovo Mondo ai Pataxó del Brasile e ai pellerossa delle grandi praterie). 2) ampia facoltà di sparare a garanzia dell’accumulo della propria ricchezza (come rimedio all’instabilità sociale causata dal pericoloso proliferare di ladri di merendine) e incremento di milizie private a pagamento, insomma: mercenari con licenza di bottino. 3) sgravi fiscali per acquisto d’armi e ristrutturazioni di bastioni, porte blindate, feritoie di tiro, rifugi antigas, ponti levatoi, fossati, trappole (tutto con garanzia di fabbrica). 4) silenzio stampa su ciò che è reale, cioè infiammabile.

5) nessuna scuola tipo Barbiana; solo istruzione tecnica parcellizzata e globalmente disseminata; esempio: A fa un bullone, B lo vernicia, C lo vende, tutti lo comprano anche se non serve (ma che gioia la pubblicità straripante di nudi!), un ignoto furbo lo firma e ci guadagna. Ancora: abolizione dello studio dalla storia moderna e contemporanea; per quella antica basta l’esemplare, fraterno periodo tra Romolo e Remo, il resto al macero. 6) testi di legge redatti con copia-eincolla casuale, affinché, eliminato anche il fastidio di capire, si torni all’oralità del sano diritto consuetudinario, a cominciare dal taglione di Stato. 7) incrementare la tecnologia delle comunicazioni a distanza, per impedire ogni contatto umano (ottimo per il controllo delle nascite), e chiudere le osterie dove gli avventori si parlano. 8) creare imbuti finanziari, sì che pochi, già ricchi e bene informati, possano ingoiare a turno la restante ricchezza stupidamente diffusa (pensioni sociali, stipendi statali, risparmio bancario ecc.). 9) le regioni italiane come piccoli Stati-trattoria a disposizione di un pianeta di consumatori: buona cucina, ottime toilettes, mandolini, girls per chi può, visite guidate a una fetta di paesaggio imbalsamato e chiuso da un muro assediato da discariche in appalto alla malavita; vacanze blindate per gli eletti, Grand Tour all’amianto per statali in estinzione, badanti a perdere (e da importare) e pensionati scaduti. 10) mettere Dio e uomini forti, possibilmente folli, a garanzia del programma di una s.r.l. (molto limitata,

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praticamente inesistente) con sede e filiali in paradisi per nulla celesti, molto terrestri e poco fiscali. Concluse le necrofore potature ottocentesche che fare? Un ulteriore salto indietro o un nuovo Novecento? C’è tempo, si vedrà; ambedue le opzioni seducono. La prima riproporrebbe l’Illuminismo dei fari antipirateria proletaria, accesi a tutela della nuova nobiltà dei Conti Bancari definitivamente ripulita col riciclaggio delle coscienze; la seconda ripeterebbe altra macelleria seriale, ma meno rozza di quella nazista o polpottiana (nome di una ricetta cannibalesca), più discreta, silenziosa, efficace, quasi automatica e assolutamente non documentata. Cosa recitava l’adagio popolare in bocca all’indimenticabile Mimma, che all’Università di Siena nell’autunno 1987 coltivava l’orto in via Piccolomini? “State allegri o contadini, ché all’inferno un ci si cape”: tutti i posti disponibili sono prenotati dalle multinazionali.

Vania Di Stefano

Foto di famiglie a Cibali di Catania (circa 1896) Siracusa, il piccolo porto (foto Brogi)

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poesia

Bargellini

e la tomba di Campana

Marco Moretti

Piero Bargellini in una foto degli anni Trenta. (courtesy fam. Bargellini). Traslazione delle ossa del poeta (1942). In prima fila da sinistra, Giovanni Papini, il ministro Giuseppe Bottai, Attilio Vallecchi, Marino Lazzari. In seconda fila al centro Piero Bargellini e Barna Occhini. Dietro si intravedono Rosai e Fallacara. (Archivio M. Moretti)

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uando a Marradi nel 1976 fu ripresa a cuore la memoria di Dino Campana, venni invitato a presentare un mio film, il primo, sulla vita del poeta. Rispondendo all’assessore alla cultura Mirna Gentilini come concludere le manifestazioni campaniane, proposi un omaggio del Comune sulla tomba del poeta nella pieve di Badia di Settimo presso Scandicci, invitandovi Piero Bargellini a cui si doveva il ritrovamento della sepoltura nel cimitero di San Colombano e la successiva collocazione delle ossa presso la Badia. Si era alla vigilia della ricorrenze dei morti, e se ciò appariva perfetto, non altrettanto lo era per un’altra ed altrettanto fortuita scadenza: l’approssimarsi del decennale del “gran diluvio” che aveva sommerso Firenze. Bargellini, universalmente noto come sindaco dell’alluvione, era impegnato in incontri e interviste con la stampa di mezzo mondo. Chi non ricordava la figura del sor Piero impataccata di fango con gli stivaloni ai piedi nell’allucinante realtà della Firenze offesa? Per giorni se n’era andato in giro a constatare, a dare ordini, consigli, ad ascoltare la rabbia mai impotente che semplici cittadini, bottegai, artigiani gridavano dalle case lordate, dalle bocche nere

delle loro botteghe, dai laboratori devastati. Quelle grida di rabbia, mondate dai moccoli, Bargellini le aveva inoltrate al mondo nella loro scarna tragicità, riassumendo la portata della tragedia senza vittimismo né enfasi. Interprete di un’antica dignità, aveva saputo chiedere senza prostrarsi. Ma il filo che lo legava a Campana, o per meglio dire alla sua memoria, apparteneva ad una precedente stagione: alla lunga e prolifica attività del Bargellini operatore culturale iniziata con una rivistina dal bizzarro nome di “Calendario dei pensieri e delle pratiche solari”, e quindi alla più matura concezione del “Il Frontespizio”, rivista letteraria e artistica d’ispirazione cattolica, non a caso fondata nel 1929, anno del Concordato, dalle cui pagine partirono per un loro volo giovani scrittori come Bo, Bigongiari, Luzi, Gatto, Macrì, Sereni e tanti altri. Nel 1938, dalle pagine del “Frontespizio”, Bargellini aveva lanciato un avvertimento per la salvaguardia dei resti di Campana morto il 1° marzo 1932 nel manicomio di Castel Pulci dopo quattordici anni di degenza: sepolto nel cimitero di San Colombano, dopo dieci anni, nel ‘42, quei resti sarebbero finiti nell’ossario comune. Nel quadrato dei morti in manicomio, cantuccio di terra tenuto separato dalle altre tombe, diversi tumuli erano senza più nome a causa delle croci di legno marcite e rimosse. Visitando il cimitero, Bargellini aveva chiesto al becchino, ma nemmeno lui ricordava la posizione; però a casa conservava una pianta coi nomi e, grazie a quella, poté essere localizzata la sepoltura del poeta. Tramite un nuovo articolo fu lanciata una sottoscrizione per una nuova croce, in attesa di trovare una sistemazione in un luogo più degno.

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Risposero vecchi amici di Campana e giovani che ne avevano conosciuto il valore attraverso i Canti Orfici, sua unica opera, che dopo la misera ma già rara edizione del ‘14 era stata ristampata nel ‘28 da Vallecchi con aggiunte e varianti, da cui Campana, negli sprazzi lucidi della sua degenza, aveva preso le distanze pur mostrandosene formalmente grato. Le prime 20 lire erano giunte da Luigi Bartolini incisore e pittore nonché amico di Dino. Al vaglia postale erano seguiti questi versi, arricchiti da un disegno, pubblicati nel maggio del ‘38 su«Quadrivio»: Ti mando , o pio becchino, / il becco d’un quattrino / perché nel cimitero / croce di ferro nero / si pianti dove giace / (dicasi «in verde pace») / Senza nemmen cartello, / il poeta più bello / che ‘l nostro tempo aveva. / Fa piano, beccamorto, / ficcando nel tuo orto, / la croce, non destare / ché, se tornasse, amare / altr’ore passerebbe. / Prova ne sia: non ebbe / neppure quella croce / che villano feroce / e spilorcio sensale / han dopo il funerale! Altre offerte arrivarono da scrittori come Angelo Barile, Enrico Falqui, Corrado Pavolini, Berto Ricci, Cesare Zavattini; da artisti come Manlio Dazzi e Giorgio Morandi; da editori come gli Scheiwiller; e perfino da uomini di governo come il ministro dell’ Educazione Nazionale Giuseppe Bottai. La raccolta oltrepassò abbondantemente le mille lire. Cifra notevole, anche se non proporzionale alla diffusione della rivista che l’anno avanti aveva toccato i 16.000 abbonamenti.1 Nel suo articolo Bargellini lanciava l’idea della traslazione in un luogo vicino a San Colombano: una cappella roma-


nica ai piedi del campanile della storica Badia a Settimo : locale da tempo “deteriorato e trasandato” che attualmente serviva da stanza mortuaria, ma che restaurato sarebbe tornato ideale per il degno riposo del poeta. Così di fatto avvenne: la “Reale Sovraintendenza” sollecitata dal ministro Bottai restaurò la cappella, dove nel ‘42 i resti del poeta furono traslati alla presenza di un folto numero di personalità: Bottai e Vallecchi, Papini e Rosai, Hermet e Fallacara, De Robertis e Montale; e da scrittori della successiva generazione come Bo, Gatto, Bigongiari, Luzi, Parronchi, Pratolini. Dopo la benedizione, la cassetta contenente le ossa venne calata da Gatto e Montale nel piccolo loculo sotto l’altare; Bo e Rosai vi deposero la corona offerta dal ministro Bottai. Ma il poeta, che nella vita non aveva avuto pace, e che nel frontespizio dei suoi Canti s’era proclamato “l’ultimo dei Germani in Italia”, non ebbe pace, proprio a causa dei “germani”, neanche da morto: due anni dopo, al passaggio del fronte, i tedeschi minarono la torre campanaria che franò distruggendo il sacello. Nel dopoguerra fu deciso di ricostruire il campanile ma non la cappella, e così le ossa di Dino furono traslate nella navata sinistra della pieve dove a tutt’oggi, e speriamo per sempre, riposano. Fin qui la parte nota agli aficionados vecchi e nuovi di Campana. Sconosciuto è invece l’episodio, abbastanza comico direi, che Bargellini e signora toccò subire durante la ricerca e rivelatomi la mattina del 31 ottobre durante il viaggio verso la Badia di Settimo. Al mio arrivo, il professore aveva estratto dalla libreria dello studio l’annata del “Frontespizio” inerente agli articoli sulla tomba. Dissi che conoscevo quelle pagine, avendo tutta la raccolta della rivista. Mi guardò, come incuriosito che un giovane raccogliesse quei vecchi fogli.

Poi, entrando in macchina, aveva detto ridacchiando: “Lei conosce quegli articoli, ma ciò che vi scrissi non è tutto. E prese a raccontare, con la verve inconfondibile che lo distingueva, il risvolto inedito sulla ricerca della famosa cappella. Contagiata dal fluire dei ricordi, la signora Lelia s’infervorava e sempre più spesso interloquiva; finché, picchiato il marito affettuosamente su un braccio s’impose: -Racconto io, lo ricordo meglio di te!-. E il racconto cominciò, o meglio ricominciò, e la macchina rallentò, o per dirla vera finì col procedere a trotto di cane. E rideva felice la sora Lelia riassaporando i ricordi di quarant’anni prima. Il cammino nella bella campagna tra le messi facenti siepe alla stradina che da San Colombano portava alla Badia; la visione dominante, catartica, del bel campanile a torre e la scoperta della cappellina accucciata alla sua ombra: vi entrarono, stupiti che tanta bellezza fosse relegata al triste ufficio di camera mortuaria (ruolo riscattato, come poi capirono, da sede propizia per amori clandestini). Contemplandone i particolari, Lelia s’era stretta al suo Piero: la volta a botte, la bifora romanica, la finestrina a rosa di cotto…. poteva essere più bella la tomba d’un poeta? In quel mentre, un prete scamiciato con una scopa in mano s’era stagliato nel vano della porta chiedendo aspramente cosa facessero lì dentro. Come credere alla voce emozionata di lei quando disse che erano in cerca d’una tomba per un poeta? -Ve la do io la tomba…. vergognatevi, andate via!- Se n’erano usciti, sorpresi e un po’ umiliati senza aggiunger parola. Il progetto per la sistemazione andò avanti. Arrivarono gli stanziamenti per i restauri, che compresero anche il tetto della pieve, i quali si conclusero a tempo di record. Il prete, che da anni invocava quei lavori, s’era visto piovere dall’oggi al domani quanto aveva postulato e anche di più, visto che anche la cappella mortuaria veniva restaurata. -Ma a chi debbo tutto questo?-disse al soprintendente Poggi quando questi, assieme a Bargellini, s’era recato a controllare il procedere dei lavori.-A me!- Aveva risposto argutamente lo scrittore. -Ma, scusi, lei chi è?-Sono quello che una certa domenica mattina lei cacciò perché credeva fossi a far l’amore nella cappella mortuaria!-. NOTA 1 Riguardo all’importanza della rivista, si rimanda a: Naturalezza come stile, l’idea dell’arte nelle pagine de “Il Frontespizio”, catalogo della mostra Villa Renatico Martini, Monsummano Terme,15 dicembre 2002-16 marzo 2003, a cura di M. Moretti, pres. A. Paolucci, testi di A. Buccinotti, O. Casazza, L. Bedeschi, M. Marchi, M. Moretti, Pacini Editore, Ospedaletto (PI), 2002, pp.221.

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Cimitero di San Colombano: croce sulla tomba del Poeta donata dalla sottoscrizione del “Frontespizio” (da: Dino Campana, a cura di M. Valsecchi, all’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1942,p.VIII. Canti Orfici, ed. Ravagli, 1914, (archivio M. Moretti) G. Costetti, Ritratto di Dino Campana, 1913-’14. (courtesy Centro Studi Campaniani, Marradi)


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racconto

l’aquilone Matthew Licht

“C

he cosa sta facendo?” chiese la ragazza. “Faccio volare l’aquilone,” rispose l’uomo. La ragazza scese dalla sua bicicletta e mise il cavalletto. Guardò in direzione del cielo, ovvero più o meno dove stava mirando anche l’uomo. “Non ha l’aspetto di un aquilone,” disse lei, dopo un po’. “O perlomeno non assomiglia a nessun altro aquilone che abbia visto.” “Hai ragione. Non si tratta di un aquilone ordinario. L’ho fatto io. Mi è venuta un giorno l’idea di farlo, e l’ho messo insieme nel garage. C’è tanto spazio là dentro, perché non ho l’automobile.” “Ma come fa a stare lassù? Ha l’aria così pesante, e il filo è così sottile e poi oggi non c’è nemmeno un soffio di vento.” “Non lo capisco nemmeno io. L’idea mi spuntò in mente mentre ascoltavo la radio. Ero pure distratto. Credo che stessi lavando piatti. Parlava una donna dalla voce melodiosa, e raccontava di una cosa che le sarebbe successa per davvero. Disse che un giorno le erano venute le vertigini mentre andava in bicicletta, abbastanza forti da

farla sbandare, ma anziché schiantare sull’asfalto a riempirsi di sbucciature e contusioni, cadde in mare. Stava pedalando sull’orlo di una strada lungo la costa. Dovette tornare a nuoto sulla terra ferma, e scalare un pendìo di roccia friabile, irto di una macchia pungente che la faceva anche scivolare, e malgrado ciò non si era fatta male, nemmeno un graffio. Ne rimase sorpresa, disse.” “Aspetta. Una storia pazzesca così ti ha fatto venire l’idea di fabbricare un aquilone che assomiglia a una nave da guerra, ma lanugginoso come un calabrone?” “Dici bene. Nemmeno i calabroni dovrebbero poter volare. Secondo gli scienziati, dovrebbe essere addirittura illegale che volino. I calabroni contravvengono a certe leggi della fisica. Sono troppo pesanti, tanto per incominciare. Le loro ali sono troppo piccole, troppo sottili. Le loro spalle presentano una muscolatura inadeguata. Però, visto che i calabroni non hanno il più pallido concetto dell’aerodinamica, spiccano spensieratamente il volo. La donna alla radio non aveva in mente di volare quando partì in bici. Entrò in uno stato sognante, in trance, diciamo, e avrebbe dovuto cadere, ma invece volò. Non ha avuto paura. Non si fece male. La sua storia mi fece pensare alla provenienza delle idee. Che aspetto hanno, le idee? Di cosa sono fatte, se hanno sostanza? Vidi in testa l’aquilone.” La ragazza cercò di immaginare quali forme potessero avere le idee. Vide qualcosa che volava senza ali attraverso aria blu, attraverso pelle e ossa, dentro la testa di una persona, dove rimase incastrata. Sentì un rumore come quando un pianoforte vola da una finestra e schianta sul marciapie-

