UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI UDINE
CORSO DI COMUNICAZIONE
La comunicazione come interazione strategica Gianugo Cossi
Premessa In questa dispensa si parlerà di comunicazione in termini di interazione faccia-a-faccia. Lo studio della comunicazione come “interazione strategica” è stata sviluppata, più di tutti, da Erwing Goffman durante gli anni Sessanta. Per capire come l’interazione avvenga, si parte dal postulato che la comunicazione si attui secondo due finalità principali:
Sommario:
Premessa La sacralità della “faccia sociale” Compostezza ed efficacia Orientamento difensivo e protettivo Il processo correttivo Ordine espressivo Convenienze nella dinamica di faccia
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1. vantaggi concreti (denaro; beni); 2. vantaggi “nella comunicazione” (“farsi notare”; “acquisire prestigio”). Lo studio riguarderà l’insieme dei contesti che ricadono nel secondo caso. Per ciò, si parlerà di finalità “nella comunicazione”, o interazione strumentale nella comunicazione. Per interazione si intende un rapporto di comunicazione biunivoca (nei due sensi) tra i partecipanti allo scambio (che qui si indicherà con la nozione ampia di “gioco”) comunicativo. Inter-azione significa che tutti i partecipanti al gioco comunicativo sono, in qualche modo, emissori, e insieme recettori, di informazione. La definizione di interazione sociale è dunque questa: “relazione tra due o più soggetti, individuali o collettivi - di durata breve o lunga - nel corso della quale ciascun soggetto modifica reiteratamente il suo comportamento (o “azione sociale”) in vista del comportamento o azione dell’altro”.
Su questo si potrebbe dare un’immagine dell’interazione strategica, che corrisponde al gioco degli scacchi. Non è necessario che gli scacchisti siano dei buoni psicologi. Conta, semmai, che le mosse entro i meccanismi previsti dalle regole del gioco procedano secondo un percorso finalizzato al conseguimento di un qualche tipo di vantaggio. In altri termini, conta ciò che avviene - e quindi quello che si vede - sul campo da gioco: la scacchiera. In base alle configurazioni assunte da tale scambio di atti, i partecipanti modellano costantemente il loro piano di presentazione, rapportandosi alle strategie dell’altro. Per lo studio dei giochi interattivi avviene un po’ la stessa cosa: ‘le mosse’ fanno parte di un piano strategico che interagisce con altri. La scacchiera è la metafora del “campo da gioco” comunicativo.
studiare ogni tipo di interazione, ma solo a selezionare quelle forme comunicative in cui si ravvisa una sorta di “competizione” tra gli attori. Ossia, in cui si evidenzia: un premio o vantaggio; un corso di gara; un gruppo che interagisce in maniera strumentale. Lo stesso Goffman è stato chiaro su questo, sottolineando l’aspetto che gli studi strategici sull’interazione faccia-a-faccia non presentano confini analitici fissi. Si prenderanno in considerazione “solo quegli eventi che, una volta iniziati, debbono arrivare a conclusione” (Goffman). L’interazione strategica può essere utilizzata per analizzare i fenomeni seguenti: la comunicazione politica e commerciale; il modo con cui si comporta il pubblico ad una mostra d’arte; l’interazione faccia-a-faccia in un colloquio di lavoro, eccetera.
A qualcuno questo tipo di approccio sembrerà meccanico. Il fatto è che l’”interazione strategica” non è interessata a
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La sacralità della “faccia sociale”
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Premessa La sacralità della “faccia sociale” Compostezza ed efficacia Orientamento difensivo e protettivo Il processo correttivo Ordine espressivo Convenienze nella dinamica di faccia
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Nel mondo degli incontri sociali si è portati a mantenere costante una certa “linea”. Per linea si intende un “modello di atti”. La sua funzione è “mettere in campo” la propria visibilità sociale, resa manifesta nella situazione dell’incontro. Per “faccia” si intende un’immagine di se stessi, delineata in termini di attributi sociali positivi, significativi e distinguibili (e perciò notabili, osservabili) dagli altri. Per “faccia” non si intende solo la mimica facciale, o l’aspetto del volto. Per faccia si intende un “sistema” di comportamenti che viene riconosciuto socialmente. Per “gioco di faccia” si intende tutto ciò che si fa per rendere le proprie azioni coerenti con la propria “faccia”. La “conservabilità” della faccia sembra un aspetto essenziale per la tranquillità nella vita sociale.
