Furnaces and standards: variations in glass design 1950—2000

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Politecnico di Torino Tesi di laurea in design e comunicazione visiva dicembre 2016

variazioni sul design del vetro (1950 – 2000)

studente Daniele Vendrame 207889

relatore Elena Dellapiana

correlatori Riccardo Berrone Marco Zito



Non mi piace un sentimentale atteggiamento antiquario verso il passato, come non mi piace un sentimentale atteggiamento tecnocratico verso il futuro. Entrambi si fondano su una... nozione di tempo regolare come un orologio. Aldo Van Eyck



Indice

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Introduzione

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1 ll progetto della luce a Murano La luce e lo standard nel design del vetro 1.1 Vinicio Vianello, dallo spazialismo al design 1.2 Le vetrerie e le forniture

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Cosa accade nel resto d’Europa?

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2 Salviati e l’illuminazione d’architettura L’azienda ieri e oggi 2.1 Sistemi modulari per l’illuminazione

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3 Moduli e stampi in sintesi Una scansione cronologica 3.1 Stampi e metodi di produzione

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4 Conclusione Per un futuro dell’illuminazione a Murano Spunti per lo sviluppo dei sistemi d’illuminazione

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Bibliografia, fonti iconografiche, glossario



7 Introduzione Murano, Salviati e il design

1. Salviati, vaso diatreta, 1890 circa, h 32 cm, Museo del vetro di Murano. Notevole la chiara ispirazione agli artefatti di epoca romana.

Isola simbolo dell’arcipelago veneziano, divenuta sede delle fornaci a seguito dell’editto del 1295, quella di Murano fu la manifattura più ricercata e meritevole di fornire le corti europee dei suoi cristalli, già a partire dal Medioevo fino al XVIII secolo, in costante concorrenza con le altre realtà produttrici di oggetti in vetro sparse in Europa, prima fra tutte quella di Boemia. Dopo la fine della Repubblica, nel 1797, la produzione di vetro artigianale subì di conseguenza una profonda crisi che stentò a risolversi se non dalla metà del secolo successivo, quando le ritrovate forze economiche e un rinnovato spirito imprenditoriale spinsero diversi uomini a voler aprire nuove vetrerie, consci pur tuttavia che il baricentro artistico si era nuovamente spostato: le pulsioni di rinnovamento etico ed estetico erano quelle che si trovavano oltralpe, in Francia, in Germania e in Austria. Questi nuovi imprenditori furono avveduti nel cogliere il rinnovamento del gusto e della clientela, dato che l’aristocrazia lasciava sempre più spazio all’alta borghesia. Il successo di questa rinascita venne assicurato da una pesato sincretismo stilistico: è questo il caso di Salviati, azienda fondata nel 1859 da Antonio Salviati. L’azienda in un primo momento interamente votata alla realizzazione di mosaici e smalti e al restauro degli stessi secondo l’antica tecnica veneziana (Salviati ricevette l’incarico di restaurare i mosaici di San Marco1) si apre poi alla produzione di vetri artistici, stabilendo la sua fornace nel centrale Rio dei Vetrai in Murano. I primi oggetti del catalogo dell’azienda vengono altresì esibiti in diverse esposizioni, a partire dalla Nazionale di Firenze del 1861, l’esposizione Industriale di Venezia del 1863, l’Universale di Parigi del 1867, e ancora a Napoli nel 1871 e nuovamente a Parigi nel 1878, riscuotendo in generale un buon successo. Negli oggetti sono visibili gli spunti provenienti dall’arte vetraria di epoca romana, o comunque neoclassica2, come nei vasi dia1  vi è una ricca bibliografia riguardo i mosaici di Salviati, in particolare cfr. Andreescu Treadgold I., Salviati a San Marco e altri suoi restauri, Venezia, 1999, Estr. da: “Scienza e tecnica del restauro della basilica di San Marco : atti del convegno internazionale di studi: Venezia, 16-19 maggio 1995”. 2  in modo particolare sotto la direzione dell’archeologo


8 treti [fig 1], sia quelli appartenenti all’epoca di maggior rigoglio della produzione muranese e quindi già di matrice bizantina com’è connaturato nella realtà artistica di Venezia, e non ultimi i nuovi spunti provenienti dal Nord e Centro Europa, dal Werkbund e dall’Art Nouveau di Nancy. Così quindi Antonio Salviati e i suoi successori diedero il via al rinascimento del vetro muranese. Nonostante le numerose vicissitudini che seguirono negli anni, sia di natura storica, durante le due Guerre Mondiali, che di natura dirigenziale (fino a non molto tempo fa), Salviati nel tempo vide sempre riconosciuto il suo carattere di azienda storica sempre aperta all’innovazione, anche grazie ad una costante collaborazione con artisti locali ed internazionali (dal genio di artisti come Luciano Gaspari, vicino all’arte di Virgilio Guidi e alla corrente dello spazialismo veneto, nascono alcuni tra gli oggetti più significativi di tutta la produzione di Salviati). Senza soffermarci sulla produzione imposta dall’autarchia, per cui si arrivò a produrre tubi in vetro boro-silicato per lampade e valvole, per quel che riguarda il 1900 possiamo dire quanto segue. La nuova concezione del design che il boom economico portò in Italia, fece sì che anche uno dei distretti manifatturieri più radicati nella sua cultura territoriale e che fino a quel momento rispondeva a poche esigenze — per cui non era tanto l’offerta a rispondere direttamente alla domanda, ma intercorrevano logiche di mercato assai più blande, com’è tipico di un prodotto artistico di lusso — si fece contaminare dalla cultura del progetto di design, tanto che un vaso disegnato da Sergio Asti nel 1962 venne premiato dal più ambito premio nell’ambito del design industriale, il compasso d’oro [fig 2]. A partire dagli anni ‘50, si notano infatti una progressiva influenza dei linguaggi e concetti tipici del design e dell’architettura, quali forme lineari, creazioni di famiglie di oggetti, palette di colori più neutri e finalmente una nuova prominente branca produttiva: l’illuminazione. Non più lampadari barocchi, a volute di cristallo e pendenti iridescenti, bensì solide composizioni di forme ripetute, prismatiche, spesso frastagliate che accostate a decine creano l’effetto di gemme pendenti dal soffitto, solitamente destinati ad alberghi di lusso o sedi bancarie o altri ambienti

istituzionali. Sebbene l’effetto finale sia lontano dall’estetica industriale, quantomeno la rinnovata poetica delle forme introduce a una forte serialità dei processi, con l’impiego massiccio di stampi e lavorazioni di taglio, molatura e rifinitura degli oggetti. Si tradisce, per così dire, il «principio veneziano della foggiatura del vetro»3 che vede l’attività del maestro come preponderante per la realizzazione del vero oggetto muranese, che dovrebbe essere riconoscibile per

Austen H. Layard e il collezionista Sir William R. Drake, cfr. Antonio Salviati e la rinascita ottocentesca del vetro artistico veneziano : Museo Civico di Palazzo Chiericati, Vicenza, 27 febbraio-25 aprile 1982, Mariacher, Giovanni (intr.); Barovier Mentasti, Rosa (catalogo). Vicenza, G.Rumor, 1982.

3  Helmut Ricke, “L’eredità veneziana e la fondazione di una nuova tradizione vetraria”, in Venini: catalogo ragionato 19211986, a cura di Venini Diaz de Santillana A., Skira, Milano, 2000, p. 9. 4  facendo riferimento all’«accertata fenomenologia» di cui

2. Sergio Asti, vaso Marco, 1962 h 30 cm Ø 27 cm – 20 cm Ø 23,5 cm riedizione del 2016, produzione Salviati

la sua plasticità ed estrema raffinatezza e complessità delle forme, ottenibile solamente se la materia viene intesa come qualcosa di plastico e malleabile — a differenza ad esempio della più fredda tradizione nordica che intende il vetro come una materia dura, da cui sottrarre materiale, incidendo, tagliando, stampando, testurizzando la superficie, così ottenendo invece forme algide, monolitiche, direttamente riferite agli aspri elementi naturali del contesto in cui nascono. È dunque questo il punto di partenza per la seguente trattazione: di come il design, nell’accezione che ne dà più comprensivamente De Fusco4, abbia intessuto una rete più che


9 solida tra i suoi paradigmi e il vetro artigianale di Murano, a partire dagli anni ‘50 del 1900, sino all’incirca al nuovo millennio. La scelta dei casi studio è quindi ricaduta sul ramo dell’illuminazione, che meglio si presta ad un’analisi dell’interazione tra tecnologia e artigianato, serialità e unicità, funzionalità ed estetica. In modo particolare, viene qui illustrata l’attività che l’azienda Salviati ha perseguito in questo campo, ponendola a confronto con l’attività di altre aziende più o meno collegate a essa e cercando di inquadrare il catalogo dei sistemi per l’illuminazione in una serie di casi studio utili sia all’analisi storica della produzione, che allo sviluppo di nuovi prodotti, nell’ottica di una rielaborazione della linea storica per il nuovo mercato e le tecnologie oggi disponibili. Per le ragioni sopraccitate, una maggiore attenzione viene posta sui sistemi modulari in vetro, composti per lo più di elementi soffiati a stampo o colati, caratterizzati da una forte standardizzazione delle forme, composti poi in configurazioni differenti a seconda delle esigenze, mediante appositi supporti metallici realizzati ad hoc. Un caso particolare e rilevante nel nostro campo d’indagine è il sistema LS, sviluppato da Salviati, dove la struttura dei moduli crea una suggestiva cortina di cristallo, interamente autoportante ad eccezione della prima fila di elementi, appesi a soffitto. Accanto a questo esempio, viene illustrato un caso studio di un sistema modulare per un esposizione del 1967 alle gallerie Lafayette di Parigi, dal titolo “Domus formes italiennes” all’interno della mostra “Presences d’Italie”5, ad opera di Alberto Rosselli, composto da piramidi di vetro solidali a un telaio in metallo che compongono una controparete per l’ambiente espositivo. Tale esempio risulta particolarmente rilevante sia per la categoria cui appartiene e nondimeno per il suo autore — di cui definiremo un profilo più avanti, ma che ricordiamo essere il fondatore della rivista “Stile Industria”, nel 1954 — tenuto conto tuttavia che la documentazione a riguardo è molto scarsa. Le motivazioni all’origine di questa breve trattazione si trovano nel legame che personalmente nutro con Venezia e nelle attività da me svolte negli ultimi anni. L’opera di Carlo progetto, produzione, vendita e consumo, intesi come un corpus olistico. Cfr. De Fusco R., Storia del design, Laterza, Bari, 2013, p. XII. 5  cfr. Ponti G., A Parigi “Domus formes italiennes”, in “Domus” 450, maggio 1967, p 11–38.

Scarpa è stata inoltre una fonte di ispirazione non solo in relazione al metodo progettuale, ma piuttosto per la nobile poetica che traspare in ogni sua opera, che pone sempre al centro il contesto e la storia, sapendo altresì evitare affezioni storicistiche. Vi è poi l’esperienza trascorsa in Finlandia, altra nazione devota al design del vetro, dove il contrasto tra gli elementi si esaspera, se pensiamo alla severità della Natura che circonda il fuoco della fornace. Il vetro ne esce e ritorna mimeticamente al suo contesto di ghiaccio e legno, come nelle belle parole di Lisa Licitra Ponti su Tapio Wirkkala6. Infine il tirocinio, svolto presso Salviati a Murano, in compagnia di una squadra eterogenea e bellissima di talenti, in cui ho percepito ancora una volta il ruolo che Venezia svolge per la cultura in Italia e nel Mondo. Consapevole che probabilmente con la seguente trattazione non si esaurirà l’argomento nella sua completezza, si è cercato ad ogni modo di dare luce a una serie di oggetti che finora non avevano ricevuto la dovuta attenzione, forse in ragione di un maggiore interesse al lato prettamente artistico della produzione di Murano.

6  «Tapio e Venezia: Non ci incontravamo a Milano, ci incontravamo a Venezia, come una volta facevano i Re (e anche Candido). Venezia era, ed è, il solo reame che si può contrapporre alla Lapponia: la riflette. Nell’acqua, nella lentezza. Lentezza in forma di barca. E murano è un’isola che si raggiunge in barca; all’alba (l’alba c’è ancora, a Venezia, e a Tapio è necessaria), per vivervi la lunga, meditata, bella giornata artigiana. In Finlandia il vetro di Tapio era diamante, era ghiaccio. A Venezia il vetro di Tapio era colore, era aria. Si possono avere due madrepatrie? Io credo. Come gli uccelli migratori.» in Juhani Pallasmaa et al.,Tapio Wirkkala: Venini, Finnish Glass Museum, Riihimäki, 1987, prefazione.


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ll progetto della luce a Murano La luce e lo standard nel design del vetro

Il design per l’illuminazione rappresenta uno di quei settori in cui il prodotto è frutto di un’interazione consequenziale tra competenze tecniche ed artistiche. La parte fondamentale di un progetto per l’illuminazione è la luce e le sensazioni che questa crea nell’ambiente, che è in buona sostanza una questione di architettura. Quando invece la lampada è un oggetto d’arredo, le componenti di illuminotecnica, decorazione e design della luce si sviluppano in modo parallelo. Il rapporto tra vetro e luce è spontaneo, sin dai primordi della manifattura vetraria quando tuttavia non era ancora stato messo a punto perfettamente il vetro trasparente. Basti pensare alle vetrate istoriate delle cattedrali europee. Nel mondo di Murano l’illuminazione rappresenta una porzione della produzione molto importante. Storicamente i lampadari in vetro di Murano arredarono numerose sale delle proprietà nobiliari dei signori di tutta Italia ed Europa. Più recentemente, i lampadari di Murano venivano commissionati per ambienti istituzionali di vario genere e strutture alberghiere di lusso. Rimanendo fedele alla vocazione di questo distretto manifatturiero, il progetto della luce a Murano non si è quasi mai posto di fronte ai dilemmi propri del design industriale, ovvero: se «si privilegiano le esigenze di stabilizzazione del ciclo produttivo e di riduzione dei costi, si rischia di bloccare le spinte innovative che si manifestano in fase progettuale, finendo per far cadere, anche in tempi brevi, l’interesse del mercato per il prodotto; mentre la scelta contraria, che punta all’evoluzione incessante del progetto, rischia di impedire la realizzazione di un prodotto competitivo in termini di costi, di puntualità sul mercato, di efficacia della rete di servizio e assistenza, e così via»1. Si potrebbe forse dire che la strada percorsa, nel nostro caso, sia stata quasi esclusivamente la seconda, coerentemente con la natura artigianale del prodotto: in un primo momento in un modo prettamente stilistico, di ricerca formale, successivamente 1  Bigazzi D., “Un inventario del progetto e del saper fare”, in L’anima dell’industria, a cura di Pansera A., Skira, Milano, 1966, p. 12.


12 introducendo il vetro alle nuove tecnologie e proponendo nuove soluzioni compositive, con un approccio più accomodante ai concetti di illuminare e arredare, a scapito della riproposizione delle forme barocche di grande tradizione. Aprendo una parentesi, rimane, a mio parere, molto interessante lo sviluppo che una realtà molto circoscritta come quella di Murano ha attraversato negli anni, in confronto a settori produttivi, segnatamente (e forse solo qui) in Italia, dove il design concettualmente trova una collocazione più naturale, come nel furniture design. Intendo cioè che la realtà muranese è da sempre un distretto di produzione artigianale che ha conosciuto l’industrializzazione marginalmente — all’infuori degli ammodernamenti basilari che vennero introdotti man mano nelle fornaci — mentre altri settori, come il mobile, sono divenuti portavoce della nuova estetica industriale, nonostante la potenziale contraddizione: «in Italia la progettazione c’è stata, mentre la produzione è stata scarsa o è avvenuta a livelli molto particolari. Dal punto di vista degli interventi e dei contributi per questa voce del bilancio industriale, manca qualunque approfondimento nella storia dell’industria italiana, ma si può avanzare l’ipotesi, con buona approssimazione, che lungo l’arco di quarant’anni, la grande industria non si sia pressoché mai posta il problema; che la media abbia imbastito radi rapporti col mondo del design, e la piccola, spesso confinata in strutture economico-produttive artigianali, è stata [...] il solo terreno naturale dei nostri designers.»2 Pare che tale tendenza oggi sia confermata e viepiù la ricerca nel design si rivolge con maggiore forza al mondo dell’artigianato e della piccola serie3. Si potrebbe dire quindi che il distretto di Murano, e altri con esso, abbia significato un passo fondamentale nel rapporto tra designer e produzione. Murano è stato e tuttora rappresenta un campo di sperimentazione sul materiale, sulle forme degli oggetti e i valori che il design oggi ha il compito di portare. La sensazione è quella di una palestra per designer, per i quali sembrerebbe spesso un passo necessario della carriera di progettista, potendo in questo modo indagare realtà produttive artigianali eccezionali ed elaborare più liberamente oggetti connotati artisticamente e semanticamente. La 2  Fossati P., Il design in Italia, Einaudi, Torino, 1972, p. 11. 3  Non analizzerò qui quale sia la direzione del design oggi, se ce ne sia una univoca. Rimando al seguente articolo: Banti S., Forum di Abitare: dove va il design?, www.abitare.it/it/ricerca/ studi/2016/02/08/forum-abitare-dove-va-il-design/

questione può essere ulteriormente spiegata tramite un confronto tra discipline, cioè arte pura, arte applicata e design, valutando in che periodo e dove questi termini vengono effettivamente associati a discipline diverse. Se oggigiorno chiunque può intuire che tali confini sono assai più labili, e come detto poco più sopra, l’oggetto di design, sia nella produzione di grande e piccola serie, è comunque chiamato a veicolare qualcos’altro che non semplicemente adempiere alla sua funzione, al suo mercato e seguire delle minime direttive estetiche, sappiamo pure che nel recente passato le cose erano percepite diversamente. Munari, designer “purista” e didatta, nel 1971 scriveva: «Il designer non ha una visione del mondo, nel senso artistico, ma ha un metodo per affrontare i vari problemi della progettazione. Di conseguenza non ha delle formule artistiche da applicare» e ancora «Gli oggetti progettati dai designers non hanno alcun significato al di fuori delle funzioni che devono svolgere. Sono quello che sono e non sono il supporto di un messaggio (anche se un messaggio esiste nella socialità dell’operazione del designer).»4. Negli anni appena precedenti, l’Esposizione internazionale d’arte di Venezia già presentava in un apposito padiglione ciò che si definiva arte decorativa. La Biennale aveva accolto questo tipo di opere all’interno dell’esibizione in forma non separata, accanto cioè alle opere d’arte pura. Dal 1932 però si decise di dedicare un particolare spazio all’artigianato, inaugurando il Padiglione Venezia, dove venivano esposti i manufatti dei distretti veneti in primis (sotto la spinta dell’Istituto Veneto per il Lavoro), con qualche eccezione, a seconda dell’edizione, di altri artigiani-artisti italiani e stranieri. Le premesse sembrano voler giustificare tale separazione, che avverrebbe non tanto a conferma della presunta superiorità di una categoria sull’altra, quanto per una migliore lettura di entrambe («...riunire in un apposito padiglione le opere diverse dai quadri e statue»). Negli anni che seguono, il dibattito si sposta sulla natura dei prodotti esposti. Sono gli anni ‘60 e il confronto con il design è a questo punto inevitabile: «per lunghi anni [l’artigianato] ha dovuto, in conseguenza, adeguarsi, nella produzione di quelli [beni] ‘voluttuari’, ai gusti e alle moda dell’unica classe sociale in grado di acquistarli, è innegabile, d’altra parte, che da 4  Munari B., Artista e designer, Laterza, Bari, 1971, pp. 31, 34. Sull’idea di designer e società, cfr anche pp. 28–30.


13 qualche tempo esso ha rivelato una diversa tendenza che se avrà seguito, potrà restituire più ampio spazio al suo operare fra la produzione seriale di massa, realizzata dall’“industrial design” [...]. Esso cioè, pur assumendo in parte le stesse categorie merceologiche dell’“industrial design”, ha cominciato a stabilire dei rapporti comunicativi con i virtuali fruitori dei suoi prodotti cercando di individuarne e interpretarne quei bisogni ‘altri’ determinati più da fattori psichici che materiali, che l’industrial design non è in grado di soddisfare.»5 Allo stesso modo, nelle edizioni successive, Gasparetto poneva l’attenzione sul rapporto che l’artigianato e il design andavano costruendo, ogni volta sottolineando aspetti decisivi per una corretta lettura critica del fenomeno, che a posteriori vanta di una notevole lucidità. Nel 1964, ad esempio scriveva: «proprio dal confronto continuo che deve sostenere con la industria meccanizzata, trae occasione per dar vita a prodotti la cui reperibilità è tecnicamente impossibile o economicamente sconsigliabile.»6 cioè, aggiungerei, sapersi rinnovare nel linguaggio, laddove l’industria non può arrivare a soddisfare le necessità materiali e spirituali della società, che sono trasversali rispetto al mercato, quindi la massa degli acquirenti. Ancora Gasparetto: «a Murano già da molti anni i vetrai più sensibili hanno capito che per tenere alto un grande nome e non smentire un passato luminoso, non basta riprodurre sia pure fedelmente alcuni celebrati antichi modelli, come non basta uniformare genericamente la produzione a talune maniere dell’arte contemporanea, ma occorre invece compiere un continuo sforzo di rinnovamento, procedendo per così dire, dall’interno della propria arte, risalendo ai suoi valori costanti e discriminanti, attingendo fin dove è possibile, i mezzi espressivi dal patrimonio tecnologico locale, giacché solo un rinnovamento realizzato a questo modo, lungi dallo snaturare l’arte dell’isola, può assicurarne il continuo inserimento nel filo della tradizione e darle con ciò una sempre nuova universalità.»7 In questo senso l’apertura di Mu5  Gasparetto A., “Arti decorative delle Venezie”, nel catalogo della 30a biennale internazionale d’arte di Venezia, a cura di Dell’Acqua G., La Biennale, Venezia, 1960, p. 168. 6  Gasparetto A., “Arti decorative delle Venezie”, nel catalogo della 32a biennale internazionale d’arte di Venezia, a cura di Dell’Acqua G., La Biennale, Venezia, 1964. 7  Gasparetto A., “Arti decorative delle Venezie”, nel catalogo della 33a biennale internazionale d’arte di Venezia, a cura di Dell’Acqua G., La Biennale, Venezia, 1966, p. 244.

rano ai metodi del design industriale ha portato grande giovamento a una realtà che non ha più visto ripristinato il suo passato vigore. La cultura del progetto qui è stata utile in primo luogo per una acquisizione generale dello scenario che andava delineandosi, portando una nuova coscienza della manifattura muranese in relazione alla storia. In secondo luogo fu utile proprio per l’innovazione diretta, di tecnica, innovazione formale e marketing che indirizzò su strade più ambiziose il mercato del vetro muranese. In un ramo come quello dell’illuminazione, cioè di oggetti d’uso, il salto, per una realtà come quella di Murano è doppio. È necessario infatti che prima si prenda atto del superamento del divario tra le discipline, arte, arte applicata, design; che si osi poi in direzioni inesplorate, sia in senso assoluto — e forse quindi più spesso in chiave artistica che tecnologica — che relativamente alla tradizione propria, che era da tempo distante dalla sfera degli oggetti d’uso. A questo proposito, scrive Enzo Biffi Gentili: «Ho infatti sovente polemizzato contro la presunzione di un design che si pone come unica possibilità di riscatto per lavorazioni altrimenti condannate a essere solamente e per sempre banausiche, posizione assolutamente correlativa a quella teorizzata da certi artisti. Insomma, il disastro, perché di questo si tratta, delle arti applicate in Italia discende anche dalla sistematica, vecchissima, riproposizione di un primato e di un “paragone” tra le arti, dalla inconfessata, ma pervicace, distinzione tra maggiori e minori, tra liberali e meccaniche, in una moderna divisione del lavoro tra le fasi ideative, creative e tecnico esecutive.»8. Ecco che, secondo questa linea di pensiero, il vetro progettato si fa sempre più spazio a Murano. Figura paradigmatica di questa vicenda è Vinicio Vianello, che a partire dagli anni ‘50, opera un’importantissima ed esemplare attività di connessione tra il mondo dell’arte, quello dell’artigianato e quello del design industriale, proprio perché agisce dall’interno della sua arte, arrivando all’astrazione necessaria per progettare accanto a grandi architetti e designer del suo tempo. Parallelamente dunque vi è la tendenza opposta, di quei progettisti, solitamente architetti, che si cimentano per volere o su commissione nel design del vetro. Qui talora 8  Biffi Gentili E., “Sottovetro”, in Il vetro progettato: architetti e designer a confronto con il vetro quotidiano, a cura di Romanelli M., Electa, Milano, 2000, pp. 18-19.


14 accade che essi si privino momentaneamente dei vincoli della progettazione razionale, oppure in altri casi che portino la metodologia propria del fare architettura o del fare per l’industria nel design del vetro. Il vetro nelle mani di progettisti e architetti si presenta come una materia dalle capacità espressive inestimabili. Poco alla volta, dal primo dopoguerra e più marcatamente dagli anni ‘50, il vetro per l’illuminazione diviene architettura. Si ripulisce il lampadario barocco dei suoi fasti e si adotta il “listello”, cioè un elemento lineare in vetro trasparente o dai colori tenui, che rifrange la luce, fissato ad un telaio metallico oppure sospeso a dei cavi. In questo stesso periodo alle fornaci di Murano vengono commissionate le cosiddette forniture, cioè progetti speciali per l’illuminazione, realizzati per ambienti particolari con esigenze e dimensioni variabili, di conseguenza il ricorso al lampadario modulare rappresenta la soluzione più adatta. Le vetrerie realizzano diverse linee componibili, dove il progettista agisce nell’ottica di una modularità pressoché infinita, lasciando spazio all’architetto o designer responsabile della suddetta fornitura di poter comporre soluzioni che meglio si adattano ad un determinato ambiente. Lo stesso lampadario compare così nell’atrio di un albergo, nella sala di una banca o ancora in un padiglione di un’esposizione internazionale, ogni volta in ampiezza e configurazioni differenti degli stessi moduli9. È dalla metà degli anni venti che Murano inizia a ricevere i primi stimoli esterni, specialmente a opera di artisti e architetti milanesi, soprattutto a seguito della venuta di Venini. Negli stessi anni inizia la partecipazione delle fornaci alle Triennali di Milano. «Caratteristica di questi interventi “milanesi” fra le due guerre — scrive Ludovico Diaz de Santillana — è un’impostazione più “intellettuale”, di matrice razionalistica, meno legata alla materia vetro e quindi alla tecnica muranese, più influenzata da problemi di forma, di soggetto, spesso attenta ad una visione d’assieme più che ai particolari. Si datano d’altronde a questo periodo anche le prime realizzazioni di architetture luminose in vetro, che poi si sviluppano in maniera imponente nel secondo dopoguerra.»10. Dal 1948, con la Triennale di Milano che decreta la nascita del desi9  Barovier A., “L’illuminazione d’architettura” in Vetri Murano Oggi, catalogo della mostra presso Palazzo Grassi, Electa, Milano, 1981, p. 125. 10  Diaz de Santillana L., “Artisti e designers a Murano”, in Vetri Murano Oggi, cit., p. 109.

gn italiano, “Le forme utili”, le vetrerie iniziano a intrattenere rapporti costanti con designer e architetti, a partire da Gio Ponti, che nonostante l’impostazione novecentista costituì una figura chiave per la contaminazione successiva tra il design e il distretto di Murano, passando per Alberto Rosselli, Peressutti, Gardella, Albini, Vignelli, Mangiarotti, Magistretti, Zanuso, Asti e poi Peduzzi-Riva e Sottsass. Sebbene l’impostazione muranese, di mentalità insularistica e conservatrice, vedesse ancora i maestri, i paroni de fornaxa, come massimi esperti e creatori, i nuovi apporti fecero sì che una nuova generazione di architetti e designer veneti, più vicini psicologicamente e geograficamente a Venezia, trovasse nuovo interesse nella manifattura vetraria. Allo stesso tempo, più o meno direttamente, l’apertura alle competenze esterne alla fornace fece sì che anche alcuni maestri muranesi si distinguessero per innovazione ed originalità dei prodotti, pur sempre eredi della tradizione, in una tendenza comunque distante dai precetti di razionalità di architetti e designer. Tra questi, i più famosi furono Ercole Barovier, Alfredo Barbini, Archimede Seguso, Carlo Moretti, Livio Seguso e Luciano Vistosi. Quest’ultimo alquanto interessante per delle creazioni nell’ambito dell’illuminazione assieme ad Angelo Mangiarotti, eccezionali in merito alla qualità del progetto che vedremo più sotto. La relazione che venne ad instaurarsi tra l’artigianato di Murano e il design industriale comportò anche una serie di altri effetti collaterali, meno positivi. Nonostante la mentalità non fosse mutata, e rimanesse ben radicata la coscienza dello status che solo poche realtà manifatturiere possono vantare, l’introduzione al design fece intravedere il miraggio di nuovi sviluppi ai vetrai e artisti dell’isola, in una sorta di inseguimento al sogno industriale (non tutti, è chiaro, vi parteciparono). Le vetrerie implementarono il loro carattere imprenditoriale, muovendo investimenti a favore dell’innovazione e dell’aggiornamento tecnologico, sovente senza un vero piano degli investimenti né una strategia di marketing. In questo senso, alcune aziende, sebbene considerate inizialmente pionieristiche nel loro rincorrere il design per l’industria, finirono in molti casi nel produrre oggetti in cui l’anima della identità muranese, scompariva dietro una goffa imitazione dell’estetica industriale che architetti e designer andavano proponendo in quegli anni presso le fornaci. Il valore aggiunto dell’artigianalità — che rima-


15 neva senz’altro nel processo produttivo — stentava a percepirsi. Ciò non costituiva per forza un limite, ma l’epilogo di questa filosofia fu presto dimostrato: alcune aziende, che si erano spinte arditamente in una fetta di mercato che non gli era propria collassarono nel giro di pochi anni. Altra ragione di sorti simili va imputata ai singoli maestri vetrai, che come dice Enzo Biffi Gentili in tono provocatorio, non seppero riconoscere il merito della propria attività: «Il problema del vetro contemporaneo oggi [...] è quello, come dimostra il nostro passato ormai remoto e quello prossimo degli americani, di far maturare, se non esplodere, l’innovazione e innalzare la qualità anche a partire dall’interno, e non solo dall’esterno di uno specifico disciplinare, per poi eventualmente trascenderlo. [...] Ammettono, anzi auspicano, l’emulazione, che è cosa diversa dall’imitazione e riducono il complesso dell’artigiano nei riguardi dell’artista o del designer “puri”, quel grottesco stato di inferiorità per cui il giovane vetraio o ceramista pensa o che si è Sottsass o si è Fontana o non si è niente. Invece basterebbe essere Vinicio Vianello»11. Quelle realtà produttive che seppero mantenere una propria identità, forti della loro storia, produssero oggetti che meritano di essere analizzati proprio in ragione del sincretismo tra design e artigianato artistico. 1.1 Vinicio Vianello, dallo spazialismo al design L’attività di Vianello, come già accennato, rappresenta quel perfetto esempio di innovazione che si sviluppa dall’interno di un fenomeno culturale. Nato a Venezia nel 1923, Vianello si forma all’Accademia di Belle Arti. Fin da subito, dimostra il suo essere poliedrico, avvicinandosi all’architettura di Marcello d’Olivo. Vianello, negli anni ‘50 aderisce allo spazialismo, ispirato da Fontana, ma la sua arte non si limita alla pittura: con la prima personale del 1950, egli esibisce delle ceramiche che sono il primo tentativo di rapportare la sua visione spazialista nella tridimensionalità. Nello stesso anno, elabora anche i primi artefatti in vetro, realizzati presso la vetreria Alberto Toso. Sono vasi, detti asimmetrici [fig 5], che rappresentano a tutti gli effetti la tradizione muranese che incontra l’avanguardia artistica: una coppa, che per forma generale potrebbe ascriversi nella tradizione dei primi decenni del 1900, presenta invece un leggero 11  Biffi Gentili E., “Sottovetro”, in Il vetro progettato, cit., p. 20.