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de in un film muto in bianco e nero. Tutto il pubblico nel cinema sussulta, nonostante il silenzio. Dopotutto, si tratta di un film muto. Le idee emettono luce, volano e schiantano con un silenzio espolsivo. Ma la ragazza non riuscì a farsi un’idea da dove arrivino. “La cosa bizzarra è che l’aquilone non ha veramente bisogno del filo,” disse l’uomo. “Il filo è interamente per me. Mi piace credere che riesco ad aggrapparmi all’aquilone e farlo stare in un posto, ma so che potrebbe staccarsi e sfuggirmi in qualsiasi momento.” “Mia madre disse che il mio gattino grigio Flipper era sfuggito. Ero appena tornata da scuola. Le chiesi, ma è scappato? Perché se è scappato, dovremmo sbrigarci a cercarlo prima che venga buio. Disse che Flipper le era sfuggito perché lei gli voleva fare la doccia, ma credo che scherzasse. Sono quasi sicura che Flipper abbia avuto un incidente e sia morto, e non voleva dirmelo perché ci sarei rimasta male. Continua a dire che Flipper le è sfuggito, anche se ora ho dodici anni.” “Un gattino grigio.” “Proprio così. Flipper è sfuggito.” “Se tua madre ti avesse detto che il gattino era morto, sapresti veramente ciò che gli è successo, o dove si trova ora?” “Suppongo di no.” “Mi è venuta un’idea. Vediamo se funziona.” L’uomo tirò la corda. Lo strano aquilone discese come una nuvola grigio perla, se le nuvole assomigliassero a corazzate pelose. Quando fu a un metro da terra, si fermò e rimase sospeso come un elicottero. “Vai a dare un’occhiata,” disse l’uomo. La ragazza si avvicinò all’aquilone. Le


sembrò strano che vicino alla terra sembrasse così piccolo, mentre su in aria sembrava gigantesco. “Non ha porte né finestre,” disse la ragazza. “O forse dovrei dire oblò e comunque si chiamino le porte delle navi. Cosa dovrei guardare, o cercare?” “Non te lo saprei dire. Guarda più da vicino.” L’aria era più calda, nei pressi dell’aquilone. La ragazza gli girò attorno. Toccò il filo, e scoprì che non era legato all’aquilone. Ci finiva dentro, anche se non vi era un pertugio visibile. Forse era fissato in qualche modo all’interno. Con l’aquilone tra lei e l’uomo, mise le mani sulle ginocchia e si chinò per guardarci dentro. “Cos’hai visto?” chiese l’uomo, quando la ragazza tornò da dietro l’aquilone. “Avevo una mezza idea che avrei visto Flipper, il mio gattino che era sfuggito, ma là dentro non c’è. C’era invece una donna.” “Interessante.” “Aveva l’aria familiare. Stava suonando la chitarra, una cosa che ho sempre avuto voglia di imparare. Era anche bella.” “Mi piacerebbe conoscere una bella donna che sa suonare la chitarra.” “È ciò che ho pensato anch’io. Ma non volevo bussare. Avrei potuto spaventarla, e poi non volevo che smettesse di suonare.” L’aquilone, o nuvola o villosa nave da guerra che fosse, si alzò e si espanse. Gettò un’ombra su l’uomo e la ragazza. Cambiò colore, passò dal grigio a un arancione allegro, forse per effetto della luce del sole che vi filtrava. La ragazza vide che la sagoma nebulosa dell’aquilone si era indurita. Ora sembrava una mongolfiera di un secolo passato, oppure un elefante sospeso per aria che teneva più unite poteva le zampe. La corda si ruppe, o si slegò, oppure l’aquilone mollò la presa. “Succede sempre così. L’aquilone va e viene come vuole. Quando credo

che se ne sia andato per sempre e che non lo rivedrò mai più, riappare, con l’aspetto che vuole. Cala un filo che io possa tenere, non so mai quanto a lungo. La cosa più bella è che allora arriva sempre qualcuno per guardare l’aquilone e fare quattro chiacchiere.” “Dicesti che l’idea per fare l’aquilone l’hai avuta tu. Allora perché non fa come vuoi tu?” “Una cosa che si comporta solo come vuoi tu non è interessante.” L’uomo prese ad avvolgere il filo, che stava sparso per il prato come un infinito spaghetto. Ne ricavò una palla grossa come una mela, o un sedano rapa. La legò con un nodo per evitare che si srotolasse. “Posso averla?” chiese la ragazza. “Certo che puoi. Ne ho tante di queste, a casa. Alcune sono parecchio più grosse. Riempiono un armadio intero. Non riesco a immaginare come usarle, ma nemmeno voglio buttarle via. A volte mi piace guardarle.” “È tanto leggera, quasi insostanziale.” “Con un filo così non ti potresti aggrappare a nulla. vero?” “Precisamente.” “Noi crediamo che le cose ci appartengano. Diciamo sempre, casa mia, mia madre, il mio libro, la mia bicicletta, ma mi domando se davvero c’è qualcosa che ci connette a loro. Naturalmente, queste sono le mie gambe, le mie braccia, la mia testa. Sono mie di sicuro. Almeno credo.” “Il mio gattino, i miei amici, la mia scuola... anche se il prossimo anno non sarà più la mia scuola, perché vado in prima media. Spero che i miei amici rimarranno sempre tali, ma l’anno scorso la ragazza che era la mia migliore amica mi disse che non voleva più esserlo. Non mi ha mai detto perché.” “Che peccato.” “Ci sono rimasta male.” “Direi. Mi dispiace.” “Ora sto meglio. Quando cado da bicicletta, mi faccio male alle ginocchia e ai gomiti, poi mi vengono le croste,

infine ho piccole cicatrici bianche che per quanto sembri strano mi fa piacere vedere. Quando persi l’amica, mi duoleva. A volte fa ancora male, se ci penso. Forse ho piaghe e cicatrici che non riesco a vedere. Credo di essere sempre la stessa, quando mi guardo allo specchio. L’armadietto dei medicinali è proprio dietro lo specchio. Forse esiste un’aspirina per quando ti fanno male cose invisibili.” “Sarebbe un’invenzione utile, tanto per cambiare. Vedo belle pillole rosa a forma di chitarra.” “Non so. Le chitarre sono difficile da inghiottire. Sono difficili da suonare?”

“Non saprei dirlo. Non ho mai studiato musica, ma so che mi piace ascoltarla. Forse è facile.” “Quando torno a casa, inventerò la chitarra facilmente suonabile.” “Forse si rivelerà essere una chitarra qualsiasi.” “Abbiamo una chitarra nel garage di casa. Era di mio padre, ma lui ora non la guarda nemmeno. Ehi, è stato bello parlare con te, mister. Spero che il tuo aquilone si rifaccia vedere presto.” La ragazza rimontò in bici e pedalò via. Non vedeva l’ora di provare a suonare la vecchia chitarra nel garage. Ma poi si fermò e guardò indietro. Anche l’uomo era montato in bicicletta, ma non sembrava affatto una bicicletta convenzionale.

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Già esistente nel secolo XI per essere stato concesso alla Chiesa di San Lorenzo a Castelbuono, il magnifico abitato pavoneggia lungo un dorsale collinare tra uliveti e vigneti raggianti. Pietra locale, comignoli fumanti, eleganti loggiati conferisco al complesso un sapore onirico.

Dominata dalla villa che fu Torrigiani, con tanto di blasone sul portale, la tenuta vanta altri edifici in pietra dal sapore bucolico. Ambienti sotterranei completano un’architettura rilevante, basti ammirare l’Orciaia che custodisce giare secolari per olio e vino, realizzate nella fornace annessa alla Fattoria. WINE&FOOD: Nella storica sala delle degustazioni, potrete consumare salumi vari, fagioli cannellini, bruschette al pomodoro, pecorino con miele, conditi da extravergine ed accompagnati da buon vino autoctono con lo stellato Priscus in pool position.

WINE&FOOD: Presso Radda in Chianti, Colle Bereto possiede l’arcinoto Wine Bar dedicato alla cucina toscana e mediterranea supportata dagli ottimi vini di casa, chiamati Chianti Classico riserva e selezione, Il Tocco, Colle B, brioso brut rosè.

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CASTELLO DI RIPA D’ORCIA

CASTELLO GINORI DI QUERCETO

Superba dimora dei Salimbeni e Piccolomini, Il maniero rappresenta un gioiello architettonico cinto tra mura merlate e torrioni, baluardi per la massiccia costruzione padronale dalla possente volumetria a parallelepipedo, circondata dal vetusto borgo in pietra.

Fortilizio in territorio chiantigiano, la struttura vanta mura merlate, slanciata torre con tanto di orologio, dimora padronale addolcita da finestroni arcuati, costruzioni in pietra e mattoni, trasudanti storia architettonica grazie agli interventi succedutisi nei secoli. WINE&FOOD: Nella scenografica cantina si gusta buon pane toscano, formaggio, prosciutto, salame, profumato extra vergine prodotto in loco, ragguardevole carrellata di vini IGT e Chianti Classico (da non perdere Il Picchio Riserva DOCG).

WINE&FOOD: La tenuta, annessa al fortilizio, ospita caratteristiche sale destinate alla degustazione dei propri famosi vini, tra i quali si consigliano Ripensis, TerrediSotto, Ripagrande, magari accompagnati dai taglieri di formaggi, salumi, pane casereccio.

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PERNOTTAMENTO: Il borgo vanta numerosi appartamenti in stile rustico toscano, alcuni alloggiati nella colonica La Giuncaia con tanto di fienile e vigneto.

PERNOTTAMENTO: L’austero castello, grazie ad un sapiente restyling, è stato trasformato in confortevole residence di campagna con camere e appartamenti.

INDIRIZZO: Località Querceto Ponteginori (Pi)

INDIRIZZO: Località Ripa D’Orcia Castiglione D’Orcia (Si)

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curiosità

la

Vania Di Stefano

I resti della foresta fossile fotografati da Oliviero Piacenti

foresta c he vive e fa vivere I

n Reality 77 titolavo toscanamente, con meditata analisi autocritica: L’antica madre di noi trojai, riferendomi all’Italia, una penisola che non finisce mai di stupire. A dispetto della Storia e della Televisione, nutre ancora cittadini pensanti e innamorati delle proprie contrade libere dallo sfruttamento suicida, vissute non con gli occhi stanchi della consuetudine e della sterile invidia reciproca, ma con la passione generata dal privilegio di condividere un abbraccio che scalda, nutre e consola col volto materno delle stagioni, con le sinfonie della natura rese godibili solo nel grembo del vero silenzio. Un esempio di meraviglioso campanilismo ce lo fornisce un libro del 2011 curato da Zefferino Cerquaglia, lungimirante assessore comunale alla cultura, e scritto da diversi autori: Avigliano Umbro. Itinerari naturalistici ed archeologici. Del paesaggio si illustrano luoghi, angoli, oggetti, testimonianze, percorsi. Passo dopo passo l’ospite conquista visioni e sensazioni che divengono familiari e lo incantano con la loro unicità; vedi la stupefacente, miracolosa foresta fossile di Dunarobba (nel mondo ve ne sono solo altre tre) dove ammiri gli enormi resti di circa 50 tronchi pietrificati di conifere vissute milioni d’anni fa: la descrive Daniela Franchini che, assieme ad Agnese Nunzi e Marta Pinzaglia, ti guida su un sito spettacolare, oggetto di studi scientifici e di un convegno Linceo (1998) finalizzato a candidarlo come patrimonio mondiale (ma l’Unesco s’è appisolata sulle procedure di approvazione). Sarebbe bello se il nostro Presidente della Repubblica,

Sergio Mattarella, che ha aperto al pubblico la Tenuta di Castelporziano, visitasse Dunarobba; potrebbe constatare l’eccezionalità del luogo e sostenerne la speciale tutela,

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la valorizzazione internazionale, dando anche “milionario”, stabile lavoro a quelle valide, preparate, giovani persone da lui ricordate nel discorso del 31 dicembre 2016.


società

100 anni 100 anni 100 anni 100 anni 100 anni

happy birthday british institute

L

’Istituto Britannico di Firenze, fondato nel 1917 per promuovere lo scambio culturale fra il mondo inglese e quello italiano, è dal 1923 insignito della Royal Charter: equiparabile a un Regio decreto legge, firmato e concesso da Re Giorgio V. Somo patroni il Principe di Galles e il cavaliere Wanda Ferragamo. Gli attuali cento anni di attività dell’Istituto sono un’importante occasione per celebrare i legami culturali che esistono fra l’Italia e il Regno Unito. Per solennizzare questo “compleanno”, nel prossimo giugno l’Istituto Britannico riceverà il Fiorino d’Oro dal Sindaco di Firenze. Quello fiorentino è stato il primo degli Istituti culturali britannici a operare al di fuori del Regno Unito. Consapevole degli obiettivi che voleva raggiungere, il British, come convenzionalmente si usa chiamarlo, dette vita a una serie di conferenze, pubblicò un periodico «La Vita Britannica» e avviò la formazione della propria biblioteca. Gli obiettivi dell’Istituto erano quelli di promuovere la conoscenza fra i cittadini italiani e quelli aderenti al Commonwealth britannico per mezzo di una biblioteca da aprirsi a Firenze, che il-

lustrasse tutte e due le culture e promuovesse lo studio delle due lingue. Negli anni ’20 e ’30 l’Istituto sviluppò la sua missione didattica, e secondo un accordo con l’Università di Firenze, divenne responsabile dell’insegnamento della lingua inglese formando così una intera generazione di futuri insegnanti nelle scuole italiane. Furono organizzate anche Scuole Estive che prevedevano scambi per gli studenti fra Londra e Firenze. Nel frattempo la Biblioteca si accrebbe grazie a donazioni di privati e di editori. Questo patrimonio librario è di straordinaria importanza perché è la più grande biblioteca di libri in lingua inglese presente nell’Europa continentale, con i suoi 52 mila volumi regolati da un servizio di consultazione e di prestito. La Biblioteca conserva anche alcuni importanti archivi. Quello dell’Istituto Britannico è diviso in due settori distinti: l’archivio proprio del British e quello che potremmo denominare delle “Collezioni speciali” che comprende i singoli fondi documentari che furono donati all’Istituto Britannico per la loro affinità con l’Istituto stesso o con la città di Firenze. Nel maggio 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia, l’Istituto fu costretto a chiudere per riaprire nel 1946 insieme alla sua biblioteca che era stata messa in salvo dall’allora bibliotecaria Giulietta Fermi durante la guerra. Negli anni successivi il British continuò a sviluppare i suoi corsi, in particolare quello di storia dell’arte e a mantenere fede ai propri programmi. La prima sede fiorentina del British fu nei locali della Loggia Rucellai in via della Vigna Nuova, poi in via dei

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Conti. Nel 1923 l’Istituto si trasferì in Palazzo Antinori, davanti all’omonima piazza, in angolo con via Tornabuoni, dove rimase per oltre quarant’anni. Il trasferimento della Biblioteca nell’attuale sede di palazzo Lanfredini, in lungarno Guicciardini 9, fu possibile grazie alla generosità di Sir Harold Acton. Era il 1966. Mentre le attività didattiche si svolsero fino al 1998 nel Palazzo degli Spini, in via Tornabuoni. Successivamente, e a tutt’oggi, nel palazzo detto dello Strozzino, che si apre in piazza Strozzi. Punto essenziale di riferimento per la promozione della lingua inglese a Firenze e in Toscana (circa 2000 studenti all’anno tra corsi di inglese, italiano, storia dell’arte e di disegno), il British ha raggiunto proprio quest’anno i 100 anni di attività.

Domenico Savini

Sala della Biblioteca dell’Istituto Britannico di Firenze (Servizio fotografico di Moreno Vassallo). Il sindaco di Firenze Dario Nardella con la direttrice dell’Istituto Britannico Julia Race e l’Ambasciatore Britannico Palazzo Lanfredini ha origini cinquecentesche e fu progettato dall’architetto fiorentino Baccio d’Agnolo. L’edificio è la sede della prestigiosa Biblioteca Harold Acton dell’Istituto Britannico di Firenze. (Fotografia di Moreno Vassallo)

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itinerari

Pistoia Luca Fabiani

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ontinuiamo il nostro viaggio sul tema Pistoia capitale italiana della cultura 2017, raccontando le bellezze e gli spazi culturali di una città spesso poco conosciuta. Ma che mai come quest’anno ha l’opportunità di conquistarsi un posto di primo piano tra le principali città a vocazione culturale e turistica della Toscana. E per fare questo non è possibile non partire dal suo centro storico: piazza del Duomo. Qui si affacciano gli edifici più importanti di Pistoia: la Cattedrale di San Zeno1 con il suo inconfondibile campanile, il Palazzo dei Vescovi2, il Battistero di San Giovanni in corte, il Palazzo comunale, sede del Museo civico e Palazzo Pretorio, sede del tribunale. La Cattedrale di San Zeno rappresenta il più importante luogo religioso cattolico di Pistoia. L’imponente edificio in stile romanico è articolato in tre navate suddivise da colonne, presbiterio rialzato e cripta. Gli affreschi che ne decorano le volte e le pareti sono di Domenico Cresti, detto il Passignano (1602), e di Pietro Sorri (1603),

mentre i tre dipinti su tavola che completano il ciclo si devono rispettivamente a Cristofano Allori, Gregorio Pagani e Benedetto Veli. Il portico della Cattedrale, costruito nel XIV secolo e completato verso la metà del XV, risulta sostanzialmente compiuto nel 1505, quando nell’intradosso della volta centrale vengono realizzati i lacunari invetriati di Andrea Della Robbia (1435-1528) e nella lunetta del portale sottostante la terracotta con la Madonna col Bambino e angeli dello stesso artista. Nel cuore del suo centro storico si può già comprendere la spiccata natura artistica della città di Pistoia. Ovunque si posi lo sguardo, è un susseguirsi di monumenti e opere d’arte, che raccontano un passato straordinario. Vicino alla Cattedrale, è presente l’antico Palazzo dei Vescovi, oggi adibito a museo, che consente di usufruire di ben tre tipologie di visita: il percorso religioso (rappresentato dal Museo della Cattedrale), archeologico e il percorso tattile per non vedenti. Il Museo della Cattedrale di San Zeno, che ha trovato la sua collocazione attuale in seguito al restauro del palazzo, offre la possibilità di ammirare alcune opere in ambienti a loro contemporanei e connessi al culto, come nel caso del Reliquiario di S. Jacopo, realizzato nel 1407 da Lorenzo Ghiberti e dalla sua bottega, esposto nella “sagrestia d’i belli arredi”. Fra le altre preziose opere custodite nel museo si ricordano la croce (realizzata intorno al 1280), il calice e la casula di Sant’Atto. Da giugno 2016 ha trovato collocazione nel museo il famoso arazzo Millefiori, prezioso panno opera di maestri fiamminghi del XVI secolo, proveniente dalla Cattedrale. L’arazzo è detto “Millefiori”, perché raffi-