sorta di “essenza” individuale non considerando l’ineffabilità (l’ambiguità, a volte) dello stile comunicativo. Nel gioco al riconoscimento, funzionano le regole del “come se”. Si comporta come “se fosse competente”; allora vuol dire che “preparato per il compito che sta svolgendo” eccetera. A lungo andare il condizionale viene meno e il modello di atti, socialmente identificato, vale a titolo di prova. La costanza della salienza degli atti si costituisce in una sorta di unità, tale unità espressiva si confonde con la persona di cui si parla: una persona diviene “il modo con cui comunica”. Per altro, sembra che, per gli esseri umani, sia molto più importate la coerenza verso un modello costante, piuttosto che le caratteristiche del modello in sè.
Quando una persona è nota come gioviale e aperta, chi la conosce superficialmente la considera in termini piuttosto statici. Quella data persona è “simpatica e socievole”, si dirà. Ed è quello che conta. In realtà, l’immagine sociale non significa nulla più di ciò che è comunemente rappresentabile. L’immagine sociale è quindi una forma “consensuale”, il che però equivale a rinvenire, in tale dimensione, i caratteri della genericità. Molti di noi sono portati a confondere la costanza di un certo “modello di atti” con altri aspetti “in ombra” - non mostrati e ugualmente importanti - di una persona. L’immagine sociale, per il suo valore collettivo, dà l’illusione di poter conoscere una
La persona simpatica che si scopre antipatica, l’altruista che mostra un inaspettato interesse per il denaro eccetera. Si tratta di casi dubitativi, in cui una persona “rivela inaspettatamente” una “natura” opposta a quella apprezzata e già “archiviata”. Per questo si può dire che il sistema di comunicazione umano è “conservatore”, inizialmente poco recettivo nei confronti dei cambiamenti. Il cambiamento di rotta crea un’immediato sconcerto, poiché determina un doppio “errore” di posizione: quello che l’osservatore ravvisa nel modello di atti della persona osservata; e quello interno, che chi valuta prova in se stesso, e che lo fa diffidare della sensatezza delle
sue percezioni. Probabilmente i cambiamenti non sono, nell’immediato, ben accetti perché quando si osservano gli altri si dà fiducia assoluta al proprio ordine percettivo, cioè ai propri criteri di giudizio. Così facendo, ci si mette completamente in gioco come giudice e pronosticatore razionale. In un certo senso, è anche su quello che fanno gli altri che, molti di noi, determinano il proprio grado di fondatezza come esseri umani. Per quanto sembri strano, se gli altri si comportano in maniera (da noi) non prevista, è come se ci smentissero. In parte, la reazione “indignata” di opposizione all’imprevisto si basa sull’indesiderato ridimensionamento del proprio egotismo. Per cui, quando una persona appare diversa da come ci si aspettava, si può verificare quello che nelle società nordiche è ben noto come “scandalo”. Il che equivale alla scoperta, collettiva, di un errore nel sistema di valutazione adottato per giudicare universalmente la “faccia sociale”. Alcuni si sentono ingannati, traditi (anche da loro stessi), e si diffida del legame stabilito col modello utilizzato per socializzare l’immagine di un individuo. Questo vale su un piano spaziale ridotto, e pure nella macro-dimensione della comunicazione dell’industria culturale. Quando la stampa tedesca diffuse la notizia che la tennista Staffi Graf era stata denunciata per evasione fiscale - reato “morale” gravissimo in Germa n ia e n ei paesi “protestanti” - lo scandalo nel