3. Vinciio Vianello, Luceforma, h 45 cm l 16 cm cristallo e gas neon, Produzione Galliano Ferro, 1960-61

decentramento di una sezione, cioè una nuova relazione con lo spazio. I sostegni rimangono centrati, ma l’urna centrale è deformata da rigonfiamenti irregolari. Il complesso è realizzato in vetro monocromatico o al più iridato, e totalmente privo di decorazioni della superficie. È già una riflessione finissima sul prodotto artigianale, la sua possibilità di variazione e il rapporto con l’esecutore12. Uno di questi vasi viene premiato alla IX triennale di Milano con il primo premio. Negli stessi anni collabora con Mirko Artico, uno degli architetti incaricati di realizzare le abitazioni Ina-casa presso il Lido di Venezia, per cui realizza delle decorazioni murali [fig 6]. Nel 1952 realizza la serie dei vasi atomici, una più profonda speculazione sul concetto di spazio e tempo ed intervento artigianale [fig 8]. Del 1954 sono invece le sue antisculture o grafie tridimensionali, che sono i prodromi di un esperimento fenomenale che realizzerà negli anni ‘60, Luceforma, dove coniuga il cristallo modellato con la luce fluorescente [fig 3]. Nel 1955, “Domus”, presentando alcune di queste opere scriveva: «cominciò nel 1948 a intervenire nei vetri, con quella passione ed indifferenza per i mezzi che distingue gli artisti dagli artigiani, e che nasce da una nuova visione decorativa. Vianello ha preso d’assalto il vetro e — come fa con la pittura — vuole portare questa materia amorfa, che egli adopera in fondo come una nuova materia plastica, a punti di movimento, di dilatazione, di luce, in cui la forma quasi scompare 12  Cfr.: Bassi A., “Vinicio Vianello, ‘artigiano spaziale’ e industrial designer”, in Vinicio Vianello: pittura, vetro e design, a cura di Barbero L. M., Skira, Milano, 2004, p. 134.


16 4. Vinicio Vianello, Nelson, 1957-58 h 170 cm Ă˜ 25 cm Modello da terra a 7 moduli. Le coppe in vetro soffiato venivano imballate singolarmente.


17 per dar luogo all’effetto anche se la forma rimasta appare talora ridotta a residuo, a ordigno di partenza, come avviene nei tentativi degli artisti di portare le antiche materie immobili (come anche la ceramica) a espressioni istantanee»13. Così esaurisce momentaneamente la sua ricerca sul vetro, pur continuando a disegnare diversi esemplari, per avvicinarsi sempre di più alla questione dell’industrial design. A partire dal 1950 Vianello ricopre la carica di insegnante di design del vetro, accanto a Franco Albini e Carlo Scarpa, rispettivamente nelle sezioni per il legno e per i metalli, del “corso di progettazione per disegnatori industriali e per artigiani” promosso dall’Istituto Veneto per il Lavoro. Il manifesto del corso cita il Bauhaus come fonte primaria d’ispirazione e precisa che il concetto di “standards” è proprio di entrambe le professioni, artigiano e designer. Inoltre porta a una riflessione, che è sostanzialmente la medesima di Enzo Biffi Gentili di cui sopra, sulla condizione dell’artigiano in relazione al progetto e al pensiero artistico, proponendo che la categoria riacquisti «la dignità e l’autonomia di qualsiasi altro artista». Dalla metà degli anni ‘50, Vianello inizia la sua attività di progettista per oggetti d’uso. Già nel 1957 vince il Compasso d’Oro per la serie di vasi variante, con i quali Vianello intende ancora una volta porre l’attenzione sul rapporto che vige tra progetto ed esecuzione artigianale, tenuto conto della natura del materiale. Nel 1957 concretizza le riflessioni sugli standard artigianali: Nelson [fig 4] è una lampada da terra modulare, composta da delle sezioni a incastro in vetro soffiato, montate su un’asta dotata di collegamenti elettrici su cui sono predisposti gli attacchi per le lampadine. Le varie sezioni sono autonome, per cui in caso di guasto a una di queste non è necessario intervenire sull’intero apparecchio. La modularità è pensata, come riportato sul brevetto n. 84163, per un intuitivo montaggio e smontaggio della lampada. Lo stesso brevetto include la tecnologia utilizzata per un’altra serie, la Drake, dove cambia la forma dei diffusori in vetro. Nel brevetto n. 90225, Vianello include altre forme di diffusori, dove illustra, la possibilità di montare anche solo un modulo sulla lunghezza dell’asta. Allo stesso modo nel n. 85428 si registrano le varianti da tavolo delle stesse lampade, dove si spiega che l’interruttore del circuito è collocato all’interno dell’asta ed è azionato facendo scor13  in “Domus” 309, agosto 1955, pp. 52-53.

rere la maniglia superiore. Queste lampade erano prodotte dall’azienda da lui fondata in quegli anni, che corrispondeva in realtà alla sua residenza in terraferma, da cui una sostanziale impossibilità di raggiungere la produzione di grande serie. Rimaneva però limpido il concetto che Vianello voleva far passare, di come anche una realtà artigianale, se ben organizzata e unita su un fronte comune, possa proporre oggetti d’uso destinati ad un pubblico ampio, con la stessa qualità di progetto che contraddistingueva la ricerca sul prodotto industriale. Non è un caso che nel 1960, Vianello registri con brevetto n. 85262, un concept per l’utilizzo polivalente di un vaso soffiato (dalla silhouette, si direbbe lo stesso che nel 1957 vinse il Grand Prix a Milano), come paralume per lampade a sospensione, da tavolo o applique [fig 9]. Come si legge nella descrizione, Vianello in questo modo vuole risolvere un problema di ordine funzionale di quegli oggetti che mirano ad ottenere un’omogeneità formale dell’arredamento, adoperando una data forma sia come soprammobile che come lampada: «Queste forme sono però trasformate da laboriose preparazioni o aggiunte 5. Vinicio Vianello, Vaso asimmetrico, 1951 produzione Alberto Toso.


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6. Vinicio Vianello, graffiti su cemento verniciato del portale d’ingresso di un edificio Ina-casa, su porgetto di Marcello d’Olivo, Mestre, 1952. 7.Vinicio Vianello, vaso in vetro h 27,5 cm Ø 15 cm Produzione Galliano Ferro, 1957, premiato con il Grand Prix alla XI Triennale di Milano. 8. Vinicio Vianello, Esplosione a Las Vegas, in vetro iridiato, Produzione Alberto Toso, 1952. Nella foto Peggy Guggenheim tiene il vaso sul terrazzo di Ca’ Venier dei Leoni. 9. Brevetto n. 85262, 1960. Si notatno gli esempi di applicazione dello stesso vaso (figura in alto a destra). Archivio Vianello, centro studi del vetro, Venezia.


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10. Vinicio Vianello, Cielo Luminoso “Tunis”, disegni degli elementi modulari in vetro, produzione Effetre, 1965–1970.

11. Vinicio Vianello, Corolla, 15,40 x 13,00 x 4,20 m l’Istituto bancario San Paolo, Roma, Produzione Salviati & C., 1964.

12. Vinicio Vianello, Preghiera, 300 x 218 x 167 cm Pontificia Opera Assistenza Cappella Casa Madre, Roma, Produzione Effetre, 1969.


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in alto: 13. Vinicio Vianello, assonometria del sistema Faux Plafond per Cielo luminoso “Tunis”, 1965–1970. sotto: 15. Vinicio Vianello con Vincenzo Monaco, esempio di messa in opera dello schermo ottico portante e degli elemnti diffusori in vetro a diverse altezze per il controsoffitto Faux Plafond Cielo luminoso “Tunis”, 1965–1970.

in alto: 14. Vinicio Vianello, Cielo Luminoso “Tunis”, soffitto de la Grande salle des fétes au Parc Kennedy, Tunisi, 1965–1970 moduli a sezione quadrata in vetro opale e acquamare su telaio in metallo, produzione Effetre. sotto: 16. Vinicio Vianello con Vincenzo Monaco, schermo ottico lamellare per il controsoffitto Faux Plafond Cielo luminoso “Tunis”, 1965–1970.


21 di altri elementi e presentano l’inconveniente di non essere, in definitiva, adatte ad uno degli usi specifici». Sottende, cioè, al fatto che la produzione artigianale in ragione della sua flessibilità, può bensì fornire soluzioni più adatte di oggetti d’uso, ovviando all’impossibilità di intervento che occorre nella produzione industriale. Gli anni ‘60 sono anche gli anni delle grandi forniture per Murano. Vianello, progetta l’illuminazione e adatta alcune sue lampade per la turbonave “Leonardo da Vinci”. A partire dal 1963 Vianello progetta sistemi illuminanti di grandi dimensioni basati su moduli standard ripetuti in grandi numero, come nel Jolly Hotel di Roma, dove impiega dei vetri soffiati a stampo di sezione quadrata componendoli a piramide rovesciata, a formare un grande lampadario da soffitto. In collaborazione con Vincenzo Monaco, Vianello progetta nel 1965 il controsoffitto per il centro congressi di Tunisi [fig 14]: il sistema innovativo si basa su un telaio a griglia [fig 13, 15, 16], dove gli stessi moduli a sezione quadrata di vetro possono essere agganciati in sicurezza e formare differenti configurazioni [fig 10]. Questo sistema di controsoffitti poteva accogliere diversi tipi di moduli ed era comprensivo di isolamento acustico e impianto d’illuminazione. Lo stesso sistema viene utilizzato in altri progetti, come nel soffitto a Ballotton di Salviati (cfr § 2.1). Per queste opere, Vianello si affida alle fornace di Galliano Ferro, in cui lavora anche il maestro Lino Tagliapietra, e dal 1966 a Effetre dei fratelli Guido. Un altro particolare incarico gli viene affidato dall’Istituto bancario San Paolo, per cui nel 1964, progetta una Corolla di vetro sospesa per una sala conferenze [fig 11]. La fornace che realizza il progetto è Salviati & C. Uno degli ultimi progetti per l’illuminazione che coniugano l’uso del vetro di Murano, è quello del 1969 per la Pontificia Opera Assistenza Cappella Casa Madre di Roma. Qui Vianello adopera un telaio in metalli a bracci ortogonali dove in varie configurazioni si possono agganciare dei moduli cubici in vetro cristallo o colorato [fig 12]. La ricerca sulla serialità continua e Vianello non vi pone limiti, anzi diviene spunto su cui confrontare la sua arte: Bandiera Torre Luminosa (1979–1982), il monumento al milite ignoto a Baghdad è una scultura composta da tasselli in vetro colati a stampo, con i colori della bandiera irachena, e illuminati dall’interno della struttura elicoidale. Un’opera d’arte spazialista in cui Vianello usa il linguaggio della standardizzazione. Dal 1962 al 1973, Vinicio Vianello

non dipinge alcun quadro. In questi anni però, abbiamo visto, si dedica quasi esclusivamente all’artigianato muranese e al design. Non si diletta nell’operare in questi settori, ma acquisisce anzi i modi del progettista, potendo infine sperimentare nel design come un addetto ai lavori. Negli anni ‘70 ad esempio arriva a realizzare dei prototipi per delle lampade autonome ad energia solare destinate ad aree desertiche. Quello di Vianello per il design è stato qualcosa di più che un interesse. Egli si rese portavoce di un dialogo necessario tra design e artigianato, agendo dall’interno, prima come artista poi come progettista, sempre tenendo a fuoco che non è possibile separare il processo creativo tra parte ideativa e parte esecutiva. Unicum nello scenario muranese, la vicenda del design di Vinicio Vianello si è esaurita con la cessazione della sua attività. Il testamento culturale venne colto solo in parte e in misura maggiore è riscontrabile solo in quelle aziende già ben affermate che seppero rinnovarsi in chiave progettuale. 1.2 Le vetrerie e le fornitùre Venini La vetreria che più fra tutte ha visto negli apporti esterni di architetti e progettisti la chiave per l’innovazione e il successo commerciale è senza dubbio Venini. La vetreria, nata nel 1921 per volere di Paolo Venini, avvocato milanese, ha giovato della lungimiranza imprenditoriale del proprietario fin dai primi anni, benché inizialmente fosse visto come un estraneo alla cultura muranese e di conseguenza non degno di cogliere l’eredità artigianale dell’isola14. Gio Ponti, primo tra i milanesi a collaborare con Venini, nel 1946 disegnò un lampadario da soffitto che rappresentava l’astrazione più diretta dell’antica tradizione dei lampadari muranesi che nel secolo precedente furono tanto replicati. Tutt’ora presente nel catalogo con il nome Gio Ponti 99.80 [fig 21], questo oggetto rappresenta, con i suoi colori e le sue forme, l’animo dell’arte vetraria muranese. Sintetizza i segni distintivi della manifattura veneziana, che sono: la lavorazione libera, il vetro soffiato leggero e colorato, le forme barocche, qui molto più sintetiche, che sembrano con i propri volumi d’aria 14  Per la storia completa di Venini cfr. Venini: catalogo ragionato 1921–1986, a cura di Diaz de Santillana A., Skira, Milano, 2000


22 racchiudere razionalmente tutti i decori, mazze, fondini, bracci, foglie, bobeches. È interessante ricordare che sebbene molto complessi — o forse proprio in ragione di tale complessità — anche i lampadari barocchi predisponevano la produzione ad una certa serialità, ed il fatto che tutti i componenti fossero realizzati magistralmente solo in vetro potrebbe conferire loro una dote propria del buon design contemporaneo. Tutto sommato però, la lavorazione dei singoli elementi veniva poi immancabilmente sottoposta a successive raffinazioni, virtuosismi tecnici. Ponendo l’anno 1954 come momento di cesura quasi definitivo con gli stilemi novecentisti, quando cioè nasce il design più riconoscibilmente italiano, contemporaneamente si consolida il sodalizio tra vetrerie e designer. Simile in un primo momento alla vicenda del design neostorico15, la branca dell’illuminazione muranese, pur contando sui tipi della tradizione, fu soggetta pure a degli strappi non indifferenti che svincolarono le fornaci dal macigno della storia per proiettarle direttamente nel presente del design. Già nel 1954, alcune lampade di Venini arredano il negozio Olivetti di New York, progettato da B.B.P.R. [fig 22]. Le lampade sono coniche, colorate a fasce, e presentano nell’assieme ancora una connotazione molto artigianale, benché la forma ottenuta con soffiaggio a stampo sia sicuramente rappresentativa del nuovo gusto di Venini. Inoltre queste lampade sono state realizzate al limite delle dimensioni lavorabili per gli esecutori della fornace, cioè circa 60 centimetri di altezza. Vignelli nel 195455 progetta una serie di lampade a sospensione in vetro opalino, e la serie 4000 che si aggiudica il premio Compasso d’Oro nel 1956. Massimo Vignelli — com’è risaputo, portavoce di una poetica del razionalismo e della disciplina nel design, piuttosto intransigente — venne in contatto con una realtà artigianale sistematicamente lontana dai precetti di razionalità16; ciò nonostante Vignelli seppe proporre un design razionale, facente uso di forme lineari ottenute mediante stampi, che attingeva però al reperto15  Specialmente alcune vetrerie, continuarono e continuano anche oggi a produrre oggetti in stile, ad esempio Seguso e Fratelli Toso. Sullo stile neostorico cfr: De Fusco R., Made in Italy: storia del design italiano, Altralinea, Firenze, 20143, pp. 179–189. 16  Come si legge nella sezione da lui scritta in Venetian Glass: The Nancy Olnick and Giorgio Spanu Collection, a cura di Sacks S., Charta, Milano, 20013, p. 37: «[...] Working closely with the glass and silver made me better understand the nature

17. Ignazio Gardella, Lampadario a Poliedri, salone d’onore del padiglione italiano, esposizione internazionale di Bruxelles, Venini, 1958.

rio delle tecniche tradizionali: filigrane, decorazioni a canne o a fasce sovrapposte, decorano forme di “sigaro”, “fungo” o “cipolla”, già analoghe all’essenzialità di un certo design nordico17. Senza snaturare dunque l’arte dell’isola, Vignelli dà il via a una serie di felici collaborazioni dove il vetro di Murano prende parte alla sfida dello scenario dell’arredamento italiano negli anni del boom economico. Nel 1957, Vittorio Gregotti con Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino, progettano l’interno di un negozio d’abbigliamento a Novara all’interno di uno stabile progettato da Giovanni Muzio. In questo caso scelgono di utilizzare delle lampade realizzate ad hoc da Venini in vetro soffiato bianco e verde, in due pezzi uniti da un anello in metallo [fig 18]. Le due parti, come si legge su “Domus” sono delle dimensioni massime lavorabili in fornace, tali che messe assieme formano una lampada di notevoli dimensioni che fornisce una luce diffusa assicurata da lampadine fluorescenti18. Nonostante con Vignelli, la produzione di serie da catalogo sembri già avviata, per molti anni Venini, e anche altre vetrerie, continuarono a of the craftmenship, shifting my feelings somehow closer to the Wiener Werkstatte than the Bauhaus. My passion for materials and their properties goes back to those times». 17  Si noti a questo proposito la somiglianza nelle forme delle lampade disegnate dalla finlandese Lisa Johansson-Pape per Oy Stockmann (poi per Innolux), già esposte alla biennale del 1958. Nei progetti della Pape compare anche una lampada a fungo, di cui non è ben chiara l’identità della produzione. 18  in “Domus” 330, maggio 1957, pp. 21–23


23 realizzare prodotti per l’illuminazione esclusivi per arredamenti commissionati dagli stessi architetti progettisti. Un esempio iconico di queste fornitùre, che si rivelò particolarmente fortunato in merito alle applicazioni, fu il sistema modulare disegnato da Ignazio Gardella in stretta collaborazione con Paolo Venini, Lodovico Belgioioso e Massimo Vignelli, verosimilmente nel 1958. Il lampadario a Poliedri, spesso identificato in altro modo, trovò numerose applicazioni in ragione della sua estrema flessibilità compositiva, che con adatti dispositivi di allestimento poteva fungere sia da lampadario domestico sia da apparato scenografico di dimensioni grandiose, come avviene prima nel padiglione Italia all’esposizione internazionale di Bruxelles e poi nell’allestimento magistrale di quello del Veneto di Italia ‘61 a Torino [fig 17 e 24]. Composto da moduli a base esagonale alti 12 centimetri, questo lampadario usando un sistema di ganci, solidali a un corpo centrale a raggiera sospeso da una catena, può dare la stessa sensazione di un lampadario tradizionale, grazie alla sua presenza cristallina, e altresì creare l’effetto di una stalattite che scende dal soffitto. Ciò varia ovviamente in funzione del numero di moduli che compongono il lampadario. Il successo di tale sistema, che venne applicato in moltissimi altri casi, ad esempio nella Grande Moschea di Tunisi o per l’atrio del palazzo della Farnesina a Roma (su progetto di Enrico del Debbio), lo rese uno dei prodotti commercialmente più validi sulla scena dei sistemi per l’illuminazione di Murano. Proseguendo la linea storica dei prodotti per l’illuminazione di Venini, vediamo come l’esempio di Poliedri, fu determinante per il proliferare di questa tipologia. Nel 1964 un sistema di diffusori in vetro esagonali viene adoperato per illuminare il vasto vano scale della sede Olivetti di Ivrea. Qui i moduli, dal diametro di 40 centimetri ciascuno, si adattano all’ambiente anch’esso esagonale, e lasciano filtrare la luce naturale proveniente dal lucernario soprastante, creando un velario alveolare che diffonde la luce in tutto l’ambiente [fig 23]. Per la prima volta forse gli elementi modulari vengono impiegati come un apparato architettonico a se stante, venendo meno la componente illuminotecnica. Questo approccio al vetro, come una sorta di diaframma architettonico, verrà replicato in successivi progetti, ma l’evoluzione definitiva avverrà a mio parere con alcuni prodotti sviluppati da Salviati tra gli anni ‘60 e ‘80, come

vedremo nel capitolo dedicato. A partire dagli anni ‘70 Venini mette a punto altri modelli, che basandosi sullo stesso concetto del lampadario a poliedri, possono servire in diverse situazioni, sia come lampadario unitario che come sistema a controsoffitto. Accade ad esempio con Esprit, nonostante la forma decorativa a fiore si presti maggiormente a comporre lampadari di dimensioni minori. Un’altra serie di moduli che riscontrò un notevole successo, furono le Aste polilobate, più frequenti nella versione a trilobi. Esempio sorprendente di fornitura è quella per lo Schlosstheater di Fulda in Germania [fig 25] dove il soffitto di 400 metri quadri è interamente coperto da 70000 elementi ad aste piene trilobate innestate in agganci di sicurezza e isolate acusticamente. Con la direzione di Ludovico Diaz de Santilana, figlio di Venini, questo ramo produttivo vede un maggiore sviluppo, anche in ragione della moda degli anni, per cui un sempre maggior numero di istituzioni richiedevano l’arte di Murano per arredare le sale degli ambienti istituzionali. Tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80 il mercato dei lampadari di Murano si espande oltre il Mediterraneo, nei paesi del Nord Africa e della penisola araba. Altri elementi sviluppati negli stessi anni sono i Nastri e le Canne, elementi più leggeri dalla superficie frastagliata, componibili anche come pareti di cristallo. L’applicazione più interessante in questo caso è Tappeto Volante del 1984, disegnato dallo stesso de Santillana. I nastri sono collegati da 18. Vittorio Gregotti, Ludovico Meneghetti, Giotto Stoppino, Lampade per un negozio d’abbigliamento, Novara, Venini,1957 .


24 un telaio metallico flessibile sospeso a dei cavi metallici. L’illuminazione è fornita da lampada alogene la cui luce viene rfranta dalle superfici irregolari dei nastri di cristallo. Lo stesso anno Ludovico Diaz de Santillana disegna per l’azienda un altro apparato, più grande, rifacendosi ai sistemi degli anni ‘60. Tazebao è una grande scultura di vetro alta 6 metri e mezzo, composta da listelli a croce allineati l’uno sull’altro, lasciando al centro lo spazio per l’elettrificazione e le lampadine [fig 19]. Anche il figlio di Ludovico, Alessandro, in quegli anni si cimenta nel design dell’illuminazione. La lampada Ustorio, del 1983, coniuga i tipi del lighting design italiano degli anni precedenti, come i Luminator e le forme ricorrenti degli anni ‘50. Il piatto di vetro molato a murrine trasparenti svolge la doppia funzione di diffondere e riflettere la luce. Nell’insieme, questa lampada, fa parte di quella serie di oggetti che Murano sviluppa a cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, in cui il vetro ha una parte abbastanza marginale nell’insieme del progetto, per cui si risente della mancanza dell’identità muranese. Nella lampada da terra a fusto alto, per luce indiretta o diffusa, spesso accade che la parte in vetro che funge da paralume sia intercambiabile, mantenendo sempre la stessa struttura metallica come base. Negli anni 2000 Venini sviluppa altri tre importanti prodotti modulari, riprendendo in qualche maniera quella che era divenuta la moda degli anni ‘60. Granduca di Diego Chilò è una grande scultura luminosa a piastre che viene realizzata in primo luogo per arredare il grande spazio dell’Aspetar Orthopedic and Sports Medicine Hospital, in Quatar, su progetto di Rachid Kafile. Le piastre corrugate, sono fissate al centro ad una struttura in metallo studiata dallo stesso Chilò, che composta da dischi assemblabili che includono anche l’apparato d’illuminazione, permette una certa flessibilità nelle dimensioni. Nel 2011 Alessandro Isola e Supriya Mankad disegnano Rythm, una soluzione a grandi moduli in vetro lattimo componibili, dalle forme complementari. La particolarità di questa linea sta nel processo produttivo, in quanto il supporto del paralume, una gabbia di metallo, funge sostanzialmente da stampo in fase di soffiaggio [fig 26], facendo sì che il vetro vi rimanga incastrato una volta solidificato, come secondo l’antica tecnica vetraria per la produzione di lanterne, ripresa anche da Gae Aulenti negli anni settanta. L’ultimo progetto, firmato da Tadao Ando per Venini, è Veliero (2012): delle tessere quadrate curvate

in più direzioni, ognuna dotata di una sorgente luminosa led cui si aggancia anche il supporto metallico che permette di comporre le piastre in vetro, lattimo e cristallo a strati sovrapposti. Lo stesso modulo è usato per lampade da terra e da tavolo ma l’aspetto più interessante di questo progetto è la capacita di fungere da pannello luminoso da apporre alla parete [fig 27]. Le singole piastre — in diverse versioni, corrugate, lisce, a lattimo o con colorazione a caldo senza fusione — vengono realizzate a partire dal vetro lasciato cadere su un piano dal bòlo fuso, successivamente appiattito in un disco, prelevato e collocato su di uno stampo in ghisa curvato dove viene tirato per essere adattato alla forma quadrata19. Un caso a parte, ma legato alla storia di Venini, è rappresentato da Ve-Art. Episodio alquanto interessante dell’imprenditoria muranese di un’azienda voluta da Ludovico Diaz de Santillana e costruita a partire dal 1967 con Sergio Biliotti, trasferitasi quasi immediatamente in terraferma dove poter sviluppare una linea produttiva più industriale. Nella mente dei direttori di quest’avventura c’era il volere di rilanciare il vetro muranese in modo nuovo, negando in parte l’esclusività del prodotto per ottenere una distribuzione più ampia: i processi produttivi tradizionali, di soffiatura e manipolazione diretta vengono affiancati da impianti industriali per la soffiatura e il tiraggio del vetro, con opportune modifiche brevettate20. Già negli anni settanta Ve-Art concretizza i suoi sforzi in alcune mostre. Il fervore interno a questa realtà, dovuto dal vigore intellettuale dei suoi fondatori e aiutanti (come Emilio Moretti e Toni Zuccheri) era convogliato in una quotidiana ricerca e sperimentazione sui processi e le forme, in questo senso rendendo Ve-Art un vero e proprio laboratorio di design, talché per essa vennero chiamati a progettare Sergio Asti, Umberto Riva e Giorgio De Ferrari. Non solo, in quello che poi fu l’epilogo dell’azienda, vi fu pure un certo impegno progettuale nel ramo dell’illuminazione, in stretta collaborazione con Artemide che poi rilevò il marchio e ne incluse gli oggetti nella linea Collezioni21. Oltre a Venini, altre vetrerie si distinsero in 19  per una lista comprensiva dei prodotti per l’illuminazione di Venini, cfr. i cataloghi Venini Artlight, 2015 e 2016. 20  Vetro: un modo nuovo, dalla “mano volante” alla macchina, in “Domus” 538, settembre 1974, pp. 61–68. 21  Bassi A., La luce italiana: design delle lampade 1945– 2000, Electa, Milano, 2003, p. 203.


25 saper competere una volta esaurita. L’impressione, a posteriori, è che tali aziende, cavalcando l’onda del “design” rinunciarono poco alla volta al proprio bagaglio di tecniche e forme, sminuendo da una parte la propria origine e allo stesso tempo smarrendosi nel settore del design per l’illuminazione, prive di un’identità forte.