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gura una grande varietà di piante e fiori, ma anche animali fantastici e non, che compongono un fondale dal gusto gotico e fiabesco di grande suggestione. Nel sottosuolo del Palazzo dei Vescovi è allestito fin dal 1984 anche un interessante percorso archeologico, che propone l’unica testimonianza visibile delle stratificazioni archeologiche della città, dall’epoca romana fino all’età moderna e contemporanea, a cui si aggiungono anche i due cippi funerari etruschi del VI-V secolo a.C. Una rilevanza a se stante è rappresentata dal percorso tattile, che permette ai non vedenti di percepire le dimensioni e le forme architettoniche dei monumenti della città di Pistoia (tra cui ovviamente l’evoluzione storica dello stesso Palazzo dei Vescovi), tramite alcuni modellini appositamente realizzati. Al primo piano del palazzo, in una sala appositamente ricostruita, è esposto inoltre il ciclo di pittura a tempera stesa “a secco” dal pittore ferrarese Giovanni Boldini (1842-1931) originariamente eseguito sulle pareti di una stanza della villa “La Falconiera”. Di recente allestimento è infine la col-


lezione Bigongiari, frutto della passione dello studioso che aveva radunato nella propria casa una magnifica collezione di oltre quaranta dipinti antichi, la più importante raccolta privata del mondo per la conoscenza del Seicento fiorentino. Nelle immediate vicinanze, in una rientranza laterale della piazza, si innalza la figura imponente del Battistero di San Giovanni in corte. Il prezioso edificio gotico, scandito con fasce di marmo bianco e verde, fu progettato da Andrea Pisano, venne ultimato nel XIV secolo e conserva al suo interno un fonte battesimale romanico risalente al 1200. Spostandoci verso nord-est di piazza del Duomo troviamo poi la sede del Museo civico, che è sicuramente tra le maggiori istituzioni museali cittadine. Il Museo civico, aperto al pubblico dal 1922 nel trecentesco Palazzo degli Anziani, raccoglie le più significative testimonianze provenienti dalle chie-

se e dai conventi soppressi della città, da acquisti e da donazioni. Alle sale dedicate all’arte più antica (dal XIII al XVI secolo) si affiancano quelle in cui sono ospitate opere d’arte dal Seicento all’Ottocento. La disposizione è cronologica e per raggruppamenti di scuola (fiorentina, pistoiese). Fa eccezione la collezione Puccini (all’ultimo piano), la cui presentazione separata dal resto riflette l’appartenenza ad un nucleo originario unitario, pervenuto al museo nel 1914. La pittura delle origini, quella trecentesca, la nutrita serie di “Sacre conversazioni” del XVI secolo, il notevole nucleo di tele del Seicento fiorentino, la collezione ottocentesca di quadri di soggetto storico costituiscono i principali motivi di interesse del museo. La sezione più consistente è quella cinquecentesca, dove appunto il tema della “Sacra conversazione”, la composizione che vede la Madonna con Bambino in trono circondata da santi, è ricorrente in più opere. Le mu-

tate condizioni storiche e politiche di Pistoia e l’assunzione delle maggiori cariche istituzionali da parte di Firenze, determinarono la committenza di importanti lavori di pittura e scultura a maestri fiorentini come Verrocchio, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Ghirlandaio. Accanto a loro, sorse comunque una scuola locale che si espresse in uno stile eclettico. A questo secondo ambito appartengono le opere di Bernardino del Signoraccio, dello Scalabrino, di Gerino Gerini, di Fra’ Paolino e la Madonna della Pergola di Bernardino Detti. Un’altra sala molto importante presente al primo piano ammezzato è dedicata invece alla figura di Giovanni Michelucci (Pistoia 1891- Fiesole 1990), grande architetto pistoiese. Stiamo parlando del Centro di documentazione Michelucci, in cui si trovano numerosi disegni realizzati dall’architetto per i vari progetti, a cui lavorò.

Il nucleo fondamentale della raccolta è costituito da 932 disegni (frutto della donazione da parte dell’architetto), tutti schizzi a penna, penna e pennarello e lapis, eseguiti su carta da disegno, carta gialla e cartoncino. In alcuni casi i disegni sono arricchiti da annotazioni, dalle quali emerge il messaggio del grande architetto. Nel 1996 la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole ha consegnato al Centro di documentazione altri 1155 disegni, eseguiti in gran parte negli ultimi suoi anni di attività. Nell’anno di Pistoia capitale della cultura, la città omaggerà il “suo” architetto con la mostra “Le città di Michelucci”, che sarà ospitata dal 25 marzo al 21 maggio nelle Sale affrescate al piano terra del Palazzo comunale con l’esposizione di disegni, progetti, opere d’arte, modelli, piccole sculture, plastici, bozzetti e altri oggetti, accompagnati da testi esplicativi, materiali multimediali e riproduzioni di immagini. Oltre a questo, sono in

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programma anche un convegno internazionale nel giorno dell’inaugurazione della mostra, seminari, workshop, visite guidate, laboratori scolastici e iniziative di diffusione dell’opera del maestro. Piazza del Duomo, delimitata da edifici medievali che formano un suggestivo quadro architettonico, è dunque il centro storico, artistico e religioso di Pistoia. Insieme ai luoghi vicini, piazza del Duomo diventa la cornice da alcuni anni di un importante festival. Stiamo parlando dei “Dialoghi sull’uomo”, il festival dell’antropologia contemporanea che nella scorsa edizione ha trattato il tema del gioco e che quest’anno verterà su “La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità, scambi”. Questa edizione speciale del festival, che nel corso degli anni ha riscosso sempre più successo e al quale partecipano grandi intellettuali italiani e stranieri, si terrà dal 26 al 28 maggio.

NOTA Il Duomo di San Zeno è menzionato per la prima volta in un atto notarile stilato nel settembre del 923, ma una chiesa cattedrale doveva esistere a Pistoia almeno fin dal V secolo. Vero fiore all’occhiello della Cattedrale è il campanile, che nel XIII secolo fu ricavato da una torre d’epoca longobarda a cui furono aggiunti tre piani. Si veda Cristina Acidini Luchinat, 2003, La Cattedrale di San Zeno a Pistoia, Silvana Editoriale, Milano e www. turismo.intoscana.it. 1

2 Le origini dell’edificio risalgono alla fine dell’XI secolo, quando il vescovo pistoiese si fece costruire un palazzo fortificato. La residenza ha subito nel corso dei secoli numerosi lavori di abbellimento e di restauro. Dopo l’acquisto dell’edificio da parte della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, negli anni Sessanta del XX secolo, fu impostato un progetto di restauro che ha permesso di recuperare la struttura. Si veda Natale Rauty, 1981, L’antico Palazzo dei Vescovi a Pistoia. Storia e restauro, Olschki, Firenze.


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paesaggi

Villa Peyron

e il Bosco di Fontelucente Saverio Lastrucci

“V

illa Peyron – Il Bosco di Fontelucente” distante pochi chilometri da Firenze e prossima a Fiesole, è una proprietà ricevuta nel 1998 dall’Ente, oggi Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, in donazione da Paolo Peyron, l’ultimo della famiglia che l’abitò, ed è da allora gestita tramite la “Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron”. È riconosciuta quale bene di ampia valenza storico-paesaggistica, per l’importanza delle architetture e stili presenti, con la loro tipicità legata ai primi anni del Novecento e per l’ampiezza del complesso “verde” del GiardinoParco e del sistema agricolo-forestale che insiste per oltre 40 ettari di superficie su una pendice rivolta tutta verso il sottostante abitato di Firenze. Il suo impianto attuale raffigura il risultato di scelte architettoniche originali compiute dalla famiglia Peyron: Angelo l’acquistò il 4 aprile 1916 avviando fondamentali opere che donarono alla villa l’attuale immagine; successivamente il figlio Paolo, con instanca-

bile passione, creò il Giardino-Parco come oggi lo ammiriamo. Gli edifici della proprietà si trovano a una altitudine di 383 metri s.l.m. Della villa non si conoscono le origini. Fonti sicure descrivono degli immobili in quest’area, nota col toponimo di “Bosco”, intorno al 1830. La storia recente e il nome attuale sono legati strettamente alla famiglia Peyron. Questa, di origine piemontese, si trasferì nel 1865 da Cesana Torinese (TO) a Firenze, dove avviò fiorenti affari commerciali nel settore dei tessuti e tappeti fino alla fondazione del complesso industriale “Lanificio Val di Bisenzio” nel 1896 a Mercatale di Vernio (20 km da Prato), ove si fabbricava ogni sorta di coperte e di tappeti. L’opera del Lanificio raccolse crediti dalla Casa Savoia, dallo Stato Vaticano e dal Sultanato turco. Angelo Peyron (1864-1919), subito dopo l’acquisto, avviò lavori di trasformazione e ampliamento compiuti dall’ingegnere e architetto Ugo Giovannozzi (Firenze 1876-Roma 1957). Sempre ad Angelo Peyron si deve l’acquisto dell’antica sorgente di Fontelucente, sorgente naturale appartenuta alle suore Mantellate e già documentata, nelle cronache del Cinquecento, come immersa nel rigoglioso bosco. La costruzione, verso il 1915, di una galleria voltata molto ampia, consentì di portare l’acqua alla Villa Peyron e alle numerose fontane presenti nel giardino e nel parco, oltre ad alimentare il lago. I tre terrazzamenti del giardino degradano verso sud. Il primo risale all’epoca della trasformazione della villa compiuta da Angelo Peyron, mentre gli altri interventi nel circostante parco, furono realizzati dal figlio Paolo. È a Paolo Peyron (1911- 2003) che si

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deve la realizzazione del lago e del soprastante complesso monumentale delle scalinate. Le statue, quasi tutte provenienti dalle ville venete del Brenta, sono di pregevole fattura, e furono disposte in sostituzione e aggiunta a quelle distrutte durante l’ultima guerra. Poche cose identificano la civiltà mediterranea come la villa che, per quanto concepita come il nucleo di un’azienda agricola, si distingue dalla fattoria per la struttura edilizia. Nell’evoluzione del Paesaggio e dell’Arte giardinistica si deve raggiungere il periodo storico che caratterizza Villa Peyron e il suo contesto territoriale per rilevare come alla fine del 1800 nasca una nuova tendenza alla vita in villa che porta a Firenze, e in Toscana, personaggi di varie nazionalità, estrazione culturale e di ampia capacità economica a investire in proprietà, spesso di origine agricola, per trasformarle e costruirvi un giardino che ancora rispecchia influenze formali di più antica origine (anche l’architettura in questo periodo ‘soffre’ alla ricerca di uno stile proprio riproducendo modelli medioevali o rinascimentali). Nei primi anni del Novecento comunque si avverte l’esigenza di modificare l’ideale di giardino strutturato e formale, ed è il giovane architetto fiorentino Pietro Porcinai che, intorno al 1930, medierà la conoscenza dei modelli formali italiani, come Villa Gamberaia, con il nuovo giardino funzionale e razionale del futuro producendo il passaggio dal giardino “ornamento da vedere” al giardino “da vivere”. Si inventa così una nuova maniera di vivere: la nuova villa sarà la casa di campagna e gli spazi attorno ad essa resi funzionali nel massimo della semplicità.


Parallelamente a questo sviluppo storico del giardino, Paolo Peyron, personaggio eclettico, conosciuto e conoscitore della borghesia tra i due secoli (1800-1900), che amava attorniarsi di amici con i quali condivideva gusti e momenti gioiosi, amplia il proprio Giardino sulla via di Vincigliata portandolo all’attuale sviluppo definitivo. Egli si aggiorna continuamente e diventa un conoscitore autodidatta capace di costruire da sé il proprio giardino formale, arredandolo con statue per riprendere la tradizione del giardino-collezione all’aperto. Una passione che diventerà una ragione di vita: realizzare il proprio Eden personale. Nel mutamento d’indirizzo Peyron riconduce anche la coltivazione agraria a fini estetici e paesaggistici - fase successiva al 1950 circa - facendo così nascere il vero “Giardino del Novecento”, inteso quale complesso interagente fra edificio signorile (villa), giardino formale, parco naturaliforme e campagna. All’inizio della propria ‘avventura’ nella costruzione dell’attuale giardino un giardino di modeste proporzioni, articolato nel piazzale davanti alla villa e nei due terrazzamenti verso Firenze, che esistevano già - Peyron racconta: «La prima cosa che ho pensato è stata quella di realizzare uno squarcio nel bosco, per aprire la vista verso il paesaggio». Il donatore Paolo Peyron si era riservata la gestione sulla proprietà ed è stato solo dopo la sua scomparsa che Villa Peyron ha assunto carattere museale, aprendosi ad eventi e visite di appassionati e cultori dell’arte e della natura che qui giungono da ogni parte del mondo anche grazie all’adesione alla rete internazionale dei Grandi Giardini Italiani. Nel 2006, dall’incontro fra Richard Fremantle e Saverio Lastrucci, venne raggiunto un accordo per collocare la “Fondazione Fremantle per Artisti Stranieri in Toscana - FFAST” ai piani superiori della Casa Colonica. FFAST nasce da un’idea di creare nella zona di Firenze, una collezione/museo del lavoro del 20esimo secolo, da artisti stranieri che si sono ispirati ed hanno lavorato in Toscana. Si è così costituita una collezione storica, nonché una collezione d’arte, dedicata principalmente agli artisti coinvolti. Si trovano qui lavori di pittori e scultori (fra i quali si citano Maria Gamundi, Claire Gavronsky, Daniel Graves, Harry Jackson, Ben Long, Richard Maury, Laura Ziegler, ecc.), di scrittori (quali Vernon Lee, Harold Acton, Bernard Berenson, Muriel

Spark, Magda Nabb), di compositori (Herbert Handt, Sting) , cineasti (molti film sono stati realizzati in Toscana da stranieri), e garden designer (Cecil Pinsent, Penelope Hobhouse, Katie Campbell), ecc. (Info: Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron). *** Attraverso uno specifico studio botanico sono state identificate circa 260 specie presenti nel “Parco di Villa Peyron – il Bosco di Fontelucente” dimostrando l’ampia biodiversità che caratterizza il luogo. Fra queste anche molte piante che rientrano nella lista della Legge Regionale n. 36-2000 per la tutela degli habitat, della flora e della fauna selvatica, come di seguito indicate: Anacamptis pyramidalis (Orchideaceae), Anemone coronaria (Ranuncolaceae), Aristolochia rotunda (Aristolochiaceae), Asparagus acutifolius (Liliaceae), Bellevalia romana e Bellevalia webbiana (Hyacinthaceae), Helleborus bocconei (Ranuncolaceae), Laurus nobilis (Lauraceae), Malva cretica (Malvaceae), Narcissus tazzetta (Amaryllidaceae), Polygala flavescens (Polygalaceae), Tragopogon hybridus (Compositae), Tulipa sp. (Liliaceae). Nelle porzioni a bosco si trovano cedri, cipressi, pini (nero, domestico e silvestre) fra le conifere e pioppi, querce (leccio, cerro e roverella), olmo, frassino e salice oltre a molti arbusti fra i quali dominano allori, lentaggine, corbezzolo e ginepro. Nel Giardino formale si trovano 1.200 metri di bosso per uno sviluppo di circa 1.600 mq di superficie. Nelle collezioni di vaseria (oltre 100 pezzi) si trovano circa 40 agrumi; almeno 30 fra camelie, azalee e rododendri; più di 30 fra piante verdi e fiorite; altre stagionali.

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Le 29 fontane funzionano con acqua “a perdere” prelevata dalla sorgente e restituita al Torrente Mensola. Il consumo orario necessario al funzionamento del sistema “a caduta” delle fontane presenti nella proprietà è stato calcolato in circa 360 litri che, nella condizione minima di 10 ore al giorno per almeno 100 giorni/anno, rappresenta 360.000 litri/anno (pari a 360 mc/anno). I boschi e i seminativi presenti nella proprietà si estendono per oltre 20 ettari e l’oliveta per circa 10 ettari. La fauna che caratterizza il complesso di Villa Peyron, studiata in collaborazione col Museo La Specola, è sopratutto quella selvatica con dominanza, specie degli ultimi anni, di caprioli e cinghiali; frequenti anche volpi, istrici e tassi. Si trovano anche rettili quali bisce e gechi, di diversa specie, e pipistrelli. Il lago è divenuto nel tempo un importante biotopo per la riproduzione di anfibi con un’attività condivisa con associazioni per favorire l’attraversamento in sicurezza della strada asfaltata nel periodo di ovideposizione. Poiana, capinera, upupa, picchio e passero sono fra i volatili che si possono incontrare nel Giardino e nel Parco.