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paese fu molto sentito, di enorme portata emotiva. Rappresentò un’affronto per l’identità nazionale. L’atleta era molto stimata come “cittadina esemplare”, modello per la vita delle nuove generazioni. Non era possibile che ci si fosse sbagliati, e in maniera così marchiana. Il “modello Graf” era stato costruito per essere mantenuto, e con la sua violazione, per un po’ di tempo, la popolarità della campionessa di Bruhl subì un sensibile ridimensionamento. Ben diversamente, in un paese dove la “faccia sociale” non è necessario che goda di tali requisiti, questo reato è considerato meno grave, e anzi, in taluni casi può suscitare (anche se non ufficialmente) un senso di ammirazione e di invidia. In effetti, studiando le modalità di perdita e conservazione della faccia, si può capire molto della cultura vigente in una società. Allora, soprattutto per personalità molto note, stabilire un modello di co mporta ment o durevole è un problema molto delicato ed essenziale. Un altro esempio di cambiamento della “faccia sociale” può essere dato dal cantante americano Bob Dylan. Negli anni della Contestazione Dylan era conosciuto per aver assunto tutta una serie di posizioni politiche “militanti”: critica alla guerra del Vietnam;
permissivismo sessuale; opposizione a tutte le istituzioni conservatrici, comprese quelle religiose. Inaspettatamente, nel 1980 l’artista annunciò di essersi convertito al Cattolicesimo, e pubblicò un disco, testimonianza di questo cambiamento esistenziale: Saved.
Il problema di immagine si pose allora in maniera formalmente decisiva. Come poteva un cantautore che, per più di un decennio si era mostrato laico e progressista (“contro” come si diceva), riproporre la sua immagine in termini di “convertito” (per di più ad una religione notevolmente strutturata e tradizionale), pur volendo mantenere il medesimo successo? La contraddizione determinò un certo spaesamento nel mercato degli intenditori del genere. La confusione coinvolse una consistente fetta di compratori ed appassionati anche se i contenuti musicali del disco non erano molto diversi dallo standard abituale. Per il pubblico, chi era cambiato? L’uomo, l’artista o entrambi? Il compratore medio si limitò a notare una strana simbiosi di misticismo e retorica populista. Detto in modo semplice: Dylan, per molti appassionati, non aveva più un’immagine attendibile.
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ruolo in maniera radicale bisogna saper prevedere le reazioni che questo cambiamento provocherà nel comportamento di chi interagisce con noi. Se il cambiamento è brusco, per un po’ di tempo dominerà lo sconcerto, che continuerà sino a che il nuovo modello verrà accettato e diverrà suscettibile di elaborazione. Un’immagine incoerente, instabile, con passaggi imprevedibili da un modello all’altro, colpisce molto di più di un’immagine socialmente negativa, ma mantenuta con costanza e forza. Quindi, la “faccia” (facciata) corrisponde al valore sociale positivo che una persona rivendica, nell’utilizzo della “linea” che gli altri riterranno regolarmente assunta mediante un contatto particolare (durevole) con il resto della società. Poiché alla faccia sociale ci si approccia con franchezza quindi si agisce e la si valuta “sulla fiducia” - ogni violazione dell’integrità nell’immagine sociale, corrisponde ad una sorta di trasgressione delle regole comunicative. Goffman, per tali casi, parla di “rottura” dell’integratà rituale, o anche, di “disgrazia rituale”. L’interazione sociale può studiarsi nella forma del rituale, poiché essa è considerata una forma di convivenza con elementi fissi, ripetitivi. Il più importante di tutti prevede una clausola: al momento di inizio gioco, la faccia dei partecipanti è data per integra, inviolabile, quindi “sacra”.