19. Ludovico Diaz de Santillana, Tazebao, h 6 m, Venini, 1984.

merito ad innovazione nel ramo dell’illuminazione. Vistosi, ad esempio, a partire dagli anni ‘60 realizza una serie di prodotti che aprono il dialogo tra la manifattura muranese e le aziende italiane produttrici di oggetti per l’illuminazione. È bene dire che non sempre questo ha giovato a Murano né alla qualità del progetto risultante. Come già accennato all’inizio di questo capitolo, alcune di queste vetrerie focalizzarono il core business sul ramo dell’illuminazione, e a partire dagli anni ‘60 evolverono sino a divenire produttrici esclusivamente di oggetti per l’illuminazione. La tendenza di alcune di queste fu quella di abbandonare l’assetto artigianale per assumerne uno di più vasta scala e soprattutto, forse all’inizio senza consapevolezza, abbandonare i caratteri distintivi degli oggetti di Murano. L’obbiettivo era quello di seguire la cometa del design che Murano sperimentò nel secondo dopoguerra, adattandosi nei linguaggi e nelle strategie a quel mercato che ebbe molto successo nei decenni subito successivi. Tuttavia, tali aziende furono abbastanza fortunate da subire l’inerzia della prima innovazione senza però

Vistosi e il rapporto con Artemide Vistosi dai primi anni ‘60 inizia a produrre elementi per l’illuminazione, sotto la guida ispiratrice di Oreste Vistosi con i figli Luciano e Gino. In particolare ebbe un ruolo rilevante Luciano Vistosi, artista scultore, molto legato alla dimensione plastica del vetro, tanto che quasi tutte le sue opere sono realizzate in vetro cristallo tralasciando quasi completamente la dimensione coloristica22. Non è un caso che durante la gestione di Oreste e Luciano, fino al 1984, la produzione venne spinta nel ramo dell’illuminazione, seguendo le orme e spesso avvalendosi del contributo di grandi designer. A prova di questa tendenza che si è perpetuata nei decenni, vi è il catalogo dell’azienda. Vistosi oggi produce esclusivamente oggetti per l’illuminazione in vetro. Ciò che accomuna la linea dei prodotti è una quasi totale assenza del colore e una ricerca formale che pianta le sue radici nei modelli degli anni ‘60, con numerose innovazioni in anni più recenti portate specialmente dalla collaborazione con nuovi talenti. Tra le lampade della fine degli anni cinquanta vi erano quelle di Alessandro Pianon e quelle di Peter Pelzel. Queste furono forse le ultime produzioni a coniugare un certo razionalismo formale con la forza del colore. Lampade a sospensione, in vetro incamiciato colorato o lattimo [fig 28], in cui il concetto di standard sembra trasparire dalla forma, reminescente in qualche modo di quel razionalismo continuo tipico degli anni cinquche caratterizzava molti oggetti industriali e più direttamente l’estetica veicolata dagli oggetti Kartell. Infatti, come si può notare bene nei modelli di Pelzel, la forma è simmetrica, tutto sommato di semplice geometria e con raccordi di raggio ampio, aspetti fondamentali per una produzione di serie di vetri soffiati dentro forme in legno apribili. A questo proposito diviene in22  Sono sculture formate da membrane di vetro trasparente, quasi delle tensostrutture. Questa tendenza si affermò a Murano in particolare dalla dine degli anni ‘60, con le opere di Luciano Vistosi e Livio Seguso. Cfr. Luciano Vistosi, Livio Seguso: museo d’arte moderna Ca’ Pesaro, Venezia 1980, a cura di Perocco G., Electa, Milano, 1980.


26 teressante il fatto che “Domus” inserisce queste serie di lampade nella sezione pubblicitaria dal titolo Domus, per chi deve scegliere vetri di serie, e la descrizione del profilo dell’azienda cita la prospettiva della nuova gestione verso la modernità del progetto23. Nel 1966 inizia la collaborazione con Angelo Mangiarotti che progetta una soluzione esemplare per l’illuminazione. È in realtà qualcosa che si avvicina più ad un apparato scenografico, che entra nella dimensione architettonica dell’ambiente. Si tratta di Giogali, o V+V, oggetto unico nel suo genere: una maglia di cristallo, composta da moduli formati da una canna in vetro trasparente congiunta e piegata a formare un gancio [fig 29]. Anche in questo caso l’applicazione dei moduli spazia dal lampadario a sospensione alle applique, fino a divenire una vera e propria cortina, come nell’allestimento per Eurodomus 2, a Torino nel 196824. In quegli anni Gino Vistosi già aveva ideato il lampadario a drappo, a elementi modulari provvisti di un gancio metallico che permettono all’intera struttura di essere autoportante [fig 30] mimando l’effetto di una tenda. Tuttavia il progetto di Mangiarotti costituiva il primo esemplare di apparato modulare interamente in vetro che permetteva numerose configurazioni, dando piena libertà all’arredatore. Indagando ulteriormente le capacità tecniche ed espressive del vetro, Mangiarotti disegna VsuV, una serie di lampade a sospensione le cui sezioni coniche sono inserite l’una dentro l’altra [fig 31]. Ogni sezione presenta un gradiente con vetro bianco dal basso a trasparente verso l’alto. Successivamente Mangiarotti disegna un’altra lampada a sospensione ancora più semplice: Nebula. La forma nasce dalla variante di un altro progetto che l’architetto aveva disegnato per Artemide, Lesbo, del 1967, di cui però fa una lampada a sospensione e da soffitto variando le proporzioni e alcune geometrie. Il trattamento della materia rimane però coerente in tutti i suoi progetti. In particolare in Nebula (come in Lesbo) usa il vetro lattimo a sfumare, là dove la luce serve essere diffusa, mentre lascia trasparente le parti dove è più conveniente che vi sia luce diretta. La forma generale, nuovamente, presenta caratteristiche tali da renderla facilmente riproducibile in serie. Gino Vistosi, nel 1970, progetta delle lampade che sulla traccia impostata dal design di Mangiarotti, si avvalgono di una cer-

ta semplicità produttiva, coniugando facilmente forma e funzionalità all’interno di un progetto ancora una volta con più configurazioni. Infatti la lampada può essere a sospensione o da terra, semplicemente capovolgendo la forma sottosopra. È quindi già chiaro, alla fine degli anni ‘60, quale sia la direzione intrapresa da Vistosi. Con le successive collaborazioni, come quelle di Vico Magistretti, Gae Auelenti ed Ettore Sottsass, si delinea il profilo di un’azienda attenta all’innovazione, sempre più incline al mercato dei prodotti per l’illuminazione di design. L’intervento di questi nomi presso la vetreria fece sì che aziende nate nel campo dell’illuminazione iniziassero a rivolgersi ad alcune fornaci per la produzione di lampade in vetro. Vistosi fu una di queste, e vide in Mangiarotti un ponte per la collaborazione con Artemide. Lesbo è una lampada da tavolo o da terra, che basandosi sullo stesso modo di diffondere la luce della più famosa Taccia dei Castiglioni (1962), utilizza invece un unico involucro di vetro, alternando lattimo e trasparenze per variare lì dove serve la schermatura, la rifrazione e la direzione della luce25. Artemide, nei decenni successivi continuò a collaborare con le vetrerie muranesi — sebbene in alcuni prodotti non vengano accreditate ma è presumibile che la collaborazione sia continuata con Vistosi — adoperando i vantaggi dei processi produttivi artigianali per produrre lampade altrimenti non fattibili. È il caso, ad esempio, di Patroclo (1975), di Gae Aulenti, lampada composta da due sezioni in vetro trasparente, di cui una soffiata direttamente in una gabbia metallica a maglia fina ripiegata che funge quindi da stampo rimanendo però inclusa, così da servire come paralume. Altri esempi di collaborazione con il distretto di Murano costellano la storia di Artemide, fino ad anni recenti, con progetti in stile di Ernesto Gismondi (Pantalica, un esempio di riconnessione con la tradizione dei lampadari a bracci), e progetti che coniugano bene tecnologia d’avanguardia e l’espressività del vetro, come nelle lampade di Carlotta de Bevilacqua (Incalmo e Invero). Lo stesso Luciano Vistosi disegnò una lampada da tavolo, Onfale, in vetro opalino, con forme monolitiche perfette di semisfera e cilindro. I pezzi disegnati, a questo punto, iniziano a non essere più riconoscibili, anzi si potrebbe dire che non vi sia un’identità forte che distingua la produzione

23  in “Domus” 405, agosto 1963, pp. XVII (d/151). 24 Red., Eurodomus 2, in “Domus” 463, giugno 1968, p. 38.

25 Red., Mangiarotti: soluzioni nuove di lampade in vetro, in “Domus” 451, giugno 1967, pp. 41–43.


27 di un’azienda dall’altra, tolto il lato prettamente tecnico di Artemide. Vistosi nella sua vicenda imprenditoriale continua la sua linea di produzione, pur sempre mantenendo il vetro come materiale essenziale di ogni progetto, delegando però alla singola personalità del progettista di definire il carattere del prodotto. Per questo motivo Vistosi ha creato nel tempo un catalogo molto vario di oggetti per l’illuminazione dalle caratteristiche eterogenee, che poco hanno mantenuto della tradizione dell’isola. Tuttavia l’azienda ha saputo riconnettersi sporadicamente con le origini della sua produzione: nel 2005 c’è stata la riedizione di Giogali, con le declinazioni cromatiche e con nuove misure. La ripetuta collaborazione con Pio e Tito Toso, designer veneziani, ha reso partecipi nuovamente i valori dell’artigianalità, specialmente con Nodo [fig 32], oggetto plastico di assoluta complessità, realizzato a caldo con una canna di vetro incamiciato ripiegata. Allo stesso tempo nei loro altri prodotti disegnati per Vistosi appaiono sempre molto attenti alla replicabilità dell’oggetto. Nel 2007, due giovani designer, Romani Saccani, disegnano Diadema [fig 20]. Forse la riduzione ai minimi termini di quella tendenza emersa nelle 20. Studio Romani Saccani, Diadema, modulo: h 100 cm Ø 1 cm, Vistosi, 2007

forniture degli anni ‘60, dove il modulo è la singola limpida asta di cristallo cilindrica, ottenuta mediante un processo di trafilatura brevettato dall’azienda. Il massimo quindi della produzione industriale ottenibile in un’azienda di simile entità e allo stesso tempo un rimando alla moda dei decenni precedenti. Per le ragioni spesso citate però, questo rappresenta in qualche modo lo sminuire del sistema artigianale di Murano. Questa è appunto la conferma del compromesso quasi obbligatorio che la trasformazione di un’azienda prettamente artigianale, connotata da una tradizione di un distretto produttivo molto circoscritto, in un’entità di media impresa operante su un mercato dell’arredamento contemporaneo comporta. La prova di questo distacco la si trova anche nell’immagine dell’azienda e il fatto di avere una sede fuori Murano, in una zona industriale. Vistosi anzi negli ultimi anni ha investito nell’aggiornamento tecnologico, sia introducendo nuovi processi industriali, sia brevettando il nuovo vetro cristallo, senza l’uso del piombo, più trasparente del tipico cristallino muranese. Si delinea così il profilo di un’azienda storica, che fa corrispondere le sue origini con l’onomastica della famiglia Gazzabin-Vistosi, ma che subisce, nell’arco di circa 70 anni molti stravolgimenti fino ad entrare a far parte nel vastissimo parco delle aziende italiane produttrici di lampade. In modo analogo ma in tempi più recenti, altri imprenditori con sede a Murano hanno colto lo spunto per slacciarsi dai vincoli produttivi dell’isola per affrontare un’impresa di più ampia portata. Un esempio è Foscarini: nata nel 1981 con sede a Murano, l’azienda ha da subito avviato la produzione per prodotti per l’illuminazione. Nasce anzi senza una fornace di proprietà ma si affida a quelle dell’isola per soddisfare le esigenze variabili di ogni singolo progetto. Sotto la guida di Carlo Urbinati e Alessandro Vecchiato, nel 1983 nasce la prima linea di lampade. Due anni dopo l’azienda ingaggia i primi designer esterni. Nel 1990 l’azienda produce la prima lampada in vetro industriale e l’anno successivo apre a nuovi materiali, a partire dal polietilene. Subito dopo sposta la propria sede in terraferma. Il profilo risultante è quello di un’azienda dinamica, che pone il proprio punto di forza nell’innovazione e nella narrativa dei propri prodotti, assolutamente contemporanei, affidandosi continuamente a giovani designer. La cultura muranese diviene un pretesto per dare valore


28 aggiunto agli oggetti ma non di rado in alcuni prodotti riappare il linguaggio dell’artigianato dell’isola. Parallelamente quindi a queste vicende imprenditoriali che devono alla matrice muranese quantomeno la prima spinta inerziale, le aziende storiche, costitutive della cultura del vetro di Murano, sperimentano nel ramo dell’illuminazione alcune direttive esterne, talvolta consce tuttavia che commercialmente la sfida fosse vana, viste quelle aziende neonate che possono evitare i conti con la tradizione. Comunque continuando a produrre i grandi lampadari muranesi, queste fornaci dimostrano anche di essere aperte all’approccio semplificante del design e della standardizzazione. Ecco quindi che nomi come Barovier e Toso, Seguso e Salviati iniziano a produrre elementi modulari per l’illuminazione, anzi fornendo pure qualche spunto per l’innovazione e numerose novità formali, che distingueranno alcune opere per la loro carica suggestiva e scenografica nello scenario dell’arco di tempo tra gli anni sessanta e gli ottanta. Barovier&Toso e le altre fornaci storiche Barovier&Toso, una delle vetrerie più inclini a conservare la tradizione e la porduzione di tipi storici, fornì anche supporto per importanti forniture. Ercole Barovier (1889–1972), distintosi per alcune creazioni che diedero lustro all’artigianato muranese presso le Biennali di Monza, portò su un nuovo livello l’arte decorativa di quegli anni. Ricercatore e innovatore delle tecniche (sua la colorazione a caldo senza fusione) fu a capo dell’azienda di famiglia fino alla morte, assistendo anche alla fusione con quella della famiglia Toso. La ricerca formale e la voglia di innovazione spinge Ercole Barovier ad esplorare l’ambiente del design, trovandovi le invenzioni già contemporanee delle altre vetrerie e di Vianello. Queste, abbastanza lontane dal vocabolario formale di Barovier — incline piuttosto ad un repertorio novecentista e di giocose e colorate reinterpretazioni dei pezzi tradizionali — lo ispirarono per intraprendere il progetto di alcuni esemplari progetti per l’illuminazione. Forte del bagaglio tecnico ed espressivo dei lampadari di tipo rezzonico, la vetreria Barovier&Toso, grazie alla mente di architetti e designer, poté mettere a punto una serie di architetture luminose a moduli di notevole impatto visivo. Nel 1964 per la Tour de la Bourse di Montreal, in Canada, Luigi Moretti, assistito nel progetto strutturale da Pier Luigi Nervi, scel-

se la fornace di Barovier per la produzione di una grande scultura luminosa per arredare la hall principale. Una serie di parallelepipedi in vetro soffiato, di diverse lunghezze, solidale ad un corpo centrale da cui si staccano propaggini di ampiezze diverse a cui si agganciano le sorgenti luminose, disposte puntualmente su tutta l’altezza della struttura. Molte delle sezioni terminano con piccoli tocchi di colore, composti da altri moduli più piccoli, in alcuni casi anche trattati in superficie con finiture differenti [fig 33 e 34]. Due anni più tardi, su progetto di Marino Vallot, la vetreria fornì i vetri per un lampadario a soffitto per il foyer del Palazzo del Cinema presso il Lido di Venezia. Qui, una serie numerosa di tubi corrugati forma una grande concrezione cristallina che scende dal soffitto. Vallot sfrutta le nuances dell’ambra e del paglierisco, combinate con la trasparenza del cristallo per creare un gradiente cromatico che accentua l’andamento stalattitico della composizione [fig 35 e 36]. Questi due prodotti — il primo per i tocchi di colori attinti direttamente dalla tavolozza tradizionale della vetreria, e il secondo per la forte resa scenografica — compongono degli esempi eccellenti di progetto per l’illuminazione d’architettura. Di questo sono meritevoli anche i fabbri, presenti a Murano da sempre, che in stretta collaborazione con le vetrerie realizzano su misura ogni dispositivo di allestimento per queste grandi strutture che spesso arrivano a pesare qualche tonnellata. Di questo, Angelo Barovier scrive: «Una caratteristica importante del vetro muranese per grandi lavori illuminanti è la grandissima tavolozza coloristica di cui dispone, tale da consentire “nuances”, effetti cromatici e luminosi impareggiabili, impossibile con altri materiali. Ci si può quindi dimenticare degli schemi classici per cui il lampadario doveva necessariamente essere al centro dell’ambiente: con l’odierna tecnica esecutiva, affinata da anni di esperienza — non ultima quella dei bravissimi artigiani del ferro che a Murano forniscono le scheletrature a sostegno del vetro — si possono affrontare forme ancor più evanescenti, senza peso, quasi sospese nell’aria, libere da ogni schematismo, da ogni regola prefissata. In questo senso le “isoipse” immaginate da Marino Vallot per il lampadario del Palazzo del Cinema al Lido di Venezia sono esemplari».26 La spinta progettuale esterna sembra esaurirsi con 26  Barovier A., “L’illuminazione d’architettura” in Vetri Murano Oggi, 1981, ibid.


29 la fine degli anni ‘60 e Barovier&Toso continua comunque la produzione di oggetti artistici e lampadari a bracci e applique in stile. Solo nel 1984 ritorna un impulso esterno, da parte di Umberto Riva, con Veronese (forse in riferimento ai vasi presenti nei quadri di Paolo Veronese) [fig 37], la quale, nonostante la tecnologia e la raffinatezza strutturale, pertinente forse in parte alla tendenza high-tech sviluppatasi tra gli anni ‘70 e ‘80 e in parte ad un recupero neostorico, è scarsamente conciliabile con la standardizzazione produttiva ma che lo stesso autore definisce ambiguamente come «quasi artigianale»27. Assieme a questa, Riva, per la stessa fornace, progetta altre tre lampade: Tesa, del 1986, lampada da tavolo composta da un cono in vetro cristallo soffiato in cui viene sospesa la fonte d’illuminazione mediante un meccansimo fissato alla base e alla cima del tronco di cono. La lampadina è schermata da delle “frange” di vetro colorato, il tutto bilanciato alla base da un disco in ottone [fig 38]; nel 1987 progetta Attesa, variante a sospensione con corpo cilindrico; nel 1988, Sospesa, utilizzando la forma e il meccansimo di Veronese, per una versione a sospensione [fig 39]. Un’altra vetreria, in tempi non sospetti, realizzò alcuni importanti progetti per allestimenti illuminotecnici modulari. Su progetto di Flavio Poli, uno dei più grandi maestri e artisti che Murano abbia avuto, Seguso Vetri d’Arte realizzò verso la metà degli anni ‘50 una fornitura per l’hotel Bristol di Merano, allora di proprietà di Arnaldo Bennati, demolito ne 2006. In questo caso si tratta di una rete di nastri di vetro, caratterizzati da una superficie irregolare, montata parallelamente al soffitto, in modo da creare una plafoniera estesa [fig 41]. Cinquant’anni più tardi questa particolare architettura di vetro viene rieditata dallo studio austriaco Coma, ridimensionando i nastri e attualizzando il sistema illuminante, componendo la struttura in una forma più libera, dal nome Lace. Allo stesso modo, Coma ha rieditato un’altra struttura modulare, Giglia [fig 42], composta da numerose foglie di vetro in diverse colorazioni. In questo caso l’intervento del 2000 ha reso autonomi i singoli moduli, dotandoli di una propria sorgente led, e un elegante sistema di fissaggio singolo28. Un altro

interesante progetti ad opera della medesima vetreria, è quello del 1954, su progetto dell’artista Giuseppe Capogrossi. Consiste in un celino per uno spazio allestitivo presso la decima edizione della Triennale di Milano29, formato da una serie di dischi di vetro colorato, posti orizzontalmente e trattenuti da una rete di cavi quasi invisibili, sottostanti ad un velario bianco che diffonde la luce [fig 45]. Ancora una volta, qui, diviene fondamentale il problema che si instaura con l’architettura: sia questo un intervento artistico, per intenzione dell’autore, vige pure una preponderatne componente progettuale, che tiene in considerazione il contesto e le esigenze tecniche, risolvendosi in una soluzione semplice ed efficace. La vetreria Aureliano Toso, ora riunita nel marchio Leucos, produsse verso la fine degli anni settanta due grandi opere d’illuminazione — anche se già dal principio del decennio precedente produceva elementi per l’illuminazione a soffitto, la cui descrizione sulle pubblicità presenti nella rassegna di “Domus” diceva «Illuminazione razionale moderna, lampadari di vetro in ogni stile, vetri artistici, vetri filigrana - vetri industriali». La prima di queste, del 1978, fu per l’Intercontinental Hotel di Londra, su progetto di Gino Poli e Arnold Montrose Designs: una serie di gemme formate da moduli a sezione quadrata, verosimilmente in più colori, tagliati diagonalmente riempivano i lacunari della sala come numerosi lampadari a se stanti. La seconda del 1980, arredò la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, con il progetto di Gino Poli e Pietro Mazzega: un immenso lampadario circolare, simmetrico, formato da una miriade di moduli a sezione circolare [fig 40]. L’ultima vetreria, non certo in ordine d’importanza, è la Fratelli Toso International. Dalla sua fornace, nel 1966, esce Gala, premiato alla Biennale del 1968, un elemento d’arredo componibile, a cascata, formato da catene di vetro opalino dove i moduli sono, come negli anelli di una catena, autoportanti [fig 43 e 44]. Gala ha una notevole somiglianza con il progetto di Mangiarotti per Vistosi, e potendo esserne considerato l’anticipatore, pecca tuttavia di quella flessibilità compositiva che è propria di Giogali, fermo restando il grande impatto scenografico.

27  Riva U., Le ragioni della normalità, in “Ottagono” 110, marzo 1994, pp.40-44. 28  www.comastudio.at e anche www.domusweb.it/it/ notizie/2014/06/26/lace.html#pi.

29 Red., Opere d’arte e ambiente alla Triennale, in “Domus” 300, dicembre 1954, p. 17.


30

21. Gio Ponti, 99.80, h 77 cm Ă˜ 88 cm Venini, 1946. a destra: 22. B.B.P.R., lampade a fasce per Olivetti, h 60 cm, New York, Venini, 1954. sotto: 23. Marcello Nizzoli, lucernario della sede Olivetti, Ivrea, Venini, 1957.


31 24. Ignazio Gardella, Lampadario a poliedri, Esposizione Universale di Bruxelles, Padiglione Italia, Venini, 1961. Progetto di Carlo Scarpa.


32

25. Trilobi, Schlosstheater, Fulda, Germania, Venini, 1978. Progetto di Gerhard e Peter Weber. 26. Alessandro Isola e Supriya Mankad, Rhythm, modulo h 42 cm L 40,5 cm, Venini, 2011. 27. Tadao Ando, Veliero, versione a parete, h 100 cm L 100 cm, Venini, 2012.

Pagina successiva: 28. Peter Pelzel, lampade a sospensione, Vistosi, 1962–64. 29. Angelo Mangiarotti, Giogali, moduli componibili, Vistosi, 1967.


33


34 30. Gino Vistosi, Drappo, Vistosi, 1966–68.

31. Angelo Mangiarotti, VsuV, Vistosi, 1966.

33. Pio e Tito Toso, Nodo, h 25 cm Ø 40 cm, h 20 Ø 25 cm, 2015, Vistosi.


35 33. Luigi Moretti, lampadario a moduli a sezione quadrata, Tour de la Bourse, Montreal, Canada, Barovier&Toso, 1964. 34. Luigi Moretti, lampadario a moduli a sezione quadrata, Tour de la Bourse, Montreal, Canada, Barovier&Toso, 1964.


36 35. Luigi Moretti, lampadario a moduli, Palazzo del Cinema, Venezia Barovier&Toso, 1966. Disegno preliminare, archivi ASAC, la Biennale, Venezia. 36. Marino Vallot, lampadario a moduli, Palazzo del Cinema, Venezia Barovier&Toso, 1966.


37 37. Umberto Riva, Veronese, h 50 cm Ø 38 cm, Barovier&Toso, 1984.

38. Umberto Riva, Tesa, h 55 cm Ø 38 cm, Barovier&Toso, 1986.

in basso: 39. Umberto Riva, Sospesa, h 48 cm Ø 38 cm, Barovier&Toso, 1988.

in basso: 40. Gino Poli e Pietro Mazzega, lampadario a moduli, Cassa di Risparmio di Verona, Aureliano Toso, 1980.


38 41. Coma Studio, Lace °1, su sostegno in alluminio tagliato a laser, h 20 cm L 110 cm W 60 cm, 2014. in basso: 42. Coma Studio, Giglia, 2012.

Entrambi i sistemi sono una riedizione delle forniture progettate da Flavio Poli nel 1954-56 per l’Hotel Bristol di Merano, Bolzano, produzione Seguso Vetri d’Arte. Le misure originali erano: L 300 cm W 300 cm (Lace) e L 900 cm W 300 cm (Giglia).


39 43. Giusto Toso, Gala, Fratelli Toso 1966.

45. Giuseppe Capogrossi, controsoffitto a dischi di vetro colorato, scalone e vestibolo della Triennale di Milano, Seguso – Vetri d’Arte, 1954.

44. Giusto Toso, Gala, particolare del modulo, Fratelli Toso 1966.


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Cosa accade nel resto d’Europa?

La Finlandia

Nel panorama europeo, il design del vetro, oltre a quello di Murano, ha altri nodi geografici molto importanti. Con estrema riduzione potremmo dire che quelli principali sono i fenomeni che si sono sviluppati in Finlandia, in Francia a Nancy, in Boemia e in Inghilterra. Il primo caso, benché notevolissimo in quanto ad innovazione e successo commerciale è marginale alla nostra questione; o meglio, tratta la standardizzazione nel design del vetro da un’altra direzione e anzi lo si potrebbe dire di vocazione industriale. Infatti la produzione di vetro in Finlandia, di origine piuttosto recente se confrontata con la storia veneziana, ha fin da subito rivolto il suo mercato alla produzione di oggetti d’uso quotidiani. Basti pensare che le prime manifatture producevano vetro soffiato per bottiglie, in particolare per spiriti e medicinali. Solo in un secondo momento, con l’evoluzione dell’architettura, nel XVIII secolo, le fornaci finlandesi iniziarono a produrre vetro per finestre, secondo il metodo a cilindro. La produzione è proseguita nei secoli sostanzialmente in queste due direzioni, aggiornando di pari passo le dotazioni tecnologiche, fino a formare delle vere e proprie industrie vetrarie1. Solo agli inizi del XX secolo viene ad instaurarsi un rapporto tra arte e vetro. Questo si consolida con i grandi designer finlandesi verso la metà del secolo, con la produzione di oggetti che resero questa nazione famosa in tutto il Mondo. In questo senso, il ruolo di artisti e designer qui è quello più tradizionale, volendo azzardare questa definizione, di dover rendere più appetibili oggetti industriali, come visto spesso comunque eccellendo e superando l’intento. La più parte della produzione di vetro in Finlandia è sì di oggetti d’uso, ma sempre come complemento d’arredo oppure per stoviglie. In questo senso, è interessante notare come la standardizzazione in questi prodotti sia una cosa obbligatoria, visto anche il rapporto che vige tra designer e azienda (industria vera e propria non più una fornace). Senza dimenticare che comunque, all’interno di queste aziende, una certa sensibilità artistica ha contribuito a dare spazio alla più libera creatività dei designer, potendo in qualche modo sperimentare, senza essere per forza legati alla produzione industriale, ottenendo come risultato sostanziale una più sfocata distinzione tra prodotto industriale e pezzo artistico, con qualche ovvia eccezione nelle opere più sperimentali di alcuni dei designer. È chiaro dunque che l’approccio al design del vetro, per propria 1  Per una storia approfondita della produzione finlandese, cfr. Nuutajärvi: 200 years of Finnish Glass, a cura di Kaisa Koivisto, Oy Hackman Ab, Tampere, 1993. Sulla genesi della manifattura vetraria, cfr. Alanen A. J., The Finnish Glass Industry, in “Scandinavian Economic History Review, Volume 1, fascicolo 2, 1953, Scandinavian Society for Economic and Social History and Historical Geography, Stoccolma, 1953–presente.


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La Francia

L’Inghilterra

vocazione, nei paesi nordici produce output più democratici: non a caso oggetti in vetro per la casa, di Alvar Aalto o Timo Sarpaneva, possono essere tranquillamente acquistati presso gli ipermercati ed è anche utile ricordare che il desiderio ultimo di Kaj Franck durante la direzione della vetreria di Nuutajärvi e di Arabia era quello di introdurre l’anonimato del progettista2. Inoltre essendo la vetraria finlandese più direttamente immersa nell’ecosistema del design, non ha bisogno di interventi esterni che la riabilitino come invece accade per altre realtà artigianali. Ciò nonostante negli ultimi vent’anni si è assistito ad un movimento che mira alla rivalorizzazione del vetro artistico: Suomen Lasii Elää, la rassegna periodica di vetri artistici cui sono chiamati a partecipare tutti i giovani designer e artisti, è in questo senso un’attività di conservazione del patrimonio creativo del design nordico, elevandolo mediante l’espressività di certe opere al contesto artistico, a fianco degli americani e alcuni veneziani. In breve: la standardizzazione per la produzione di vetro in Finlandia è cosa necessaria, tuttavia non è quasi mai (si vedano le opere di Lisa Johansson-Pape) stata applicata al ramo dell’illuminazione benché si sia rivolta spesso alla tradizione veneziana, come testimoniano le mutuali collaborazioni occorse durante gli anni. Per quel che concerne la manifattura francese, non essendosi mai definitivamente staccata dalla tradizione decorativa — della quale si ebbe l’apogeo con l’opera di François-Eugène Rousseau con alcune chinoiserie, e Hector Guimard ed Emile Gallé che produssero importanti invenzioni in ambito produttivo e decorativo3 —, fu relegata al destino dell’Art Nouveau che non conobbe mai uno sviluppo industriale, vittima pure della pesante situazione economica che vessava la Francia alla fine del XIX secolo4. In tempi recenti diverse personalità del design francese si sono avvicinate alla cultura del vetro. In primo luogo l’artista Jean-Michel Othoniel nelle sue opere utilizza in modo esuberante delle perle di vetro colorate, talvolta dorate, con cui realizza delle opere di grandi dimensioni a forma di collana. Egli e molti altri, quali Mathieu Lanneur, Ronan Bouroullec, Philippe Starck per conto di Axor, si appoggiano alla vetrerie svizzera di Matteo Gonet. Questa fornace, dall’impronta molto sperimentale offre qualsiasi tipo di supporto per la prototipazione e realizzazione di opere d’arte e di design in vetro. Inoltre produce anche opere proprie nel ramo dell’illuminazione e dell’arredo in generale. Il caso inglese invece meriterebbe un approfondimento specifico, essendo stata l’Inghilterra il motore principale dell’industrializzazione. Già nel XVII secolo l’Inghilterra, con George Ravenscroft fu meritevole di un’importante innovazione nella tecnica vetraria: l’introduzione dell’ossido di piombo tra i fondenti del vetro per renderlo più trasparente. Due secoli più tardi Howard Ashley brevettò la prima macchina 2  Kaj Franck’s thoughts about the anonymity, in Kalin K. et al., Kaj Franck: Designer, Werner Soderstorm Oy, Helsinki, 2007, p. 182. 3  www.lesartsdecoratifs.fr/francais/musees/musee-des-arts-decoratifs/collections/dossiers-thematiques/arts-decoratifs-et-design/verre/chronologie-du-verre 4  Cfr. De Fusco R., Storia del design, cit, p. 162.