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cartoline

Carmelo De Luca

Collare di S. Gennaro Grand Hotel Parker’s: Terrazza delle Muse Museo Archeologico: Toro Farnese

Napoli N

apoli è storia, arte, architettura, nobiltà, tradizione, melodia, gastronomia, ingredienti sapientemente miscelati da un popolo spesso gravato ma caparbio. Vagare nel regale centro storico ravviva persino animi grevi, d’altronde come rimanere insensibili verso quei monumenti che inghingherano il reticolo urbano? Agli increduli si consiglia Spaccanapoli, groviglio di

è...

armonia stilistica leggibile negli edifici plasmati da silenziosa religiosità, austero messaggio civico, blasonato lignaggio. Ed è la facciata a bugna, scenografico superstite del nobile Palazzo Sanseverino, ad accogliervi nell’opulento Gesù Nuovo, riuscita opera barocca in marmo policromo ed affreschi degnissimi. Frontalmente, S. Chiara rivaleggia in bellezza amena, fulgida nel gotico interno adorno dei regali sepolcri angioni e borbonici, le cui mura absidali fanno da baluardo all’arcinoto chiostro maiolicato. Più in là, S. Domenico Maggiore pavoneggia per slancio architettonico degli archi a sesto acuto, opere d’arte, ambienti conventuali prediletti da S. Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella. Questi luoghi ospitano il nuovo flag-store dell’Azienda Dolciaria Strega Alberti. L’onirico liquore giallo oro, estatico connubio di spezie ricercate, ivi, trova degna compagnia nelle leccornie artigianali chiamate torrone, babà, praline, tartufi, cioccolatini al gusto Strega o contaminate da limone, limoncello, rhum, noce, caffè, insomma una ingorda goduria per cultori e golosi. Rifocillate pancia e gola, occhi estatici riprendono fiato per ammirare il prospettico Decumano Inferiore, dove Palazzo Carafa della Spina, impreziosito da elaborato portale barocco, rivaleggia con Palazzo Petrucci magnificamente affrescato, S. Angelo a Nilo sfoggia vanitosamente il sepolcro Brancaccio scolpito da Donatello e Michelozzo, Palazzo di Sangro di Casacalenda mostra orgoglioso dorica facciata tenendo testa alla dimora Saluzzo di Corigliano, trionfo del gusto rococò, insomma una mirabilia tra sacro e profano

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intersecante Via Duomo. Qui regna incontrastato S. Gennaro dalla sua Cattedrale Metropolita, magnificenza a tre navate con soffitto a cassettoni, ingentilita dai dipinti di Luca Giordano, baldacchino gotico, sepolcri angioini, ma il vero sancta sanctorum resta la barocca cappella dedicata al Martire, concentrato di marmi, sculture, busti argentei da far impallidire e non è finita! Alcuni ambienti attigui ospitano gelosamente il suo inestimabile Tesoro, meraviglia accumulata nei secoli grazie a donazioni regali, borghesi, popolari: È noto al mondo lo scintillio emanato dalla miriade di pietre preziosissime incastonate nel celebre collare o diamanti e smeraldi tempestanti la mitra indossata dal Santo nelle grandi occasioni. A nord, un vanitoso Museo Archeologico vocia a squarciagola per essere anch’esso giustamente ammirato. Qui dimora il gotha dell’antichità greco-romana, ne rappresentano degno lignaggio capolavori chiamati Toro Farnese, Fauno Danzante, Hermes in Riposo, Battaglio di Isso, Vaso Blu e la mo-


Cravatte Calabrese 1924 Flag-store Alberto Strega

stra dedicata alla nascente archeologia napoletana sotto Carlo III, visitabile sino al 16 marzo. L’augusto sovrano borbonico trova altresì eco in Capodimonte, gelosa custode della ricchissima quadreria appartenuta a mamma Elisabetta Farnese. Sì signori, Paolo III con i nipoti di Tiziano, Crocifissione del Masaccio, Trasfigurazione di Giovanni Bellini rappresentano uno sparuto assaggio culturale su quanto contenuto in questo gioiello architettonico, che dal prossimo aprile ospiterà la mostra dedicata a Picasso con dipinti, disegni, sculture, festeggiandone il centenario del suo viaggio in Italia. E poi, cosa ammirare? Ma ancora musei, palazzi, chiese, conventi, botteghe, vicoli, portici, giardini, obelischi devozionali, fontane, che si ripetono disordinatamente nel complesso reticolo urbano creante un patrimonio culturale unico, così corposo da riempire una enciclopedia. Allora, a voi la curiosità di scoprire una città semplicemente stupefacente con una vita mondana rispettabilissima. Napoli è godereccia, generosa, allegra, chiedetelo pure a Maridì Vicedomini, guru indiscussa della comunicazione e marketing. Nulla sfugge alla sua efficienza organizzativa, tant’è che Villa Domi, MSC Crociere, Capri Hollywood, Nino Lettieri Atelier, Harmont&Blaine, Acqua di Capri hanno scelto lei. D’altronde, si sa, Neapolis è creatività, basti ri-

Palazzo Saluzzo di Corigliano Pelletteria Bonino Museo di Capodimonte: Salottino di Porcellana Chiesa di S. Domenico Maggiore.

membrare l’arcinota couture fatta a mano. Così diventa un obbligo per il turista scicchettoso recarsi da Calabrese 1924, non plus ultra della cravatta sartoriale, riassumente stile classico dalle connotazioni contemporanee, impressi negli eccellenti tessuti dal design originalissimo, insomma mera garanzia per l’uomo che vuol apparire. Per la pelletteria? Naturalmente Bonino 1946, produzione artigianale su misura dallo style esclusivo, elegante, raffinato! Oddio, è un affronto non ricordare anche la proverbiale tradizione alberghiera in salsa luxury-chic, che trova degno lignaggio tra Via Nazario Sauro, Via Partenope, Via Caracciolo. Più in su, noterete il glorioso Parker’s, emblema ottocentesco della ospitalità a cinque stelle. I suoi principeschi interni vantano Biblioteca, Salone degli Specchi, camere superbamente arredate in stile Luigi XIV, Carlo X, Impero, l’onirica Terrazza delle Muse con vista mozzafiato sul Golfo, il patinato Ristorante George, regno dello chef Vincenzo Bacioterracino e maestro apprezzatissimo della cucina made in Naples, quella da leccarsi i baffi!

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55 cinema

anni DI CINEMA

Stefania mon amour

Locarno. Alla Sandrelli il Pardo alla Carriera

Andrea Cianferoni

Stefania Sandrelli Valeria Bruni Tedeschi Mariko Tetsuya Christophe Van Rompaey Mario Adorf Barbara Sarafian Clotilde Courau Jane Birkin Bill Pullman Dario Argento Harvey Keitel

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maggio a Stefania Sandrelli dalla 69/a edizione del Festival del film di Locarno. All’attrice, che ha compiuto 70 anni e festeggiato i 55 anni di carriera,è stato consegnato il Leopard Club Award. «Consapevole della forza seduttrice insita nel suo corpo e nella sua voce, capace di giocare tra innocenza a malizia – ha dichiarato Carlo Chatrian, direttore artistico del Festival – Sandrelli non solo ha dato vita a personaggi indimenticabili, ma ha incarnato un modello di donna che senza rompere con il passato è perfettamente in grado di raccogliere le sfide della modernità: celebrando la sua carriera, il Festival di Locarno rende omaggio ad una grande artista che ha saputo attraversare stagioni e cinematografie restando se stessa». Ma come definire con pochi aggettivi una delle grandi protagoniste del cinema italiano? Indolente,

seduttiva, materna, spiritosa, dolce, svagata, gaudente, allegra, vitale... sono alcune, e se ne potrebbero aggiungere molte altre, definizioni che contribuiscono a descrivere Stefania Sandrelli. È capace soprattutto di reinventarsi continuamente, accettando il tempo che passa, vivendo una dimensione autentica di persona al di là dei riflettori, nutrendosi proprio da chioccia degli affetti familiari, non rinunciando a quella “leggerezza” che è il suo tratto distintivo. Come si svolge la sua giornata? Fino alle tre del pomeriggio si dedica ai nipoti, cinque, seguitissimi, specie se ci sono recite di fine anno, saggi. «Sono felice di essere così come sono e felice di aver avuto quella bella carriera, come ho voluto». Il tempo che passa conta poco per chi come lei ha saputo costruirsi una vita così piena: il cinema come lavoro, passione, vissuta pure con sfrontatezza – La Chiave, correva l’anno 1983, che scandalo per l’attrice di Germi, Bertolucci, Monicelli e Scola, girare a

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37 anni un film di Tinto Brass – ma mai ossessione e soprattutto mai costruita a tavolino. Una carriera, cominciata a 15 anni, in cui ci sono Divorzio all’italiana (1961), Sedotta e abbandonata (1964), Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Jean Paul Belmondo, Io la conoscevo bene (1964), gli anni Settanta della sua consacrazione con Brancaleone, C’eravamo tanto amati, Novecento, L’ingorgo. E poi gli anni Ottanta della Terrazza e di Speriamo che sia femmina e anche di Mignon e’ partita di Francesca Archibugi e delle prime fiction come I racconti del maresciallo in cui si ritrova accanto a Gigi Proietti. Una Sandrelli che non rinuncia a quel contatto speciale che riceve dal pubblico televisivo da oltre 20 anni attraverso tante serie come Il maresciallo Rocca, Il Bello delle donne fino alle ultime Una grande famiglia e Non è stato mio figlio, per citarne alcune. Raccontare l’attrice di Viareggio è parlare della sua personalità di donna determinata dietro un’aria magari sva-


gata, un’ex ragazza che a 16 anni fece scandalo per l’amore con Gino Paoli e poi le nozze con il playboy Nicky Pende, figli da crescere poi da sola fino a formare con Giovanni Soldati, figlio di Mario, una famiglia solida, allegra. Tra i grandi ospiti del Festival di Locarno di quest’anno Harvey Keitel, Roger Corman, David Linde e Alejando Jodorowsky e la masterclass di Howard Shore; la passione rivoluzionaria di Ken Loach e ancora il ricordo di Cimino di Isabelle Huppert e del figlio Ahmad al padre Abbas Kiarostami, la generosità di Jane Birkin e la simpatia contagiosa di Bill Pullman. Ben 279 pellicole proiettate in meno di due settimane. Il Pardo d’oro è andato a Godless della giovanissima regista bulgara Ralitza Petrova. Sebbene il film contenesse scene che potevano urtare la sensibilità di alcuni spettatori, la pellicola ha convinto i componenti la giuria. Infatti anche alla protagonista del film Irena Ivanova è stato assegnato il Pardo per la miglior interpretazione femminile. Il Pardo per la miglior interpretazione maschile è andato a Andrzej Seweryn che interpreta il celebre pittore surrealista polacco Zdzislaw Beksinski nel bioptic The Last Family del polacco Jan P. Matuszyński. Infine il Pardo per la miglior regia è andato al regista portoghese Joao Pedro Rodrigues per Ornitologo. In questo caso hanno contato le affinità con il messicano Ripstein. La Menzione speciale della

giuria è andata al film Mister Universo di Tizza Covi e Rainer Frimmel. Lo stesso ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria ecumenica, il Premio Fipresci, il Premio Europa Cinemas Label ed uno dei Premi della Giuria dei giovani. Anche nel Concorso Cineasti del presente il Premio speciale della giuria è andato ad un’italiano: il regista Yuri Ancarani con il doc The Challenge. Nel Concorso internazionale Pardi di domani premiato un altro italiano con il Premio Film und Video Untertitelung che è andato a Valparaiso di Carlo Sironi.

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intervista

Kabir Bedi

intervista alla “tigre di Mompracem”

È

difficile “scollarsi” di dosso il personaggio specie se questo ti ha dato… non tanto, bensì tantissimo! Quindi risulta sempre piacevole parlarne, memore di quei tempi, gli anni ‘70, ove lui apparve nel pieno della sua fisicità “semplicemente pazzesca” con quei salti che solamente le “fiere” sapevano fare, i capelli ondulati verso il vento, gli occhi resi ancor più malandrini dal kajal e la scimitarra appresso. In Tv la serie su Sandokan fu un vero e proprio fenomeno, una sorta di pazzia collettiva, con le giovani nonché, maturotte donne, d’ogni estrazione sociale che lo attendevano trepidanti, coi piatti da lavare, letteralmente pendenti dalle labbra di quell’indiano, mitico Kabir Bedi. La serie di conseguenza divenne presto un vero e proprio fatto di costume nel nostro paese sino agli approdi odierni. Mentre gli faccio osservare tutto questo, nelle sue vesti di ospite al festival River to River al Teatro della Compagnia in via Cavour a Firenze, egli risponde sorridendo, dall’imponenza della sua mole e ti ritrovi in un attimo - ancor di più —letteralmente rapita da quel bel pirata saraceno dallo sguardo incendiario. — Beh… per me fu il più grande onore che un attore può ricevere; nel corso degli anni ho lavorato intensamente anche per Beautiful, Magnum P.I., General Hospital, Octopuss, 007 ed altro ancora, però fu proprio la collaborazione con il regista Sollima, che mi diresse nel ciclo salgariano Sandokan nonché nel film “Il corsaro nero”, che decretò una vera e propria consacrazione presso il grande pubblico. In quel periodo con quali attori entrò maggiormente in sintonia?

Stabilii un ottimo rapporto con Philippe Leroy, nonché con Adolfo Celi. Lo ricordo a Venezia una sera, dopo ch’egli aveva recitato a teatro e proprio nella città lagunare sentii arrivare: —Sandokan, Sandokaaaan!— E quindi ci abbracciammo calorosamente; quanto all’attrice che interpretò la Perla di Labuan rimanemmo buoni amici. Francamente credo poco alle sue amicizie femminili... sentimentalmente parlando è lei che più ha amato oppure sono state le donne a dare di più. Che domanda insidiosa… è impossibile dare una risposta, chissà, forse la cosa è stata reciproca.” Al momento può fare un bilancio di ciò che ha fatto oppure deve ancora scrivere la propria vita? Francamente sposarsi quattro volte non significa essere molto bilanciati: trova? E allora mi parli dei suo peccati veniali e… mortali. Mi guarda, scoppia a ridere, mentre io quasi quasi mi candido ad essere la quinta… sesta, che ne so!!! ulteriore moglie. Le rispondo che ho solo peccato anche perchè essere perfetti è così noioso… Bene, usciamo dai sentimentalismi e mi parli di Firenze, cosa l’affascina maggiormente. Qui è tutto meraviglioso, ho un gran rispetto per la vostra storia, per l’arte che mi porta sempre a riscoprire Il Duomo, gli Uffizi, ed altro ancora che debbo sempre scoprire. Inoltre culinariamente parlando la vostra bistecca è sempre very, very good! È il momento si spostarmi lascio il posto a chi gli domanda della prima italiana del suo ultimo film Mohenjo Daro.

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—La storia, si snoda attorno ad un enorme sito archeologico patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e la passione ardente nonché romantica storia d’amore tra due giovani. Un kolossal in costume ambientato nella valle dell’Indo del 2016 a.C., tra antiche civiltà dove in scenari belligeranti vengono dettate sanguinose lotte di potere con a capo spietati dittatori.— Si fa sera. C’è un gran fermento nelle rosse poltrone vellutate del Teatro Della Compagnia. Lui appare – le spiegazioni si sprecano – e l’ovazione sale alle stelle. Riceve dal vice-sindaco Cristina Giachi Le chiavi della città, quasi commosso spiega che ottenere tale riconoscimento nella culla dantesca è un sogno; e un grazie a Selvaggia Velo, ideatrice del River to River Florence film, che riesce magistralmente a promuove la cultura del cinema indiano in Italia. Quanto alle chiavi… chissà, può capitare d’aggiungere un piatto in più per quella tigre di Monpracem balzata improvvisamente in casa nostra. L’accoglienza è sacra!!!

Carla Cavicchini

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&

cinema

Psyco

Titanic

le grandi produzioni cinematografiche

Giorgio Banchi

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a produzione cinematografica è una materia estremamente complessa e costosa, ma molto intrigante. Le fasi della realizzazione di un film sono lo sviluppo della sceneggiatura da parte degli autori, la pre-produzione che consiste nel cercare le location e i set e nel reclutare gli attori, la lavorazione ovvero girare le scene sul set, la post produzione montando le scene girate e le musiche fino ad arrivare al prodotto ultimo, e in fine la distribuzione. Purtroppo, il numero dei film prodotti in un anno non coincide con il numero dei film distribuiti. Il distributore, se non è sicuro sugli utili che ricaverà, destinerà il fil ad una distribuzione secondaria. Ma questo anche in passato non ha impedito ad alcune pellicole di vincere molti premi importanti o di partecipare a festival del cinema come Venezia e Cannes. Non tutte le produzione cinematografiche

vanno sempre come previsto, spesso contrattempi e costi che lievitano a dismisura sono all’ordine del giorno

Alfred Hitchcock Film Psycho scena della doccia Manifesto del film Psycho

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anche quando si tratta di film firmati da grandi registi e che hanno avuto un enorme successo come Psyco di Alfred Hitchcock o Titanic di James Cameron. La sceneggiatura di Psyco che Hitchcock propose alla sua casa di produzione, la Paramount, non convinceva molto. Quello che si aspettavano dal regista era uno dei suoi classici film, grazie ai quali era diventato famoso in tutto il mondo in modo da essere sicuri di ripetere il successo del passato. Di fronte al rifiuto della Paramount di finanziare la produzione del film Hitchcock decise di finanziare in proprio il progetto utilizzando i set messi a disposizione della Universal che, essendo associata a produzioni minori, era favorevole e onorata di affittare le proprie strutture ad un regista di nota fama. Paramount accettò però di distribuire il film con la rinuncia da parte del regista al suo compenso fisso di 250 mila dollari. Terminata la sceneggiatura viene definito il budget (800 mila dollari), la consegna del negativo e la durata delle riprese (36 giorni). Nello scegliere il cast Hitchcock deve rinunciare ai grandi divi con cui collaborava sempre, come per esempio Cary Grant. Il primo febbraio del 1960 con qualche settimana di ritardo rispetto alla tabella di marcia, le riprese vengono ultimate. Psyco esce in anteprima a New York il 16 giugno del 1960. È costato complessivamente 806.874 dollari. La risposta del pubblico è strabiliante. Davanti ai cinema si formano lunghe code fin dalle prime ore del giorno e gli incassi superano i 32 milioni di dollari. La reazione dei critici è negativa e, nel 1962, su quattro candidature agli Oscar non riceve alcun premio, ma Hitchcock sa di aver


consegnato alla storia del cinema un capolavoro e una pietra miliare per lo sviluppo futuro. Per Titanic le fasi di produzione del film furono ancora più disastrose. James Cameron presentò un badget di 125 milioni di dollari, con l’aggiunta che le riprese non potevano essere effettuate in mare per le imprevedibili condizioni meteo ma in un ambiente controllato ovvero una grande piscina, con la nave interamente ricostruita, e non a pezzi in relazione alle necessità delle inquadrature.