Quando si cambia il proprio
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Compostezza ed efficacia
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Come detto, un’individuo conserva la propria immagine sociale quando la linea di condotta assunta è coerente con la linea che tutti vedono. La “linea” tende ad assumere, perciò, un carattere legittimo e istituzionalizzato. La legittimità di una linea è legata a fatti passati, ed implica diverse considerazioni su quelli futuri. La faccia sociale è quindi una sorta di “precondizione” per poter essere in società, ed è una precondizione soggetta a giudizio continuato. Per chi ha avuto guai con la giustizia l’esempio è fin troppo chiaro. Il passato è considerato un metro di giudizio per il presente, e sembra altrettanto valido per capire quello che accadrà in futuro. Il pregiudizio assume la forma dell’enunciato costruito analogicamente. Siccome la “facciata” è così importante, ciò spiega perché una persona provi un’immediata re azion e e motiva all’interazione con gli altri (“attaccamento sentimentale” alla propria “immagine”). L’identità pare messa alla prova, e si ha la sensazione di coinvolgersi in un confronto determinante. In realtà non è così, poiché nell’interazione più superficiale si confrontano regole di comunicazione consuetudinarie, perciò convenzionali ed approssimative. In sintesi, si può dire che, nel momento in cui si ha contatto con gli altri, si possono verificare tre situazioni: 1. c o n fe r ma / a c ce t ta z i o n e sociale dell’immagine; in questo caso può non
esservi nessuna reazione da parte di colui che è accolto, in particolare se l’accettazione si giustifica per ragioni di etichetta (es.: “far parte di un club esclusivo”); 2. conferma tramite apprezzamento; l’accettato risponde all’apprezzamento con una reazione, chiaramente espressa, di soddisfazione; la soddisfazione si può giustificare per il fatto che, alla partenza, il risultato non era affatto dato per scontato; 3. sconferma; la mancanza di conferma intacca l’integrità rituale dell’attore che idealmente e fattivamente - percepisce di essere escluso dal gioco interattivo. Ciò può implicare che, se offeso, l’attore ritenga poco conveniente mostrare il suo grado di delusione. In tal caso, la condotta “difensiva” può venir preferita anche perché, così facendo, l’azione di sconferma può venir ridiscussa dal gruppo che gli ha lanciato la sfida.
panti ai sub-sistemi produttivi. In seconda istanza, ci si aspetta che i membri di ogni gruppo sociale dimostrino di saper differenziare il gioco di faccia, e così avere una sufficiente padronanza del suo efficace impiego. Nella nostra società questa capacità di saper gestire le proprie qualità di mediazione è chiamata savoir-faire, diplomazia, o abilità sociale. Chi dimostra di essere poco versato in tale attività corre il rischio di venir incompreso e scarsamente valorizzato. Non va dimenticato che il giudizio sull’abilità sociale concerne più l’efficacia del gioco di faccia che la frequenza con cui viene impiegato. Come nelle parole di Goffman “quasi tutti gli atti che coinvolgono altre persone subiscono una modifica, che lo si voglia o no, da considerazioni riguardanti la “faccia”.
Non sembrano esservi molte regole universalmente valide nei giochi interattivi. Una di queste è certamente legata alla nozione di “dignità” e “compostezza”. Per compostezza si intende la capacità di nascondere il sentimento di vergogna durante un incontro con altri. Questo sembra valere al punto che, per molte attività sociali, la gestione “composta” della comunicazione favorisce una profonda interazione con gli altri parteci-
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Orientamento difensivo e protettivo
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In genere, le interazioni seguono due orientamenti. Il primo è difensivo: cioè volto a difendere la propria faccia. Il secondo è protettivo: proteggere la faccia degli altri in contesti sociali. Saper vivere in società significa disporre della facoltà di distinguere tra il proprio prestigio e quello degli altri, e cercare di salvaguardare entrambi. Le persone che fanno poca attenzione alla “faccia” degli altri sono considerate aggressive, il che può essere un vantaggio, ma solo in giochi del tutto particolari: sul posto di lavoro; talvolta in politica eccetera. Tuttavia, dagli studi compiuti nel campo dell’interazione strategica risulta che una posizione marcatamente aggressiva si dimostra, alla lunga, controproducente. In altri termini, la miglior strategia aggressiva si rivela quella “coperta”, che corrisponde ad una strategia apparentemente collaborativa, ma, nei fatti funzionalmente diretta a soddisfare scopi particolari. Infatti, nei giochi interattivi una delle regole essenziali è che “allontanarsi” troppo dal gruppo è un rischio, che va calcolato. Non si gioca mai “da soli”, e questo vale anche per coloro che ritengono di aver acquisito un considerevole vantaggio sugli altri. La tattica aggressiva distingue il singolo dagli altri, in ciò rendendolo osservabile e perciò degno di menzione. Tuttavia, nel fare questo si corre il rischio di rompere alleanze formali, e di realizzare azioni particolaristiche, suscettibili di sanzioni (punizioni) dal resto del gruppo.