42 per la soffiatura meccanica di bottiglie perfezionata poi da Michael Owens negli Stati Uniti. Si deve inoltre il merito all’Inghilterra di aver iniziato il vetro alla modernità, grazie alla straordinaria opera di Joseph Paxton, il Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra del 1858. Di qui in avanti il vetro è architettura e l’architettura di vetro è sinonimo di modernità, come sentenzia perentorio Scheerbart nel 1914. I tempi nuovi ci portano il vetro Ci fa pena la cultura del mattone. Senza un palazzo di vetro La vita è una condanna.

La Boemia

Successivamente anche l’Inghilterra seppe mantenere vivo il filone dell’arte vetraria, allontanandosi dall’Arts and Crafts, verso una posizione meno reazionaria, autonoma rispetto alle questioni del design e dell’industria. Nell’ultimo caso, quello boemo, invece si assiste ad un fenomeno complesso, in questa sede difficile da esporre completamente. Nell’insieme, la storia del vetro boemo è più simile a quella del vetro veneziano: data la naturale abbondanza di risorse, gli artigiani della Boemia iniziano a produrre suppellettili in vetro, man mano elaborando le forme e raffinando la qualità del vetro, per cui diviene celebre il loro vetro cristallo, estremamente trasparente. Il periodo d’oro della vetraria boema è il barocco. La ricchezza formale, tipica dell’arte balcanica, quella popolare locale e di certo la matrice bizantina e la fusione, sotto l’influsso zarista, con gli stilemi esuberanti del barocco, rese il vetro boemo uno tra i più richiesti presso il pubblico aristocratico. La produzione di oggetti di lusso, inclusi quelli per l’illuminazione, continuò nei secoli successivi e alla metà del XIX secolo venne istituita una scuola che preparava i giovani vetrai sia nella continuazione della tradizione sia nella prospettiva dell’innovazione, artistica e tecnologica. Nello stesso periodo inizia la produzione per il mercato mondiale, con prodotti di serie decorati a smalto o spesso con litografie di opere famose, o altre volte con dipinti sul rovescio. In questo senso viene resa industriale soprattutto la decorazione, spesso con risultati discutibili, ma è chiaro che la peculiarità su cui punta la manifattura per raggiungere un pubblico più ampio è proprio questa, lasciando l’esclusiva del pregiato cristallo al mercato del lusso. Alle porte del XX secolo la produzione si diversificò ulteriormente, con grande impegno per la produzione di cristalli per la tavola, spesso caratterizzati da molature e finiture superficiali. La diffusione di questo genere di oggetti fu resa possibile grazie ai nuovi impianti industriali mentre al contempo il ramo dell’illuminazione continuava a fornire oggetti per i grandi palazzi europei e statunitensi. Allo stesso tempo la manifattura vetraria boema giovava del vicino rapporto con il Wiener Werkstätte e del razionalismo di progetto, incalzante proprio all’inizio del 1900, come dimostrano le opere Carl Otto Czeschka, che spaziano da oggetti d’uso, alla gioielleria, alle vetrate5. Successivamente 5  Cfr. De Fusco R., Storia del design, cit, pp. 119–132, e fig 159, p. 129.


43 la ricerca degli artigiani, artisti e designer che operavano in Boemia divenne ancora più poliedrica, apportando numerose innovazioni tecniche, formali e di decorazioni, a partire dal secondo dopoguerra. Molti di questi oggetti in vetro vennero esibiti alle varie esposizioni universali, anche durante il periodo comunista, venendo considerati ideologicamente innocui e utili al mantenimento della nazione. Il vetro boemo, negli ultimi decenni del XX secolo conobbe una nuova spinta di mercato, formando un vero e proprio brand che divenne poco alla volta globale. Negli ultimi anni, un’azienda ceca in particolare ha voluto indirizzare la propria produzione incisivamente verso il design e l’architettura: Lasvit, nata nel 2007 che raggiunge in pochi anni il mercato mondiale con prestigiose collaborazioni esterne e un nutrito gruppo di giovani designer cechi6, produce elementi per l’illuminazione in vetro, trasparente e colorato, utilizzando i più diversi processi produttivi, spesso puntando alla standardizzazione delle forme. Sicuramente annoverabile in un mercato esclusivo, la sua produzione non è di massa ma è comunque slegata dalla dimensione artigianale e storica del vetro boemo. Al contempo vi sono altre aziende ceche che producono stoviglie in media-piccola serie con decorazioni molate di alto livello, cui spesso si appoggiano altre vetrerie, anche muranesi. Generalizzando, lo scenario europeo della manifattura vetraria, benché meritevole di una più ampia analisi, ha sempre incontrato l’industria in modo decisivo, stabilendo rapporti con l’industrial design molto importanti. Ciò, oltre a derivare dal fatto che diversi sono i presupposti da cui si originano questi fenomeni produttivi, deriva pure dalla natura territoriale in cui questi si sviluppano. È indubbio che il caso del distretto del vetro di Murano sia assolutamente vincolato dal suo insediamento in un’area a dir poco circoscritta. Accanto dunque ai limiti materiali che questo comporta, concorrono pure dei limiti antropologici che connotano in modo immediatamente riconoscibile i processi e le relazioni all’interno di Murano, costituendone allo stesso tempo i pregi. Ciò nonostante, è proprio in ragione di una più morbida transizione verso il mondo della grande serie che nelle fornaci europee il contatto con l’industrial design sembra aver prodotto risultati più immediati e privi di troppe ambiguità.

6  lasvit.com/lasvitstory/inhouse-designers


44 46. Lisa Johansson-Pape, Sipuli, Tromba, Bulbo, h 34 cm Ø 25 cm, h 32 cm Ø 20 cm, h 33 cm Ø 27 cm, Innolux già Stockmann Oy, 1954–60.

47. Libor Sošták, Symphony, per la Dubai Opera, progetto di Janus Rostok, Lasvit, 2016.

48. Daniel Libeskind, Ice, h 40 cm L 100 cm W 100 cm, Lasvit, 2014.


45

2

Salviati e l’illuminazione d’architettura L’azienda ieri e oggi

Quando nel 1866 Antonio Salviati decise di aprire una fornace, sotto il patrocinio dell’abate Zanetti e del sindaco Antonio Colleoni, la direzione che si intraprese era quella, in sintonia con il tempo, del revivalismo, cioè la riproposizione raramente in chiave filologica di oggetti del passato, quanto molto più spesso un sincretismo di stili di epoche passate. Con esso si accompagnò un parallelo recupero di tecniche muranesi cadute in disuso, mentre si mantenne la varietà cromatica delle tavolozze dei maestri, da cui emerse già nei primi anni una predilezione per il rosso rubino. Il recupero storicista verso il quale si era indirizzata l’azienda attirò l’interesse degli inglesi Austen Henry Layard e Sir William Richard Drake che ne presero la direzione di Salviati cambiandone il nome e scindendo in due la società. In quegli anni nelle vetrerie si formarono i maestri Isidoro Seguso, Giuseppe e Benvenuto Barovier, Vincenzo Moretti. Con il nuovo secolo la deriva storicista non resistette per molto, in gran parte per le prominenti nuove tendenze artistiche che cambiavano in modo definitivo l’arte europea. L’iniziale reazione e conservazione degli stilemi che Murano cercava di mantenere, cedette il passo ad una progressiva contaminazione esterna da parte di artisti figurativi e scultori, che seppero altresì accompagnare l’artigianalità in un contesto moderno1. Oggi, come allora, Salviati è portavoce dell’estetica muranese. Precipuamente in questo periodo, Salviati fa questo in un modo esente da particolari affezioni e riproposizioni di mode ma al contrario pone al centro una progettualità globale che sa guardare alla storia in modo distaccato e in relazione alle esigenze attuali, mantenendo tuttavia l’assetto di azienda storica, senza darsi semplicemente al laboratorio di design. Ciò è permesso soprattutto grazie alla relazione con giovani designer che operano a livello esecutivo in una prospettiva di sviluppo comprensiva, che tenga conto della cultura muranese, il materiale, il territorio e i personaggi che prendono parte a tutto il processo. 1  Per una prospettiva d’insieme cfr. fra gli altri: Barovier Mentasti R., “Un millennio di arte vetraria” in Vetri Murano Oggi, cit., 1981, pp. 11–18.


46 Aspetto fondamentale su cui punta Salviati è la ricerca, in questo caso sistematica, che muove da premesse di rispetto della tradizione e valorizzazione della cultura artigianale muranese, creando output di interesse contemporaneo, utili per una nuova riflessione sulla cultura di progetto e per una maggiore consapevolezza delle realtà dei distretti produttivi artigianali2. 2.1 Sistemi modulari per Illuminazione Per quel che concerne i prodotti per l’illuminazione di Salviati, aggirando il periodo precedente agli anni sessanta, di cui si conosce molto poco, ho voluto procedere ad un elenco dei prodotti sviluppati tra gli anni sessanta e oggi. A partire dagli anni sessanta infatti, la fornace conobbe un notevole sviluppo che le permise di poter affrontare le commissioni per le forniture internazionali, di cui Renzo Tedeschi era responsabile. Di seguito, Si è cercato di illustrare i progetti più significativi in termini di progetto e applicazione. Tra questi, oltre a quelli illustrati di seguito, si ricordano le forniture per l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale a Ginevra con un sistema a controsoffitto con telaio in alluminio nascosto, o ancora la realizzazione delle vetrate fonoassorbenti per l’aula delle Udienze in Vaticano, mediante la realizzazione di mattoni pieni di vetro, incollati tra loro con un adesivo scelto appositamente3. A corredo dei progetti del catalogo vengono presentati alcuni disegni presenti presso l’archivio dell’azienda che rimandano a progetti eseguiti tra gli anni sessanta e settanta, che si rifanno ad uno stile modernista, come si vede nella lampada da tavolo [fig 62] e un altro, più probabilmente di inizio secolo, facente parte del catalogo Electroliers [fig 61], cioè la serie di lampadari e applique a bracci per illuminazione elettrica. Questi disegni, di difficile attribuzione e datazione dimostrano altresì come l’azienda abbia portato avanti il ramo, in diversi approcci, mantenendo comunque una linea più “tradizionale”, ma esprimendo la maggior parte degli sforzi nell’innovazione dei sistemi modulari presenti nel catalogo dell’illuminazione degli anni ottanta. Qui viene anche riportata, dove è deducibile interpolando i documenti a disposizione, la data 2  Come già scritto da Laura Pison e Silvia Orsetta Rocchetto, nella loro tesi di laurea magistrale, Distretto, vetro e progetto, relatore Bassi A., IUAV, 2013, Venezia pp. 119–127. 3 Cfr.: Salviati: il suo vetro e i suoi uomini, a cura di Sarpellon G., stamperia di Venezia, Venezia 2007, pp. 26–29,

del progetto. Si riserva comunque la possibilità di rivedere quest’ultima a seguito di una sistematica ricerca d’archivio. Vinicio Vianello, Ballotton, 1964 Un primo sistema modulare compare nel numero 413 di “Domus”, nel progetto d’interni di un cottage. Si tratta di un lampadario a sospensione a più attacchi con diffusori conici lavorati a ballotton4. Confrontando il catalogo degli anni ottanta di Salviati Lighting si deduce che il modello impiegato in questo caso è quello a ballotton disegnato da Vinicio Vianello5, verosimilmente nel 1964 [fig 49]. Questo modulo, come accadde spesso negli anni, è una riproposizione di una tipica lavorazione muranese, dove lo stampo, dotato di peculiari rilievi imprime una tessitura a piccole losanghe in rilievo. Nella produzione di Salviati il modulo è declinato in diverse forme, più sferiche, coniche oppure semisferiche. Tendenzialmente, salvo nell’impiego ad applique, ogni modulo dispone di una fonte luminosa alogena. Alberto Rosselli, Cuspidi, 1966 Direttore di “Stile Industria”, dalla fondazione nel 1954 al 1963, Alberto Rosselli è stato uno dei più grandi promotori e interpreti del design industriale in Italia. Stile, nella concezione di Rosselli significava una sostanziale qualità estetica che veicolasse una raggiunta qualità tecnica e funzionale, quindi un pragmatismo che riuscisse a coniugare arte e industria. Rosselli, mantenendosi su questa linea ideologicamente neutra, preferì terminare la pubblicazione quando il dibattito tra produzione e bisogni sociali, all’inizio degli anni sessanta, esigeva lo schierarsi con una o l’altra parte. Rosselli, con la sua rivista, poté testimoniare i virgulti del design italiano e porre le basi per un solido confronto in materia di progetto per l’industria. Ciò detto, per capire la relazione che viene ad instaurarsi tra l’architetto progettista e il distretto di Murano, è utile leggere quello che egli stesso scrive a proposito di un nuovo artigianato. Nel numero 425 di “Domus”, Rosselli elabora una riflessione sulla situazione dell’artigianato nel mondo, nelle sue diverse declinazioni, proponendo poi il ruolo che questo dovrebbe assumere nel momento storico in cui all’industria si demanda sempre 4 Red., In un vecchio cottage, una nuova veranda, in “Domus” 413, aprile 1964, p. 44, cfr. precisazione in “Domus” 417, agosto 1964, p. 56. 5  cfr. § 1.1


47 49. Vinicio Vianello (attribuibile), Ballotton, lampadario per il jardin d’hiver del Savoy Excelsior Palace Hotel, Trieste, Salviati, 1964–66.


48 più la qualità e la quantità, con un ruolo sempre minore dell’uomo. Egli propone un artigianato che sappia inserirsi nella dimensione sempre più globalizzante dei prodotti, cercando di soddisfare quei bisogni altri cui i prodotti di massa non possono far fronte. Cercare dunque di utilizzare l’artigianato come strumento socio-economico che opera su scala umana, guardando più all’individuo, promuovendo una formazione culturale e una rinnovata connessione tra gruppi culturali, senza bensì negare il ruolo dell’industrial design ma divenendone parte complementare ed accentuando la dialettica che intercorre tra le due discipline6. Dunque quello che accade con Salviati andrebbe visto in quest’ottica, sebbene questo progetto rappresenti quasi un unicum nella carriera del progettista. Cuspidi è un sistema a moduli piramidali in vetro soffiato a stampo, trasparente o paglierisco, in due dimensioni. Vengono così composte in modo casuale, uti-

lizzate come plafoniere (talora anche singole) o fissate su un telaio metallico talvolta prodotto appositamente per la configurazione, o in altri casi come nell’allestimento per la mostra “Domus formes italiennes” alle gallerie Lafayette nel 19677, con l’utilizzo di telai prefabbricati come quello magistrale di Poul Cadovius, Abstracta, prodotto da Ponteur in quegli anni. Qui Rosselli impiega la struttura come apparato espositivo, come controparete e controssoffitto, per delimitare lo spazio allestito per le proiezioni. Il progettista vuole suggerire con questa applicazione la possibilità di creare ambienti suggestivi anche in spazi domestici mediante l’utilizzo del vetro soffiato artigianale. Una sensazione simile a quella creata per la Banca Antoniana di Padova l’anno precedente, dove Cuspidi, in questo caso è applicato come velario per il soffitto da cui si diffonde la luce [fig 50 e 51].

6  Rosselli A., Previsioni di un nuovo artigianato, in “Domus” 425, aprile 1965, pp. 39–42.

7  cfr. Ponti G., A Parigi “Domus formes italiennes”, in “Domus” 450, cit., pp. 11–38.


49 a pagina precedente: 50. Alberto Rosselli, Cuspidi, lucernario della banca Antoniana, Padova, Salviati, 1966.

qui sotto: 51. Alberto Rosselli, Cuspidi, lucernario della banca Antoniana, particolare, Padova, Salviati, 1966. Dimensioni moduli: L 60 cm W 60 cm, L 30 cm W 30 cm.


50 52. Franco Carpanelli, lampadario a tubi, h 22 m, Ă˜ modulo 8 cm, camera di commercio, Parma, Salviati, 1970.


51 53. Franco Carpanelli, lampadario a tubi, camera di commercio,versione per i corridoi, Parma, Salviati, 1970.

54. Franco Carpanelli, lampadario a tubi, camera di commercio,versione per l’aula, Parma, Salviati, 1970.


52 Franco Carpanelli, Tubi in vetro soffiato, 1970 L’architetto parmigiano nella progettazione della camera di commercio di Parma include un enorme lampadario sospeso in mezzo al vano scale che riprende il perimetro dello stesso in una composizione elicoidale di numerosi tubi corrugati agganciati ad un corpo centrale in acciaio [fig 52]. Il peso totale dell’apparato, che segue l’intera altezza del vano per ventidue metri, è di circa nove tonnellate. Allo stesso modo Carpanelli, impiega i tubi di Salviati per diversi lampadari a parete lungo i corridoi [fig 53] e ancora vi illumina l’intera sala conferenze [fig 54], sia con composizioni ad applique che con una serie di elementi fissati a soffitto che creano un’illuminazione diffusa tra i lacunari in cemento armato. Tubi in vetro, altre applicazioni Lo stesso modulo, come si vede nel catalogo, declinabile in diverse finiture e forme, per la sua semplicità compositiva è stato adottato in numerosi altri progetti. Qui se ne elencano alcuni. Lampadario per il Grand Hotel di Karachi, in Pakistan [fig 55] a sezioni digradanti composte da moduli a sezione quadrata; lampadario per la promenade della galleria al numero 84 di Avenue des Champs-Élysée a Parigi; lampadario per il Banco di Sicilia, a Verona, del 1979, su progetto di Danilo Pavan, con tubi a sezione quadrata in cristallo; lampadario per la sede della società Riccadonna, a Canelli, in vetro colorato rosso, ambra, blu e verde oltre che cristallo, i cui moduli sono a sezione circolare di diverse altezze [fig 56].

in alto: 55. Lampadario per il Grand Hotel, Karachi, Salviati, 1970 circa. qui sopra: 56. Lampadario per Riccadonna, h 205 cm Ø 98 cm, Canelli, Asti, Salviati, 1970 circa.

Betha e Teff Sarasin per Salviati, 1970—1980 Nonostante si conosca ben poco di questi due artisti e designer svizzeri, sono ben meritevoli dell’apporto progettuale che hanno dato all’azienda veneziana nel corso di poco più di un decennio. È possibile dire con buona approssimazione che Betha (n. 1930) e il coniuge Teff (n. 1931) fossero attivi per lo più tra gli anni sessanta e gli anni novanta con diverse mostre di loro sculture sul territorio svizzero (Basilea e Aarau) e francese. Con altrettanta approssimazione non avendo quasi nessuna traccia storica del loro operato a Venezia — di cui è possibile ricostruire solo qualche frammento mediante i lotti delle case d’aste e il succitato catalogo — si può solo dedurre dallo stile abbastanza uniforme delle opere da loro firmate, che lavorarono con Salviati tra i primi anni settanta e gli anni


53 ottanta. In buona parte i loro porgetti sono rivolti al ramo dell’illuminazione, e sono tutti connotati da modularità e flessibilità compositiva, con uno stile abbastanza pulito, regolati da una geometria funzionale, tranne in alcuni rari casi, dove al centro vi è l’espressività del vetro. In ogni caso i Sarasin trattano il vetro in modo da trarne il più possibile una suggestione materica, usando pochissimi colori tenui, tra l’ambra e il verde chiaro. Un primo modello è una variante dei tubi in vetro soffiato che i Sarasin rendono un modulo unico, più corto, soffiato solo nella forma quadrata, prediligendo il vetro trasparente. I casi più 57. Betha e Teff Sarasin, Cupole, versione a parete su telaio, Salviati, 1975 circa. Lo stesso modelli ma con sistema di fissaggio a ganci è stato esposto al XVII Salone di Milano nel 1977.

interessanti di applicazione si sviluppano per lo più orizzontalmente, in cui i Sarasin progettano un più aggiornato sistema di sospensione e telaio per reggere i moduli [fig 58]. Allo stesso tempo, i moduli sono coniugati per lampadari a sospensione più raccolti e anche applique. Un elemento più direttamente collegato a Cuspidi di Rosselli è Cupole. Questo modulo, assai semplice, piatto e quadrato con un rigonfiamento semisferico al centro, si presta nelle varie applicazioni di lampadario, applique o plafoniera e pure come elemento divisorio [fig 57]. Successivamente i Sarasin progettano elementi che sfruttano la componibilità, con moduli rea-


54

in alto: 58. Betha e Teff Sarasin, lamapdario con moduli a sezione quadrata, h 36 cm L 50 cm W 50 cm; lampada da tavolo (in basso a sinistra), h 30 cm L 10,5 cm W 10,5 cm, Salviati, 1975 circa qui sopra: 59. Betha e Teff Sarasin, Ganci, lampadario a sospensione, h 50 cm, L 40 cm, W 40 cm, Salviati, 1975 circa

lizzati quasi esclusivamente mediante colatura a stampo, in stampi di ghisa. Oltre ai precedenti dunque, vi sono i Valva [fig 71], Pettine [fig 72] e Ganci [fig 59 e 69], noti anche come LS. Questi elementi, tutti molto semplici e caratterizzati da forme squadrate, permettono una componibilità in più dimensioni e la possibilità di utilizzare il modulo in versi differenti per comporre forme più o meno compatte o in serie. Nel progetto di questi elementi traspare anche la dovuta attenzione al rapporto con la fonte luminosa. Ad esempio, Valva, come anche Cupole, sono pensate per accogliere una fonte puntuale, come potrebbe essere una lampadina alogena. Al contrario, in Pettine in particolare, il modulo è pensato per una disposizione in serie che possa direzionare la diffondere la luce, come è tipico per la lampade a fluorescenza, riprendendo il ruolo delle lamelle in alluminio delle plafoniere per questo tipo di lampade. Il sistema Ganci rappresenta un elemento unico del repertorio di Salviati. L’estrema razionalità del modulo, coniugata con la possibilità di creare una struttura anche piuttosto complessa ma autoportante, lo rende un elemento architettonico assolutamente contemporaneo. Con la sola variazione di tre moduli, è possibile creare un’intera parete di vetro sospesa, anche curva. Benché pure questo declinabile in lampadari a sospensione o applique, l’applicazione a mio avviso più efficace è quella a parete. La realizzazione di queste piastre avviene colando il veto in uno stampo piano in ghisa, quindi quando la viscosità lo permette, staccato e piegato secondo l’angolazione prevista per le alette più esterne. Questo sistema modulare è stato rieditato nel 2012 per il progetto “Salviati Interiors”, un servizio messo a disposizione dall’azienda per la personalizzazione degli spazi mediante l’utilizzo di questo sistema modulare8. Come quest’ultimo fatto testimonia, la concezione di questi elementi modulari è definitivamente spostata nella dimensione più architettonica dell’arredamento, venendo a dialogare come un diaframma trasparente con l’intorno, altresì creando uno spazio adimensionale all’interno di una preesistenza, domestica o di altra natura, ad esempio espositiva. Un ultimo progetto realizzato da Betha e Teff Sarasin è quello a elementi trilobati, in ve8  Il progetto è stato curato dal collettivo AUT nel merito della loro attività presso Salviati: www.98800.org/wp-content/ uploads/2015/11/AUT_Design_Practice_2015.pdf. Il video dell’allestimento del set fotografico: vimeo.com/50150684


55 tro soffiato. Si tratta di elementi lineari a tubo alti circa 32 centimetri, con tre lati leggermente convessi e gli spigoli arrotondati. Il modulo, anche in questo caso si presta alle più varie configurazioni, con una disposizione radiale oppure lineare, con appositi sistemi di sostegno. Questi rappresentano una versione più leggera degli elementi trilobati presenti nel catalogo che sembrano invece realizzati con vetro massiccio (vedi l’ultimo paragrafo). Appare dunque notevole l’apporto dei Sarasin alla dimensione razionale del progetto per l’illuminazione e l’arredo d’interni, accogliendo in parte la proposta di Rosselli [fig 73]. Lieuwe Op’t Land, Drappo: il tessuto veneziano Architetto e scultore olandese (n. 1923), naturalizzato italiano, Op’t Land ha operato tra gli anni cinquanta e la fine degli anni ottanta, in particolare a Milano intrattenendo rapporti costanti con la sua madrepatria9. Non pare essere documentata la sua attività a Venezia, quindi risulta abbastanza difficile datare precisamente questo progetto. Anche Drappo viene coniugato in diversi modi, a lampadario di dimensioni variabili, ad applique, come parete e in questo caso anche come colonna. Viene quindi valorizzata la connotazione architettonica dell’oggetto. Il modulo è essenzialmente una riproposizione cristallizzata di un’onda di un drappeggio [fig 74]. La forma così realizzata permette di essere composta assieme alle altre mediante una catena sospesa a un’asta, nei cui anelli vengono agganciati i singoli moduli. Il ritorno ad una forma di sapore neoclassico o barocco sembra essere per il progettista una via per riconnettersi alla tradizione veneziana, indirettamente, passando per la cultura del tessile dell’isola. In questa sinestesia che suggerisce i drappi delle cortine degli interni veneziani, vi è un deliberato accento sulla dimensione architettonica dell’apparato. Usando solo due colori, cristallo e ametista, l’insieme rifrange la luce mantenendo una notevole leggerezza e allo stesso tempo acquisisce un’identità subito riconoscibile come veneziana. Maria Castellani Pastoris, sistema CC o Tegole Questo modulo è sostanzialmente un listello 9  Si vedano alcune sculture da lui realizzate e gli interventi architettonici: sede KLM a Milano, con H. H. Volkers, 1958; allestimento stand olandese alla XIV Triennale di Milano, con Bob Noorda, Andries van Onck, 1968. In “Domus” 348, novembre 1958, rassegna, p. XXII; “Domus” 466, settembre 1968, p. 15

corrugato e piegato a C sulla lunghezza. La didascalia recita che la progettista ha tratto ispirazione dai coppi dei tetti veneziani, di cui ne ripropone anche la componibilità, sovrapponendoli l’uno al contrario dell’altro. In questo modo è possibile creare sistemi d’illuminazione abbastanza compatti, che permettono una cospicua rifrazione della luce, grazie alle numerose superfici [fig 75]. La forma abbastanza fluida anche qui offre una vasta possibilità compositiva, dalle applique e i lampadari, alle plafoniere e i canali luminosi. I moduli sono fissati al corpo metallico di distribuzione mediante dei tasselli cilindrici che si agganciano alla tegola in due punti nel mezzo. Gli altri sistemi del catalogo Salviati Ad oggi, i restanti sistemi d’illuminazione presenti nel catalogo redatto negli anni ottanta, sono di difficile datazione e attribuzione, ed è pure probabile che alcuni modelli fossero stati sviluppati dalla squadra di Salviati, senza l’apporto di una precisa personalità o progettista esterno, come spesso è capitato nelle vetrerie muranesi. Qui ne vengono alcuni tra quelli considerati più pertinenti alla nostra narrazione. Simili per forma ai tubi trilobati progettati dai Sarasin, questi elementi differiscono per il fatto di essere in vetro massiccio e non in vetro soffiato come i precedenti [fig 76]. Ne consegue quindi, oltre al peso maggiore, una differente modalità di rifrazione della luce. Di nuovo, l’elemento si trova sia nella composizione per lampadario a sospensione sia in quella per applique, in differenti colorazione più intense, rispetto a quelle proposte negli elementi tubolari soffiati analoghi. Nel complesso, basandoci sull’esperienza della manodopera della vetreria, è possibile concludere che questa versione sia — malgrado l’apparente semplicità — di qualche misura più difficile da realizzare rispetto ad un elemento soffiato e richiede lavorazioni di finitura ulteriori che garantiscono la perfetta linearità del pezzo. Le spirali BS sono dei semplici nastri di cristallo a cui viene applicata una torsione longitudinale che determina l’andamento elicoidale [fig 77]. I nastri sono poi tagliati in una misura standard di circa 30 centimetri e composti a piacimento su sistemi a raggiera in acciaio, per lampadari o applique. La lunghezza relativamente piccola dei moduli è giustificata dalla difficoltà di ottenere un passo costante tra le spire, data la variabilità della viscosità in fase di


56 lavorazione. È comunque intuibile che il processo di torsione non fosse eseguito manualmente ma con l’ausilio di un motore che mantenesse una rotazione costante, come quelli utilizzati per la rotazione in muffola dei pezzi che hanno finito la lavorazione a caldo. L’ultimo oggetto è Gocce Manila. Un caso abbastanza singolare, in quanto è formato da delle aste di vetro colato che terminano con una goccia bullicante, cioè con delle bolle d’aria intrappolate nel vetro. Composte assieme, queste aste creano un effetto molto stravagante e ricco come di una pioggia di vetro cristallizzata all’istante. L’estrema organicità delle composizione si presta ad arredare ambienti lussuosi, come il salone d’onore del Plaza Hotel di Manila, in cui le 8250 gocce sono state numerate e sospese al rispettivo gancio [fig 78 e 79]. LS system per Salviati Interiors ed Elliot Barnes Nel 2012, Salviati ha deciso di dare vita ad un ramo commerciale incentrato sull’interior design. A questo scopo l’azienda ha voluto ri-

60. Elliot Barnes Interiors, Glass forest, elementi a tubo in vetro soffiato ambra e cristallo. Ritz Carlton Hotel, Wolfsburg, Germania, Salviati, 2015.

produrre il sistema ideato dai Sarasin, Ganci, coniugandolo in un primo progetto dimostrativo, come elemento architettonico di divisione degli ambienti [fig 82 e 83]. Il progetto Salviati Interiors attende ora, sotto la nuova direzione amministrativa, una possibile attualizzazione e presentazione al pubblico che potrebbe concretizzarsi nel Salone del Mobile di Milano nella primavera del 2017. Elliot Barnes, importante designer d’interni statunitense, ha voluto affidarsi alla professionalità di Salviati per la realizzazione di un sistema di tubi in vetro che arredano la reception di un prestigioso albergo di Wolfsburg, in Germania. Nell’idea di Barnes gli elementi lineari in vetro soffiato color ambra e cristallo formano una sorta di foresta luminosa, illuminato da faretti a soffitto. In questo caso i moduli utilizzati sono dei tubi di circa 120 centimetri, soffiati in uno stampo di legno con inserzioni di ferro al fine di ottenere forme più precise. Infatti la sezione presenta diversi spigoli vivi alternati ad ampie rotondità [fig 60].