Nel maggio del 1996 la Fox accetta il budget. Le riprese iniziarono il 16 settembre del 1996, a ottobre le spese erano già completamente fuori controllo. Sono stati investiti milioni di dollari e il film, che dovrebbe uscire nelle sale nell’estate del 1997, non solo è in ritardo sulla tabella di marcia ma accumula spese al ritmo di

300 mila dollari al giorno. È assolutamente necessario ridurre il budget e l’unico modo per farlo sembra quello di tagliare alcune scene. Le riprese si concludono nel marzo del 1997, le previsioni sul budget finale si aggirano intorno ai 200 milioni di dollari, quasi il doppio rispetto a quelli previsti. Oltre a ciò, il film è in grande ritardo e la data di uscita fissata per il 4 luglio è un traguardo impossibile e deve essere posticipata; ciò per la Paramount significa non avere per il periodo estivo un prodotto di punta

per battere la concorrenza. La data di uscita è fissata al 19 dicembre. È il momento della verità. Titanic viene distribuito su 2.674 schermi e il primo week-end incassa 29 milioni di dollari, rimarrà in programmazione per quarantuno settimane incassando soltanto sul mercato americano 600 milioni di dollari e più del doppio su

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quelli stranieri rivelandosi uno dei più grandi successi di sempre. Agli Oscar conquisterà undici statuette su quattordici nomination. Lo scenario che si ripete è sempre lo stesso: finanziare un film è sempre un rischio che i produttori corrono senza avere la certezza che la pellicola abbia successo. I registi saranno sempre convinti che il loro film avrà successo; il produttore incrocerà le dita e il pubblico deciderà. Come è giusto che sia.

Anthony Perkins in una scena di Psycho Kate Winslet e Leonardo di Caprio e Kate Winslet con il registra James Cameron Manifesto del film Titanic Back stage del film Titanic


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DANZA

P eccioli

a passo di danza workshop e festival diretti da Kristian Cellini

Irene Barbensi

P

eccioli in Danza è un nuovo progetto della Fondazione Peccioliper che ha lo scopo di diventare uno degli appuntamenti più seguiti nell’ambito della danza italiana grazie alla partecipazione di professionisti di grande prestigio e all’elevata qualità dei percorsi formativi proposti. Il 27, 28, 29 giugno si svolgeranno presso il Centro Polivalente di Peccioli, situato nel centro storico medievale del paese, le lezioni di Classico, Repertorio, Passo a due, Laboratorio coreografico, Modern contemporary, Lirical jazz, Street jazz, Hip hop. Tre giorni full immersion, dalle 9 alle

19, in un Centro con sale allestite appositamente per la danza e con la particolarità di una sala all’esterno con un belvedere che si affaccia sulle colline toscane, e una sala mensa posta al piano terra in modo da dare la possibilità ai ragazzi di non spostarsi dal Centro per la pausa pranzo. Il 30 giugno il workshop si concluderà con un concorso di danza per tutte le materie di insegnamento con premi in borse di studio e in denaro e si svolgerà presso l’Anfiteatro Fonte Mazzola, che ospita dal 2007 la rassegna 11Lune. Gli insegnanti e la giuria di Peccioli in Danza: Clarissa Mucci, Alexandre Stepkine, Roberto Sartori, Francesco Porcelluzzi, Flaminia Genoese, Alessandro Bigonzetti, Veronica Peparini, Ludmill Cakalli, Kledi Kadiu, Bill Goodson, Andrea Pacifici, Roberto Campanella, Flaminia Buccellato, Rosanna Brocanello, Marco Batti, Stephane Fournial, Arturo Michisanti. Per 11Lune ospitare, nell’edizione

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2016, uno spettacolo di danza è stata una novità assoluta ma una conseguenza naturale per la suggestiva location dell’Anfiteatro Fonte Mazzola. Il notevole successo riscosso ha convinto la Fondazione Peccioliper a ripetere l’esperienza, ospitando all’interno del cartellone una minirassegna dedicata alle più importanti compagnie di danza a livello nazionale e internazionale, sotto la direzione artistica di Kristian Cellini. Mercoledì 5 luglio saranno protagonisti le compagnie di danza contemporanea più innovative della regione, Opus Ballet, Balletto di Siena, Kaos BdF, Emox Ballet. Le loro coreografie coinvolgenti e travolgenti daranno al pubblico, con il consueto rigore stilistico, forme, idee, sudore, bellezza e emozioni che ognuno porterà con sé anche dopo, quando le luci si saranno spente. La Compagnia Opus Ballet, diretta da Rosanna Brocanello, evolvendo da basi di danza moderna nella contemporaneità, propone un linguaggio


comune tra i generi, un forte impatto espressivo e un alto profilo tecnico. Una molteplicità di tecniche e stili, attraverso una rosa di straordinari coreografi, artisti e residenze a cui i danzatori, con grande plasmabilità, accedono in un costante rinnovamento privo di confini e aperto alla sperimentazione. Seppur di recente formazione, ha ricevuto il riconoscimento e il sostegno della Regione Toscana ed ha presentato le sue coreografie in molteplici e importanti contesti anche internazionali (festival, teatri, galà, ospite di concorsi), riscuotendo grande riscontro di pubblico e di critica, nonché numerosi premi e riconosciuti ai danzatori che la compongono. Sin dall’inizio collabora con alcuni dei più importanti coreografi italiani e internazionali. Il Balletto di Siena, diretto da Marco Batti, nasce con l’obiettivo di permettere a giovani danzatori di collaborare direttamente con professionisti già affermati del mondo coreutico. Tale progetto nasce dalla consapevolezza della presenza di un gap, un vuoto, tra la formazione vera e propria e l’inserimento all’interno del mondo del lavoro. La singolarità di questo nuovo progetto sta nel proposito di inserire giovani danzatori di età compresa tra i 18 e 25 anni in una compagnia stabile in cui hanno la possibilità di lavorare con professionisti affermati nel settore e coreografi di fama internazionale. KAOS, diretta da Roberto Sartori e Katiuscia Bozza, è una compagnia di danza contemporanea che ha uno stile connotato, originale, anticonvenzionale: l’elevato rigore stilistico si affianca a una tensione costante verso bellezza e l’armonia del movimento. La Direzione Artistica è dedita, sin dalla fondazione della Compagnia, alla ricerca artistica, all’esplorazione degli orizzonti della danza contemporanea, alla sperimen-

tazione in commistioni interdisciplinari con altre forme d’arte. Ufficialmente costituitasi nel 2006, l’Associazione opera in questo ambito in modo non ufficiale da molti più anni, sostenuta dalla passione e dall’impegno dei suoi fondatori. La compagnia KAOS opera all’interno di Balletto di Firenze, associazione culturale dedita alla valorizzazione e alla promozione della danza contemporanea attraverso l’ideazione, la produzione e la rappresentazione di coreografie con il sostegno della Regione Toscana. La compagnia Emox Balletto, diretta da Beatrice Paoleschi, vanta come prima produzione il balletto Maria Stuarda che ottiene riconoscimenti e consensi in Italia ed all’estero. Vincitrice del Beads & Co Dance Award, per ben tre volte viene chiamata alle serate della Fondazione Nazionale della Danza Aterballetto di Reggio Emilia, partecipa al Festival Bolzano Tanz, prende parte alla serata di Gala del Teatro Carcano di Milano, vince il Festival of Choreographic Miniatures di Belgrado, viene invitata a partecipare alla Marathon of Unexpected della Biennale Danza di Venezia del 2012. La Compagnia viene invitata al Gala del Premio MAB di Milano e in tale occasione le viene assegnato un Premio Speciale di riconoscimento all’eccellenza del lavoro svolto e un finanziamento per realizzare una nuova produzione nel 2014 e nella primavera si aggiudica il primo premio di Pisaintilt, viene invitata a presentare due coreografie nel Gala di Danzainfiera a Firenze e manda in scena “Maria Stuarda” al Teatro Comunale di Reggello. Il Premio MAB inserisce “Eros e Thànatos – Achille e Pentesilea”, la più recente produzione di EmoX, per la prima volta, nel cartellone invernale 2014-15 del

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Teatro Manzoni di Milano. Venerdì 7 luglio eccezionalmente da Madrid il Real Conservatorio professional de Danza “Mariemma” di Madrid RCPD calcherà il palcoscenico dell’Anfiteatro Fonte Mazzola. Diciassette danzatori di Flamenco trascineranno lo spettatore in uno spettacolo che metterà in evidenza la preparazione di questo agguerrito gruppo di giovani arrivati da ogni parte d’Europa a Madrid per perfezionarsi e prepararsi all’ingresso nel mondo della Danza. Domenica 9 luglio una serata eccezionale che vedrà nella prima parte esibirsi in un galà, dedicato al repertorio classico, Giuseppe Picone, nuovo Direttore del Corpo di Ballo del Teatro San Carlo di Napoli, e altri danzatori solisti e primi ballerini del Teatro San Carlo. Nella seconda parte una nuova coreografia firmata da Kristian Cellini sullo stile contemporaneo e neoclassico con danzatori proveniente da varie parti d’Europa e con la partecipazione di Carla Fracci.

Peccioli in Danza sarà inoltre presente a Danza in Fiera allo stand P6 dal 23 al 26 febbraio 2017. Per informazioni Fondazione Peccioli per l’Arte Piazza del Popolo 10 56037 Peccioli (PI) Tel. 0587 672158 Cell. Elena 334 5052769, Lara 334 7586987 info@peccioliindanza.it www.peccioliindanza.it


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In teatro

costume

Adelia Apostolico da Napoli a Livorno

Giorgio Banchi

bozzetto LELIO Caprioglio e Morozzi X LA VEDOVA SCALTRA 2013

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ome è nata la tua passione per il costume? Fin da quando ero piccola mi piaceva disegnare, già a sette anni disegnavo i componenti della mia famiglia ed ero molto attratta dai loro abiti e dalle loro mise. Poi dall’età di dieci anni ho iniziato a frequentare i teatri anche perché mio padre è un attore. Studiavo danza e cominciai così ad avvicinarmi al palcoscenico. Il tuo lavoro da costumista in cosa consiste ? Il costumista deve essere presente

alla prima lettura del copione, conoscere gli attori, le musiche e la scenografia. Il mio è un lavoro che si inserisce nella complessità di un progetto corale, confrontandomi con tutta la compagnia. Ho in consegna, nel caso del teatro, il copione che mi dà il regista, leggo la storia e soprattutto mi soffermo sui caratteri dei personaggi, sul contesto e sull’epoca in cui si svolge la rappresentazione. Cerco di capire i personaggi in scena annotandomi qualsiasi cosa possa essermi da stimolo per il bozzetto,

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e in secondo luogo il colloquio con il regista che mi dirà quali sono gli attori e che ruolo interpretano, in più mi illustrerà la sua linea registica; se rispetta l’epoca dell’ambientazione o se ha richieste particolari. In base alla fisionomia dell’attore che poi diventerà personaggio mi ispiro e disegno con la mia impronta stilistica i bozzetti. I costumi li realizzo tenendo in considerazione la fisicità dell’attore e se durante la rappresentazione ci sono dei cambi veloci o se lo stesso attore fa più di un cambio, valutando se l’abito deve essere facilmente indossabile o meno. Se non ci sono esigenze particolari il lavoro del costumista termina con il debutto. Quale epoca della storie del costume ti affascina? Una delle epoche che più amo è il Settecento, al quale sono legata da un punto di vista estetico ma anche da un punto di vista affettivo. Esteticamente perché è ricchissima di orpelli, pizzi, merletti, di imbottiture, ci sono tante possibilità di scelta e di creazione. E poi affettivamente perché ha battezzato la mia compagnia teatrale La Compagnia degli Onesti con la quale ho fatto più di un’opera goldoniana, debuttando proprio con La Donna di Garbo. Quale è stato il primo lavoro della tua carriera? La mia prima firma da costumista è stata nel 2000 con Enrico e il professore, spettacolo di Mario Santella (dall’Urfaust di Goethe), con Lello Giulivo, Peppe Miale e Serena Improta, prodotto dall’ Ente Teatro Cronaca. Si potrebbe aggiungere che nel 2011 ho scritto anche un libro di fotografie e moda Ritratti di donne con Cosimo Chiarelli e Fe-


bozzetto OTTAVIO Con Emanuele Barresi X LA DONNA DI GARBO 2011. In sartoria con Debora Caprioglio X LA VEDOVA SCALTRA 2013 bozzetto BEATRICE

derica Falchini (edizioni Debatte) in collaborazione con Coop Itinera. Che legame c’è tra Livorno, dove abiti adesso, e Napoli, tua città di origine? Prima di tutto il mare, ma anche la scogliera che non ha sabbia come a Napoli, la scogliera amalfitana e Sorrento. Il richiamo del mare è molto forte, ho abitato per lungo tempo in città di fiume come Roma, ma sento che non è il mio luogo ideale. Il mare mi permette di evadere e di rilassarmi tra un lavoro e l’altro, facendo lunghe passeggiate, portandomi giovamento e relax mettendomi in pace con la natura. Lavori esclusivamente per il teatro oppure ti piacciono anche gli ambienti cinematografici? Ho lavorato nl cinema come assistente nel 2008 nel film L’ultima estate di Eleonora Giorgi, dove ho incontrato nuovamente, perché già lo conoscevo, Emanuele Barresi che è il mio attuale compagno e con il quale lavoro nella Compagnia degli Onesti. L’anno successivo, sempre da assistente, ho partecipato al film di Pupi Avati Il figlio più piccolo, con Christian De Sica e Luca Zingaretti. Il teatro e il cinema sono due modelli, due tecniche di lavoro completamente diverse. Per la creatività e gli orari di lavorazione preferisco il teatro, ma anche il cinema non lo rifiuto. Adesso sono molto impegnata con la mia compagnia e ogni tanto partecipo alla realizzazione di cortometraggi. Quando posso cerco di alternare questi due mondi, teatro e cinema. Progetti per il futuro? Non sono ancora sicura di cosa farò. Ho molti progetti in cantiere tra cui anche spettacoli estivi. Entro l’anno dovrei partecipare alla lavorazione di un film; sto vagliando la proposta. Per adesso c’è molto teatro.

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televisione

i social e le serie tv

come nasce l’ossessione e la passione per le serie televisive Piergiorgio Pesci

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na delle dispute accese negli ultimi anni è sicuramente quella che vede protagonisti cinema e serie tv. Da sempre il cinema ha trionfato su qualsiasi altro prodotto di spettacolo e i motivi sono semplici: più soldi a disposizione, più qualità, più visibilità. Perché allora negli ultimi anni sempre meno gente va al cinema? Ci sono molte risposte a questa domanda. L’aumento dei prezzi con l’avvento della tecnologia 3D è sicuramente una di queste. Un’altra delle cause di questo crollo è la diffusione di Netflix e delle serie tv in generale. Perché spendere soldi per un film al cinema quando è possibile guardare dei prodotti altrettanto validi gratuitamente e a casa? Questa è una delle domande che la gente si pone sempre più spesso. Questo ovviamente non vuole essere una critica al cinema, ma semplicemente sottolineare la forza esplosiva delle serie tv e di come in futuro

potranno avere la meglio. Ma come è possibile che queste serie tv abbiano tutto questo successo? Come detto, il fatto di trovare le puntate in streaming e gratis aiuta molto. In più i produttori di cinema hanno visto come nonostante il budget sia mi-

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nore, con tanta bravura e un po’ di ingegno, il risultato può andare oltre le aspettative. I social sono un mezzo fondamentale per pubblicizzare le serie tv di qualsiasi genere. Basta prendere come esempio due prodotti televisivi che hanno rivoluzionato il


mondo seriale. Uno è The Walking Dead, mentre il secondo è Game of Thrones. Se quest’ultima serie viene descritta come la migliore dal punto di vista della qualità, è invece la prima ad avere più fun su Twitter. The Walking Dead, infatti, su Twitter ha 5,1 milioni di seguaci mentre Game of Thrones 4,4 milioni. Il trucco dei produttori è quello di far parlare della serie tv, soprattutto quando questa non è trasmessa. Questa strate-

gia è detta “cliffhanger”. Si tratta di un espediente narrativo usato nella letteratura, nel cinema, nelle serie tv in cui la narrazione si conclude con un’interruzione brusca in corrispondenza di un colpo di scena o di un altro momento culminante caratterizzato da una forte suspense. I colpi di scena, quindi, hanno fatto sì che, da una stagione all’altra della serie, la persone sui social ne parlasero moltissimo. Ovviamente, più se ne

parla, più il successo è assicurato. Nello specifico, anche se alla fine di ogni stagione di The Walking Dead il cliffhanger era molto importante, ciò che è successo tra la sesta e la settima stagione è qualcosa di straordinario. Molti video su YouTube mostrano le reazioni dei fun proprio durante quello che è successo nell’ultima puntata della sesta stagione e nella prima della settima una volta che l’attesa di quasi sei mesi era finalmente terminata. Tutta questa suspense aumenta di valore quando in televisione si vede ogni tipo di trailer e sul web e sui social vengono pubblicate le locandine.I protagonisti indiscussi di questo successo sono i gruppi specifici di Facebook. The walking Dead ne ha davvero tantissimi. Il più famoso e quello con più iscritti è The Walking Dead Italia Fun con più di tredicimila persone iscritte. L’amministratore di questo gruppo è una ragazza di soli 21 anni. Ci sono

delle regole molto precise per far parte di questo gruppo, tra cui non si può offendere e non si può fare spoiler sulla trama degli episodi della serie, nel caso qualcuno non l’avesse ancora visto. Quindi, con tutti questi fun, anche se le ultime stagioni sono meno belle e con qualche errore in più a livello tecnico, ormai l’affetto del pubblico è così grande che i produttori posso continuare a girare nuovi episodi finchè vogliono. E tutti gli appassionati delle serie tv saranno accontentati per sempre, in un crescendo di colpi di scena e di tensione narrativa.