La tattica aggressiva è messa in campo da necessità specifiche e individuabili: ciò accade quando una persona considera il gioco di faccia non come una libera eventualità che si realizza fortuitamente, nella naturalezza dell’incontro, ma come “qualcosa che gli altri debbono necessariamente eseguire o accettare” (Goffman). In tal caso, quello che potrebbe essere un piacevole gioco di interscambi diviene una specie di arena, in cui si compie un vero e proprio scontro. In questi casi, il “vincitore” non riesce soltanto a introdurre informazioni sfavorevoli agli altri e vantaggiose per se stesso, ma cerca di dimostrare che, come soggetto interagente, sa condurre il gioco meglio degli altri. Talvolta, la dimostrazione formale di questa superiorità è più importante dei contenuti che vengono scambiati.
Si considerano le modalità di “sfida” che rompono l’unità rituale del gioco di faccia.
C’è però un rischio: mettersi in un angolo da solo. Cioè assumere una linea troppo isolata, poco interfacciata. In tal modo l’aggressore “perde la faccia”, correndo il rischio di fronteggiare una coalizione a lui contraria. In effetti, l’arte dei giochi interattivi si svolge al meglio quando, chi ambisce a farne parte riesce a interagire con ampiezza, ben conoscendo le condizioni di variabilità in cui si svolgono gli scambi. In effetti, l’aggressività produce una sorta di schema a conduzione troppo rigida. A questo servono le tattiche protettive: a bilanciarsi rispetto alla “faccia” degli altri, ed evitare la “sventura rituale” della rigidità.
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L’interscambio sembra essere l’unità fondamentale nella comunicazione. Tutte le strategie che si possono attuare sembrano avere lo scopo di assicurarsi un vantaggio entro i margini di tale unità. Sicchè, le pragmatiche dirette a salvare la faccia si classificano secondo la loro posizione nella sequenza di mosse finalizzate al risultato. Quando un attore si mostra ostile ad una linea di condotta sociale provoca un’asimmetria, una frattura (che si traduce in motivi di contrasto) in tale unità. Così descritto l’attore può dirsi l’offensore dell’ordine rituale, espressivo. Per riparare a tale asimmetria si pone in atto un processo di riallineamento voluto, il più delle volte, da cui fa andare avanti il gioco e che si definisce “processo correttivo”. In tale processo si possono elencare tre mosse “tipiche”: 1. sfida - è la mossa con cui i partecipanti si assumono la responsabilità di richiamare l’attenzione sulla condotta negativa appena manifestata; si richiede che le pretese in pericolo vengano difese e l’offesa venga riparata; 2. offerta - è la seconda mossa, con la quale a un partecipante, di solito l’offensore, viene data la possibilità di riparare all’errore e ristabilire, in tal modo, l’ordine espressivo; ciò si compie in vari modi, ad esempio si può cercare di minimizzare l’accaduto dimostrando che l’offesa era minima e il danno molto contenuto; oppure si
può anche sostenere che l’azione sanzionata era scherzosa o compiuta sotto un’influenza esterna. O ancora si possono fornire informazioni che dimostrano che l’offensore non è in possesso di quelle qualità, quindi anche negative, che gli altri gli attribuivano. Con tutti questi espedienti “il significato dell’incidente permane, ma viene incorporato nel flusso espressivo degli eventi” (Goffman); 3. la terza mossa è costituita dalla risposta da parte dell’offensore - la persona a cui viene fatta l’offerta può accettarla come mezzo adeguato per ristabilire l’ordine espressivo. Le fasi del processo correttivo: sfida, offerta, accettazione e ringraziamento, forniscono un modello di comportamento rituale, astratto, a valore generale. Vi sono delle varianti, la più significativa delle quali è costituita dal rifiuto dell’offensore di tener conto dell’avvertimento, e di continuare nel suo comportamento contrastivo invece di riportare l’attività nella condizione della normalità. In tal modo, l’offensore rimette la scelta finale nelle mani degli “sfidanti”. Ma, tale atteggiamento, attuato per “salvarsi la faccia”, è comunque pericoloso perché può comportare dei forti costi sul piano della salvaguardia dell’interazione. E’ una delle ragioni per cui, a tale comportamento, l’offensore preferisce fare le sue scuse.