57 61. Lampadario a 12 luci, h 145 cm Ø 120 cm, catalogo Electroliers, Salviati.

62. Lampada da tavolo in metallo e vetro, h 62 cm Ø 40 cm, archivio illuminazione, Salviati, circa 1960.

63. Gianluigi Pieruzzi, Lampada da tavolo in vetro bianco, pianta e sezione, h 62,5 cm Ø 32 cm, archivio illuminazione, Salviati, 1978.

64. Applique a sfere di vetro, h 25,5 cm Ø 18 cm, archivio illuminazione, Salviati, 1975.


58 65. Lampadario a tubi, sezione. Archivio illuminazione, Salviati, 1976. In basso: 67. Lampada da parete, sezione e vista laterale. Archivio illuminazione, Salviati, 1965.

66. Maria Castellani Pastoris, sistema CC, Applique per Scalone, Hotel Villa Paphili, Roma. Archivio Illuminazione, Salviati, 1981.


59 68. Lampadario a tubi a sezione quadrata, prospetto e pianta, archivio illuminazione, Salviati, 1969.


60 69. Betha e Teff Sarasin, Ganci, pianta per la disposizione a cortina e prospetto del sistema di sospensione, archivio illuminazione, Salviati, circa 1975.

70. Plafoniera ad aste triangolari, prospetto, sezione e pianta, archivio illuminazione, Salviati, 1980.


61 71. Betha e Teff Sarasin, Valva, lampadario a raggiera, h 38 cm, Ă˜ 515 cm, Hotel Esplanade, Montegrotto Terme, Padova,Salviati, 1975 circa. Ogni lampadina è racchiusa da 4 moduli a L.

72. Betha e Teff Sarasin, Pettine, versione per cananle luminoso, Banca Popolare di Novara, Trieste, Salviati, 1975 circa.


62 73. Betha e Teff Sarasin, lampadario a elementi a tubo trilobati, h 66 cm Ă˜ 64 cm, Salviati, 1970 circa.


63 74. Lieuwe Op’t Land, Drappo, versione a parete divisoria, Salviati, 1970 circa.


64 75. Maria Castellani Pastoris, Tegola, lampadario a sospensione, h 65 cm Ă˜ 70 cm, Salviati, 1970 circa.

76. elementi trilobati in vetro massiccio, lampadario, h 100 cm Ă˜ 40 cm. Salviati, 1970 circa.

in basso: 77. Spirali BS, applique, h 62 cm L 58 cm D 36 cm, Salviati, 1970 circa.

in basso: 78. Gocce Manila, lampadario per il Jeddah Jewelery Shop, Jeddah, Arabia Saudita, Salviati, 1975 circa.


65 79. Gocce Manila, illuminazione per il Philippine Plaza Hotel, Manila, Filippine, Salviati, 1976. Progetto di Leandro Locsin e John Marsteller.

80. Alberto Rosselli, Cuspidi, plafoniere per la sala congressi del Meridien Jeddah Hotel, Arabia Saufita, Salviati, 1979. Progetto di Samir Khairallah, con Studio DA e Livio e Piero Castiglioni.

81. Lampadario a tubi, Royal Suite del Meridien Jeddah Hotel, Arabia Saufita, Salviati, 1979. Si nota la parete divisioria a Ganci (Betha e Teff Sarasin). Progetto di Samir Khairallah, con Studio DA e Livio e Piero Castiglioni.


66 82. Salviati Interiors, sistema LS, cinque moduli: A: h 16 cm L 11,5 cm; B: h 16 cm L 12 cm; C: h 8 cm L 11,5 cm; D: h 16 cm L 5,75 cm; E: h 10,7 cm L 9 cm. Salviati, 2012.

83.Salviati Interiors, sistema LS, photoshoot presso il CTR, centro teatrale di ricerca, Venezia, Salviati, 2012.


67

3

Moduli e stampi in sintesi Una scansione cronologica

Alla luce dell’analisi, se pur sintetica, dell’episodio della produzione di oggetti per l’illuminazione del distretto di Murano, si rende necessaria un’esposizione ordinata di quelle che sono state le forme e i metodi produttivi. Per una comprensione più diretta si è scelto di usare una schematizzazione grafica, che in nuce riporti le caratteristiche salienti dei progetti più rilevanti e li ordini sia cronologicamente che per affinità produttiva. Facendo iniziare la linea temporale, grossomodo con la fine degli anni cinquanta — quindi con l’esempio di razionalizzazione del lampadario classico muranese da parte di Gio Ponti — si prosegue poi nei decenni, fino agli anni duemila. Il più della produzione, come già si è potuto constatare è avvenuto tra gli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta, ed è infatti in questo periodo che si registrano il maggior numero di variazioni formali e altri fenomeni che sono i prodromi delle innovazioni più sostanziali avvenute grazie all’aggiornamento tecnologico negli anni successivi. In seconda istanza si cerca di individuare quelle caratteristiche fondanti che decretano la valenza merceologica o produttiva — dunque anche formale — degli oggetti fin qui analizzati, ponendo in questo modo le basi per un output di sviluppo successivo, esposto nella conclusione. In questo senso risulta di primario interesse l’analisi, seppur sommaria, di quelle che sono le tecniche produttive operate presso le fornaci, alla luce anche dell’inquadramento complessivo effettuato nei capitoli precedenti, distinguendo quindi tra quelle prettamente tradizionali che operano nell’isola di Murano e quelle che hanno proteso per un sostanziale aggiornamento tecnologico e una diversa strategia produttiva. Essenzialmente l’analisi espone il diverso utilizzo delle forme di normalizzazione, distinguendo le tipologie di stampi utilizzati, in base al loro materiale e tecnologia, e pure quelle tecniche prettamente artigianali che possono tuttavia essere adoperate, con alcuni compromessi, nella realizzazione di oggetti modulari. Risulta infine molto importante anche la ricerca condotta proprio su questo tema, di come il progetto possa intervenire sulla tecnologia secolare degli stampi comunemente usati.


a Murano Venini Vianello Vistosi Salviati Altre fornaci

Lace

La disposizione degli oggetti non rappresenta la precisa datazione sulla linea del tempo, bensĂŹ un riferimento indicativo

La razionalizzazione operata da Ponti nel 1948 apre i rapporti con il design industriale. Il fenomeno Vianello ne consolida i paradigmi, che giĂ dalla metĂ degli anni cinquanta iniziano a manifestarsi nelle opere delle altre fornaci muranesi, quando si compiono le prime forniture per grandi clienti.

99.80

Listelli

Nelson

Poliedri

1950

1960


La metà degli anni sessanta rappresenta il cuore dellla produzione degli oggetti per l’illuminaizone di architettura. Numerose innovazioni si accavallano negli anni, tanto che è difficile attribuire la paternità ad una specifica vetreria.

Tubi

Cuspidi

Ballotton Giogali

Gala

Trilobi e aste

1965


Tubi a trilobi

Con gli anni settanta il rinnovamento delle forme continua. I moduli vengono applicati sempre piĂš spesso in soluzioni architettoniche. Allo stesso tempo vi sono delle riproposizioni delle forme barocche, fatto che si protrae in episodi sporadici negli anni successivi.

Cupole

Spirali

Drappo

Esprit

1970


Tra gli anni settanta e gli anni ottanta le vetrerie sviluppano una serie di nuovi sistemi modulari autoportanti. Salviati in particolare produce Drappo e Ganci (o LS), il primo piĂš plastico si riconduce direttamente al ruolo delle tende, mentre il secondo piĂš razionale sfrutta la sua geometria per comporre pareti di solo vetro trasparente.

Asta (Diadema)

Ganci

Rhythm

Valva

Veliero Tazebao

1980

2000


72 3.1 Stampi e metodi di produzione In questa sezione si cerca di riassumere quelle che sono le tecniche utilizzate nelle fornaci, individuando quei metodi produttivi e lavorazioni che meglio rispettano l’identità del vetro. È chiaro che questo può avvenire in diversi modi, più o meno efficaci e coerenti con il progetto. Si vorrebbe cioè riassumere in breve quelle che sono le possibilità tecniche ed espressive fin qui esplorate nella manifattura muranese che il progettista, sia esso un designer o un artigiano, ha a disposizione per poter operare razionalmente facendo confluire nel progetto tutte quelle esigenze che il vetro di Murano necessità ed evoca. In sintesi, riprendendo quello che è stato accennato sopra1, si potrebbe partire da tutti quei moduli che compongono un lampadario in stile Rezzonico, che nonostante la sua complessità di elementi e forme, dispone ad un certa standardizzazione degli elementi. Qui è senz’altro fondamentale perseguire una correttezza dimensionale degli elementi perché questi vengono poi assemblati su montature metalliche e viste le grandi dimensioni e il sistema a sospensione, una certa simmetria, sia formale che di peso, deve essere garantita. Siano essi elementi soffiati o semplicemente lavorati a caldo dal vetro fuso, qualora non sia previsto l’utilizzo di uno stampo, sta all’occhio del maestro saper dimensionare in tutti i particolari questi pezzi. Inoltre in fase di lavorazione è ricorrente, se non essenziale, l’uso di particolari strumenti in legno che servono a sbozzare la prima forma del vetro raccolto dal crogiolo: sono i magiossi, piccoli prestampi in legno di pero che vengono usati dal maestro per lo più prima della fase di soffiatura. L’utilizzo degli stampi diviene invece fondamentale quando si iniziano a produrre gli elementi lineari visti sopra, dagli anni cinquanta in poi. È bene precisare che questo tipo di strumenti viene utilizzato da sempre nella manifattura muranese, sebbene fungano in genere per la creazione di un prodotto semifinito, assieme ad altri prodotti in vetro2 che poi concorrono alla creazione di oggetti complessi. Invece nel settore dell’illuminazione, l’utilizzo degli stampi 1  cfr § 2.1, p. 22. 2  È il caso ad esempio delle murrine o delle canne, utilizzate per decorare il vetro in diversi modi. Cfr. glossario, p. 94. In particolare, questo tipo di oggetti semilavorati vengono prodotti

è forse la parte principale della lavorazione ed è per questo che si pone molta cura nella realizzazione degli stessi. L’impiego del legno per gli stampi potrebbe sembrare, ad uno sguardo superficiale, un azzardo, se non un contro senso. È infatti naturale pensare che la temperatura del vetro soffiato dentro lo stampo, circa 800°C, inevitabilmente consumi il legno su cui aderisce. Ciò è senz’altro vero ma la variazione dimensionale è assai trascurabile nei primi utilizzi e l’umidità del legno previene una completa bruciatura dello stampo. Va poi considerata anche la reperibilità di materiali e soprattutto le figure professionali del distretto muranese: i falegnami di Murano lavorano infatti in stretta collaborazione con le vetrerie dell’isola fin dai primordi della manifattura. A questo punto è chiaro che il rapporto tra legno e vetro risale in realtà all’origine dell’attività vetraria e le ragioni sono prevalentemente di ordine pratico: il rapporto tra la qualità ed il costo del materiale, nonché la sua facile lavorazione che non necessità di tecnologie pesanti, e l’idoneità fisica nel venire a contatto con un materiale ad alta temperatura, e quindi la compatibilità dei coefficienti di dilatazione termica. Non in secondo luogo le figure dei fabbri, anch’essi di remota tradizione, che hanno fornito la maestranza delle fornaci dei fondamentali strumenti di manipolazione, quali borselle, tagianti, canne e pontelli. Oltre a questi fondamentali strumenti, si registra l’impiego del metallo come materiale da stampo sin in tempi antichi. In modo particolare ricorreva l’utilizzo di un filo di ferro, solitamente ad alto tenore di carbonio, a formare una gabbia dentro cui soffiare il vetro. In questo modo era possibile realizzare contenitori muniti di un supporto, o spesso per realizzare delle lanterne. Non si registra invece, fino a tempi recenti l’impiego del ferro o della ghisa modellata per degli stampi solidi. Ciò è in parte dovuto al fatto che solo negli ultimi due secoli si è arrivati alla tecnologia necessaria per plasmare il metallo in forme relativamente complesse, e in parte al rischio non sempre prevedibile, del comportamento del vetro in relazione ad un materiale con comportamenti fisici assai diversi. Negli ultimi anni è comunque ricorrente l’impiego di stampi in ghisa, utilizzati soprattutto per ottenere forme precise e regolari e una serialità più controllata. solo da poche aziende, una in particolare Effetre. Cfr.: Pison L., Rocchetto S. O., con Bassi A., Distretto, vetro e progetto, tesi di laurea magistrale, Università IUAV, Venezia, 2013, p. 59.


73 84. Magiossi e stampi immersi in una vasca d’acqua. Salviati, Murano.

85. Stampo in legno di pero a due sezioni per vaso (Millebolle, di Luca Nichetto, Salviati, 1999) a due sezioni incernierate.


74 Assieme a questi, realizzati su misura dai fabbri dell’isola, vi è la possibilità di impiegare stampi in lamiera, più economici. In seguito vedremo poi quelle che sono le innovazioni più recenti in termini di relazione con lo stampo, dove compaiono nuovi possibili materiali, che si rapportano alla standardizzazione in altro modo, o altri che negano completamente il raggiungimento della serialità, causa la distruzione dello stampo. Non ultime le tecniche produttive, che pur non prevedendo l’uso dello stampo, permettono una completa standardizzazione della produzione, benché assolutamente estranee alla natura del distretto. Il legno, affidabilità e innovazione Gli stampi in legno, in linea generale si possono dividere in diverse categorie a seconda del meccanismo di manovra con cui sono costruiti e della forma del pezzo che devono accogliere. Infatti qualora si tratti di oggetti a sezione circolare, virtualmente dei solidi di rotazione, gli stampi vengono quasi sempre realizzati da un blocco di legno di pero unico tornito dall’interno, tagliato in due metà che poi vengono unite con delle cerniere e munite di manici, anch’essi in legno. Va precisato che questo tipo di stampi viene utilizzato secondo un’assodata procedura che prevede che lo stampo sia collocato fermamente sotto l’addetto al soffiaggio, che solitamente opera ad un’altezza diversa rispetto allo stampo, per poter adoperare la canna (lunga circa 140 centimetri); altri aiutanti mantengono in posizione lo stampo3 e al contempo lavorano alla porzione di vetro in prossimità della canna, per sagomarla e spingere il vetro nel soffio. Un tipo di stampi simile è quello monoblocco, cioè composto da un pezzo di legno circolare, tornito, non apribile, solitamente impiegato per oggetti ampi che non richiedono una forma esatta su tutta l’altezza. Analogamente si possono utilizzare stampi composti da tavole piane in legno, che permettono di ottenere oggetti soffiati con spigoli definiti. In questo caso le assi di legno vengono assemblate assieme e possono essere incernierate. Per oggetti più grandi, di forme complesse, si possono comporre stampi in legno a diverse sezioni collegate. È il caso, ad esempio, di

86. Stampo in legno a tre sezioni incernierate (Angelo Mangiarotti, Lesbo, Artemide, 1967) presso la vetreria Vistosi, Venezia.

3  In alcune vetrerie, come Vistosi, si dispone di un meccanismo interrato che, con un sistema idraulico, mantiene in posizione lo stampo.

4  Cfr. § 1.2, p. 26. 5  Pison L., Rocchetto S. O., con Bassi A., Distretto, vetro e progetto, Università IUAV, Venezia, 2013, cit.

Lesbo, progettata da Mangiarotti per Artemide4, dove lo stampo in legno è composto di tre sezioni, due laterali ed una superiore, collegate in serie da delle cerniere in ferro [fig 76]. Questo stampo permette una migliore precisione in fase di soffiaggio, sebbene lo stesso risultato sia ottenibile con uno stampo mobile a due sezioni ed uno fisso, per la parte superiore. Un esempio di applicazione innovativa di quest’antica tecnologia è quella operata da Silvia Orsetta Rocchetto e Laura Pison per la loro tesi di laurea magistrale presso lo IUAV5. La tesi, che parte da un’analisi approfondita della natura distrettuale di Murano, per poi focalizzarsi sulla tracciabilità del prodotto mediante nuove tecnologie, ha portato anche ad un interessante output in termini di progettualità degli stampi


75 tradizionali in legno con dei risvolti nel rapporto tra design e artigianato. Il progetto consta di una serie di sei stampi e due componenti addizionali. Combinando tra loro questi stampi, monoblocco per la base e apribili per le altre sezioni, si possono creare fino a centosessantadue configurazioni differenti. I due pezzi aggiuntivi, a forma di cono e doppio cono servono a creare un sistema maschio-femmina per l’incastro delle sezioni in vetro realizzate [fig 87, 88 e 89]. Gli stampi in metallo Per quel che riguarda il metallo, si fa solitamente riferimento a stampi in ghisa, realizzati a misura dal fabbro di fiducia. Possono essere realizzati da prodotti semifiniti lavorati a caldo e saldati tra loro per creare forme libere, a gabbia, o altrimenti ottenuti da piastre dentro cui poi il vetro viene colato e tirato, senza ricorrere al soffiaggio [fig 90]. Per alcune particolari lavorazioni è anche possibile fare ricorso a superfici metalliche zigrinate che caratterizzandola superficie del vetro, come ad esempio per Veliero, di Venini (2012)6. In linea generale la lavorazione del vetro a contatto con il metallo può comportare dei rischi qualora il metallo, per forza della sua elevata conducibilità termica, raffreddi troppo velocemente il vetro, rompendolo o screpolandolo. Per lo stesso motivo, le canne utilizzate per soffiare, vengono precedentemente riscaldate in prossimità delle bocche dei forni. Un particolare tipo di stampo, in uso sin da tempi remoti, è quello a Ballotton, che produce l’omonimo effetto sul vetro. Si tratta di uno stampo che presenta sulla superficie delle punte che imprimono al vetro una texture a rete, simile a quella di una pigna d’albero. Con la stessa tecnica è pure ottenibile un’altra lavorazione, che si chiama bullicante, mediante la sovrapposizione di uno strato di vetro in cui vengono intrappolate delle bolle d’aria nelle depressioni precedentemente formate. Accanto a questo, gli stampi metallici a gabbia sono tra i più utilizzati. Questi stampi, solitamente aperti (cioè non a sezioni richiudibili, a differenza di quelli in legno) permettono di imprimere una forma, contenendo l’espansione del vetro in determinate regioni, lasciando viceversa che il vetro si espanda liberamente laddove non è presente il metallo. Questa lavorazione permette di otte6  Si veda a questo proposito il seguente documento video: www.youtube.com/watch?v=FvLABcM3In0

87. Silvia Orsetta Rocchetto e Laura Pison, Stampi in legno componibili a sezioni mobili e monoblocco, Venezia, 2013 88. Silvia Orsetta Rocchetto e Laura Pison, 1–4, 1–3, 1–6, 1–5, 1–2. Realizzazione: Fabiano Amadi Murano, Venezia, 2013 89. Silvia Orsetta Rocchetto e Laura Pison, 1–3 e 1–5, 1–4 e 1–5, 1–2 e 1–5. Realizzazione: Fabiano Amadi Murano, Venezia, 2013


76 nere una caratterizzazione della forma e della superficie abbastanza marcata, precisa anche in dimensioni esigue, cosa assai più difficile da ottenere con stampi in legno. Un particolare utilizzo della gabbia di ferro è quello che prevede che la stessa rimanga intrappolata nel vetro solidificato, fornendo così un supporto al manufatto, funzionale sia in termini di resistenza e portabilità che di controllo della forma7. Un caso particolare di stampo, è quello adoperato per il progetto di Elliot Barnes, realizzato da Salviati nel 2015. Si tratta in questo caso di uno stampo in legno, con delle inserzioni in metallo. Ciò è giustificato dall’esigenza di dover ottenere forme con degli spigoli vivi in alcuni punti e forme sinuose in altri. È indubbio quindi che, a parte in rari casi, l’utilizzo del metallo negli stampi sopperisce alla mancanza di mantenere una forma precisa del legno. Ciò è anche indotto dalle tecniche solitamente utilizzate per la produzione dei due tipi di stampi, in quanto il legno, materiale piuttosto tenero, si presta alla realizzazione di forme rotazionali, mentre il metallo è più facilmente lavorabile per 7  Si vedano: di Gae Aulenti, Patroclo, Artemide, 1975 e di Isola e Mankad, Rhythm, Venini, 2011. Cfr. § 1.2, p. 24, 26. 90. Colatura in stampo di ghisa di un modulo, LS system. Salviati, 2012.

addizione di pezzi semifiniti e quindi geometricamente limitati. Altri metodi di standardizzazione Per principio, a questo punto della trattazione, va ricordato che la standardizzazione nelle fornaci è una cosa operata costantemente nella maggior parte dei casi. La misura con cui viene applicata è quella del rispetto del disegno originale di un determinato pezzo, tuttavia senza costringere in criteri impropri degli oggetti che per natura della produzione e del materiale sono sempre diversi. Il disegno originale, sia esso di un vaso o di un componente per l’illuminazione, tiene conto, già nel progetto, di questo margine d’imperfezione. I progettisti, conoscitori della materia, dunque operano in quest’ottica, di volta in volta lasciando più o meno spazio a questa unicità, che è fondamentalmente il vanto dell’artigianato vetrario. In questo senso, in particolare nel progetto d’illuminazione, per cui si hanno esigenze tecniche spesso più stringenti, si introduce ad un concetto di standard industriale. Vige cioè un regime di normalità che viene corredato da una tolleranza. Spetta alla manodopera della vetreria rispettarla e al direttore della produzione saper indicare la strada migliore per


77 perseguire un’ottimale normalizzazione. Perciò, a mio avviso, non è nemmeno eludibile una standardizzazione senza l’ausilio degli stampi, come abbiamo visto all’inizio con gli oggetti d’ispirazione barocca e neoclassica o in generali quelli di forma più complessa. A maggior ragione diviene invece importante considerare questa tipologia di lavorazione se si progetta nell’ottica della valorizzazione della natura produttiva di Murano. Rimane però da capire in che termini è possibile regolare i processi, con una buona ottimizzazione di tempi e costi. È infatti indubbio che una tale lavorazione, priva di strumenti che regolino la forma di un oggetto, comporti un tasso assai più elevato di variazioni, in molti casi non conciliabili con la commercializzazione o per ragioni tecniche non adatti a comporre un sistema per l’illuminazione. In questo senso, la normalizzazione della lavorazione libera, può avvenire a scapito di forme complesse e che seguono un iter di lavorazione a caldo a fasi ripetute. Semplificando a forme semplici, soffiate o “tirate” che non richiedono altre lavorazioni, è possibile controllare agevolmente la standardizzazione della forma. È il caso, ad esempio, dei listelli in vetro (come i Nastri di Venini) adoperati a partire dagli anni cinquanta, che sono frutto di poche operazioni meccaniche controllate. È altresì importante considerare il lavoro di finitura che avviene dopo che il vetro è uscito dai forni a muffola, cioè le fasi di taglio, molatura, eventuale sabbiatura e pulizia. Diversamente, come si è visto per alcuni prodotti realizzati da Vistosi, è possibile adottare tecniche industriali, come la trafilatura, che permettono un perfetto controllo della forma in serie relativamente elevate. Ciò avviene però a scapito di un arricchimento formale. Infatti uno di questi prodotti, ottenuti mediante un processo di trafilatura, Diadema, è composto essenzialmente da bacchette cilindriche di vetro trasparente, del tutto assimilabili a prodotti semifiniti già in commercio (come quelle prodotte da Effetre). Ne consegue una totale libertà compositiva dei moduli — questi non possono poi assolvere alla funzione individualmente, al contrario di altri casi — che caratterizza il prodotto quando vengono accostati in grande numero. Ciò assicura un’enorme flessibilità del prodotto, dall’altra parte rinuncia alla potenzialità espressiva del vetro muranese. Allo stesso modo ma con una maggiore accortezza, la semplificazione formale è stata utile per la realizzazione di moduli degli anni sessan-

ta composti da una bacchetta di vetro, modellata a caldo e piegata su se stessa a formare dei ganci. È il caso questo di Giogali e di Gala8, due tipologie di modulo che bensì molto semplici, permettono moltissime opzione compositive, e tanto più i moduli sono numerosi tanto maestoso è l’effetto scenografico finale. La sperimentazione sugli stampi Come già si è visto per gli stampi in legno progettati da Orsetta Rochetto e Laura Pison per la loro tesi di laurea magistrale, le possibilità d’intervento progettuale in questo ambito sono molto ampie, e ancora inesplorate. Sebbene è plausibile che tale ricerca si spenga nella fase di prototipazione, è importante ad ogni modo sottolinearne l’impatto, sia nel contesto muranese, sia nel sistema di relazioni tra design e artigianato. Breaking the Mould è un progetto condotto dal collettivo AUT, Tommaso Cavallin, Chiara Onida, Anna Perugini, Dario Stellon, Matteo Stocco e Marco Zito, in collaborazione con diverse entità, prima fra tutte Salviati. Alla base del progetto si pone un iter di due momenti, cioè una prima ricerca metodica sulla tradizione vetraria muranese e la tecnica qui presente, cui seguono una serie di prove su base empirica dei materiali, e in un secondo tempo la selezione dei risultati ottenuti, finalizzando la ricerca esponendo gli oggetti presso eventi scelti, coerentemente con la natura del progetto9. Lo stesso fin’ora si sviluppa in tre fasi, a partire dal 2011: la prima, The Mould, indaga la lavorazione tradizionale del soffiaggio a stampo in una serie di esperimenti basati su un nuovo approccio alla forma e al comportamento dello stampo [fig 92]; la seconda, Pattern, in collaborazione con Rebecca Hoyes, vede un’implementazione dei risultati ottenuti con la prima fase in una ricerca sulla texture imprimibile al vetro mediante l’utilizzo di tessuti silicei [fig 93]; la terza, Venice>>Future, invece propone l’incontro di tecniche tradizionali con la stampa tridimensionale, utilizzando la ceramica stampata come vincolo in fase di soffiaggio dei pezzi in vetro [fig 94]. Nel complesso il progetto, in itinere, si propone come pura ricerca aperta, utile al comprensorio muranese, portato avanti in stretta sinergia tra 8  Cfr. § 1.2, p. 26, 29. 9  Tra questi: a Berlino, Direktorenhaus Gallery (2012); Venezia, Laboratorio 2729 (2102) e Galleria Venice Art Factory (2014); Londra, The Aram Gallery (2013) e London Design Festival (2015); Milano, Fuorisalone Ventura Lambrate (2015).


78 competenze progettuali, scientifiche e tecniche. Nell’approccio allo stampo, la parte fondamentale è sicuramente il rapporto tra i diversi materiali nonché il loro comportamento in fase di lavorazione. La loro natura sembra qui essere di primaria importanza anche nella definizione della forma. È stata operata una scelta di materiali altamente performanti, quali tessuti ceramici (SiO2 e Al2O3, in struttura cristallina di quarzo o tridimite e α-allumina) in forma di nastri, corde o pezze, filo a base di fibra di carbonio, lana ceramica (SiO2, in conformazione cristallina di quarzo e cristobalite), un prototipo polimerico con temperatura di transizione vetrosa attorno ai 1000°C, ceramica refrattaria stampata. Le operazioni sono state coadiuvate da una precedente analisi tecnica e selezione dei materiali, tenute conto delle temperature a cui il vetro viene lavorato e dei differenti coefficienti di espansione termica lineare. In modo particolare durante la prima fase del progetto sono state poste le seguenti esigenze: Bottom-Up Engineering Process: microfusione progettata delle terminazioni delle microfibre ricercando compatibilità strutturale tra il vetro e le nuove superfici; differenza tra coefficienti di espansione termica lineare:

Nelle pagine che seguono si propone una schematizzazione di sintesi di quelle che sono le lavorazioni più ricorrenti utilizzate per gli oggetti fin qui visti. L’intenzione non è tanto quella di fornire una visione dettagliata degli strumenti e delle tecniche bensì di raggruppare sotto certi aspetti i moduli e gli oggetti, ad esempio in base alla similarità degli stampi, ai diversi processi, senza tuttavia elencare le eventuali tecniche del repertorio muranese, per le quali si rimanda al glossario. In questo modo si cerca di sottolineare gli aspetti progettuali di ciascuna categoria di oggetti, in modo da fornire delle linee guida per un ulteriore sviluppo in particolare del ramo dell’illuminazione, presso le fornaci dell’isola. La toolbox che ne risulta vorrebbe comporre, assieme alla ricerca che la precede, uno scenario d’insieme che possa coadiuvare una potenziale fase di metaprogetto.

Δα = α2 − α1 = (x − 7.5) × 10−6 m/m K con un valore di α per cui vale: −1.0 < Δα < 1.5

91. Breaking the Mould, The Mould, Experiment 11a, h 23 cm L 22 cm D 17 cm, fase di soffiatura nello stampo in tessuto ceramico e lamiera, Salviati, 2012.

ottenendo una texturizzazione in funzione dei ritiri; materiali e diametri di fibre non dannosi per la salute; processi non esplosivi: utilizzabili per una produzione industriale immediata insieme a stampi di uso multiplo10. La sperimentazione qui porta alla produzione di oggetti unici e di prototipi. Questo in ragione della loro natura sperimentale, per cui non sempre si giunge a risultati ottimali, e in secondo luogo perché solo in pochi casi è possibile replicare l’oggetto. Uno dei motivi di quest’ultimo aspetto deriva dal fatto che i materiali utilizzati nella fase di stampaggio deperiscono o si modificano sostanzialmente nell’assetto, per cui diviene difficile poter riadoperare uno stesso stampo per più oggetti. Ad ogni modo questo progetto, molto lungimirante ma assolutamente attuabile, si propone appunto come avvisaglia dell’enorme potenziale che offre la manifattura di Murano oggi nell’evoluzione di un nuovo artigianato, anche in termini di una produzione su una serie più elevata. 10  www.breaking-the-mould.com/btm-01/it/btm-1-themould.php


79 92. Breaking the Mould, The Mould, Experiment 2a, h 32 cm Ă˜ 35 cm, Salviati, 2012.

in basso: 93. Breaking the Mould, The Pattern, Experiment 3, Salviati, 2014. 94. Breaking the Mould, Venice>>Future, coppia di vasi, Salviati e Reggiani Ceramica, 2015.