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Red Diaries

cinema

Killer in Red un minifilm rosso Campari il nuovo progetto di Sorrentino Giampaolo Russo

Ale Burset, Clive Owen, Paolo Sorrentino, Caroline Tillette, Ivan Olita e Tim Ahern Bob Kunze-Concewitz, Caroline Tillette e Tim Ahern

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opo 17 anni il calendario non c’è più. O meglio è diventato un progetto più ambizioso e ampio: non solo foto patinate, non solo drink, ma soprattutto un film di pochi minuti affidato al genio visionario di Paolo Sorrentino, «Killer in Red». Il regista premio Oscar, grazie al suo “La Grande bellezza”, ha girato un cortometraggio. Protagonista è un cocktail, «Killer in Red», oppure una misteriosa femme fatale in rosso, ma anche un barman che legge nel pensiero dei suoi avventori e per loro crea la bevanda perfetta. Tutti possono essere «Killer in Red» e nell’ambiguità Sorrentino ci sguazza. «Un noir» lo definisce, completamente diverso da quanto da lui fatto finora. Affascinato dalla storia che gli era stata proposta, l’ha rielaborata facendola sua e giocando con quanti più cliché del genere: atmosfera dark, luci soffuse, colpi di scena, un morto (che galleggia in una piscina: più citazione di questa), uomini che si confessano davanti a

un drink, una donna bellissima ed enigmatica. «Gioco con le regole del genere. E non c’è noir se non c’è una femme fatale che accende il desiderio maschile». La protagonista femminile del corto è l’attrice franco-svizzera Caroline Tillette, donna in rosso per abito, bikini e capelli. Protagonista maschile l’attore britannico Clive Owen. Con l’obiettivo di portare in scena il concetto che “ogni cocktail racconta una storia”, Campari Red Diaries celebra i cocktail come forma d’arte e veicolo espressivo, raccontando le esperienze che ispirano i bar-tender a ideare e condividere le loro creazioni. Ambientato in un locale, questo noir che presenta i tratti stilistici di Sorrentino vede Clive Owen calarsi nei panni di un uomo come tanti che assume le sembianze di Floyd, un celebre bar-tender nei primi anni Ottanta, mentre immagina la storia che sta dietro alla creazione del cocktail Killer in Red. Il film si sviluppa su due piani temporali, ritraendo l’energia che caratterizzava lo spirito di allora con un cast di oltre 170 attori e l’uso di costumi originali del periodo. La leggenda narra che Floyd abbia un talento nel leggere la mente dei clienti e servire quindi il cocktail perfetto per il carattere di ciascuno. Come spesso accade in molti film di Sorrentino, il finale è aperto ed è lo spettatore a dover trarre le proprie conclusioni. Bob Kunze-Concewitz, Chief Executive Officer del Gruppo Campari, commenta così: «È con grande entusiasmo che lanciamo a Roma questa campagna davvero unica che ci permette di tornare a sorprendere e deliziare gli appassionati di Campari in tutto il mondo portando il marchio in un territorio

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inesplorato. L’utilizzo del film come veicolo di comunicazione ci ha permesso di ritrarre l’estro poliedrico necessario per la creazione dei cocktail e, al tempo stesso, di continuare a porci nuove sfide per far diventare sempre di più il nostro iconico brand un celebre marchio globale contemporaneo. La campagna di quest’anno adotta un nuovo mezzo di comunicazione senza spezzare i legami con il Calendario Campari. È proprio questo l’approccio di Campari: innovare, senza mai dimenticare la nostra tradizione. Sono molto fiero del risultato, che attribuisco ai tanti professionisti con cui abbiamo avuto la fortuna di collaborare, da Paolo Sorrentino a Clive Owen, Ale Burset e Ivan Olita, ciascuno dei quali ha lasciato il proprio segno non solo all’interno del progetto, ma nella storia del brand».


IL RISPETTO HA MILLE COLORI… E ALLORA COLORA LA TUA VITA… E QUELLA DEGLI ALTRI!

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opo “Bacco tabacco e Cenere”, e “Rispetto… a Chi?”, le aziende del Gruppo Lapi sono nuovamente impegnate in un nuovo progetto triennale dedicato ai ragazzi del comprensorio: Rispetto…a colori. Pitturiamo la Vita!. Realizzato in collaborazione con il Lions Club di San Miniato e la ASL 11 Toscana di Empoli, il progetto raggiungerà oltre 900 ragazzi, tutti studenti di prima media. Ad aprire questo nuovo ciclo sono stati i ragazzi degli Istituti Comprensivi G. Galilei di Montopoli in Val d’Arno e M. Buonarroti di Ponte a Egola. A seguire saranno coinvolti gli Istituti Comprensivi “Montanelli Petrarca” di Fucecchio e “F. Sacchetti” di San Miniato. Concluderanno il triennio, i Comprensivi “Cristiano Banti” di Santa Croce sull’Arno e “Leonardo da Vinci” di Castelfranco di Sotto. Il progetto prevede tre incontri di due ore ciascuno per ogni classe seguiti da figure professionali di Comunicarea, centro multidisciplinare con sede in Santa Croce sull’Arno. Attraverso attività manuali e creative, i ragazzi saranno

stimolati a far emergere le risorse personali, a sviluppare spirito di osservazione e ad essere aperti al confronto ed al rispetto di diverse forme di espressione e punti di vista. La classe si trasforma in un laboratorio d’arte e i ragazzi, lavorando individualmente e in gruppo, avranno l’opportunità di acquisire nuove conoscenze e competenze; si scopriranno capaci di riprodurre un’opera d’arte divertendosi e sperimentando diverse tecniche artistiche.

Uno degli obiettivi del progetto è anche quello di far conoscere la bellezza del patrimonio artistico del nostro territorio e, a tal proposito, le opere che dovranno riprodurre appartengono ad artisti con un particolare legame alla nostra Toscana. Infatti Giuseppe Viviani, grande pittore e incisore pisano, e Fernando Botero, pittore e scultore celebre in tutto il mondo e cittadino onorario di Pietrasanta, sono gli artisti scelti su cui lavoreranno gli studenti in que-

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sto primo anno del progetto. Un progetto intenso dove Arte, colori, emozioni, libertà di espressione e rispetto del prossimo, sono solo alcuni degli ingredienti principali.

Da segnalare: E’ già in programma per i giorni 07, 08 e 09 Aprile 2017 una Mostra espositiva che raccoglierà le opere realizzate dai ragazzi delle scuole coinvolte. La mostra, aperta a tutti, si terrà presso Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno ed i visitatori avranno la possibilità di votare la propria opera preferita. Le due classi, che con la loro opera d’arte avranno ricevuto più voti dai visitatori, saranno premiate. L’iniziativa è organizzata e promossa dal Gruppo Lapi, da Lions Club San Miniato e dalla ASL 11 Empoli.


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solidarietà

lo sport

oltre gli ostacoli

uno spettacolo per un progetto di solidarietà Angelo Errera

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uando ho chiesto al regista Giosuè Cino come il gruppo artistico InGirodiDo riuscisse a riempire sempre il teatro, si è girato verso gli spettatori e mi ha risposto che il segreto è l’impegno nel confezionare uno spettacolo di qualità unito ad un progetto di solidarietà, e non ci poteva essere risposta migliore da parte di un pubblico che sfidando il maltempo ha riempito il Nuovo teatro Pacini di Fucecchio giovedì 12 gennaio 2017. Lo spettacolo organizzato dalla associazione sportiva Atletica Fucecchio aveva come titolo Lo sport oltre gli ostacoli e l’incasso della serata è stato completamente devoluto in beneficenza agli Ortolani Coraggiosi di Ventignano, che si occupa dei ragazzi autistici. Presentato dalla bravissima Samantha Giannotti, splendida “padrona di casa”, ha avuto inizio con l’intervento del sindaco di Fucecchio Alessio Spi-

nelli e dell’assessore alla cultura Daniele Cei che sempre attenti al tema del sociale hanno lodato l’iniziativa confermando come il loro supporto a questo tipo di iniziative. Il tema del-

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la serata era lo sport nelle sue innumerevoli sfaccettature. Lo sport che come metafora della nostra vita dove si vince e dopo ogni vittoria ci si rimette in gioco, dove si perde e dopo ogni sconfitta ci si rialza in piedi dove comunque si va oltre gli ostacoli nel rispetto delle regole. Il tenore Eugenio Cino, ha aperto la serata con Nessun Dorma, deliziandoci poi con alcune canzoni che hanno fatto storia della canzone italiana come Nuvolari e Bellezze in bicicletta cantata quest’ultima con la cantante Sara Fefè colonna portante del gruppo e che ha mandato in delirio il pubblico. Giulia Fanucci ha interpretato in maniera struggente Combattente di Fiorella Mannoia. Originale la coreografia ed intensa l’interpretazione che i ballerini Caterina Cino e Simone Giannetta hanno dato sulle note di Momenti di gloria ricevendo applausi a scena aperta. Aforismi e curiosità lette dall’attore Valter Cino e la proiezione di immagini elaborate e montate con maestria da Sal-


vatore Lupinu, hanno impreziosito e fatto da sfondo all’intero spettacolo. L’intervento del giornalista televisivo Jacopo Cecconi ha fatto rivivere in una manciata di minuti la storia dello sport e di quella che ne è l’esempio e sintesi cioè l’Olimpiade. Applauditissimi ospiti della serata l’Effedanza di Empoli che guitate dall’insegnante Denise Pileri si sono esibite sulle note di Eye of the Tiger. È intervenuto il presidente dell’autismo toscana dr. Marino Lupi che ha ringraziato gli organizzatori ed ha spiegato all’attento pubblico le attività degli Ortolani Coraggiosi, le difficoltà pratiche del vivere quotidiano e l’importanza del sostegno che la comunità da loro per una integrazione basata sul lavoro e che sia rispettosa della dignità umana. Ha parlato infine il presidente dell’atletica Fucecchio Ivano Libraschi ribadendo l’importanza che ha lo sport nella crescita dei giovani. Ospite della serata il pluricampione europeo non vedente Giacomo Montanari che accompagnato dal suo allenatore ci ha raccontato la sua storia ed i suoi successi. I giovanissimi ma già campioni di ballo in sala Lorenzo Guidi ed Erika Sca-

gnoli si sono esibiti dando un saggio della loro bravura. È stato premiato il dr. Massimo Cecconi sportivo a trecentosessanta gradi come esempio di uomo di sport. In regia tecnica Leonardo Cino, Renato Settesoldi e Sergio Campinoti hanno fatto miracoli con le luci e

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con le musiche curandone gli effetti come navigati professionisti. Lo spettacolo si è concluso sulle note di Se la gente usasse il cuore diventata ormai la sigla finale del gruppo artistico InGirodiDo che ha raccolto meritatissimi applausi ed una corale richiesta: a quando il prossimo spettacolo?


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società

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Leonardo Taddei Foto di CZH, Live Sicilia, Paola Rita Ledda

Autoritratto del pittore Paul Cézanne Carolina Kostner in gara ai Campionati Europei di Pattinaggio 2017 ad Ostrava, in Repubblica Ceca L’imprenditrice americana nel settore della cosmesi Estée Lauder, mentre adotta la tecnica da lei inventata del ‘’talk and touch’’, consistente nel promuovere i prodotti applicandoli direttamente sulle clienti

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econdo le tesi proposte da Jean-Baptiste Michel ed Erez Lieberman Aiden dell’Università di Harvard, negli Stati Uniti, sembrerebbe esistere una presunta età limite, corrispondente a poco meno di 30 anni, oltre la quale le possibilità di raggiungere il successo nel proprio ambito professionale si ridurrebbero drasticamente, nonostante l’aumento dell’aspettativa di vita. La ricerca, ripresa anche dalla rivista Forbes, contempla diversi campi, tra cui la musica, l’arte, la scienza, la finanza, la cucina, la politica ed i social media, ed è stata elaborata attraverso l’analisi, tramite potenti algoritmi di calcolo, di elevatissime quantità di dati statistici contenuti in archivi digitali, libri, enciclopedie e dizionari, su una base temporale di ben due secoli. Lo studio ha messo anche in evidenza come l’apparente soglia limite si stia sempre più riducendo, scendendo da circa 43 anni ad inizio ‘800 a 34 anni nella seconda metà dello stesso secolo, ed ancora a 29 attorno al 1950. Questa sembrerebbe, pertanto, la ragione in grado di spiegare il proliferare, al giorno d’oggi, di molte baby

stars salite agli onori delle cronache internazionali per le loro presunte, ed in certi casi tuttora non dimostrate, doti nei più disparati settori. Sempre gli stessi scienziati sostengono, infatti, che tutte le abilità e le competenze di una persona verrebbero acquisite da giovani, entro, solitamente, i 25 anni d’età, mentre successivamente l’apprendimento non sarebbe più così efficiente. Una vera e propria corsa al successo che porta, perciò, la società attuale ad adeguarsi di conseguenza e puntare, dunque, sempre più sovente su cavalli freschi, invece che di razza, e su individui giovani, piuttosto che competenti, non soltanto nella politica, e quella italiana ne è un chiaro esempio, ma anche nel mondo del lavoro, nel disperato intento di scovare possibili geni ancora inespressi. Nonostante ciò, per coloro che oramai quel limite d’età lo hanno già superato ampiamente, per tutti quelli che hanno terminato i propri studi ma faticano ancora a trovare un lavoro che faccia smettere al conto in banca di urlare vendetta, per chi si è sentito rivolgere troppe volte la fatidica frase “mi dispiace, però lei è fuori mercato”, non è ancora arrivato il momento di disperarsi. Innanzitutto è bene considerare che esistono ricerche scientifiche altrettanto qualificate che sostengono esattamente il contrario, cioè che non è mai troppo tardi per diventare delle persone di successo in qualsiasi campo, come rivela lo studio del matematico italiano Roberta Sinatra, pubblicato sulla celebre rivista Science, e come ci ricordano anche le pubblicazioni della visual journalist ed information designer Anna Vital. Inoltre l’età necessaria per diventare

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famosi, inteso come il momento in cui si raggiunge il dominio di un determinato settore ed i propri risultati sono riconosciuti ed apprezzati da altri professionisti nello stesso ramo, è sicuramente legata al tipo di lavoro svolto. Un conto, insomma, è sfondare nella musica pop in tenera età, un altro è invece diventare noti in attività che prevedano un percorso di studi o di preparazione piuttosto lungo, come nel caso di scienziati e medici. Oltretutto l’analisi dei ricercatori di Harvard si è interrotta ai dati risalenti alla prima metà degli anni ‘50 del ventesimo secolo, e, nonostante si preveda che l’impatto dei nuovi media abbia ulteriormente abbassato la soglia, non ci sono ancora conferme a sostegno di quest’ultima ipotesi, che rimane, pertanto, soltanto una stima a livello teorico. D’altra parte la passione, ed ancor più il talento, quell’inclinazione naturale dell’individuo a compiere un’attività ad alto livello, possono manifestarsi ad ogni età, perché soltanto quando vengono efficacemente spronati essi sono in grado di palesarsi. Può però


anche accadere che, invece, essi non trovino mai espressione durante la vita dell’individuo, se mancano gli stimoli adeguati. In quest’ultimo caso le motivazioni, ovviamente, possono essere molteplici, come l’incapacità di rischiare a causa di una situazione economica precaria, oppure, al contrario, di un lavoro che garantisca già una certa sicurezza finanziaria da cui è difficile distaccarsi, o anche l’impossibilità di accedere prima di un certa età a determinate conoscenze, l’impedimento allo studio o alla dedizione verso una particolare attività da parte di genitori e parenti, in quanto da questi ritenuta troppo instabile ed insicura per il futuro, o, ancora, semplicemente ostacoli di tipo geografico e logistico. La storia è ricca, in effetti, di esempi di personaggi la cui realizzazione è giunta in tarda età, come nel caso dei pittori Cézanne e Van Gogh o dello scrittore Joseph Conrad, della stilista Vera Wang o dello chef Julia Child. Hanno avuto successo solo dopo i 30 anni anche William Procter di Procter & Gamble, William Boeing dell’omonima azienda produttrice di aerei, Jacob Christian Jacobsen, produttore della celebre birra danese Carlsberg, lo stilista Hugo Boss ed il fondatore di Zara Amancio Ortega. Rientrano tra coloro che hanno dovuto attendere i 40 anni prima di raggiungere il loro obiettivo professionale anche Henri Ford, Christian Dior, il fondatore di Coca Cola Asa Griggs Candler ed Henry Royce di Rolls-Royce, mentre invece Gordon Bowker, ideatore delle caffetterie Starbucks, Estée Lauder ed Henri Nestlé sono stati capaci di creare i loro imperi solo da over 50. Non è mai troppo tardi nemmeno per trarre ispirazione dalle geniali idee altrui, come è successo a Raymond Albert Kroc, che nel 1961, all’età di 59 anni, rilevò l’azienda di ristoranti McDonald’s facendola crescere e portandola a diventare la catena di fast food più nota di tutto il mondo. La tesi del non è mai troppo tardi sembra trovare conferma anche nel mondo dello sport. Recentemente, infatti, è tornata alle competizioni Carolina Kostner, che ha conquistato una meravigliosa medaglia di bronzo ai recenti campionati europei di pattinaggio sul ghiaccio di Ostrava, in Repubblica Ceca, mentre le non più giovanissime sorelle del tennis Serena e Venus Williams si sono scontrate nella memorabile finale degli Australian Open di Melbourne, dove in campo maschile è andato in scena un altro derby di ‘vecchietti’, quello tra Roger Federer e Rafael Nadal. Si tratta di conferme, certo, perché questi atleti sono ben noti a livello mondiale per le loro eccelse doti da

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molti anni, ma tutti loro avevano comunque vissuto ultimamente situazioni sportive e personali talmente difficili da far apparire tali confeme nelle rispettive discipline come delle vere e proprie rinascite, ulteriori exploits che, dunque, hanno decisamente il sapore di un farcela 2.0, tanto per usare un’espressione mutuata dal linguaggio informatico e molto in voga di questi tempi, un tornare sulla cresta dell’onda e riuscire a riconquistare la vetta quando tutto sembra ormai perso. Quello che, in ogni caso, queste ed altre esperienze di successo, ad ogni età, riescono a trasmettere è, in un certo senso, una sorta di richiamo alla rivincita personale, quasi un suggerimento a non abbandonarsi al timore di seguire una certa inclinazione per paura di fallire, anche qualora il percorso possa apparire difficile o distante dalla propria routine. Come ricordano, infatti, le sagge parole dello scrittore Andrea Camilleri, alle volte è più salutare una fama tardiva piuttosto che un successo immediato, che magari può rivelarsi persino troppo difficile da gestire. «Io sono stato povero e ho conosciuto il successo in tarda età. Tutto è arrivato tardi nella mia vita, e questa è una fortuna: mi sento come di aver vinto alla Sisal. Il successo fa venire in prima linea l’imbecillità. Se avessi ottenuto da giovane quel che ho oggi, non so come sarebbe finita».