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Ordine espressivo
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Quando si assolutizza la propria immagine, si promette agli altri il mantenimento di una condotta stabile, irrinunciabile. In tal modo, l’individuo si autodefinisce di fronte agli altri. Questo comporta, come per ogni assunzione di responsabilità, l’attribuzione di specificità, ma al contempo anche di obblighi. Da quel momento la condotta di un individuo è “sorvegliata”, cioè egli deve essere all’altezza della sua scelta. La sua posizione strategica corrisponde alla frase: “quello che gli altri si attendono da lui”. Per mantenere lo status dichiarato, egli deve perciò rispettare un ordine espressivo, l’ordine che la società gli riconosce in quanto individuo che vuole essere riconosciuto per forti connotati di “ruolo”.
esemplare, nel caso dell’onore la scelta del modello di atti vale “per sempre”, è interiorizzata affinché non vi siano cambiamenti possibili qualsiasi cosa accada; 3. se tali riguardi si applicano all’ordine complessivo (eventi, cose): si parla di “dignità”; ciò si verifica quando la compostezza non deriva da un voto, o da una scelta ideologica specifica, ma da una sorta di rituale di accettazione dei cambiamenti, anche se spiacevoli, in atto. Si può parlare di “fatalismo” dignitoso. In effetti il fato si impone e basta, non deriva dalla scelta individuale.
Una volta che si è scelta la connotazione, si possono verificare tre situazioni: 1. se una persona ubbidisce all’ordine espressivo per sé: si parla di orgoglio; ad esempio, vi sono delle persone che mantengono dei voti (che corrispondono a delle limitazioni) indefinitamente; oppure persone che, sulla propria dignità hanno deciso, per motivi ideologici, di prestare servizio sociale senza richiedere alcun compenso eccetera; 2. se lo fa per un gruppo sociale: si parla di onore; il caso dei soldati giapponesi trovati, in tempo di pace, mentre ancora combattevano nella giungla è un caso
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Convenienze nella dinamica di faccia Quante detto può servire allo studente per muoversi su due piani:
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1. interrelazionale; capire la distanza “giusta” che conviene mantenere con i conoscenti; le persone appena incontrate; i colleghi; e per quanto sembri strano, anche persone che si conoscono da tempo; 2. culturale; esercitarsi a “leggere” le immagini del proprio tempo; quanto è simulato, quanto sembra corrispondere ad un riporto fedele, ma opportunistico; quanto si rivela studiatamente falso, seppur emozionante. Sul piano interrelazionale va tenuto presente che, e quasi sempre nei contesti più importanti, si dimentica di essere adeguatamente protettivi, agendo esclusivamente in base al proprio tornaconto. I contesti possono essere diversi. Si può citare il colloquio di lavoro. In questo caso le espressioni egotiste (“io”; “io non mi sbaglio mai”, eccetera) si traducono in altrettanti errori nella conduzione equilibrata di un conveniente e convincente “gioco di faccia”. Una delle strategie più utilizzate per evitare i contrasti è il cosiddetto “processo di elusione”. Il processo di elusione consiste nell’evitare tutte quelle interazioni (ad esempio, discussioni) che possono comportare un pericolo per l’immagine di qualcuno. Il processo elusivo è dunque preventivo e si basa su una specie di