Stampo in legno

99.80* (Venini) Nelson (Vianello) Drake e varianti (Vianello) Tubi VsuV (Vistosi) Lesbo (Vistosi per Artemide) Veronese (Barovier&Toso) Tesa (Barovier&Toso) Sospesa (Barovier&Toso) Glass Forest* (Salviati)

Gabbia metallica

Rhythm (Venini) Patroclo (Vistosi per Artemide)

Stampo in ghisa

Aste* Tubi Ballotton Poliedri (Venini) Gocce Manila* (Salviati) Glass Forest* (Salviati)

Stampo aperto e piastre

Listelli* Lace* (Seguso Vetri d’Arte) Cuspidi (Salviati) Cupole* (Salviati) Gala* (Fratello Toso) Esprit* (Venini)


Formella per colatura su bronzino

Giglia (Seguso Vetri d’Arte) Dischi - X Triennale (Seguso Vetri d’Arte) Cupole* (Salviati) Valva (Salviati) Pettine (Salviati) Ganci LS (Salviati) Drappo (Salviati) Tegole (Salviati) Tazebao (Venini) Veliero (Venini)

Stampo in tessuti ceramici e inserzioni in ceramica

Ancora da esplorare nel ramo dell’illuminazione

A “mano volante” e altre lavorazioni

99.80 (Venini) Gala (Fratelli Toso) Giogali (Vistosi) Drappo (Salviati) Gocce Manila (Salviati) Spirali BS* (Salviati) Esprit (Venini) Nodo (Vistosi)

Lavorazioni semi industriali

Listelli Lace (Seguso Vetri d’Arte) Aste Diadema (Vistosi) Spirali BS* (Salviati)

*lavorazioni parziali


82 Qualche considerazione sulle lavorazioni Alla luce del sintetico schema esposto nelle pagine precedenti, ci si accorge di alcuni aspetti fondamentali di queste tecniche. In primo luogo, escludendo i processi preliminari alla lavorazione principale, molti oggetti sono sottoposti a processi differenti (quelli marcati con *), talvolta usando stampi differenti o concludendo il processo a mano libera. Si può notare poi come il processo dello stampaggio in legno sia comunque il processo più affidabile per la realizzazione di oggetti cavi con forme rotazionali più sinuose, mentre gli stampi in ghisa sono utili laddove sia necessaria una forma dagli spigoli vivi oppure si richieda una testurizzazione, ottenibile anche con gli stampi aperti. Inoltre è rilevante il fatto che, visto il costo di fabbricazione di uno stampo in ghisa o alluminio, vi sia una considerazione preliminare della serie producibile in quella forma; infatti se il piano di produzione prevede una serie di diverse migliaia di pezzi allora è valutabile l’investimento per uno stampo in metallo, dato anche il fatto che su serie elevate gli stampi in legno si sostituirebbero molto frequentemente11. Per gli oggetti piani invece è fondamentale l’utilizzo di formelle in metallo, su cui il vetro viene colato e successivamente tirato. Questo processo, oltre a garantire un buono standard formale, risulta essere anche piuttosto veloce. Per quel che riguarda i processi operati prevalentemente a mano libera dal maestro, appare immediatamente che questo tipo di lavorazione risponde ad esigenze di una maggiore complessità formale. Ciò nonostante, anche all’interno di questa categoria si riscontrano oggetti tutto sommato facilmente standardizzabili, in ragione del loro meccanismo. Tra questi appunti Gala e Giogali che vengono realizzati senza alcuno stampo (il primo viene solo testurizzato in superficie) ed elaborati a mano, a caldo. Le categorie meno adoperate appaiono dunque quelle delle lavorazioni semi industriali e quelle che prevedono l’impiego di una gabbia metallica. La prima, come abbiamo visto, benché implementata ordinariamente da alcune vetrerie con sede esterna a Murano, tende a snaturare l’identità del prodotto in vetro tradizionale, come già detto sopra. Ciò nonostante ve n’è una, che consiste nel tiraggio del vetro fuso mediante un argano meccanico, che per11  Da una conversazione con il direttore di produzione di Salviati, Dario Stellon.

mette la produzione dei listelli e di tutti gli elementi lineari a canna o nastro. Questa, benché richieda macchinari sepcifici è di uso comune già a aprtire dagli anni cinquanta. La seconda categoria, risulta essere piuttosto marginale, nonostante l’antica tradizione di questa lavorazione per oggetti d’uso, quali lanterne e bottiglie. A mio avviso quest’ultima, laddove impiegata nel rispetto e nella valorizzazione del vetro, potrebbe rappresentare un interessante sviluppo della luminaria muranese, senza per forza rifarsi ai tipi per cui veniva impiegata in passato. Infatti la possibilità di includere un supporto per il diffusore, già in fase di lavorazione del vetro, comporta una grande vantaggio, oltre ad offrire lo spunto per una progettazione sistematica dell’apparecchio e del modo in cui esso si relazione con l’ambiente circostante. In ultima istanza, ad oggi, resta del tutto inesplorata la possibilità di impiegare metodi sperimentali per la produzione di oggetti per l’illuminazione. Questo, come già detto, in ragione del fatto che quelli fin’ora visti non hanno prodotto risultati direttamente attuabili per una produzione in serie. Rimane comunque un punto di partenza per una successiva esplorazione delle tecnologie oggi a disposizione, che possono essere coniugate con la lavorazione del vetro artigianale. Ancor di più se si pensa al settore dell’illuminazione, dove le componenti elettroniche potrebbero venire assorbite nella struttura complessiva in vetro, mediante l’utilizzo di circuiti stampati, tecnologie led e oled oppure sfruttando le capacità di rifrazione del vetro. Molte di queste tecnologie sono già state impiegate nel design industriale ma la questione di poterle conciliare con la cultura artigianale di Murano resta una questione da risolvere. Primariamente proprio per non inficiare la natura della tradizione e mantenerne la riconoscibilità sul mercato; poi, la lavorazione artigianale e le caratteristiche del vetro sodico-calcico utilizzato, concorrono ad alcune problematiche di carattere tecnico. Nondimeno, è compito dei progettisti proseguire l’innovazione in questo campo, sapendo operare una sintesi dei linguaggi ed attualizzando il prodotto alle nuove esigenze e tecnologie. A conclusione della presente trattazione si cerca quindi di indicare, in modo più speculativo che direttamente empirico, quali potrebbero essere i punti di partenza per una futura sperimentazione e indagine in questo campo.


83 95. Stampo aperto in ghisa per lavorazione a Balllotton. Salviati, Murano. in basso: 97. stampo ad assi di legno di pero. Salviati, Murano.

96. Stampo a gabbia. Salviati, Venezia-


84 98. Lavorazione “a mano volante”, marmorizzazione per pareggiare gli spessori del vetro sul bronzino. Salviati, Murano.

99. Lavorazione “a mano volante”, aggiunta delle fasce colorate alla pèa iniziale. Salviati, Murano.

100. Lavorazione “a mano volante”, manipolazione del vetro soffiato mediante un pacco di giornali bagnati tenuti in mano dal maestro. Salviati, Murano.

101. Un pacco di giornali bruciati usati per la lavorazione a caldo. Salviati, Murano.


85

4

Conclusione Per un futuro dell’illuminazione a Murano

Nel panorama complessivo qui delineato si è tenuto conto in primo luogo delle realtà produttive presenti a Murano e di come queste sono venute a interfacciarsi negli anni con il sempre più incalzante linguaggio del design industriale. Si è cercato di mettere in ordine quelle che sono state le esperienze fondamentali delle varie fornaci in termini storici, cercando di fornire poi delle allusioni rispetto alle evoluzioni successive. Nel settore dell’illuminazione, ricordiamo, Murano deve fare i conti con il macigno della tradizione secolare, e per questa molto spesso sembra più facile per le fornaci ricusare una possibile evoluzione contemporanea del linguaggio. A questo proposito, si è dato spazio al pensiero critico vigente negli anni in cui questo incontro andava delineandosi sempre di più, sebbene in modo circoscritto alla questione del vetro di Murano. Astone Gasparetto, per primo, alla fine degli anni cinquanta già aveva portato il problema alla luce mediante la sezione sulle arti decorative presso le biennali internazionali di Venezia, cogliendo le avvisaglie di Gio Ponti, già impegnato nei settori della ceramica a stabilire un dialogo proficuo tra artigianato e progetto. La questione si svolge, ancora una volta, in prevalenza nell’oscillazione dei valori che i due linguaggi portano con loro, ovvero tra un’estetica di consumo e bisogni altri, meno direttamente materiali. Ammesso che oggi la questione sia almeno in parte superata, è possibile quindi vedere con uno sguardo più comprensivo il decorso della crisi linguistica del settore del vetro di Murano, e capire talora l’ambiguità di alcuni dei suoi risultati. Sugli oggetti fin qui illustrati, è possibile trarre alcune conclusioni in merito alla valenza del progetto che li sottende. Nella maggior parte dei casi infatti i sistemi d’illuminazione sono una soluzione adottata dai progettisti per rispondere alle esigenze di un determinato ambiente, in termini estetici e funzionali. All’inizio in particolare, con le forniture per sedi e showroom di aziende italiane, alberghi prestigiosi e ambienti istituzionali, nonché esposizioni. La predilezione di utilizzare questi sistemi in vetro di Murano favoriva senza dubbio la comunicazione di determinati valori, di qualità, identità e provenienza. Non è


86 poi un caso che molto spesso, questi sistemi di oggetti per l’illuminazione non fossero subito inseriti nel catalogo dell’azienda. È verosimile anzi che alcuni di questi prodotti, disegnati e impiegati in un primo momento per una determinata situazione, siano stati rieditati qualche anno più tardi, senza una specifica attribuzione. Benché con la presente trattazione non vi sia un preciso interesse nel definire la paternità dei prodotti, il fatto è quantomeno significativo dello spirito delle fornaci di quel tempo. Curioso a questo proposito anche come alcune di esse, benché produttrici di notevoli esempi di sistemi modulari tra gli anni cinquanta e sessanta, oggi non producano più alcuno di questi sistemi ma siano al contrario devoti al mantenimento della linea di lampadari tradizionali a bracci (ad esempio Barovier&Toso e Seguso). Nell’ottica del progetto, questi sistemi modulari nascono sostanzialmente come corredo di un problema architettonico e per lo stesso motivo pongono al centro innanzitutto la questione illuminotecnica e di relazione con l’ambiente. In un secondo momento come si è visto, le logiche di mercato acquisite e un sistema complessivo aziendale più vicino a quello industriale hanno reso questi prodotti più inclini ad una serializzazione, tipica dell’industrial design, e tutt’ora vigente, sotto certi aspetti nelle vetrerie muranesi. Se però, alla luce delle dovute premesse, si volesse ora proporre una valevole prospettiva per l’evoluzione dell’illuminazione a Murano (sottolineando il toponimo in quanto realtà geografica produttiva e non etichetta millantata di Made in Italy) si potrebbe partire proprio dall’iniziale, reiterata, questione dell’artigianato. Proprio per la natura della disciplina, nel suo etimo, muovere, per estensione attività manuale1, essa è prettamente umana, e si riserva di operare esclusivamente mediante le relazioni umane. Ciò, con tutte le implicazioni etiche e antropologiche che comporta, fa capire pure che i vincoli, in fase di progetto sono ben più allentati. In questo senso, a mio parere, l’artigianato offre ora il campo più fertile per la ricerca. Non solo grazie ai suoi processi, più lenti, meno soggetti a normative e logiche pianificate, ma anche perché offre possibilità molto più ampie di relazionarsi con altre entità, ugualmente inclini alla sperimentazione. È un fatto oggi che anche la sperimentazione tecnologica sia in molti casi

artigianato. Si pensi ai recenti risvolti della prototipazione rapida, i Fablab, Arduino e altre forme di tecnologie d’avanguardia. Esiste dunque una necessità di creare questi nessi, tra entità creative di ricerca e capire finalmente, in fase di progetto, come determinati aspetti possano essere conciliati. A questo punto, in termini pratici, il settore dell’illuminazione a Murano avrebbe modo di slacciarsi dalle forme costituite della sua tradizione, e piuttosto cercarne di nuove in un ottica di confronto con le nuove tecnologie, pur mantenendo viva la propria identità. Tra queste, di estremo interesse, vi sono le fonti luminose oled, organic light emitting diode, già in uso su dispositivi elettronici, i circuiti, nelle varie forme e processi, quali la vernice conduttiva, la grafite, i circuiti stampabili, fino all’impiego di speciali mezzi conduttivi trasparenti, quali l’ossido di indio-stagno e la tecnologia fipel, ancora in fase di messa a punto2. Ciò potrebbe avvenire, in una visione lungimirante, non solo tramite imprese neonate o con un vivo ramo di ricerca, bensì pure con istituzioni, quali accademie e università, ed entità diffuse in una sorta di maker culture attenta agli aspetti culturali dell’artigianato di Murano. In questi termini tornano in mente le parole di Alberto Rosselli, tanto dedito alla creazione di un pensiero critico per l’industrial design quanto a un profondo esame della realtà artigianale. Nel 1965, in un’esauriente e lucida analisi sull’artigianato di allora, già evidenziava le premesse per un futuro di questa disciplina nell’occupare un ruolo complementare all’industrial design. Nella definizione di un nuovo artigianato lo stesso scriveva: «Dovrebbe cadere anche quel tipo di preclusione teorica all’uso di tecniche meccaniche o all’impiego di materiali e tecnologie proprie dell’industria, preclusioni che appaiono come residui di una concezione dell’artigianato visto in una precisa distinzione tecnologica con il mondo industriale. È molto importante anzi che l’artigianato esca da forme tecniche tradizionali, senza peraltro escluderle, e che operi in un campo completamente aperto quale quello fornitogli dallo stato di piena industrializzazione che stiamo vivendo». Analogamente poi a quello che scriveva Astone Gasparetto negli stessi anni, Rosselli definiva bensì che l’artigianato dovrebbe adempiere a bisogni diversi da

1  Dal Dizionario Etimologico di Pianigiani: www.etimo.it/?term=arte&find=Cerca

2 Field-induced polymer electroluminescent technology. Cfr.: users.wfu.edu/carroldl/Lighting_Display.html


87 quelli materiali, in una migliore interpretazione delle necessità umane, in modo trasversale all’insieme dei consumatori, senza dedicarsi ad un élite di compratori: «A fianco di un “consumo culturale” si potrebbe quindi individuare una “formazione di cultura” per l’iniziativa e l’opera di persone e di gruppi di “cultura esercitata a livello di cittadini”, in un rapporto dialettico e non paternalistico, come avviene ancora oggi. Esiste quindi potenzialmente tramite l’artigianato una possibilità di rapporto comunicativo a livello di gruppi e non solo a livello di massa; e la sua attuabilità è in gran parte affidata ad una considerazione dell’artigianato all’interno di nuove forme sociologiche. Le caratteristiche di questa cultura saranno senz’altro molto diverse da quelle derivanti dai prodotti della cultura di massa: la qualità dovrà derivare soprattutto dalla indipendenza e dalla formazione di base, che l’avvicina ai modelli di cultura popolare, nella sua forma attiva di realizzazione». Lo sviluppo dell’artigianato, parafrasando, si dà appunto nella creazione di “valori culturali stabili”, senza per questo relegare l’industrial design ad “un’estetica di consumo”; anzi, entrambi dal confronto ne evolvono in linguaggi complementari, svincolando il design industriale da alcune preclusioni estetiche o sentimentali, spesso deleterie, e l’artigianato da impegni produttivi che gli sono impropri. Rosselli auspica insomma che «i teorici dell’arte potranno ricercare o giustificare la nuova posizione dell’artigianato fra un’estetica del consumo e una estetica del permanente; la prima, derivazione molto discussa della produzione industriale; la seconda, frutto tradizionale della produzione artistica»3. Se da queste parole oggi si possa cogliere qualche riflesso nella produzione più attuale è quindi normale. Tuttavia un pensiero critico dell’artigianato e dell’industrial design fatica a definire la direzione e i ruoli — sicuramente rinnovati, dal 1965 a oggi — di entrambi, che ora sembrano per lo più confondersi in un cortocircuito di autorefernzialità. Non è nemmeno un caso che questa breve trattazione risolva in modo piuttosto aperto la questione, nella speranza di aver comunque illustrato degli spunti per una successiva evoluzione del linguaggio artigiano a Murano, in un audace confronto con la tecnologia e i valori che si vorrebbero cristallizzati in questi oggetti di vetro. 3  Questo e i brani precedenti: Rosselli A., Previsioni di un nuovo artigianato, in “Domus” 425, cit.


88 Spunti per lo sviluppo dei sistemi d’illuminazione

In ragione delle premesse derivate dalla trattazione che precede, un potenziale campo di indagine per lo sviluppo di questi sistemi si svolge nel confronto tra l’artigianato di Murano e la tecnologia illuminotecnica e di prototipazione rapida. Nel proporre delle direttive per il progetto — che come visto invade inesorabilmente la sfera architettonica — si parte da un approccio contemporaneamente illuminotecnico e scenografico, in cui la sensazione luminosa desiderata, lo sviluppo del supporto e le caratteristiche illuminotecniche evolvono in modo sincronico. Come già detto, il processo produttivo del vetro artigianale non prevede una restrittiva pianificazione produttiva: questo rende la manifattura conciliabile con i processi sperimentali di applicazioni di nuove tecnologie per l’illuminazione, nonché la prototipazione rapida. È inoltre rilevante che nel fare il vetro, spesso sono il concetto ispiratore e la sensazione voluta a guidare la produzione. Sotto questo aspetto gli approcci empirici di entrambe le componenti sono assolutamente affini. Sviluppo illuminotecnico

Sviluppo del supporto

—sensazione desiderata —funzioni visive ed ergonomia —tecnologia dell’apparecchio —calcolo illuminotecnico e simulazione —ingegnerizzazione

—scenografia del sistema —definizione del modulo —prototipazione —normalizzazione —ingegnerizzazione

Tecnologia La tecnologia LED, e in particolare OLED permette una grande flessibilità di applicazione in diverse forme e dimensioni. I fasci di luce coerente, o laser, possono essere impiegati per particolari effetti visivi, prestandosi ad interagire con la qualità di rifrazione del vetro. Le tecnologie d’avanguardia, come il FIPEL e l’ossido di indio-stagno risultano interessanti in una futura applicazione di fonti luminose aderenti al supporto in vetro e senza la necessità di conduttori in vista. La vernice conduttiva è una soluzione al problema di condurre la corrente in tutte e periferiche luminose di un apparecchio modulare, così come i circuiti stampabili. La prototipazione rapida, in termini generali si adatta molto bene ai processi artigianali, per cui è possibile condurre una ricerca e arrivare al prototipo in modo parallelo allo sviluppo delle componenti in vetro e illuminotecniche. Infine si prospetta una possibile implementazione di un’interfaccia elettronica per esperimenti tra interazione umana e regolazione della luce. Comunicazione

Evento artistico Scenografia Contract Design Fair


Anjali Srinivasan

89

Il rapporto tra luce e vetro può essere declinato in più modi. Essendo dapprima una questione architettonica, il vetro può entrare in contatto con tecnologie e apparati che ne evidenzino la spazialità o al contrario può scomparire come supporto alla luce. Le implicazioni tecnologiche a questo proposito sono varie: utilizzare un interfaccia programmata per interagire con l’utente dello spazio; l’impiego del vetro come materia costruttiva architettonica, strutturale o spaziale; comporre sistemi allestitivi modulari e apparati illuminanti. Le tecnologie, quali OLED, stampa 3D e vernice conduttiva permettono un più simbiotico rapporto tra luce e vetro. www.anjalisrinivasan.com/joomla/

MVRDV

www.mvrdv.nl www.waldemeyer.com www.moooi.com

BlackBody

Bertjan Pot — Moooi

Moritz Waldemeyer

www.blackbody.fr


Yoko Seyama

Moritz Waldemeyer Moritz Waldemeyer

Shizuka Hariu

Josef Sovoboda

90

Un progetto per l’illuminazione parte sempre dalla tipologia di luce desiderata. La luce e il vetro nell’architettura sono i mezzi mediante cui il diaframma tra l’intorno e l’uomo si fa più sottile. L’espressività della luce in un ambiente genera nella sua scenografia una serie di sensazioni che servono a sottolineare ciò che avviene in quello spazio. La luce ha un valore funzionale e spesso un valore artistico. Waldemeyer ad esempio plasma la luce in senso diverso a seconda che si tratti di un’installazione, un allestimento, un oggetto prettamente funzionale, senza comunque rinunciare alla teatralità che la luce conferisce all’architettura.

Didzis Jaunzems

www.shizukahariu.com www.yokoseyama.com/works.html www.dja.lv


91

Nelle pagine seguenti si raccolgono in un abaco le tecniche tipiche muranesi, partendo dalle lavorazioni iniziali, con cui si prepara il vetro, passando per le altre lavorazioni e le tipologie di stampi viste sopra, elencando poi le possibili tecnologie applicabili e infine le tecniche e le finiture del repertorio muranese, scelte tra quelle più rilevanti in relazione alla luce e i suoi effetti sul vetro. Segue un tentativo di schematizzazione dove si suggerisce quali delle suddette tecnologie potrebbero meglio conciliarsi con le lavorazioni muranesi, illustrando poi anche le possibili finiture. La disposizione prevede che l’approccio del progetto prediliga la relazione con la tecnologia, per poi giungere alla soluzione adeguata in termini di produzione e finitura. In questo modo è subito individuale quale sia il percorso preferibile per poter sviluppare il prodotto in relazione ad una determinata tecnologia. Sta poi al progettista e agli esperti della manodopera saper scegliere tra le finiture e le composizioni migliori per ricreare l’effetto luminoso desiderato. Tra le possibilità vengono elencate le tecniche più caratteristiche ma è contemplata in primo luogo anche la possibilità di non trattare ulteriormente il vetro e inoltre di poter scegliere tra vetro cristallo oppure colorato. In linea generale, comunque, le indicazioni sono indicative e non si esclude anzi che si possano trovare strade alternative per configurazioni differenti.


92

Tipologia di lavorazione iniziale

Soffiatura

Massiccio, una o piĂš coperte

Colatura

Tiratura

Tipologia stampo e lavorazioni successive

Legno

Metallo

A gabbia

Formella

Tecnologie applicabili

LED/ OLED

LED

Magnet

3D print

PCB

Supporti e innesti magnetici

Stampa 3D per tooling e supporti

Circuiti stampati

Tecniche e finiture tradizionali

Incamiciato

Pulegoso

Bullicante

Battuto

A ghiaccio


93

A mano volante

Semi industriale

Nuovi materiali

Conductive paint

CNC

FIPEL

Laser

Controllo numerico

Nuove fonti luminose

Luce laser

Iridatura e doratura

A bozzolo

Filigrana e zanfirico

Colorazione a caldo senza fusione

Vernice conduttiva

Sabbiatura e velatura


94

LED/ OLED

Magnet

Soffiati Massicci Colati Tirati

3D print

In alto, lo spessore maggiore dei collegamenti indica possibilitĂ di sviluppo piĂš interessanti e meglio realizzabili

PCB


95

CNC

FIPEL

Laser

Conductive paint


96

Esempi di utilizzo del toolkit

LED/ OLED

Magnet

Conductive paint

Esempio 1. Per l’applicazione di determinate tecnolgogie che permettono la creazione di sistemi componibili, si può procedeere tramite la realizzazione di elementi soffiati oppure colati, ottenendo forme bidimensionali che bene si abbinano ai moduli oled, con la possibilità di utilizzare una finitura sabbiata che diffonda meglio la luce.

CNC

Laser

Esempio 2. Mediante la finitura a battitura del vetro massiccio, è possibile ottenere particolari effetti di rifrazione luminosa, specialmente se viene adoperato un fascio di luce coerente. In questo caso è meglio procedere da vetro non soffiato.

LED/ OLED

Esempio 3. Partendo da lavorazioni più standardizzate è possibile ottenere forme più regolari adatte ai processi di stampaggio e fresatura cnc per la creazione di circuiti accoppiabili a sistemi oled. Nell’esempio il vetro impiegato potrebbe essere un vetro pulegoso che maschera i circuiti.

CNC

PCB


97 Bibliografia e sitografia

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98 Gasparetto A., “Arti decorative delle Venezie”, nel catalogo della 30a biennale internazionale d’arte di Venezia, a cura di Dell’Acqua G., La Biennale, Venezia, 1960.

Periodici:

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www.98800.org/wp-content/uploads/2015/11/AUT_ Design_Practice_2015.pdf

www.vistosi.com www.waldemeyer.com

www.abatezanetti.it www.yokoseyama.com/works.html www.abitare.it/it/ricerca/studi/2016/02/08/forum-abitaredove-va-il-design/

www.youtube.com/watch?v=101l1MIkKsI

www.anjalisrinivasan.com/joomla/

www.youtube.com/watch?v=FvLABcM3In0

archivi.cini.it/cini-web/centrostudivetro/archive/IT-CSVGUI001-000016/vinicio-vianello.html www.artemide.com/home/index.action www.barovier.com www.blackbody.fr www.breaking-the-mould.com/btm-01/it/btm-1-themould.php davidegroppi.com divisare.com www.dja.lv www.effetremurano.com www.emmeduemurano.it www.flos.com www.foscarini.com www.glassway.org www.iittala.com www.innolux.fi/en www.layerdesign.com www.lesartsdecoratifs.fr/francais/musees/musee-desarts-decoratifs/collections/dossiers-thematiques/artsdecoratifs-et-design/verre/chronologie-du-verre lasvit.com/lasvitstory/inhouse-designers www.matteogonet.com/ museovetro.visitmuve.it www.mvrdv.nl www.nasonmoretti.com www.salviati.com www.shizukahariu.com users.wfu.edu/carroldl/Lighting_Display.html www.venini.com

La citazione a pagina 3 è tratta da: Van Eyck A., “The Interior of Time”, in C. Jencks e Baird (a cura di), Meaning in Architecture, New York, p.171 (ed. it. Il significato in architettura, Dedalo, Bari, 1974).



101 Fonti iconografiche

1stdibs.com architonic.com Archivio a.s.a.c. La Biennale, Venezia Archivio Cameraphoto Archivio Giacomelli, Venezia Archivio illuminazione Salviati Archivio Online Domus Archivio Vinicio Vianello, Centro Studi del Vetro, fondazione Cini, Venezia AUT (www.98800.org) Bianconero, Venezia Casali-domus Catalogo lighting Salviati ebinteriors.com Epoche Fignatto Foto, Venezia Formenti, Venezia Fratellitoso.it Gardin & Mazzoli, Treviso Giacomo Streliotto Monica Pidgeon (architecture.com) Studio Coma Studio Pointer Venini Artlight 2016 Vistosi.com Foto presso la fornace Salviati: Daniele Vendrame Grafiche: Daniele Vendrame Altre foto dai volumi in bibliografia.


102 Glossario della fornace

A Torséllo Significa il modo particolare di colorazione di un vetro a spegnaùro (v.) mediante una “tociàda” e poi, a mezzo di borselle da pissegàr (v.) avvolgendo e rimestando il vetro sul pontello (v.) ottenere una colorazione omogenea. Alati Bicchieri o coppe con alette laterali in vetro, collocate a fianco o sopra i manici, per decorazione. Detti in tedesco “Flugelglaser”, sono tipici del XVI-XVII secolo. Alból o Albuól Cassa di legno adibita alla miscelazione del miscuglio da vetro. Alboleti Albóli più piccoli. Alla prima Termine muranese che sta ad indicare la realizzazione di un oggetto (fiore, animale ecc.) in modo continuativo e senza necessità di applicazione ulteriore di parti in vetro e di riscaldamento successivo. L’operazione si usa anche quando l’oggetto è di piccole dimensioni e non è necessaria una accurata lavorazione. Allume catino Cenere vegetale sodica, importata con questo nome dalla Siria e usata come fondente (v. anche ròscano). Amalgama Tecnica usata sino a tutto il secolo XVIII per argentatura degli specchi: consiste nell’applicazione di un foglio di stagno sulla lastra di vetro mediante il mercurio. Anzinello Gancio di ferro, fissato sull’anzipetto (v.) in grado di sostenere il peso della canna e del vetro posto su di un asse normale alla bocca del forno (v.). Anzipetto Tavola di legno spesso, spesso rivestita in lamiera metallica e sulla sinistra della bocca del forno (v.) tale da proteggere il vetraio dall’irraggiamento del forno stesso. Applicazioni a caldo Tecnica molto usata a Murano consistente nell’applicazione, durante la lavorazione dell’oggetto, di fili, bordi, manici ecc. di varia foggia, colore e dimensione. Il risultato è da considerarsi esteticamente valido quando tali applicazioni risultano regolari e precise. Ara (o Era) In antico, la parte posteriore del forno muranese, che fungeva anche da tempera, ossia serviva alla “ricottura” degli oggetti finiti. Asio (agio o posto di lavoro) Ripiano orizzontale leggermente inclinato sotto la “bocca” del forno. Sorta di “vassoio” sulla quale spesso cola il vetro fuso quando viene estratto dai crogioli. Attaccagambi Mansione tipica della lavorazione dei bicchieri o di altri oggetti con gambo. Di norma affidata ad un operaio abile e con qualifica di poco inferiore a quella del “maestro”. Avòlio Giunzione di vetro a forma di piccolo rocchetto tra il gambo e il piede (cioè la base) in un bicchiere, in una coppa o in un tipetto (v.). Avventurina Pasta vitrea particolarmente pregiata, inventata dai vetrai muranesi nella prima metà del XVII secolo e così chiamata perché il suo ottenimento, anche per il più esperto vetraio, era incerto e difficile, era una “avventura”. La preparazione della “avventurina” lunga e delicata, alla conclusione della quale si formano all’interno della massa vitrea piccoli cristalli di rame lamellari e lucenti (“stelle”, da cui il nome “stellaria”, con cui pure venne indicata in passato) è sempre stata nel corso dei secoli segreto di pochi abili tecnici compositori. Viene estratta in blocchi dal forno, già lentamente raffreddato, e la sua rifusione può seriamente pregiudicare il suo caratteristico aspetto. Viene quindi tagliata a freddo al pari di una pietra dura o lavorata a caldo con particolari accorgimenti. L’avventurina normale trattata con rame ha un colore brunastro e con “stelle”, mentre una qualità ancora più pregiata (verderame) acquista una tonalità verdastra di ottimo effetto. Ballottòn Stampo in metallo con effetto a rilievi incrociati sul vetro. Lo stampo contiene all’interno delle “punte” a forma di piccola piramide a base quadrata che, nella soffiatura, danno per l’appunto un effetto di rilievo incrociato. Ricoprendo una péa (v.) stampata a ballottòn con una coperta (v.) di tipo sommerso (v.) si ottiene l’effetto bullicante o “a bolle”, consistente in una miriade di piccolissime bolle d’aria comprese tra due strati di vetro.