Il pittore Pablo Picasso Lo scrittore polacco naturalizzato britannico Joseph Conrad La stilista Vera Wang Lo stilista Christian Dior Lo scrittore Andrea Camilleri Lo chef Julia Child Raymond Albert Kroc, imprenditore americano giunto al successo grazie all’acquisto della catena di ristoranti McDonald’s prima che diventassero famosi in tutto il mondo


"LA BANCA PIÙ SOLIDA DELLA TOSCANA" Classifica della Rivista BancaFinanza: n.12 Dicembre 2016 (su banche con attivo superiore a 650 milioni di euro)



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industria

Poteco centralità del

importanza della formazione nella filiera-pelle

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iduzione del tasso di dispersione scolastica e valorizzazione di percorsi formativi in grado di favorire l’alleanza scuola-lavoro sono tra gli impegni che la Regione Toscana sta sostenendo con forza riuscendo a sollecitare una sinergia virtuosa che coinvolge istituzioni, scuola e impresa»: a parlare è l’assessore regionale all’istruzione Cristina Grieco, ospite del seminario I giovani e l’obbligo formativo: Drop-out e IEFP, attualità e prospettive nell’area pisana. L’evento, promosso dal Poteco (Polo Tecnologico Conciario) e dall’agenzia Forium di Santa Croce sull’Arno, ha visto, lo scorso novembre, la presenza di numerosi rappresentanti di istituzioni e imprese del territorio per la consegna degli attestati di qualifica drop-out per alcuni progetti formativi che hanno coinvolto, oltre al Poteco e all’agenzia Forium, le associazioni conciarie del distretto toscano e l’Istituto Cattaneo di San Miniato. Dati significativi, quelli evidenziati nel corso del seminario sui corsi drop-out che ne testimoniano l’uti-

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lità: rivolti a studenti fuoriusciti dal percorso scolastico, i drop-out, grazie ad una formazione mirata e pratica, riescono a trasferire competenze che sono concretamente spendibili nel mondo del lavoro. Un risultato reso possibile soprattutto dalla collaborazione tra scuola, imprese e istituzioni, che sono coinvolti nella loro organizzazione, e che nel distretto conciario toscano continuano un dialogo complessivo per la for-

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mazione che sta ottenendo risultati sempre più importanti. «Dalle scuole elementari fino all’Università - dice l’ad Poteco Leonardo Volpi - grazie ad iniziative e corsi ad hoc riusciamo a spiegare agli studenti le potenzialità lavorative connesse al settore della concia e favorire un concreto scambio tra offerta e domanda di lavoro per il conciario, importante per gli studenti che trovano sbocchi lavorativi e per gli imprenditori che possono trovare professionisti formati e competenti». «La sinergia per la formazione tra istituzioni, scuola e impresa di questo distretto industriale – dice la sindaca Giulia Deidda, presidente di Poteco – ne fa un modello valido che ci auspichiamo possa essere valorizzato sempre di più nell’interesse della collettività. In questo, il ruolo del Polo Tecnologico Conciario si sta confermando centrale, agevolando l’incontro tra richiesta e offerta di lavoro in un settore, come quello conciario, dove specifiche competenze tecniche sono fondamentali».

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costume

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il mercato del

Forte!

Gli Ambulanti di Forte dei Marmi in tour

Federica Farini

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a parrocchia di Forte dei Marmi allora non era un gran che. In quei tempi il paese era appollaiato intorno alla chiesa di Sant’Ermete, la cui festa grande è in estate… Ma il paese non era tutto lì e la parrocchia abbracciava anche la campagna, dov’erano disseminate le case, lontane le une dalle altre. (Enrico Pea, Il Trenino dei Sassi, Vallecchi, 1940) Appuntamento genuino e di qualità, che riunisce la sapiente maestria di mani artigiane alla vivacità di un evento a trecentosessanta gradi. Non chiamateli solo “banchi”, quelli del “Forte”: spettacoli, musica, sfilate di moda, fiori, sorrisi e molto altro, per vestire le città italiane di leggerezza ed eleganza. Il mercato come meta di aggregazione e indice delle tendenze più cool è tutto toscano: i venditori del Consorzio “Gli Ambulanti di Forte dei Marmi”, che rappresentano un marchio nato nel 2002 (unico, originale e

registrato), da anni uniscono lo stivale con immancabili incontri che radunano curiosi di moda, fashion bloggers, influencers, trendsetters, alla ricerca di pelletteria di pregiatissima manifattura artigianale (borse e scarpe), cashmere, pellicceria, biancheria per la casa, stoffe, porcellane, bijoux e arte fiorentina in genere. Se in passato Forte dei Marmi coincideva con il luogo di incontro della borghesia milanese e toscana al cinematografico “Sapore di mare”, nel tempo la sua anima legata al lusso e al concetto di bello (il bel vestire, la bella vita, il bel territorio) ha saputo trasformarsi in un’identità commerciale di successo, nella formula di un prodotto eccellente e promosso dalle ferree regole del marketing e della comunicazione: l’evoluzione del concetto di mercato. Andrea Ceccarelli, Presidente del Consorzio de “Gli Ambulanti di Forte dei Marmi”, spiega i principi e i pun-

ti di forza di tale appuntamento che «riunisce il migliore Made in Italy in un “evento-mercato”, composto di bancarelle, di merce e di visitatori, che attrae mediamente più di 10 mila persone, con punte di oltre 90 mila, con importanti ricadute turistiche e commerciali per le città che lo ospitano». Ampia eco della stampa e dei tg nazionali, che definiscono le bancarelle del Forte vere e proprie “boutiques a cielo aperto”, ambite ma convenienti, con un’immagine dalla connotazione ben definita che accentra l’attenzione dei mezzi di comunicazione, convogliando

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l’identità del mercato stesso in un ampio carrozzone mediatico. I suoi fan si contano numerosi: dai magnati russi e arabi ai personaggi del jet set italiano e mondiale (tanti di loro hanno postato la loro presenza sulle rispettive pagine Facebook). Anche altre eccellenze locali fanno il tifo per questo evento: il sito della Capannina di Franceschi non manca di sponsorizzare l’immancabile incontro modaiolo, dove si tocca con mano la qualità e la bellezza della merce in vendita. Gli articoli appartengono a una fascia di prodotti alti e medio alti, tanto da creare un effetto “glam” nel “glam”: numerose le fotografie e i video presenti sui social networks, nei post di Instagram, dove lo stesso evento viene connotato come location. Da circa vent’anni il Consorzio organizza per le diverse amministrazioni comunali iniziative commerciali all’aperto, con oltre sessanta produttoriespositori disponibili, operanti nel comparto della moda e degli accessori. Si comincia alle otto della mattina e si chiude alle diciannove: nessun costo di promozione pubblicitaria è richiesto alle amministrazioni locali, è lo stesso Consorzio a gestire e promuovere anche questo aspetto attraverso campagne su emittenti tv, radio, stampa e

social: un format collaudato e organizzato. La promozione delle eccellenze commerciali passa attraverso lo statuto: “Gli Ambulanti di Forte dei Marmi” si uniscono e costituiscono come Consorzio basato su regole chiare e rigorose, in difesa della qualità in ogni sua forma – della merce e del servizio in primis – ma anche dell’integrità morale del mercato inteso come soggetto attivo. Nelle linee guida anche il divieto di vendita di merce di qualità scadente, di abbigliamento usato di poco pregio, marchi contraffatti e fondi di magazzino. La sua popolarità lo ha reso vittima di tentativi di imitazione: ma di Consorzio “Gli Ambulanti di Forte dei Marmi” ce n’è uno, tutti i “tarocchi” sono nessuno. Fortunatamente la giustizia sta facendo il suo corso e sono arrivate anche quest’anno diverse ordinanze di condanna dei tentativi di creare confusione con l’originale Consorzio. Un tour che va…Forte In bicicletta verso piazza Marconi a Forte dei Marmi per visitare il mercato storico che si sviluppa intorno alla pineta: tutti i mercoledì dell’anno dalle 8.00 alle 14.00 e tutte le domeniche da Pasqua fino all’ultima domenica di settembre: questa è la realtà che ha dato origine al Consorzio “Gli Ambulanti di Forte dei Marmi”. Tra le città più importanti abitualmente toccate dallo show itinerante dell’allegra carovana guidata dal Presidente Ceccarelli, troviamo Milano, Torino, Perugia, Genova, Savona, Monza, Bologna, Parma, Viterbo, Pavia, Como, Cinisello Balsamo, Sesto San Giovanni, Vigevano, Legnano, Asti, Vercelli, Casale Monferrato, Alba, Pordenone, San Donà di Piave, oltre a tanti bei borghi sparsi per lo Stivale (ad esempio Angera, Varese, o Galliate, Novara). Solo nel 2016 sono state oltre 70 le tappe in giro per l’Italia.

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MODa

1955

primavera estate 1300 modelli nella Sala Bianca di Palazzo Pitti Roberto Mascagni

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li americani ci invidiano: «Italy’s invading U.S.» titola l’autorevole «Women’s Daily» del 9 dicembre 1954; i francesi ci temono; i tedeschi ci invidiano; la curiosità degli inglesi è alimentata dai prestigiosi organi di stampa quali «The Times» e «Daily Herald»; inoltre dalle riviste specializzate. Ricordiamo l’allarme lanciato dal giornale francese «Paris Press» nell’agosto del 1951? «La bombe de Florence a ébranlé le salons de la haute couture parisienne et menacé son monopole»: “La bomba di Firenze ha

scosso i saloni della moda francese”. L’ascendente successo della Moda italiana, per definizione ormai “Made in Italy”, è stato consacrato dal più importante ballo di beneficenza organizzato a Los Angeles, dedicato «Alla Moda francese e alla Moda italiana»: finalmente collocate sullo stesso piano. Con queste premesse la Nona presentazione fiorentina dell’Alta Moda italiana ai mercati esteri ha debuttato nella Sala Bianca di Palazzo Pitti la mattina del 24 gennaio 1955 con una sfilata di cappelli per signora alla quale hanno partecipato Biancalani, Cerrato, Export-Zacco, Leonella, Schuberth, Veneziani (ai nostri modisti ha fornito i feltri il cappellificio “La Familiare” di Montevarchi); mentre alle 12 della stessa mattina è stata inaugurata al Grand Hotel (l’odierno “The St. Regis Florence”, in piazza Ognissanti) la Mostra degli accessori esposti da quaranta ditte artigiane provenienti da tutta Italia: le più idonee per accrescere il prestigio italiano nel campo dell’esportazione. Le sfilate di Alta Moda sono in programma alle 15,30 e alle 21 fino al 27 gennaio. Come accadde nelle precedenti sfilate, sono state lasciate libere tutte le mattine affinché i compratori e la stampa avessero il tempo per fare le contrattazioni e le interviste, regolarmente svolte nelle sale del rinascimentale Palazzo Strozzi, arredate con mobili antichi e splendidi arazzi. Le Case di Alta Moda che hanno presentato le collezioni per la PrimaveraEstate sono quelle di Maria Antonelli («si ispira al Giappone stilizzato, regale ma indossabilissimo»), Capucci («il ragazzo ingegnoso e giovanissimo»), Carosa (principessa Giovanna

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Caracciolo «che disegna di sua mano i fregi delle stoffe stampate, e la sua Collezione Rhodiatoce è giudicata perfetta»), Fabiani, Guidi, Marucelli («la fiorentina “che legge, guarda, pensa”»), Schuberth (si distingue per «i ricami fastosi e l’ineguagliabile fantasia»), Simonetta, Veneziani («la sua “Slim Line” suggerisce il seno alto, il corpo libero, i grandi colletti romantici, i fianchi liberi e ricchi»). Presentano modelli sportivi il fiorentino Emilio («che utilizza con ispirata abilità le suggestioni dell’isola di Capri», «tutti i colori marini sono la sua tavolozza per gli abiti della prossima bella stagione»), Avolio, Bertoli, Glans, Merving Boutique, Mirsa, Myricae, Anna Tosco, Valditevere, Vito, Volpe. Alcune creazioni di Moda maschile sono firmate dalla Casa Brioni di Roma che nel 1955 presenta completi da sera in seta decantati persino dall’attrice americana Mary Pickford per il marito Charles “Buddy” Rogers. Comunque questa Casa di Mode è l’unico atelier maschile ammesso alla Sala Bianca i cui indossatori possono sfilare seppur come accompagnatori delle modelle di Case di Moda femminile. Dopo i successi fiorentini e americani appare chiaro che Brioni sia una vera certezza nell’Olimpo della Moda italiana. Il disegnatore dei figurini del tempo è Luigi Tarquini, autore di bellissime copertine su la rivista «Costume». (Fra i clienti di Brioni ci sono famosi personaggi del cinema e della politica: gli attori Totò, Victor Mature, John Wayne, Peter Sellers e i senatori Robert Kennedy ed Edward Kennedy). Gaetano Savini Brioni non è nato con il cognome Brioni ma si è così strettamente identificato con il marchio da


lui fondato, quando nel 1952 decise di aggiungere Brioni al suo nome. Lo stile di Gaetano Savini riflette la cultura italiana nelle sue sfumature più raffinate e creative e si è diffuso in tutto il mondo, sfidando e cambiando la visione e lo stile nell’abbigliamento maschile della seconda metà del XX secolo. Oggi, i colori e i tagli particolari del total look che mostrano i modelli nelle sfilate sono una visione familiare e consueta: in realtà Gaetano Savini Brioni dovette usare tutto il suo impegno e carisma per convincere Giovanni Battista Giorgini a far sfilare i suoi modelli in passerella fino ad allora appannaggio esclusivo delle donne. Ormai è Storia. Siamo a Firenze, nel 1952 e la passerella è quella della Sala Bianca di Palazzo Pitti. Quello fu il vero trampolino di lancio, quando B. Altman & Co., famoso Department store sulla Fifth Avenue di Manhattan, fu colpito dall’originalità e dalla bellezza delle creazioni di Gaetano Brioni e le acquistò per esporle nelle sue vetrine di New York. I suoi colori innovativi, le sete pregiate, i tagli morbidi divennero la sua cifra distintiva che i giornalisti di moda di tutto il mondo definirono stile continentale. Da allora Gaetano, per tutti, divenne Mister Brioni. Torniamo alle sfilate del 1955. Sono ammirati i gioielli di Luciano, di Coppola e di Toppo, le scarpe di Ferragamo e le sciarpe ricamate di Pink e Goetz.

Le maglierie sono giudicate perfette perché in ogni loro applicazione possono sostituire veramente qualsiasi tessuto. Studiatissimo, ogni modello è creato per donare grazia ed elegante snellezza alla linea femminile. Le cronache giornalistiche esaltano «tre vestiti da sera, per i quali la maglia ha raggiunto una vaporosità che ha permesso di confezionarla come un “tulle” leggero». Gli industriali tessili hanno proposto le loro ultime novità collaborando con le Case di Moda. Nelle sale di Palazzo Strozzi i compratori esteri hanno esaminato i tessuti prodotti da Bemberg, Lanificio Bevilacqua, Setificio Costa, Setificio Cugnasca, Lanificio Faudella, Lanificio Il Fabbricone, Cotonificio Legler, Lanificio Marzotto, Lanificio Piacenza, Lanificio di Pontefelcino, Rhodiatoce, Setificio Stehli, Setificio Terragni, Textiloses & Textiles. Al disopra dei contrasti fra Roma e Firenze, fra Milano e Torino, preso atto delle polemiche fra le Case di Moda in varie città, si capisce (o si dovrebbe capire) quanto sia palese la necessità di far “sistema” nell’interesse generale della nostra economia. Eppure sono in gioco interessi di miliardi. Per esempio, un modello acquistato da un grande magazzino americano può essere replicato anche in trentamila esemplari. Massima attenzione, dunque, nella Sala Bianca, gremita di oltre 500 compratori, da circa 200 corrispondenti della stampa di tutto il mondo e dai rappresentanti delle industrie

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tessili, che hanno seguito in un silenzio impressionante, nei quattro giorni della manifestazione, le sfilate di 1300 modelli. L’eco dell’inimmaginabile successo di questa presentazione traversa l’Oceano e viene raccolto dalla National Broadcasting Company di New York, che invita Giovanni Battista Giorgini insieme con da quattro indossatrici per presentare un certo numero di modelli, di cappelli e di accessori, delle Case di Moda che sfilato a Firenze, per partecipare a una trasmissione televisiva. Il soggiorno e la partecipazione alla televisione sono stati offerti gratuitamente. Il programma, della durata di 30 minuti, sarà diffuso da 88 stazioni televisive degli Stati Uniti e sarà seguito da oltre 10 milioni di spettatori. Considerando che ogni minuto primo di questa trasmissione ha un valore commerciale di 5 mila dollari, il totale ammonta a 200 mila dollari, ossia a 100 milioni di lire (di allora!). La comitiva italiana partirà dall’aeroporto di Ciampino a bordo di un aereo di una importante compagnia che ha offerto il volo di andata e ritorno.