“immaginazione negativa”. Si immagina una condizione errata e ci si muove nella direzione opposta, per evitarla. Segue un elenco di alcune manovre “elusive”: 1. evitare argomenti che ci metterebbero in contraddizione (o metterebbero in tali condizioni gli altri) con la linea di condotta scelta; 2. parlare delle proprie capacità con modestia, con riserve e con qualche nota umoristica; 3. assicurarsi che agli altri sia applicato lo stesso “cerimoniale” a cui noi stessi abbiamo diritto (ad esempio: “il rispetto dei turni di conversazione”); 4. neutralizzare, con un’opportuna spiegazione (preambolo) una nostra mossa, potenzialmente aggressiva; 5. se, infine, non si riesce a prevenire un incidente, si può fingere che, nonostante quanto è accaduto, non si è mai corso un vero pericolo per la propria immagine, o quella degli altri. Tale “studiata inosservanza”, che significa far finta di non aver visto, si compie quando, per esempio nel rispetto dell’etichetta osservata nelle parate militari si considera chiunque svenga come se non esistesse affatto; in tal modo minimizzando la portata del disagio che questi inconvenienti provocano. In altre situazioni le manovre elusive del “non vedere” e “non comunicare” sono molto usate dai subalterni
al momento di relazionarsi con i superiori. Sul piano della riflessione culturale, saper leggere la “faccia” si rivela un sistema utile per capire i passi falsi, gli “errori in immagine”, le incongruenze in cui incorrono molti sistemi di comunicazione: propaganda politica; informazione nella comunicazione di massa eccetera. L’errore più comune fra gli utenti è considerare la “faccia” (lo stile comunicativo) di un telegiornale come il risultato spontaneo della libera circolazione delle idee: “franco” e completo. Più realisticamente si osserva che nella teleinformazione non c’è franchezza perché il prodotto è filtrato, per di più realizzato per venir fruito nella forma della narrazione stimolante, prefabbricata. Non è un prodotto completo perché, quasi sempre, viene elaborato a partire da un numero limitato di fonti d’agenzia (in Italia, soprattutto anglo-americane). Per concludere, lo studio del “gioco di faccia” serve a relativizzare l’attendibilità delle nostre emozioni, messe alla prova nel gioco delle mosse comunicative. Quando si giudica la comunicazione, talvolta, si cade nell’errore di confondere il suo andamento, e i suoi scopi, con l’impressione soggettiva, sensoriale provocata nell’interazione. E’ facile cadere nell’errore di semplificare il carattere (sempre ineffabile) del comunicatore con lo stile che egli adotta. Invece, è forse più pratico seguire un altro ap-
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proccio. Lo studio goffmaniano può essere utile alla formazione di un’idea più comprensiva e, in un certo senso, “limitata” dei nostri simili. A differenza del gioco romanticopirandelliano delle maschere, e della tecnica (freudiana) “a levare” che, alla fine, lascia intatta la contemplazione del “vero io”, Goffman applica una tecnica opposta, sommatoria. Conoscere bene una persona significa, non tanto impegnarsi a farsi strada verso il suo vero io, ma, conoscendo i suoi modi comunicativi, identificare quali maschere e quali strategie egli adotterà a seconda delle circostanze. In quest’ottica, conoscere a fondo la comunicazione di una persona non vuol dire concentrarsi a “smascherarla”, ma saper distinguere il maggiore numero possibile di “parti”, o “giochi di faccia” che adotta per raggiungere i suoi scopi associativi.
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