Banco (del forno) Nel forno tradizionale muranese è tutta la porzione orizzontale bassa in grosso materiale refrattario destinata a sorreggere i crogioli o padelle,(v.), i palati (v.), le ninfette (v.), i croisioli (v.). Al centro del banco vi era un foro di circa 30/40 cm. di diametro detto “ ocio” (occhio), che metteva in comunicazione il banco con la castra (v.) sottostante e permetteva l’afflusso della fiamma nel forno propriamente detto. La fiamma, infine, per effetto naturale del tiraggio, tendeva ad uscire dalle varie bocche del forno dando così luogo ad una circolazione di fiamme necessaria per le calde (v.) e la lavorazione dei vetri per poi uscire dal cavalletto (v.) nella tempera e nell’ara (v.). Besegnàcho Termine antico che doveva probabilmente indicare un tipo di vetro soffiato. Bevànte Così viene denominata la parte superiore di un bicchiere, quella cioè destinata a contenere il liquido. Bócca Apertura rettangolare il cui lato superiore è arrotondato. Si tratta del vero “ingresso” al forno dall’esterno e può essere di varie dimensioni in relazione alla grandezza dell’oggetto da eseguire che viene introdotto mediante canne (v.) o puntelli (v.) che si appoggiano a loro volta sull’anzinello (v.). Bolle (Bullicante) Particolare effetto decorativo utilizzato nei vetri a grosso spessore e consistente in una miriade di “bolle” , grandi o piccole, disposte a strati sovrapposti all’interno della parete vitrea. Si ottiene in due modi: nel primo rotolando il vetro in lavorazione su di un piano metallico munito di piccole “punte” cosicché, imprimendo una depressione sul vetro allo stato pastoso risulta con “fori” che verranno successivamente “ricoperti” con un nuovo strato di vetro. Resta, quindi, “imprigionata” una bolla d’aria vera e propria in corrispondenza di ciascun “foro”. Un secondo sistema consiste in uno stampo troncoconico munito all’interno di “punte “ e nel quale viene soffiato il vetro che risulterà “ frato” . Una successiva ricopertura in vetro trasparente farà apparire le “ bolle” stesse (v. anche Ballottòn). Bòlo Termine muranese per indicare il primo grumo di vetro fuso, appena levato dal forno, prima della lavorazione. Un simile significato hanno il “pastone”, la paresòn (v.) e la levàda (v.). Borsèlla Classico e fondamentale strumento di lavoro del vetraio. E’ una sorta di pinza elastica a forma di “ molla da caminetto” ; serve per strozzare, modellare e dar forma agli oggetti. E’ la vera mano del vetraio. A seconda delle specifiche operazioni di modellatura avremo borselle di vari tipi: – da siègar (segare, strozzare) – da pissegàr (pizzicare) – a gelosia (terminate con palette piccole con segni incrociati in metallo) – a scuelòto (a forma di cucchiaio) – a coppo ( a forma di tegola) – a gàtolo ( con incavo trasversale) – a do gàtoli ( con due incavi trasversali) – a sguataròn ( con molti incavi trasversali) – a spin de pesse ( a spina di pesce) – lissie ( piatte larghe senza modellatura) Bronzino Grossa piastra, oggi in ferro, anticamente in bronzo ( da cui l’etimologia) che, posta orizzontalmente su di un tavolo o cavalletto, permette varie fasi di lavorazione del vetro. Viene usato per arrotondare e predisporre la péa (v.) prima della soffiatura. In origine era anche in marmo, detto “màlmoro”, cioè marmo in dialetto veneziano. Buffadór Termine antico che indicava un vetraio muranese di modesta qualifica professionale, normalmente adibito alla fabbricazione di vetri d’uso comune (bicchieri, caraffe). Buffarìa In antico sta per vetreria per soffiati d’uso comune. Calcedonio (anche Chalzedònio) Pasta vitrea a base scura, rossa in trasparenza, con venature policrome, imitante una varietà del calcedonio naturale, l’agata zonata. Inventata a Murano intorno alla metà del XV secolo sembra dal grande Angelo Barovier. La sua difficile preparazione prevede l’aggiunta nel crogiolo di fusione di vari composti metallici, con modalità ed in tempi determinati. Il segreto della sua fabbricazione, perduto tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX, venne riscoperto dal vetraio ottocentesco Lorenzo Radi. Calchéra In antico, il locale ove si faceva la calcinazione della miscela di silice e fondente (operazione preliminare alla fusione vera e propria del vetro nel crogiolo). Calda Operazione fondamentale che viene compiuta più volte durante la lavorazione di un “pezzo”. Consiste nell’introdurre nella bocca del forno il vetro in lavorazione attaccato alla canna (v.) o al puntello (v.) allo scopo di rammollirlo onde consentire all’operatore una ulteriore modellazione. La “calda” dura molto poco


103 (mediamente dieci, quindici secondi). Si dice “mezza calda” se l’esposizione al fuoco è di minor durata. Caldiére da lìssia de crestàli Grosse caldaie per lisciviare la cenere vegetale che, in epoca antica, doveva fornire a Murano il fondente adatto per la preparazione del “cristallo”. (v. anche Ròscano). Canna Arnese fondamentale per la lavorazione del vetro. Consiste in un tubo lungo circa 140/150 cm. e di diametro variante tra 2/4 cm., forato internamente. Una estremità è leggermente conica onda agevolare la soffiatura, la parte opposta è talvolta ingrossata. La “canna” (scoperta verso il I sec. d. C. sembra in Siria), consente la soffiatura del vetro che, attinto dal crogiolo, viene “avvolto” attorno all’estremità ingrossata. La soffiatura ha luogo tutte le volte che si desidera ottenere oggetti cavi (vasi, bottiglie, ecc.). Nei vecchi inventari le canne sono talvolta indicate come “feri buxi” ovvero ferri bucati. Le canne vengono dette anche semplicemente “Ferri”. Canne vitree Semilavorato consistente in una “bacchetta” vitrea massiccia o forata e successivamente tagliata in segmenti di varia lunghezza. E’ già documentato nella vetraria muranese del XV secolo ove si parla del maestro “canér” (cannaio). La procedura esecutiva è simile a quella per la produzione delle perle (v.) Le canne vengono usate oltre che per la produzione di conterie, delle “perle a lume” anche nella lavorazione in fornace accostando, p. e., le canne parallelamente o sezionandole e raccogliendole poi a caldo con vetro allo stato pastoso. (vedi anche “murrine”) Caramal Locale coperto, attiguo alla fornace, dove si teneva la legna di faggio prima di “stuària”, cioè prima di metterla a seccare rapidamente nelle “stùe” (stufe). Cassa Grosso cucchiaio in metallo, a forma di mezza sfera che serve per “missiar” (mescolare) o per estrarre dal crogiolo il materiale fuso per traghettarlo su altri crogioli o distenderlo sul bronzino (v.) per lavorazioni particolari (per esempio lastre e “quari” per specchi). Prime notizie su questo utensile fondamentale si hanno nel 1348 (in latino: “caciam ad traghetando”). Cassiolìn Sta per cassa (v.), ma di misura più piccola. Castra Parte inferiore del forno classico muranese, a forma di parallelepipedo, ove si bruciava la legna di faggio la cui fiamma, passando attraverso l’ocio (v.) del banco (v.) veniva a lambire i crogioli e si espandeva per tutto il forno propriamente detto. Cavalletto Sorta di scatola in materiale refrattario, nella forma di “buca del suggeritore” che, nei forni muranesi tradizionali muniti posteriormente della tempera (v.), convogliava le fiamme che, uscite dalla castra (v.) attraverso l’ocio (v.) dopo aver lambito i crogioli, passavano sulla tempera stessa per l’opportuna ricottura dei “pezzi” eseguiti. Cesendello Tipica lampada da appendere e a forma di cilindro allungato entro il quale si versava l’olio che, mediante stoppino, bruciava lentamente illuminando gli ambienti. Celeberrimo è il cesendello dipinto da Vittore Carpaccio ne “Il sogno di S. Orsola”. Ciocca In veneziano “mazzo di fiori”. Termine muranese in uso dal XVIII sec. per indicare il lampadario veneziano classico, formato da fiori, foglie, bracci. Da questo termine discende “el liogo de le ciocche” ossia il locale dove i lampadari veneziani vengono assemblati. Cògoli Ciottoli quarzosi di fiume ridotti in polvere finissima e usati già dalla prima metà del Trecento dai muranesi per ottenere la silice al posto della sabbia. Importanti, per l’alto contenuto di silicio, erano i “cògolo del Tesín” (ciottoli del fiume Ticino). Colatura Tecnica impiegata nella fabbricazione delle lastre da finestra e da specchio. Consiste nel colare direttamente il vetro fuso entro apposite forme rettangolari di varie misure (nel vecchio gergo “quari”). La colatura fu adottata in larga scala verso la fine del XVII sec. a Murano, in Francia e ad Altare presso Savona. Collétto Collarino di vetro rimasto attaccato all’estremità delle canne o dei puntelli. Colorazione a caldo senza fusione Processo esclusivo di colorazione del vetro realizzato verso la fine degli Anni Venti da Ercole Barovier. Consiste nell’inserire durante la lavorazione e tra due strati di vetro trasparente ed incandescente delle sostanze chimiche (ossidi, sali) o altri elementi tali da suscitare, per effetto dell’alta temperatura, reazioni ed effetti coloranti speciali e di particolare bellezza, di norma mai identici gli uni agli altri. Colori in fògo Locuzione ancora in uso a Murano e che sta ad in-

dicare un vetro colorato in fusione mediante ossidi o sali minerali. Conca Grosso vaso cilindrico a fondo concavo, di solito di bronzo o in ghisa, che serve per contenere il vetro fuso estratto dai crogioli e che non viene più utilizzato se non come cotizzo (v.). Confitèra Detta anche “dulcèra”. È un vaso con coperchio, una sorta di potiche, usata nella vetraria spagnola per contenere dolci (XVII-XVIII sec.). “Confitère” sono citate in un inventario della fornace di Maria e Giovanni Barovier del 4 maggio 1496. Conterìe Oggi si chiamano “conterie” le perle di dimensioni molto piccole, ottenute sezionando a freddo sottili canne vitree forate e sottoponendo i cilindretti ottenuti ad un arrotondamento a caldo. Un tempo esse venivano chiamate col nome “margherite” o “margarite” ( di origine latina), mentre il termine “conterie” indicava le perle più grosse, pure ottenute da canna forata ma arrotondate accostandole al fuoco infilate in uno spiedo. Le “conterìe”, usate per gli scambi con gli indigeni dei Paesi coloniali, venivano fabbricate a Venezia fin dal XVI sec. La loro denominazione è nota solo dal XVII sec. e deriva dal portoghese “conto” significante: denaro, o forse anche dal latino “comptus”, che significa “ornato”. Conzaùra Letteralmente: acconciatura, predisposizione. E’ una sorta di “piattello” in vetro di diametro 6/8 cm., sul quale si posa il pastone per “tirar la canna”. Coperta Strato uniforme di vetro fuso applicato sulla péa (v.) o su un oggetto già parzialmente formato. Tecnica per ottenere l’effetto di sommerso (v.) o doublè (v.). Da non confondersi con la lèvada (v.). Corde Imperfezioni nella massa vitrea raffreddata che si manifesta come una “corda attorcigliata” e che costituisce un difetto di fabbricazione (v. vessíghe, pónte). Cotizzo (Cotizza o cotticcia, cioè non del tutto cotta). Coacervo di grossi pezzi di vetro, usualmente della misura di ciottoli di fiume. Il cotizzo si ottiene anche gettando nelle conche (v.) il vetro fuso estratto dai crogioli, lasciandolo indi raffreddare. Il vetro, nel processo di raffreddamento, si contrae e si spezza in grossi pezzi. Il cotizzo, come rottame di vetro, viene spesso riusato quale catalizzatore nella miscela da vetro. Il Capitolare della Vetraria Muranese del 1766 parla di “cotizzi in vetro e cristallo, che così si chiama la massa informe del vetro che si cava dal vaso” (v. Mariegola). Cristallino Così veniva anche definito il cristallo (v.) veneziano scoperto da Angelo Barovier verso la metà del Quattrocento. Cristallo (Cristallo veneziano) Vetro incolore e terso, ottenuto per la prima volta attorno alla metà del XV secolo dal vetraio muranese Angelo Barovier, oltre che con la decolorazione mediante il manganese, già prima praticata, anche con la depurazione, cui veniva sottoposta la cenere fondente, e con speciali procedimenti applicati alla condotta della fusione. Il cristallo veneziano, di tipo sodico, è adatto, a differenza del più tardo cristallo boemo, alla potassa, ed inglese, al piombo, ad una lunga e complessa lavorazione manuale da parte del maestro vetraio. Crocco Termine dialettale che sta ad indicare l’ossido di ferro usato per colorare in bruno/marrone il vetro. Croisìol Piccolo crogiolo, che contiene circa 8-10 Kg. di vetro fuso. Cròzzola Sorta di “paletta del croupier” a lungo manico, usata per “spiumare” la superficie del vetro in fusione nei crogioli e togliere le impurità salite a galla (v. spiumar). Diavolo Carrello a due ruote, posteriormente con un lungo manico e anteriormente a forma di bidente orizzontale. Su quest’ultimo veniva posizionato un crogiolo incandescente da sostituirsi con uno logoro, o rotto. Il “diavolo” veniva poi spinto sul banco (v.) la cui bocca era del tutto abbattuta e il cui “ àsio” (v.) rimosso consentiva l’introduzione col fuoco acceso del nuovo crogiolo. Doublé Termine francese che sta ad indicare un oggetto formato da due strati di vetro, di norma di colore diverso, e tali da consentire l’intaglio a freddo. Fenìcio Tipo di decorazione ottenuta a caldo, applicando attorno alle pareti dei soffiati, dei fili vitrei, che poi vengono “pettinati” con uno speciale strumento, così da ottenere dei festoni ripetuti. Questi, scaldati e soffiati ulteriormente, possono essere inglobati nella parete del vaso, che risulta così liscia. Questa tecnica decorativa venne introdotta nelle vetrerie muranesi alla fine del XVI secolo o nel XVII secolo ma non sappiamo come allora venisse denominata. Il termine “fenicio” venne adottato nella seconda metà del XIX secolo per la presenza di simili decorazioni nei vetri pre-romani


104 fenici ed egiziani, ma si usò allora pure il termine “graffito”, (v. vetri “piumati” e a “pettine”) poi abbandonato. Ferro da batter Semplice sbarra in ferro di circa 30 cm. di lunghezza che, impugnata ad una estremità, serve per togliere il morso (v.) di vetro dalle canne o dai puntelli battendo sul vetro stesso o sulla canna. Figà (ciapar el figà) Termine muranese che indica un difetto del vetro rosso (ottenuto con minerali di cadmio e selenio) quando il colore anzichè essere trasparente e brillante è opaco e del colore appunto del fegato (in veneto “figà”). Letteralmente, “ciapàr el figà”, significa che il vetro ha il colore del fegato. Filigrana Raffinata tecnica decorativa a caldo, inventata a Murano nella prima metà del XVI secolo. La complessa lavorazione dei soffiati a “filigrana” prevede l’utilizzo di bacchette di cristallo, precedentemente preparate con all’interno fili vitrei in “lattimo” o colorati, lisci o a spirale. Si distinguono la filigrana a “reticello”, con una delicata trama a rete all’interno della parete di cristallo; la filigrana a “retortoli”, a fili variamente ritorti a spirale, chiamata anche “zanfirico”, dal nome dell’antiquario veneziano Antonio Sanquirico, che commissionò nella prima metà del XIX secolo numerose copie di vetri antichi fabbricati con questa tecnica. Negli ultimi decenni sono stati ideati a Murano nuovi originali tipi di filigrana. Viene chiamata “mezza filigrana” la decorazione a canne parallele, a filo interno diretto, lavorata in modo tale che assume andamento diagonale. Già verso la metà del XVI secolo, come ci informa la “Mariegola dei Fioleri” (v.), si lavorano vetri a “redexello” o a “retortoli” (reticello e ritorti). La filigrana o reticello si ottiene mediante sottili canne in vetro con al loro interno fili di vetro opaco, generalmente bianco. Queste canne (simili a matite) vengono accostate le une alle altre su di una piastra refrattaria, quindi riscaldate al fuoco della fornace finché si fondono e si uniscono le une le altre. La “piastra” così ottenuta viene successivamente “avvolta” attorno ad un cilindro di vetro trasparente e incandescente, cosicché risulteranno visibili i soli fili interni (bianchi o colorati). Si procede poi alla normale soffiatura e formatura degli oggetti vari (vasi, coppe ecc.). Nel caso del” reticello” classico, l’operazione sopra descritta viene compiuta in due fasi successive e sempre a caldo finché i fili si incrociano tra loro: questa esecuzione richiede una notevole perizia tecnica ed un’elevata sensibilità artistica. Filo Classica decorazione in vetro, che si applica solitamente sul bordo superiore di una coppa, di un vaso, di un bicchiere, a caldo. Il filo può essere di vari spessori, colori (opachi e trasparenti) ed ha una funzione decorativa. Se è ondulato viene chiamato morise (v.). Finale Nei lampadari classici veneziani è la penultima decorazione inferiore. Di forme svariate è di norma munito di una rondella metallica filettata, tale da poterlo avvitare alla montatura metallica del lampadario. Attaccato con filo d’argento al finale è spesso il “fiocco” (v.). Fiocco Ultima parte decorativa, talvolta a forma di fiocco da tapezzieri (da cui prende il nome), legato al finale(v.) mediante filo d’argento. Il fiocco può anche avere forma di oliva, di pallina ecc. Fiòle Le fiòle, o fiale erano chiamate a Venezia le bottiglie soffiate in vetro comune. Fiolèr Termine arcaico (VIII sec.) che sta ad indicare il vetraio soffiatore di fiale, ovvero di oggetti cavi soffiati. Foglia d’oro e d’argento Sottilissimo riquadro d’oro puro, di norma nelle misure di cm. 8×8 che viene “raccolto” dal vetro ancora allo stato pastoso nella fase iniziale di lavorazione. L’oro può essere poi ricoperto da un ulteriore strato vitreo trasparente. Se il vetro viene soffiato la “foglia” d’oro si frantuma in un suggestivo effetto di “pulviscolo aurato”. I più antichi vetri muranesi a foglia d’oro che conosciamo risalgono alla seconda metà del sec. XV. Nel XIX secolo si usa anche la foglia in argento che deve per altro essere “ricoperta” con altro strato di vetro onde evitare ossidazioni indesiderate. Fondino Coppa in vetro, spesso decorata con fili (v.), morise (v.) e fiori in vetro che racchiude la parte metallica forata sulla quale vengono inseriti i bracci, le foglie, i fiori e le decorazioni in genere che costituiscono il lampadario veneziano. Sottostante al fondino, nell’ordine, troviamo: il passasòrze (v.), il finale (v.) e il fiocco (v.). Forcella (Forcellante) Utensile fondamentale del “forcellante” o temperista; lo specialista addetto alla tempera (rectius “ ricottura”) degli oggetti. Consiste in un tondino in ferro lungo circa tre

metri, biforcuto ad una estremità. Con esso il forcellante “manovra” i vetri ancora caldi e li sposta nella camera di raffreddamento detta in gergo tempera (v.) a seconda delle necessità imposte dalla ricottura. Forma Termine già reperibile ai primi del XV secolo e che indicava uno stampo apribile. E’ un termine muranese usato tuttora (vedi anche “stampo”). Fritta Così era chiamata a Murano la massa vetrosa, dopo la prima fusione, che avveniva separatamente dall’affinaggio. Attualmente le due fasi avvengono in un solo processo. Detta in francese “fritte”, in inglese “frit” e in tedesco “fritte” è una prima calcinazione della miscela silice-fondente destinata a diventare vetro. Fumato Suggestivo effetto di leggero offuscamento ottenuto all’interno della parete nei vetri c.d “sommersi” (v.). Si ottiene esponendo l’oggetto in lavorazione al fumo di legna e ricoprendolo poi con un ulteriore strato vitreo. Una simile procedura veniva anche attuata mediante “fumi” di cloruro stannoso al fine di ottenere l’iride (v.). Gambo È lo stelo, di varia forma (anche zoomorfa) che sostiene il bevante (v.) del bicchiere e che si trova tra questo e il piede. Garzonetto Nella gerarchia del vetro d’arte, è il più giovane apprendista al quale vengono affidate le mansioni più semplici e più umili. Gastaldo Capo dell’arte dei vetrai, rappresentante dei padroni di fornace e che veniva annualmente eletto da essi (dal sec. XIII al XVIII). Ghiaccio Decorazione consistente in un’apparente crepatura della parete esterna di vetri soffiati, ottenuta immergendoli in acqua nel corso della lavorazione. La reazione che ne deriva, sorta di “raggrinzimento”, produce appunto un effetto “a ghiaccio”. Tale lavorazione è nota almeno dal XVIII secolo. Giósse (Goccia del principe Rupert) Si tratta di un antico esperimento che ancor oggi viene esibito ai “visitatori”. Trattasi di un “goccia” vetro fuso fatta cadere su un secchio d’acqua. Il rapidissimo raffreddamento (pochi secondi) fa aggregare le molecole del vetro in uno stato allotropico, ovvero non conforme alla normale disposizione delle molecole stesse. Se viene spezzata una “codina” di tale goccia si crea all’interno una sorta di vera e propria “reazione” vale a dire che le molecole tendono a riallinearsi e a disporsi normalmente. Il risultato è una completa “polverizzazione” della goccia. Si tratta, in sostanza, del medesimo principio del “vetro di sicurezza”. Gobeletto Termine italianizzato (dal francese “gobelet” e dall’inglese “goblet”) e che sta ad indicare il bicchiere in genere. Graffito (vedi Fenicio) Granzioli Frammenti di vetro, della dimensione del sale grosso da cucina o anche di un fine ghiaino, che serve per effetti coloristici speciali. Quando i “granziòli” sono più piccoli, sono detti macie (v.). Mentre i “granziolòni” sono di maggiori dimensioni. Grèpola Termine dialettale che sta ad indicare il “tartaro delle botti” calcinato e lisciviato che veniva in antico aggiunto alla “partìa” (v.) ossia alla miscela dei componenti del vetro al fine di renderlo più lucente e trasparente. Oggi si usano composti chimici. Impiraressa (da Impiràr: infilare) Era la donna che, a tempo perso, infilava le perle in ventagli dai lunghi aghi terminanti con sottili fili. Le collane così realizzate venivano riconsegnante al fabbricante per la successiva vendita. Incalmo Difficile e tipica tecnica muranese consistente nella saldatura a caldo di due soffiati aperti, generalmente di colore diverso, lungo i loro due orli di uguale circonferenza, così da ottenere in uno stesso oggetto zone coloristiche differenziate. Incamiciato Vetro ricoperto di un sottile strato vitreo di diverso colore. Molto usato nel Novecento è, in sostanza, una variante del cd. “vetro doublè”. Incisione L’incisione a punta di diamante venne introdotta a Murano per la prima volta da Vincenzo d’Angelo su specchi nel 1534 o 1535 e lo stesso Vincenzo ottenne nel 1549 un “privilegio” per l’incisione a punta di diamante su specchi e soffiati. Con la vetraria alla “façon de Venise” venne poi diffusa in tutta Europa, specialmente in Tirolo e nei Paesi Bassi. L’incisione con una ruotina di pietra abrasiva o metallo deriva dalla incisione delle pietre dure e venne applicata con splendidi risultati in Germania e Boemia nel sec. XVII. Alla fine di quel secolo venne introdotta anche a Venezia


105 con l’arrivo di incisori tedeschi. Incossà Termine che sta ad indicare un vetro non completamente limpido. Infornare Significa introdurre la miscela da vetro nei crogioli, nei quali poi avverrà la fusione. Inghistèra (anche Gustàda o Anguistàra o Anghistera) Specie di caraffa a lungo collo e senza manico, adatta a contenere liquidi, con piede conico che spesso “entrava” sul fondo della caraffa, e molto panciuta. Assieme ai moioli o muioli (v.), costituiva un prodotto seriale, di basso valore estetico, lavorato a Murano da vetrai di “seconda categoria”, detti buffadori (v.). Il Boerio, nel suo “dizionario del dialetto veneziano” definiva l’inghistera come “rnisura di vino che si vende al minuto nella provincia di Verona”. E’ un termine che risale al 1120 e che esce dall’incrocio di: l’angusto” (stretto) e da una parola di origine greca, “gastra”. Inveriàr Così si dice del fenomeno di “smaltatura” dei crogioli esposti ai “vapori di vetro” quando sono nel forno acceso. Ìride (irisé) Effetto coloristico di “arcobaleno”. Si ottiene fumigando l’oggetto ancora caldo con sali di cloruro stannoso. Lattimo Vetro bianco, simile nell’aspetto alla porcellana. Un lattimo adatto alla soffiatura venne inventato a Murano attorno alla metà del XV secolo, allo scopo di imitare le prime porcellane cinesi allora giunte in Europa, dove non se ne conosceva il segreto di fabbricazione. L’opacizzante allora usato fu “calce di piombo e stagno”, poi sostituito da altri componenti. Detto da Angelo Barovier (XV sec.) “vetro porcellano”. Lavorazione a lume Trattamento a cui viene sottoposta la canna vitrea piena modellandola e riscaldandola alla fiamma di un beccuccio alimentato a gas al fine di ottenere figurine, piccoli oggetti, perle decorate. A lume viene lavorata anche la canna forata soffiata con appositi strumenti per ottenere perle di effetti coloristici e decorativi di particolare pregio. (v. supialume). Il termine “ A lume “ deriva dall’uso, in antico, di una fiamma di un lume a olio. Levàda (Levàr) Termine tradizionale muranese per indicare il prelievo del vetro fuso dal crogiolo mediante la canna già con la pèa (v.) o pallina (V.) formata in modo da ottenere uno strato di vetro. L’operazione può essere ripetuta più volte dopo aver “temporizzato”, cioè dopo aver lasciato leggermente raffreddare il vetro sottostante. Nelle operazioni di manutenzione dei forni, “levàr o métter pastélli’’ consisteva invece nell’aumentare o ridurre la misura della bocca del forno mediante applicazione a strati successivi di materiale refrattario. Màcie Frammenti di vetro, in genere colorati, che, avvolti attorno ad un vetro bianco, conferiscono al medesimo il colore dei frammenti (di qui il termine macia = macchia). Maciette, macie fini = macchie ancora più fini. Maestro Termine recente che sta ad indicare l’operaio più abile della équipe dei vetrai d’arte e responsabile del buon funzionamento della piazza (v.). A lui di regola, il datore di lavoro delega una serie di poteri esecutivi nella piazza stessa. In antico era detto scagner (v.) Magiòsso Specie di mezza sfera concava, con manico, tutta in legno. Utensile che serve ad arrotondare la pea (v.) e renderla di forma precisa. Deriva dal termine francese “mailloche” da cui il verbo “maggiossàr”. Maistrapà Oggetto in vetro, di provenienza muranese, che si trova in vari inventari, ma non ben identificabile. Maistro de canna Così veniva indicato il capo della squadra addetta al tiraggio a caldo della canna in vetro, prima fase per ottenere le perle. Era anche detto “tiracanna”. Margarìte Termine veneziano che sta ad indicare la “perla” in vetro. Dal latino “margaritae”, indica la perla ricavata dalla canna forata. Margarìteri Così venivano indicati nel Sei-settecento i fabbricanti di perle di vetro. Se lavoravano successivamente le perle più grosse venivano anche detti suppialùme (v.). Mariegola (anche “matricola” o “capitolare”) Sorta di “giornale di bordo” o libro fondamentale per i vetrai di Murano sul quale di volta in volta venivano iscritti i nuovi maestri, i padroni di fornace, le “regole” (da qui mariegola = mater regulae) per l’assunzione e i licenziamenti e tutti i fatti inerenti alla vita della corporazione dei vetrai, come pure lo statuto dell’arte. Marmorizzàr Operazione consistente nel far scorrere rotolando la canna già munita di peà (v.) sul bronzino (v.) per equalizzare gli

spessori del vetro e far ben aderire tra loro le eventuali coperte (v.). Marsòr, marsoretto Termine rinascimentale che indicava probabilmente coppe con piede. Mezza stampaùra Artificio tecnico consistente nell’applicare sul fondo di un soffiato, attaccato alla canna, un ulteriore strato vitreo a calotta e nell’imprimerlo in uno stampo aperto così da ottenere costolature di discreto spessore. Tale tecnica decorativa venne usata nelle vetrerie muranesi almeno dal XV secolo e, precedentemente, in epoca romana. Millefiori (o rosette) Canne vitree piene e forate, a strati di diverso colore, da cui si possono ricavare cilindretti, recanti in sezione caratteristici motivi decorativi a stelle concentriche. Fabbricate a Murano dalla fine del XV secolo, vennero utilizzate per realizzare perle, oggetti soffiati e massicci. Tipo di decorazione in auge nel XIX secolo a Murano. Moiòli Termine veneto, oggi scomparso, che sta ad indicare bicchieri semplici e comuni eseguiti per lo più dai buffadòri (v.) Morìse, morisette Tipica decorazione muranese a forma ondulata, eseguita partendo da un filo di vetro caldo applicato su di una superficie e “pizzicandolo” con le borselle di pissegàr (v.). In sostanza è un cordoncino di vetro deposto e sagomato sull’oggetto in corso di lavoro e dal caratteristico andamento ondulato. Mòrso La porzione di vetro che rimane attaccata alle canne o ai puntelli. Murrino (mosaico a caldo) Vedi “vetro murrino”. Ninfa, ninfetta Crogiolo di misura ridotta, adatto a contenere 30/35 Kg. di vetro fuso. La “ninfetta” è un crogiolo ancor più piccolo, in grado di contenere circa 12 Kg. di vetro. Òcio Occhio, vedi “banco”. Oldàno Termine arcaico che individuava vetri non soffiati. OricànnoVaso per profumi; termine arcaico che si trova nei documenti e nelle antiche cronache veneziane nei secoli XII e XIII. Oro graffito Sottile foglia d’oro applicata con un collante alle pareti degli oggetti vitrei già raffreddati, indi graffita con uno strumento così da ottenere un motivo decorativo. Questa tecnica venne introdotta a Murano nella seconda metà del XV secolo e ripresa nella seconda metà del XIX secolo. Allora venne recuperata anche una variante più complessa di questa tecnica, già usata in vetri paleocristiani del III-IV secolo d. C., nei quali la foglia di vetro graffita è imprigionata tra due strati di vetro. Osélla Medaglia commemorativa, recante lo stemma di Murano, del Podestà e dei quattro deputati che veniva coniata annualmente in pochi esemplari in oro e argento. Offerta al Doge e ad altre personalità ricorda con il suo nome (oselle = uccelli) il tempo in cui venivano offerti dei volatili quale ricognizione del vassallaggio di Murano a Venezia. Paciòfi Arnesi del vetraio simili alle borselle (v.), ma terminanti con due bastoni di legno. Vengono adoperati per “aprire” un vaso e tutte le volte che sì deve evitare che il vetro risulti “strisciato” da arnesi metallici. Paciofèti = più piccoli dei paciofi propriamente dettì, sono usati per “aprire” oggetti delicati (bicchieri, piccoli vasi ecc.). Padèlla Crogioli della capacità di oltre 40 Kg. Già nel 1280 abbiamo notizie di “Tera de Pathelis” ossia materiale refrattario per formare crogioli. I crogioli sono anche detti “vasi fusori”. Palato (Paeàto) Il più grande dei crogioli usati a Murano, del diametro di circa un metro e contenente circa 150 Kg. di vetro in fusione. Paletta Spatola in legno usata dal vetraio durante la lavorazione per modellare l’oggetto. Pallór Sorta di patina traslucida che talvolta appare sui bicchieri e altri oggetti e che si verifica se le proporzioni della miscela vetrificabile non sono esatte. Si dice anche che “el vèro spua” cioè che il vetro “sputa”. Papaòr Piccolo cilindro in vetro, spesso con bacinella sottostante, e in grado di sostenere una candela nei bracci dei lampadari o dei candelieri. Paraisòn Termine mutuato dal francese e che significa “levar” il vetro e prepararlo per la soffiatura. “Lèva paraisòn!” era l’ordine che il maestro dava ai sottoposti per iniziare la lavorazione delle perle. Parar via Definizione che descrive un rapido raffreddamento (o un rapido riscaldamento) di un oggetto in vetro. Si operava nella “tempera” (v.) spostando rapidamente il pezzo già terminato per