Pochette metà anni ’50 Roberta di Camerino, in velluto di seta, fondo raso, con chiusura in porcellana. (Collezione Cristina Giorgetti. Fotografia di Moreno Vassallo). Tailleur con giacca a doppio risvolto con ornamento di bottoni nelle falde anteriori. Giacca a quattro bottoni, con piccolo collo a doppio rever. Gonna a mezza ruota (1952). Soprabito con collo sciallato, maniche ampie con taglio a “pipistrello”, con motivo impunturato sui due mezzi davanti a definire le tasche a toppa, a loro volta decorate da una serie di impunture orizzontali (1952).


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psicologia

N NONONONONONONONONONONO O

il bullismo nella prima infanzia Costanza Cino

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a maggior parte degli studi che hanno indagato il fenomeno del bullismo si è concentrata sull’età scolare e adolescenziale, ma da numerose ricerche condotte su bambini in età prescolare, ne è risultata la presenza anche nella prima infanzia, come conferma un recente studio condotto in Italia nel 2013 da Costabile e collaboratori. Esistono numerose implicazioni a lungo termine dell’essere oggetto di vittimizzazione nella prima infanzia: bambini che sono stati vittime di bullismo all’interno della scuola materna imparano dalle loro esperienze e tendono ad agire in età successive comportamenti aggressivi verso i propri coetanei. Quindi uno dei fattori di rischio dell’essere vittima di atti di bullismo in età prescolare sembra quello di divenire in seguito un aggressore, in una sorta di inversione ruoli tra bullo e vittima. Bulli e vittime restano spesso imprigionati nel loro ruolo perché condizionati dalla loro reputazione all’interno del gruppo, che li spinge a comportarsi come gli altri si aspettano da loro. Il perpetuarsi del medesimo copione

porta quindi al mantenimento e al consolidamento della stessa posizione, i quali espongono il bullo al rischio di divenire un soggetto antisociale durante l’adolescenza, di fare uso di sostanze e deviare dalle norme sociali, mentre la vittima va frequentemente incontro a situazioni di abbandono scolastico, depressione e talvolta suicidio. Sia chi ricopre la posizione di bullo, sia chi si trova in quella di vittima durante l’età prescolare, rischia di essere

esposto nel tempo ad una cristallizzazione del comportamento aggressivo, di mantenersi o divenire l’oggetto di un persistente rifiuto da parte del gruppo dei pari, nonché di strutturare problematiche a livello psicologico, emotivo, sociale e comportamentale, dovute all’adozione di modalità relazionali disfunzionali. Sono auspicabili e necessari precoci interventi volti a contenere il fenomeno del bullismo già nella prima infanzia, soprattutto considerando il possibile innescarsi di un meccanismo a catena che comporta situazioni problematiche che originano dall’età prescolare, si mantengono e consolidano nel periodo scolare e adolescenziale, e che potrebbero poi ripercuotersi anche all’età adulta. Ascoltare bambini e adolescenti, interessarsi ed informarsi circa il loro mondo sociale, non sottovalutando il loro vissuto emotivo, può proteggerli dall’instaurarsi di un disagio psicologico, di condotte antisociali e dall’isolamento sociale. per info: dott.sa Costanza Cino www.psicostanza.it

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medicina

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osso sacro N

el corso degli studi medici sovente non si ha la possibilità di indagare sull’origine e sul significato dei termini che vengono insegnati. Così, in tempi recenti, anche se a distanza di quarant’anni dagli studi di anatomia, mi è nata l’idea di indagare sul significato dell’aggettivo “sacro”, assegnato all’osso impari, a forma di piramide rovesciata, interposto fra le vertebre lombari e il còccige. La terminologia medica moderna trae spesso origine dalla lingua greca e dagli studi di Ippocrate, che fu il primo a studiare l’anatomia e la patologia, applicando la dissezione dei cadaveri. All’interno del Corpus Hippocraticum, contenente opere anche dei suoi seguaci, scritte tra il 420 e il 100 a.C., il termine “sacro” viene assegnato non soltanto all’osso, ma anche all’epilessia (“morbus sacer”) e al famoso giuramento del medico. Alla sua epoca l’Egitto era ritenuto il Paese più avanzato nella cultura scientifica e tecnologica, nonché nell’aritmetica e nella geometria. Secondo alcuni l’osso sacro

Fernando Prattichizzo

viene così definito a causa di una errata traduzione dal greco al latino. In greco antico l’osso sacro si chiamava “ieros osteon”. Ieros può significare sia grande che sacro. Secondo tale orientamento, i greci probabilmente intendevano “osso grosso”, ma una errata traduzione in latino portò a chiamarlo “osso sacro”. È da ritenere più probabile - invece - una traduzione corretta, poiché l’osso “sacro” non è il più grosso dello scheletro e perché la sua posizione in corrispondenza dei genitali deve averlo ritenuto all’origine della pro-

creazione, quindi della continuità della specie. Altra influenza sull’aggettivo può averla data la forma piramidale, ritenuta sacra dagli Egizi. Del resto la piramide è ancora oggi simbolo massonico della saggezza che conduce all’occhio onniveggente, come raffigurato anche sulla banconota da 1 dollaro statunitense.

Osso Sacro Dollaro Ippocrate busto conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli

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alimentazione

come difenderci da influenza e raffreddori

Paola Baggiani

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n questi ultimi mesi invernali può capitare che ci sentiamo deboli e affaticati, poiché il nostro sistema immunitario è sensibile a fattori ambientali come freddo e umidità ed ha combattuto contro virus e batteri di vario tipo. È per questo che possiamo diventare adesso ancora più suscettibili ad ammalarci di raffreddori, influenza e bronchiti, o che questi possano manifestarsi in modo più potente o protrarsi più a lungo. Questo vale per tutte le età, ma sopratutto per i bambini e gli anziani. Come sempre è meglio cercare di prevenire: innanzitutto evitare una vita sregolata e stressante, poiché lo stress può impoverire il nostro organismo di alcune vitamine e minerali importanti nella lotta contro le malattie respiratorie; combinare in modo equilibrato il riposo e l’attività fisica,

come passeggiate a piedi o in bici, approfittando delle giornate di sole per migliorare la sintesi della vitamina D necessaria per fissare il calcio nelle ossa. Sopratutto è importante un’alimentazione equilibrata in macro e micronutrienti. La dieta va arricchita con ali-

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menti che contengono dosi elevate di vitamine, minerali, e antiossidanti: per garantire questo giusto apporto è consigliabile consumare 5 porzioni di frutta e di verdura fresca al giorno; in particolare agrumi, kiwi, melograno broccoli, cavoli, verza, peperoni, patate dolci, ricchi di vitamina C. Numerosi studi dimostrano l’efficacia della vitamina C nell’aumentare le difese immunitarie alzando i livelli di interferone nel sangue; è un antibiotico naturale per le vie respiratorie, per l’apparato digerente e l’intestino; bastano piccole quantità di vitamina C, 60 mg al giorno, per avere questi benefici. Questa vitamina è una sostanza molto delicata che si distrugge con la conservazione e con il calore del fuoco, per cui la frutta va consumata fresca. Va evitata la frutta già preparata, o i succhi di frutta, che ne sono privi; le industrie aggiungono vitamina C sintetica che però non ha gli stessi effetti: meglio una bella spremuta o un kiwi al mattino per iniziare bene la giornata. Sono ricche di antiossidanti e ci aiutano a combattere la produzione di radicali liberi, rafforzando il nostro sistema immunitario, la vitamina E, presente nell’olio d’oliva e in altri


la concentrazione di inquinanti e con la concomitante presenza di virus e batteri si verificano le epidemie di influenza e malattie respiratorie. Uscire appena possibile dallo smog della città andando a passeggiare in mezzo alla natura, sia aperta campagna, sia un bosco verde, sia il mare o una valle alpina è un’ottima terapia per il corpo e per la mente! www.baggianinutrizione.it oli vegetali, nella frutta secca come noci, mandorle nocciole. Lo zinco (presente nelle carni rosse, nel fegato, nelle uova, nei cereali integrali) e il selenio (presente nei molluschi, nei semi di girasole, nel latte e latticini) stimolano la produzione di anticorpi. Anche i condimenti e le spezie con cui possiamo insaporire i cibi ci sorprendono per i loro benefici: aglio e cipolla hanno proprietà antisettiche e fluidificanti. Le spezie come peperoncino, curry e paprica sono ricche di acido acetilsalicilico importante principio antinfiammatorio (aspirina). Usando il limone per condire facilitiamo l’assorbimento del ferro presente negli alimenti, che a sua volta potenzia le difese naturali contro raffreddori e tosse. È necessaria l’assunzione di una adeguata quantità di liquidi preferibilmente caldi poiché il calore è un killer per virus e batteri (ecco perché il corpo si difende con la febbre!). Oltre all’acqua si possono assumere bevande calde come the, infusi e tisane ricche di vitamine e bioflavonoidi; ottima acqua, limone, miele e zenzero per disinfettare la gola e per una sferzata di energia. Per proteggere i linfociti T, attori principali del nostro sistema immunitario che risiedono nelle tonsille e nelle varie stazioni linfatiche del corpo e che eliminano batteri e virus dal nostro torrente circolatorio, occorre evitare lo zucchero raffinato perché riduce del 50% la quantità dei linfociti T per un periodo di due ore dopo la sua ingestione; possiamo sostituirlo con miele che rafforza il sistema immunitario. Infine la terapia con probiotici può essere di grande aiuto nella prevenzione delle malattie invernali, poiché l’ecologia intestinale influenza le difese locali delle alte e basse vie respiratorie; è importante assumere i ceppi più adatti e per lungo tempo. L’inquinamento ambientale con la presenza delle polveri sottili è una delle principali cause delle malattie respiratorie: proprio in inverno quando aumenta

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curiosità

rosa... rosae Una rosa non ha bisogno di predicare. Si limita a diffondere il suo profumo. Gandhi Patrizia Bonistalli

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itenuta fin dalle epoche più remote simbolo di raffinatezza e di grazia, la rosa è stata tra i primi fiori scelti dall’uomo per la coltivazione, sia a scopo ornamentale nei giardini che per poterne utilizzare le proprietà officinali ed aromatiche. In un inesorabile succedersi di tradizioni pagane e cristiane tra i popoli, la rosa ha custodito intatta la prerogativa di splendore ed amabilità nonché una propria simbologia. Nel mondo egiziano essa era ritenuta un fiore sacro, come dimostrano rappresentazioni simboliche reperite presso le piramidi. Particolarmente cultori delle rose erano i Greci, i quali dedicavano il fiore ad Afrodite, simbolo dell’amore, del matrimonio e della fertilità. I Greci ritenevano che la rosa avesse avuto origine dalla trasformazione di una ninfa risvegliata dal bacio di Apollo; raffigurazioni e ceramiche hanno rivelato come fosse venerata al punto da ricavarne interi paradisi naturali. Gli antichi Romani realizzarono immense coltivazioni di rose nell’Italia meridionale: era consuetudine gettarne petali al passaggio dell’imperatore e di petali era ornato perfino il diadema che egli portava sul capo. Per di più, presso i Romani era questo uno dei fiori con i quali venivano guarnite le sepolture. Tra i popoli arabi e d’Oriente la coltivazione delle rose risulta essersi diffusa molti secoli prima di Cristo, laddove le origini della rosa riconducevano spesso a significati trascendenti: alcuni testi poetici arabi mettono in relazione la comparsa della prima rosa con l’invocazione di un nuovo sovrano nell’oasi dei fiori in quanto il loto nella notte si era addormentato. Leggende celtiche raccontano come vi fosse un fiore color bianco-neve sopra il quale un usigno-

lo cadde inebriato dal suo profumo: non sentendo le spine che ferivano il suo petto, ne colorò i candidi petali di rosso, da cui nacque la rosa rossa. Nella tradizione biblica la prima rosa presente nell’Eden fu un fiore privo di spine fatto di pura bellezza, intriso di un messaggio di sola gioia e diletto. La rosa d’oro, emblema di perfezione ed incorruttibilità nella simbologia cristiana, perviene ad immagine del pontefice romano. Percorrendo lo sconfinato universo della letteratura, in poesia e in prosa, dai grandi classici giungendo fino all’espressione letteraria moderna, immancabilmente rinveniamo la rosa come metafora dell’esistenza: la particolare conformazione di questo fiore, spinoso e avviluppato in se stesso come un piccolo cespuglio quasi inesplorabile, evoca la bellezza, la fragilità e il mistero della vita, che una volta recisa rapidamente scompare. Solo per riferirne due esempi supremi: in Romeo e Giulietta, a quest’ultima è dato di proclamare a voce il fiore simbolo dell’amore eterno: – «Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome serberebbe il suo

Rosa Rossa passione. Rosa Bianca luce, innocenza. Rosa Bianca e Rossa unione di fuoco ed acqua. Rosa blu mistero, saggezza. Rosa rosa affetto. Rosa arancio fascino. Rosa Gialla gelosia. Rosa Gialla ornata di rosso amore eterno. La più umile rosa si fa glossa del nostro cammino terreno. Umberto Eco

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dolce profumo»; in Dante, il nucleo di una candida rosa è il luogo dell’amore paradisiaco nella Divina Commedia – «In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa». Significati complessi dell’essere umano, talvolta ambivalenti come purezza e passione terrena, istante ed eternità, vita e morte, sono sopravvissuti per millenni gelosamente riposti nell’immagine delle rose. In realtà, numerose tipologie di rose create dagli ibridatori nel corso delle epoche oggi non esistono più. Attualmente, si trovano centinaia di differenti specie particolarmente diffuse nelle zone dell’Emisfero Boreale e dell’Oceano Pacifico. Non sussiste una classificazione univoca delle rose, è possibile suddividerle in gruppi con delle caratteristiche comuni tra di loro, alcune delle quali si definiscono antiche ed altre invece scaturiscono dalle attività di ibridazione dell’uomo. Le rose moderne o Tea sono le più diffuse e traggono il loro nome dall’Oriente, dove venivano utilizzate per la preparazione del tè; vi sono inoltre le rampicanti, che si presentano come piante particolarmente resistenti; infine, le rose in miniatura sono le più piccole ma possiedono la medesima grazia e fragranza delle altre, le rose cosiddette a cespuglio sono impiegate per l’abbellimento dei parchi. In relazione alla varietà a cui appartiene, la rosa può raggiungere da venti centimetri a molti metri di altezza. Allo stato attuale, i petali vengono utilizzati per le loro virtù in profumeria, in cosmetica, pasticceria e liquoristica. In maggior misura, le rose sono amate in quanto corolle evocatrici d’ideali e simbologie, ed ogni varietà porta con sé un messaggio diverso per cui più di ogni altro fiore vengono scelte per essere donate.


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COSTUME

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in da bambina, nella mia casa, c’è sempre stato un rito senza tempo, senza stagione. Un momento di grande complicità, di calore e intimità: l’ora del tè. Bersi una calda tazza di tè è sempre stato un rituale, per fare due chiacchiere, raccontarsi la giornata con i bambini, incontrare un’amica, scaldare la gelida serata invernale sul divano. L’ora del “tè delle cinque”, è una solida tradizione britannica. Fu la Duchessa Anna di Bedford nel XIX secolo ad introdurre nelle sale dell’alta aristocrazia inglese l’abitudine di bere una tazza di tè servita con piccoli spuntini sia dolci che salati, proprio intorno alle cinque di pomeriggio. La tradizione vuole il tè servito in tazze di finissima porcellana con del latte freddo per evitarne la rottura. Nascosto sotto un aspetto tradizionale e antico, l’afternoon tea è un rituale, un momento di aggregazione molto in voga tra i giovani. Moltissime sono le sale da tè che fioriscono specialmente nelle metropoli nazionali e internazionali. Moltissime le maniacali pratiche di servizio di questo momento ideale della giornata, che sposano la dilagante ricerca estetica per un servizio in porcellana o la tazza di ultimo design. È un rito che piace, perché permette di dedicarsi a una socialità condivisa ma intima, lontano dal mondo chiassoso degli happy hour. E cosa c’è di meglio di un tè, accompagnato da piccoli assaggi di bontà, per conciliare chiacchiere e confidenze? Il tè verde è stato per molto quotato come il top, ma a seconda delle varietà, i benefici di questo infuso sono molteplici: proteggono il cuore, rinforzano il sistema immunitario e aiutano persino a prevenire i tumori. In più

Eleonora Garufi

sono ottimi tonici, depurativi e antistress. Il Darjeeling o tè nero, è ricco di teifillina che, come la caffeina, svolge un’azione vasocostrittrice con effetto analgesico. Ma attenzione è un eccitante quindi lo si eviti se si è ansiolitici e nervosi! L’Huo Shan Huang Ya è tra i più preziosi tè cinesi; contiene poca caffeina e una buona quantità di vitamine A, B2, C e P. Quel che lo rende rilassante è la teanina, che incrementa l’attività delle onde alfa favorendo il relax. È proprio la Cina a regalare l’infuso migliore e più ricercato, quindi, se avete voglia di sperimentare potete allargare la vostra conoscenza dell’Oriente. Io rimango legata al mio ricordo di bambina: un classico English Tea, in casa al calduccio con le amiche, con tazze colorate, scombinate. Miele al posto dello zucchero e biscottini da “inzuppare” insieme ai nostri cuccioli… e per loro ovviamente deteinto.

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Con proprietà curative o meno, una tazza di tè è sicuramente la cosa più adatta per scaldare l’animo e tranquillizzarlo, e per regalarsi un momento di intima complicità, anche con se stessi.

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