106 fare una ulteriore “aggiunta” di vetro o per “temperarlo” rapidamente per varie necessità. Il compito veniva di regola affidato al forcellante (v. “forcella”). Partégola o pertégola In antico stava ad indicare un arnese dal lungo manico che serviva per “spiumare el vero”, cioè togliere le impurità dal crogiolo e che, in fusione, fossero salite in superficie. Partìa Termine muranese, derivante dalla parola “partita” (divisa), e che indica la ricetta per le composizioni vetrarie con i quantitativi dei vari componenti, le modalità d’uso e di fusione. Il “libretto de le partìe” (libretto delle ricette) era spesso tramandato di padre in figlio e gelosamente conservato al fine di impedire ai concorrenti di copiare procedimenti e colori. Partìa negada Termine che indica la presenza nel vetro fuso di grumi di sabbia che si sono verificati, ad esempio, durante l’infornata del vetro o per errori di miscela. La partìa negàda si verifica anche quando la fusione risulta incompleta o imperfetta. Passasòrze Letteralmente “passatopo”. Cilindro in vetro, leggermente più stretto nel centro e a forma di rocchetto. Sorta di “distanziatore” tra il fondino (v.) e il finale (v.) del lampadario classico veneziano. Pastelli Nelle operazioni di manutenzione dei forni, in particolare quelli tradizionali muranesi, “levàr o métter pastelli” consisteva nell’aumentare o ridurre la bocca del forno mediante l’applicazione a strati successivi di materiale refrattario. Pastèlo Materiale refrattario o creta trattati come una lunga salsiccia e con la quale venivano ridotte le misure delle bocche del forno o si “stuccavano” porzioni esterne danneggiate del forno di fusione (v. “pastelli”). Paternostri Presso i veneziani così si chiamavano i grani del rosario, fabbricati spesso in vetro, in modo simile alle conterie. Gli artigiani che se ne occupavano si chiamavano perciò “paternostréri”. Pèa Detta anche pallina (v.). E’ la fase iniziale di un qualsiasi oggetto cavo in vetro. Etimologicamente significa “pera” perchè di quel frutto ha la forma. Attaccata alla canna la pèa viene marmorizzata (v.), magiossata (v.) all’occorrenza. Perla A Murano termine dal doppio significato. 1 s’intende per un cilindretto in vetro forato che, tagliato a piccole sezioni, è l’inizio della preparazione delle “perle in vetro” vere e proprie. 2 indica anche lo spezzone di canna piena che, assieme ad altri pezzi, formano il “tessuto” di un vetro “murrino” o di un vetro “mosaico”. Pettacélla Termine gergale che indica un fiore (di solito per un lampadario) eseguito con la tecnica “alla prima” (v.). Piazza Nella fornace classica muranese sta ad indicare squadra (da quattro a otto uomini) e tutto quanto è necessario per produrre un oggetto. E’ in realtà l’unità produttiva fondamentale e autonoma, in grado di eseguire un “pezzo” dall’inizio alla completa realizzazione. Ne è a capo il “maestro” che ha una sorta di responsabilità (e autorità) delegata da parte della direzione aziendale. Pìe (piede) Porzione inferiore di un bicchiere, a forma di tromba e che slancia la coppa propriamente detta. Piéra de poso Blocco di norma rettangolare di materiale refrattario o di pietra tenera (piera de poso) sul quale vanno disposte a freddo le “perle” (v.) di vetro da esporre poi successivamente al calore della fornace. Le “perle” o anche le “cannette” si saldano successivamente tra loro e consentono una successiva lavorazione di un oggetto (v. anche “poso”) Pittura a smalti Pittura sulle pareti di vasi vitrei, già completati in fornace, con smalti, cioè sostanze coloranti costituite essenzialmente di vetro polverizzato ed impastato con sostanza grassa. Per fondere in un’unica massa la parete del vaso e lo smalto, così da rendere questa indelebile, un tempo si riattaccava l’oggetto al pontello per riportarlo a contatto con il fuoco, ora lo si pone nel forno di ricottura, essendo gli smalti fusibili a più bassa temperatura. Questa pratica decorativa, attestata a Murano tra la fine del XIII secolo e la prima metà del XV secolo, conobbe alterne fortune nei secoli seguenti ed è praticata ancor oggi. Piumati Vetri con particolare decorazione, detta anche “a pettine” o “a penne” o anche “graffito” e “fenicio”. Di origine antica, la decorazione fu usata dai Romani e, dal secolo XVI, dai veneziani. Pónte Nel gergo muranese vengono così indicati piccoli pezzi di materiale refrattario caduti accidentalmente nel crogiolo e poi presenti nella “péa” (v.). Le pònte vengono tolte all’inizio della lavora-

zione a caldo da parte del vetraio mediante delle pinzette. Pontèllo Canne di ferro massiccio, lunghe circa 140 cm. e del diametro tra i 10 e i 30 mm. con le quali si “attacca” un oggetto in fase di lavorazione. Il termine muranese passò ben presto in Francia (pontil) e in Inghilterra (Punty). Portina Piastra in materiale refrattario, della stessa forma e misura della bocca del forno e che serve per ostruirla durante la fusione. Appoggiata semplicemente impedisce al calore del forno di disperdersi. Posa Nel gergo vetrario muranese significa “paùsa” tra l’esecuzione di un pezzo e il successivo. La posa è a scelta del maestro, e consiste di solito in pochi minuti di riposo. Pòso Pietra viva, detta anche “galtella” e che le vecchie cronache descrivevano come: “pietre tenere che si càvano dalle Petriere di Verona, e che servono per far centro, ossia il banco, delle fornaci”. La “pietra di Poso” è tuttora usata per certe lavorazioni (v. “piera”). Pòte Da un antico inventario del XV secolo: sorta di bicchiere (dal latino potere = bere). Pulegoso (da “Pulega” = bollicina)Vetro dalla superficie scabra, semi opaco o traslucido, formato da minutissime bollicine ottenute con particolari accorgimenti (bicarbonato di sodio, petrolio). Invenzione moderna, tipica degli anni Venti e attribuita a Napoleone Martinuzzi. Puntellar Operazione consistente nell’attaccare a caldo un oggetto col puntello (ad esempio una coppa) una volta che questo è stato aperto e terminato posteriormente. Di solito è un’operazione che si compie a metà della lavorazione. Quanquantricola Curioso oggetto in vetro, sorta di “giocattolo” per i figli dei vetrai. Consisteva in una sorta di imbuto chiuso sul davanti da una sottile membrana in vetro e talmente elastica che soffiando e aspirando la “membrana” si muoveva leggermente dando un caratteristico suono gracchiante. Usata nelle feste e in carnevale oggi la quanquantricola è pressoché scomparsa. Rasura Vecchio termine indicante un arnese in ferro per la condotta della fornace. Reauro Vecchia terminologia per indicare ferri da forno, ossia arnesi per accudire alla fornace propriamente detta. Rebolàr Operazione che consiste nello “schiumare” sulla superficie del vetro in fusione, impurità o altro. Recèla Asola in vetro, ricavata a caldo, e alla quale si appendono i fiocchi, pendagli o altri elementi decorativi in vetro. Redexèllo Secondo notizie desunte dalla “Mariegola” (statuto dell’arte) dei vetrai di Murano, verso la metà del Cinquecento si lavoravano nelle fornaci dell’isola vetri soffiati sottili a “redexello”, così detti perché ricordavano la rete dei pescatori. Forse l’idea di questa tecnica è proprio nata dall’osservazione di questo strumento di certo familiare a gente di mare come i veneziani. Si tratta di una esecuzione simile alla filigrana (v.) con canne tonde a filo interno bianco opaco “girate” in senso opposto tra loro e quindi “incrociate” durante la lavorazione a caldo mediante una tecnica difficile e ardita. Le forme semplicissime consentono all’amatore di godere completamente e senza barriere formali questo straordinario “tessuto di vetro”. Refogolàr Termine tecnico muranese di ampio significato: sta ad indicare l’esposizione al fuoco della fornace di un oggetto già formato. In particolare il procedimento viene usato quando un oggetto è decorato a freddo con smalti aventi un basso punto di fusione (inferiore a quello dell’oggetto da decorare) in modo che tali smalti aderiscano stabilmente sulle superfici vitree di base. Retórtoli Termine antico che indicava le canne di zanfirico (v.) o quelle di filigrana (v.). Rigadin Sottili costolature ottenute con la soffiatura in uno stampo aperto di un vetro, il quale può venire sottoposto, ancora caldo, ad una torsione (rigadìn ritorto). Rocca, rocchetta Era l’utensile cui si doveva ricorrere, invece che al pontello (v.) per sostenere un vetro da lavorare allo scanno da maestro, dopo averlo staccato dalla canna con cui era stato soffiato. Era un’asta di ferro, piuttosto lunga, foggiata ad una estremità in modo tale che si potesse “tenere” il vetro e liberarlo poi con facilità una volta terminata la modellazione. In vecchie carte la rocca è indicata come “Instrumentum quo in conflandis vasis urinariis utuntur”. Ròscano (Calì maggiore) Cenere vegetale che si otteneva da piante acquatiche ricche di sale che sostituiva, in antico, il carbo-


107 nato di sodio o di potassio oggi usato. Il róscano era anche detto “cali maggiore” o “salsoda soda”. Rosette Sta per millefiori (v.), ossia minuti frammenti di canna tonda, spesso policromi e con vari disegni (v. anche “perla”). “Rosette” e “Rosechiero” si trovano, come termine, in un inventario della fornace di Marietta Barovier figlia di Angelo (fine XV sec.). Rosso rubino Rosso rosato, particolarmente amato dai vetrai muranesi, realizzato usando come colorante una soluzione d’oro. La data ed il luogo d’invenzìone di tale preziosa qualità di vetro sono controversi ma a Murano si conosceva il segreto della sua fabbricazione nella seconda metà del XIV secolo, come sappiamo da un ricettario manoscritto tuttora conservato. In antico (1536 ca.) era anche chiamato “rosenghiero” (rosei clari coloris, cfr. Gianbattista della Porta, napoletano, nella sua “Magia naturale” del 1589). Rugiada, rugiadoso Speciale effetto decorativo, realizzato nel 1938 da Ercole Barovier e brevettato dalla vetreria Barovier & Toso. Consiste nel fissare a caldo, durante la lavorazione, minuti frammenti di vetro che conferiscono all’oggetto un effetto di brillantezze. Applicata per gli apparecchi d’illuminazione la rugiada consente una sorta di rifrazione della luce artificiale con ottimi effetti decorativi. Termine usato anche come aggettivo, “rugiadoso”. Rulli In veneziano “rùi”, dischi piatti, soffiati col sistema detto in origine “della corona”. Usati per le finestre nel periodo tardo medievale e nel Rinascimento, nel XIX secolo vennero fabbricati a Murano in filigrana policroma a scopo decorativo e in colori vivaci. Sono detti anche “ruodi” (1405) o “ruoi” (1417) e “vessighette”. Sapone dei vetrai Così chiamato, nell’uso popolare, il biossido di manganese, per le sue proprietà di decolorante. Sbrindolàr Operazione consistente nel roteare più o meno velocemente la canna con la relativa péa (v.). Per effetto della rotazione e della conseguente forza centrifuga, la péa, ancora molle, si allunga nella misura necessaria voluta dal vetraio. Sbruffo Si tratta di un “soffiata” di vetro molto sottile e di norma colorato che viene usato successivamente in sottili lamelle o scaglie per decorazione a caldo di oggetti vari. Scagnèr Così, in antico, veniva denominato il vetraio che produceva vetro d’arte, in contrapposizione con il “maistro da canna” (v.) che soprassedeva alla produzione delle perle o conterie. Scagno E’ la sedia del maestro vetraio. Semplice scanno munito di due prolunghe parallele in legno rivestito di un piatto in ferro su cui l’operatore mediante un rotolamento di va e vieni della canna esegue una sorta di movimento di “tornio orizzontale” che gli consente una lavorazione omogenea del pezzo da eseguire. Schietto Così viene indicato in vecchi inventari muranesi un manufatto in vetro trasparente o colorato ma non decorato, nè inciso. Scorsàor Lunga asta di ferro massiccio leggermente ricurva nella parte terminale e adatta per “scorsàr” cioè ripulire o nettare l’interno dei crogioli. Seraùro Così veniva in antico denominato il locale dove avvenivano la fusione del vetro o le seconde lavorazioni. Sérva Treppiede in ferro che sostiene un metallo orizzontale piatto su cui si appoggiano le parti posteriori delle canne (v.), spèi (v.) e puntelli (v.), mentre quelle anteriori sono in prossimità della bocca del forno. Servente Nella gerarchia della piazza (v.) del vetro artistico è il primo aiutante del maestro e suo diretto collaboratore. Esplica mansioni di elevato contenuto tecnico e artistico ed è in grado, talvolta, di sostituire il maestro stesso. Serventìn Nella gerarchia del vetro artistico muranese è il terzo componente della piazza, dopo il maestro e il servente. Sfrena, sfrenatura Sta ad indicare un difetto (per esempio, raggrinzimento) del vetro caldo quando viene in contatto con una superficie fredda (ad esempio il bronzino). Sìambola Finitura simile alla sièla (v.) ma di maggior misura. Può essere “cavàda”, cioè ricavata direttamente da una parte di vetro in lavorazione, o “butada” quando viene aggiunta all’oggetto. Sièla Sorta di sottile e piccola tonda porzione di vetro, usata come separazione tra un pezzo di vetro e l’altro, simile all’avolio (v.) Silièra de lume Termine quattro -cinquecentesco che stava ad indicare una cassa aperta, munita di manici laterali, e piena di fondente sodico. Detta anche “siviéra” o “soliéra” (= barella).

Sisso Sta ad indicare una grossa “goccia” massiccia in vetro fatto raffreddare e che consente di esaminare la qualità della fusione. Tracce di corde, vessighe ecc, indicano al fonditore la opportunità di intervenire nella fusione stessa. Smarià Un vetro si dice “smarià” e cioè imperfetto per essere stato in contatto con acqua fredda. Simile al concetto di “sfrenà” (v.) Soffiatura a bocca Costituisce la tecnica vetraria “classica” quando si vuole ottenere un oggetto cavo. La modellazione di un oggetto cavo viene effettuata dal “maestro” coadiuvato dai suoi aiutanti con l’uso della canna da soffio (v.) di “borselle” (v.) e “tagianti” (v.). La soffiatura costituisce una delle invenzioni più rivoluzionarie nella tecnica vetraria e la sua scoperta si fa risalire tra il I secolo a. C. e il 1 secolo d. C., forse in Siria. La soffiatura del vetro inventata nei centri vetrari del vicino Oriente mediterraneo ebbe larghissima applicazione nelle vetrarie romane, islamiche e veneziane. La soffiatura avviene oggi non solo manualmente come per il vetro d’arte ma anche con macchine automatiche. Soffiatura a stampo Tecnica manuale in uso tuttora a Murano e risalente sin dall’età romana. Consiste nella soffiatura di una “péa” (v.) in uno stampo che può essere costituito da due o tre parti incernierate. A Murano, di solito, in legno di ciliegio. Oggi si usa anche la ghisa e altri metalli. Lo stampo può essere anche composto da un unico pezzo troncoconico usualmente di bronzo e ottone. Il primo tipo di stampo conferisce all’oggetto una forma definitiva mentre il secondo tipo imprime un motivo decorativo sulla parte soffiata, che sarà successivamente modellata. Spèi In italiano: spiedi. Sottili canne massicce, di ca. 150 cm. di lunghezza e di diametro variante tra gli 8 e i 12 mm. Assieme ai pontelli (v.) di calibro più grosso e alle canne (v.) sono uno degli arnesi fondamentali del vetraio muranese. Spignaùro Termine muranese per indicare l’introduzione diretta di un colorante nella massa vitrea in fusione. Anche termine del primo Trecento che indica un ferro per calchéra (v.) Spiumar Letteralmente “togliere la spuma” ossia togliere mediante un attrezzo adatto la parte superficiale del vetro in fusione (v. “rebolàr”). E’ un’operazione simile a quello che le massaie fanno per togliere dalla superficie di un brodo di carne certe “impurità” che salgono appunto in superficie (v. “crozzola”). Spunciòn Semplice sbarra tonda di ferro, di 30 cm. circa e del diametro di 2 cm. circa. Utile per la modellazione iniziale di un vetro. Da cui il verbo “spuncionar” Stampéto a fragola Simile a quello a gemma (v.). Più che di una fragola, l’effetto finale è quello di un frutto di lampone. Serve anch’esso come decorativo. Stampéto a gemma Piccolo stampo a mezza sfera concava che viene usato come un sigillo su vetro fuso per ottenere piccole mezze sfere decorative, dette appunto “gemme”. Stampo Utensile concavo, in ferro o, in antico, in bronzo, nel quale si soffia la péa (v.) che dilatandosi viene modellata. Vari sono i tipi di stampo usati; ricordiamo quello a coste o rigature verticali, quello a ballottòn (v.) quello a “serci” o a cerchi orizzontali. Si dice stampo “a fermo” quando, per il tipo di costolature interne, non è possibile “girare” la péa nello stampo. Stazoniéri Categoria commerciale che si occupava a Murano, tra il 500 e il 700, della vendita dei prodotti vetrari. Stizadór Operaio, spesso di bassa estrazione, detto anche “furlàn” (friulano), addetto alla condotta del forno e talvolta adibito anche alla tempera. Se lo stizadòr operava di notte veniva chiamato anche “furlàn de note” (friulano di notte). Infatti i “foresti” (i non muranesi) non potendo esercitare per legge l’arte del vetro, si accontentavano di eseguire umili mansioni. Tra essi, per laboriosità, si distinguevano i friulani, da cui appunto la denominazione. Stùa Il termine “stùa” (in italiano “stufa”) sta ad indicare quel particolare locale dove, sino alla fine degli anni quaranta, veniva ammassata la legna di faggio, già tagliata in parti lunghe 120 cm. La legna così accatastata veniva poi essiccata in tale locale pronta per essere successivamente immessa nella “castra” (v.) dove ardeva e manteneva il forno da vetro a temperatura costante A Murano il termine “legna stuàda” stava ad indicare che il faggio era essiccato convenientemente ed era pronto per essere usato in fornace. La legna veniva importata dalla Dalmazia e ciò anche in epoche antiche. Il trasporto avveniva via mare con i tipici “trabaccoli” a vela. L’uso della legna è stato oggi sostituito dal gas


108 metano a partire dal secondo dopoguerra (1948). Supiéto Strumento di ferro a forma di cono nell’interno del quale è saldata una cannuccia, sempre di ferro. Serve per una soffiatura di fortuna quando l’oggetto non è più attaccato alla canna. Suppialume Indica una categoria di vetrai che mediante una lucerna ad olio su cui soffiavano dell’aria potevano foggiare a caldo grosse perle grazie alla maggiore temperatura ottenuta. L’arte dei “suppialume” esisteva sin dal XVI secolo con “Mariegola” e regolamenti particolari. Suppiòn Cioè una “soffiata”. Sta ad indicare una sorta di “palla” cava che viene predisposta durante la fusione per verificare la qualità della fusione stessa e per controllare se esistono corde, vessighe (v.) o altre imperfezioni tali da necessitare un adeguato intervento. Sventolar Operazione simile a quella di “sbrindolár” (v.) consistente nel far ruotare velocemente un vaso in modo tale che si “apra” la parte superiore. Tipico esempio è la procedura, molto di effetto, per ottenere un “piatto baccellato”. Tagiànti, taianti Termine tipico veneziano che significa: forbici per “tagliare” il vetro nelle fasi iniziali di lavorazione. Una variante è il “tagiante tondo” utilizzato per tagli particolari. Tagiòl Utensile del vetraio a forma di coltello a punta quadrata, usato per modellare il vetro durante la lavorazione. Témpera Termine muranese improprio per indicare la “ricottura” del vetro o il forno dove avviene tale operazione. Temporizzar Nell’accezione muranese si intende fare una “pausa” tra una levada (v.) e la successiva, o tra una “marmorizzada” (v.) e l’altra al fine da far indurire leggermente il primo strato di vetro. L’operazione di “temporizzar” dura, ovviamente, poche diecine di secondi. Tipetto Voce gergale ottocentesca che a Murano indica una coppa o un vaso con piede il cui gambo è composto da un delfino o un cigno stilizzati. Tociàr Nel gergo vetrario muranese significa “intingere” ossia fare in modo che una “péa” (v.) inizialmente di colore bianco o una porzione massiccia di vetro venga ricoperto da “macie” (v.) o da polveri vitree o con foglie d’oro cosicchè il vetro acquista colorazioni o effetti diversi. Traghettar Corrisponde nel lessico vetrario all’operazione di immettere vetro fuso in acqua allo scopo di “lavarlo”: e, come risulta da antichi testì “ ... questo si fa per cavarli una certa salsedine la quale molto impedisce il cristallo e lo fa oscuro Oggi il termìne indica anche il “passaggio” di una massa fusa di vetro da un crogiolo all’altro. Verixelli Termine medievale per indicare gemme in vetro ad imitazione di quelle vere. I fabbricanti si unirono bene presto alla confraternita dei paternostreri (v.). Vessìghe Termine che sta ad indicare la presenza di filamenti, imperfezioni come delle bolle ecc, all’interno di un oggetto finito. Vetro murrino Definizione impropria per descrivere una tipica lavorazione muranese risalente già alla vetraria classica Alessandrina. Consiste in una sorta di intarsio o di mosaico “a caldo”, cioè pezzetti di vetro, spesso modellati ad hoc, e fusi in modo che i vari tasselli, fondendosi, si saldino tra loro. Una tipica variante della murrina è il “millefiori” (v.) altrimenti detto “rosette” (v.). Tecnica decorativa di particolare difficoltà, praticata in epoca romana e recuperata a Murano all’inizio dell’ottavo decennio del XIX secolo presso la vetreria Salviati da Vincenzo Moretti. Il vetro-mosaico a millefiori si ottiene giustapponendo sezioni di canne vitree, recanti un motivo decorativo policromo all’interno, per tutta la loro lunghezza, e saldandole insieme al calore del forno. Sembra provenga dal termine latino “murrha” che stava ad indicare una pietra naturale misteriosa che emanava un soave profumo. Vetro a canne È una variante, tutta muranese, delle murrine (v.). Invece di minuscoli tasselli in vetro si usano in questo caso delle “canne” sia cilindriche e massicce che piatte. Accostate tra di loro, con combinazioni coloristiche diverse, e successivamente fuse e soffiate onde ottenere un vaso, un’anfora, una coppa, sono di particolare pregìo e per l’effetto finale e per l’insita difficoltà esecutiva. Vetro a ghiaccio Decorazione consistente in un’apparente crepatura della parete dei soffiati, ottenuta immergendoli nel corso della lavorazione, ancora caldi, in acqua. Vetro corroso Vetro irregolarmente opacizzato in superficie di

effetto suggestivo. Si ottiene spruzzando irregolarmente con un collante la superficie del vetro già ricotto e freddo, corrodendola poi con acido fluoridrico. Vetro craquelé Effetto speciale sul vetro consistente in una apparente “crepatura” della parete vitrea. E’ un procedimento similare al vetro “a ghiaccio” (v.) e molto usato nell’Ottocento in Francia. Vetro incamiciato Detto anche” sommerso”, è una tecnica decorativa che permette di ottenere in uno stesso oggetto più strati sovrapposti, talvolta di colore diverso con suggestivi effetti cromatici. Il “sommerso” ebbe grande fortuna negli anni Trenta. Si ottiene immergendo il vetro di colore diverso. Il “vetro incamiciato” ha di norma strati più sottili rispetto al “sommerso”. In Francia tale tecnica, detta “doublè” (v.) o vetro raddoppiato, consentiva, con l’intaglio che raggiungeva il colore sottostante, effetti di notevole valore estetico. Vetro martellato Trattamento sulla superficie del vetro già ricotto e raffreddato mediante piccoli “colpi” di molatura sull’intera superficie. Trattasi di una tecnica usata in particolare dalla vetreria Venini. Vetro setificato Vetro sulla cui superficie e in modo uniforme viene passato un leggero strato di acido fluoridico che conferisce così un effetto “traslucido” all’oggetto. Vetro veneziano I suoi componenti sono essenzialmente il biossido di silicio come vetrificante e componente cristallina (costituita da sabbia di cava e in antico da ciottoli quarzosi di fiume frantumati e polverizzati, i cd. “cógoli” (v.) e come fondente (un tempo fornito da cenere di piante litoranee come il cd “ròscano” (v.) e oggi mediante carbonato di sodio (ottenuto con il cd. processo Solvay) o carbonato di potassio. Viene usata anche la calce come “stabilizzante” oltre ad altre varie aggiunte di minerali vari con scopi “coloranti”, “decoloranti” “opacizzanti” e “affinanti” e altre sostanze ancora atte a conferire qualità particolari al vetro. Non è qui luogo per una più completa descrizione dei componenti ma ricordiamo che il vetro veneziano è un vetro “lungo”, cioè permane in condizioni di lavorabilità per un discreto intervallo temporale prima di essere riportato a contatto col fuoco della fornace per un nuovo “rammollimento”. Ciò permette complesse manipolazioni, aggiunte di altro vetro, “tagli a caldo”, tipiche caratteristiche della tradizione vetraria veneziana. Vianàrdi Vetri d’uso ordinario, già citati a Murano nel 1405, ma non meglio identificabili. Volta 1 procedura o sistema esecutivo ottimale per la realizzazione di un oggetto di vetro. 2 parte superiore interna del forno classico muranese. Zuccarini Termine muranese dei secoli XVI e XVII per indicare vasi usati per versare liquidi lenti. Zuchoni In antico inventario così venivano denominate certe canne di cristallo. Fonte: www.barovier.com/it/azienda/vocabolario/ Moretti C. (a cura di), Glossario del vetro veneziano dal Trecento al Novecento, Marsilio, Venezia 2002.


Ringraziamenti

Riccardo Berrone Elena Dellapiana Marco Zito Federico Bovara Alberto Conserotti Luca Coppola Monica Crescente Samantha Liszka Chiara Onida Andrea Santuri Stefano Simoncin Dario Stellon Marzia Scalon del Centro Studi del Vetro Le ragazze dell’archivio a.s.a.c. La Biennale Alessandra Guidone dei Musei Civici di Treviso Laura Pison Orsetta Rocchetto Luciano Gobbo di Studio Pointer Massimiliano Englaro Alessia Li Causi Alessandra Rapisarda Eleonora Sandre Daniele Ricciardi Marco Regazzo I fioi Giorgio Vendrame Luca Vendrame Matteo Vendrame Clara Zaros



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